CHI SIAMO L’Associazione Culturale Zenit nasce come comunità militante già nel 2003 costituendosi poi ufficialmente nel dicembre del 2005. Le nostre posizioni non possono essere etichettate nelle classiche categorie di destra o sinistra. Abbiamo radici culturali che si rifanno al fascismo ma non per questo possiamo accettare di essere storicizzati o emarginati dalla storia. Noi vogliamo confrontarci con il presente, analizzare i fatti e trarne da esse le indicazioni valide e necessarie per costruire il futuro. Il nostro motto è sempre stato Filtra la Verità e il nostro simbolo è una maschera antigas perchè crediamo che attraverso queste categorie create ad arte e attraverso il caos creato dalla modernità il sistema allontani l’uomo dal vero e dal reale. Quindi il motto Filtra la Verità vuole esprimere in modo diretto e provocatorio il nostro approccio critico verso i mass media ma il nostro pensiero politico non si ferma qui, ovviamente noi di Zenit non siamo solo una Associazione Culturale che si occupa di controinformazione ma siamo soprattutto una comunità militante e cioè un nucleo di persone che persegue la formazione umana dei propri membri attraverso appunto l’impegno comunitario e militante che mostrando uno spiccato interesse verso i temi dell’approfondimento culturale e dell’informazione determina il proprio agire politico. I nostri punti cardini sono i seguenti: -noi crediamo che l’unità, l’indipendenza e l’integrità territoriale della Patria debbano risultare l’obiettivo essenziale della politica estera del nostro paese; -crediamo nella Tradizione, nella concreata realizzazione di una comunità europea e rifiutiamo la subordinazione di quest’ultima alle subculture disumanizzanti quali mondialismo, plutocrazia e nichilismo; -crediamo nella solidarietà, ogni qual volta si pre- senti il bisogno di un tangibile aiuto alla comunità e verso tutti quei popoli che vedono stringersi intorno a sè la morsa livellante dell’imperialismo e che lottano per la propria sovranità. La nostra caratteristica principale è sicuramente quella di non voler essere il solito gruppo politico che abbia obiettivi di egemonia o che abbia come scopo la sola mera aggregazione fine a se stessa. Noi vogliamo formare ragazzi e renderli liberi dalle logiche della democrazia occidentalista, noi vogliamo che i ragazzi possano aspirare a trasformare la propria rabbia, la propria suggestione nei confronti di simboli e tradizioni in sentimenti costruttivi, perchè a noi piace la sostanza e della superficialità non sappiamo che farne. Noi vogliamo che i ragazzi e gli uomini che si avvicinano abbiano voglia di sapere, approfondire perchè solo respirando liberamente si può diventare soldati addestrati, perchè per noi non esiste l’agire senza il pensiero. Il nostro operato di militanti politici è quindi riscoprire la gioia di donarsi e di metterci a disposizione di tutti coloro che sono stufi di accettare la realtà che ci viene preconfezionata dal sistema attraverso la manipolazione delle informazioni e della cultura. Per questo motivo quindi il nostro motto è FILTRA LA VERITA’ e invitiamo anche voi ad indossare come noi le maschere antigas per resistere ai gas omologanti di questa coatica società moderna che sta allontanando sempre più l’uomo dal vero e dal reale. IL MARTELLO Dopo una breve pausa di riflessione abbiamo deciso di riprendere a martellare perchè Zenit senza il suo Martello non poteva continuare la sua opera di controinformazione, perchè Zenit senza il suo Martello era orfano di una parte importante del suo operato che in passato lo aveva caratterizzato per la serietà e dedizione con cui chi prima di noi lo aveva ideato e curato rendendoci orgogliosi del nostro disinteressato approccio alla militanza politica. Il Martello allora ritorna per fare da megafono alle nostre ambizioni e al nostro sano modo di fare politica e allora ecco che ritorna forte in noi quel monito che abbiamo fatto nostro attraverso la locuzione latina Gutta cavat lapidem. Questa frase latina resta sempre la più adatta per descrivere il nostro pensiero e agire politico, la paternità è da ricercare nel poeta Ovidio, sebbene ripresa e riadattata anche in prosa da diversi autori fino in età medievale, è la formula dialettica che abbiamo designato ad emblema del nostro organo di diffusione. Tre parole che, nella loro inflessibile semplicità, possiedono una forza intrinseca che può essere sprigionata solo attraverso la perseveranza della lotta, così rendendo fede alla cultura delle idee che diventano azione. Lapidem, la pietra, dall’aspetto fermo, incrollabile, apparentemente insormontabile da ogni agente esterno, sempre avrà ragione di chi, soggetto al richiamo dell’istintività, tenterà di scalfirne la massiccia fermezza con un gesto estemporaneo, violento e chiassoso. Gutta, la goccia, trova la sua forza nella volontà di dominare ogni vezzo ad abbandonarsi in un disordinato ed inconcludente getto. Al contrario, a renderla efficace è la sua capacità di riconoscere la ponderatezza e la costanza quali virtù. Il gesto ritmico, scandito dal suono basso e ripetitivo che ne sancisce la monotona caduta, è il simbolo della sua vittoria su di un nemico che non può vincere in altro modo, se non col suo continuo stillicidio. E’ dunque solo attraverso questa azione costante e perfettamente coerente che la goccia potrà perforare la pietra (gutta cavat lapidem, appunto). Il tempo sarà garante della bontà della sua meticolosa azione, inosservata dallo sguardo distratto dei suoi contemporanei, eppure fieramente implacabile nel perseguire il proprio obiettivo. Nella sensibilità dei nostri avi, la dimostrazione che la natura custodisce ancestrali riferimenti dai quali poter trarre ispirazione. Le coscienze, oggi sopite dall’intossicazione e dall’alienazione dei media di massa e della società dei consumi, potranno essere scavate per mezzo del lavoro durevole dell’informazione libera e dall’esempio del sacrificio e della militanza. Contro sinistre e poteri forti, Alba Dorata nel nome di Yorgos e Manolis di Johannes Balzano Volti coperti, mitra in mano, moto pronta a partire… spari, tre ragazzi a terra…due senza vita. Sembrerebbe una resa di conti tra bande rivali, avvenuta poche settimane fa nel quartiere ateniese Neo Eraklio, in cui Yorgos Fundulis e Manolis Kapellonis hanno perso la vita. Ma non è così. I due ragazzi giovanissimi, 20 e 23 anni, erano due militanti di Alba Dorata, partito nazionalista greco, che dopo essere entrato alle ultime elezioni in parlamento sta riscuotendo una miriade di consensi, soprattutto tra le fasce di popolazione che vivono l’immenso disagio della povertà, in cui la Grecia ormai versa da anni. Gli esecutori, facile immaginare, si trovano dalla parte opposta della barricata, identificati nell’estrema sinistra greca, dalle simpatie mondialiste ed antinazionali, pronti a dare il loro contributo al gioco