CHI SIAMO
L’Associazione Culturale Zenit nasce come comunità militante già nel 2003 costituendosi poi ufficialmente nel dicembre del 2005. Le nostre posizioni
non possono essere etichettate nelle classiche categorie
di destra o sinistra. Abbiamo radici culturali che si
rifanno al fascismo ma non per questo possiamo accettare di essere storicizzati o emarginati dalla storia.
Noi vogliamo confrontarci con il presente, analizzare i fatti e trarne da esse le indicazioni valide e necessarie per costruire il futuro. Il nostro motto è sempre
stato Filtra la Verità e il nostro simbolo è una maschera antigas perchè crediamo che attraverso queste categorie create ad arte e attraverso il caos creato
dalla modernità il sistema allontani l’uomo dal vero
e dal reale. Quindi il motto Filtra la Verità vuole
esprimere in modo diretto e provocatorio il nostro
approccio critico verso i mass media ma il nostro
pensiero politico non si ferma qui, ovviamente noi di
Zenit non siamo solo una Associazione Culturale che
si occupa di controinformazione ma siamo soprattutto una comunità militante e cioè un nucleo di persone che persegue la formazione umana dei propri
membri attraverso appunto l’impegno comunitario
e militante che mostrando uno spiccato interesse verso i temi dell’approfondimento culturale e dell’informazione determina il proprio agire politico.
I nostri punti cardini sono i seguenti:
-noi crediamo che l’unità, l’indipendenza e l’integrità territoriale della Patria debbano risultare l’obiettivo essenziale della politica estera del nostro paese;
-crediamo nella Tradizione, nella concreata realizzazione di una comunità europea e rifiutiamo la
subordinazione di quest’ultima alle subculture disumanizzanti quali mondialismo, plutocrazia e nichilismo;
-crediamo nella solidarietà, ogni qual volta si pre-
senti il bisogno di un tangibile aiuto alla comunità e
verso tutti quei popoli che vedono stringersi intorno a
sè la morsa livellante dell’imperialismo e che lottano
per la propria sovranità.
La nostra caratteristica principale è sicuramente
quella di non voler essere il solito gruppo politico che
abbia obiettivi di egemonia o che abbia come scopo
la sola mera aggregazione fine a se stessa. Noi vogliamo formare ragazzi e renderli liberi dalle logiche
della democrazia occidentalista, noi vogliamo che i
ragazzi possano aspirare a trasformare la propria
rabbia, la propria suggestione nei confronti di simboli e tradizioni in sentimenti costruttivi, perchè a noi
piace la sostanza e della superficialità non sappiamo
che farne. Noi vogliamo che i ragazzi e gli uomini
che si avvicinano abbiano voglia di sapere, approfondire perchè solo respirando liberamente si può
diventare soldati addestrati, perchè per noi non esiste
l’agire senza il pensiero. Il nostro operato di militanti politici è quindi riscoprire la gioia di donarsi e
di metterci a disposizione di tutti coloro che sono stufi
di accettare la realtà che ci viene preconfezionata dal
sistema attraverso la manipolazione delle informazioni e della cultura. Per questo motivo quindi il nostro motto è FILTRA LA VERITA’ e invitiamo
anche voi ad indossare come noi le maschere antigas
per resistere ai gas omologanti di questa coatica società moderna che sta allontanando sempre più l’uomo dal vero e dal reale.
IL MARTELLO
Dopo una breve pausa di riflessione abbiamo deciso
di riprendere a martellare perchè Zenit senza il suo
Martello non poteva continuare la sua opera di controinformazione, perchè Zenit senza il suo Martello
era orfano di una parte importante del suo operato
che in passato lo aveva caratterizzato per la serietà e
dedizione con cui chi prima di noi lo aveva ideato e
curato rendendoci orgogliosi del nostro disinteressato
approccio alla militanza politica. Il Martello allora
ritorna per fare da megafono alle nostre ambizioni e
al nostro sano modo di fare politica e allora ecco che
ritorna forte in noi quel monito che abbiamo fatto
nostro attraverso la locuzione latina Gutta cavat lapidem. Questa frase latina resta sempre la più adatta per descrivere il nostro pensiero e agire politico,
la paternità è da ricercare nel poeta Ovidio, sebbene
ripresa e riadattata anche in prosa da diversi autori
fino in età medievale, è la formula dialettica che abbiamo designato ad emblema del nostro organo di
diffusione.
Tre parole che, nella loro inflessibile semplicità, possiedono una forza intrinseca che può essere sprigionata solo attraverso la perseveranza della lotta, così
rendendo fede alla cultura delle idee che diventano
azione. Lapidem, la pietra, dall’aspetto fermo, incrollabile, apparentemente insormontabile da ogni
agente esterno, sempre avrà ragione di chi, soggetto al richiamo dell’istintività, tenterà di scalfirne
la massiccia fermezza con un gesto estemporaneo,
violento e chiassoso. Gutta, la goccia, trova la sua
forza nella volontà di dominare ogni vezzo ad abbandonarsi in un disordinato ed inconcludente getto.
Al contrario, a renderla efficace è la sua capacità di
riconoscere la ponderatezza e la costanza quali virtù.
Il gesto ritmico, scandito dal suono basso e ripetitivo che ne sancisce la monotona caduta, è il simbolo
della sua vittoria su di un nemico che non può vincere in altro modo, se non col suo continuo stillicidio.
E’ dunque solo attraverso questa azione costante e
perfettamente coerente che la goccia potrà perforare la pietra (gutta cavat lapidem, appunto). Il
tempo sarà garante della bontà della sua meticolosa
azione, inosservata dallo sguardo distratto dei suoi
contemporanei, eppure fieramente implacabile nel
perseguire il proprio obiettivo. Nella sensibilità dei
nostri avi, la dimostrazione che la natura custodisce
ancestrali riferimenti dai quali poter trarre ispirazione. Le coscienze, oggi sopite dall’intossicazione e
dall’alienazione dei media di massa e della società dei
consumi, potranno essere scavate per mezzo del lavoro durevole dell’informazione libera e dall’esempio
del sacrificio e della militanza.
Contro sinistre e poteri forti,
Alba Dorata nel nome di Yorgos e Manolis
di Johannes Balzano
Volti coperti, mitra in mano, moto pronta a partire…
spari, tre ragazzi a terra…due senza vita. Sembrerebbe una resa di conti tra bande rivali, avvenuta poche
settimane fa nel quartiere ateniese Neo Eraklio, in cui
Yorgos Fundulis e Manolis Kapellonis hanno perso la
vita. Ma non è così. I due ragazzi giovanissimi, 20 e
23 anni, erano due militanti di Alba Dorata, partito
nazionalista greco, che dopo essere entrato alle ultime
elezioni in parlamento sta riscuotendo una miriade di
consensi, soprattutto tra le fasce di popolazione che
vivono l’immenso disagio della povertà, in cui la Grecia ormai versa da anni. Gli esecutori, facile immaginare, si trovano dalla parte opposta della barricata,
identificati nell’estrema sinistra greca, dalle simpatie
mondialiste ed antinazionali, pronti a dare il loro contributo al gioco dell’affossamento greco. I più grandi
ricordano bene, i più piccoli si saranno informati, le
immagini della Grecia ci riportano indietro di 25 anni,
nell’Italia degli anni 70′, l’Italia che come cantava il
nostro caro Michele di Fio’ aveva figli senza lacrime
ed era pagata per uccidere. Il paragone con la Grecia è
impossibile non farlo, anzi è un obbligo, per far si che
la storia resti un avvertimento, o una memoria, visto
che a molti piace abusare di questo termine. E come è
giusto fare un paragone è importante anche delineare
ciò che succede in Grecia e ciò che potrà succedere.
