Elvio Giuditta Testimonianze araldiche al Museo Civico Medievale di Bologna 2 Presentazione Anche noi stessi, la gente di museo, che magari passa più volte al giorno per quelle solite sale, davanti a quei ben noti rilievi, con una pratica d'ufficio sotto il braccio, se un visitatore ce lo chiedesse non sapremmo che rispondere. Proprio come tutti (e cioè dal sindaco al vescovo, dal vigile urbano al bottegaio qui sotto) se qualcuno indicasse con aria interrogativa uno dei mille stemmi che ancor oggi ci stanno sotto gli occhi (o sopra, più spesso) sui portoni dei palazzi, presso gli altari d'ogni chiesa. L'araldica che conosciamo, invece, è un'altra: perché ognuno di noi indovina a colpo sicuro il simbolo della Mercedes, e perfino il tridente della Maserati, e quasi ogni marchio di valigia, di maglietta, di banana; per non dire di quello, onnipresente dall'Alaska alla Nuova Zelanda, che segnala panini rigonfi di carne tritata irrorati di salsa rossastra. Di araldica, insomma, di questa preziosa disciplina che pur tanto ci aiuta nella conoscenza della nostra storia, non sappiamo più nulla. E neppure ne abbiamo più il gusto: se, com'è vero, anche le nostre istituzioni regionali, al momento di scegliersi uno stemma araldico, hanno pateticamente ripiegato piuttosto su un logo, anche parecchio banale, visto ch'è una stilizzata raffigurazione della nostra carta geografica; peggio, cioè, della bandiera di Cipro. Ben venga, quindi, questa amorosa e puntuale fatica di Elvio Giuditta, che colma una lacuna non piccola delle nostre collezioni, e del nostro scarso sapere. Per un museo come il nostro, tutto composto di cose medievali e rinascimentali, questa erudita ma gradevole indagine storica si rivela di grande interesse. Mette il visitatore (e noi stessi, come dicevo) in grado di leggere ciò che a fatica si decifra nelle iscrizioni latine in caratteri goticheggianti, magari mutile; e si può leggere anche dove non c'è alcuna scritta, ma solo uno stemma. Ed è, anche, un punto di partenza: perché ognuno, uscito dal museo, si ritrova gli stessi stemmi quasi in ogni cantone della città; e saprà almeno in parte decifrarli, provando il gusto segreto ma colmo di soddisfazione che si attinge, in paesi esotici, quando si riesce a leggere l'insegna d'un caffè o il nome d'una fermata della metropolitana in caratteri arabi o cirillici. Gli stemmi araldici, che derivano da antiche bandiere di guerra e di contrada, da imprese familiari, da vexilla et insignia che talora risalgono a ottocento anni fa, o più, oggi campeggiano e sventolano ancora: ma quasi solo sulle fiancate degli autobus, come insegna del comune; e neppure i vigili urbani, da noi, ne fanno più uso. Sopravvivono, talvolta, nelle curve degli stadi (proprio come la bandiera nazionale, e l'inno): la lupa di Roma, il toro rampante di Torino, il giglio di Firenze, e poco altro. Capisco ch'è molto fuori moda; eppure non sarebbe un'idea peregrina quella d'insegnarne qualcosa nelle scuole, o almeno nelle aule universitarie; e almeno qui da noi, in Italia, in Europa, ove ogni città antica (tutte, cioè) mostra, agli occhi di chi passa, la memoria visiva d'una storia di famiglie che fa tutt'uno con il passato della città, nelle glorie come nelle nefandezze, e cioè nella storia. Ora, con questo libro in mano (e un altro ne vorremmo, sulla profluvie di stemmi che s'incontra nel nostro palazzo civico), possiamo percorrere con occhio diverso, e più avvertito, le sale del museo: ove i sepolcri dei lettori di diritto (molti), le lapidi funerarie dei guerrieri (poche: siamo a Bologna), le iscrizioni pubbliche, e i fregi, e i capitelli, e i fogli miniati delle corporazioni e delle arti mostrano ovunque stemmi all'inglese, a cartoccio, inquartati, interzati e così via, con immagini simboliche che ci diverranno sempre più familiari; i tanti nostri stemmi saranno così, per usare un'espressione araldica, "parlanti"; e non rischieremo di confondere la rovere di papa Giulio 11 con la quercia d'un partito politico attuale, magari. Prof. Eugenio Riccòmini Direttore del Museo Civico-Medievale di Bologna 3 INTRODUZIONE Il visitatore avvertito ed in cerca d’emozioni, che s’inoltra per le strade della Bologna medievale, attento a percepire il brusio dei secoli che promana dai rossi mattoni dei suoi vetusti edifici, troverà poco lontano dalla cattedrale di S. Pietro, nella attuale Via Manzoni, ciò che cerca. La strada che era una volta la parte iniziale della gloriosa via Galliera, è ingentilita sul lato settentrionale da un portico quattrocentesco al termine del quale, nell’antico Palazzo Ghisilardi, ha sede il Museo Civico Medievale. Il Museo, inaugurato nel 1985, non poteva trovare sede più degna, poiché le sale espositive sono inserite in un contesto architettonico che, di per se stesso, è già un pezzo di Medio Evo. Quando il gran notaro e cancelliere dei Sedici, Bartolomeo Ghisellardi o Ghisilardi,(1) membro influente del governo di Giovanni II Bentivoglio, decise di costruire nel 1474, l’edificio che da lui piglia il nome, non immaginava certo la malasorte che gli sarebbe capitata 15 anni dopo averne terminato la fabbrica. L’area era occupata da case più antiche appartenute alla famiglia Conoscenti, vi era anche una Torre di difesa nota come Torre Conoscenti, ma che certo rimontava ad epoca più lontana. (XI - XII sec.). Il manufatto venne inglobato nel palazzo la cui costruzione fu affidata ad Egidio di Battista Montanari detto Zilio e naturalmente venne utilizzato diversamente dallo scopo per cui era stata costruito. Il Notaro ne adibì una parte a camera da letto, ed era lì che dormiva la notte in cui si verificò il gran terremoto del 1505 e per lo spavento provato, di lì a pochi giorni ne morì. La torre, ed in parte anche le case, erano sorte su di un edificio preesistente attestato sui blocchi di selenite che formavano le mura della Bologna altomedievale. Tali vestigia, convenientemente messe in luce nei recenti restauri per la sistemazione dei locali da adibire a sale espositive, accentuano ancor più il carattere peculiare della raccolta museale, dando all’insieme un particolare e suggestivo fascino. Il nucleo originale del museo si compone degli oggetti provenienti dal Museo Barocco del marchese Cospi (2) e dalla collezione cinquecentesca donata da Ulisse Aldrovandi (3) al Comune di Bologna. A questi oggetti si aggiunsero poi nel tempo raccolte di vetri, maioliche, avori, armi, sigilli frutto di donazioni private. Tutto questo materiale fino a qualche decennio fa era conservato presso il Museo Civico. Successivamente si è avvertita la necessità di fare in modo che, attraverso un corretto itinerario espositivo, si potesse ripercorrere lo sviluppo della Bologna medievale. Di lì l’idea di un museo che, per la razionalità e modernità dei criteri a cui si ispira, si pone all’avanguardia delle iniziative del genere. 4 Nell’adiacente via di Porta di Castello dove una volta si trovava la casa dei Conoscenti, è stato poi allestito un altro spazio espositivo organicamente collegato con Palazzo Ghisilardi, ma con ingresso autonomo, dove ha trovato la sua sede definitiva il LAPIDARIO un tempo sistemato altrove in modo precario. Questa sezione contiene una importante raccolta di lapidi e cippi di epoca medievale e rinascimentale. Tutte le varie sezioni su cui si articola il museo sono particolarmente ricche di rappresentazioni araldiche; tuttavia questo materiale, se per un verso è stato oggetto di studi approfonditi dal punta di vista storico, artistico ed epigrafico, non altrettanto si può dire per quanto riguarda l’araldica. La carenza non è più accettabile poiché tale disciplina oggi si pone con pari dignità, accanto a tutte le altre scienze ausiliarie della storia ed assieme ad esse concorre ad una lettura più esaustiva, di ogni cimelio, reperto o monumento in cui è presente l’elemento araldico. Certo spesso, le ingiurie degli uomini e del tempo che ha subito questo materiale giunto fino a noi, ne rendono difficile e a volte impossibile la lettura, talché ogni ipotesi è suscettibile di revisione e di critiche, ma è altrettanto certo che l’indagine araldica può condurre ad una migliore e più esatta interpretazione di qualsivoglia reperto archeologico oggetto della nostra osservazione. Il nostro vuole essere appunto un tentativo, se pur modesto, di colmare la lacuna là dove possibile; a tal fine, seguendo l’itinerario espositivo del museo così come è stato articolato, sono stati presi in esame tutti gli stemmi incisi, dipinti o scolpiti sugli oggetti ed il materiale archeologico presente nel museo, dando la descrizione di quelli noti, tentando l’identificazione di quelli anonimi o di provenienza ignota, mettendo in risalto, là dove sono presenti le peculiarità araldiche. Purtroppo su vari monumenti, per odio ideologico, si esercitò il genio distruttivo degli scalpellini giacobini che si accanirono in epoca napoleonica, con lena degna di miglior causa, a distruggere ogni rappresentazione araldica ovunque era presente; privando così l’indagine storica di significativi documenti sotto il