Il ritorno dei giovani alla montagna è possibile? Le sfide
del Neoruralismo
Ist die Rückkehr der Jugendlichen auf den Berg möglich?
Die Herausforderungen des Neoruralismus
Is a Return of the Youth to the Mountains Possible?
Challenges of the Neoruralism
Annibale Salsa, Università di Genova, Presidente Club Alpino Italiano
Riassunto
La crisi della montagna alpina, la sua trasformazione da risorsa a problema, non è certamente
un fatto recente. La montagna, nell’arco di un secolo, è passata dalla condizione di contenitore
“troppo pieno” a quella di “troppo vuoto”. In molti distretti delle Alpi l’industria turistica si
è sostituita alle attività agro-pastorali senza ricercare forme di conciliazione fra tradizione e
modernizzazione. La logica dell’aut-aut ha penalizzato intere aree delle cosiddette “Alpi latine”
trasformando le valli in periferie metropolitane da un lato, o in plaghe dell’inselvatichimento
dall’altro lato. Viceversa, nelle Alpi tedesche, la presenza più diffusa di città intra-alpine, unita a
una maggiore identificazione del contadino di montagna con un sistema di valori positivi incentrati sulla ruralità e sul maggior riconoscimento sociale del Bauer, hanno favorito il mantenimento del tradizionale radicamento territoriale identificato attraverso la Heimat. La montagna
francese ha avviato una serie di “buone pratiche” di valorizzazione delle grandi filiere del legno
e dell’allevamento. Infatti, è in crescita il fenomeno dei neo-ruraux: nuclei familiari o singoli che
lasciano le professioni cittadine libere o impiegatizie (anche di livello gerarchico), per dedicarsi
alle attività agro-pastorali. Anche nelle valli delle Alpi italiane vi sono segnali di speranza dettati
dalla buona volontà dei singoli e dalla pervicacia di andare contro corrente o lanciare la sfida
che una qualità della vita accettabile è ancora possibile nelle alte terre.
Zusammenfassung
Die Krise der Gebirgsregionen und deren Umwandlung von einer Ressource zu einem Problem
ist sicherlich nicht jüngsten Datums. Im Laufe eines Jahrhunderts hat sich der Berg von einem
Zustand eines “zu vollen” Behältnisses in ein “zu leeres” verwandelt. In vielen Regionen der
Alpen hat die Tourismusindustrie die Land- und Weidewirtschaft ersetzt, ohne dass es zu einem
Ausgleich zwischen Tradition und Modernisierung gekommen wäre. Die Logik des EntwederOder hat gesamte Landstriche der so genannten “lateinischen Alpen” bestraft, indem sie die
Täler einerseits in Periferien der Großstädte, andererseits in Verwaldungszonen verwandelt.
Im Gegensatz dazu hat in den deutschsprachigen Alpen das verstreute Auftreten intra-alpiner
Städte zusammen mit einer stärkeren Identifikation des Bergbauern mit positiven Werten des
alpine space - man & environment, vol. 12: Le Alpi che cambiano tra rischi e opportunità
© 2011 iup • innsbruck university press, ISBN 978-3-902811-09-7
Le Alpi che cambiano tra rischi e opportunità
Landlebens und einer höheren sozialen Anerkennung als Bauer dazu geführt, dass sich die
traditionelle Verwurzelung mit der Landschaft, die sich im Begriff Heimat äußert, erhalten
hat. Die französischen Alpen haben eine Reihe von “best practices” in Gang gesetzt, um die
großen holzverarbeitenden und Zuchtbetriebe zu stärken. Tatsächlich wächst das Phänomen
des neo-ruraux: Familiengemeinschaften oder einzelne, die die städtischen Freiberufe oder
Angestelltenverhältnisse (auch auf höherem Niveau) verlassen, um Land- und Weidewirtschaft
zu betreiben. Auch in den italienischen Tälern gibt es Hoffnungs­zeichen, die vom guten Willen
sowie vom Durchhaltevermögen einzelner abhängen, gegen die Strömung zu schwimmen oder
um den Beweis anzutreten, dass ein annehmbares Leben auch in Hochlagen möglich ist.
