Elvio Giuditta
Testimonianze araldiche al
Museo Civico Medievale di Bologna
2
Presentazione
Anche noi stessi, la gente di museo, che magari passa più volte al giorno per quelle solite sale, davanti a quei ben
noti rilievi, con una pratica d'ufficio sotto il braccio, se un visitatore ce lo chiedesse non sapremmo che rispondere.
Proprio come tutti (e cioè dal sindaco al vescovo, dal vigile urbano al bottegaio qui sotto) se qualcuno indicasse con
aria interrogativa uno dei mille stemmi che ancor oggi ci stanno sotto gli occhi (o sopra, più spesso) sui portoni dei
palazzi, presso gli altari d'ogni chiesa. L'araldica che conosciamo, invece, è un'altra: perché ognuno di noi indovina a
colpo sicuro il simbolo della Mercedes, e perfino il tridente della Maserati, e quasi ogni marchio di valigia, di
maglietta, di banana; per non dire di quello, onnipresente dall'Alaska alla Nuova Zelanda, che segnala panini rigonfi
di carne tritata irrorati di salsa rossastra. Di araldica, insomma, di questa preziosa disciplina che pur tanto ci aiuta
nella conoscenza della nostra storia, non sappiamo più nulla. E neppure ne abbiamo più il gusto: se, com'è vero, anche
le nostre istituzioni regionali, al momento di scegliersi uno stemma araldico, hanno pateticamente ripiegato piuttosto
su un logo, anche parecchio banale, visto ch'è una stilizzata raffigurazione della nostra carta geografica; peggio, cioè,
della bandiera di Cipro.
Ben venga, quindi, questa amorosa e puntuale fatica di Elvio Giuditta, che colma una lacuna non piccola delle
nostre collezioni, e del nostro scarso sapere. Per un museo come il nostro, tutto composto di cose medievali e
rinascimentali, questa erudita ma gradevole indagine storica si rivela di grande interesse. Mette il visitatore (e noi
stessi, come dicevo) in grado di leggere ciò che a fatica si decifra nelle iscrizioni latine in caratteri goticheggianti,
magari mutile; e si può leggere anche dove non c'è alcuna scritta, ma solo uno stemma. Ed è, anche, un punto di
partenza: perché ognuno, uscito dal museo, si ritrova gli stessi stemmi quasi in ogni cantone della città; e saprà almeno
in parte decifrarli, provando il gusto segreto ma colmo di soddisfazione che si attinge, in paesi esotici, quando si riesce
a leggere l'insegna d'un caffè o il nome d'una fermata della metropolitana in caratteri arabi o cirillici. Gli stemmi
araldici, che derivano da antiche bandiere di guerra e di contrada, da imprese familiari, da vexilla et insignia che
talora risalgono a ottocento anni fa, o più, oggi campeggiano e sventolano ancora: ma quasi solo sulle fiancate degli
autobus, come insegna del comune; e neppure i vigili urbani, da noi, ne fanno più uso.
Sopravvivono, talvolta, nelle curve degli stadi (proprio come la bandiera nazionale, e l'inno): la lupa di Roma, il
toro rampante di Torino, il giglio di Firenze, e poco altro. Capisco ch'è molto fuori moda; eppure non sarebbe un'idea
peregrina quella d'insegnarne qualcosa nelle scuole, o almeno nelle aule universitarie; e almeno qui da noi, in Italia, in
Europa, ove ogni città antica (tutte, cioè) mostra, agli occhi di chi passa, la memoria visiva d'una storia di famiglie che
fa tutt'uno con il passato della città, nelle glorie come nelle nefandezze, e cioè nella storia. Ora, con questo libro in
mano (e un altro ne vorremmo, sulla profluvie di stemmi che s'incontra nel nostro palazzo civico), possiamo percorrere
con occhio diverso, e più avvertito, le sale del museo: ove i sepolcri dei lettori di diritto (molti), le lapidi funerarie dei
guerrieri (poche: siamo a Bologna), le iscrizioni pubbliche, e i fregi, e i capitelli, e i fogli miniati delle corporazioni e
delle arti mostrano ovunque stemmi all'inglese, a cartoccio, inquartati, interzati e così via, con immagini simboliche
che ci diverranno sempre più familiari; i tanti nostri stemmi saranno così, per usare un'espressione araldica,
"parlanti"; e non rischieremo di confondere la rovere di papa Giulio 11 con la quercia d'un partito politico attuale,
magari.
Prof. Eugenio Riccòmini
Direttore del Museo Civico-Medievale di Bologna
3
INTRODUZIONE
Il visitatore avvertito ed in cerca d’emozioni, che s’inoltra per le strade della Bologna medievale,
attento a percepire il brusio dei secoli che promana dai rossi mattoni dei suoi vetusti edifici, troverà
poco lontano dalla cattedrale di S. Pietro, nella attuale Via Manzoni, ciò che cerca.
La strada che era una volta la parte iniziale della gloriosa via Galliera, è ingentilita sul lato
settentrionale da un portico quattrocentesco al termine del quale, nell’antico Palazzo Ghisilardi, ha
sede il Museo Civico Medievale. Il Museo, inaugurato nel 1985, non poteva trovare sede più degna,
poiché le sale espositive sono inserite in un contesto architettonico che, di per se stesso, è già un
pezzo di Medio Evo.
Quando il gran notaro e cancelliere dei Sedici, Bartolomeo Ghisellardi o Ghisilardi,(1) membro
influente del governo di Giovanni II Bentivoglio, decise di costruire nel 1474, l’edificio che da lui
piglia il nome, non immaginava certo la malasorte che gli sarebbe capitata 15 anni dopo averne
terminato la fabbrica. L’area era occupata da case più antiche appartenute alla famiglia Conoscenti,
vi era anche una Torre di difesa nota come Torre Conoscenti, ma che certo rimontava ad epoca più
lontana. (XI - XII sec.). Il manufatto venne inglobato nel palazzo la cui costruzione fu affidata ad
Egidio di Battista Montanari detto Zilio e naturalmente venne utilizzato diversamente dallo scopo
per cui era stata costruito. Il Notaro ne adibì una parte a camera da letto, ed era lì che dormiva la
notte in cui si verificò il gran terremoto del 1505 e per lo spavento provato, di lì a pochi giorni ne
morì.
La torre, ed in parte anche le case, erano sorte su di un edificio preesistente attestato sui blocchi
di selenite che formavano le mura della Bologna altomedievale. Tali vestigia, convenientemente
messe in luce nei recenti restauri per la sistemazione dei locali da adibire a sale espositive,
accentuano ancor più il carattere peculiare della raccolta museale, dando all’insieme un particolare e
suggestivo fascino.
Il nucleo originale del museo si compone degli oggetti provenienti dal Museo Barocco del
marchese Cospi (2) e dalla collezione cinquecentesca donata da Ulisse Aldrovandi (3) al Comune di
Bologna.
A questi oggetti si aggiunsero poi nel tempo raccolte di vetri, maioliche, avori, armi, sigilli frutto
di donazioni private. Tutto questo materiale fino a qualche decennio fa era conservato presso il
Museo Civico. Successivamente si è avvertita la necessità di fare in modo che, attraverso un
corretto itinerario espositivo, si potesse ripercorrere lo sviluppo della Bologna medievale. Di lì
l’idea di un museo che, per la
razionalità e modernità dei criteri a cui si ispira, si pone
all’avanguardia delle iniziative del genere.
4
Nell’adiacente via di Porta di Castello dove una volta si trovava la casa dei Conoscenti, è stato
poi allestito un altro spazio espositivo organicamente collegato con Palazzo Ghisilardi, ma con
ingresso autonomo, dove ha trovato la sua sede definitiva il LAPIDARIO un tempo sistemato
altrove in modo precario. Questa sezione contiene una importante raccolta di lapidi e cippi di epoca
medievale e rinascimentale.
Tutte le varie sezioni su cui si articola il museo sono particolarmente ricche di rappresentazioni
araldiche; tuttavia questo materiale, se per un verso è stato oggetto di studi approfonditi dal punta
di vista storico, artistico ed epigrafico, non altrettanto si può dire per quanto riguarda l’araldica.
La carenza non è più accettabile poiché tale disciplina oggi si pone con pari dignità, accanto a
tutte le altre scienze ausiliarie della storia ed assieme ad esse concorre ad una lettura più esaustiva,
di ogni cimelio, reperto o monumento in cui è presente l’elemento araldico.
Certo spesso, le ingiurie degli uomini e del tempo che ha subito questo materiale giunto fino a
noi, ne rendono difficile e a volte impossibile la lettura, talché ogni ipotesi è suscettibile di revisione
e di critiche, ma è altrettanto certo che l’indagine araldica può condurre ad una migliore e più esatta
interpretazione di qualsivoglia reperto archeologico oggetto della nostra osservazione.
Il nostro vuole essere appunto un tentativo, se pur modesto, di colmare la lacuna là dove
possibile; a tal fine, seguendo l’itinerario espositivo del museo così come è stato articolato, sono
stati presi in esame tutti gli stemmi incisi, dipinti o scolpiti sugli oggetti ed il materiale archeologico
presente nel museo, dando la descrizione di quelli noti, tentando l’identificazione di quelli anonimi
o di provenienza ignota, mettendo in risalto, là dove sono presenti le peculiarità araldiche.
Purtroppo su vari monumenti, per odio ideologico, si esercitò il genio distruttivo degli scalpellini
giacobini che si accanirono in epoca napoleonica, con lena degna di miglior causa, a distruggere
ogni rappresentazione araldica ovunque era presente; privando così l’indagine storica di
significativi documenti sotto il profilo sia politico che storico artistico.
In questi casi si è cercato di descrivere avvalendosi di altre fonti araldiche, quello che era
l’aspetto originale prima della furia iconoclasta, soprattutto ricorrendo ai disegni di Marcello Oretti,
grande figura di erudito Bolognese del XVIII secolo che ci ha lasciato nei suoi manoscritti numerosi
disegni dei monumenti sepolcrali da lui eseguiti prima che gli stemmi venissero erasi.
Va tuttavia detto che la fonte, se pur preziosa, non può dirsi scrupolosamente esatta, carente
com’è di alcuni dettagli in certi casi, di aggiunte in altri, secondo una interpretazione personale del
monumento disegnato, ma che, dal punto di vista araldico, tutto ciò non porta a conclusioni errate.
[ 1 ] GHISILARDI, Arma: “Interzato in fascia, nel primo d’argento, nel secondo d’oro a tre
bande d’azzurro, nel terzo di rosso”.
Antica famiglia bolognese di cui un Graziadio faceva parte nel 1292 del consiglio degli 800, nel 1347 Bartolino faceva parte del
Consiglio costituitosi in città in seguito alla morte di Taddeo Pepoli signore di Bologna. Stefano nel 1393 fu ambasciatore dei
bolognesi per trattare la pace con Firenze, nel 1412 era Tribuno della plebe e dei 16 riformatori dello Stato di Libertà. Quando Papa
5
Eugenio IV soppresse questa magistratura, il nostro entrò a far parte del consiglio dei 20. Altro personaggio di spicco fu Nicolò di
Stefano dottore in legge che eseguì diverse ambascerie a Roma, Firenze, Milano, Venezia, per conto dei bolognesi. Altri fecero parte
degli Anziani, altri ancora si distinsero nelle armi. La famiglia si estinse nella seconda metà del XVI secolo nella famiglia Musotti
quando Antonio venne adottato da Bartolomeo Ghisilardi in seguito alla morte del proprio figlio Ludovico, ereditando anche la dignità
senatoria dei Ghisilardi.
[ 2 ] COSPI FERDINANDO : nasce a Bologna nel 1606 da Costanza dei Medici e da Vincenzo; a otto anni viene nominato paggio
del granduca di Toscana Cosimo II e nel 1616 entra a far parte nell’ordine dei Cavalieri di S. Stefano. Conduce vita brillante presso la
Corte medicea fino al 1624 epoca in cui, in seguito alla morte del padre, rientra a Bologna dove diviene rappresentante del Granducato
di Toscana. Nel 1648 ottiene il titolo di Marchese di Petriolo, nel 1660 viene investito della dignità senatoria e nel 1665 diviene per la
prima volta Gonfaloniere di Giustizia.