dell’affossamento greco. I più grandi ricordano bene, i più piccoli si saranno informati, le immagini della Grecia ci riportano indietro di 25 anni, nell’Italia degli anni 70′, l’Italia che come cantava il nostro caro Michele di Fio’ aveva figli senza lacrime ed era pagata per uccidere. Il paragone con la Grecia è impossibile non farlo, anzi è un obbligo, per far si che la storia resti un avvertimento, o una memoria, visto che a molti piace abusare di questo termine. E come è giusto fare un paragone è importante anche delineare ciò che succede in Grecia e ciò che potrà succedere. Dopo che nelle ultime elezioni sono emerse fortemente le posizioni antieuropeiste della Sinsitra Radicale e di Alba Dorata, il crollo del PASOK ha portato alla maggioranza relativa il Partito Nuova Democrazia di Samaras, governo dai toni forti, ma che segue da classico partito neoliberale le direttive di Bruxelles. I mesi dopo le elezioni sono stati catastrofici: sono stati ceduti i gasdotti, gli impianti di energia, chiusa la televisione pubblica, varato un piano di privatizzazione universitaria, minata la libertà di manifestazione e di stampa. Facile quindi capire, che il processo di svendita della sovranità nazionale, dei diversi paesi europei, abbia trovato in Grecia il suo progetto pilota, con valida complicità non solo dei filo-governativi, ma anche di coloro che si osannano a difensori della libertà e delle minoranze. La sinistra radicale, come la sinistra democratica, nel loro aberrante vortice di proposte e rivendicazioni, allo stesso modo in altri paesi, Francia, Germania e Italia su tutti, spostano sempre più il focus su tematiche che rendono più facile la svendita greca ai privati stranieri. La loro stagnante crisi intellettuale e culturale, la loro tendenza ad unificare e ad omologare tutto e la follia di voler riadattare il marxismo ai tempi correnti, rendono la così tanto acclamata sinistra delle libertà, cavallo di Troia per i poteri del capitale straniero. La forza che sinistra e potere hanno nel mondo, grazie alla comunicazione che rende servigi immensi a questi, in Grecia trova la sola opposizione in Alba Dorata, partito come detto nazionalista, unico a difendere la Nazione dalle grinfie del denaro straniero, dall’usura bancaria della troika e dalla rapacità di uno stato che funge da ente di riscossione crediti. Al fianco della popolazione i militanti di Alba Dorata rivendicano il giusto potere che lo Stato deve esercitare sui confini nazionali, la libertà di adottare misure economiche consone all’economia e alle esigenze greche, la voglia di voler abbattere un sistema fondato essenzialmente sulla truffa, dove gli Stati vengono depredati. Certo che una posizione del genere non può non scontrarsi con la furia democratica di banche, finanza e multinazionali, pronte a mettere in moto una reazione a a catena di destabilizzazione sia di Alba Dorata che della Grecia. Prima i folli arresti, voluti espressamente dall’Unione Europea, di tutta la dirigenza del partito per un omicidio ancora oscuro, poi l’assassinio dei due giovani ragazzi di Alba Dorata. La strategia del panico, per far virare i voti al centro e a sinistra, e per eliminare le istanze nazionaliste, ha preso forma in pochissime settimane. La sinistra radicale presta naturalmente il suo volto a tale assurdità, come fece proprio in Italia 25 anni fa, eseguendo ogni ordine impartito dall’alto, e spezzando la vita Yorgos e Manolis, impegnati oltre alla politica nel sociale, perchè Alba Dorata vive i quartieri e non li usa per formare l’odio politico seminato a Sinistra. La speranza e l’augurio è che Alba Dorata segua nel bene o nel male la sua strada, piena di ostacoli a non finire, nel nome di Yorgos e Manolis, per dare alla Grecia una speranza che dal buio dell’usura si può uscire sventolando la propria bandiera nazionale. Le controverse elezioni municipali in Kosovo del 3-17 novembre 2013 di Davide Ciotola Come in una vera opera teatrale di cui si conosce già la trama le elezioni municipali in Kosovo, annunciate come cartina tornasole degli accordi sulla normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina firmati lo scorso aprile 2013, sotto il patrocinio dell’UE (e degli USA), attraverso controverse difficoltà hanno dunque avuto il loro epilogo da manuale, come fosse stato già scritto da tempo. Quando il 3 novembre nel Centro e nel Sud del Kosovo le percentuali di votanti si erano chiuse tra il 40 e il 50%, ma nel Nord avevano votato meno del 10% dei serbi aventi diritto, la versione ufficiale ha raccontato che gli incidenti di Mitrovica Nord (prima nel corso dell’intera giornata presunti attivisti di gruppi nazionalisti avevano filmato gli elettori mentre andavano ai seggi minacciandoli, poi “gente” mascherata aveva attaccato il seggio aperto nella scuola elementare “Sveti Sava”) avevano convinto l’OSCE a ritirare i propri osservatori, interrompendo in anticipo le elezioni nell’area. Belgrado ha sostenuto che gli attacchi erano stati organizzati da membri di “gruppi radicali”, fieri sostenitori del boicottaggio nei confronti della tornata elettorale, e dal Partito democratico di Serbia (DSS) dell’ex premier Vojislav Koštunica, mentre quest’ultimo ha ipotizzato che i governativi stessi avrebbero pianificato di provocare caos ai seggi, pro- prio quando era ormai attestato che non si sarebbe raggiunto il 10% dei votanti. I nuovi, conseguentemente obbligati, incontri a Bruxelles tra Ivica Dacic, Hashim Thaci e Catherine Ashton hanno cosi decretato la ripetizione delle votazioni nelle sezioni coinvolte nei fatti del 3 novembre, fissandole al 17 novembre. Viste le denunce di Belgrado, che ha addossato la maggior parte della responsabilità degli incidenti alla parte kosovara, perché la polizia del Kosovo non sarebbe intervenuta contro gli “estremisti serbi”, ma considerando che la radicalizzazione al Nord del Kosovo è un problema che Bruxelles (e Washington, naturalmente) mettono sul conto di Belgrado e non su quello di Pristina, per la ripetizione delle votazioni è stato previsto un imponente dispositivo di sicurezza ad opera del personale Eulex e dei militari della Kfor, che sono stati schierati pronti a intervenire per garantire le condizioni di sicurezza e la regolarità delle operazioni di voto. Ciò che è apparso evidente, invero, è che i cosiddetti “gruppi radicali serbi”, e da anni ormai, si sono confermati forti nelle loro posizioni perché attraverso il concreto sostegno umanitario sono costantemente al fianco di famiglie e istituzioni serbe in Kosovo, mentre Belgrado, recentemente, non ha mai dimostrato il necessario grado di volontà politica per concorrere nell’aiuto costante di cui la popolazione locale ha bisogno, a fronte, invece, del sempre forte sostegno di Pristina a beneficio della popolazione kosovara di etnia albanese. Per Belgrado si considera come priorità il rispetto delle richieste