CIVILTÀ DELLA MITTELEUROPA COLLANA DI STUDI E DOCUMENTI I TURCHI, GLI ASBURGO E L’ADRIATICO a cura di Gizella Nemeth e Adriano Papo Prefazione di Franco Cardini Postprefazione di Giuseppe Trebbi ASSOCIAZIONE CULTURALE ITALOUNGHERESE «PIER PAOLO VERGERIO» DUINO AURISINA 2007 MARIA PIA PEDANI UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA Il trionfo del silenzio. L’impero ottomano tra storiografia e politica Oltre venti anni fa moriva Alessio Bombaci (1914-1979), uno dei maggiori ottomanisti italiani del Novecento. Allievo di Luigi Bonelli (18651947), fu professore di turco all’Orientale di Napoli. Tra i suoi volumi si possono ricordare la Storia della letteratura turca (1956), aggiornata nel 1969, la corposa Storia dell’Impero Ottomano (1981), preparata assieme a Stanford J. Shaw, e, infine, i regesti della collezione Documenti Turchi, conservata presso l’Archivio di Stato di Venezia, che rimasero manoscritti sino al 1994, quando, dopo essere stati riordinati e completati, vennero infine editi1. Morto Bombaci la cattedra napoletana passò al suo allievo, Aldo Gallotta (1941-1997), autore di numerosi saggi di storia ottomana, per esempio sul Gazavatname di Hayreddin Barbarossa, sul principe Cem e sul mito oguz2. Nel frattempo a Roma il poliedrico Alessandro Bausani (19211988) interrompeva i suoi studi di arabo e persiano per occuparsi anche di storia ottomana, in particolare del portolano di Piri reis3. All’università di Venezia occupava allora la cattedra di «Storia del Vicino Oriente dall’avvento dell’Islam all’età contemporanea» il triestino Mario Grignaschi (1917-2000), profondo conoscitore del turco, che tradusse alcuni testi sulla caduta di Costantinopoli e scrisse anche importanti saggi su ahitname (capitolazioni) e tımar4. Questa era dunque la situazione della turcologia in 1 A. BOMBACI, Storia della letteratura turca dall’antico impero di Mongolia all’odierna Turchia, Milano 1956; A. BOMBACI, Storia della letteratura turca. Con un profilo della letteratura mongola, Milano 1969; A. BOMBACI – S.J. SHAW, L’Impero Ottomano, Torino 1981 (rist. 1991); I ‘Documenti Turchi’ dell’Archivio di Stato di Venezia, inventario della miscellanea a cura di M.P. Pedani Fabris, con l’edizione dei regesti di †Alessio Bombaci, Roma 1994. Cfr. anche Studia Turcologica memoriae Alexii Bombacii dicata, a cura di A. Gallotta – U. Marazzi, Napoli 1982. 2 Cfr. Turcica et Islamica. Studi in onore di Aldo Gallotta, a cura di U. Marazzi, Napoli 2003. 3 A. BAUSANI, L’Italia nel Kitab-i Bahriyye di Piri Reis, in «Il Veltro», XXIII, nn. 2-4, marzoagosto 1979, pp. 173-95 (nuova ed. a cura di L. Capezzone, Venezia 1990). Cfr. Un ricordo che non si spegne. Scritti di docenti e collaboratori dell’Istituto universitario orientale di Napoli in memoria di Alessandro Bausani, Napoli 1995; Yad-nama: in memoria di Alessandro Bausani, a cura di B. Scarcia Amoretti e L. Rostagno, Roma 1991. 4 M. GRIGNASCHI, Das osmanische tımar–Recht und der kanun Süleymans des Gesetzgebers, in Armağan. Festschrift für Andreas Tietze, Praha 1994, pp. 123-42. Cfr. Studi eurasiatici in onore di Mario Grignaschi, a cura di G. Bellingeri e G. Vercellin, Venezia 1988. 227 Italia intorno al 1979, anno fatidico per i destini del Medio Oriente, in cui venne siglata una pace separata tra Egitto e Israele, esplose la rivoluzione iraniana, Saddam Hussein prese il potere in Iraq, l’URSS invase l’Afghanistan e venne assaltata la moschea della Mecca, nel vano tentativo di abbattere il regime saudita. Si trattava dunque di un piccolo manipolo di storici che cercava di ravvivare la fiaccola degli studi ottomanistici in Italia5. Altrove la situazione non era migliore. Nei paesi arabi il periodo ottomano era visto come un’epoca di dominazione straniera, fonte solo di problemi per la popolazione locale6. Tale concezione perdurò nel tempo, nonostante qualche tentativo di