Nel 1660 dona al Senato Bolognese il museo di storia naturale e di oggetti archeologici da lui messi insieme. Il museo
venne poi dato all’istituto delle scienze nel 1743 per poi passare al Museo Civico archeologico nel 1871. Il Marchese Cospi morì a
Bologna nel 1686. ARMA :
“D’Oro alla banda d’Azzurro accompagnata in capo da un monte di tre cime di rosso”.
Famiglia forse di origine Toscana stando a quanto asserisce il Dolfi, ma certamente di estrazione popolare. Comunque i suoi
membri fecero parte del consiglio degli Anziani sin dal 1301. I Cospi cresciuti in ricchezza e potenza parteciparono ininterrottamente
alle vicende politiche della città occupando le cariche di Gonfalonieri di Giustizia, Ambasciatori, Riformatori ecc. Nel 1506 Tommaso
di Girolamo divenne uno dei 40 senatori nominati da Papa Giulio II per governare Bologna dopo la definitiva cacciata dei Bentivoglio.
La carica senatoriale si tramandò ininterrottamente nella famiglia fino a Ferdinando.
[ 3 ] ALDROVANDI ULISSE : famoso erudito Bolognese, nacque a Bologna nel 1522. Dopo una gioventù avventurosa
e numerosi vagabondaggi conseguì la laurea in Filosofia e Medicina nel 1553 presso l’università della sua città. Nel 1555 ottenne la
cattedra di filosofia naturale presso lo stesso ateneo. Nel 1568 fu poi nominato direttore del Giardino dei Semplici (orto botanico)
bolognese. Nel 1601 abbandona l’insegnamento pur restando direttore del Giardino, per dedicarsi al riordino e alla pubblicazione
dei suoi lavori che riguardano le più svariate discipline; solo una parte dei suoi numerosissimi lavori viene data alla stampa. Muore
nel 1605 lasciando in eredità al Comune di Bologna la sua ricca raccolta museale da lui messa insieme compresi i suoi libri ed i suoi
manoscritti. ARMA :
“D’Azzurro alla fascia d’Oro accompagnata in capo da una rosa ed in punta da un capriolo dello
stesso”, alias : “Inquartato, nel 1° e 4° d’azzurro caricato da uan treccia d’oror, nel 2° e 3° pacato
d’argento e di rosso”.
Antica famiglia bolognese di cui si ha notizia dal 1257 con un Buonagrazia che faceva parte del consiglio degli Anziani. Da
allora ben altri undici suoi membri fecero parte di quella magistratura, Bonaccorso nel 1295 era del Consiglio dei Savi e nel 1430
Giacomo Cavaliere Guadente divenne generale di tale ordine militare. Giovan Francesco nel 1483 fu podestà di Lucca e cinque anni
dopo di Firenze, nel 1506 faceva parte dei quaranta senatori creati da Giulio II presso il quale venne inviato come ambasciatore. Nel
1586 il duca di Ferrara investì della Contea di Guia, Ercole Di Filippo. Infine Pompeo Cardinale di S.R.C. nel conclave del 1740
contese la tiara per lungo tempo al favorito Cardinal Lambertini (Gregorio XIV).
6
7
Tav. I fig.1 Lo stemma Ghisilardi scolpito su di un mensolone in macigno posto
nell’atri del palazzo
8
IL COMUNE DI BOLOGNA
Per una migliore comprensione sia del materiale esaminato, che dell’opera e delle funzioni dei
personaggi ad esso collegati, riteniamo opportuno dare un breve cenno storico del Comune di
Bologna e del suo ordinamento costituzionale. Il Comune sorge a Bologna come di improvviso nel
1116. Fino al 1096, in piena lotta per le investiture, Bologna resta sotto l’influenza di Ravenna
schierata con l’Impero. Ma con il ritorno della città all’ortodossia essa si stacca definitivamente da
Ravenna: inizia così lo sviluppo economico e risorge la vita associata; il sistema feudale su cui fino
ad allora si era retta la città si sfalda, sorgono nuovi raggruppamenti sociali dediti soprattutto ad
attività commerciali che in breve diventeranno i protagonisti della vita politica assieme ai gruppi
residui del vecchio regime feudale. La città si schiera definitivamente con il Papato di Roma mentre
la Diocesi di Bologna si stacca una volta per tutte da Ravenna, nasce lo Studio e con Irnerio la
Scuola di Diritto estende rapidamente la sua fama in tutta Europa. Tutte queste circostanze
concorrono favorevolmente allo sviluppo di un nuovo soggetto politico che sta per sorgere: i vecchi
Conti di Bologna perdono ogni effettivo potere e con la distruzione del Palazzo Imperiale avvenuta
nel 1095 scompaiono definitivamente dalla scena politica. L’Imperatore Enrico V sceso in Italia
per incamerare i beni di Matilde di Canossa concede nel 1116 al popolo bolognese il perdono per
la distruzione del palazzo ed un diploma di privilegi riguardanti la libertà dei commerci, il
riconoscimento delle proprietà comuni, l’esenzione da molte gabelle. Questo atto segna la nascita
della nuova organizzazione politica: il COMUNE.
Il primo documento della nuova entità politica risale però al 1123 dove il popolo bolognese
ha come rappresentanti i Consoli che sono in numero di quattro ( uno per ogni quartiere ). Il
governo consolare continua certamente fino al 1151 quando la reggenza della città viene assunta da
un Podestà, il reggiano Guido da Sasso; a ciò si arriva probabilmente in seguito a contrasti insorti
tra i componenti del gruppo dirigente. Al Podestà furono affiancati 4 dottori dello Studio:
BULGARO, JACOPO, MARTINO GOSIA, UGO.
Più tardi vi fu un ritorno dei Consoli e un nuovo
organo costituzionale il “CONSILIUM” composto in un primo tempo di 48 consiglieri provenienti
dai nobili, dai causidici e da alcuni rappresentanti delle classi popolari: commercianti ed artigiani.
Nel 1172 si ritornò alla nomina di un Podestà ma questa volta forestiero, tale tipo di reggimento
continuò con alterne vicende fino al 1228 allorché i bolognesi si ribellarono in armi al podestà
Umberto Visconti ed ottennero di partecipare al governo della città con rappresentanti scelti tra i
capi delle “Società delle Arti” e “delle Armi” Così a far parte del governo di Bologna entrarono 24
rappresentanti del popolo (6 per quartiere) che presero il nome di “ANZIANI”. Questa magistratura
andò sempre più crescendo di importanza ed il numero dei suoi membri variò nel tempo fino a
9
quando nel 1377 il loro numero fu fissato in nove compreso il Gonfaloniere di Giustizia e tale
rimase invariato fino a quando non fu soppressa.
Gli Anziani Consoli, così come si fecero chiamare, duravano in carica due mesi e non
potevano essere rieletti che dopo tre anni, inoltre ogni famiglia non poteva avere nel consiglio degli
Anziani più di un rappresentane ( questa regola però non venne sempre osservata).
Gli organi che regolavano il Comune bolognese erano i “CONSIGLI”
che erano in
numero di tre:
1) Il CONSIGLIO GENERALE O DEL POPOLO O DEI 4000, a cui partecipavano tutti i cittadini
dai 20 ai 70 anni e che si riuniva una volta all’anno. Esso fu istituito dopo l’insurrezione del 1279 e
si collocò accanto al preesistente:
CONSIGLIO SPECIALE O DEI 600 O DEI 400,
a cui partecipavano i cittadini dai 25 anni in poi
e che veniva riunito frequentemente al suono della “Campana degli Anziani”.
2) Il CONSIGLIO DI CREDENZA, composto dagli Anziani, dal Gonfaloniere di Giustizia, dai
“Tribuni della Plebe” e dai “Massari delle arti”.
3) Nel 1393 vennero poi eletti dal consiglio dei 600 e da quello di Credenza
“RIFORMATORI DELLO STATO DI LIBERTÀ O SENATORI”
i
in numero di 16.
In realtà quello bolognese, pur appellandosi al popolo fu un regime oligarchico tenuto
saldamente nelle mani di quel ceto aristocratico e mercantile che fin dall’inizio aveva preso le redini
del potere. Tra le Società delle Arti più influente era quella dei ricchi mercanti che deteneva le leve
del potere economico: i “MERCATORES”, ed i “CAMPSORES” ( cambiatori di monete, poi veri e
propri banchieri).Questi pur essendo di origine popolare, vivevano attraverso i loro consoli, in
intimità di rapporti con le consorterie nobili, e spesso nelle lotte tra questi ultimi e il popolo nel
periodo podestarile, assumevano un atteggiamento piuttosto oscillante.
Peraltro sotto la dizione “POPULUS” erano compresi i maestri artigiani, i piccoli
commercianti, i professionisti quali notai, medici, giurisperiti, tutti quelli cioè organizzati in
corporazioni di mestieri (Arti) o di quartiere (Armi), da queste organizzazioni erano esclusi i
lavoratori dipendenti o le altre categorie più deboli; essi non facevano parte del “popolo”, ed erano
esclusi dai diritti politici e dagli uffici.
Al di là delle formulazioni di principio, il Comune di Bologna (ma anche delle altre città
dell’Italia centrosettentrionale) più che uno stato fu una federazione di associazioni in parte
corporative, in parte familiari che fatalmente doveva sfociare nella soluzione signorile.
Quando la città venne incamerata nello stato pontificio, fu il Senato, voluto da Giulio II a
eleggere il Consiglio degli Anziani che persero così ogni potere e Bologna cadde nelle mani di una
oligarchia senatoria del tutto asservita all’autorità papale.
10
Finché Bologna fu libero comune, l’Anzianato rappresentava il potere esecutivo; essi
eleggevano il Podestà, il Capitano del popolo, i Sindaci, arruolavano milizie per la difesa e molto
spesso le guidavano in battaglia. Sotto il regime della Chiesa tutte queste funzioni decaddero, ne
rimasero solo alcune di secondaria importanza, la carica assunse un carattere pressoché onorifico e
quella che era stata una istituzione specificatamente caratterizzante l’ordinamento comunale finì
con l’essere un privilegio di famiglie patrizie con ricche rendite onde potersi permettere il lusso e lo
sfarzo che tale carica comportava.