Abstract
The crisis of alpine regions, and their transformation from resource into problem, is not a
recent fact. During a century, alpine regions have lost a great percentage of population and, in
many districts, the agro-pastoral activities have been substituted by tourism industry, without
the necessary forms of conciliation between tradition and modernization. The aut-aut logic has
penalized wide areas of the so called “Latin Alps”, transforming valleys in metropolitan suburbs
or in desolated lands. Vice versa, in German Alps the presence of intra-alpine towns together
with a higher identification of the mountain farmer with positive values have favoured the
maintenance of the traditional territorial rootedness identified through Heimat. In this context,
French alpine regions have started a number of good practice of valorization of wood, pasture
and breeding activities. Indeed, it is growing the Neoruralism phenomenon: families or singles
who decide to leave urban professions and to devote their-selves to agro-pastoral activities.
Even in some Italian valleys there are signs of hope given from the commitment of singles
who decide to demonstrate that a good life quality is still possible on highlands.
Uno dei maggiori temi di riflessione sulle problematicità della montagna moderna riguarda
lo spopolamento, inteso sia come rarefazione demografica (esodo), sia come rarefazione
sociale nelle comunità rimaste (disgregamento delle reti relazionali). Le ragioni che vengono
addotte a giustificazione del fenomeno rimandano a un’idea di montagna percepita e rappresentata alla stregua di territorio marginale. La marginalità della montagna diventa, allora,
un postulato indiscusso, un a-priori ovvio, da cui discende par conséquence il nuovo dogma
della modernità urbano-centrica e dal quale non ci si potrà più separare se non attraverso
un radicale ripensamento. Si tratta, paradossalmente, di una delle poche certezze che sia
dato rinvenire in questa nostra società segnata dalla cultura dell’incertezza. Tale postulato,
trasformatosi in un inossidabile stereotipo amplificatore di pregiudizi, viene ricondotto al
carattere precario e fragile delle terre alte. Esso trova la propria giustificazione sulla base delle
evidenze “oggettive” della geografia fisico-morfologica, da cui deriva - quasi per una sorta di
inferenza pseudo-logica - la rappresentazione di una geografia “soggettiva” dell’esclusione
che le comunità hanno maturato di se stesse negli ultimi tempi. Questa rappresentazione
auto-referenziale indotta dall’esterno produce cultura della resa e, di riflesso, complesse
dinamiche psicologiche di impotente rassegnazione di fronte all’ineluttabile. La genesi del
pregiudizio trova una spiegazione nelle trasformazioni sociali e culturali che i processi di
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Il ritorno dei giovani alla montagna è possibile?
modernizzazione hanno generato. La perdita di funzione dei centri di potere all’interno dello
spazio montano, il venir meno del ruolo tradizionale delle città alpine nella veste di decisori
politici, la polarizzazione degli interessi e delle scelte amministrative nelle città metropolitane
di pianura, lo sviluppo economico innescato dalla rivoluzione industriale di tipo “fordista”
(grandi fabbriche manifatturiere, industrializzazione intensiva delle attività agricole e di
allevamento nelle pianure ecc.), hanno riposizionato in negativo la montagna facendone un
distretto dell’intrattenimento e dello svago vacanziero. A esso fa da contrappunto l’immagine
di un luogo vacuo, triste, nella dimensione reale della quotidianità ordinaria.
Come reagire a questo stato di cose? Le alternative si possono ricondurre a due opzioni
fondamentali. Da una parte, la decisione di applicare alla natura l’ideologia del laissez faire,
sulla falsariga teorica di filosofie ecologiste di tipo fondamentalista, le quali vedono nella
wilderness “di ritorno” l’unica via d’uscita per la risoluzione dei problemi della montagna. Si
tratta di visioni pan-naturalistiche che, al di là di discutibili nostalgie tardo-romantiche, non
risolvono i problemi delle montagne. Al contrario, li complicano nel creare le premesse per
l’uniformizzazione monotona del paesaggio, nell’accelerare la perdita degli spazi “colturali /culturali”, nel favorire la riduzione della biodiversità prodotta nei secoli dal lavoro
dell’uomo in veste di “animale culturale”, artefice e costruttore del paesaggio. La crisi della
montagna alpina, la sua trasformazione da risorsa a problema, non è certamente un fatto
recente. La crescita demografica sproporzionata rispetto alla disponibilità delle risorse ha
prodotto, nel secolo XIX, la rottura di delicati equilibri omeostatici. Alla luce dell’analisi
eco-sistemica dello spazio alpino, la pressione demografica eccessiva è stata il catalizzatore
della miseria che ha trasformato le tradizionali migrazioni stagionali, valvole di sfogo del
tutto fisiologiche per le comunità, in abbandoni definitivi. La montagna, nell’arco di un
secolo, è passata dalla condizione di contenitore “troppo pieno” a quella di “troppo vuoto”.