di Bruxelles (e Washington, ancora), consapevoli che senza portare a termine l’obiettivo dello svolgimento delle elezioni municipali i negoziati per l’adesione nell’Unione Europea della Serbia potevano evidentemente essere messi a rischio: proprio per questo è stato lo stesso premier Dacic a visitare ripetutamente il Kosovo prima della ripetizione delle elezioni, invitando i serbi a votare “(…)per dare a Mitrovica un sindaco serbo(…)”, spiegando che “(…) il voto è l’unica via per i serbi del Kosovo di avere un potere riconosciuto dalla comunità internazionale. La Serbia oggi non può aiutarvi con fucili e carri armati. Non per mancanza di volontà, ma perché non ci è permesso e perché non possiamo vincere questa battaglia.” Parallelamente nelle strade di Mitrovica l’invito più pressante circolato tra la popolazione è stata la minaccia della perdita del posto di lavoro per chi manifestava pubblicamente il suo dissenso al voto. Quest’ultimo argomento sembra aver avuto un peso significativo nel determinare quell’impennata di partecipazione, da meno del 10 al 22%, alla ripetizione delle elezioni municipali, percentuale evidentemente minima ma considerata ba- stevole al fine di giustificare nelle cancellerie di Belgrado, Pristina e Bruxelles (e Washington, sempre) un grande entusiasmo per una missione compiuta da ritenersi storica, quindi al di là di tutto, soprattutto delle contestazioni in merito alla trasparenza nello svolgimento delle consultazioni popolari. E questo anche nonostante il fatto che i personaggi candidati proprio dagli artefici delle consultazioni, i governi di Belgrado e Pristina, non hanno comunque raccolto considerevoli successi. La “lista di Belgrado”, pur ottenendo una significativa affermazione, non stravince affatto, e questo rimane il segnale politico di maggior rilievo verso i poteri centrali, sentiti distanti dalla situazione locale della crisi economica e della sfiducia civica. Il Partito democratico (PDK) del premier Thaci è stato escluso dal ballottaggio a Pristina e ha perso molte delle municipalità principali, inoltre è stato quasi raggiunto al 30% dei consensi dall’opposizione dell’LDK (Lega Democratica del Kosovo), mentre i nazionalisti della AAK (Alleanza per il Futuro del Kosovo) dell’inquisito criminale di guerra Ramush Haradinaj, superando il 16%, diventano i principali candidati ad un’alleanza con sfumature controverse tanto quanto i rispettivi leader storici; il tutto mentre arrivano nuove condanne in primo grado ad uomini vicini a Thaci nel processo riguardante il traffico d’organi tra il 1999 e il 2000 ( l’inchiesta, nata su iniziativa del Consiglio d’Europa, coordinata da Dick Marty, è nelle mani di un pool di investigatori internazionali diretto dall’americano Clint Williamson), e nuove accuse di corruzione coinvolgono figure di spicco quali Jakup Krasniqi e Fatmir Limaj: quest’ultimo, braccio destro del premier, assolto nel processo che lo vedeva imputato per crimini di guerra contro serbi e albanesi nel 1999, è a giudizio per tangenti negli anni in cui ricopriva la carica di ministro dei Trasporti. Di conseguenza i sospetti internazionali rimangono quelli di sempre, ovvero che una fitta rete di corruzione permetterebbe a Thaci di controllare il paese, pur perdendo nelle elezioni. Ergo queste consultazioni hanno confermato ancora e soprattutto tre argomenti: l’incrinarsi del consenso verso il sistema di potere che vive intorno alla figura di Hashim Thaci, la difficoltà dell’auto-governo kosovaro nell’organizzazione del potere locale e la divisione tra i serbi del Kosovo, a Sud e a Nord dell’Ibar, e il governo di Belgrado. Sullo sfondo però c’è una data che sembra voler davvero segnare un passo epocale: i presidenti serbo, Tomislav Nikolic, e kosovaro, Atifete Jahjaga, dovrebbero infatti incontrarsi il 6 febbraio a Bruxelles per il primo incontro al massimo livello istituzionale dalla dichiarazione d’indipendenza del Kosovo nel 2008. Dall’ufficio del capo della diplomazia europea Catherine Ashton si conferma che se avrà luogo, questo incontro avrà un impatto politico enorme sugli sforzi in corso mirati alla normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina. Nuovi impegni, nuove prospettive, nuove decisioni tra Belgrado, Pristina e Bruxelles (e Washington, infine) che però hanno raccolto davvero un esiguo consenso da parte di chi invece vivrà sulla sua pelle le conseguenze di tutto questo, ovvero quella popolazione serba di Kosovo da sempre schierata a difesa del suo territorio, della sua cultura, della sua identità. Storia di ordinaria follia in Kosovo di Matteo Caponetti La Chiesa ortodossa serba fu fondata nel 1219 da San Sava ed è storicamente la sesta giurisdizione canonica della chiesa ortodossa dopo quelle celebri di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Mosca. Sotto la sua giurisdizione vi sono incluse quasi tutte, tranne la Slovenia, le ex regioni ora nazioni, di ciò che un tempo formava la ormai ex Jugoslavia e cioè Serbia, Montenegro, Bosnia, Croazia e Macedonia. Il patriarcato si trova in Kosovo e Metochia più precisamente nel bellissimo monastero di Pec. La massima carica spirituale dei serbi è il patriarca che è, nello stesso momento, Arcivescovo di Pec e Metropolita di Belgrado e Karlovac. I serbi ortodossi, seguendo l’antico calendario giuliano, festeggiano il Natale il 7 gennaio. La tradizione vuole che la prima persona che entra in casa sia il “Položajnik” e che, secondo la tradizione, è colui che porta fortuna. Egli entra nella casa ripetendo tale frase “Hristos se rodi” che altro non è che il tradizionale augurio in lingua serba, che ci si scambia per Natale e che sta a significare “Cristo è nato” e al quale il fedele risponde “vaistinu se rodi”, cioè “veramente è nato”. Durante la Vigilia di Natale (Badnji dan), la mattina presto, il padrone di casa va a prendere un ramo di quercia, che al tramonto la sera della vigilia, porta in casa. La cena della vigilia è rigorosamente di magro, e il pane non viene tagliato con il coltello ma spezzato con le mani. Insieme alla “pogača” (una specie di focaccia) impastata senza lievito, si mangia il pesce, il miele, il vino e i fagioli “prebranac”, e poi ci sono anche e noci, le mele, le pere, le prugne secche, i datteri, la frutta secca, le mandorle e le nocciole. La regione del Kosovo e Metochia è la regione più sacra per i serbi di religione ortodossa, rappresenta per loro un legame ancestrale con la propria terra e un filo conduttore tra passato e presente che più di ogni altro simbolo od evento raffigura l’identità di un popolo. Ma il rispetto per la spiritualità di un popolo passa purtroppo oggi anche attraverso la sovranità politica del paese di appartenenza e quindi per i serbi quella terra sta diventando sempre più lontana da quel luogo in cui prima abbracciava la loro viscerale appartenenza religiosa e culturale. In Kosovo però