rivisitare il passato con occhio critico, come le varie iniziative scientifiche portate avanti da Abdeljelil Temimi e dal Centro di studi ottomani da lui fondato in Tunisia7. In altri paesi un tempo ottomani, in Grecia, Bulgaria, Romania e, più a nord, in Jugoslavia e Ungheria, si scrivevano ancora libri che liquidavano secoli di dominazione ottomana in poche pagine, riservando invece lunghi capitoli ai regni medievali e ai pochi decenni delle guerre ottocentesche di indipendenza8. Nella stessa Turchia era ancora viva l’eredità culturale del padre della patria, Mustafa Kemal Atatürk, che vedeva nell’impero dei sultani solo lo stato che si era piegato all’Occidente e che ricercava nella storia e nella lingua degli antichi popoli turchi un modello, anche politico, di riferimento. Solo pochi studiosi amavano ancora soffermarsi sulla storia ottomana, fosse pure quella del periodo più splendido, cioè l’epoca di Solimano il Magnifico. Tra questi si possono citare İsmail H. Uzunçarşılı, che scrisse vari volumi di storia politica e delle istituzioni9, oppure M. Tayyıb Gökbilgin, che visitò 5 In quello stesso anno la rivista «Il Veltro» dedicò un numero monografico (XXIII, n. 2-4, marzo-agosto 1979) al tema Le relazioni tra l’Italia e la Turchia. Sullo sviluppo degli studi turcologici in Italia, cfr. M. SOYKUT, Tarihi Perspektifen İtalyan Şarkiyatçıları ve Türkologları, «Doğu Batı» (Ankara) V, n. 20 (ağustos, eylül, ekim-1 2002), pp. 41-82. 6 M. WINTER, Attitudes towards the Ottomans in Egyptians Historiography during the Ottoman Rule, in The Great Ottoman-Turkish Civilization, ed. by Kemal Çiçek, 4 voll., Ankara 2000, vol. 3, pp. 289-99. 7 «Centre d’Etudes et de recherches ottomanes, morisques, de documentation et d’information» (CEROMDI) di Zaghouan, poi «La Fondation Temimi pour la Recherche Scientifique et l’Information» di Tunisi. Voce di questo istituto è la rivista «Arab Historical Review for Ottoman Studies». 8 A. ZHELYAZKOVA, The Ottoman Heritage and the Complexities of the Balkan Historiographies, (Formation of Balkan Communities), in The Great Ottoman-Turkish Civilization cit., vol. 3, pp. 300-13; G. ÁGOSTON, Politics and Historiography: the Development of Turkish and Balkan Studies in Hungary and the Hungarian Research Institute in Istanbul, in The Turks, ed. by H. Celâl Güzel, C. Cem Oğuz, O. Karatay, 6 voll., Ankara 2002, vol. 4, pp. 708-14; I. THEOCHARIDES – T. STRAVRIDES, The Course of Ottoman Studies in Greece (an Overview), ibid., pp. 715-9. 9 İ.H. UZUNÇARŞILI, Osmanlı tarihi, 4 voll., Ankara 1982-1983 (1° ed. 1947-1959); İ.H. UZUNÇARŞILI, Osmanlı Devleti Teşkilâtından Kapukulu Ocakları, 2 voll., Ankara 1988 (1° ed. 228 anche l’Archivio di Stato di Venezia e vi raccolse copioso materiale, poi edito in vari articoli (e proprio in questa edizione di fonti va ricercato il motivo per cui Alessio Bombaci lasciò, incompiuti e in disordine, i regesti dei documenti veneziani)10. Un altro grande storico, Mehmet Fuad Köprülü, discendente da una famiglia di statisti e lui stesso uomo politico, si occupò invece soprattutto del periodo delle origini, volto a esaltare i primi conquistatori anche in contrapposizione alla civiltà bizantina, allineandosi in questo alle direttive di Atatürk11. In Europa la situazione era un po’ diversa. Esisteva già una scuola di studi ottomani, anche se compressa e limitata dalla forte personalità di uno dei suoi più insigni esponenti, Paul Wittek (1894-1978), padre-padrone di quasi tutti gli studiosi europei e americani che si cimentavano in questo campo. Le sue teorie non potevano essere messe in discussione. Per esempio quella di una prima espansione ottomana avvenuta solo per propagandare la fede (la cosiddetta “gazi theory”) fu controbattuta solo dopo la sua morte da alcuni allievi, o allievi di allievi, come Rudi Paul Lindner o Cemal Kafadar12. Proprio all’epoca di Wittek si devono