profilo sia politico che storico artistico. In questi casi si è cercato di descrivere avvalendosi di altre fonti araldiche, quello che era l’aspetto originale prima della furia iconoclasta, soprattutto ricorrendo ai disegni di Marcello Oretti, grande figura di erudito Bolognese del XVIII secolo che ci ha lasciato nei suoi manoscritti numerosi disegni dei monumenti sepolcrali da lui eseguiti prima che gli stemmi venissero erasi. Va tuttavia detto che la fonte, se pur preziosa, non può dirsi scrupolosamente esatta, carente com’è di alcuni dettagli in certi casi, di aggiunte in altri, secondo una interpretazione personale del monumento disegnato, ma che, dal punto di vista araldico, tutto ciò non porta a conclusioni errate. [ 1 ] GHISILARDI, Arma: “Interzato in fascia, nel primo d’argento, nel secondo d’oro a tre bande d’azzurro, nel terzo di rosso”. Antica famiglia bolognese di cui un Graziadio faceva parte nel 1292 del consiglio degli 800, nel 1347 Bartolino faceva parte del Consiglio costituitosi in città in seguito alla morte di Taddeo Pepoli signore di Bologna. Stefano nel 1393 fu ambasciatore dei bolognesi per trattare la pace con Firenze, nel 1412 era Tribuno della plebe e dei 16 riformatori dello Stato di Libertà. Quando Papa 5 Eugenio IV soppresse questa magistratura, il nostro entrò a far parte del consiglio dei 20. Altro personaggio di spicco fu Nicolò di Stefano dottore in legge che eseguì diverse ambascerie a Roma, Firenze, Milano, Venezia, per conto dei bolognesi. Altri fecero parte degli Anziani, altri ancora si distinsero nelle armi. La famiglia si estinse nella seconda metà del XVI secolo nella famiglia Musotti quando Antonio venne adottato da Bartolomeo Ghisilardi in seguito alla morte del proprio figlio Ludovico, ereditando anche la dignità senatoria dei Ghisilardi. [ 2 ] COSPI FERDINANDO : nasce a Bologna nel 1606 da Costanza dei Medici e da Vincenzo; a otto anni viene nominato paggio del granduca di Toscana Cosimo II e nel 1616 entra a far parte nell’ordine dei Cavalieri di S. Stefano. Conduce vita brillante presso la Corte medicea fino al 1624 epoca in cui, in seguito alla morte del padre, rientra a Bologna dove diviene rappresentante del Granducato di Toscana. Nel 1648 ottiene il titolo di Marchese di Petriolo, nel 1660 viene investito della dignità senatoria e nel 1665 diviene per la prima volta Gonfaloniere di Giustizia. Nel 1660 dona al Senato Bolognese il museo di storia naturale e di oggetti archeologici da lui messi insieme. Il museo venne poi dato all’istituto delle scienze nel 1743 per poi passare al Museo Civico archeologico nel 1871. Il Marchese Cospi morì a Bologna nel 1686. ARMA : “D’Oro alla banda d’Azzurro accompagnata in capo da un monte di tre cime di rosso”. Famiglia forse di origine Toscana stando a quanto asserisce il Dolfi, ma certamente di estrazione popolare. Comunque i suoi membri fecero parte del consiglio degli Anziani sin dal 1301. I Cospi cresciuti in ricchezza e potenza parteciparono ininterrottamente alle vicende politiche della città occupando le cariche di Gonfalonieri di Giustizia, Ambasciatori, Riformatori ecc. Nel 1506 Tommaso di Girolamo divenne uno dei 40 senatori nominati da Papa Giulio II per governare Bologna dopo la definitiva cacciata dei Bentivoglio. La carica senatoriale si tramandò ininterrottamente nella famiglia fino a Ferdinando. [ 3 ] ALDROVANDI ULISSE : famoso erudito Bolognese, nacque a Bologna nel 1522. Dopo una gioventù avventurosa e numerosi vagabondaggi conseguì la laurea in Filosofia e Medicina nel 1553 presso l’università della sua città. Nel 1555 ottenne la cattedra di filosofia naturale presso lo stesso ateneo. Nel 1568 fu poi nominato direttore del Giardino dei Semplici (orto botanico) bolognese. Nel 1601 abbandona l’insegnamento pur restando direttore del Giardino, per dedicarsi al riordino e alla pubblicazione dei suoi lavori che riguardano le più svariate discipline; solo una parte dei suoi numerosissimi lavori viene data alla stampa. Muore nel 1605 lasciando in eredità al Comune di Bologna la sua ricca raccolta museale da lui messa insieme compresi i suoi libri ed i suoi manoscritti. ARMA : “D’Azzurro alla fascia d’Oro accompagnata in capo da una rosa ed in punta da un capriolo dello stesso”, alias : “Inquartato, nel 1° e 4° d’azzurro caricato da uan treccia d’oror, nel 2° e 3° pacato d’argento e di rosso”. Antica famiglia bolognese di cui si ha notizia dal 1257 con un Buonagrazia che faceva parte del consiglio degli Anziani. Da allora ben altri undici suoi membri fecero parte di quella magistratura, Bonaccorso nel 1295 era del Consiglio dei Savi e nel 1430 Giacomo Cavaliere Guadente divenne generale di tale ordine militare. Giovan Francesco nel 1483 fu podestà di Lucca e cinque anni dopo di Firenze, nel 1506 faceva parte dei quaranta senatori creati da Giulio II presso il quale venne inviato come ambasciatore. Nel 1586 il duca di Ferrara investì della Contea di Guia, Ercole Di Filippo. Infine Pompeo Cardinale di S.R.C. nel conclave del 1740 contese la tiara per lungo tempo al favorito Cardinal Lambertini (Gregorio XIV). 6 7 Tav. I fig.1 Lo stemma Ghisilardi scolpito su di un mensolone in macigno posto nell’atri del palazzo 8 IL COMUNE DI BOLOGNA Per una migliore comprensione sia del materiale esaminato, che dell’opera e delle funzioni dei personaggi ad esso collegati, riteniamo opportuno dare un breve cenno storico del Comune di Bologna e del suo ordinamento costituzionale. Il Comune sorge a Bologna come di improvviso nel 1116. Fino al 1096, in piena lotta per le investiture, Bologna resta sotto l’influenza di Ravenna schierata con l’Impero. Ma con il ritorno della città all’ortodossia essa si stacca definitivamente da Ravenna: inizia così lo sviluppo economico e risorge la vita associata; il sistema feudale su cui fino ad allora si era retta la città si sfalda, sorgono nuovi raggruppamenti sociali dediti soprattutto ad attività commerciali che in breve diventeranno i protagonisti della vita politica assieme ai gruppi residui del vecchio regime feudale. La città si schiera definitivamente con il Papato di Roma mentre la Diocesi di Bologna si stacca una volta per tutte da Ravenna, nasce lo Studio e con Irnerio la Scuola di Diritto estende rapidamente la sua fama in tutta Europa. Tutte queste circostanze concorrono favorevolmente allo sviluppo di un nuovo soggetto politico che sta per sorgere: i vecchi Conti di Bologna perdono ogni effettivo potere e con la distruzione del Palazzo Imperiale avvenuta nel 1095 scompaiono definitivamente dalla scena politica. L’Imperatore Enrico V sceso in Italia per incamerare i beni di Matilde di Canossa concede nel 1116 al popolo bolognese il perdono per la distruzione del palazzo ed un diploma di privilegi riguardanti la libertà dei commerci, il riconoscimento delle proprietà comuni, l’esenzione da molte gabelle. Questo atto segna la nascita della nuova organizzazione politica: il COMUNE. Il primo documento della nuova entità politica risale però al 1123 dove il popolo bolognese ha come rappresentanti i Consoli che sono in numero di quattro ( uno per ogni quartiere ). Il governo consolare continua certamente fino al 1151 quando la reggenza della città viene assunta da un Podestà, il reggiano Guido da Sasso; a ciò si arriva probabilmente in seguito a contrasti insorti tra i componenti del gruppo dirigente. Al Podestà furono affiancati 4 dottori dello Studio: BULGARO, JACOPO, MARTINO GOSIA, UGO. Più tardi vi fu un ritorno dei Consoli e un nuovo organo costituzionale il “CONSILIUM” composto in un primo tempo di 48 consiglieri provenienti dai nobili, dai causidici e da alcuni rappresentanti delle classi popolari: commercianti ed artigiani. Nel 1172 si ritornò alla nomina di un Podestà ma questa volta forestiero, tale tipo di reggimento continuò con alterne vicende fino al 1228 allorché i bolognesi si ribellarono in armi al podestà Umberto Visconti ed ottennero di partecipare al governo della città con rappresentanti scelti tra i capi delle “Società delle Arti” e “delle Armi” Così a far parte del governo di Bologna entrarono 24 rappresentanti del popolo (6 per quartiere) che presero il nome di “ANZIANI”. Questa magistratura andò sempre più crescendo di importanza ed il numero dei suoi membri variò nel tempo fino a 9 quando nel 1377 il loro numero fu fissato in nove compreso il Gonfaloniere di Giustizia e tale rimase invariato fino a quando non fu soppressa. Gli Anziani Consoli, così come si fecero chiamare, duravano in carica due mesi e non potevano essere rieletti che dopo tre anni, inoltre ogni famiglia non poteva avere nel consiglio degli Anziani più di un rappresentane ( questa regola però non venne sempre osservata). Gli organi che regolavano il Comune bolognese erano i “CONSIGLI” che erano in numero di tre: 1) Il CONSIGLIO GENERALE O DEL POPOLO O DEI 4000, a cui partecipavano tutti i cittadini dai 20 ai 70 anni e che si riuniva una volta all’anno. Esso fu istituito dopo l’insurrezione del 1279 e si collocò accanto al preesistente: CONSIGLIO SPECIALE O DEI 600 O DEI 400, a cui partecipavano i cittadini dai 25 anni in poi e che veniva riunito frequentemente al suono della “Campana degli Anziani”. 