sembra che non si stia verificando quella tanto decantata pacificazione tra le varie etnie che popolano quella regione prima amministrata e guidata dai serbi e che ora vive una situazione di caos in cui gli albanesi ne controllano politicamente, con l’aiuto interessato delle lobby facenti capo alla comunità internazionale, arrivando a proclamarsi, il 17 febbraio del 2008, addirittura come uno stato indipendente creando un pericoloso precedente storico nel diritto internazionale. In questi giorni ci è giunta voce dalla Serbia e direttamente dai protagonisti, il verificarsi di una spiacevole vicenda che ora vi racconteremo e che fa capire molto di ciò che è il clima che si vive tutt’ora in quella terra slava. Durante la vigilia di questo Natale serbo ortodosso, sono partiti due autobus pieni di aiuti umanitari da Belgrado e i cui partecipanti alla missione solidale avevano intenzione di festeggiare a Djakovica la vigilia insieme ai loro connazionali, ormai sempre più abbandonati dal governo serbo e osteggiati da quello albanese. Purtroppo il viaggio non è finito come tutti si auguravano e si aspettavano, le persone a bordo sono state vittime di un’imboscata guidata dalle forze della polizia kosovara, in una strada stretta dove l’autobus non passava, sono stati circondati e sono stati oggetto di un fitto lancio di pietre che hanno finito per spaccare i finestrini del mezzo su cui viaggiavano. Insomma una vera propria trappola premeditata. Chi si aspettava l’intervento delle forze di polizia, facenti capo agli enti sovrannazionali presenti in Kosovo, che avrebbero il compito di assicurare sorveglianza e protezione ne è rimasto totalmente incredulo perchè, come spesso è accaduto anche in passato, nemmeno questa volta ci è stato alcun intervento da parte della Eulex Kfor e/o della Rosu Special Forces, se per paura o intenzionale negligenza questo non è solo un dettaglio perchè, mancando di osservare il loro dovere, hanno dimostrato per l’ennesima volta la loro inutilità nella difesa della popolazione che viene fatto oggeto di gravi violenze. Il rovescio della medaglia è che ovviamente nessuno tra politici e stampa abbia nemmeno accennato a questo grave episodio accorso a questi nostri amici. Fortunatamente ci sono tante documentazioni e video che dimostrano quanto è accaduto per poterlo così raccontare a chi di queste storie abbia ancora la voglia di saperne qualcosa. Da quanto ci scrive una delle vittime dell’agguato: “Piaccia o no, questo viaggio è stato tutt’altro che un viaggio spirituale come ci aspettavamo che fosse. Abbiamo fatto tappa prima al Patriarcato di Pec per poi proseguire per Decani. Durante il tragitto uno degli esuli provenienti da Djakovica racconta: “Mamma, possiede una casa a Djakovica” e fieramente conclude “non l’ha venduta”. Giunti in prossimità di Decani, dei compagni che siedono dietro il mio sedile, due signori, raccontano attraverso il loro dialogo ciò che stiamo incontrando lungo la strada, il monumento dedicato al criminale di guerra Ramush Haradinaj, dove hanno costruito le case per i rimpatriati serbi, il cimitero serbo ecc. Fino ad oggi, ero stata quattro volte in Kosovo e Metohija per visitare i nostri santuari e le enclavi serbe. A causa della mia fede sentivo l’esigenza di vedere di persona qual’è realmente la situazione in Kosovo e Metohija. Ebbene i nostri autobus sono stati assaliti con lancio di pietre, i poliziotti ci parlavano appositamente in lingua straniera così che noi non potevamo capire, abbiamo vissuto momenti di estrema avversità, senza capire nulla di quanto stesse accadendo e senza che nessuno protegesse un gruppo di pellegrini serbi che, per il Natale, avevano avuto l’esigenza di sentire il dovere di far visita ai propri luoghi sacri e condividere la festa natalizia con chi in queste condizioni di oltraggi e sopraffazioni continue è obbligata a vivere”. Questo è quanto ci raccontano tutto documentato da alcuni video facilmente ritrovabili su internet. Finalmente quindi dopo ore di paura e il rammarico di non aver nemmeno potuto avere il tempo di accendere il “badnjak”, il convoglio umanitario è riuscito a ripartire verso il nord del Kosovo per fare ritorno in Serbia con la consapevolezza, e una brutta esperienza a testimoniarla, che la vita per i serbi del Kosovo è una trincea in cui l’assurdo paradosso è rappresentato dal fatto di dover sopravvivere nella propria terra. Da San Martino all’Immacolata: breve analisi delle rivolte di B.F. La rivolta dei forconi, così mitizzata o demonizzata dall’opinione pubblica, altro non è che il frutto di un malcontento antico, il malessere del popolo che, spinto dall’inefficienza di un sistema, sfoga la propria rabbia nelle piazze senza guida nè consapevolezza. Un antico manoscritto, trovato un po’ per caso, racconta di tumulti milanesi così simili alla rivolta dei forconi da sembrare attuale. “Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla nè affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni; in parte per colpa degli uomini.” E’ questo il secondo anno di crisi reale ma, finora, tutto sommato gli Italiani sono riusciti ancora a sbarcare il lunario, per cui, chi curava la propria attività, viveva incurante di quanto stava accadendo nemmeno troppo velatamente nei palazzi. Ad un certo punto è arrivata l’imu e poi la tares e lo spread che non scende e la spesa pubblica elevata e questa fantomatica classe media si è alzata un giorno dal letto e si è accorta che, ahimè, il tempo dei quindici giorni a Riccione era finito. Poi hanno iniziato a chiudere le attività e allora, a pancia vuota, si sono finalmente accorti che era l’ora di fare qualcosa. “Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. “Si dimentica d’averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno nè in cielo, nè in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl’incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d’averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abbominio della moltitudine male e ben vestita. “Così, capendo che la colpa era senz’altro dei politici, scordando che loro stessi li avevano da anni legittimati con il loro voto, dimenticando che la cessione di sovranità ha radici molto più lontane degli anni ’90 e di questa attuale classe politica, decidono di scendere in piazza e grazie alle grandi rivelazioni di un comico genovese e di qualche suo omologo, lanciano slogan demagogici conditi di retorica. Basta sprechi! Reddito di cittadinanza! ” Ora è scoperta, – gridava uno, – l’impostura infame di que’ birboni, che dicevano che non c’era nè pane, nè farina, nè grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza!” La storia delle rivolte, dalla Milano seicentesca ad oggi, segue gli stessi schemi. Le sommosse infatti, nascono tutte da un peggioramento delle condizioni economiche delle persone e non sono mai rivolte di principio, a meno che non siano