Dopo che nelle ultime elezioni sono emerse fortemente le posizioni antieuropeiste della Sinsitra Radicale e
di Alba Dorata, il crollo del PASOK ha portato alla
maggioranza relativa il Partito Nuova Democrazia
di Samaras, governo dai toni forti, ma che segue da
classico partito neoliberale le direttive di Bruxelles. I
mesi dopo le elezioni sono stati catastrofici: sono stati
ceduti i gasdotti, gli impianti di energia, chiusa la televisione pubblica, varato un piano di privatizzazione
universitaria, minata la libertà di manifestazione e di
stampa. Facile quindi capire, che il processo di svendita della sovranità nazionale, dei diversi paesi europei,
abbia trovato in Grecia il suo progetto pilota, con valida complicità non solo dei filo-governativi, ma anche
di coloro che si osannano a difensori della libertà e
delle minoranze. La sinistra radicale, come la sinistra
democratica, nel loro aberrante vortice di proposte e
rivendicazioni, allo stesso modo in altri paesi, Francia, Germania e Italia su tutti, spostano sempre più il
focus su tematiche che rendono più facile la svendita
greca ai privati stranieri. La loro stagnante crisi intellettuale e culturale, la loro tendenza ad unificare e ad
omologare tutto e la follia di voler riadattare il marxismo ai tempi correnti, rendono la così tanto acclamata
sinistra delle libertà, cavallo di Troia per i poteri del
capitale straniero. La forza che sinistra e potere hanno
nel mondo, grazie alla comunicazione che rende servigi immensi a questi, in Grecia trova la sola opposizione in Alba Dorata, partito come detto nazionalista,
unico a difendere la Nazione dalle grinfie del denaro
straniero, dall’usura bancaria della troika e dalla rapacità di uno stato che funge da ente di riscossione
crediti. Al fianco della popolazione i militanti di Alba
Dorata rivendicano il giusto potere che lo Stato deve
esercitare sui confini nazionali, la libertà di adottare
misure economiche consone all’economia e alle esigenze greche, la voglia di voler abbattere un sistema
fondato essenzialmente sulla truffa, dove gli Stati vengono depredati. Certo che una posizione del genere
non può non scontrarsi con la furia democratica di
banche, finanza e multinazionali, pronte a mettere in
moto una reazione a a catena di destabilizzazione sia
di Alba Dorata che della Grecia. Prima i folli arresti,
voluti espressamente dall’Unione Europea, di tutta la
dirigenza del partito per un omicidio ancora oscuro,
poi l’assassinio dei due giovani ragazzi di Alba Dorata.
La strategia del panico, per far virare i voti al centro
e a sinistra, e per eliminare le istanze nazionaliste, ha
preso forma in pochissime settimane. La sinistra radicale presta naturalmente il suo volto a tale assurdità,
come fece proprio in Italia 25 anni fa, eseguendo ogni
ordine impartito dall’alto, e spezzando la vita Yorgos e
Manolis, impegnati oltre alla politica nel sociale, perchè Alba Dorata vive i quartieri e non li usa per formare l’odio politico seminato a Sinistra. La speranza e
l’augurio è che Alba Dorata segua nel bene o nel male
la sua strada, piena di ostacoli a non finire, nel nome
di Yorgos e Manolis, per dare alla Grecia una speranza che dal buio dell’usura si può uscire sventolando la
propria bandiera nazionale.
Le controverse elezioni municipali in
Kosovo del 3-17 novembre 2013
di Davide Ciotola
Come in una vera opera teatrale di cui si conosce già
la trama le elezioni municipali in Kosovo, annunciate
come cartina tornasole degli accordi sulla normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina firmati lo
scorso aprile 2013, sotto il patrocinio dell’UE (e degli
USA), attraverso controverse difficoltà hanno dunque
avuto il loro epilogo da manuale, come fosse stato già
scritto da tempo. Quando il 3 novembre nel Centro e
nel Sud del Kosovo le percentuali di votanti si erano
chiuse tra il 40 e il 50%, ma nel Nord avevano votato
meno del 10% dei serbi aventi diritto, la versione ufficiale ha raccontato che gli incidenti di Mitrovica Nord
(prima nel corso dell’intera giornata presunti attivisti
di gruppi nazionalisti avevano filmato gli elettori
mentre andavano ai seggi minacciandoli, poi “gente”
mascherata aveva attaccato il seggio aperto nella scuola elementare “Sveti Sava”) avevano convinto l’OSCE a
ritirare i propri osservatori, interrompendo in anticipo le elezioni nell’area. Belgrado ha sostenuto che gli
attacchi erano stati organizzati da membri di “gruppi
radicali”, fieri sostenitori del boicottaggio nei confronti della tornata elettorale, e dal Partito democratico di
Serbia (DSS) dell’ex premier Vojislav Koštunica, mentre quest’ultimo ha ipotizzato che i governativi stessi
avrebbero pianificato di provocare caos ai seggi, pro-
prio quando era ormai attestato che non si sarebbe
raggiunto il 10% dei votanti. I nuovi, conseguentemente obbligati, incontri a Bruxelles tra Ivica Dacic,
Hashim Thaci e Catherine Ashton hanno cosi decretato la ripetizione delle votazioni nelle sezioni coinvolte nei fatti del 3 novembre, fissandole al 17 novembre. Viste le denunce di Belgrado, che ha addossato la
maggior parte della responsabilità degli incidenti alla
parte kosovara, perché la polizia del Kosovo non sarebbe intervenuta contro gli “estremisti serbi”, ma
considerando che la radicalizzazione al Nord del Kosovo è un problema che Bruxelles (e Washington, naturalmente) mettono sul conto di Belgrado e non su
quello di Pristina, per la ripetizione delle votazioni è
stato previsto un imponente dispositivo di sicurezza
ad opera del personale Eulex e dei militari della Kfor,
che sono stati schierati pronti a intervenire per garantire le condizioni di sicurezza e la regolarità delle operazioni di voto. Ciò che è apparso evidente, invero, è
che i cosiddetti “gruppi radicali serbi”, e da anni ormai, si sono confermati forti nelle loro posizioni perché attraverso il concreto sostegno umanitario sono
costantemente al fianco di famiglie e istituzioni serbe
in Kosovo, mentre Belgrado, recentemente, non ha
mai dimostrato il necessario grado di volontà politica
per concorrere nell’aiuto costante di cui la popolazione locale ha bisogno, a fronte, invece, del sempre forte
sostegno di Pristina a beneficio della popolazione kosovara di etnia albanese. Per Belgrado si considera
come priorità il rispetto delle richieste di Bruxelles (e
Washington, ancora), consapevoli che senza portare a
termine l’obiettivo dello svolgimento delle elezioni
municipali i negoziati per l’adesione nell’Unione Europea della Serbia potevano evidentemente essere
messi a rischio: proprio per questo è stato lo stesso
premier Dacic a visitare ripetutamente il Kosovo prima della ripetizione delle elezioni, invitando i serbi a
votare “(…)per dare a Mitrovica un sindaco serbo(…)”, spiegando che “(…) il voto è l’unica via per i
serbi del Kosovo di avere un potere riconosciuto dalla