2) Il CONSIGLIO DI CREDENZA, composto dagli Anziani, dal Gonfaloniere di Giustizia, dai “Tribuni della Plebe” e dai “Massari delle arti”. 3) Nel 1393 vennero poi eletti dal consiglio dei 600 e da quello di Credenza “RIFORMATORI DELLO STATO DI LIBERTÀ O SENATORI” i in numero di 16. In realtà quello bolognese, pur appellandosi al popolo fu un regime oligarchico tenuto saldamente nelle mani di quel ceto aristocratico e mercantile che fin dall’inizio aveva preso le redini del potere. Tra le Società delle Arti più influente era quella dei ricchi mercanti che deteneva le leve del potere economico: i “MERCATORES”, ed i “CAMPSORES” ( cambiatori di monete, poi veri e propri banchieri).Questi pur essendo di origine popolare, vivevano attraverso i loro consoli, in intimità di rapporti con le consorterie nobili, e spesso nelle lotte tra questi ultimi e il popolo nel periodo podestarile, assumevano un atteggiamento piuttosto oscillante. Peraltro sotto la dizione “POPULUS” erano compresi i maestri artigiani, i piccoli commercianti, i professionisti quali notai, medici, giurisperiti, tutti quelli cioè organizzati in corporazioni di mestieri (Arti) o di quartiere (Armi), da queste organizzazioni erano esclusi i lavoratori dipendenti o le altre categorie più deboli; essi non facevano parte del “popolo”, ed erano esclusi dai diritti politici e dagli uffici. Al di là delle formulazioni di principio, il Comune di Bologna (ma anche delle altre città dell’Italia centrosettentrionale) più che uno stato fu una federazione di associazioni in parte corporative, in parte familiari che fatalmente doveva sfociare nella soluzione signorile. Quando la città venne incamerata nello stato pontificio, fu il Senato, voluto da Giulio II a eleggere il Consiglio degli Anziani che persero così ogni potere e Bologna cadde nelle mani di una oligarchia senatoria del tutto asservita all’autorità papale. 10 Finché Bologna fu libero comune, l’Anzianato rappresentava il potere esecutivo; essi eleggevano il Podestà, il Capitano del popolo, i Sindaci, arruolavano milizie per la difesa e molto spesso le guidavano in battaglia. Sotto il regime della Chiesa tutte queste funzioni decaddero, ne rimasero solo alcune di secondaria importanza, la carica assunse un carattere pressoché onorifico e quella che era stata una istituzione specificatamente caratterizzante l’ordinamento comunale finì con l’essere un privilegio di famiglie patrizie con ricche rendite onde potersi permettere il lusso e lo sfarzo che tale carica comportava. 11 L E A R C H E D E I D O T T O R I 12 Nella cosiddetta sala delle Arche del museo, sono conservati alcuni monumenti funebri: le arche degli antichi Dottori dello Studio Bolognese. Di queste, quattro sono ancora in ottimo stato di conservazione mentre che della quinta si sono salvati solo dei frammenti. Queste tombe per la loro bellezza e grandiosità, sono paragonabili solo a quelle dei grandi personaggi del tempo: sovrani, principi, grandi feudatari. Esse sono lì a testimoniare l’importanza di questa casta intellettuale che esercitò una incontrastata influenza sia culturale che politica nella Bologna medievale e che non trova riscontro in nessun’altra realtà dell’epoca. Nel conflitto tra Impero e Papato, fin dal tempo delle investiture, i due contendenti cercarono di trovare supporti alle loro pretese, così mentre la Chiesa trovò il suo punto d’appoggio nei Vangeli per affermare il suo primato, l’Impero cercò sostegno alle sue tesi nel diritto romano. Era quindi naturale che gli imperatori sollecitassero gli studi di diritto onde trarre conferma e giustificazione della loro autorità. E fu appunto merito dei “GLOSSATORI “ dello Studio Bolognese se, con la riscoperta e l’interpretazione del Digesto Giustinianeo, di cui si era trovata una versione scritta in Italia verso il VI secolo, fu possibile gettare le basi dottrinarie del diritto comune. Si creò così una aristocrazia di specialisti di autorità indiscussa, categoria che si scisse poi in due branche: Gli esperti di giurisprudenza al servizio dello stato: “JUDICES” o Causidici ed i “DOCTORES LEGIS” cioè i maestri che insegnavano il Diritto. Ma lo studio del Diritto servì anche allo sviluppo politico- sociale dello stato oltre che del suo ordinamento. Alla Dieta di Roncaglia del 1158 chi trattò per conto dei Comuni con Federico Imperatore furono proprio i quattro più famosi dottori dello Studio: BULGARO, UGO di ALBERICO di Porta Ravegnana, MARTINO GOSIA e GIACOMO, a loro volta discepoli di quell’Irnerio che a buon diritto è considerato il fondatore della scuola giuridica pubblica Bolognese. L’insegnamento sorse e si sviluppò in forma privata ed il primo grande maestro fu PEPONE presente a Bologna tra il 1072 - 1076. Con IRNERIO poi la scuola raggiunse fama e considerazione in tutta Europa richiamando in città studenti di tutte le nazioni e contribuendo così al rapido sviluppo economico e sociale della città. Lo STUDIO divenne allora un’istituzione pubblica riconosciuta dal Comune e l’insegnante iniziò a percepire uno stipendio fisso. Bologna non fu solamente un centro di studi giuridici per così dire laico; accanto al diritto romano sorse e si sviluppò una scuola di Diritto Canonico con Graziano che fu contemporaneo dei dottori che succedettero ad Irnerio. Questa seconda scuola che si appoggiava alle autorità ecclesiastiche, si affiancò degnamente a quella di diritto romano. Così Bologna divenne centro di cultura laica ed ecclesiastica insieme. A partire da Alessandro III la città mantenne un rapporto ideale non più solamente con l’imperatore ma anche con la Chiesa, anzi con quest’ultima tale rapporto finì col prevalere. Non per nulla Onorio III nel 1219 diede all’Arcidiacono della cattedrale di Bologna l’autorità di concedere il dottorato agli alunni più meritevoli. Tutto ciò dà la misura di quanta importanza avesse la figura del legista nella 13 comunità Bolognese. Era naturale quindi che i dottori venissero riveriti e osannati in vita con onori e ricchezze ed in morte con fastosi monumenti sepolcrali. Di questi sepolcri che esaltano la professione del maestro ne restano in città ventotto, alcuni ancora situati là dove furono innalzati, a forma di p piramide, simbolo di fama imperitura. Quelli conservati nel museo provengono invece dalle aree cimiteriali degli antichi conventi cittadini attualmente scomparsi. Delle quattro arche meglio conservate del museo, in una sola, quella di Carlo dei Saliceti, gli elementi araldici sono giunti intatti fino a noi. I soliti scalpellatori rivoluzionari hanno provveduto a cancellare accuratamente gli stemmi presenti nelle altre, privandoci così di importanti documenti storici. Dal punto di vista araldico quest’Arca che risale alla prima metà del XV secolo, segna il passaggio dal periodo gotico a quello rinascimentale, quando il semplice scudo gotico venne sostituito dalla “TARGA” con ricchi e abbondanti ornamenti esterni. Il maestro lapicida ha avuto così modo di esprimere al meglio le sue capacità artistiche creando un autentico capolavoro. Non va sottaciuto infine, la felice disposizione dei monumenti che si trovano nella sala: le due bellissime Arche dei Saliceti fanno da contraltare a quel capolavoro architettonico che è l’Arca di Giovanni di Andrea il famoso canonista morto nel 1348, ed assieme ai frammenti dell’arca di Giovanni da Lignano, creano una atmosfera di sereno equilibrio e infondono nel visitatore una appagante sensazione di bellezza 14 FRAMMENTI DELL’ARCA DI GIOVANNI DA LIGNANO L’Arca di Giovanni da Lignano fu commissionata, a quanto sostiene il Vasari, mentre il canonista era ancora in vita, ai fratelli veneziani Jacopo e Pietro-Paolo delle Masegne. Il mausoleo si trovava nella chiesa di S: Domenico dove la sua salma fu accompagnata da tutto il popolo con i suoi più autorevoli rappresentanti il 16 febbraio 1383, quando l’illustre personaggio morì, con ogni probabilità, colpito dalla peste. Purtroppo del monumento si sono salvati solo i frammenti conservati nel museo e tuttavia anche da essi è possibile apprezzarne la magistrale esecuzione che denota la mano di un grande artista. Il pezzo più importante è quello che doveva essere la parte anteriore del sarcofago: vi è al centro, ben visibile, una iscrizione in caratteri gotici moderni che rammenta, esaltandola, la figura del defunto con ai lati i due stemmi. L’altro frammento è una formella su cui è scolpito lo stesso stemma posto in un riquadro polilobato finemente lavorato. Lo stemma scolpito è un troncato, nel primo è rappresentato un leopardo passante, nel secondo un albero sradicato. Da notare però che , in tutti gli stemmari bolognesi, sia a stampa che manoscritti ma di epoca posteriore all’arca, l’Arma dei Legnani è un interzato in fascia e cioè, “nel primo d’oro all’aquila spiegata e coronata di nero, nel secondo di rosso al leopardo passante d’oro, nel terzo d’argento all’albero sradicato al naturale”. Alle volte l’albero viene raffigurato come