dunque far risalire alcune idee preconcette sullo sviluppo storico dell’Impero Ottomano, che si trovano ancora ampiamente diffuse nei manuali e che, pur non resistendo alla prova di documenti successivamente scoperti, faticano ad essere accantonate13. Oltre alla teoria di una prima avanzata sull’onda dell’entusiasmo religioso, che non prende minimamente in considerazione il comportamento pragmatico di Osman e dei suoi successori, vi è per esempio l’idea che lo 1943); İ.H. UZUNÇARŞILI, Osmanlı Devletinin İlmiye Teşkilâtı, Ankara 1988 (1° ed. 1965); İ.H. UZUNÇARŞILI, Osmanlı Devletinin Merkez ve Bahriye Teşkilâtı, Ankara 1988 (1° ed. 1948); İ.H. UZUNÇARŞILI, Osmanlı Devletinin Saray Teşkilâtı, Ankara 1988 (1° ed. 1945). 10 M.T. GÖKBİLGİN, Venedik Devlet Aşivindeki vesikalar külliyatında kanunî Sultan Süleyman devri belgeleri, «Belgeler» (Ankara), I, n. 2 (1 temmuz 1964), pp. 119-220; M.T. GÖKBİLGİN, Venedik Devlet Aşivindeki Türkçe Belgeler kolleksiyonu ve Bizimle ilgili diğer Belgeler, «Belgeler» (Ankara), V-VIII, nn. 9-12 (1968-1971), pp. 1-151. 11 M.F. KÖPRÜLÜ, Alcune osservazioni intorno all’influenza delle istituzioni bizantine sulle istituzioni ottomane, Roma 1953. 12 C. HEYWOOD, Wittek and the Austrian Tradition, in «Journal of the Royal Asiatic Society» (London), 1988/1, pp. 7-25; C. HEYWOOD, Boundless Dreams of the Levant: Paul Wittek, the George-Kreis, and the Writing of Ottoman History, in «Journal of the Royal Asiatic Society» (London), 1989/1, pp. 30-50; C. HEYWOOD, The Frontier in Ottoman History, in Frontiers in Question, Eurasian Borderlands. 700-1700, ed. by D. Power – N. Standen, London-New York 1999, pp. 228-50; R.P. LINDNER, Nomads and Ottomans in Mediaeval Anatolia, Bloomington 1983; C. KAFADAR, Between two worlds. The Construction of the Ottoman State, Los Angeles-London 1995. 13 A. DAVUTOĞLU, The Place of the Ottomans in World History: Methodological Questions and a Reinterpretation of Ottoman History, in The Great Ottoman-Turkish Civilization cit., vol. 3, pp. 281-9; M.P. PEDANI, Breve storia dell’Impero Ottomano, Roma 2006, pp. 73-91. 229 sviluppo dell’Impero sia stato estremamente lineare, con un’ascesa sino al Cinquecento e una progressiva e inarrestabile decadenza fino allo sfacelo novecentesco. Si dimenticano così momenti di ripresa come il pareggio di bilancio raggiunto sotto i Köprülü, nella seconda metà del Seicento o la splendida ‘epoca dei Tulipani’ (1703-1730) quando i sultani rivaleggiavano con il re Sole. Al cosiddetto ‘sultanato delle donne’ (1566-1648), termine coniato dalla penna misogina dello storico del primo Novecento Ahmed Refik14, venne invece attribuita la causa di tutti i mali che afflissero lo stato ottomano in questa sua parabola discendente. In tal modo non si tiene conto che le donne della famiglia imperiale, nella loro funzione istituzionale di ‘protettrici della dinastia’ erano le detentrici il potere nei momenti di crisi, quando l’elemento maschile non era saldo e sedevano sul trono bambini o mentecatti. Costoro mantenevano solo la facciata dell’autorità, e delegavano l’esercizio effettivo del potere a madri, nonne, o anche a mogli o favorite, le quali, anche se in origine schiave, proprio per la loro vicinanza al sultano godevano di una nobiltà riflessa15. Al 1699 e alla pace di Karlowitz viene poi comunemente attribuito l’accoglimento da parte della Porta degli usi diplomatici europei, come l’invio di ambasciatori presso altre corti e le discussioni di trattati di pace lontano da Istanbul. Anche in questo caso la teoria non regge alla prova documentaria. Per esempio, il primo ambasciatore ottomano accreditato in Europa giunse a Venezia nel 1384 e centinaia d’altri lo seguirono, alcuni dei quali incaricati anche di segrete missioni di pace o di guerra16. Allo stesso modo le prime delimitazioni di confini non avvennero dopo Karlowitz, come molti sostengono