manovrate. La rivoluzione francese fu, a mio avviso, una rivolta di popolo, mentre la ribellione in Siria è necessariamente inquadrabile nel secondo tipo di rivolta, che- quando va a buon fine- sfocia nella dominazione straniera, un tempo politica, adesso principalmente economica. Le rivolte di popolo, poi, si distinguono a sua volta in rivolte che chiameremo anarchiche e rivolte che chiameremo guidate. Le prime consistono nel lasciare la folla libera di esprimere le proprie richieste, espresse in modo contradditorio e ovviamente inquadrabili in pure utopie. Essendo concretamente irrealizzabili, queste proposte vengono da un lato viste di buon occhio dal potere costituito, che può tranquillamente continuare nel proprio operato nascondendosi dietro l’inconsistenza delle proposte delle masse, dall’altro possono essere raccolte da soggetti che mirano a raggiungere il potere senza peraltro poi realizzare le volontà popolari e comprimendo in seguito ogni diritto. E’ il caso dei colpi di stato militari, in cui una situazione economica disastrosa porta la folla alla rivolta e, spesso con l’aiuto di nazioni estere, i generali e i colonnelli instaurano in quei Paesi dittature sanguinose. Le rivolte guidate, al contrario, pur nascendo con gli Robert Brasillach e la gioia di essere fascista fino alla morte stessi presupposti delle altre, sfociano in vere e proprie rivoluzioni, che siano culturali o politiche. La differenza sta nel fatto che il disagio del popolo viene intercettato da Elitè intellettuali, che si uniscono e realizzano un attento programma politico per risollevare il Paese a cui appartengono. Essi, mediante la programmazione di un piano concreto di cambiamento e riforme dell’apparato statale, formano quello che è il necessario mezzo per cambiare lo status quo, mentre attraverso la semplificazione in slogan del loro manifesto ideale ottengono il consenso della folla, consapevoli dell’incapacità della massa di cogliere argomenti intellettualmente troppo complessi. Come dovrebbero muoversi, quindi, quei movimenti che si propongono come Elitè? Innanzitutto abbandonando le proposte demagogiche e spiegando non senza retorica alle folle il loro programma, mai affiancandole, ma guidandole di Livio Basilico con decisione verso il cambiamento. Un giorno Albert Camus disse:”«Se Brasillach fosse ancora tra noi, avremmo potuto giudicarlo. Invece ora è lui a giudicarci» Brasillach non aveva rubato, non aveva ucciso, non s’era arricchito, non s’era fatto corrompere. Aveva scritto. Aveva scritto molto. In letteratura: sembra fosse migliore come critico che come romanziere. De Gaulle, che ne decretò definitivamente la condanna a morte, di lui ha detto: “Le talent est un titre de responsabilite”: in letteratura, come in tutte le cose, il talento è una responsabilità. Porta alla morte. Succede. Prima di morire, Brasillach ribadiva: “So che in questo preciso momento un certo numero di giovani pensa a me. So che tutti questi giovani sanno che non ho insegnato loro nient’altro che l’amore per la vita, la fiducia nella vita, l’amore per il nostro Paese: so ciò in maniera così certa che non rimpiango nulla di ciò che sono stato”. Non rimpiango nulla di ciò che sono stato. Viva la Francia, ha detto, mentre la nuova Francia gli sparava al petto. Io ho insegnato l’amore per la Francia. Questa è la mia colpa. Fate fuoco. Fuoco. Possibile? Possibile. Robert Brasillach nacque a Perpignan il 31 marzo 1909 fu fucilato il 6 febbraio 1945 a Montrouge. Il motivo della condanna? Brasillach era un fascista convinto! Brasillach aveva appena 5 anni quanto perse suo padre ufficiale nel esercito, morto nella battaglia di EL Herri, già da piccolo Robert ebbe una facilità incredibile nello scrivere poesie, tra le sue prime opere figurano:”L’enfant de la nuit” et ” Comme le temps passe”. Nel 1931 Robert divenne scrittore e giornalista per la rivista “l’Action française”, il celebre quotidiano di Charles Maurras, amico e poi cognato di costui. Le sue simpatie ideologiche lo avvicinarono all’ITALIA di MUSSOLINI e alla SPAGNA di Franco dove si recherà diverse volte e da questi viaggi trarrà lo spunto per scrivere l’Histoire de la guerre d’Éspagne in collaborazione con Bardèche nel 1936. Fu presente al congresso di Norimberga del 1937 di cui riferirà in Cent heures chez Hitler. Tra i suoi saggi va ricordato anche quello su Leon Degrelle. Putroppo con il passare del tempo i rapporti tra Brasillach e Maurras furono molto tesi, quindi le loro strade si divisero a malincuore. In effetti dopo l’entrata dei tedeschi a Parigi, Maurras era molto diffidente verso di loro, al contrario di Brasillach che divenne da subito un fervente sostenitore del regime nazionalsocialista e del fascismo, con molta spontaneità dichiaro’:”il fascismo rappresenta la poesia del XX° secolo”. Nel 1943 Brasillach divenne caporedattore del settimanale fascista:”JE SUIS PARTOUT” (sono ovunque), polemizzo’ contro il Fronte Popolare Francese che ha suo parere non prese posizione sulla questione dei ebrei. Dopo lo sbarco in Normandia, Brasillach si rifiutò di fuggire all’estero, nascondendosi nel quartiere latino a Parigi. Nel settembre del 1944, essendo stata arrestata sua madre con l’accusa di collaborazionismo, si costituì alla Prefettura di polizia di Parigi, consegnandosi alle autorità per salvare l’anziana donna. Imprigionato, fu processato e fucilato dalla Francia gollista con l’accusa di aver collaborato con il nemico. Brasillach è stato, per almeno sessant’anni, uno degli autori proibiti dalla cultura italiana. Ne circolavano edizioni più o meno clandestine, nelle piccolissime case editrici politicamente scorrette; qualche saggio, per non dimenticare che c’era stato, altrove, qualcuno che, a differenza dei tanti intellettuali italiani capaci di cambiare fronte come niente fosse, aveva pagato con la vita le sue idee. Fino a qualche anno fa, nominare Brasillach significava farsi riconoscere. Oggi non è così diversa la situazione. Direi di no. Avete notizia di nuove edizioni italiane dei suoi romanzi, o della sua Storia del Cinema? Eppure fu tra i pionieri nella scoperta del cinema giapponese ed in tempi non sospetti. Ma Brasillach era un fascista quindi ucciderlo non era reato, come certi servi dell’ideologia cantavano, e cantano, nei cortei. Leggerlo fa male, è diseducativo, è sbagliato. Non importa che il London Times scrivesse, il 29 agosto 1936, che il suo era “il più interessante ingresso del talento giovanile nella Letteratura Francese degli ultimi anni”, quando ancora non era stato tradotto in Inghilterra. Non importa che fosse un uomo incapace di uccidere o di fare violenza. Non importa che non fosse un venduto, o un bandito, o un traditore. Importava massacrarlo, perché la Francia – sosteneva la propaganda di De Gaulle – in realtà aveva vinto la guerra. E quindi doveva cancellare il passato recente. Quello istituzionale, riconosciuto da tutte le grandi potenze mondiali: Vichy in primis!, basta nascondere bene certe cose, come il riconoscimento mondiale della legittimità d’un governo, e tutto passa. Ma poi torna a galla. E con la Storia si devono fare i conti. La Francia non ha ancora finito… ecco la sentenza della condanna a morte fatta dalla corte di giustizia: « “PRESIDENTE: La Corte condanna Brasillach Robert alla pena di morte; ne ordina la fucilazione. UNA VOCE DAL PUBBLICO: È una vergogna! BRASILLACH: È un onore…!”