11
L E A R C H E
D E I
D O T T O R I
12
Nella cosiddetta sala delle Arche del museo, sono conservati alcuni monumenti funebri: le
arche degli antichi Dottori dello Studio Bolognese. Di queste, quattro sono ancora in ottimo stato di
conservazione mentre che della quinta si sono salvati solo dei frammenti. Queste tombe per la loro
bellezza e grandiosità, sono paragonabili solo a quelle dei grandi personaggi del tempo: sovrani,
principi, grandi feudatari. Esse sono lì a testimoniare l’importanza di questa casta intellettuale che
esercitò una incontrastata influenza sia culturale che politica nella Bologna medievale e che non
trova riscontro in nessun’altra realtà dell’epoca. Nel conflitto tra Impero e Papato, fin dal tempo
delle investiture, i due contendenti cercarono di trovare supporti alle loro pretese, così mentre la
Chiesa trovò il suo punto d’appoggio nei Vangeli per affermare il suo primato, l’Impero cercò
sostegno alle sue tesi nel diritto romano. Era quindi naturale che gli imperatori sollecitassero gli
studi di diritto onde trarre conferma e giustificazione della loro autorità. E fu appunto merito dei
“GLOSSATORI “
dello Studio Bolognese se, con la riscoperta e l’interpretazione del Digesto
Giustinianeo, di cui si era trovata una versione scritta in Italia verso il VI secolo, fu possibile gettare
le basi dottrinarie del diritto comune. Si creò così una aristocrazia di specialisti di autorità
indiscussa, categoria che si scisse poi in due branche: Gli esperti di giurisprudenza al servizio dello
stato: “JUDICES” o Causidici ed i “DOCTORES LEGIS” cioè i maestri che insegnavano il Diritto. Ma
lo studio del Diritto servì anche allo sviluppo politico- sociale dello stato oltre che del suo
ordinamento. Alla Dieta di Roncaglia del 1158 chi trattò per conto dei Comuni con Federico
Imperatore furono proprio i quattro più famosi dottori dello Studio: BULGARO, UGO di ALBERICO
di Porta Ravegnana, MARTINO GOSIA e GIACOMO, a loro volta discepoli di quell’Irnerio che a
buon diritto è considerato il fondatore della scuola giuridica pubblica Bolognese. L’insegnamento
sorse e si sviluppò in forma privata ed il primo grande maestro fu PEPONE presente a Bologna tra il
1072 - 1076. Con IRNERIO poi la scuola raggiunse fama e considerazione in tutta Europa
richiamando in città studenti di tutte le nazioni e contribuendo così al rapido sviluppo economico e
sociale della città. Lo STUDIO divenne allora un’istituzione pubblica riconosciuta dal Comune e
l’insegnante iniziò a percepire uno stipendio fisso. Bologna non fu solamente un centro di studi
giuridici per così dire laico; accanto al diritto romano sorse e si sviluppò una scuola di Diritto
Canonico con Graziano che fu contemporaneo dei dottori che succedettero ad Irnerio. Questa
seconda scuola che si appoggiava alle autorità ecclesiastiche, si affiancò degnamente a quella di
diritto romano. Così Bologna divenne centro di cultura laica ed ecclesiastica insieme. A partire da
Alessandro III la città mantenne un rapporto ideale non più solamente con l’imperatore ma anche
con la Chiesa, anzi con quest’ultima tale rapporto finì col prevalere. Non per nulla Onorio III nel
1219 diede all’Arcidiacono della cattedrale di Bologna l’autorità di concedere il dottorato agli
alunni più meritevoli. Tutto ciò dà la misura di quanta importanza avesse la figura del legista nella
13
comunità Bolognese. Era naturale quindi che i dottori venissero riveriti e osannati in vita con onori
e ricchezze ed in morte con fastosi monumenti sepolcrali. Di questi sepolcri che esaltano la
professione del maestro ne restano in città ventotto, alcuni ancora situati là dove furono innalzati, a
forma di p piramide, simbolo di fama imperitura. Quelli conservati nel museo provengono invece
dalle aree cimiteriali degli antichi conventi cittadini attualmente scomparsi. Delle quattro arche
meglio conservate del museo, in una sola, quella di Carlo dei Saliceti, gli elementi araldici sono
giunti intatti fino a noi. I soliti scalpellatori rivoluzionari hanno provveduto a cancellare
accuratamente gli stemmi presenti nelle altre, privandoci così di importanti documenti storici. Dal
punto di vista araldico quest’Arca che risale alla prima metà del XV secolo, segna il passaggio dal
periodo gotico a quello rinascimentale, quando il semplice scudo gotico venne sostituito dalla
“TARGA”
con ricchi e abbondanti ornamenti esterni. Il maestro lapicida ha avuto così modo di
esprimere al meglio le sue capacità artistiche creando un autentico capolavoro. Non va sottaciuto
infine, la felice disposizione dei monumenti che si trovano nella sala: le due bellissime Arche dei
Saliceti fanno da contraltare a quel capolavoro architettonico che è l’Arca di Giovanni di Andrea il
famoso canonista morto nel 1348, ed assieme ai frammenti dell’arca di Giovanni da Lignano,
creano una atmosfera di sereno equilibrio e infondono nel visitatore una appagante sensazione di
bellezza
14
FRAMMENTI DELL’ARCA DI GIOVANNI DA LIGNANO
L’Arca di Giovanni da Lignano fu commissionata, a quanto sostiene il Vasari, mentre il
canonista era ancora in vita, ai fratelli veneziani Jacopo e Pietro-Paolo delle Masegne. Il mausoleo
si trovava nella chiesa di S: Domenico dove la sua salma fu accompagnata da tutto il popolo con i
suoi più autorevoli rappresentanti il 16 febbraio 1383, quando l’illustre personaggio morì, con ogni
probabilità, colpito dalla peste. Purtroppo del monumento si sono salvati solo
i frammenti
conservati nel museo e tuttavia anche da essi è possibile apprezzarne la magistrale esecuzione che
denota la mano di un grande artista. Il pezzo più importante è quello che doveva essere la parte
anteriore del sarcofago: vi è al centro, ben visibile, una iscrizione in caratteri gotici moderni che
rammenta, esaltandola, la figura del defunto con ai lati i due stemmi.
L’altro frammento è una formella su cui è scolpito lo stesso stemma posto in un riquadro
polilobato finemente lavorato. Lo stemma scolpito è un troncato, nel primo è rappresentato un
leopardo passante, nel secondo un albero sradicato. Da notare
però che , in tutti gli stemmari
bolognesi, sia a stampa che manoscritti ma di epoca posteriore all’arca, l’Arma dei Legnani è un
interzato in fascia e cioè,
“nel primo d’oro all’aquila spiegata e coronata di nero, nel secondo di rosso al leopardo
passante d’oro, nel terzo d’argento all’albero sradicato al naturale”.
Alle volte l’albero viene raffigurato come un ramo di corallo al naturale. In realtà la prima
fascia (l’aquila di nero in campo d’oro) è stata aggiunta successivamente come si deduce
chiaramente dall’Arma scolpita sui frammenti ed è probabile che si tratti del cosiddetto “Capo
dell’Impero”.
Giovanni era della stirpe degli Oldredi signori di Legnano, Legnanello e Cerri in Lombardia
e secondo alcuni la famiglia era originaria della Francia. Giovanni figlio di Girolamo sembra che sia
nato intorno al 1320 nel milanese, come lui stesso dichiara. E’ probabile che egli si sia trasferito a
Bologna mosso da uno specifico interesse di carattere culturale data la fama di cui godeva lo Studio
bolognese nel campo del diritto. Il trasferimento avvenne quasi certamente intorno al 1350 quando
lui ottiene un incarico di “ Lettore” come risulta da un mandato di pagamento emesso dallo Studio
in suo favore quale Lettore proprio nel 1350. Nell’aprile dell’anno successivo veniva nominato
dottore in diritto canonico. Inizia così una brillante carriera che lo vede già nel 1352 Lettore
stipendiato di Decretali e ascoltato consigliere giuridico. Nel frattempo pubblica numerosi trattati
sostenendo la liceità del potere temporale della Chiesa. Nel 1358 Carlo IV di Boemia lo crea Conte
Palatino e Gregorio XI di cui è stimato collaboratore, lo designa quale vicario papale per Bologna
nel 1377, carica che gli venne confermata da Urbano VI successore di Gregorio e da lui tenuta fino
al 1381. In questi anni oltre all’intensa attività politica pubblica una serie di importanti lavori
15
giuridici tutti a sostegno della Chiesa. Allo scadere del mandato il Papa provvede al suo reincarico
ancora per un anno ma nel febbraio dell’anno successivo veniva a morte. La figura di questo
famoso canonista campeggia a tutto tondo nella storia dello Studio di Bologna ed il suo ricordo era
destinato a continuare nel tempo. Da lui ebbe origine il ceppo dei Legnani bolognesi che furono
insigniti del titolo di Marchese prima e Conte poi. Il ramo si estinse con il Conte Girolamo Oldredo
di Filippo Andrea morto nel 1805.
ARCA DI CARLO ROBERTO E RICCARDO SALICETO
L’Arca fu eretta per volere di Carlo in memoria del nonno Roberto, “Lettore e Cavaliere“ e
del bisnonno Riccardo, famoso Canonista. Il monumento che trovavasi nella Chiesa di S. Martino
fu terminato nel 1403 e mostra chiaramente motivi architettonici veneziani derivanti anche questi
dai maestri Lapidici veneti noti come “delle Masegne” attivi a Bologna dal 1386. Il monumento di
stile tardo Gotico reca scolpito sui due lati corti del sarcofago l’Arma Saliceti che era:
“D’Azzurro al salice sradicato di tre rami ciascuno di quattro foglie il tutto di verde ed il
Capo d’Angiò”.
Particolare interessante l’Arma è ornata con due diversi cimieri: uno con due leoni uscenti,
l’altro un drago uscente che si addenta il corpo. I Saliceti o Da Saliceto erano di origine feudale ma
per partecipare alla vita politica cittadina nel 1228 si iscrissero tra i “popolani” e si schierarono con
la fazione capeggiata dai Geremei; a seguito delle lotte tra fazioni furono costretti ad abbandonare
la città ma nel 1299 ritornarono a Bologna. Successivamente alcuni suoi membri si schierarono con
i sostenitori dei Visconti signori di Milano che avevano comprato la città dai Pepoli, Nella famiglia
ci furono 80 “Anziani” a partire dal 1282 fino al 1746. I Saliceti possedevano una torre nel cuore
della città di cui rimane ancora un troncone. Ma la fama del casato è affidata soprattutto a quattro
famosi legisti che si succedettero lungo tutto il XIV secolo fino ai primi anni del secolo XV . Il più
antico fu Riccardo di Pietro bisnonno di Carlo, egli fu ambasciatore nel 1336 al re Roberto di
Napoli per conto del Comune, poi al pontefice Gregorio XI, fu poi insegnante di diritto canonico a
Padova. Suo figlio Roberto dottore in legge famoso, fu chiamato ad insegnare a Venezia.
Bartolomeo di Giacomo nipote di Riccardo, insegnò diritto prima a Bologna dove però venne
allontanato dal Legato Anglico di Grimoard nel 1370, passò poi a Padova dove rimase 4 anni per
ritornare poi a Bologna. Quando iniziò lo Scisma d’Occidente fu tra i giuristi che si schierarono con
Urbano VI , ma nel 1390 fu ancora una volta costretto ad allontanarsi da Bologna e rifugiarsi a
Ferrara. Riottenuta la cattedra bolognese fu di nuovo costretto a emigrare a Padova quando la
fazione dei Maltraversi a cui apparteneva, risultò soccombente. Ritornando a Bologna insegnò
ancora nell’ateneo per sei anni. Morì nel 1412 e fu sepolto nel chiostro di S. Domenico. La sua Arca
16
opera di Andrea da Fiesole, trovasi nella sala. Suo figlio Giacomo fu insegnante di Diritto nello
Studio sin dal 1387 vivente suo padre, poi passò a Padova per poi ritornare a Bologna nel 1403.
Partecipò anche lui alla vita politica e fu più volte degli Anziani, fu anche ambasciatore a Mantova,
ed ai Papi Giovanni XXII e Bonifacio IX, morì nel 1418.
LA PIETRA DELLA PACE
Non si rimpiangerà mai troppo lo scempio fatto della documentazione araldica che caratterizzava
questo straordinario documento dovuto alla mano di un ignoto maestro. La pietra celebra l’avvenuta
riconciliazione tra il Comune di Bologna e le organizzazioni studentesche dopo un lungo periodo di
lotte e di controversie che avevano messo in forse l’esistenza stessa dello Studio. Tutto nacque dal
tentativo di rapimento di una ragazza bolognese nipote del celebre professore Giovanni Di Andrea
fatta da un giovane studente spagnolo. Giovanna Zagni era il nome della fanciulla e Jacopo da
Valencia quello dello studente che per questo fatto venne condannato alla pena capitale. E’
probabile che dietro l’esecuzione della pena capitale vi fossero contrasti tra le varie fazioni che si
contendevano il dominio della città. Il Podestà Giustinello temendo che Romeo Pepoli, il futuro
signore di Bologna, avesse intenzione di far fuggire lo studente sottraendolo così al corso della
giustizia, ne affrettò l’esecuzione, avvenuta nel marzo del 1321. L’impatto fra la popolazione
studentesca fu enorme, provocando l’esodo pressoché totale degli studenti e di parecchi professori
dalla città. Altrettanto gravi furono le conseguenze economiche per una città il cui benessere era in
gran parte fondato sull’afflusso ininterrotto di studenti provenienti da ogni parte d’Europa. Le
autorità già nel maggio successivo cercarono una riconciliazione ma solo dopo un anno le trattative
ebbero un buon fine: quando come richiesto dagli studenti, venne costruita una cappella espiatoria
dedicata alla Madonna della Pace. Il maestro lapicida che scolpì il monumento ebbe solo due mesi a
disposizione per eseguire il lavoro; si spiegano così i tratti appena abbozzati di alcune figure.