ancor oggi, bensì già nella seconda metà del Quattrocento, per esempio in Morea o in Albania. Ciò che cambiò nel 1699-1702 fu la lunghezza della linea di confine che per la prima volta si assestò anche lungo le terre asburgiche, fino allora difese dal cosiddetto Militärgrenze, una fascia di terra frontaliera e non una linea confinaria17. Per molto tempo l’idea che gli ottomani si siano sempre disinteressati del commercio è stata un luogo comune tra gli storici, mentre fiorirono complesse economie urbane con scambi a livello locale, interregionale, e 14 AHMED REFİK, Kadınlar Saltanatı, İstanbul 2000 (1° ed. 1332/1913 o 1914). L.P. PEIRCE, The Imperial Harem. Women and Sovereignty in the Ottoman Empire, New York-Oxford 1993. 16 M.P. PEDANI, In nome del Gran Signore. Inviati ottomani a Venezia dalla caduta di Costantinopoli alla guerra di Candia, Venezia 1994. 17 M.P. PEDANI, Dalla frontiera al confine, Roma 2001. 15 230 anche internazionale, cui si dedicarono non solo cristiani o ebrei sudditi dell’Impero, ma anche musulmani18. In molti manuali di storia si insiste ancora sul dispotismo ottomano, confondendo i poteri attribuiti a un sultano califfo ottocentesco come Abdülhamid II con la minor possibilità di azione dei sovrani ottomani di secoli prima, molto più limitati dalla legge religiosa. Un grande sovrano come Solimano il Magnifico, conosciuto come il Legislatore (Kanunî), derivava il suo potere in questo campo dagli antichi khan turco-mongoli che usavano emettere yasak (per gli ottomani kanun, parola di derivazione greca, usata per indicare la legge del principe). La sciaria però manteneva un posto primario e il sovrano, almeno in teoria, poteva intervenire solamente nei casi di cui essa non si occupava. Al gran müfti di Istanbul (lo şeyhülislam) spettava il compito di controllare e impedire che kanun e sciaria entrassero in conflitto, come fece per esempio, con grande abilità, Ebussuud, che visse proprio alla fine del regno di Solimano. Quando i sultani cominciarono ad attribuirsi l’antico titolo di califfo la loro libertà d’azione, in campo religioso, andò aumentando. Anche nelle province l’autorità di un governatore ottomano non era assoluta, ma doveva tener conto dell’opinione pubblica e dei potentati locali cui il governo centrale assicurava il diritto di partecipare ai consigli di stato (divan provinciali) con potere non solo consultivo ma anche deliberativo, contrariamente a quanto avveniva nel divan di Istanbul. Le varie zone che appartenevano all’Impero non erano rette tutte allo stesso modo. La lontananza o vicinanza al cuore dello stato era un fattore determinante, assieme a modalità di conquista o a fattori di prestigio e di religione. Per esempio esistevano regioni e province governate da uomini incardinati nell’amministrazione centrale, come beylerbeyi e sancakbeyi, ai quali spettava il titolo di pascià. L’insoggiogabile Albania invece, dove era più difficile mantenere l’ordine e riscuotere le tasse, rientrava nel tesoro personale del sultano ed era quindi soggetta a un regime più blando. La Repubblica di Ragusa, importante porto sull’Adriatico, era nominalmente indipendente, anche se pagava un tributo annuo portato da ambasciatori che restavano come ostaggi per dodici mesi a Istanbul fino all’arrivo della delegazione successiva. Anche la Repubblica di Venezia usò pagare per le isole di Zante e Cipro una pensione annua al sultano il quale, in base al diritto islamico, ne conservava almeno nominalmente una specie di sovranità. La Valacchia, la Moldavia e la Transilvania furono amministrate a lungo come regni autonomi soggetti a tributo e governati da sovrani cristiani, 18 S. FAROQHI, Approaching Ottoman History, An Introduction to the Sources, Cambridge 1999, pp. 1-4. 