comunità internazionale. La Serbia oggi non può aiutarvi con fucili e carri armati. Non per mancanza di
volontà, ma perché non ci è permesso e perché non
possiamo vincere questa battaglia.” Parallelamente
nelle strade di Mitrovica l’invito più pressante circolato tra la popolazione è stata la minaccia della perdita
del posto di lavoro per chi manifestava pubblicamente
il suo dissenso al voto. Quest’ultimo argomento sembra aver avuto un peso significativo nel determinare
quell’impennata di partecipazione, da meno del 10 al
22%, alla ripetizione delle elezioni municipali, percentuale evidentemente minima ma considerata ba-
stevole al fine di giustificare nelle cancellerie di Belgrado, Pristina e Bruxelles (e Washington, sempre) un
grande entusiasmo per una missione compiuta da ritenersi storica, quindi al di là di tutto, soprattutto delle
contestazioni in merito alla trasparenza nello svolgimento delle consultazioni popolari. E questo anche
nonostante il fatto che i personaggi candidati proprio
dagli artefici delle consultazioni, i governi di Belgrado
e Pristina, non hanno comunque raccolto considerevoli successi. La “lista di Belgrado”, pur ottenendo una
significativa affermazione, non stravince affatto, e questo rimane il segnale politico di maggior rilievo verso
i poteri centrali, sentiti distanti dalla situazione locale
della crisi economica e della sfiducia civica. Il Partito
democratico (PDK) del premier Thaci è stato escluso dal ballottaggio a Pristina e ha perso molte delle
municipalità principali, inoltre è stato quasi raggiunto
al 30% dei consensi dall’opposizione dell’LDK (Lega
Democratica del Kosovo), mentre i nazionalisti della
AAK (Alleanza per il Futuro del Kosovo) dell’inquisito criminale di guerra Ramush Haradinaj, superando
il 16%, diventano i principali candidati ad un’alleanza
con sfumature controverse tanto quanto i rispettivi leader storici; il tutto mentre arrivano nuove condanne
in primo grado ad uomini vicini a Thaci nel processo
riguardante il traffico d’organi tra il 1999 e il 2000 (
l’inchiesta, nata su iniziativa del Consiglio d’Europa,
coordinata da Dick Marty, è nelle mani di un pool
di investigatori internazionali diretto dall’americano
Clint Williamson), e nuove accuse di corruzione coinvolgono figure di spicco quali Jakup Krasniqi e Fatmir
Limaj: quest’ultimo, braccio destro del premier, assolto nel processo che lo vedeva imputato per crimini di
guerra contro serbi e albanesi nel 1999, è a giudizio
per tangenti negli anni in cui ricopriva la carica di
ministro dei Trasporti. Di conseguenza i sospetti internazionali rimangono quelli di sempre, ovvero che
una fitta rete di corruzione permetterebbe a Thaci di
controllare il paese, pur perdendo nelle elezioni. Ergo
queste consultazioni hanno confermato ancora e soprattutto tre argomenti: l’incrinarsi del consenso verso il sistema di potere che vive intorno alla figura di
Hashim Thaci, la difficoltà dell’auto-governo kosovaro
nell’organizzazione del potere locale e la divisione tra i
serbi del Kosovo, a Sud e a Nord dell’Ibar, e il governo
di Belgrado. Sullo sfondo però c’è una data che sembra
voler davvero segnare un passo epocale: i presidenti
serbo, Tomislav Nikolic, e kosovaro, Atifete Jahjaga,
dovrebbero infatti incontrarsi il 6 febbraio a Bruxelles
per il primo incontro al massimo livello istituzionale dalla dichiarazione d’indipendenza del Kosovo nel
2008. Dall’ufficio del capo della diplomazia europea
Catherine Ashton si conferma che se avrà luogo, questo incontro avrà un impatto politico enorme sugli
sforzi in corso mirati alla normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina. Nuovi impegni, nuove
prospettive, nuove decisioni tra Belgrado, Pristina e
Bruxelles (e Washington, infine) che però hanno raccolto davvero un esiguo consenso da parte di chi invece vivrà sulla sua pelle le conseguenze di tutto questo,
ovvero quella popolazione serba di Kosovo da sempre
schierata a difesa del suo territorio, della sua cultura,
della sua identità.
Storia di ordinaria follia in Kosovo
di Matteo Caponetti
La Chiesa ortodossa serba fu fondata nel 1219 da San
Sava ed è storicamente la sesta giurisdizione canonica della chiesa ortodossa dopo quelle celebri di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e
Mosca. Sotto la sua giurisdizione vi sono incluse quasi tutte, tranne la Slovenia, le ex regioni ora nazioni,
di ciò che un tempo formava la ormai ex Jugoslavia
e cioè Serbia, Montenegro, Bosnia, Croazia e Macedonia. Il patriarcato si trova in Kosovo e Metochia
più precisamente nel bellissimo monastero di Pec. La
massima carica spirituale dei serbi è il patriarca che è,
nello stesso momento, Arcivescovo di Pec e Metropolita di Belgrado e Karlovac. I serbi ortodossi, seguendo l’antico calendario giuliano, festeggiano il Natale il
7 gennaio. La tradizione vuole che la prima persona
che entra in casa sia il “Položajnik” e che, secondo la
tradizione, è colui che porta fortuna. Egli entra nella casa ripetendo tale frase “Hristos se rodi” che altro
non è che il tradizionale augurio in lingua serba, che
ci si scambia per Natale e che sta a significare “Cristo
è nato” e al quale il fedele risponde “vaistinu se rodi”,
cioè “veramente è nato”. Durante la Vigilia di Natale (Badnji dan), la mattina presto, il padrone di casa
va a prendere un ramo di quercia, che al tramonto la
sera della vigilia, porta in casa. La cena della vigilia è
rigorosamente di magro, e il pane non viene tagliato
con il coltello ma spezzato con le mani. Insieme alla
“pogača” (una specie di focaccia) impastata senza lievito, si mangia il pesce, il miele, il vino e i fagioli “prebranac”, e poi ci sono anche e noci, le mele, le pere, le
prugne secche, i datteri, la frutta secca, le mandorle e
le nocciole. La regione del Kosovo e Metochia è la regione più sacra per i serbi di religione ortodossa, rappresenta per loro un legame ancestrale con la propria
terra e un filo conduttore tra passato e presente che
più di ogni altro simbolo od evento raffigura l’identità di un popolo. Ma il rispetto per la spiritualità di
un popolo passa purtroppo oggi anche attraverso la
sovranità politica del paese di appartenenza e quindi per i serbi quella terra sta diventando sempre più
lontana da quel luogo in cui prima abbracciava la loro
viscerale appartenenza religiosa e culturale. In Kosovo però sembra che non si stia verificando quella tanto
decantata pacificazione tra le varie etnie che popolano
quella regione prima amministrata e guidata dai serbi
e che ora vive una situazione di caos in cui gli albanesi
ne controllano politicamente, con l’aiuto interessato
delle lobby facenti capo alla comunità internazionale,
arrivando a proclamarsi, il 17 febbraio del 2008, addirittura come uno stato indipendente creando un pericoloso precedente storico nel diritto internazionale.