Fra l’epoca in cui i versanti solatii delle valli sono stati rasi da eccessivi disboscamenti per
supersfruttamento agro-pastorale, fino all’invasione attuale di prati e pascoli inghiottiti da
una vegetazione fuori controllo (situazioni entrambe pericolose per la stabilità dei versanti),
c’è in mezzo tutto il periodo dell’invenzione turistica delle Alpi. In molti distretti delle Alpi
l’industria turistica si è sostituita alle attività agro-pastorali senza ricercare forme di conciliazione fra tradizione e modernizzazione. La logica dell’aut-aut ha penalizzato intere aree
delle cosiddette “Alpi latine” trasformando le valli in periferie metropolitane da un lato, o in
plaghe dell’inselvatichimento dall’altro lato. Dal punto di vista antropologico, si è trattato di
una forma di colonizzazione mentale della città e dei suoi codici culturali nei confronti del
suo arrière pays. Non soltanto, quindi, un tessuto paesistico che si è imposto come modello di
emulazione, ma anche una “visione del mondo” (Weltanschauung) intrisa di rituali urbani che
enfatizzano il “nuovismo” e generano scollamento nei confronti della tradizione. Quando
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Cfr. Arnoldi C., Tristi montagne. Guida ai malesseri alpini, Priuli&Verlucca, Scarmagno, 2009.
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La distinzione fra “versante solatio” e “versante in ombra” è stata sempre di grande importanza nell’arco alpino per
decidere la destinazione degli spazi d’uso del terreno. Gli insediamenti umani ed i coltivi vanno alla ricerca della massima
insolazione, i boschi e gli spazi selvatici dominano le aree in ombra. La toponomastica, d’altronde, facilita la lettura di tali
ripartizioni. Per riportare alcuni esempi significativi troviamo, nelle Alpi di espressione occitana, i termini adrech e ubac
per designare i rispettivi versanti al sole e in ombra, nelle Alpi di espressione franco-provenzale il dualismo è fra adret e
envers, nelle Alpi di espressione tedesca la contrapposizione è fra sonnenseit e schattenseit e così via.
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Le Alpi che cambiano tra rischi e opportunità
i processi dinamici della storia non avvengono in maniera graduale, il modello dominante
forte assimila quello più debole, soprattutto sul piano del prestigio sociale. In assenza di una
dialettica fatta di prestiti e di restituzioni, di lenti processi di ibridazione e di meticciamento,
di bilanciamenti fra interno ed esterno, i processi generati dall’accelerazione della storia e
propri della modernità, portano ineluttabilmente a forme di polarizzazioni estreme. Da una
parte un globalismo invasivo e spersonalizzante, inarrestabile, dall’altra risposte localistiche
che sono la spia del malessere sociale, dello spaesamento generato dalla perdita di certezze
rassicuranti. La subalternità culturale di chi non è più in grado di elaborare autonomamente
modelli vincenti si manifesta nelle risposte kitsch della “folclorizzazione”, la messa in scena
del proprio sé sociale al cospetto della clientela turistica. Il folclorismo, infatti, quando non
è espressione del vissuto quotidiano delle comunità, assolve a due funzioni antitetiche:
•
compiacere le aspettative degli ospiti proponendo loro immagini di purezza;
•
manifestare atteggiamenti di contestazione e autodifesa nei confronti di realtà minacciose.