231 nominati con il beneplacito di Istanbul. Erano terre cristiane e tali dovevano rimanere per cui era proibito, per esempio, costruirvi moschee19. Un simile regime era applicato alle tribù tatare di Crimea il cui khan, essendo musulmano, non era soggetto a tributi bensì doveva servire in armi con i suoi uomini nell’esercito del padişah. Infine lo sceriffo delle città sante di Mecca e Medina, delle quali il sultano si diceva servitore, offriva un avallo religioso e in cambio riceveva protezione e denaro con cui restaurare gli edifici e le vie del pellegrinaggio. L’appiattimento storiografico, così diffuso quando si parla di Impero Ottomano, porta spesso a confusioni e fraintendimenti come quelli che riguardano i millet, le minoranze protette, che non furono sempre uguali a se stessi, ma subirono un’evoluzione concettuale e istituzionale tra il Quattro e l’Ottocento. I poteri attribuiti a Gennadios da Maometto II e la comunità confessionale ortodossa da lui guidata erano diversi dal millet greco del Settecento, quando il patriarca era una sorta di funzionario statale che procedeva per strada scortato dai giannizzeri recanti due code di cavallo, simbolo ottomano della sua autorità. Da entità confessionali i millet si evolsero in gruppi etnici, o etnico-religiosi, e anche il potere dei capi cambiò nel corso dei secoli. Si fece sentire con forza in tale campo l’influenza della propaganda europea, che diffondeva, per motivi politici, l’idea dello statonazione. Tale ideologia, che spingeva le minoranze a creare nuove entità statali, fu deleteria per un impero che si proponeva come multi-etnico e multi-confessionale, pur sotto un sovrano turco e musulmano20. In generale la situazione della storiografia ottomanistica migliorò notevolmente con gli anni ’80 del Novecento. Non solo gli eredi di Wittek si sentirono liberi di affrontare i problemi storiografici secondo ottiche diverse, ma anche gli studiosi ebbero accesso più facile ai documenti. Fu nel 1982, quando la Repubblica turca cominciò a pensare alla possibilità di entrare a far parte dell’Unione Europea, che si iniziò a rivalutare il passato ottomano, quando il sovrano di un grande impero regnava su genti di varie etnie e religioni21. L’epoca del grande Solimano e il suo ideale di convivenza tra gruppi diversi divenne allora, da un punto di vista politico, un faro a cui ispirarsi per una costruenda società europea. Si aprirono gli archivi, contenenti tesori di carte accumulate per secoli da una burocrazia che amava annotare puntigliosamente tutto quanto avveniva. Ancora negli anni ’70 del 19 G. VEINSTEIN, Les provinces balkaniques (1606-1774), in Histoire de l’Empire Ottoman, sous la direction de R. Mantran, Paris 1989, pp. 287-340. 20 R.A. ABOU-EL-HAJ, Theorizing in Historical Writing Beyond the Nation-State Ottoman Society in the Middle Period, in Armağan cit., pp. 1-18. 21 S. YERASIMOS, L’ail et l’oignon. La Turquie à la recherche d’une identité plurielle, in Turchia oggi 1, a cura di G. Bellingeri, Venezia 2002, pp. 35-57. 232 Novecento gli impiegati delle anagrafi usavano scrivere in caratteri ormai latini i dati di persone destinate al servizio militare su antichi fogli che erano stati cominciati secoli prima, con i nomi dei loro antenati apposti in calligrafia araba. Non a caso, nella società nomade delle origini, il trono dei primi emiri era la cassapanca dove si custodivano le carte più preziose, così come in molte città dell’Europa cristiana, all’epoca delle cattedrali, le pergamene dello stato erano affidate ai tesori delle chiese. Negli anni ’80 si cominciò dunque a inventariare le carte che erano state accumulate in secoli di gestione statale e si affidò il lavoro a una generazione di nuovi archivisti, molti dei quali avevano studiato nelle scuole coraniche, le medrese, le uniche che ancora insegnavano a leggere l’alfabeto arabo. Fino ad allora erano state poche le iniziative culturali che avevano riguardato l’impero dei sultani fuori dalla Turchia. In Italia si può ricordare