In questi giorni ci è giunta voce dalla Serbia e direttamente dai protagonisti, il verificarsi di una spiacevole
vicenda che ora vi racconteremo e che fa capire molto
di ciò che è il clima che si vive tutt’ora in quella terra
slava. Durante la vigilia di questo Natale serbo ortodosso, sono partiti due autobus pieni di aiuti umanitari da Belgrado e i cui partecipanti alla missione solidale avevano intenzione di festeggiare a Djakovica la
vigilia insieme ai loro connazionali, ormai sempre più
abbandonati dal governo serbo e osteggiati da quello
albanese. Purtroppo il viaggio non è finito come tutti si auguravano e si aspettavano, le persone a bordo
sono state vittime di un’imboscata guidata dalle forze
della polizia kosovara, in una strada stretta dove l’autobus non passava, sono stati circondati e sono stati
oggetto di un fitto lancio di pietre che hanno finito
per spaccare i finestrini del mezzo su cui viaggiavano.
Insomma una vera propria trappola premeditata. Chi
si aspettava l’intervento delle forze di polizia, facenti capo agli enti sovrannazionali presenti in Kosovo,
che avrebbero il compito di assicurare sorveglianza e
protezione ne è rimasto totalmente incredulo perchè,
come spesso è accaduto anche in passato, nemmeno
questa volta ci è stato alcun intervento da parte della
Eulex Kfor e/o della Rosu Special Forces, se per paura
o intenzionale negligenza questo non è solo un dettaglio perchè, mancando di osservare il loro dovere,
hanno dimostrato per l’ennesima volta la loro inutilità
nella difesa della popolazione che viene fatto oggeto
di gravi violenze. Il rovescio della medaglia è che ovviamente nessuno tra politici e stampa abbia nemmeno accennato a questo grave episodio accorso a questi
nostri amici. Fortunatamente ci sono tante documentazioni e video che dimostrano quanto è accaduto per
poterlo così raccontare a chi di queste storie abbia ancora la voglia di saperne qualcosa. Da quanto ci scrive una delle vittime dell’agguato: “Piaccia o no, questo viaggio è stato tutt’altro che un viaggio spirituale
come ci aspettavamo che fosse. Abbiamo fatto tappa
prima al Patriarcato di Pec per poi proseguire per Decani. Durante il tragitto uno degli esuli provenienti
da Djakovica racconta: “Mamma, possiede una casa
a Djakovica” e fieramente conclude “non l’ha venduta”. Giunti in prossimità di Decani, dei compagni che
siedono dietro il mio sedile, due signori, raccontano
attraverso il loro dialogo ciò che stiamo incontrando
lungo la strada, il monumento dedicato al criminale
di guerra Ramush Haradinaj, dove hanno costruito le
case per i rimpatriati serbi, il cimitero serbo ecc. Fino
ad oggi, ero stata quattro volte in Kosovo e Metohija
per visitare i nostri santuari e le enclavi serbe. A causa
della mia fede sentivo l’esigenza di vedere di persona
qual’è realmente la situazione in Kosovo e Metohija.
Ebbene i nostri autobus sono stati assaliti con lancio di pietre, i poliziotti ci parlavano appositamente
in lingua straniera così che noi non potevamo capire,
abbiamo vissuto momenti di estrema avversità, senza
capire nulla di quanto stesse accadendo e senza che
nessuno protegesse un gruppo di pellegrini serbi che,
per il Natale, avevano avuto l’esigenza di sentire il dovere di far visita ai propri luoghi sacri e condividere la
festa natalizia con chi in queste condizioni di oltraggi
e sopraffazioni continue è obbligata a vivere”. Questo
è quanto ci raccontano tutto documentato da alcuni
video facilmente ritrovabili su internet. Finalmente
quindi dopo ore di paura e il rammarico di non aver
nemmeno potuto avere il tempo di accendere il “badnjak”, il convoglio umanitario è riuscito a ripartire
verso il nord del Kosovo per fare ritorno in Serbia con
la consapevolezza, e una brutta esperienza a testimoniarla, che la vita per i serbi del Kosovo è una trincea
in cui l’assurdo paradosso è rappresentato dal fatto di
dover sopravvivere nella propria terra.
Da San Martino all’Immacolata:
breve analisi delle rivolte
di B.F.
La rivolta dei forconi, così mitizzata o demonizzata dall’opinione pubblica, altro non è che il frutto di
un malcontento antico, il malessere del popolo che,
spinto dall’inefficienza di un sistema, sfoga la propria
rabbia nelle piazze senza guida nè consapevolezza. Un
antico manoscritto, trovato un po’ per caso, racconta
di tumulti milanesi così simili alla rivolta dei forconi
da sembrare attuale. “Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste
degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo
segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla nè affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla
messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia.
Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più
misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni; in parte per colpa degli uomini.” E’
questo il secondo anno di crisi reale ma, finora, tutto
sommato gli Italiani sono riusciti ancora a sbarcare il
lunario, per cui, chi curava la propria attività, viveva
incurante di quanto stava accadendo nemmeno troppo velatamente nei palazzi. Ad un certo punto è arrivata l’imu e poi la tares e lo spread che non scende e
la spesa pubblica elevata e questa fantomatica classe
media si è alzata un giorno dal letto e si è accorta che,
ahimè, il tempo dei quindici giorni a Riccione era finito. Poi hanno iniziato a chiudere le attività e allora,
a pancia vuota, si sono finalmente accorti che era l’ora
di fare qualcosa. “Ma quando questo arriva a un certo
segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora;
e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che
non ne sia cagione la scarsezza. “Si dimentica d’averla
temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia
grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non
stanno nè in cielo, nè in terra; ma che lusingano a un
tempo la collera e la speranza. Gl’incettatori di grano,
reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo
vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o
assai, o che avessero il nome d’averne, a questi si dava
la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abbominio della moltitudine male e ben vestita. “Così, capendo che la colpa
era senz’altro dei politici, scordando che loro stessi li
avevano da anni legittimati con il loro voto, dimenticando che la cessione di sovranità ha radici molto
più lontane degli anni ’90 e di questa attuale classe
politica, decidono di scendere in piazza e grazie alle
grandi rivelazioni di un comico genovese e di qualche suo omologo, lanciano slogan demagogici conditi
di retorica. Basta sprechi! Reddito di cittadinanza! ”
Ora è scoperta, – gridava uno, – l’impostura infame
di que’ birboni, che dicevano che non c’era nè pane, nè
farina, nè grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante;
e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza!” La storia delle rivolte, dalla Milano seicentesca ad oggi, segue gli stessi schemi. Le sommosse infatti, nascono tutte da un peggioramento delle
condizioni economiche delle persone e non sono mai
rivolte di principio, a meno che non siano manovrate.