Tuttavia il gruppo degli studenti è reso nei tratti fisionomici in modo veramente straordinario per
l’epoca, specie a Bologna. La Madonna con il Bambino è raffigurata come “sedes sapientiae”, oltre
che come madre protettiva. A sinistra e a destra della Vergine sotto gli scudi erasi compaiono i
nomi di Pietro Revonio di Borgogna e Jaroslao polacco rettore degli studenti “ultramontani” e di
Ainardo di Montebello (Vicenza) e Jacopo Languilla di Genova rettori dei “citramontani”. La
lapide sottostante riporta i nomi degli altri rettori: Bartolomeo Lamberti da Cipro canonico di
Famagosta per gli studenti ultramontani e Bernardo Catenacci canonico di S.Antonio di Piacenza
per i citramontani. L’accurata abrasione degli stemmi unita alla mancanza di fonti scritte o
iconografiche non permettono alcun tentativo di identificazione. Si tratta di scudi a forma gotica su
alcuni dei quali, dalle tracce lasciati dallo scalpellamento si può intravedere la pezza o la figura che
17
era stata scolpita. E’ questo il caso dei due scudi posti in basso a sinistra. Nel primo la pezza
scalpellata era certamente una banda, nel secondo si scorge chiaramente una figura pressoché
sconosciuta nell’araldica italiana ma abbastanza frequente nell’araldica tedesca o polacca: un
rampone, o “doppel haken” posto in palo. Questo era uno strumento bellico che serviva a fissare le
scale sulle mura di una città o castello durante l’assalto. Potrebbe trattarsi dell’arma del polacco
Jaroslao.
18
19
20
21
L E
L A S T R E
T E R R A G N E
22
“Come perché di lor memoria sia
sovra i sepolti le lastre terragne
portan segnato quel ch’elli eran pria”
(Dante : Purgatorio, canto XII )
Questi tipici monumenti sepolcrali vennero in voga in Italia piuttosto tardi, negli ultimi
decenni del XIII secolo, sostituendo in parte il tipo di sepoltura in uso fino ad allora : LE ARCHE. A
differenza di queste ultime, le lapidi sepolcrali occupavano gli spazi interni delle chiese ed i
pavimenti dei chiostri, aumentando così la recettività dei luoghi adibiti a cimitero, laddove le Arche,
che di solito venivano sistemate sul sagrato o nei giardini dei conventi o delle chiese, per il loro
vasto ingombro, non permettevano di far posto che a pochi richiedenti.
In questa nuova forma di sepoltura l’araldica si affianca all’epigrafia e diviene
specificatamente caratterizzante.
L’Arma scolpita sulla pietra non si riferisce solo al personaggio defunto poiché lo stemma
nato inizialmente con l’obiettivo di far riconoscere un guerriero in battaglia, acquista rapidamente il
significato di segno distintivo del personaggio prima e della famiglia poi. L’arma, più dello stesso
cognome, stava ad indicare la continuità della stirpe, l’orgogliosa potenza del casato, la garanzia del
suo valore, la sua scelta di parte; essa era inoltre l’emblema attorno a cui si chiamavano a raccolta i
membri ed i “fideles” della famiglia. Con il tempo lo stemma si caricò di tale intensità simbolica
che non vi fu “corporazione” o “arte”, convento o cattedrale, mercante o studio di Dottore che non
ne fosse dotato. E così dal suo significato originario esclusivamente militare lo stemma divenne
segno distintivo di ogni personaggio o famiglia esercitante un’arte o professione o mestiere.
(Tuttavia va sottolineato che la rappresentazione araldica, carica di questi significati così importanti
per l’uomo medievale, ma che oggi sono privi di senso, non ha affatto perduto la sua grande
capacità di esprimere mediante le sue figure e i suoi colori, qualità e caratteristiche altrimenti
incomunicabili. Le nostre industrie moderne, grandi o piccole, le ditte commerciali, le associazioni
sportive o di altro genere, su di un piano diverso ma che si avvale quasi sempre di una componente
araldica, cercano di trasmettere attraverso i loro marchi, e le loro insegne, la stessa intensa carica
simbolica della vecchia araldica). Ma se le più antiche lastre terragne furono esclusivamente di tipo
araldico, ben presto sulla lastra prese posto la figura del defunto scolpita o mediante la semplice
incisione oppure in basso rilievo o anche in parte incisa e in parte in rilievo. Il personaggio era
rappresentato con le mani giunte e gli occhi aperti e a volte, con un cuscino sotto il capo seguendo
così modelli anglo-francesi ma a differenza di questi, con una maggiore sobrietà decorativa..
23
Spesso fra le mani del personaggio o vicino al capo, in sostituzione di uno dei due scudi che
di solito sono scolpiti ai lati del capo, trovasi un libro che assume il valore di simbolo
caratterizzante la professione del “giacente”, (legista, dottore).
Le tombe dei Dottori sono quelle che più numerose sono giunte fino a noi; viceversa delle
lastre del tipo “militare”, raffiguranti cioè il defunto in armatura, che pur dovevano essere
abbastanza frequenti, se ne sono
salvate molto poche.
In questi monumenti sepolcrali, il
personaggio, un guerriero, si presenta con le mani giunte e sempre con un drago ai suoi piedi,
l’Arma come negli altri tipi di lastra, viene scolpita ai lati del capo; a volte un cimiero sostituisce
uno dei due stemmi. Il nome del maestro che può considerarsi l’iniziatore di questa tipologia lo
conosciamo: Arriguzzo Trevisano che firma la lastra tombale di Filippo dei Desideri:
In epoca più tarda il guerriero viene raffigurato a cavallo e visto lateralmente, e questa è una
tipologia prettamente Bolognese di cui il maestro riconosciuto è Bettino di Bologna, l’autore della
splendida lastra di Colaccio Beccadelli conservata nella chiesa dei SS. Nicolò e Domenico di Imola.
Una tradizione autonoma dunque che nel caso delle lastre militari assume un deciso carattere di
originalità.
Nei monumenti sepolcrali successivi ( XV sec.) la figura scompare e sulla lastra torna ad
essere scolpita solamente l’arma. La semplicità del periodo gotico che, nella purezza delle sue linee
conteneva una grande forza evocativa, viene completamente abbandonata. L’Arma è inserita in
complicati polilobi con elmo, cimiero, lambrecchini, cartigli ecc.
Un altro fatto interessante è la presenza in molte di queste lastre araldiche dei così detti
signa o marchi di impresa “affini ai marchi di casa” dell’Europa centrosettentrionale. Tali “Signa”,
figure geometriche costituite da cerchi, croci, linee o lettere variamente intrecciate, compaiono
frequentemente sulle lastre sepolcrali Bolognesi del sec. XIII e XIV, da soli o assieme all’Arma di
famiglia del defunto. Essi sono direttamente imparentati con le tessere mercantili medievali , pezzi
monetiformi recanti monogrammi segni mercantili e a volte anche stemmi, che nel Medio Evo
venivano usati dai mercanti italiani come contrassegno o marca della società commerciale che
effettuava una spedizione. Il contrassegno era legato alla persona del titolare che ne rispondeva
personalmente, ecco perché i
signa
finirono per essere specifici di un personaggio
caratterizzandolo all’interno dello stesso nucleo familiare e della compagnia commerciale di cui
faceva parte. Nessuna meraviglia quindi se, nella Bologna Medievale, città di spiccato carattere
mercantile, molto spesso, sul monumento tombale del defunto compare il segno che lo distinse in
vita.
Con la fine della Signoria dei Bentivoglio ed il passaggio della città alla chiesa, il periodo
delle lastre terragne medievali può dirsi concluso. L’uso di questo tipo di sepoltura inesorabilmente
24
declina nei secoli successivi. Nel XVIII secolo, i nuovi indirizzi culturali, l’esigenza di allontanare
i cimiteri dai centri abitati, sia per motivi igienici, sia per necessità di spazio, il rifacimento dei
pavimenti delle chiese, determinarono la rimozione e molto spesso la distruzione delle lastre, con lo
sconsolante risultato di distruggere per sempre un inestimabile patrimonio archeologico.
PAOLO E GIROLAMO FRONTI
Lastra in marmo rosa. Qui ci troviamo di fronte ad una rappresentazione esclusivamente
araldica di tipo moderno, con scudo a “Targa”, lambrecchini, elmo con cimiero e cartiglio.
Purtroppo l’Arma, come al solito, è stata completamente erasa, ma il lavoro scultoreo denota una
mano esperta con un superbo leopardo alato e collarinato pieno di slancio e di vigore dalla cui
branca destra si diparte il cartiglio con inciso il motto “ne quid nimis” negli angoli inferiori sono
poi scolpiti due testine o maschere una delle quali con la bocca drammaticamente spalancata.
Sulla cornice corre l’epigrafe :
“Sepolcro del reverendissimo legista e scriba bolognese Paolo padre e di Girolamo zio;
Alessio Fronti dottore in legge con i fratelli, i figli e i nipoti dedicarono. 1495”.
Trattasi del sepolcro che Alessio Fronti, notaio bolognese insieme ai fratelli, anche loro
notai, dedica al padre anche lui notaio al servizio del Comune, ed allo zio Girolamo.
I Fronti si tramandavano da generazioni la professione notarile e nel XVI secolo raggiunsero
i vertici della corporazione con Tideo che fu proconsole dei notai nel 1509 - 1523 - 1529 e
Francesco che lo fu nel 1554.
L’Arma dei Fronti era :
“Trinciato dentato d’Argento e d’oro con il capo d’Angiò”.
Quest’arma presenta una peculiarità: quella di contraddire la regola araldica che vieta di
mettere metallo su metallo sulla stessa arma (unica eccezione l’arma di Gerusalemme : (“D’Argento
alla croce potenziata d’oro accantonata da quattro crocette dello stesso.”)
In verità questa famosa regola è stata stabilita in epoca moderna mentre nei secoli XII , XIII
, XIV, XV tale divieto non esisteva. B.B. HEIM nella sua recente pubblicazione “Or and Argent”
ha preso in esame i più noti stemmari dell’Europa occidentale trovando che, nel solo caso
dell’Italia, esaminando l’Elenco Storico della Nobiltà Italiana, l’Enciclopedia Storica Nobiliare
dello Spreti ed il Codice Trivulziano conservato al castello sforzesco di Milano, tale regola è stata
contraddetta parecchie centinaia di volte. Nell’araldica bolognese infine se ne conoscono numerosi
altri esempi.
25
BARTOLOMEO DA VERNAZZA
Lastra di marmo rosa di Verona con figura in atteggiamento orante con occhi aperti, il capo
eretto poggiato su di un cuscino, con baldacchino. Nel canton destro del capo uno scudo ed in
quello sinistro un libro. Nel complesso la scultura, se pur accurata nell’esecuzione, appare piuttosto
rigida ed il volto scarsamente espressivo. Lo scudo è stato eraso. Secondo il Breveglieri la lastra,
pur lavorata con la tecnica delle lastre terragne, non fu mai sistemata al suolo, ma invece allocata su
parete.
Titolare del monumento era Bartolomeo da Vernazza dottore in medicina che aveva
raggiunto prima di morire, una posizione di primo piano in città. Egli faceva parte del consiglio
cittadino costituitosi alla morte di Taddeo Pepoli signore di Bologna. Morì nel 1348, l’anno della
peste nera che spopolò l’Europa, ma non si sa se a causa di quella. Poco si sa sulla famiglia che
probabilmente venne colpita severamente dalla peste.
L’arma dei Vernazza era
“D’argento a sei stelle d’oro poste 3-2-1”.
ANTONIO DA CA ZANE
Lastra in marmo rosa di Verona. L’epigrafe inserita in alto dice: “Sepolcro dello spettabile
Ser Antonio del Signor Ludovico da Ca Zane di Venezia e suoi eredi 1460 “.
Sul marmo è incisa in una cornice poliloba uno scudo sagomato su cui è scolpito uno strano
animale parzialmente eraso dalla testa di uccello, con zampe provviste di unghioni e con la coda,
che potrebbe essere anche una volpe stilizzata: Nel complesso una importante rappresentazione
araldica in discreto stato di conservazione giacché gli scalpellatori giacobini non riuscirono a
portare a termine il loro lavoro. Il monumento fu ritenuto di scarso valore artistico, ma a mio avviso
merita maggiore considerazione. L’animale stilizzato ivi raffigurato denota la mano sicura di un
artista provetto, dal tratto elegante e raffinato con uno straordinario richiamo al disegno moderno; la
lastra proviene dalla chiesa di S. Maria dei Servi in Bologna e la data incisa non è quella della morte
come si evince dal testamento dello Zane redatto un anno prima e dove la morte è data solamente
come una possibilità.