l’esposizione, del 1963 in occasione del II congresso di arte turca, con opere importanti provenienti da Istanbul, tra cui i ritratti di Maometto II attribuiti a Costanzo da Ferrara e a Sinan, quello di Hayreddin pascià/Barbarossa, assieme a tappeti, stoffe, ceramiche e armi oltre ad alcuni documenti imperiali provenienti dall’Archivio di Stato di Venezia22. Questi ultimi erano già stati esposti nel 1956 in una mostra organizzata dal Comune di Venezia, che non presentava però prestiti di opere provenienti dall’estero23. Fu dalla fine degli anni ’80 del Novecento che cominciarono a moltiplicarsi di mostre e altre iniziative volte a far conoscere la Turchia e la sua storia. In Italia nel 1985 uscì, per esempio, la traduzione di una guida ad alcuni archivi ottomani. Si tratta di un’opera bizzarra non solo in quanto di poca utilità per chi non sappia leggere i documenti ottomani, ma anche per la puntigliosa cura usata nel tradurre in italiano anche i titoli delle riviste turche (ma non di quelle inglesi): il risultato è quello di mettere in difficoltà lo studioso che solo dopo profonda meditazione riesce a intuire che un anonimo «Bollettino» è la famosa rivista «Belleten»24. Nel 1988 vennero organizzate invece delle mostre al British Museum25, e al Museo Nazionale di Tokyo26, mentre nel 1994 a Budapest venne presentata Nagy Szulejmán Szultán és 22 Esposizione di oggetti di arte turca e di «firmani» sultaniali, Venezia 1963. Cfr. anche Atti del secondo congresso internazionale di arte turca, Napoli 1965. 23 Firmani imperiali ottomani della Serenissima, Venezia 1956. 24 Guida degli archivi dell’Impero Ottomano conservati nell’Archivio della Presidenza del Consiglio dei Ministri della Turchia, Roma 1985. Al pasticcio si aggiungono alcuni errori di stampa, riguardanti numeri sbagliati e righe omesse o invertite, che rendono problematico l’uso dell’inventario anche a chi lo desiderasse (per es. p. 85, cfr. Başbakanlık Osmanlı Arşivi Rehberi, Ankara 1992, p. 144). 25 Süleyman the Magnificent, ed. by J.M. Rogers – R.M. Ward, London 1988. 26 The Splendour of Turkish Civilization. Ottoman Treasures of the Topkapi Palace, Tokyo 1988. 233 Kora27, e nel 1999 a Zagabria fu riproposta I tesori dell’arte ottomana che era già stata in Giappone28. Nel frattempo, nel 1989, ad Amsterdam, erano stati esposti al pubblico molti oggetti legati al mondo turco provenienti da collezioni olandesi29. Verso la fine del secolo scorso la Repubblica di Turchia approfittò dell’incertezza della datazione relativa all’inizio della storia ottomana per diluire in sette anni, dal 1995 al 2002, i festeggiamenti per il settecentesimo anniversario della fondazione dell’Impero: una moneta coniata da Osman rinvia infatti al 1295, mentre nel 1302 venne combattuta da greci e turchi la battaglia di Bafeo, come attesta una cronaca bizantina. In questa occasione le attività promosse dallo stato turco, come mostre, enciclopedie30 e numerose pubblicazioni, contribuirono ad allargare l’interesse per il mondo turco e ottomano e oggi, molto più di vent’anni fa, è facile imbattersi in manifestazioni che dimostrano quanto le reliquie di questa antica civiltà siano apprezzate da un vasto pubblico. Solo per trattare delle iniziative più recenti che riguardano l’Italia, si possono ricordare la mostra Vedute di Venezia ed Istanbul attraverso i secoli, tenutasi a Istanbul nel 1995, che presentava anche mappe e disegni del Museo Correr31, quella del dicembre 2003 – marzo 2004 From the Medicis to the Savoias: Ottoman Splendour in Florentine Palaces, organizzata sempre a Istanbul al Sakıp Sabancı Museum della Sabancı University con oggetti provenienti da vari musei fiorentini32. Nel 2006 vi furono poi una serie di iniziative collegate al progetto I Turchi in Europa, Civiltà a confronto, voluto da vari comuni del Friuli-Venezia Giulia e dalla provincia di Udine33 e, all’inizio del 2007, la mostra organizzata al Quirinale per festeggiare i 150 anni dell’apertura delle relazioni diplomatiche italo-turche: Turchia. 