. » La storia dell’amore di un popolo: Evita Peron di Roberto Mancini Evita Peron è un personaggio davvero straordinario, soprattutto perché è una donna vera e moderna. In questo breve scritto ricorderemo alcuni dei momenti più importanti della sua vita. Questa donna, al contrario di quello che avviene in questi anni nelle democrazie occidentali diede tutto al suo popolo, fino alla morte, avvenuta in giovanissima età. Naturalmente per parlare di lei, dovremo accennare al peronismo, il movimento, di cui farà parte, fondato da suo marito e anche dell’Argentina, un grande paese latino americano, colonizzato dagli spagnoli e facente parte di un continente anche esso interamente colonizzato. Questa donna nata poverissima, cercherà costantemente un rapporto diretto con il suo popolo, in nome di una autentica giustizia sociale. La vera democrazia d’altronde dovrebbe essere quella in cui il governo compie la volontà del popolo e difende sempre e soltanto i suoi interessi. Proprio quello che avviene oggi da noi vero? Per il peronismo, ci deve essere una sola classe di uomini, quelli che lavorano. Il lavoro deve essere un diritto che da dignità all’uomo, ed è anche un dovere perché bisogna produrre almeno quanto si consuma. Sembrano tutte favole pensando quello che avviene da noi in Italia, nella nostra democrazia, nata dalla resistenza in nome della libertà, capace al contrario di produrre soltanto parole vuote, che, in realtà non costano niente. Per parlare di Evita Peron quindi per prima cosa dobbiamo interrogarci in cosa consiste oggi per noi fare politica. Questa è una domanda difficile a cui poter rispondere. Il problema in realtà è forse un altro, questa nostra democrazia ha spento gli ideali, la fede, parlo ovviamente di una fede laica, si è totalmente perso il senso della collettività. Al contrario, si è affermato un individualismo sfrenato, teso soltanto al proprio interesse personale. Quando nel corso della seconda guerra mondiale, si parlava della guerra dell’oro contro il sangue si diceva una cosa maledettamente vera. Il mondo edonistico che ne è venuto fuori ha illuso generazioni e generazioni di giovani e meno giovani, con l’obiettivo di un facile benessere materiale, che oggi tra l’altro possiamo soltanto sognare. Noi uomini di oggi, siamo vuoti dentro, incapaci di combattere per quello che siamo. Evita, non è soltanto un personaggio politico del xx secolo. Evita è un esempio perchè ci fa capire che la politica non deve mai essere un fine, ma un mezzo per il bene della Patria, termine che oggi è passato di moda, perché sembra nostalgico e retorico, si preferisce parlare di paese, in un ottica esclusivamente mercantile. Il giustizialismo un altro modo con il quale veniva chiamato il peronismo, doveva essere una nuova concezione della vita semplice e pratica nello stesso tempo, profondamente cristiana e profondamente umanitaria. Il popolo, deve essere la parte migliore della nazione, bisogna dare ad ogni individuo il suo diritto, in funzione sociale. Peron, diceva sempre che il peronismo non si dovrà mai definire come un partito, ma sempre e soltanto come un movimento, in senso più autenticamente rivoluzionario. In quanto movimento, il peronismo non deve mai rappresentare interessi settari, dobbiamo rappresentare soltanto gli interessi nazionali. Il movimento peronista non dimentica le sue origini popolari e non vuole persone conosciute, perché diceva Evita ci conosciamo già abbastanza. Sono più che sufficienti uomini onesti, sinceri, capaci di lavorare per il bene comune. Bisogna assolutamente abbattere quella oligarchia al servizio dello straniero. In questa ottica, è opportuno riabilitare in tutte le sue componenti il lavoro, unico presupposto fondamentale per le libertà individuali. I politici di professione, vivono elusivamente alle spalle degli uomini che lavorano, noi siamo soltanto dalla parte di quelli che lavorano davvero e sono utili alla comunità nazionale. In ogni caso, penso che queste notizie fossero fondamentali per farvi capire il contesto storico e ambientale all’ interno del quale andrà a collocarsi la egemonica figura di Evita Peron. Eva Duarte Maria nasce a Los Toldos, in Argentina il 7 maggio del 1919, figlia illegittima e di famiglia molto povera. Si conosce pochissimo della sua infanzia, si sa soltanto che alla morte del padre, la prima moglie le impedì di partecipare ai funerali in quanto ritenuta bastarda. Questo fatto, deve avere sicuramente forgiato la sua anima, brutalmente messa davanti alle ingiu- stizie del mondo. Il suo grande desiderio è quello di diventare attrice. A 15 anni, Eva parte dal suo paesello e si trasferisce a Buenos Aires, sente dentro di sé una grande inquietudine e rabbia, ma soprattutto anela al riscatto. I primi anni nella grande città sono molto difficili, non trova lavoro e viene giudicata un attrice mediocre. Sembra che in questo periodo, la notizia non è mai stata confermata sia costretta a prostituirsi per sfamarsi. La celebrità arriva nel 1939 con una serie di programmi radiofonici; in questa fase si alterna in vari ruoli come quello di Caterina II di Russia. La storia di Evita coincide con la storia del popolo argentino che la amò come una madre, venendone ricambiato con infinito amore. La sua per tutti i credenti può anche essere vista come una vera e propria conversione religiosa che trasformerà una mediocre attrice nell’eroina di un intero popolo. Nel 1943 conobbe già celebre l’allora colonnello Juan Domingo Peron, si incontrano al festival del luna park a Buenos Aires, da lì inizia la loro grande storia d’amore, ma queste sono notizie note e le potete trovare su qualsiasi libro di testo. Vorrei invece cercare di trasmettervi il suo spirito. Vedete oggi siamo abituati ad odiare i nostri politici, che non ci rappresentano perché fanno soltanto i loro interessi. In questo caso, il discorso è completamente capovolto. Da subito aveva cominciato ad occuparsi di opere sociali, si era sposata con il suo uomo nel 1945 e aveva partecipato alla sua liberazione, poi dopo l’elezione alla presidenza di Peron la sua attività divenne incessante. Nel 1947 Evita visita l’Europa, si reca nella Spagna franchista, in Italia viene ricevuta dal papa, sua santità Pio XII, poi si trasferisce in Francia. Tornata in Argentina dichiarò più volte che l’Europa era ormai troppo vecchia e non era più in grado di portare