Gli Zane o Ziani era una antica famiglia veneziana tra quelle che fondarono Venezia. Nel
1173 un Sebastiano Zane fu doge e così pure suo figlio nel 1205.
L’arma era : “Troncato d’Argento e d’Azzurro alla Volpe Rampante dell’uno nell’altro”.
Con ogni probabilità Ser Antonio Zane era un membro della famiglia trapiantato a Bologna,
dove risulta aver avuto interessi commerciali e relazioni con membri delle Famiglie Piatesi e
Gozzadini.
26
Il suo testamento è conservato presso l’A. S. B.
GEREMIA ANGELELLI
Lastra in marmo. La figura presenta le mani incrociate, gli occhi chiusi, capo posato su un
cuscino, cinque libri intorno alla figura e due scudi erasi negli angoli alti. Forse la lastra fu scolpita
da Andrea da Fiesole attivo a Bologna dal 1393 al 1427. Il volto è reso con una espressione intensa
e concentrata.
L’epigrafe intorno dice :
Qui giace il dottor “utriusque jure” canonico della cattedrale cattolica bolognese di nome
Geremia degli Angelelli detto Minotto.
Spirò il 10 settembre del 1417.
Geremia apparteneva ad una illustre famiglia bolognese il cui capostipite fu un Geremia
dell’Angelelli che fondò le fortune del casato nella seconda metà del tredicesimo secolo. Ai tempi
delle lotte cittadine gli Angelelli furono costretti all’esilio e si divisero in più rami che si
trapiantarono in Verona, Vicenza, Lucca.
Molti gli uomini illustri: Alberto fu podestà nel 1244 ad Orvieto, Giovanni fu rettore di
Ancona nel 1288, Jacopo dottore in legge, nel 1292 faceva parte del consiglio degli Anziani. Altri
furono canonici, ambasciatori, dottori e più tardi godettero anche della dignità senatoria la famiglia
si estinse con il senatore Angelo Maria di Giovanni Filippo morto nell’anno 1689.
Geremia di Giacomo detto Minotto, fu canonico di S. Pietro, la cattedrale di Bologna, nel
1417. Venne inviato dal Cardinal Legato ambasciatore al Papa Bonifacio IX. Morì nel marzo dello
stesso anno e fu sepolto nella chiesa di S. Procolo di Palazzo; di qui venne trasportato nella chiesa
della Certosa da dove proviene la lastra. Lo stemma Angelelli che sulla pietra tombale appare eraso
era:
“D’azzurro al grifo rampante d’oro con la bordura di rosso caricata di 14 punte di penne di
pavone al naturale”.
JACOPO GUARINI
Lastra in marmo su cui è scolpito uno scudo entro un polilobo e due altri scudi nei cantoni
del capo. L’epigrafe all’intorno dice:
“Jacopo di Bartolomeo Guarini, Mastro Balestriere, cittadino bolognese, ed eredi morto
nell’anno del Signore 1446 il 13 settembre, la sua anima riposi in pace.”
La lastra marmorea presenta le tracce di un precedente rilievo: quello di un guerriero visto di
fronte con il capo coperto dall’elmo. A giudicare dalla forma dell’elmo la prima utilizzazione della
27
lastra risale alla prima metà del 1300. Circa un secolo dopo la figura venne sostituita con il polilobo
e gli scudi. Gli scudi furono poi abrasi dai giacobini. Nel disegno lasciatoci da M. Oretti, nello
scudo grande compare l’Arma Guarini :
“D’Azzurro al toro furioso d’oro con al collo un nastro di rosso ed il capo D’Angio
“(D’Azzurro a tre gigli d’oro posti tra i quattro pendenti di un lambello di rosso).
Sui due scudi posti nei cantoni alti del capo, erano raffigurate due balestre riferentesi al
mestiere del defunto.
Del personaggio in questione “Magistrum balistrarum” come recita l’epigrafe, si sa poco,
ma a giudicare dall’Arme doveva far parte dei Guarini, potente famiglia che ai tempi delle fazioni
cittadine fu di parte Lambertazza in lotta con i Geremei, tanto che un suo ramo dovette emigrare a
Forlì. Molti di tal nome furono celebri giureconsulti.
PIETRO D‘ANCARANO
Lastra terragna in pietra. La figura con le mani incrociate sul petto, occhi chiusi, capo
piegato a destra, posato su cuscino, con un libro sotto le mani e quattro libri ai piedi. La figura si
presenta rivestita in abito domenicano con ampio e frastagliato panneggio e con ai lati due colonne
tortili che reggono un arco a tutto sesto con tre lobi interni, con due piccoli scudi (erasi) negli angoli
alti.
Pietro di Giovanni Nicola fu dottore dello Studio bolognese e lettore di decretali in più di
uno studio italiano, fu anche consulente di Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa, antipapa) al concilio
di Costanza. Pare che gli Ancarani derivassero dalla stirpe Farnese così come attesta l’arma che era:
“D’azzurro a sei gigli d’oro posti 3-2-1”
la stessa dei Farnese e come afferma l’epigrafe stessa.
La data di morte non è sicura, ma è probabile che morisse intorno al 1416, lasciando eredi i
propri figli con la clausola che in caso di estinzione, i suoi beni fossero usati per fondare un
collegio per studenti poveri, cosa che effettivamente avvenne e prese il nome di collegio Ancarano.
UGO BORGHESANI
Frammento di marmo bianco di Verona inciso. Figura in atteggiamento orante, occhi aperti,
capo eretto, scudo nell’angolo sin. del capo, completamente eraso. Il frammento fortunosamente
recuperato presso la bottega di un marmista nei primi decenni di questo secolo, proviene dalla
chiesa di S. Caterina di Strada Maggiore.
28
L’epigrafe all’interno dice: “(Qui giace frate) Ugo che visse umilmente al servizio dell’
Ordine della Milizia della Beata Vergine Maria in favore della cui anima si celebra in questo altare”
20 ottobre 1330.
I Borghesani, oriundi della Toscana e così chiamati dal nome della località Borga nel
Lucchese, compaiono in città intorno al 1252 con un Ventura che introdusse a Bologna l’arte del
lavorare la seta, tanto che furono detti Della Seta. I Borghesani vengono spesso ricordati nelle
cronache del tempo. I suoi membri fecero parte del Consiglio Generale dei 2000, dei 600 e furono
degli anziani consoli dal 1297 al 1555.
Il nostro personaggio era cavaliere dell’ordine della Beatissima Maria Vergine Gloriosa o
del Gaudio ordine cavalleresco detto perciò dei frati Gaudenti. Esso era sorto in Linguadoca nel
XIII secolo con l’obbiettivo di combattere le eresie allora largamente diffuse in Provenza, dove
partecipò alla famosa crociata contro gli Albigesi. Il suo primo Gran Maestro fu proprio quel
Simone di Monfort, resosi tristemente famoso per la feroce repressione condotta contro gli eretici
quale comandante dei crociati. L’ordine venne poi istituito anche in Italia nel 1233 sotto Papa
Gregorio IX, e Bologna ne fu la culla poiché il Patriarca Spirituale della milizia era S. Domenico la
cui arca si trova proprio a Bologna. Famosi i nomi di Catalano e di Loderico degli Andalò. Ugo
viene menzionato espressamente quale facente parte della milizia della Beata Maria Vergine
Gloriosa dal Gualandi nel suo manoscritto ed il Pasquali Alidosi lo annovera fra i frati Gaudenti
nell’anno 1290.
Sullo scudo eraso del frammento giunto fino a noi era raffigurata l’arma Borghesani :
“ D’oro all’ulivo sradicato al naturale”.
Sul disegno dell’Oretti è riportata anche l’arma di un altro ramo della famiglia detto degli
ALLE’ originati da un Borghesani di tal nome che era : “D’azzurro al leone d’oro con la banda
d’argento attraversante, ed il capo d’Angiò”.
GRAZIOLO ACCARISI
Lastra tombale in marmo rosa La figura si presenta con il capo poggiato su di un cuscino, gli
occhi chiusi, le mani posate su due libri, due scudi sono presenti sulla cornice negli angoli alti.
L’epigrafe che corre lungo la cornice recita:
”Sepolcro del signor Graziolo di Giacomo detto Zacca, degli Accarisi, dottore in legge,
avvocato concistoriale nel quale giace il signor Baldassarre suo figlio, licenziato in diritto
canonico morto nell’anno del signore 1434”.
La data è riferita alla morte del figlio a lui premorto, viceversa Graziolo ebbe lunga
esistenza poiché nel 1470 era ancora segnalato in vita. L’esecuzione della figura fa pensare alla
29
scuola del grande Jacopo della Quercia, ma il tratto alquanto rigido, la fa attribuire ad un allievo
scarsamente dotato. Graziolo fu giurista e insegnante dello Studio di Bologna oltre che uomo
politico. Tra l’altro fu lui che per primo fece portare in processione per le vie di Bologna la celebre
Madonna di S. Luca dal Colle della Guardia dove trovasi il santuario, cerimonia che ancora oggi
rappresenta uno tra i più importanti avvenimenti religiosi della città.
Gli Accarisi erano originari di Faenza e di parte ghibellina. In seguito alle lotte intraprese
contro i Manfredi ai quali contendevano il dominio della città, furono costretti all’esilio nel 1256. I
suoi membri si divisero quindi in tre rami di Bologna, Firenze e Modena. Il ramo Bolognese
continuò la militanza ghibellina schierandosi con i Lambertazzi.
L’arma Accarisi era:
“Inquartato diaprato d’oro e di rosso con il capo d’Angiò” Alias: “inquartato di argento e
d’azzurro con il capo dell’Impero”.
Sulla lastra trovasi scolpita la prima versione ma nel capo d’Angiò anziché di tre gigli
araldici ne compaiono solo due.
FILIPPO DEI DESIDERI
Lastra in pietra calcarea. Il personaggio è rappresentato rivestito di armatura, in
atteggiamento orante, con gli occhi aperti, il capo eretto, elmo e scudo negli angoli superiori della
lastra. L’epigrafe che corre all’intorno sulla cornice ma che rimonta ad un secolo e mezzo dopo,
dice:
“Qui riposano le ceneri del nobil uomo Signor FILIPPO DEI DESIDERI, morto nell’anno
del Signore 1315 alle idi di luglio”.
La scultura è firmata dall’autore ENRICO TREVISANO. Ai lati del capo sono scolpiti lo
scudo ed a sinistra l’arma con elmo e cimiero anche questi erasi.
I Desideri erano di antica Nobiltà e furono di parte Guelfa. Molti suoi membri si distinsero
nella cosa pubblica, altri furono uomini di legge, molti valorosi soldati come Giacomino (1265),
Filippo (1285), Filippo (1313). Nel 1506 BERNARDINO fu tra i venti chiamati al governo della
città. Del nostro personaggio si sa poco, un Filippo o Filippone Di Filippo faceva parte dei Cavalieri
inviati da Bologna in aiuto ai fiorentini minacciati dalle truppe di Arrigo VII nel 1323 ed è
probabile che la lastra tombale sia da attribuire proprio a lui.
Sullo stemma eraso compariva l’Arma Desideri che era:
“D’Azzurro a nove losanghe d’argento accollate in banda con il Capo D’Angiò”.