7000 anni di storia, con 27 Nagy Szulejmán Szultán és Kora (Kanunî Sultan Süleyman ve çağı), Budapest 1994. Dragocjenosti Otomanske Umjetnosti. 15-19 st. (The Treasures of the Ottoman Art 15th19th cent.), Zagreb 1999. 29 Topkapi & Turkomanie. Turks-Nederlandse ontmoetingen sinds 1600, onder redactie van H. Theunissen, A. Abelmann, W. Meulenkamp, Amsterdam 1989. 30 The Great Ottoman Turkish Civilization cit.; The Turks cit. 31 Yüzyıllar Boyunca Venedik ve İstanbul Görünümleri. Vedute di Venezia ed Istanbul attraverso i secoli, Istanbul 1995. 32 Dagli Uffizi, da Palazzo Pitti, dal Museo degli Argenti, dal Museo Nazionale del Bargello, dalla Galleria Mozzi-Bardini, Villa Cerreto Guidi e Museo della Caccia del Territorio di Firenze. 33 Oltre a una mostra d’arte a Palmanova (Venezia e Istanbul. Incontri, confronti e scambi, a cura di E. Concina, Udine 2006) sono state organizzate altre esibizione sull’architetto Sinan e sulle macchine da guerra ottomane e veneziane, sempre a Palmanova, una sull’assedio di Vienna a Pordenone, una sull’architetto friulano D’Aronco, che lavorò molto in Turchia, a Udine, una su ritratti di sultani a Trieste e una di arte contemporanea turca a Villa Manin di Passariano. 28 234 l’esposizione di opere provenienti non solo dal Museo del Palazzo di Topkapı, ma anche dal Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara, dal Museo Archeologico e dal Museo delle Arti Turche e Islamiche di Istanbul. Attorno a un nucleo di opere già esposte a Roma è stata poi allestita tra aprile e maggio 2007 a Napoli, a palazzo Reale, la mostra Anatolia e Turchia. 7000 anni di storia, curata da Louis Godart e Stefano De Caro. Nonostante una miglior conoscenza della storia ottomana, alcuni miti, costruiti nei secoli passati, sono difficili da superare. Emblematico appare quello relativo alla battaglia di Lepanto (1571). Quasi dimenticata dopo una fioritura di libelli e auto-celebrazione collettiva in Europa34, venne riscoperta nel 1866 quando Venezia entrò a far parte del regno d’Italia e i suoi patrioti vollero dimostrare di discendere da una stirpe di prodi. L’eco della battaglia fu poi utilizzata nel 1911-12, quando gli italiani decisero di dirigersi in armi verso la Libia, che era ancora territorio formalmente ottomano. Infine essa è citata ancora oggi, nell’era della globalizzazione imperante, quando la gente, per reazione, esprime una volontà di appaesamento e di riscoperta delle proprie origini35. L’Impero dei sultani, che pure è durato più a lungo di qualsiasi altro omologo europeo, viene spesso condannato all’oblio o al disprezzo. Si distruggono sistematicamente gli edifici che testimoniano quell’epoca e si dimentica che negli ordinamenti di alcuni stati mediorientali persistono elementi ottomani, soprattutto nel diritto di famiglia o nella regolamentazione della proprietà fondiaria. Nonostante la creazione degli stati nazionali la logica dei millet resiste ancora e l’esempio più eclatante è senz’altro la situazione istituzionale libanese. La guerra in Iraq ha abituato l’opinione pubblica a sentir parlare di curdi, sunniti, sciiti, e a confondere gli elementi etnici (curdi) con quelli religiosi (sunniti e sciiti), come si faceva due secoli fa36. Così ci si scandalizza di una politica oppressiva nei confronti delle minoranze, ma si sottovalutano altri episodi non meno tragici come, per esempio, l’attuale pulizia etnica di arabi e turcomanni nel nord-Iraq in mano ai curdi. Allo stesso modo si accantona il fatto che l’ideologia nazionalistica venne usata nell’Ottocento per scardinare un Impero che si autodefiniva multi-etnico mentre si applica, sia in Europa sia in America, un concetto di nazione che non fa riferimento all’etnia, a una religione o a un popolo idealizzato o mitizzato, bensì alla comunità di cittadini: cioè la nazione viene 34 A. STOURAITI, Costruendo un luogo della Memoria: Lepanto, in Meditando sull’evento di Lepanto. Odierne interpretazioni e memorie, a cura di M. Sbalchiero, Venezia 2004, pp. 3552. 