avanti una politica che potesse riscattare gli umili e gli oppressi. La civiltà europea volgeva irreversibilmente al tramonto. Il corporativismo fascista non c’era più e le democrazie occidentali con il loro liberismo e il mercato avevano trasformato l’uomo in una vera e propria merce. Nel 1949 venne istituita ufficialmente la fondazione Eva Peron, a dire il vero aveva cominciato da subito ad aiutare i poveri, trasformando le cantine della Casa Rosada in grandissimi depositi alimentari da distribuire ai poveri. Pur essendo cristiana e cattolica e anelando ad un riscatto della donna che, doveva impegnarsi come gli uomini a favore del popolo e in difesa della Patria sempre minacciata dal capitalismo internazionale, si mantenne lontana dal femminismo moderno. La donna, non doveva mai perdere le sue prerogative di sposa e di madre, perno fondamentale della famiglia. A proposito dei suoi rapporti con lachiesa cattolica e con il clero, cominciò ben presto ad entrare in polemica con tutte quelle signore della buona società che facevano una semplice carità ai poveri. Qui, non si tratta di fare carità diceva sempre la nostra Evita, ma giustizia sociale, riparare a gravi ingiustizie sociali, dove pochi hanno tantissimo e il popolo non ha niente e a volte non riesce nemmeno a sfamarsi. Non hanno la possibilità di aiutare i poveri, i loro rappresentanti si riempiono la bocca di belle parole, libertà, democrazia, ma di solito non conoscono le vere esigenze dei poveri. Servono provvedimenti rapidi dall’alto. Furono costruite mille scuole e 18 pensionati, 4 policlinici a Buenos Aires e altri 9 in provincia. Fu addirittura fondata una città per i bambini, dove questi fanciulli poveri venivano ospitati in ambienti accoglienti e potevano per la prima volta sentirsi in un mondo a loro dimensione. Fu creato poi i nuartiere per gli studenti, le case per le ragazze nubili e per le impiegate. Nessuna ragazza argentina, doveva subire quello che aveva subito lei la prima volta che era arrivata a Buenos Aires. Grandi opere sicuramente ma soprattutto erano grandi per il modo con il quale venivano realizzate. In ogni angolo di un edificio costruito in quegli anni si respirava l’amore di Evita per la propria gente. La casa dei bambini, per esempio, non era un edificio a sé stante, ma una vera e propria cittadella in miniatura, dove i colori, i disegni, la forma delle finestre, i tetti rossi, tutto doveva essere a dimensione di bambino. Sempre in tutti gli ambienti si doveva percepire serenità e spensieratezza. Lo stesso rispetto, gli stessi sentimenti venivano trasmessi verso gli anziani. Furono create a questo proposito strutture apposite. Giovani, anziani, bambini, tutti facevano parte di un unico popolo, tutti dovevano poter vivere con dignità e decoro la propria esistenza. Fu creato perfino il sindacato delle domestiche, le colonie turistiche. Tutte queste cose a cosa vi fanno pensare, potrebbe mai una democrazia in così pochi anni fare tutte queste cose? Viene anche fondato il partito peronista femminile. Evita riconosce in pieno, come dicevo prima, il ruolo fondamentale della donna nella società. Il tempo, per tutte le cose che doveva fare non le bastava mai, le sue giornate lavorative erano interminabili, temeva sempre di non riuscire a fare tutto. Furono spesi più di 5° milioni di dollari in meno di due anni. Importante, fu anche la sua battaglia per il voto alle donne, ma qui il voto assume una importanza diversa da quello che avviene nelle nostre democrazia, dove si mette una crocetta su un simbolo e si esprime una preferenza per un candidato. Il voto, deve esprimere un senso di appartenenza ad una visione del mondo, una voglia, un desiderio di partecipazione che non escludeva la lotta vera e pro- pria. Avrà in ogni caso la fortuna di morire quando il peronismo, anche se già cominciava un leggera crisi, era ancora in piedi nel 1952. Il capitalismo e la chiesa lo abbatteranno nel 1955, erano stati colpiti troppi interessi dei cosiddetti poteri forti. Ma il peronismo rimarrà nei cuori degli argentini per molti anni. Peron tornerà in Argentina nel 1973, dopo molti anni d’esilio. Troppe cose erano però accadute nel frattempo, il peronismo, non era più un movimento unitario si era spaccato in una destra e in una sinistra, quella dei famosi Montoneros. Evita, ebbe una lunga e dolorosa malattia un cancro dell’utero. Un giornalista, sul letto di morte raccolse da parte sua una specie di testamento spirituale: “La chiesa, ci sta tradendo, anche dell’esercito ormai non mi fido più di tanto. Arriverà il giorno in cui bisognerà armare gli operai per controbattere i colpi del capitalismo internazionale, speriamo che mio marito abbia la forza necessaria. Da parte mia, ormai ridotta come sono, posso fare ben poco, lascerò tutti i miei gioielli per la costituzione di un fondo permanente per la costruzione di abitazioni popolari. Lo so che è poco ma…”. La morte arriverà il 26 luglio del 1952, sembra che le sue ultime parole siano state “Eva se ne va”. La razion de mi vida non c’era più. El Peronismo sarà Revolucionario o non sarà nada. Il giorno della morte piangeva un intero popolo, tutti i negozi erano chiusi e tutte le bandiere erano a mezz’asta sembra che anche il cielo piangesse, si scatenò infatti su Buenos Aires un vero e proprio nubifragio. Piovve molto anche nei giorni successivi, ma questo non spaventò il popolo che sotto la pioggia battente aspettava ore e ore per dare l’ ultimo saluto alla salma. Si piangeva in ogni angolo del paese, tranne che nei salotti buoni dei ricchi che festeggiavano in qualche maniera la morte di una donna che aveva ridato dignità ad un popolo. Ma nelle cucine, di quei salotti, i camerieri, le sguattere piangevano disperatamente, avevano perso l’unica persona che aveva sempre difeso la loro causa. Evita continuerà a fare paura anche da morta. Il suo corpo imbalsamato sarà trasferito più volte dai regimi che succederanno al peronismo. Pensate che una volta il suo corpo fu nascosto in una discarica, il popolo lo venne a sapere e il giorno dopo tutti i bidoni della spazzatura erano inondati di fiori. Ma un sistema politico che ha paura dei morti non può avere futuro e questo vale anche per la nostra amata Italia. Il Corsaro Nero presenta Musta Sydän di Matteo Caponetti Siamo giunti alla quinta intervista, il viaggio del Corsaro Nero continua senza sosta e senza tregua, come ci insegnano i nostri amici di Bari del gruppo musicale Testvdo. Questa intervista mi coinvolge particolarmente perchè ritorno finalmente nella mia terra natale, la Finlandia, dove ho avuto il piacere di conoscere il gruppo Musta Sydän. Sono stato più breve del solito ma solamente perchè dalla stessa terra, dei novecenteschi spartani, avremo l’occasione di ritornarci con altre interviste e curiosità in futuro. Per chi non prova simpatia per i norreni, i vichinghi e le tradizioni di questi popoli scandinavi e penserà di trovare in questa intervista, solo risposte da teste rasate bigotte piena di idologie xenofobe e razzistiche alla WASP, è meglio che non la legga perchè rimarrà deluso. Ci dispiace per voi. Hyvä Suomi! 