La rivoluzione francese fu, a mio avviso, una rivolta di
popolo, mentre la ribellione in Siria è necessariamente
inquadrabile nel secondo tipo di rivolta, che- quando va a buon fine- sfocia nella dominazione straniera,
un tempo politica, adesso principalmente economica.
Le rivolte di popolo, poi, si distinguono a sua volta in
rivolte che chiameremo anarchiche e rivolte che chiameremo guidate. Le prime consistono nel lasciare la
folla libera di esprimere le proprie richieste, espresse in modo contradditorio e ovviamente inquadrabili
in pure utopie. Essendo concretamente irrealizzabili, queste proposte vengono da un lato viste di buon
occhio dal potere costituito, che può tranquillamente
continuare nel proprio operato nascondendosi dietro
l’inconsistenza delle proposte delle masse, dall’altro
possono essere raccolte da soggetti che mirano a raggiungere il potere senza peraltro poi realizzare le volontà popolari e comprimendo in seguito ogni diritto.
E’ il caso dei colpi di stato militari, in cui una situazione economica disastrosa porta la folla alla rivolta
e, spesso con l’aiuto di nazioni estere, i generali e i colonnelli instaurano in quei Paesi dittature sanguinose.
Le rivolte guidate, al contrario, pur nascendo con gli
Robert Brasillach e la gioia di essere
fascista fino alla morte
stessi presupposti delle altre, sfociano in vere e proprie
rivoluzioni, che siano culturali o politiche. La differenza sta nel fatto che il disagio del popolo viene intercettato da Elitè intellettuali, che si uniscono e realizzano
un attento programma politico per risollevare il Paese
a cui appartengono. Essi, mediante la programmazione di un piano concreto di cambiamento e riforme
dell’apparato statale, formano quello che è il necessario mezzo per cambiare lo status quo, mentre attraverso la semplificazione in slogan del loro manifesto
ideale ottengono il consenso della folla, consapevoli
dell’incapacità della massa di cogliere argomenti intellettualmente troppo complessi. Come dovrebbero
muoversi, quindi, quei movimenti che si propongono
come Elitè? Innanzitutto abbandonando le proposte
demagogiche e spiegando non senza retorica alle folle
il loro programma, mai affiancandole, ma guidandole
di Livio Basilico
con decisione verso il cambiamento.
Un giorno Albert Camus disse:”«Se Brasillach fosse
ancora tra noi, avremmo potuto giudicarlo. Invece ora
è lui a giudicarci»
Brasillach non aveva rubato, non aveva ucciso, non s’era arricchito, non s’era fatto corrompere. Aveva scritto.
Aveva scritto molto. In letteratura: sembra fosse migliore come critico che come romanziere. De Gaulle,
che ne decretò definitivamente la condanna a morte,
di lui ha detto: “Le talent est un titre de responsabilite”: in letteratura, come in tutte le cose, il talento è
una responsabilità. Porta alla morte. Succede. Prima
di morire, Brasillach ribadiva: “So che in questo preciso momento un certo numero di giovani pensa a me.
So che tutti questi giovani sanno che non ho insegnato
loro nient’altro che l’amore per la vita, la fiducia nella
vita, l’amore per il nostro Paese: so ciò in maniera così
certa che non rimpiango nulla di ciò che sono stato”.
Non rimpiango nulla di ciò che sono stato. Viva la
Francia, ha detto, mentre la nuova Francia gli sparava
al petto. Io ho insegnato l’amore per la Francia. Questa
è la mia colpa. Fate fuoco. Fuoco. Possibile? Possibile.
Robert Brasillach nacque a Perpignan il 31 marzo 1909 fu fucilato il 6 febbraio 1945 a Montrouge.
Il motivo della condanna? Brasillach era un fascista
convinto! Brasillach aveva appena 5 anni quanto perse
suo padre ufficiale nel esercito, morto nella battaglia
di EL Herri, già da piccolo Robert ebbe una facilità
incredibile nello scrivere poesie, tra le sue prime opere figurano:”L’enfant de la nuit” et ” Comme le temps
passe”. Nel 1931 Robert divenne scrittore e giornalista
per la rivista “l’Action française”, il celebre quotidiano
di Charles Maurras, amico e poi cognato di costui. Le
sue simpatie ideologiche lo avvicinarono all’ITALIA
di MUSSOLINI e alla SPAGNA di Franco dove si recherà diverse volte e da questi viaggi trarrà lo spunto
per scrivere l’Histoire de la guerre d’Éspagne in collaborazione con Bardèche nel 1936. Fu presente al
congresso di Norimberga del 1937 di cui riferirà in
Cent heures chez Hitler. Tra i suoi saggi va ricordato anche quello su Leon Degrelle. Putroppo con il
passare del tempo i rapporti tra Brasillach e Maurras furono molto tesi, quindi le loro strade si divisero
a malincuore. In effetti dopo l’entrata dei tedeschi a
Parigi, Maurras era molto diffidente verso di loro, al
contrario di Brasillach che divenne da subito un fervente sostenitore del regime nazionalsocialista e del
fascismo, con molta spontaneità dichiaro’:”il fascismo
rappresenta la poesia del XX° secolo”. Nel 1943 Brasillach divenne caporedattore del settimanale fascista:”JE SUIS PARTOUT” (sono ovunque), polemizzo’
contro il Fronte Popolare Francese che ha suo parere
non prese posizione sulla questione dei ebrei. Dopo lo
sbarco in Normandia, Brasillach si rifiutò di fuggire
all’estero, nascondendosi nel quartiere latino a Parigi. Nel settembre del 1944, essendo stata arrestata sua
madre con l’accusa di collaborazionismo, si costituì
alla Prefettura di polizia di Parigi, consegnandosi alle
autorità per salvare l’anziana donna. Imprigionato, fu
processato e fucilato dalla Francia gollista con l’accusa
di aver collaborato con il nemico. Brasillach è stato,
per almeno sessant’anni, uno degli autori proibiti dalla cultura italiana. Ne circolavano edizioni più o meno
clandestine, nelle piccolissime case editrici politicamente scorrette; qualche saggio, per non dimenticare che c’era stato, altrove, qualcuno che, a differenza
dei tanti intellettuali italiani capaci di cambiare fronte
come niente fosse, aveva pagato con la vita le sue idee.
Fino a qualche anno fa, nominare Brasillach significava farsi riconoscere. Oggi non è così diversa la situazione. Direi di no. Avete notizia di nuove edizioni
italiane dei suoi romanzi, o della sua Storia del Cinema? Eppure fu tra i pionieri nella scoperta del cinema
giapponese ed in tempi non sospetti. Ma Brasillach
era un fascista quindi ucciderlo non era reato, come
certi servi dell’ideologia cantavano, e cantano, nei cortei. Leggerlo fa male, è diseducativo, è sbagliato. Non
importa che il London Times scrivesse, il 29 agosto
1936, che il suo era “il più interessante ingresso del
talento giovanile nella Letteratura Francese degli ultimi anni”, quando ancora non era stato tradotto in Inghilterra. Non importa che fosse un uomo incapace di
uccidere o di fare violenza. Non importa che non fosse
un venduto, o un bandito, o un traditore. Importava
massacrarlo, perché la Francia – sosteneva la propaganda di De Gaulle – in realtà aveva vinto la guerra.