35 A. GIOVAGNOLI, Storia e globalizzazione, Roma-Bari 2003. 36 O. ROY, Global Muslim. Le radici occidentali nel nuovo Islam, Milano 2003. 235 concepita dai vari governi occidentali, all’interno del loro territorio, come un’istituzione essenzialmente politica. Alcuni momenti storici sono oggi utilizzati in modo quasi esclusivamente politico, come per esempio la tragedia degli armeni, definita ‘massacro’ o ‘genocidio’, a seconda che la si guardi da un punto di vista o da un altro, dimenticando i terribili episodi che videro come vittime, nella medesima regione e nei medesimi anni, sia turchi musulmani sia turchi cristiani, di cui a stento oggi qualcuno si ricorda37. Non a caso venne di moda parlare di ‘genocidio degli armeni’ nel 1974, quando a Cipro vi fu un colpo di stato greco: il presidente Makarios fu costretto alla fuga, la Turchia intervenne a difesa della comunità turca e l’isola venne divisa in due entità separate. La stessa Francia, che nel 2006 varò una legge con cui si minacciano pene severe per coloro che avessero negato il genocidio degli armeni, cercò di obliare il proprio passato verso la fine 2005, con la legge sulla pubblica istruzione, che invitava i docenti a sottolineare gli aspetti positivi del colonialismo francese, fortemente voluta da quello che da pochi giorni è il nuovo inquilino dell’Eliseo. La prima reazione del parlamento di Ankara alle decisioni francesi del 2006 fu quella di porre all’ordine del giorno una nuova legge per condannare tutti coloro che avessero negato il genocidio degli algerini ad opera dei francesi. Allo stesso modo il problema del diritto di Israele sui territori palestinesi viene avallato anche con un discorso storico: si tratterebbe di un diritto derivante dagli antichi regni ebraici. Tale tesi però non tiene conto di secoli di dominazioni diverse, compresa quella romana, che si succedettero nell’area, e dimentica che i primi abitanti della ‘terra del latte e del miele’ furono i cananei, ai quali a loro volta altri, utilizzando in modo parallelo la storia, si fanno derivare38. Così è stato detto che in Europa sono state messe da parte le radici greco-romane per ripiegarsi solo su quelle giudaicocristiane, in modo da confrontarsi con il problema dello stato di Israele e, soprattutto, con l’Islam più radicale. Quest’ultimo, a sua volta, azzera secoli di dominazione ottomana per ricollegarsi ai due grandi imperi califfali, idealizzandoli e trasformandoli in un mito delle origini, appiattendo quell’antico passato nell’immagine di una società perfetta, al di fuori dal tempo, modello ideale su cui costruire il futuro. Il problema della conoscenza storica e della storiografia investe dunque non solo gli storici e il passato ottomano bensì anche la politica attuale, soprattutto quando si parla di Medio Oriente e di Occidente. 37 A fronte di una ricchissima bibliografia cito solo il recente M. FLORES, Il genocidio degli armeni, Bologna 2006, significativamente dedicato “Agli amici armeni e turchi”. 38 G. CORM, Il Vicino Oriente. Un montaggio irrisolvibile, Milano 2004. 236 Su certi argomenti appare dunque difficile discutere serenamente e con il distacco che l’indagine storiografica meriterebbe. Non a caso Qiao Liang e Wang Xiangsui, i due colonnelli cinesi teorici della nuova guerra asimmetrica in un mondo globalizzato, pongono la storia tra le risorse strategiche su cui un paese può contare39. Come scrisse George Orwell nel suo 1984: “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato.” 39 Q. LIANG e W. XIANGSUI, Guerre senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Gorizia 2001, p. 187. 237