un ramo di corallo al naturale. In realtà la prima fascia (l’aquila di nero in campo d’oro) è stata aggiunta successivamente come si deduce chiaramente dall’Arma scolpita sui frammenti ed è probabile che si tratti del cosiddetto “Capo dell’Impero”. Giovanni era della stirpe degli Oldredi signori di Legnano, Legnanello e Cerri in Lombardia e secondo alcuni la famiglia era originaria della Francia. Giovanni figlio di Girolamo sembra che sia nato intorno al 1320 nel milanese, come lui stesso dichiara. E’ probabile che egli si sia trasferito a Bologna mosso da uno specifico interesse di carattere culturale data la fama di cui godeva lo Studio bolognese nel campo del diritto. Il trasferimento avvenne quasi certamente intorno al 1350 quando lui ottiene un incarico di “ Lettore” come risulta da un mandato di pagamento emesso dallo Studio in suo favore quale Lettore proprio nel 1350. Nell’aprile dell’anno successivo veniva nominato dottore in diritto canonico. Inizia così una brillante carriera che lo vede già nel 1352 Lettore stipendiato di Decretali e ascoltato consigliere giuridico. Nel frattempo pubblica numerosi trattati sostenendo la liceità del potere temporale della Chiesa. Nel 1358 Carlo IV di Boemia lo crea Conte Palatino e Gregorio XI di cui è stimato collaboratore, lo designa quale vicario papale per Bologna nel 1377, carica che gli venne confermata da Urbano VI successore di Gregorio e da lui tenuta fino al 1381. In questi anni oltre all’intensa attività politica pubblica una serie di importanti lavori 15 giuridici tutti a sostegno della Chiesa. Allo scadere del mandato il Papa provvede al suo reincarico ancora per un anno ma nel febbraio dell’anno successivo veniva a morte. La figura di questo famoso canonista campeggia a tutto tondo nella storia dello Studio di Bologna ed il suo ricordo era destinato a continuare nel tempo. Da lui ebbe origine il ceppo dei Legnani bolognesi che furono insigniti del titolo di Marchese prima e Conte poi. Il ramo si estinse con il Conte Girolamo Oldredo di Filippo Andrea morto nel 1805. ARCA DI CARLO ROBERTO E RICCARDO SALICETO L’Arca fu eretta per volere di Carlo in memoria del nonno Roberto, “Lettore e Cavaliere“ e del bisnonno Riccardo, famoso Canonista. Il monumento che trovavasi nella Chiesa di S. Martino fu terminato nel 1403 e mostra chiaramente motivi architettonici veneziani derivanti anche questi dai maestri Lapidici veneti noti come “delle Masegne” attivi a Bologna dal 1386. Il monumento di stile tardo Gotico reca scolpito sui due lati corti del sarcofago l’Arma Saliceti che era: “D’Azzurro al salice sradicato di tre rami ciascuno di quattro foglie il tutto di verde ed il Capo d’Angiò”. Particolare interessante l’Arma è ornata con due diversi cimieri: uno con due leoni uscenti, l’altro un drago uscente che si addenta il corpo. I Saliceti o Da Saliceto erano di origine feudale ma per partecipare alla vita politica cittadina nel 1228 si iscrissero tra i “popolani” e si schierarono con la fazione capeggiata dai Geremei; a seguito delle lotte tra fazioni furono costretti ad abbandonare la città ma nel 1299 ritornarono a Bologna. Successivamente alcuni suoi membri si schierarono con i sostenitori dei Visconti signori di Milano che avevano comprato la città dai Pepoli, Nella famiglia ci furono 80 “Anziani” a partire dal 1282 fino al 1746. I Saliceti possedevano una torre nel cuore della città di cui rimane ancora un troncone. Ma la fama del casato è affidata soprattutto a quattro famosi legisti che si succedettero lungo tutto il XIV secolo fino ai primi anni del secolo XV . Il più antico fu Riccardo di Pietro bisnonno di Carlo, egli fu ambasciatore nel 1336 al re Roberto di Napoli per conto del Comune, poi al pontefice Gregorio XI, fu poi insegnante di diritto canonico a Padova. Suo figlio Roberto dottore in legge famoso, fu chiamato ad insegnare a Venezia. Bartolomeo di Giacomo nipote di Riccardo, insegnò diritto prima a Bologna dove però venne allontanato dal Legato Anglico di Grimoard nel 1370, passò poi a Padova dove rimase 4 anni per ritornare poi a Bologna. Quando iniziò lo Scisma d’Occidente fu tra i giuristi che si schierarono con Urbano VI , ma nel 1390 fu ancora una volta costretto ad allontanarsi da Bologna e rifugiarsi a Ferrara. Riottenuta la cattedra bolognese fu di nuovo costretto a emigrare a Padova quando la fazione dei Maltraversi a cui apparteneva, risultò soccombente. Ritornando a Bologna insegnò ancora nell’ateneo per sei anni. Morì nel 1412 e fu sepolto nel chiostro di S. Domenico. La sua Arca 16 opera di Andrea da Fiesole, trovasi nella sala. Suo figlio Giacomo fu insegnante di Diritto nello Studio sin dal 1387 vivente suo padre, poi passò a Padova per poi ritornare a Bologna nel 1403. Partecipò anche lui alla vita politica e fu più volte degli Anziani, fu anche ambasciatore a Mantova, ed ai Papi Giovanni XXII e Bonifacio IX, morì nel 1418. LA PIETRA DELLA PACE Non si rimpiangerà mai troppo lo scempio fatto della documentazione araldica che caratterizzava questo straordinario documento dovuto alla mano di un ignoto maestro. La pietra celebra l’avvenuta riconciliazione tra il Comune di Bologna e le organizzazioni studentesche dopo un lungo periodo di lotte e di controversie che avevano messo in forse l’esistenza stessa dello Studio. Tutto nacque dal tentativo di rapimento di una ragazza bolognese nipote del celebre professore Giovanni Di Andrea fatta da un giovane studente spagnolo. Giovanna Zagni era il nome della fanciulla e Jacopo da Valencia quello dello studente che per questo fatto venne condannato alla pena capitale. E’ probabile che dietro l’esecuzione della pena capitale vi fossero contrasti tra le varie fazioni che si contendevano il dominio della città. Il Podestà Giustinello temendo che Romeo Pepoli, il futuro signore di Bologna, avesse intenzione di far fuggire lo studente sottraendolo così al corso della giustizia, ne affrettò l’esecuzione, avvenuta nel marzo del 1321. L’impatto fra la popolazione studentesca fu enorme, provocando l’esodo pressoché totale degli studenti e di parecchi professori dalla città. Altrettanto gravi furono le conseguenze economiche per una città il cui benessere era in gran parte fondato sull’afflusso ininterrotto di studenti provenienti da ogni parte d’Europa. Le autorità già nel maggio successivo cercarono una riconciliazione ma solo dopo un anno le trattative ebbero un buon fine: quando come richiesto dagli studenti, venne costruita una cappella espiatoria dedicata alla Madonna della Pace. Il maestro lapicida che scolpì il monumento ebbe solo due mesi a disposizione per eseguire il lavoro; si spiegano così i tratti appena abbozzati di alcune figure. Tuttavia il gruppo degli studenti è reso nei tratti fisionomici in modo veramente straordinario per l’epoca, specie a Bologna. La Madonna con il Bambino è raffigurata come “sedes sapientiae”, oltre che come madre protettiva. A sinistra e a destra della Vergine sotto gli scudi erasi compaiono i nomi di Pietro Revonio di Borgogna e Jaroslao polacco rettore degli studenti “ultramontani” e di Ainardo di Montebello (Vicenza) e Jacopo Languilla di Genova rettori dei “citramontani”. La lapide sottostante riporta i nomi degli altri rettori: Bartolomeo Lamberti da Cipro canonico di Famagosta per gli studenti ultramontani e Bernardo Catenacci canonico di S.Antonio di Piacenza per i citramontani. L’accurata abrasione degli stemmi unita alla mancanza di fonti scritte o iconografiche non permettono alcun tentativo di identificazione. Si tratta di scudi a forma gotica su alcuni dei quali, dalle tracce lasciati dallo scalpellamento si può intravedere la pezza o la figura che 17 era stata scolpita. E’ questo il caso dei due scudi posti in basso a sinistra. Nel primo la pezza scalpellata era certamente una banda, nel secondo si scorge chiaramente una figura pressoché sconosciuta nell’araldica italiana ma abbastanza frequente nell’araldica tedesca o polacca: un rampone, o “doppel haken” posto in palo. Questo era uno strumento bellico che serviva a fissare le scale sulle mura di una città o castello durante l’assalto. Potrebbe trattarsi dell’arma del polacco Jaroslao. 