Le Alpi, proprio a partire dalla loro “valorizzazione turistica”, sono state il campo di sperimentazione di questa sindrome anticipatoria della post-modernità. La convivenza forzata
del moderno con il tradizionale, di Heidi e le caprette di razza Saanen con le discoteche
e i pub, di casette in rigoroso stile chalet vallesano con condomini da banlieu parigina o da
elaborazioni hollywoodiane, sono le rappresentazioni con cui la montagna cerca ossessivamente di riproporsi in qualità di oggetto di svago, soluzione magica per superare lo
spopolamento. Nelle “Alpi latine” tale processo di discesa a valle verso le città di pianura o
di costa, in assenza di conurbazioni intra-alpine, è iniziato molto tempo prima, anche per
l’inclinazione psico-culturale delle sue genti a privilegiare stili di vita di tipo aggregativo.
La contrapposizione fra città e campagna/montagna, percepita in chiave svalutativa per
quest’ultima, ha aperto il varco verso la penetrazione della prima nei contesti montani. Ha
favorito l’assimilazione delle terre alte alle realtà sociali poste più in basso disseminando
paesaggi metropolitani in un continuum rurale-urbano conforme alle immagini mentali dei
frequentatori. Da qui derivano le tante tipologie di scimmiottamento dei nuovi modelli da
parte degli abitanti delle montagne, i quali mettono in atto sofisticate strategie di mimetismo
urbano con relative dissimulazioni. Viceversa, nelle Alpi tedesche, la presenza più diffusa
di città intra-alpine, unita a una maggiore identificazione del contadino di montagna con
un sistema di valori positivi incentrati sulla ruralità e sul maggior riconoscimento sociale
del Bauer, hanno favorito il mantenimento del tradizionale radicamento territoriale identificato attraverso la Heimat. La tentazione all’abbandono e la demonizzazione della condizione rurale proprie del mondo latino sono invece estranee alla ruralità tedesca. Il bisogno
di un contatto maggiore con la natura appartengono a consolidati patterns culturali dalla
forte connotazione simbolica, come si evince dalle descrizioni bi-millenarie de La Germania
di Tacito. L’esigenza di governare i processi di modernizzazione senza trascurare i saperi
tradizionali è stata una costante volta a separare la tecnologia, perseguita come strumento di
progresso, dall’ideologia della tecnica che porta al rifiuto della tradizione.
Tali considerazioni spiegano, a posteriori, le ragioni di una maggiore tenuta del popolamento montano in queste aree e, al tempo stesso, il collasso demografico registrato nelle
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Il ritorno dei giovani alla montagna è possibile?
altre aree delle Alpi. Al di là delle trasformazioni socio-economiche dell’Europa, sono
proprio i differenti codici culturali che sono all’origine delle politiche rivolte al mantenimento della popolazione residente nelle alte terre. Il ruolo del contadino di montagna e
del pastore transumante cambia, infatti, con il mutare delle società alpine di riferimento.
In Italia, tali ruoli sono stati sempre sub-alterni nei confronti delle professioni legate alla
città, alle burocrazie del potere, alle nuove stratificazioni sociali prodotte dalla rivoluzione
industriale e dall’avvento del terziario. Per cui, molte di queste attività hanno - in Italia
- un carattere marcatamente residuale. Sono svuotate di prestigio sociale e rafforzano lo
stereotipo, prevalentemente italiano, della marginalità della montagna. Molte delle concause
che sono alla radice del fenomeno biblico dell’abbandono e della debole ripresa della vita
sociale in montagna vanno ricondotte a tali fenomeni. La dipendenza delle terre alte dalla
pianura in momenti storici come quello della rivoluzione industriale è in contrasto con una
montagna che ha elargito molto alla nascente industria, dalla forza motrice dell’acqua e delle
materie prime minerali, alla forza lavoro dei suoi abitanti. Non bisogna dimenticare che,
sul versante sud delle Alpi, le nuove “Manchester italiane” erano le cittadine ubicate nella
fascia pedemontana del nord-ovest, da Biella a Intra, da Perosa Argentina ad Ivrea, collegate ai poli dei retroterra portuali di Savona (Val Bormida) verso il Piemonte, o di Genova
(Valle Scrivia) verso la Lombardia. Ricordo ancora quando, negli anni Sessanta del secolo
scorso, fabbriche come la “Michelin” di Cuneo assumevano valligiani delle Valli alpine di
quella Provincia per il grado di affidabilità, serietà, laboriosità che le maestranze provenienti
dalle montagne garantivano. Il modello fordista dell’economia della grande industria non
lasciava scampo a piccole imprese. La montagna non aveva più ruoli autonomi da giocare
se non quello descritto dallo storico francese Fernand Braudel di una “fabbrica di uomini
al servizio di altri uomini”. Nella “Provincia Granda” cuneese l’esodo è stato biblico e le
famiglie lasciavano le case e le grange (baite) come fossero ancora abitate, senza portare
nulla con sé. La natura, con i suoi processi di inselvatichimento, si sarebbe ripresa gli spazi
abbandonati e le mura delle case si sarebbero sbriciolate sotto la pressione dei rovi. Dallo
scrittore cittadino Nuto Revelli al poeta occitano valligiano Peyre Rayna, il messaggio dei
“vinti della montagna” è rimbalzato di valle in valle come un messaggio di rassegnazione.