E quindi doveva cancellare il passato recente. Quello
istituzionale, riconosciuto da tutte le grandi potenze
mondiali: Vichy in primis!, basta nascondere bene
certe cose, come il riconoscimento mondiale della legittimità d’un governo, e tutto passa. Ma poi torna a
galla. E con la Storia si devono fare i conti. La Francia
non ha ancora finito…
ecco la sentenza della condanna a morte fatta dalla
corte di giustizia:
« “PRESIDENTE: La Corte condanna Brasillach Robert alla pena di morte; ne ordina la fucilazione.
UNA VOCE DAL PUBBLICO: È una vergogna!
BRASILLACH: È un onore…!”. »
La storia dell’amore di un popolo: Evita Peron
di Roberto Mancini
Evita Peron è un personaggio davvero straordinario,
soprattutto perché è una donna vera e moderna. In
questo breve scritto ricorderemo alcuni dei momenti
più importanti della sua vita. Questa donna, al contrario di quello che avviene in questi anni nelle democrazie occidentali diede tutto al suo popolo, fino alla
morte, avvenuta in giovanissima età. Naturalmente
per parlare di lei, dovremo accennare al peronismo, il
movimento, di cui farà parte, fondato da suo marito e
anche dell’Argentina, un grande paese latino americano, colonizzato dagli spagnoli e facente parte di un
continente anche esso interamente colonizzato. Questa donna nata poverissima, cercherà costantemente
un rapporto diretto con il suo popolo, in nome di una
autentica giustizia sociale. La vera democrazia d’altronde dovrebbe essere quella in cui il governo compie la volontà del popolo e difende sempre e soltanto
i suoi interessi. Proprio quello che avviene oggi da noi
vero? Per il peronismo, ci deve essere una sola classe
di uomini, quelli che lavorano. Il lavoro deve essere un
diritto che da dignità all’uomo, ed è anche un dovere
perché bisogna produrre almeno quanto si consuma.
Sembrano tutte favole pensando quello che avviene da
noi in Italia, nella nostra democrazia, nata dalla resistenza in nome della libertà, capace al contrario di
produrre soltanto parole vuote, che, in realtà non costano niente. Per parlare di Evita Peron quindi per prima cosa dobbiamo interrogarci in cosa consiste oggi
per noi fare politica. Questa è una domanda difficile a
cui poter rispondere. Il problema in realtà è forse un
altro, questa nostra democrazia ha spento gli ideali, la
fede, parlo ovviamente di una fede laica, si è totalmente perso il senso della collettività. Al contrario, si è affermato un individualismo sfrenato, teso soltanto al
proprio interesse personale. Quando nel corso della
seconda guerra mondiale, si parlava della guerra
dell’oro contro il sangue si diceva una cosa maledettamente vera. Il mondo edonistico che ne è venuto fuori
ha illuso generazioni e generazioni di giovani e meno
giovani, con l’obiettivo di un facile benessere materiale, che oggi tra l’altro possiamo soltanto sognare. Noi
uomini di oggi, siamo vuoti dentro, incapaci di combattere per quello che siamo. Evita, non è soltanto un
personaggio politico del xx secolo. Evita è un esempio
perchè ci fa capire che la politica non deve mai essere
un fine, ma un mezzo per il bene della Patria, termine
che oggi è passato di moda, perché sembra nostalgico
e retorico, si preferisce parlare di paese, in un ottica
esclusivamente mercantile. Il giustizialismo un altro
modo con il quale veniva chiamato il peronismo, doveva essere una nuova concezione della vita semplice
e pratica nello stesso tempo, profondamente cristiana
e profondamente umanitaria. Il popolo, deve essere la
parte migliore della nazione, bisogna dare ad ogni individuo il suo diritto, in funzione sociale. Peron, diceva sempre che il peronismo non si dovrà mai definire
come un partito, ma sempre e soltanto come un movimento, in senso più autenticamente rivoluzionario. In
quanto movimento, il peronismo non deve mai rappresentare interessi settari, dobbiamo rappresentare
soltanto gli interessi nazionali. Il movimento peronista non dimentica le sue origini popolari e non vuole
persone conosciute, perché diceva Evita ci conosciamo già abbastanza. Sono più che sufficienti uomini
onesti, sinceri, capaci di lavorare per il bene comune.
Bisogna assolutamente abbattere quella oligarchia al
servizio dello straniero. In questa ottica, è opportuno
riabilitare in tutte le sue componenti il lavoro, unico
presupposto fondamentale per le libertà individuali. I
politici di professione, vivono elusivamente alle spalle
degli uomini che lavorano, noi siamo soltanto dalla
parte di quelli che lavorano davvero e sono utili alla
comunità nazionale. In ogni caso, penso che queste
notizie fossero fondamentali per farvi capire il contesto storico e ambientale all’ interno del quale andrà a
collocarsi la egemonica figura di Evita Peron. Eva
Duarte Maria nasce a Los Toldos, in Argentina il 7
maggio del 1919, figlia illegittima e di famiglia molto
povera. Si conosce pochissimo della sua infanzia, si sa
soltanto che alla morte del padre, la prima moglie le
impedì di partecipare ai funerali in quanto ritenuta
bastarda. Questo fatto, deve avere sicuramente forgiato la sua anima, brutalmente messa davanti alle ingiu-
stizie del mondo. Il suo grande desiderio è quello di
diventare attrice. A 15 anni, Eva parte dal suo paesello
e si trasferisce a Buenos Aires, sente dentro di sé una
grande inquietudine e rabbia, ma soprattutto anela al
riscatto. I primi anni nella grande città sono molto difficili, non trova lavoro e viene giudicata un attrice mediocre. Sembra che in questo periodo, la notizia non è
mai stata confermata sia costretta a prostituirsi per
sfamarsi. La celebrità arriva nel 1939 con una serie di
programmi radiofonici; in questa fase si alterna in
vari ruoli come quello di Caterina II di Russia. La storia di Evita coincide con la storia del popolo argentino
che la amò come una madre, venendone ricambiato
con infinito amore. La sua per tutti i credenti può anche essere vista come una vera e propria conversione
religiosa che trasformerà una mediocre attrice nell’eroina di un intero popolo. Nel 1943 conobbe già celebre l’allora colonnello Juan Domingo Peron, si incontrano al festival del luna park a Buenos Aires, da lì
inizia la loro grande storia d’amore, ma queste sono
notizie note e le potete trovare su qualsiasi libro di testo. Vorrei invece cercare di trasmettervi il suo spirito.