18 19 20 21 L E L A S T R E T E R R A G N E 22 “Come perché di lor memoria sia sovra i sepolti le lastre terragne portan segnato quel ch’elli eran pria” (Dante : Purgatorio, canto XII ) Questi tipici monumenti sepolcrali vennero in voga in Italia piuttosto tardi, negli ultimi decenni del XIII secolo, sostituendo in parte il tipo di sepoltura in uso fino ad allora : LE ARCHE. A differenza di queste ultime, le lapidi sepolcrali occupavano gli spazi interni delle chiese ed i pavimenti dei chiostri, aumentando così la recettività dei luoghi adibiti a cimitero, laddove le Arche, che di solito venivano sistemate sul sagrato o nei giardini dei conventi o delle chiese, per il loro vasto ingombro, non permettevano di far posto che a pochi richiedenti. In questa nuova forma di sepoltura l’araldica si affianca all’epigrafia e diviene specificatamente caratterizzante. L’Arma scolpita sulla pietra non si riferisce solo al personaggio defunto poiché lo stemma nato inizialmente con l’obiettivo di far riconoscere un guerriero in battaglia, acquista rapidamente il significato di segno distintivo del personaggio prima e della famiglia poi. L’arma, più dello stesso cognome, stava ad indicare la continuità della stirpe, l’orgogliosa potenza del casato, la garanzia del suo valore, la sua scelta di parte; essa era inoltre l’emblema attorno a cui si chiamavano a raccolta i membri ed i “fideles” della famiglia. Con il tempo lo stemma si caricò di tale intensità simbolica che non vi fu “corporazione” o “arte”, convento o cattedrale, mercante o studio di Dottore che non ne fosse dotato. E così dal suo significato originario esclusivamente militare lo stemma divenne segno distintivo di ogni personaggio o famiglia esercitante un’arte o professione o mestiere. (Tuttavia va sottolineato che la rappresentazione araldica, carica di questi significati così importanti per l’uomo medievale, ma che oggi sono privi di senso, non ha affatto perduto la sua grande capacità di esprimere mediante le sue figure e i suoi colori, qualità e caratteristiche altrimenti incomunicabili. Le nostre industrie moderne, grandi o piccole, le ditte commerciali, le associazioni sportive o di altro genere, su di un piano diverso ma che si avvale quasi sempre di una componente araldica, cercano di trasmettere attraverso i loro marchi, e le loro insegne, la stessa intensa carica simbolica della vecchia araldica). Ma se le più antiche lastre terragne furono esclusivamente di tipo araldico, ben presto sulla lastra prese posto la figura del defunto scolpita o mediante la semplice incisione oppure in basso rilievo o anche in parte incisa e in parte in rilievo. Il personaggio era rappresentato con le mani giunte e gli occhi aperti e a volte, con un cuscino sotto il capo seguendo così modelli anglo-francesi ma a differenza di questi, con una maggiore sobrietà decorativa.. 23 Spesso fra le mani del personaggio o vicino al capo, in sostituzione di uno dei due scudi che di solito sono scolpiti ai lati del capo, trovasi un libro che assume il valore di simbolo caratterizzante la professione del “giacente”, (legista, dottore). Le tombe dei Dottori sono quelle che più numerose sono giunte fino a noi; viceversa delle lastre del tipo “militare”, raffiguranti cioè il defunto in armatura, che pur dovevano essere abbastanza frequenti, se ne sono salvate molto poche. In questi monumenti sepolcrali, il personaggio, un guerriero, si presenta con le mani giunte e sempre con un drago ai suoi piedi, l’Arma come negli altri tipi di lastra, viene scolpita ai lati del capo; a volte un cimiero sostituisce uno dei due stemmi. Il nome del maestro che può considerarsi l’iniziatore di questa tipologia lo conosciamo: Arriguzzo Trevisano che firma la lastra tombale di Filippo dei Desideri: In epoca più tarda il guerriero viene raffigurato a cavallo e visto lateralmente, e questa è una tipologia prettamente Bolognese di cui il maestro riconosciuto è Bettino di Bologna, l’autore della splendida lastra di Colaccio Beccadelli conservata nella chiesa dei SS. Nicolò e Domenico di Imola. Una tradizione autonoma dunque che nel caso delle lastre militari assume un deciso carattere di originalità. Nei monumenti sepolcrali successivi ( XV sec.) la figura scompare e sulla lastra torna ad essere scolpita solamente l’arma. La semplicità del periodo gotico che, nella purezza delle sue linee conteneva una grande forza evocativa, viene completamente abbandonata. L’Arma è inserita in complicati polilobi con elmo, cimiero, lambrecchini, cartigli ecc. Un altro fatto interessante è la presenza in molte di queste lastre araldiche dei così detti signa o marchi di impresa “affini ai marchi di casa” dell’Europa centrosettentrionale. Tali “Signa”, figure geometriche costituite da cerchi, croci, linee o lettere variamente intrecciate, compaiono frequentemente sulle lastre sepolcrali Bolognesi del sec. XIII e XIV, da soli o assieme all’Arma di famiglia del defunto. Essi sono direttamente imparentati con le tessere mercantili medievali , pezzi monetiformi recanti monogrammi segni mercantili e a volte anche stemmi, che nel Medio Evo venivano usati dai mercanti italiani come contrassegno o marca della società commerciale che effettuava una spedizione. Il contrassegno era legato alla persona del titolare che ne rispondeva personalmente, ecco perché i signa finirono per essere specifici di un personaggio caratterizzandolo all’interno dello stesso nucleo familiare e della compagnia commerciale di cui faceva parte. Nessuna meraviglia quindi se, nella Bologna Medievale, città di spiccato carattere mercantile, molto spesso, sul monumento tombale del defunto compare il segno che lo distinse in vita. Con la fine della Signoria dei Bentivoglio ed il passaggio della città alla chiesa, il periodo delle lastre terragne medievali può dirsi concluso. L’uso di questo tipo di sepoltura inesorabilmente 24 declina nei secoli successivi. Nel XVIII secolo, i nuovi indirizzi culturali, l’esigenza di allontanare i cimiteri dai centri abitati, sia per motivi igienici, sia per necessità di spazio, il rifacimento dei pavimenti delle chiese, determinarono la rimozione e molto spesso la distruzione delle lastre, con lo sconsolante risultato di distruggere per sempre un inestimabile patrimonio archeologico. PAOLO E GIROLAMO FRONTI Lastra in marmo rosa. Qui ci troviamo di fronte ad una rappresentazione esclusivamente araldica di tipo moderno, con scudo a “Targa”, lambrecchini, elmo con cimiero e cartiglio. Purtroppo l’Arma, come al solito, è stata completamente erasa, ma il lavoro scultoreo denota una mano esperta con un superbo leopardo alato e collarinato pieno di slancio e di vigore dalla cui branca destra si diparte il cartiglio con inciso il motto “ne quid nimis” negli angoli inferiori sono poi scolpiti due testine o maschere una delle quali con la bocca drammaticamente spalancata. Sulla cornice corre l’epigrafe : “Sepolcro del reverendissimo legista e scriba bolognese Paolo padre e di Girolamo zio; Alessio Fronti dottore in legge con i fratelli, i figli e i nipoti dedicarono. 1495”. Trattasi del sepolcro che Alessio Fronti, notaio bolognese insieme ai fratelli, anche loro notai, dedica al padre anche lui notaio al servizio del Comune, ed allo zio Girolamo. I Fronti si tramandavano da generazioni la professione notarile e nel XVI secolo raggiunsero i vertici della corporazione con Tideo che fu proconsole dei notai nel 1509 - 1523 - 1529 e Francesco che lo fu nel 1554. L’Arma dei Fronti era : “Trinciato dentato d’Argento e d’oro con il capo d’Angiò”. Quest’arma presenta una peculiarità: quella di contraddire la regola araldica che vieta di mettere metallo su metallo sulla stessa arma (unica eccezione l’arma di Gerusalemme : (“D’Argento alla croce potenziata d’oro accantonata da quattro crocette dello stesso.”) In verità questa famosa regola è stata stabilita in epoca moderna mentre nei secoli XII , XIII , XIV, XV tale divieto non esisteva. B.B. HEIM nella sua recente pubblicazione “Or and Argent” ha preso in esame i più noti stemmari dell’Europa occidentale trovando che, nel solo caso dell’Italia, esaminando l’Elenco Storico della Nobiltà Italiana, l’Enciclopedia Storica Nobiliare dello Spreti ed il Codice Trivulziano conservato al castello sforzesco di Milano, tale regola è stata contraddetta parecchie centinaia di volte. Nell’araldica bolognese infine se ne conoscono numerosi altri esempi. 25 BARTOLOMEO DA VERNAZZA Lastra di marmo rosa di Verona con figura in atteggiamento orante con occhi aperti, il capo eretto poggiato su di un cuscino, con baldacchino. Nel canton destro del capo uno scudo ed in quello sinistro un libro. Nel complesso la scultura, se pur accurata nell’esecuzione, appare piuttosto rigida ed il volto scarsamente espressivo. Lo scudo è stato eraso. Secondo il Breveglieri la lastra, pur lavorata con la tecnica delle lastre terragne, non fu mai sistemata al suolo, ma invece allocata su parete. Titolare del monumento era Bartolomeo da Vernazza dottore in medicina che aveva raggiunto prima di morire, una posizione di primo piano in città. Egli faceva parte del consiglio cittadino costituitosi alla morte di Taddeo Pepoli signore di Bologna. Morì nel 1348, l’anno della peste nera che spopolò l’Europa, ma non si sa se a causa di quella. Poco si sa sulla famiglia che probabilmente venne colpita severamente dalla peste. L’arma dei Vernazza era “D’argento a sei stelle d’oro poste 3-2-1”. ANTONIO DA CA ZANE Lastra in marmo rosa di Verona. L’epigrafe inserita in alto dice: “Sepolcro dello spettabile Ser Antonio del Signor Ludovico da Ca Zane di Venezia e suoi eredi 1460 “. Sul marmo è incisa in una cornice poliloba uno scudo sagomato su cui è scolpito uno strano animale parzialmente eraso dalla testa di uccello, con zampe provviste di unghioni e con la coda, che potrebbe essere anche una volpe stilizzata: Nel complesso una importante rappresentazione araldica in discreto stato di conservazione giacché gli scalpellatori giacobini non riuscirono a portare a termine il loro lavoro. Il monumento fu ritenuto di scarso valore artistico, ma a mio avviso merita maggiore considerazione. L’animale stilizzato ivi raffigurato denota la mano sicura di un artista provetto, dal tratto elegante e raffinato con uno straordinario richiamo al disegno moderno; la lastra proviene dalla chiesa di S. Maria dei Servi in Bologna e la data incisa non è quella della morte come si evince dal testamento dello Zane redatto un anno prima e dove la morte è data solamente come una possibilità. Gli Zane o Ziani era una antica famiglia veneziana tra quelle che fondarono Venezia. Nel 1173 un Sebastiano Zane fu doge e così pure suo figlio nel 1205. L’arma era : “Troncato d’Argento e d’Azzurro alla Volpe Rampante dell’uno nell’altro”. Con ogni probabilità Ser Antonio Zane era un membro della famiglia trapiantato a Bologna, dove risulta aver avuto interessi commerciali e relazioni con membri delle Famiglie Piatesi e Gozzadini. 