30
Fig. 14 Lastra sepolcrale di Paolo e Girolamo Fronti
Fig. 15 Lastra sepolcrale di Paolo e Girolamo Fronti (da disegno di M. Oretti)
Fig. 16 L’Arma Fronti (dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli
31
Fig. 17 Pietra sepolcrale di Bartolomeo da Vernazza
Fig. 18 Sepolcro di Bartolomeo da Vernazza (da un disegno di M. Oretti)
32
Fig. 19 Lastra sepolcrale di Antonio da Ca Zane
Fig. 20 Arma Zane (tratta da: V. Rolland/Pianches – Le.haye 1926
33
fig. 21 Lastra sepolcrale di Geremia Angelelli
Fig. 22 Sepolcro di Geremia Angelelli (da un disegno di M. Oretti)
34
fig. 23 Arma Angelelli (dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli)
Fig. 24 Lastra sepolcrale di Jacopo Guarini
Fig. 25 Sepolcro Guarini
(da un disegno di M. Moretti)
35
fig. 26 L’Arma Guarini (dal “Blasone Bolognae” di F. Canetoli)
36
37
Fig. 30 Lastra tombale di Ugo Borghesani
Fig. 31 Sepolcro Borghesani
(da un disegno di M. Oretti)
Fig. 32 Arma Borghesani
(dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli)
Fig. 33 Arma Allè
(dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli)
38
Fig. 34 Lastra Tombale di Graziolo Accarisi
Fig. 35 Sepolcro di Graziolo Accarisi
(particolare)
Fig. 36 Arma Accarisi (dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli)
39
fig. 37 Lastra tombale di Filippo Desideri
fig. 38 Sepolcro di Filippo Desideri (da un disegno
di M. Oretti)
40
MONUMENTO GALLUZZI
Sono due frammenti di un monumento proveniente dal complesso conventuale di S.
Domenico esposti nel museo uno accanto all’altro. Le due sculture in rilievo mostrano: una un
dottore in cattedra con ai lati gli scolari che ascoltano, nell’altra è raffigurata la scena
dell’annunciazione con accanto, posti entro archi gotici polilobi, due scudi con in mezzo una croce.
Con ogni probabilità i due reperti facevano parte dello stesso monumento sepolcrale che, come dice
l’epigrafe posta sotto il primo frammento, apparteneva a Bonifacio Galluzzi, “Dottore e Cavaliere”
(1) morto nel 1346. Il monumento è coevo e viene attribuito a Bettino da Bologna lo stesso scultore
autore della superba lastra tombale di Colaccio Beccadelli che trovasi nella chiesa dei SS. Nicola e
Domenico di Imola.
Il secondo frammento, molto meno ben conservato del primo, è quello che, dal punto di
vista araldico, ci interessa. In esso, procedendo da sinistra troviamo: la scena dell’angelo
annunziante, uno scudo cui segue una croce ed un altro scudo ancora, quest’ultimo solo
parzialmente conservato. Sui due scudi è raffigurato un gallo con in capo un lambello o rastrello
con cinque pendenti o denti tra i quali vi sono quattro gigli araldici.
L’arma dei Galluzzi era:
“D’oro al gallo al naturale, crestato di rosso, con il capo d’Angiò”.
Il cosiddetto capo d’Angiò : “D’azzurro a tre gigli d’oro posti tra quattro pendenti di un
lambello di rosso”
era molto diffuso nell’araldica italiana specie dell’Italia settentrionale e bolognese in
particolare, esso stava ad indicare l’appartenenza alla fazione guelfa e venne introdotto con la
venuta in Italia nel 1265 di Carlo I D’Angiò che, una volta sconfitto Manfredi a Benevento, si
impadronì del Regno di Napoli. Divenuto così il capo riconosciuto dei guelfi, concesse alle famiglie
di quest’ultimi, di porre nelle loro armi il lambello ed i gigli di Francia, in contrapposizione ai
ghibellini che ponevano in capo allo scudo
“L’aquila spiegata e coronata di nero in campo d’oro ” (Capo dell’Impero).
Nel frammento i pendenti del lambello sono cinque anziché quattro ed i gigli quattro invece
che tre. Ma nel XIV secolo le regole araldiche non erano state ancora codificate e così accade che le
“pezze” araldiche non sempre sono rappresentate allo stesso modo. Ad esempio nella lastra tombale
di Graziolo Accarisi i gigli sono addirittura due anziché tre. Con il tempo il significato originario
dei capi perse di importanza; molte famiglie cambiarono fazione ma lasciarono nell’arme l’antico
capo. E’ possibile quindi che i vari personaggi della stessa famiglia possano avere nello scudo sia
41
l’uno che l’altro capo a seconda dell’epoca in cui vissero; in alcuni casi poi i due capi sono presenti
nella stessa arma l’uno “abbassato” sotto l’altro.
Bonifacio Galluzzi, celebre legista del suo tempo, apparteneva ad una nobile e potente
famiglia bolognese di parte Geremea (guelfa) la cui origine si fa risalire ad un tal Pietro di Enrico
vissuto intorno alla metà del XII secolo il cui figlio Rolandino fu console della città nel 1174 - 1179
- 1181. E’ probabile che il cognome derivi da un soprannome dato ad un membro della famiglia ,
cosa frequente nel medioevo. I Galluzzi presero parte attiva alle lotte fra fazioni che insanguinarono
Bologna per tutto il XIII sec. e furono protagonisti di primo piano nei disordini, le risse, gli omicidi
che caratterizzarono la lotta politica tra guelfi e ghibellini in quel periodo ( celebri le feroci contese
dei Galluzzi contro i Carbonesi di parte ghibellina).
Nel secolo successivo la famiglia non partecipò molto al governo della città; per contro
molti suoi membri si distinsero nelle lettere e nelle scienze tra i quali Bonifacio e Cristoforo che
insegnarono allo Studio, ed Antonio medico e filosofo. A Bologna, nel cuore della città esiste
ancora la torre medievale dei Galluzzi. La famiglia si estinse nel 1600.
(1) “DOCTOR ET MILES” era questa la formula con cui lo Studio bolognese, nel
concedere la laurea, proclamava il neo dottore anche nobile cavaliere, in nome del pontefice.
42
I L
L A P I D A R I O
43
Questa sezione del museo comprende materiale di varia natura rinvenuto in occasione di
scavi o ristrutturazioni di antichi edifici, chiese, monumenti ecc. Una volta questi reperti
archeologici erano raccolti e sistemati in un cortile all’aperto in attesa di una sistemazione definitiva
che si è potuta realizzare come già detto, con l’allestimento di uno spazio espositivo ricavato in un
edificio adiacente al palazzo Ghisilardi-Fava ma organicamente collegato a questo.
Del materiale esposto fanno parte lapidi sepolcrali, cippi armoriati, stemmi, molti dei quali di
provenienza ignota o senza iscrizioni oppure mancanti di grossi frammenti che ne rendono in alcuni
casi, ardua o impossibile l’identificazione. Questi stemmi risalgono per lo più al XVI e XVII
secolo quando Bologna è entrata far parte definitivamente dello stato pontificio ed un gruppo
oligarchico di 40 famiglie senatorie successivamente portate a 50, assume il controllo della città. E’
un periodo di grande fervore edilizio dove l’araldica riveste una particolare importanza come segno
di distinzione. I grandi palazzi senatori si arricchiscono di stemmi sia scolpiti che dipinti, la moda
dilaga ed anche la piccola nobiltà come la ricca borghesia adottano l’emblema araldico sulle loro
dimore. Purtroppo con l’avvento della repubblica napoleonica molto di questo materiale viene
distrutto, gli stemmi conservati nel museo sono stati recuperati nel tempo sia come rinvenimenti in
occasioni di scavi o ristrutturazioni edilizie sia come donazioni o lasciti avvenuti tra l’otto o il
novecento.
Di tutti questi reperti si cercherà di dare una accurata descrizione azzardando in alcuni casi
una attribuzione per gli stemmi non identificati. Come è ovvio ci occuperemo solo del materiale
archeologico di interesse araldico, tralasciando quello che , se pur di notevole interesse storicoartistico, non fa riferimento al nostro argomento. Nella descrizione seguiremo la numerazione
assegnata ai vari reperti dalla direzione del museo.
44
F R A M M E N T O N° 2 e 3
Cippo di arenaria rinvenuto ad Ozzano, piccolo comune nelle vicinanze di Bologna. Trattasi
di una pietra irregolare con un margine superiore obliquo e recante in alto, rozzamente graffito, uno
stemma raffigurante due bastoni gigliati posti in croce si Sant’Andrea. L’iscrizione sottostante
ricorda i lavori stradali eseguiti a Monte Calderara al tempo di Enrico della Torre podestà di
Bologna nel 1268 e dice :
“1268, al tempo di messer Enrico Della Torre podestà di Bologna per il comune di Monte
Calderaro 15° tratta.”
Questi cippi fungevano da termini posti a capo dei tratti di strada che i comuni rurali del
circondario di Bologna, erano costretti a fare per volere del Comune bolognese che assegnava loro
la costruzione di uno o più tratti. Sui cippi veniva incisa la data del compimento del lavoro e l’arma
del podestà in carica quell’anno.
Enrico o Erecco D’Ermanno di Pagano fu podestà di Bologna nel 1268, dove sposò Filippa
dei Galluzzi, precedentemente era stato a Novara e dopo Bologna fu podestà di Cremona e di
Orvieto. Egli apparteneva alla celebre stirpe dei Della Torre signori della Valsassina che furono
crociati in Terrasanta nel 1147 Pagano Della Torre combatté con Milano contro Federico II , suo
nipote Martino vinse e catturò nella battaglia sull’Adda, Ezzelino da Romano signore di Verona. I
Della Torre contesero lungamente il predominio di Milano ai Visconti, anche il nostro fu fiero
oppositore dei Visconti come tutti quelli della sua famiglia. Alla battaglia di Desio nel 1277 fu fatto
prigioniero da questi ultimi e liberato dopo sette anni di prigionia nel 1284. Non per questo Enrico
rinunciò alla lotta che continuò indomito ma senza successo. Nel 1299 divenne podestà di Trieste e
nel 1302 ebbe la soddisfazione di vedere i Visconti in fuga. Morì poco dopo.
Sul cippo sono raffigurati due scettri gigliati posti in decusse, ma sul codice Trivulziano,
stemmario lombardo del XV secolo, l’arma Della Torre o Torriani è un inquartato:
“nel primo e quarto d’azzurro a due scettri gigliati e decussati d’oro, nel secondo e terzo
d’argento alla torre di rosso merlata alla guelfa aperta e finestrata del campo con il capo d’oro
all’aquila di nero coronata del campo”.
Sullo stesso codice compaiono altri cinque varianti dello stemma dove però è sempre
presente la torre che può essere di rosso o d’argento, posta in capo o attraversante.
La pietra su cui è scolpita l’arma Torriani rimonta al XIV secolo e questo porterebbe a
credere che l’arma originaria fosse quella dei due scettri gigliati posti in croce di S.Andrea e che
solo successivamente sia stata aggiunta la torre come elemento “parlante”.
45
Il frammento N°3 è un cippo di arenaria rinvenuto in via Saragozza. Anche qui in alto è
graffito lo stemma del reperto precedente; sulla sua superficie, molto corrosa, è possibile leggere:
“ 1268 al tempo di messer Enrico Della Torre podestà di Bologna per il comune di
Burzonella, la ottava tratta di 5 pertiche.”
Pure questo cippo, come il precedente fu posto a ricordo di lavori stradali.
F R A M M E N T O N° 5
Lapide in calcare di forma rettangolare su cui è scolpito uno stemma di tipo gotico costituito
da due monti di tre cime affiancati, sormontati da tre gigli posti tra quattro pendenti di un lambello
(Capo D’Angiò). L’epigrafe latina in caratteri gotici dice :
Nell’anno del Signore 1324 al tempo del signor Pietro Abate del monastero di S. Donato di
Pulpiano”.
La lapide ricorda la costruzione del monastero fatta da Pietro Abate. Lo stemma è quello del
monastero che era sito in territorio di Reggio Emilia. Non si conoscono notizie relative al
personaggio.
F R A M M E N T O N° 12
Trattasi dell’architrave dell’arca sepolcrale di Tommasino Ramponi che trovavasi sul muro
esterno dell’abside della Chiesa di S. Francesco a Bologna. Sulla sua superficie corre una iscrizione
a caratteri gotici posta tra due scudi completamente erasi dai giacobini nel 1797.
L’iscrizione latina dice :
“Nell’anno del Signore 1275 il 25 ottobre. Questo è il sepolcro del signor Tommasino
Ramponi”.
Sullo scudo di destra era scolpita l’arma e quello sinistro presenta una insolita forma
triangolare.