Vedete oggi siamo abituati ad odiare i nostri politici,
che non ci rappresentano perché fanno soltanto i loro
interessi. In questo caso, il discorso è completamente
capovolto. Da subito aveva cominciato ad occuparsi di
opere sociali, si era sposata con il suo uomo nel 1945
e aveva partecipato alla sua liberazione, poi dopo l’elezione alla presidenza di Peron la sua attività divenne
incessante. Nel 1947 Evita visita l’Europa, si reca nella
Spagna franchista, in Italia viene ricevuta dal papa,
sua santità Pio XII, poi si trasferisce in Francia. Tornata in Argentina dichiarò più volte che l’Europa era ormai troppo vecchia e non era più in grado di portare
avanti una politica che potesse riscattare gli umili e gli
oppressi. La civiltà europea volgeva irreversibilmente
al tramonto. Il corporativismo fascista non c’era più e
le democrazie occidentali con il loro liberismo e il
mercato avevano trasformato l’uomo in una vera e
propria merce. Nel 1949 venne istituita ufficialmente
la fondazione Eva Peron, a dire il vero aveva cominciato da subito ad aiutare i poveri, trasformando le
cantine della Casa Rosada in grandissimi depositi alimentari da distribuire ai poveri. Pur essendo cristiana
e cattolica e anelando ad un riscatto della donna che,
doveva impegnarsi come gli uomini a favore del popolo e in difesa della Patria sempre minacciata dal capitalismo internazionale, si mantenne lontana dal
femminismo moderno. La donna, non doveva mai
perdere le sue prerogative di sposa e di madre, perno
fondamentale della famiglia. A proposito dei suoi rapporti con lachiesa cattolica e con il clero, cominciò
ben presto ad entrare in polemica con tutte quelle signore della buona società che facevano una semplice
carità ai poveri. Qui, non si tratta di fare carità diceva
sempre la nostra Evita, ma giustizia sociale, riparare a
gravi ingiustizie sociali, dove pochi hanno tantissimo
e il popolo non ha niente e a volte non riesce nemmeno a sfamarsi. Non hanno la possibilità di aiutare i poveri, i loro rappresentanti si riempiono la bocca di belle parole, libertà, democrazia, ma di solito non
conoscono le vere esigenze dei poveri. Servono provvedimenti rapidi dall’alto. Furono costruite mille
scuole e 18 pensionati, 4 policlinici a Buenos Aires e
altri 9 in provincia. Fu addirittura fondata una città
per i bambini, dove questi fanciulli poveri venivano
ospitati in ambienti accoglienti e potevano per la prima volta sentirsi in un mondo a loro dimensione. Fu
creato poi i nuartiere per gli studenti, le case per le
ragazze nubili e per le impiegate. Nessuna ragazza argentina, doveva subire quello che aveva subito lei la
prima volta che era arrivata a Buenos Aires. Grandi
opere sicuramente ma soprattutto erano grandi per il
modo con il quale venivano realizzate. In ogni angolo
di un edificio costruito in quegli anni si respirava l’amore di Evita per la propria gente. La casa dei bambini, per esempio, non era un edificio a sé stante, ma
una vera e propria cittadella in miniatura, dove i colori, i disegni, la forma delle finestre, i tetti rossi, tutto
doveva essere a dimensione di bambino. Sempre in
tutti gli ambienti si doveva percepire serenità e spensieratezza. Lo stesso rispetto, gli stessi sentimenti venivano trasmessi verso gli anziani. Furono create a
questo proposito strutture apposite. Giovani, anziani,
bambini, tutti facevano parte di un unico popolo, tutti dovevano poter vivere con dignità e decoro la propria esistenza. Fu creato perfino il sindacato delle domestiche, le colonie turistiche. Tutte queste cose a
cosa vi fanno pensare, potrebbe mai una democrazia
in così pochi anni fare tutte queste cose? Viene anche
fondato il partito peronista femminile. Evita riconosce in pieno, come dicevo prima, il ruolo fondamentale della donna nella società. Il tempo, per tutte le cose
che doveva fare non le bastava mai, le sue giornate lavorative erano interminabili, temeva sempre di non
riuscire a fare tutto. Furono spesi più di 5° milioni di
dollari in meno di due anni. Importante, fu anche la
sua battaglia per il voto alle donne, ma qui il voto assume una importanza diversa da quello che avviene
nelle nostre democrazia, dove si mette una crocetta su
un simbolo e si esprime una preferenza per un candidato. Il voto, deve esprimere un senso di appartenenza
ad una visione del mondo, una voglia, un desiderio di
partecipazione che non escludeva la lotta vera e pro-
pria. Avrà in ogni caso la fortuna di morire quando il
peronismo, anche se già cominciava un leggera crisi,
era ancora in piedi nel 1952. Il capitalismo e la chiesa lo abbatteranno nel 1955, erano stati colpiti troppi
interessi dei cosiddetti poteri forti. Ma il peronismo
rimarrà nei cuori degli argentini per molti anni. Peron
tornerà in Argentina nel 1973, dopo molti anni d’esilio. Troppe cose erano però accadute nel frattempo,
il peronismo, non era più un movimento unitario si
era spaccato in una destra e in una sinistra, quella dei
famosi Montoneros. Evita, ebbe una lunga e dolorosa
malattia un cancro dell’utero. Un giornalista, sul letto
di morte raccolse da parte sua una specie di testamento
spirituale: “La chiesa, ci sta tradendo, anche dell’esercito ormai non mi fido più di tanto. Arriverà il giorno
in cui bisognerà armare gli operai per controbattere
i colpi del capitalismo internazionale, speriamo che
mio marito abbia la forza necessaria. Da parte mia,
ormai ridotta come sono, posso fare ben poco, lascerò
tutti i miei gioielli per la costituzione di un fondo permanente per la costruzione di abitazioni popolari. Lo
so che è poco ma…”. La morte arriverà il 26 luglio del
1952, sembra che le sue ultime parole siano state “Eva
se ne va”. La razion de mi vida non c’era più. El Peronismo sarà Revolucionario o non sarà nada. Il giorno
della morte piangeva un intero popolo, tutti i negozi erano chiusi e tutte le bandiere erano a mezz’asta
sembra che anche il cielo piangesse, si scatenò infatti
su Buenos Aires un vero e proprio nubifragio. Piovve
molto anche nei giorni successivi, ma questo non spaventò il popolo che sotto la pioggia battente aspettava
ore e ore per dare l’ ultimo saluto alla salma. Si piangeva in ogni angolo del paese, tranne che nei salotti
buoni dei ricchi che festeggiavano in qualche maniera
la morte di una donna che aveva ridato dignità ad un
popolo. Ma nelle cucine, di quei salotti, i camerieri, le
sguattere piangevano disperatamente, avevano perso
l’unica persona che aveva sempre difeso la loro causa.
Evita continuerà a fare paura anche da morta. Il suo
corpo imbalsamato sarà trasferito più volte dai regimi
che succederanno al peronismo. Pensate che una volta il suo corpo fu nascosto in una discarica, il popolo
lo venne a sapere e il giorno dopo tutti i bidoni della
spazzatura erano inondati di fiori. Ma un sistema politico che ha paura dei morti non può avere futuro e
questo vale anche per la nostra amata Italia.
Il Corsaro Nero presenta Musta Sydän
di Matteo Caponetti
Siamo giunti alla quinta intervista, il viaggio del Corsaro Nero continua senza sosta e senza tregua, come ci
insegnano i nostri amici di Bari del gruppo musicale
Testvdo. Questa intervista mi coinvolge particolarmente perchè ritorno finalmente nella mia terra natale, la Finlandia, dove ho avuto il piacere di conoscere
il gruppo Musta Sydän. Sono stato più breve del solito
ma solamente perchè dalla stessa terra, dei novecenteschi spartani, avremo l’occasione di ritornarci con
altre interviste e curiosità in futuro. Per chi non prova
simpatia per i norreni, i vichinghi e le tradizioni di
questi popoli scandinavi e penserà di trovare in questa
intervista, solo risposte da teste rasate bigotte piena di
idologie xenofobe e razzistiche alla WASP, è meglio
che non la legga perchè rimarrà deluso. Ci dispiace
per voi. Hyvä Suomi!