26 Il suo testamento è conservato presso l’A. S. B. GEREMIA ANGELELLI Lastra in marmo. La figura presenta le mani incrociate, gli occhi chiusi, capo posato su un cuscino, cinque libri intorno alla figura e due scudi erasi negli angoli alti. Forse la lastra fu scolpita da Andrea da Fiesole attivo a Bologna dal 1393 al 1427. Il volto è reso con una espressione intensa e concentrata. L’epigrafe intorno dice : Qui giace il dottor “utriusque jure” canonico della cattedrale cattolica bolognese di nome Geremia degli Angelelli detto Minotto. Spirò il 10 settembre del 1417. Geremia apparteneva ad una illustre famiglia bolognese il cui capostipite fu un Geremia dell’Angelelli che fondò le fortune del casato nella seconda metà del tredicesimo secolo. Ai tempi delle lotte cittadine gli Angelelli furono costretti all’esilio e si divisero in più rami che si trapiantarono in Verona, Vicenza, Lucca. Molti gli uomini illustri: Alberto fu podestà nel 1244 ad Orvieto, Giovanni fu rettore di Ancona nel 1288, Jacopo dottore in legge, nel 1292 faceva parte del consiglio degli Anziani. Altri furono canonici, ambasciatori, dottori e più tardi godettero anche della dignità senatoria la famiglia si estinse con il senatore Angelo Maria di Giovanni Filippo morto nell’anno 1689. Geremia di Giacomo detto Minotto, fu canonico di S. Pietro, la cattedrale di Bologna, nel 1417. Venne inviato dal Cardinal Legato ambasciatore al Papa Bonifacio IX. Morì nel marzo dello stesso anno e fu sepolto nella chiesa di S. Procolo di Palazzo; di qui venne trasportato nella chiesa della Certosa da dove proviene la lastra. Lo stemma Angelelli che sulla pietra tombale appare eraso era: “D’azzurro al grifo rampante d’oro con la bordura di rosso caricata di 14 punte di penne di pavone al naturale”. JACOPO GUARINI Lastra in marmo su cui è scolpito uno scudo entro un polilobo e due altri scudi nei cantoni del capo. L’epigrafe all’intorno dice: “Jacopo di Bartolomeo Guarini, Mastro Balestriere, cittadino bolognese, ed eredi morto nell’anno del Signore 1446 il 13 settembre, la sua anima riposi in pace.” La lastra marmorea presenta le tracce di un precedente rilievo: quello di un guerriero visto di fronte con il capo coperto dall’elmo. A giudicare dalla forma dell’elmo la prima utilizzazione della 27 lastra risale alla prima metà del 1300. Circa un secolo dopo la figura venne sostituita con il polilobo e gli scudi. Gli scudi furono poi abrasi dai giacobini. Nel disegno lasciatoci da M. Oretti, nello scudo grande compare l’Arma Guarini : “D’Azzurro al toro furioso d’oro con al collo un nastro di rosso ed il capo D’Angio “(D’Azzurro a tre gigli d’oro posti tra i quattro pendenti di un lambello di rosso). Sui due scudi posti nei cantoni alti del capo, erano raffigurate due balestre riferentesi al mestiere del defunto. Del personaggio in questione “Magistrum balistrarum” come recita l’epigrafe, si sa poco, ma a giudicare dall’Arme doveva far parte dei Guarini, potente famiglia che ai tempi delle fazioni cittadine fu di parte Lambertazza in lotta con i Geremei, tanto che un suo ramo dovette emigrare a Forlì. Molti di tal nome furono celebri giureconsulti. PIETRO D‘ANCARANO Lastra terragna in pietra. La figura con le mani incrociate sul petto, occhi chiusi, capo piegato a destra, posato su cuscino, con un libro sotto le mani e quattro libri ai piedi. La figura si presenta rivestita in abito domenicano con ampio e frastagliato panneggio e con ai lati due colonne tortili che reggono un arco a tutto sesto con tre lobi interni, con due piccoli scudi (erasi) negli angoli alti. Pietro di Giovanni Nicola fu dottore dello Studio bolognese e lettore di decretali in più di uno studio italiano, fu anche consulente di Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa, antipapa) al concilio di Costanza. Pare che gli Ancarani derivassero dalla stirpe Farnese così come attesta l’arma che era: “D’azzurro a sei gigli d’oro posti 3-2-1” la stessa dei Farnese e come afferma l’epigrafe stessa. La data di morte non è sicura, ma è probabile che morisse intorno al 1416, lasciando eredi i propri figli con la clausola che in caso di estinzione, i suoi beni fossero usati per fondare un collegio per studenti poveri, cosa che effettivamente avvenne e prese il nome di collegio Ancarano. UGO BORGHESANI Frammento di marmo bianco di Verona inciso. Figura in atteggiamento orante, occhi aperti, capo eretto, scudo nell’angolo sin. del capo, completamente eraso. Il frammento fortunosamente recuperato presso la bottega di un marmista nei primi decenni di questo secolo, proviene dalla chiesa di S. Caterina di Strada Maggiore. 28 L’epigrafe all’interno dice: “(Qui giace frate) Ugo che visse umilmente al servizio dell’ Ordine della Milizia della Beata Vergine Maria in favore della cui anima si celebra in questo altare” 20 ottobre 1330. I Borghesani, oriundi della Toscana e così chiamati dal nome della località Borga nel Lucchese, compaiono in città intorno al 1252 con un Ventura che introdusse a Bologna l’arte del lavorare la seta, tanto che furono detti Della Seta. I Borghesani vengono spesso ricordati nelle cronache del tempo. I suoi membri fecero parte del Consiglio Generale dei 2000, dei 600 e furono degli anziani consoli dal 1297 al 1555. Il nostro personaggio era cavaliere dell’ordine della Beatissima Maria Vergine Gloriosa o del Gaudio ordine cavalleresco detto perciò dei frati Gaudenti. Esso era sorto in Linguadoca nel XIII secolo con l’obbiettivo di combattere le eresie allora largamente diffuse in Provenza, dove partecipò alla famosa crociata contro gli Albigesi. Il suo primo Gran Maestro fu proprio quel Simone di Monfort, resosi tristemente famoso per la feroce repressione condotta contro gli eretici quale comandante dei crociati. L’ordine venne poi istituito anche in Italia nel 1233 sotto Papa Gregorio IX, e Bologna ne fu la culla poiché il Patriarca Spirituale della milizia era S. Domenico la cui arca si trova proprio a Bologna. Famosi i nomi di Catalano e di Loderico degli Andalò. Ugo viene menzionato espressamente quale facente parte della milizia della Beata Maria Vergine Gloriosa dal Gualandi nel suo manoscritto ed il Pasquali Alidosi lo annovera fra i frati Gaudenti nell’anno 1290. Sullo scudo eraso del frammento giunto fino a noi era raffigurata l’arma Borghesani : “ D’oro all’ulivo sradicato al naturale”. Sul disegno dell’Oretti è riportata anche l’arma di un altro ramo della famiglia detto degli ALLE’ originati da un Borghesani di tal nome che era : “D’azzurro al leone d’oro con la banda d’argento attraversante, ed il capo d’Angiò”. GRAZIOLO ACCARISI Lastra tombale in marmo rosa La figura si presenta con il capo poggiato su di un cuscino, gli occhi chiusi, le mani posate su due libri, due scudi sono presenti sulla cornice negli angoli alti. L’epigrafe che corre lungo la cornice recita: ”Sepolcro del signor Graziolo di Giacomo detto Zacca, degli Accarisi, dottore in legge, avvocato concistoriale nel quale giace il signor Baldassarre suo figlio, licenziato in diritto canonico morto nell’anno del signore 1434”. La data è riferita alla morte del figlio a lui premorto, viceversa Graziolo ebbe lunga esistenza poiché nel 1470 era ancora segnalato in vita. L’esecuzione della figura fa pensare alla 29 scuola del grande Jacopo della Quercia, ma il tratto alquanto rigido, la fa attribuire ad un allievo scarsamente dotato. Graziolo fu giurista e insegnante dello Studio di Bologna oltre che uomo politico. Tra l’altro fu lui che per primo fece portare in processione per le vie di Bologna la celebre Madonna di S. Luca dal Colle della Guardia dove trovasi il santuario, cerimonia che ancora oggi rappresenta uno tra i più importanti avvenimenti religiosi della città. Gli Accarisi erano originari di Faenza e di parte ghibellina. In seguito alle lotte intraprese contro i Manfredi ai quali contendevano il dominio della città, furono costretti all’esilio nel 1256. I suoi membri si divisero quindi in tre rami di Bologna, Firenze e Modena. Il ramo Bolognese continuò la militanza ghibellina schierandosi con i Lambertazzi. L’arma