Fare il montanaro rimandava, nell’immaginario nazional-popolare di quegli anni, all’idea del
perdente e dello sconfitto dalla Storia. Non rimaneva che scappare o tornare per le ferie
estive a godere quel poco di benessere che la montagna espropriata poteva ancora regalare.
La montagna come “terreno di gioco” lanciata dall’aristocratico inglese ottocentesco, socio
dell’Alpine Club di Londra, Lesley Stephen aveva così prevalso. Non restava che introdurre
nel territorio alpino una logica manichea e schizoide, polarizzata sul dualismo irriducibile fra
spazi dove tutto è permesso (speculazione edilizia) e spazi dove tutto è vietato (Parchi nazionali). In Francia, il modello delle stazioni di seconda e terza generazione promosso dalla
pianificazione statale delle vacanze e dello sport, ha prodotto i grandi “falansteri” disseminati nei vari comprensori delle “Alpes du Sud” (Regione Provence-Alpes-Cote d’Azur) e
delle “Alpes du Nord” (Regione Rhone-Alpes). In realtà, tuttavia. l’abbandono non è stato
mai totale. La vocazione rurale della Francia ha certamente privilegiato i plateaux e le colline
dell’”Esagono”, ma ha sostenuto l’allevamento, sia di tipo ovino (Alpes du Sud) che di tipo
bovino (Alpes du Nord). Vi è stata anche la presa di coscienza delle potenzialità alternative
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Le Alpi che cambiano tra rischi e opportunità
dell’economia agro-pastorale estensiva, complementare al turismo ecocompatibile, da parte
di un movimento di sindaci del comprensorio “Guillestrois/Queyras”, capeggiato dai primi
cittadini di Ceillac (Queyras) e di Cervières (Briançonnais).
Pur rimanendo significativa la differenza di rappresentazione simbolica della ruralità nelle
Alpi latine e nelle Alpi germaniche, la montagna francese ha avviato una serie di “buone
pratiche” di valorizzazione delle grandi filiere del legno e dell’allevamento. La valorizzazione
della produzione casearia ovina e caprina ha rilanciato oltralpe la cultura della pastorizia
transumante. Grandi greggi di montoni (troupaux des moutons) svernano nelle piane alluvionali
del delta del Rodano (St-Martin de Crau) o nelle garighe delle colline provenzali (Montagne
de St.-Victoire). In primavera risalgono verso le Alpilles di St.-Rémy, lungo gli assi fluviali
della Durence e dell’Ubaye per disperdersi nei grandi pascoli delle Alpes de Haute Provence
(04) o delle Hautes Alpes (05). Protagonisti del fenomeno sono soprattutto giovani francesi
che, anche attraverso corsi di formazione parauniversitaria (Ecoles des Bergiers), acquisiscono
competenze professionali di livello scientifico ma, soprattutto, superano il pregiudizio culturale della marginalità sociale che ancora attanaglia la mentalità italica. Penso che ciò che fa
la differenza fra i nostri due modelli sia, soprattutto, l’aspetto simbolico-culturale. In Italia
la pastorizia transumante ovina costituisce un’impresa eroica, di pochi coraggiosi pionieri,
spesso demandata a lavoratori immigrati del Maghreb o dei Balcani in ambito ovino, dell’India
in ambito bovino. Oltralpe esiste, ed è in crescita, il parallelo fenomeno dei neo-ruraux, nuclei
familiari o singoli che lasciano le professioni cittadine libere o impiegatizie (anche di livello
gerarchico), per dedicarsi alle attività agro-pastorali. Anche in questo caso occorre tenere
conto sia della disaffezione crescente nei confronti delle attività lavorative segnate dallo
stress metropolitano che dell’auto-percezione e dell’etero-percezione verso attività che, in
Francia, l’opinione pubblica manifesta per le attività rurali e pastorali. In Italia lo scenario