1) Cos’è Musta Sydän e quando nasce?
Musta Sydän ha preso vita alla fine del 2010. Si tratta
di un collettivo di amici e persone politicamente coscienti che vogliono svolgere un ruolo nella creazione
di una nuova e innovativa opposizione sia culturale
che politica. Si tratta di uno sforzo collettivo per vedere il mondo con gli occhi aperti e di agire su di esso.
Non abbiamo intenzione di inventare linee guida nuove ma di promuovere la vecchia con nuovi metodi e
idee. Troviamo ispirazione nella nostra storia ma i nostri occhi sono puntati sul futuro.
2) Qual è l’attuale situazione politica in Finlandia?
Gli eurocrati hanno usato abilmente la crisi finanziaria e sono attualmente fermamente al potere. L’opposizione è in genere debole e divisa, sfocata. Vi è, tuttavia,
un crescente sentimento patriottico e anti-UE tra la
gente comune. Nonostante l’uso di tattiche che alimentano la paura, alcune crepe nel sistema si stanno
manifestando, come ad esempio ciò che accade tra i
due partner principali del governo: i socialdemocratici e la coalizione nazionale. La gente è diventata sempre più critica verso il capitalismo globale e l’internazionalismo corporativo ma hanno ancora bisogno di
trovare una voce in politica.
2) Qual è l’attuale situazione politica in Finlandia?
Gli eurocrati hanno usato abilmente la crisi finanziaria e sono attualmente fermamente al potere. L’opposizione è in genere debole e divisa, sfocata. Vi è, tuttavia,
un crescente sentimento patriottico e anti-UE tra la
gente comune. Nonostante l’uso di tattiche che alimentano la paura, alcune crepe nel sistema si stanno
manifestando, come ad esempio ciò che accade tra i
due partner principali del governo: i socialdemocratici e la coalizione nazionale. La gente è diventata sempre più critica verso il capitalismo globale e l’internazionalismo corporativo ma hanno ancora bisogno di
trovare una voce in politica.
3) Come risponde la gioventù finlandese alle vostre idee
ed iniziative?
Recenti studi hanno dimostrato che nelle scuole finlandesi sta crescendo sempre più un sentimento nazionalista e la gioventù inizia ad essere sempre più
preparata nell’agire politico anche attraverso mezzi
legalmente discutibili. La nostra missione è quella di
ispirare e motivare ulteriormente i giovani finlandesi
a raccogliere la torcia della lotta per la causa nazionale. La nostra alternativa deve essere audace e stimolante. Vogliamo essere il megafono attraverso il quale
i giovani della nostra nazione possano esprime la loro
voglia di ribellione!
4) Come giudicate l’operato dell’Unione Europea?
Siamo contrari alla burocrazia attuale di Bruxelles.
Noi rifiutiamo le leggi dei banchieri internazionali.
Noi siamo per l’Europa delle patrie. Questo non significa che siamo contrari alla cooperazione europea,
al contrario. Ma deve essere organizzato sulla base di
comuni interessi nazionali e non anti-nazionali di ingegneria sociale e politico.
ci sono popoli e stati che cercano con tutte le forze di
resistere all’imperialismo e alla globalizzazione, come
giudicate queste lotte identitarie?
Ognuno di questi casi è diversa dall’altra ma con alcune cose in comune. Tuttavia riteniamo che ogni popolo su questo pianeta ha il diritto di autogovernarsi e
dovrebbe essere libero di sviluppare le propria società
a modo loro. Siamo fortemente contro l’imperialismo
americano in Medio Oriente e l’imperialismo cinese
in Africa. La Siria è in una situazione di guerra civile che è stata in gran parte provocata fuori dai suoi
confini da una coalizione di diversi gruppi di interesse. Siamo solidali con il popolo siriano che si oppone
all’intervento straniero negli affari nazionali e condanna gli ipocriti piagnistei strappa lacrime davanti
alle telecamere delle tv internazionali in cui si richiede
l’intervento militare straniero contro la Siria mentre i
loro alleati terroristi uccidono siriani ordinariamente
ogni giorno.
I palestinesi sono stati cacciati dalle loro terre e detenuti nei campi per decenni e Israele continua, con
l’appoggio degli Stati Uniti, a negare loro una vita senza occupazione militare. Naturalmente siamo solidali
con coloro che sono stati derubati della loro terra e
che lottano per riconquistarla.
Serbia e Ungheria stanno vivendo un esteso sentimento anti-UE, anti-globalista e questo ci porta gioia.
Possiamo solo sperare di promuovere una simile opposizione politica anche qui in Finlandia.
Venezuela e Argentina hanno resistito a lungo contro
l’imperialismo anglo-americano nel loro continente e
altri come Evo Moralez in Bolivia si è unito a loro. Il
Sud America è stato a lungo considerato come il cortile di casa degli USA dove hanno potuto fare i loro
sporchi giochi. Il Sud America ha bisogno di un vero
anti-imperialismo che resista allo sfruttamento straniero delle loro risorse e del lavoro. Alcuni dei socialisti in Sud America hanno un inutile atteggiamento
anti-europeo a causa della loro storia coloniale ma in
fondo non possiamo non considerarli come un importante anello nella catena della resistenza contro
l’imperialismo globale al capitalismo.
6) La Grecia è stata abbandonata al suo destino da questa Europa dei banchieri.Pensate che c’è ancora speranza di realizzare in futuro un’Europa diversa composta
da nazioni libere e da popoli solidali tra loro?
Come dice il proverbio la speranza è l’ultima a morire.
Nonostante le prospettive cupe qualcosa di nuovo può
5) Palestina e Siria in Medio Oriente, Serbia e Ungheria nascere solo dalle rovine e dalle ceneri di qualcosa che
in Europa, Argentina e Venezuela in Sud America ecc ci è stato in precedenza. Il quadro attuale è già andato
a pezzi mentre noi stiamo parlando. Ora dobbiamo
cercare di creare qualcosa di nuovo al suo posto. La
Grecia risalirà sopra le rovine ancora una volta è solo
una questione di tempo. Auguriamo ai greci di essere
forti nelle loro difficoltà.ù
7) Come sono i rapporti con il resto dei gruppi identitari in Scandinavia?
Musta Sydän è al fianco di tutti quei movimenti, gruppi e individui, che hanno il coraggio di pensare con
la propria testa, che hanno l’integrità di mantenere i
loro principi e che hanno il coraggio di lottare per un
domani migliore per i nostri popoli. Noi crediamo di
avere un atteggiamento positivo e ottimista perché il
futuro appartiene alle persone come noi.
Noi facciamo quello che vogliamo!
Grazie ancora ai miei compatrioti per questa interessante intervista. Vi auguriamo di riuscire a mantenere
sempre accesa la fiaccola dell’identitarismo di questa
nazione che tanto ha dato all’Europa durante l’ultimo
conflitto europeo. Ci si vede presto a Roma per confrontarci davanti a numerose birre su vecchie e nuove
tematiche.
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Gennaio/Febbraio 2014 – N. 7 - Associazione Culturale Zenit