Accarisi era: “Inquartato diaprato d’oro e di rosso con il capo d’Angiò” Alias: “inquartato di argento e d’azzurro con il capo dell’Impero”. Sulla lastra trovasi scolpita la prima versione ma nel capo d’Angiò anziché di tre gigli araldici ne compaiono solo due. FILIPPO DEI DESIDERI Lastra in pietra calcarea. Il personaggio è rappresentato rivestito di armatura, in atteggiamento orante, con gli occhi aperti, il capo eretto, elmo e scudo negli angoli superiori della lastra. L’epigrafe che corre all’intorno sulla cornice ma che rimonta ad un secolo e mezzo dopo, dice: “Qui riposano le ceneri del nobil uomo Signor FILIPPO DEI DESIDERI, morto nell’anno del Signore 1315 alle idi di luglio”. La scultura è firmata dall’autore ENRICO TREVISANO. Ai lati del capo sono scolpiti lo scudo ed a sinistra l’arma con elmo e cimiero anche questi erasi. I Desideri erano di antica Nobiltà e furono di parte Guelfa. Molti suoi membri si distinsero nella cosa pubblica, altri furono uomini di legge, molti valorosi soldati come Giacomino (1265), Filippo (1285), Filippo (1313). Nel 1506 BERNARDINO fu tra i venti chiamati al governo della città. Del nostro personaggio si sa poco, un Filippo o Filippone Di Filippo faceva parte dei Cavalieri inviati da Bologna in aiuto ai fiorentini minacciati dalle truppe di Arrigo VII nel 1323 ed è probabile che la lastra tombale sia da attribuire proprio a lui. Sullo stemma eraso compariva l’Arma Desideri che era: “D’Azzurro a nove losanghe d’argento accollate in banda con il Capo D’Angiò”. 30 Fig. 14 Lastra sepolcrale di Paolo e Girolamo Fronti Fig. 15 Lastra sepolcrale di Paolo e Girolamo Fronti (da disegno di M. Oretti) Fig. 16 L’Arma Fronti (dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli 31 Fig. 17 Pietra sepolcrale di Bartolomeo da Vernazza Fig. 18 Sepolcro di Bartolomeo da Vernazza (da un disegno di M. Oretti) 32 Fig. 19 Lastra sepolcrale di Antonio da Ca Zane Fig. 20 Arma Zane (tratta da: V. Rolland/Pianches – Le.haye 1926 33 fig. 21 Lastra sepolcrale di Geremia Angelelli Fig. 22 Sepolcro di Geremia Angelelli (da un disegno di M. Oretti) 34 fig. 23 Arma Angelelli (dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli) Fig. 24 Lastra sepolcrale di Jacopo Guarini Fig. 25 Sepolcro Guarini (da un disegno di M. Moretti) 35 fig. 26 L’Arma Guarini (dal “Blasone Bolognae” di F. Canetoli) 36 37 Fig. 30 Lastra tombale di Ugo Borghesani Fig. 31 Sepolcro Borghesani (da un disegno di M. Oretti) Fig. 32 Arma Borghesani (dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli) Fig. 33 Arma Allè (dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli) 38 Fig. 34 Lastra Tombale di Graziolo Accarisi Fig. 35 Sepolcro di Graziolo Accarisi (particolare) Fig. 36 Arma Accarisi (dal “Blasone Bolognese” di F. Canetoli) 39 fig. 37 Lastra tombale di Filippo Desideri fig. 38 Sepolcro di Filippo Desideri (da un disegno di M. Oretti) 40 MONUMENTO GALLUZZI Sono due frammenti di un monumento proveniente dal complesso conventuale di S. Domenico esposti nel museo uno accanto all’altro. Le due sculture in rilievo mostrano: una un dottore in cattedra con ai lati gli scolari che ascoltano, nell’altra è raffigurata la scena dell’annunciazione con accanto, posti entro archi gotici polilobi, due scudi con in mezzo una croce. Con ogni probabilità i due reperti facevano parte dello stesso monumento sepolcrale che, come dice l’epigrafe posta sotto il primo frammento, apparteneva a Bonifacio Galluzzi, “Dottore e Cavaliere” (1) morto nel 1346. Il monumento è coevo e viene attribuito a Bettino da Bologna lo stesso scultore autore della superba lastra tombale di Colaccio Beccadelli che trovasi nella chiesa dei SS. Nicola e Domenico di Imola. Il secondo frammento, molto meno ben conservato del primo, è quello che, dal punto di vista araldico, ci interessa. In esso, procedendo da sinistra troviamo: la scena dell’angelo annunziante, uno scudo cui segue una croce ed un altro scudo ancora, quest’ultimo solo parzialmente conservato. Sui due scudi è raffigurato un gallo con in capo un lambello o rastrello con cinque pendenti o denti tra i quali vi sono quattro gigli araldici. L’arma dei Galluzzi era: “D’oro al gallo al naturale, crestato di rosso, con il capo d’Angiò”. Il cosiddetto capo d’Angiò : “D’azzurro a tre gigli d’oro posti tra quattro pendenti di un lambello di rosso” era molto diffuso nell’araldica italiana specie dell’Italia settentrionale e bolognese in particolare, esso stava ad indicare l’appartenenza alla fazione guelfa e venne introdotto con la venuta in Italia nel 1265 di Carlo I D’Angiò che, una volta sconfitto Manfredi a Benevento, si impadronì del Regno di Napoli. Divenuto così il capo riconosciuto dei guelfi, concesse alle famiglie di quest’ultimi, di porre nelle loro armi il lambello ed i gigli di Francia, in contrapposizione ai ghibellini che ponevano in capo allo scudo “L’aquila spiegata e coronata di nero in campo d’oro ” (Capo dell’Impero). Nel frammento i pendenti del lambello sono cinque anziché quattro ed i gigli quattro invece che tre. Ma nel XIV secolo le regole araldiche non erano state ancora codificate e così accade che le “pezze” araldiche non sempre sono rappresentate allo stesso modo. Ad esempio nella lastra tombale di Graziolo Accarisi i gigli sono addirittura due anziché tre. Con il tempo il significato originario dei capi perse di importanza; molte famiglie cambiarono fazione ma lasciarono nell’arme l’antico capo. E’ possibile quindi che i vari personaggi della stessa famiglia possano avere nello scudo sia 41 l’uno che l’altro capo a seconda dell’epoca in cui vissero; in alcuni casi poi i due capi sono presenti nella stessa arma l’uno “abbassato” sotto l’altro. Bonifacio Galluzzi, celebre legista del suo tempo, apparteneva ad una nobile e potente famiglia bolognese di parte Geremea (guelfa) la cui origine si fa risalire ad un tal Pietro di Enrico vissuto intorno alla metà del XII secolo il cui figlio Rolandino fu console della città nel 1174 - 1179 - 1181. E’ probabile che il cognome derivi da un soprannome dato ad un membro della famiglia , cosa frequente nel medioevo. I Galluzzi presero parte attiva alle lotte fra fazioni che insanguinarono Bologna per tutto il XIII sec. e furono protagonisti di primo piano nei disordini, le risse, gli omicidi che caratterizzarono la lotta politica tra guelfi e ghibellini in quel periodo ( celebri le feroci contese dei Galluzzi contro i Carbonesi di parte ghibellina). Nel secolo successivo la famiglia non partecipò molto al governo della città; per contro molti suoi membri si distinsero nelle lettere e nelle scienze tra i quali Bonifacio e Cristoforo che insegnarono allo Studio, ed Antonio medico e filosofo. A Bologna, nel cuore della città esiste ancora la torre medievale dei Galluzzi. La famiglia si estinse nel 1600. (1) “DOCTOR ET MILES” era questa la formula con cui lo Studio bolognese, nel concedere la laurea, proclamava il neo dottore anche nobile cavaliere, in nome del pontefice. 42 I L L A P I D A R I O 43 Questa sezione del museo comprende materiale di varia natura rinvenuto in occasione di scavi o ristrutturazioni di antichi edifici, chiese, monumenti ecc. Una volta questi reperti archeologici erano raccolti e sistemati in un cortile all’aperto in attesa di una sistemazione definitiva che si è potuta realizzare come già detto, con l’allestimento di uno spazio espositivo ricavato in un edificio adiacente al palazzo Ghisilardi-Fava ma organicamente collegato a questo. Del materiale esposto fanno parte lapidi sepolcrali, cippi armoriati, stemmi, molti dei quali di provenienza ignota o senza iscrizioni oppure mancanti di grossi frammenti che ne rendono in alcuni casi, ardua o impossibile l’identificazione. Questi stemmi risalgono per lo più al XVI e XVII secolo quando Bologna è entrata far parte definitivamente dello stato pontificio ed un gruppo oligarchico di 40 famiglie senatorie successivamente portate a 50, assume il controllo della città. E’ un periodo di grande fervore edilizio dove l’araldica riveste una particolare importanza come segno di distinzione. I grandi palazzi senatori si arricchiscono di stemmi sia scolpiti che dipinti, la moda dilaga ed anche la piccola nobiltà come la ricca borghesia adottano l’emblema araldico sulle loro dimore. Purtroppo con l’avvento della repubblica napoleonica molto di questo materiale viene distrutto, gli stemmi conservati nel museo sono stati recuperati nel tempo sia come rinvenimenti in occasioni di scavi o ristrutturazioni edilizie sia come donazioni o lasciti avvenuti tra l’otto o il novecento. Di tutti questi reperti si cercherà di dare una accurata descrizione azzardando in alcuni casi una attribuzione per gli stemmi non identificati. Come è ovvio ci occuperemo solo del materiale archeologico di interesse araldico, tralasciando quello che , se pur di notevole interesse storicoartistico, non fa riferimento al nostro argomento. Nella descrizione seguiremo la numerazione assegnata ai vari reperti dalla direzione del museo. 