è ben diverso. La debolezza del settore primario (agricoltura e allevamento) rende queste
attività sub-alterne rispettivamente al settore secondario della superata economia fordista
e del settore terziario di oggi. Il fatto che, ad esclusione dell’agricoltura intensiva a tipologia industriale, le attività pastorali siano legate strettamente ai saperi tradizionali tramandati dalle generazioni precedenti ormai in veloce estinzione, rende il tutto estremamente
precario. L’informazione tecnico-professionale e la formazione culturale sono pressoché
assenti. Esiste, anche da noi, una nouvelle vague che proviene dai Paesi d’Oltralpe, ma spesso
trova ostacoli in una burocrazia paralizzante e lontana dalla comprensione dei valori culturali coinvolti. Vi è anche il rischio che si tratti di seduzioni romantiche dettate dal bisogno di
fuga dalle città e dal lavoro seriale. In questi casi tutto si risolve in un coup de foudre. In Italia
mancano le condizioni strutturali per un ritorno sistematico alla montagna, la quale viene
percepita ancora come spazio marginale o spazio vacanziero. Non la si vuole pensare come
sede di vita stabile e dignitosa, luogo della “cittadinanza” con diritto a servizi eguali a tutti
gli altri cittadini dello Stato. Anche nelle valli delle Alpi italiane vi sono segnali di speranza
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Cfr.: Salsa A., Il tramonto delle identità tradizionali. Spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi, Priuli&Verlucca, Scarmagno,
2007 - 2008(2^ ristampa).
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Cfr. Verona M., Dove vai pastore?, Priuli&Verlucca, Scarmagno, 2006; Id.,
����� Vita d’alpeggio, Blu Edizioni, Torino, 2006.; Id,
Intelligente come un asino, intraprendente come una pecora, L’Artistica editrice, Savigliano, 2009.
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Il ritorno dei giovani alla montagna è possibile?
dettati dalla buona volontà dei singoli e dalla pervicacia di andare contro corrente o lanciare
la sfida che una qualità della vita accettabile è ancora possibile nelle alte terre. Tentativi in tal
senso li troviamo a macchia di leopardo in alcuni territori alpini, dal Cuneese alla val Camonica. Tali testimonianze di “buone pratiche” sono state raccolte da Associazioni che hanno
a cuore la rinascita della montagna. Dall’Associazione occitana cuneese “Chambra d’Oc”,
alla bergamasca “Gente di Montagna” al progetto trentino di Alpinet Gheep vengono
proposti casi di re-insediamento nelle Valli alpine che rispondono ai nuovi bisogni di radicamento territoriale in montagna, di ri-appaesamento non localistico o strapaesano, di ricolonizzazione morbida e rispettosa delle Alpi. La sfida è iniziata. Ora compete ai decisori
politici dare risposte non evasive o oleografiche a tali domande attraverso meccanismi di
incentivazione amministrativa e fiscale. Non vi è niente di nuovo da inventare: basta rivisitare ed interrogare la Storia delle Alpi in un’ottica di buona volontà o, meglio, di scienza e
coscienza.
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AA.VV., (a cura di Maurizio Dematteis), Avem fach un sumi, Edizioni ch’ambra d’Oc - Fusta Editore, Roccabruna, 2008.
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AA.VV., (a cura di Davide Torri), Restare e tornare. Nuova vita per le montagne, Associazione Gente di Montagna, Bergamo,
2009.
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AA.VV., Pastori nelle Alpi. Storie e testimonianze, Firenze, Giunti Progetti Educativi / Trento, Provincia Autonoma, 2007.
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