1) Cos’è Musta Sydän e quando nasce? Musta Sydän ha preso vita alla fine del 2010. Si tratta di un collettivo di amici e persone politicamente coscienti che vogliono svolgere un ruolo nella creazione di una nuova e innovativa opposizione sia culturale che politica. Si tratta di uno sforzo collettivo per vedere il mondo con gli occhi aperti e di agire su di esso. Non abbiamo intenzione di inventare linee guida nuove ma di promuovere la vecchia con nuovi metodi e idee. Troviamo ispirazione nella nostra storia ma i nostri occhi sono puntati sul futuro. 2) Qual è l’attuale situazione politica in Finlandia? Gli eurocrati hanno usato abilmente la crisi finanziaria e sono attualmente fermamente al potere. L’opposizione è in genere debole e divisa, sfocata. Vi è, tuttavia, un crescente sentimento patriottico e anti-UE tra la gente comune. Nonostante l’uso di tattiche che alimentano la paura, alcune crepe nel sistema si stanno manifestando, come ad esempio ciò che accade tra i due partner principali del governo: i socialdemocratici e la coalizione nazionale. La gente è diventata sempre più critica verso il capitalismo globale e l’internazionalismo corporativo ma hanno ancora bisogno di trovare una voce in politica. 2) Qual è l’attuale situazione politica in Finlandia? Gli eurocrati hanno usato abilmente la crisi finanziaria e sono attualmente fermamente al potere. L’opposizione è in genere debole e divisa, sfocata. Vi è, tuttavia, un crescente sentimento patriottico e anti-UE tra la gente comune. Nonostante l’uso di tattiche che alimentano la paura, alcune crepe nel sistema si stanno manifestando, come ad esempio ciò che accade tra i due partner principali del governo: i socialdemocratici e la coalizione nazionale. La gente è diventata sempre più critica verso il capitalismo globale e l’internazionalismo corporativo ma hanno ancora bisogno di trovare una voce in politica. 3) Come risponde la gioventù finlandese alle vostre idee ed iniziative? Recenti studi hanno dimostrato che nelle scuole finlandesi sta crescendo sempre più un sentimento nazionalista e la gioventù inizia ad essere sempre più preparata nell’agire politico anche attraverso mezzi legalmente discutibili. La nostra missione è quella di ispirare e motivare ulteriormente i giovani finlandesi a raccogliere la torcia della lotta per la causa nazionale. La nostra alternativa deve essere audace e stimolante. Vogliamo essere il megafono attraverso il quale i giovani della nostra nazione possano esprime la loro voglia di ribellione! 4) Come giudicate l’operato dell’Unione Europea? Siamo contrari alla burocrazia attuale di Bruxelles. Noi rifiutiamo le leggi dei banchieri internazionali. Noi siamo per l’Europa delle patrie. Questo non significa che siamo contrari alla cooperazione europea, al contrario. Ma deve essere organizzato sulla base di comuni interessi nazionali e non anti-nazionali di ingegneria sociale e politico. ci sono popoli e stati che cercano con tutte le forze di resistere all’imperialismo e alla globalizzazione, come giudicate queste lotte identitarie? Ognuno di questi casi è diversa dall’altra ma con alcune cose in comune. Tuttavia riteniamo che ogni popolo su questo pianeta ha il diritto di autogovernarsi e dovrebbe essere libero di sviluppare le propria società a modo loro. Siamo fortemente contro l’imperialismo americano in Medio Oriente e l’imperialismo cinese in Africa. La Siria è in una situazione di guerra civile che è stata in gran parte provocata fuori dai suoi confini da una coalizione di diversi gruppi di interesse. Siamo solidali con il popolo siriano che si oppone all’intervento straniero negli affari nazionali e condanna gli ipocriti piagnistei strappa lacrime davanti alle telecamere delle tv internazionali in cui si richiede l’intervento militare straniero contro la Siria mentre i loro alleati terroristi uccidono siriani ordinariamente ogni giorno. I palestinesi sono stati cacciati dalle loro terre e detenuti nei campi per decenni e Israele continua, con l’appoggio degli Stati Uniti, a negare loro una vita senza occupazione militare. Naturalmente siamo solidali con coloro che sono stati derubati della loro terra e che lottano per riconquistarla. Serbia e Ungheria stanno vivendo un esteso sentimento anti-UE, anti-globalista e questo ci porta gioia. Possiamo solo sperare di promuovere una simile opposizione politica anche qui in Finlandia. Venezuela e Argentina hanno resistito a lungo contro l’imperialismo anglo-americano nel loro continente e altri come Evo Moralez in Bolivia si è unito a loro. Il Sud America è stato a lungo considerato come il cortile di casa degli USA dove hanno potuto fare i loro sporchi giochi. Il Sud America ha bisogno di un vero anti-imperialismo che resista allo sfruttamento straniero delle loro risorse e del lavoro. Alcuni dei socialisti in Sud America hanno un inutile atteggiamento anti-europeo a causa della loro storia coloniale ma in fondo non possiamo non considerarli come un importante anello nella catena della resistenza contro l’imperialismo globale al capitalismo. 6) La Grecia è stata abbandonata al suo destino da questa Europa dei banchieri.Pensate che c’è ancora speranza di realizzare in futuro un’Europa diversa composta da nazioni libere e da popoli solidali tra loro? Come dice il proverbio la speranza è l’ultima a morire. Nonostante le prospettive cupe qualcosa di nuovo può 5) Palestina e Siria in Medio Oriente, Serbia e Ungheria nascere solo dalle rovine e dalle ceneri di qualcosa che in Europa, Argentina e Venezuela in Sud America ecc ci è stato in precedenza. Il quadro attuale è già andato a pezzi mentre noi stiamo parlando. Ora dobbiamo cercare di creare qualcosa di nuovo al suo posto. La Grecia risalirà sopra le rovine ancora una volta è solo una questione di tempo. Auguriamo ai greci di essere forti nelle loro difficoltà.ù 7) Come sono i rapporti con il resto dei gruppi identitari in Scandinavia? Musta Sydän è al fianco di tutti quei movimenti, gruppi e individui, che hanno il coraggio di pensare con la propria testa, che hanno l’integrità di mantenere i loro principi e che hanno il coraggio di lottare per un domani migliore per i nostri popoli. Noi crediamo di avere un atteggiamento positivo e ottimista perché il futuro appartiene alle persone come noi. Noi facciamo quello che vogliamo! Grazie ancora ai miei compatrioti per questa interessante intervista. Vi auguriamo di riuscire a mantenere sempre accesa la fiaccola dell’identitarismo di questa nazione che tanto ha dato all’Europa durante l’ultimo conflitto europeo. Ci si vede presto a Roma per confrontarci davanti a numerose birre su vecchie e nuove tematiche.