Tommasino apparteneva ad una antica e nobile famiglia tra le primarie della città a detta del
Guidicini, forse di origine feudale. I Ramponi furono di parte guelfa e nel 1300 la casata si schierò
con gli Scacchesi ovvero i partigiani dei Pepoli che avevano per arma uno scaccato di argento e di
nero. Ci furono tra i suoi membri capitani, ambasciatori, cavalieri aurati, dottori. Sin dal XII sec.
parteciparono attivamente alle lotte fra fazioni. Nel 1194 al tempo in cui Alberto Ramponi rivestiva
la carica di console, scoppiarono sanguinose risse tra i suoi sostenitori ed i suoi avversari con
uccisioni, saccheggi, incendi. Nel 1216 Armando di Rolando Ramponi firma la pace tra Bologna e
Rimini. Suo figlio Scannabecco fu rettore del parlamento che la Lega Lombarda tenne a Bologna
nel 1226. Il nostro Tommasino, dopo essere stato podestà di Medicina, tratta la pace fra bolognesi e
46
fiorentini nel 1254. I Ramponi parteciparono, assieme alle altre famiglie Geremee al famoso
giuramento di pace tenuto solennemente in piazza con i Lambertazzi nel 1279. Filippo Ramponi
partecipò alla congiura che portò all’uccisione di Annibale Bentivoglio nel 1445 restando a sua
volta ucciso dai bentivoleschi.
Le case dei Ramponi si trovavano nell’antico mercato di mezzo, cuore della città, con
accanto la torre feudale eretta intorno al 1120, torre che ancora oggi è possibile ammirare. La
famiglia si estinse nel XVII secolo.
L’arma Ramponi era :
“D’azzurro a tre pali d’argento e la fascia di rosso attraversante”.
Alias:
“ d’oro a tre pali d’azzurro con il lambello di rosso a quattro pendenti attraversante in
capo”.
F R A M M E N T O N° 15
Frammento lapideo di sportello sepolcrale in marmo veronese a cui manca la metà sinistra.
Vi è raffigurato uno stemma con a destra un leone e a sinistra un bufalo affrontati sormontati
da un giglio. Il reperto proviene dalla chiesa delle suore di M. Maddalena in via Galliera a Bologna.
L’iscrizione sottostante, parzialmente leggibile sul frammento, secondo il Montieri diceva:
“ Gaspare fu Francesco Sangioseffi pose devotamente per se e per i suoi nell’anno del
Signore 1460”.
Dalla famiglia Sangioseffi ovvero Buffali o Beffali le notizie sono scarse. Il Gualandi dà un
albero genealogico striminzito dove risulta che Gaspare di Francesco di Giovanni aveva 4 figli:
Antonio, Domenico, Francesco e Benedetto. Il Salaroli dice che i Buffali erano detti ancora ISEPPI
da un mastro Iseppo che fu degli anziani nel 1307. Essi fecero anche parte del consiglio dei 600,
avevano sepoltura in S. Maria Maddalena ed avevano per arma come scrive il Salaroli:
“In campo d’argento un’asta d’oro in palo con giglio rosso in cima alla destra un leone
d’oro e alla sinistra un buffalo nero rampanti che sostengono detta asta o lancia”
Sul “Blasone Bolognese” invece, l’arma BUFFALI è cosi rappresentata:
“D’azzurro ad una lancia da torneo d’oro movente dalla punta e posta in palo, sormontata
da un giglio dello stesso, addestrata da un leopardo illeonito d’oro e sinistrata da un bufalo di
nero, la testa di fronte, tutti e due toccanti con le zampe anteriori l’asta della lancia ed il leopardo
toccante con una zampa posteriore sinistra il fermo della lancia stessa.”
47
F R A M M E N T O N° 16
Proviene dalla chiesa di S. Francesco e si può datare intorno al XIV - XV secolo restaurato
poi tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII. In sostanza si tratta di un rifacimento della parte
epigrafica del precedente monumento gotico. La raffigurazione araldica è stata anche in questo caso
accuratamente erasa, di originale restano i due SIGNA posti negli angoli inferiori della lapide.
Fortunatamente Marcello Oretti ci ha lasciato lo schizzo del piccolo monumento così come era
prima del lavoro degli scalpellini. L’epigrafe dice
“Cosma Maranini restaurò questo sepolcro degli antenati per se e per i suoi che lasciano la
vita”.
Dei Maranini si hanno scarse notizie, è certo che la famiglia doveva essere di estrazione
mercantile come attesta la presenza di due “SIGNA” sul monumento. Secondo il Salaroli erano
oriundi di Lecco e furono degli “anziani” dal 1461 al 1560. Il Montefani menziona un Antonio
Maranini anziano del 1270 . Nel 1587 avevano casa in via S. Felice sotto la parrocchia dei SS.
Gervasio e Prorasio. Francesco Maranini era canonico della cattedrale nel 1533 e Girolamo lo
divenne nel 1555 , Cosma era anche lui canonico della cattedrale nel 1591 e di certo fu lui a
commissionare il restauro della lastra sepolcrale. Sembra che la famiglia si sia estinta nel 17° secolo
sempre a detta del Montefani che parla della presenza a Bologna di un’altra famiglia Maranini
moderna con la stessa arma ma che nulla aveva a che fare, a suo avviso coll’antica.
L’arma Maranini era:
“D’azzurro al rincontro di cervo ramoso d’oro ed il capo d’Angiò
F R A M M E N T I N ° 18 - 19 - 20
Questi tre frammenti sono di provenienza ignota. Probabilmente furono rinvenuti in
occasione di scavi; alcuni di essi presentano tracce di policromia, ma la loro identificazione è ardua
non avendo a disposizione alcun dato di riferimento. In più l’erosione dovuta al tempo, della pietra
su cui sono scolpiti, ha sfumato, rendendoli vaghi, i contorni delle figure, talché queste sono di
incerta interpretazione.
Frammento n° 18, entro uno scudo ovale a cartiglio è raffigurato un toro (?) furioso: l’arma
potrebbe essere quella della famiglia Torelli che era:
“d’azzurro al toro furioso d’argento con il capo d’Angiò”.
I Torelli, secondo il Salaroli ed il Dolfi, si trapiantarono a Bologna nel 1130 provenendo da
Ferrara e fecero parte del Consiglio degli Anziani dal 1142 al 1375. Tra i suoi membri Podestà,
48
ambasciatori, Dottori, Cavalieri Gaudenti ecc. Avevano casa con torre, in prossimità della chiesa di
S.ta Margherita, vicino alle casa dei Griffoni.
Frammento n°19 entro uno scudo a cartiglio è scolpito un cavallo fermo con la zampa
anteriore sollevata. Sugli stemmari bolognesi sia a stampa che manoscritti, non esiste un’arma
simile e pertanto è impossibile ipotizzare una attribuzione.
Frammento n° 20 è ben visibile un grifo rampante ed è quindi quasi certa l’attribuzione alla
famiglia Loiani la cui arma era :
“d’argento al grifo rampante di rosso”
I Loiani o De Loiani, di ascendenza germanica, appartenevano alla antica nobiltà feudale e
derivarono il loro nome da Loiano, borgo appenninico poco lontano da Bologna. Arroccati nei loro
feudi di montagna condussero una accanita resistenza contro l’autorità comunale che lentamente ma
inesorabilmente andava erodendo ogni privilegio feudale. Nel 1266 Ubaldino cedeva il castello di
Loiano al Comune che lo fece cittadino bolognese. La famiglia, una volta inurbatasi, partecipò alle
lotte politiche cittadine contrastando la signoria di Giovanni da Oleggio prima, e quella dei
Bentivoglio poi. I Loiani furono castellani di Pianoro, Piancaldoli, Bisano ecc. Molti i condottieri,
gonfalonieri, dottori ecc. La famiglia fu poi investita della dignità senatoria.
F R A M M E N T O N ° 21
Questo grande stemma in arenaria di provenienza ignota risale alla prima metà del XVI
secolo quando Giulio II Della Rovere scaccia definitivamente i Bentivoglio acquisendo
definitivamente la città alla Chiesa. Il manufatto, tenuto conto delle dimensioni e del notevole
valore artistico, con tutta verosimiglianza fu commissionato per essere collocato sulla fortezza di
porta Galliera fatta costruire da Giulio II sulle rovine dell’antica, eretta dai Visconti quando si
impadronirono della città. La fortezza venne poi distrutta un’altra volta dai bolognesi durante
l’effimero ritorno di Giovanni II Bentivoglio. L’arma Della Rovere era:
“D’azzurro, alla rovere sradicata d’oro, fruttata dello stesso con i rami passati in doppia
croce di S.Andrea”.
Essa venne adottata da Francesco Della Rovere quando salì al trono pontificio con il nome
di Sisto IV; la famiglia, di umili condizioni, era originaria di Savona in Liguria ed il Papa Sisto IV
zio di Giulio II, pensò bene di assumere l’arma della nobile famiglia torinese Della Rovere signori
di Vinovo. Questi, trattandosi di un Papa, accettarono la cosa di buon grado, tanto più che lo stesso
Sisto IV compensò i Dalla Rovere di Torino creando cardinali ben due suoi membri : Cristoforo nel
49
1477 e suo fratello Domenico nel 1478. La storia dell’araldica ecclesiastica registra un altro caso
simile nel 1559 quando venne eletto Papa con il nome di Pio IV il milanese Giovan Angelo De
Medici che nulla aveva a che fare con i Medici di Firenze, ma che tuttavia ne assunse l’arma
rinunciando alla sua, al momento della incoronazione.
F R A M M E N T O N° 22
Il reperto N°22 porta scolpito uno stemma che è quello di Berlingherio Gessi che fu
Vescovo di Rimini nel 1606 e poi cardinale nel 1627. Precedentemente era stato vicario del vescovo
di Bologna. La pietra calcarea risalente alla fine del XVI secolo, reca scolpito, entro una cornice
rettangolare uno stemma con:
“Due leoni affrontati contro rampanti al fusto di un albero piantato su di un monte di sei
cime moventi dalla punta ed il capo D’Angiò”.
L’arma è cimata da una testa d’angelo sormontata da un cappello vescovile con cordoni e
fiocchi laterali. Berlingherio apparteneva ad una famiglia originaria di Zappolino, una località nelle
vicinanze di Bologna che non aveva nulla a che fare con l’omonima famiglia dei conti di Gesso. I
Gessi compaiono a Bologna intorno al XV secolo ed erano iscritti all’arte degli orefici. La famiglia,
divenuta ricca e influente, partecipa alla vita politica della città ottenendo, già verso la fine del XV
secolo l’accesso all’Anzianato, raggiungendo nel 1626 la dignità senatoria con Camillo fratello di
Berlingherio, dignità che tennero fino al 1780.
Berlingherio nacque a Bologna poco prima del 1550 da Giulio e Valeria Segni, studiò presso
l’ateneo della città e, una volta ottenuta la laurea in Diritto si trasferì a Roma presso l’omonimo zio
Berlingherio, uditore di Rota e cugino di Papa Gregorio XIII bolognese anche lui. Nel 1589 ottenne
la cattedra di Diritto Pubblico a Venezia, incarico che lasciò per entrare in prelatura iniziando così
una rapida e brillante carriera: prima vicario generale del Vescovo di Rieti Cesare Segni suo zio
materno, poi a Benevento, poi a Bologna dove venne nominato prevosto della cattedrale. Nel 1599
Clemente VIII lo nominò Luogotenente prima e Vice Gerente civile di Roma poi. Nel 1606 diviene
Vescovo di Rimini e Nunzio Apostolico a Venezia. Nel 1619 rinuncia al vescovado e torna a Roma
ove fu nominato Governatore di Roma. Dopo 4 anni lascia l’incarico, nel 1624 ottiene la nomina
cardinalizia e viene inviato ad Urbino come Governatore. Ritorna a Roma nel 1627, è Prefetto della
Segnatura nel 1633 e Camerlengo del Sacro Collegio nel 1639. Quest’ultimo incarico fu da lui
svolto solo per pochi mesi poiché nell’aprile dello stesso anno moriva per un attacco di gotta,
lasciando il ricordo di un prelato pio, coscienzioso ed incorruttibile. Il Cardinale Gessi fu sepolto in
Roma ed il grande Guido Reni eseguì un suo ritratto. La lastra di marmo venne ritrovata alcuni
decenni fa durante gli scavi per una fognatura nel centro di Bologna, non lontano dalla Curia
50
Vescovile. La lastra, databile fra il 1622 e il 1639, cioè tra la sua elezione al cardinalato e la sua
morte, proviene con ogni probabilità dalla vicina Cattedrale di S. Pietro che, nella prima metà del
XVIII secolo, venne completamente trasformata. E’ quindi verosimile che la lapide sia stata
smurata in quella occasione e poi interrata per insipienza, con altro materiale di scarto.
F R A M M E N T I N° 23 - 24 - 25
Di questi frammenti in calcare tutti di provenienza ignota, solo del terzo è possibile tentare
una identificazione quasi certa. Trattasi di un frammento architettonico su cui è scolpito in rilievo
un leone con nelle branche un ramo con tre pomi (peri) il tronco del leone appare attraversato da
una banda caricata da una stella. E’ anche visibile l’estremità della coda. L’opera denota una mano
esperta e, a giudicare dal frammento il manufatto che doveva essere piuttosto grande, è databile alla
seconda metà del XVI secolo. Orbene proprio sul finire del XVI secolo e precisamente dal 1587 al
1590 era legato a Bologna per la prima volta il cardinale Alessandro Peretti nipote di Papa Sisto V
la cui arma, come si vede sulla fontana del Terribila nel cortile del palazzo comunale, era:
“D’azzurro al leone d’oro tenente tra le zampe anteriori un ramo di pero di verde fruttato
di tre pezzi d’oro e la banda di rosso attraversante caricata in capo da una stella d’oro ed in punta
da un monte di tre cime d’argento posto nel senso della banda”.
L’analogia del frammento con lo stemma descritto qui sopra è evidente, così come la
datazione corrispondente all’epoca della permanenza del cardinal Peretti in città. Tutti questi
elementi fanno quindi ritenere quasi certa l’attribuzione . E’ anche probabile che il pezzo
architettonico provenga dal Palazzo Comunale.
Degli altri due frammenti uno è illeggibile e nell’altro è possibile vedere delle sbarre
doppio merlate per cui è stata avanzata l’ipotesi che possa trattarsi dello stemma dei Duglioli la cui
arma però era:
“D’Azzurro a tre bande doppio merlate d’argento ed il capo d’Angiò”
Tuttavia c’è da rilevare che anche la famiglia degli Abati aveva un’arma che differiva da
quella dei Duglioli solo per i colori e cioè:
“D’azzurro a tre bande doppio merlate d’oro ed il capo d’angiò”.
Gli Abati vennero a Bologna nel 1280 provenienti da Ferrara, altri dicono da Modena, erano
iscritti all’Arte degli orefici e fecero parte del Consiglio dei 600 e degli Anziani consoli dal 1294 al
1430, ma poiché erano avversari della Signoria dei Bentivoglio furono perseguitati e di loro si
perdono le tracce alla fine del XV secolo.
I Duglioli invece era una antica e molto nobile stirpe in cui si annoverano Capitani, Dottori,
Prelati di alto rango e dettero alla Chiesa anche un Beata Elena: morta nel 1520. La famiglia
51
partecipò alla vita politica con Ugolino che fu del consiglio dei Savi nel 1298, Albizzo Gonfaloniere
di Giustizia nel 1321 e Testa nel 1363. Un altro Albizzo di Rinaldo fu insigne Dottore di filosofia e
medicina fiorito verso la metà del XIV secolo. La famiglia che si estinse nel 1622 con Tolomeo
Referendario di Segnatura con eredi i Marsigli, aveva casa in via Galliera. E’ probabile che il nostro
frammento possa provenire da qualche edificio appartenuto a questa famiglia. Lo fa supporre la
datazione del frammento che risale al XVI secolo quando cioè degli Abati non c’è più traccia a
Bologna.
F R A M M E N T O N° 26
La lastra contrassegnata con il N° 26 databile intorno all’ultimo quarto del XV secolo è una
bellissima lapide riproducente l’arma dei Cavazza della Somaglia, pervenuta al museo verso la fine
del secolo scorso, forse dono di un membro della famiglia. La scultura si riferisce al conte Giovanni
Antonio vissuto nel XVI secolo. Particolare interessante è la presenza nell’arma del Capo Visconteo
:
”D’argento a tre biscie di verde ondeggianti in palo ed ingolanti un fanciullo di carnagione
posto in fascia”,
è questo un tipico “Capo di padronanza” messo nell’arma per attestare la devozione della
famiglia ai signori di Milano di cui i Cavazza furono fedeli sostenitori. La famiglia venne investita
del feudo della Somaglia nel 1371 da Bernabò Visconti, investitura confermata nel 1404 da Gian
Maria Visconti. Nel 1452 Francesco Sforza nominò i Cavazza conti e baroni della Somaglia,
pertanto la famiglia, in segno di gratitudine, accostò alla biscia di mezzo del capo le sigle F.- S. (che
non sono presenti nella lapide).
L’arma Cavazza era:
“D’azzurro a tre bande di rosso bordate d’oro e la testa di moro attraversante bendata
d’argento le spalle coperte dello stesso, e con il capo Visconteo.
Cimiero: da un elmo a becco di passero un personaggio uscente, il capo coperto da un
cappello con pennacchio ed avente nella mano destra un breve ondeggiante in fascia con inciso il
motto MEMINISSE JUVAT”.
F R A M M E N T O N°31
Il reperto N° 31 proviene da porta Maggiore, rimonta alla prima metà del XVI secolo e
ricorda il conte Vincenzo Hercolani. Vincenzo di Giacomo Hercolani fu personaggio illustre del suo
tempo, noto collezionista ed erudito, godé della dignità senatoria e fu investito cavaliere da Papa
Giulio II Della Rovere, che allo stesso tempo lo nominò conte delle Rivazze. La contea gli venne
52
poi tolta da Clemente VII nel 1532 proprio nell’anno della lapide. Vincenzo Hercolani morì nel
1557 e la carica senatoriale passò a suo fratello Agostino. Gli Hercolani erano originari di
Bagnacavallo da dove un ramo si trapiantò a Bologna. Dal 1593 la famiglia si divise in tre rami di
cui uno principesco. Sulla lapide lo stemma appare quasi completamente eraso tuttavia è possibile
riconoscere il palato dell’arma al di sotto della quale una breve iscrizione: Vincenzo Hercolani
1532. Gli Hercolani inalberavano : “Palato d’azzurro e d’oro con la banda del primo caricata da
tre corone del secondo attraversante, col capo D’Angiò“.
F R A M M E N T O N° 38
Questa lapide in arenaria, fu rinvenuta nel 1903 durante uno scavo nel terrapieno antistante
la torre di controllo posta nei pressi della Porta di S. Stefano, essa porta scolpita l’arma del Comune
di Bologna accompagnata da una epigrafe in scrittura gotica maiuscola che dice:
“1378, indizione prima, 7 giugno - muro della cappella di S. Maria degli Alemanni, di 17
archi”.
La lapide ricorda quindi la costruzione di un tratto di mura avvenuto nel 1378 con il
contributo dei fedeli della cappella di S. Maria degli Alemanni.
Lo stemma rappresentato sulla lapide non è quello attuale inquartato che compare verso la
metà del quattrocento, quando accanto alla croce rossa in campo bianco è presente la cosiddetta
arma del popolo che è :
“D’azzurro al motto libertas in oro posto in banda”.
I due stemmi per i primi decenni del XV secolo venivano appaiati, ma verso la seconda metà
del secolo i due scudi vengono fusi e inquartati. Non vi è dubbio che il più antico scudo del Comune
di Bologna fu la croce rossa in campo d’argento, non si conosce però quando tale arma venne
adottata poiché la sua più antica raffigurazione risale al 1259 e si trova disegnata su di una rubrica
degli statuti del Comune di tale anno, ma è certo che l’arma sia stata adottata in età anteriore a
quella comunale. Sul perché della sua scelta a parte quella fantastica fornita dal Ghirardacci nella
sua “Historia di Bologna”, non è possibile dire alcunché, certo il simbolo della croce fu adottato
frequentemente da varie città (per esempio Genova, Milano) e come è noto anche la Lega Lombarda
assunse come simbolo un’arma del tutto simile. Probabilmente l’origine dello stemma bolognese
non trova spiegazione se non nell’uso frequente di tale simbolo nei secoli XII e XIII. Da notare
anche che tale arma non compare nei sigilli, ne sulle monete più antiche, è comunque sicuro che la
croce rossa in campo bianco fu l’insegna bolognese per tutto il XII secolo e per la prima metà del
XIII quando con il conflitto tra Impero e Papato, Bologna, schierata con il secondo, a sua volta
53
sostenuto militarmente dalle armi francesi, adottò il capo D’Angiò che in effetti rappresenta una
sintesi dell’Arma di Carlo D’Angiò fratello del re di Francia che era:
“D’Azzurro seminato di gigli d’oro caricata da un lambello di rosso di quattro pendenti”.
Il lambello era la “Brisura” (spezzatura) che indicava la linea cadetta dei reali di Francia: la
casa D’Angiò appunto.
Lo stemma Angioino veniva alzato insieme a quello del Comune in battaglia, e spesso posto
accanto all’arma bolognese nelle miniature; successivamente per riunire insieme le due armi si
pensò di mettere nel capo una sintesi di quello Angioino che fu appunto il lambello di rosso con
alcuni gigli di Francia in campo azzurro. I gigli il cui numero all’inizio fu arbitrario, venne poi
fissato definitivamente in tre, così l’arma di Bologna per l’ultimo quarto del XIII e per tutto il
secolo successivo fu:
“D’Argento alla croce di rosso ed il capo d’Angiò”.
Verso la fine del trecento però il capo d’Angiò scompare, viceversa si aggiunge un altro
elemento araldico: la cosiddetta Arma del Popolo. Anche di questa l’origine è ignota ed il
Ghirardacci dà come al solito, una fantasiosa spiegazione. Sta di fatto che lo stendardo del popolo
appare intorno al 1366 su di una copertina membranacea di un registro del comune. Lo stemma del
popolo in un primo tempo appare appaiato con quello di Bologna per poi inquartarsi con
quest’ultimo verso la seconda metà del XV secolo. Tale forma si è conservata fino ai nostri giorni.
Particolare interessante, sebbene anomalo, è la testa di leone in maestà che cima lo scudo.
Tale ornamento compare nel XVI secolo sulle prime saltuariamente, ma nei secoli successivi
diviene costante ed in pratica sostituisce la corona turrita di cui sono ornati gli stemmi della città.
Da dove derivi tale uso non si conosce, secondo il Cencetti potrebbe originare da alcune monete
coniate nel 1376 quando Bologna, resasi indipendente dal potere papale, si dette una nuova
costituzione affidando il potere esecutivo agli Anziani con a capo il Gonfaloniere ed i Massari delle
Arti. In queste monete per la prima volta compare un leone rampante che tiene nelle branche
anteriori una bandiera con la croce. Il leone con il tempo venne poi ridotto alla sola testa.
F R A M M E N T O N° 40
La lapide contrassegnata dal N° 40 proviene dalle mura della città (terza cerchia) la cui
costruzione, cominciata già nel tredicesimo secolo, si completò solo agli inizi del XV secolo. Giulio
II occupata definitivamente Bologna, ordinò la costruzione di una rocca a Porta Maggiore e la
lapide ricorda appunto l’avvenimento. Il reperto è in arenaria, in cattivo stato e rotto in più
frammenti, vi è scolpito in rilievo uno scudo a testa di cavallo con un leone illeopardito sormontato
54
dal capo d’Angiò, l’arma è posta entro una corona di lauro con bacche ed un fiore a cinque petali in
alto. Sotto lo stemma una iscrizione dove si può leggere:
“Al tempo de Zoane da-- la b.(?.)...sa.”
.Purtroppo il cognome del personaggio è in parte abraso e la data è scomparsa. Tutto ciò
rende impossibile qualsiasi tentativo di identificazione del personaggio, trattasi comunque di un
capitano comandante della rocca.
55
56
57
58
59
60
61
62
63
64
Scarica

Libro prof Giuditta 1 - Società Italiana di Studi Araldici