44 F R A M M E N T O N° 2 e 3 Cippo di arenaria rinvenuto ad Ozzano, piccolo comune nelle vicinanze di Bologna. Trattasi di una pietra irregolare con un margine superiore obliquo e recante in alto, rozzamente graffito, uno stemma raffigurante due bastoni gigliati posti in croce si Sant’Andrea. L’iscrizione sottostante ricorda i lavori stradali eseguiti a Monte Calderara al tempo di Enrico della Torre podestà di Bologna nel 1268 e dice : “1268, al tempo di messer Enrico Della Torre podestà di Bologna per il comune di Monte Calderaro 15° tratta.” Questi cippi fungevano da termini posti a capo dei tratti di strada che i comuni rurali del circondario di Bologna, erano costretti a fare per volere del Comune bolognese che assegnava loro la costruzione di uno o più tratti. Sui cippi veniva incisa la data del compimento del lavoro e l’arma del podestà in carica quell’anno. Enrico o Erecco D’Ermanno di Pagano fu podestà di Bologna nel 1268, dove sposò Filippa dei Galluzzi, precedentemente era stato a Novara e dopo Bologna fu podestà di Cremona e di Orvieto. Egli apparteneva alla celebre stirpe dei Della Torre signori della Valsassina che furono crociati in Terrasanta nel 1147 Pagano Della Torre combatté con Milano contro Federico II , suo nipote Martino vinse e catturò nella battaglia sull’Adda, Ezzelino da Romano signore di Verona. I Della Torre contesero lungamente il predominio di Milano ai Visconti, anche il nostro fu fiero oppositore dei Visconti come tutti quelli della sua famiglia. Alla battaglia di Desio nel 1277 fu fatto prigioniero da questi ultimi e liberato dopo sette anni di prigionia nel 1284. Non per questo Enrico rinunciò alla lotta che continuò indomito ma senza successo. Nel 1299 divenne podestà di Trieste e nel 1302 ebbe la soddisfazione di vedere i Visconti in fuga. Morì poco dopo. Sul cippo sono raffigurati due scettri gigliati posti in decusse, ma sul codice Trivulziano, stemmario lombardo del XV secolo, l’arma Della Torre o Torriani è un inquartato: “nel primo e quarto d’azzurro a due scettri gigliati e decussati d’oro, nel secondo e terzo d’argento alla torre di rosso merlata alla guelfa aperta e finestrata del campo con il capo d’oro all’aquila di nero coronata del campo”. Sullo stesso codice compaiono altri cinque varianti dello stemma dove però è sempre presente la torre che può essere di rosso o d’argento, posta in capo o attraversante. La pietra su cui è scolpita l’arma Torriani rimonta al XIV secolo e questo porterebbe a credere che l’arma originaria fosse quella dei due scettri gigliati posti in croce di S.Andrea e che solo successivamente sia stata aggiunta la torre come elemento “parlante”. 45 Il frammento N°3 è un cippo di arenaria rinvenuto in via Saragozza. Anche qui in alto è graffito lo stemma del reperto precedente; sulla sua superficie, molto corrosa, è possibile leggere: “ 1268 al tempo di messer Enrico Della Torre podestà di Bologna per il comune di Burzonella, la ottava tratta di 5 pertiche.” Pure questo cippo, come il precedente fu posto a ricordo di lavori stradali. F R A M M E N T O N° 5 Lapide in calcare di forma rettangolare su cui è scolpito uno stemma di tipo gotico costituito da due monti di tre cime affiancati, sormontati da tre gigli posti tra quattro pendenti di un lambello (Capo D’Angiò). L’epigrafe latina in caratteri gotici dice : Nell’anno del Signore 1324 al tempo del signor Pietro Abate del monastero di S. Donato di Pulpiano”. La lapide ricorda la costruzione del monastero fatta da Pietro Abate. Lo stemma è quello del monastero che era sito in territorio di Reggio Emilia. Non si conoscono notizie relative al personaggio. F R A M M E N T O N° 12 Trattasi dell’architrave dell’arca sepolcrale di Tommasino Ramponi che trovavasi sul muro esterno dell’abside della Chiesa di S. Francesco a Bologna. Sulla sua superficie corre una iscrizione a caratteri gotici posta tra due scudi completamente erasi dai giacobini nel 1797. L’iscrizione latina dice : “Nell’anno del Signore 1275 il 25 ottobre. Questo è il sepolcro del signor Tommasino Ramponi”. Sullo scudo di destra era scolpita l’arma e quello sinistro presenta una insolita forma triangolare. Tommasino apparteneva ad una antica e nobile famiglia tra le primarie della città a detta del Guidicini, forse di origine feudale. I Ramponi furono di parte guelfa e nel 1300 la casata si schierò con gli Scacchesi ovvero i partigiani dei Pepoli che avevano per arma uno scaccato di argento e di nero. Ci furono tra i suoi membri capitani, ambasciatori, cavalieri aurati, dottori. Sin dal XII sec. parteciparono attivamente alle lotte fra fazioni. Nel 1194 al tempo in cui Alberto Ramponi rivestiva la carica di console, scoppiarono sanguinose risse tra i suoi sostenitori ed i suoi avversari con uccisioni, saccheggi, incendi. Nel 1216 Armando di Rolando Ramponi firma la pace tra Bologna e Rimini. Suo figlio Scannabecco fu rettore del parlamento che la Lega Lombarda tenne a Bologna nel 1226. Il nostro Tommasino, dopo essere stato podestà di Medicina, tratta la pace fra bolognesi e 46 fiorentini nel 1254. I Ramponi parteciparono, assieme alle altre famiglie Geremee al famoso giuramento di pace tenuto solennemente in piazza con i Lambertazzi nel 1279. Filippo Ramponi partecipò alla congiura che portò all’uccisione di Annibale Bentivoglio nel 1445 restando a sua volta ucciso dai bentivoleschi. Le case dei Ramponi si trovavano nell’antico mercato di mezzo, cuore della città, con accanto la torre feudale eretta intorno al 1120, torre che ancora oggi è possibile ammirare. La famiglia si estinse nel XVII secolo. L’arma Ramponi era : “D’azzurro a tre pali d’argento e la fascia di rosso attraversante”. Alias: “ d’oro a tre pali d’azzurro con il lambello di rosso a quattro pendenti attraversante in capo”. F R A M M E N T O N° 15 Frammento lapideo di sportello sepolcrale in marmo veronese a cui manca la metà sinistra. Vi è raffigurato uno stemma con a destra un leone e a sinistra un bufalo affrontati sormontati da un giglio. Il reperto proviene dalla chiesa delle suore di M. Maddalena in via Galliera a Bologna. L’iscrizione sottostante, parzialmente leggibile sul frammento, secondo il Montieri diceva: “ Gaspare fu Francesco Sangioseffi pose devotamente per se e per i suoi nell’anno del Signore 1460”. Dalla famiglia Sangioseffi ovvero Buffali o Beffali le notizie sono scarse. Il Gualandi dà un albero genealogico striminzito dove risulta che Gaspare di Francesco di Giovanni aveva 4 figli: Antonio, Domenico, Francesco e Benedetto. Il Salaroli dice che i Buffali erano detti ancora ISEPPI da un mastro Iseppo che fu degli anziani nel 1307. Essi fecero anche parte del consiglio dei 600, avevano sepoltura in S. Maria Maddalena ed avevano per arma come scrive il Salaroli: “In campo d’argento un’asta d’oro in palo con giglio rosso in cima alla destra un leone d’oro e alla sinistra un buffalo nero rampanti che sostengono detta asta o lancia” Sul “Blasone Bolognese” invece, l’arma BUFFALI è cosi rappresentata: “D’azzurro ad una lancia da torneo d’oro movente dalla punta e posta in palo, sormontata da un giglio dello stesso, addestrata da un leopardo illeonito d’oro e sinistrata da un bufalo di nero, la testa di fronte, tutti e due toccanti con le zampe anteriori l’asta della lancia ed il leopardo toccante con una zampa posteriore sinistra il fermo della lancia stessa.” 47 F R A M M E N T O N° 16 Proviene dalla chiesa di S. Francesco e si può datare intorno al XIV - XV secolo restaurato poi tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII. In sostanza si tratta di un rifacimento della parte epigrafica del precedente monumento gotico. La raffigurazione araldica è stata anche in questo caso accuratamente erasa, di originale restano i due SIGNA posti negli angoli inferiori della lapide. Fortunatamente Marcello Oretti ci ha lasciato lo schizzo del piccolo monumento così come era prima del lavoro degli scalpellini. L’epigrafe dice “Cosma Maranini restaurò questo sepolcro degli antenati per se e per i suoi che lasciano la vita”. Dei Maranini si hanno scarse notizie, è certo che la famiglia doveva essere di estrazione mercantile come attesta la presenza di due “SIGNA” sul monumento. Secondo il Salaroli erano oriundi di Lecco e furono degli “anziani” dal 1461 al 1560. Il Montefani menziona un Antonio Maranini anziano del 1270 . Nel 1587 avevano casa in via S. Felice sotto la parrocchia dei SS. Gervasio e Prorasio. Francesco Maranini era canonico della cattedrale nel 1533 e Girolamo lo divenne nel 1555 , Cosma era anche lui canonico della cattedrale nel 1591 e di certo fu lui a commissionare il restauro della lastra sepolcrale. Sembra che la famiglia si sia estinta nel 17° secolo sempre a detta del Montefani che parla della presenza a Bologna di un’altra famiglia Maranini moderna con la stessa arma ma che nulla aveva a che fare, a suo avviso coll’antica. L’arma Maranini era: “D’azzurro al rincontro di cervo ramoso d’oro ed il capo d’Angiò F R A M M E N T I N ° 18 - 19 - 20 Questi tre frammenti sono di provenienza ignota. Probabilmente furono rinvenuti in occasione di scavi; alcuni di essi presentano tracce di policromia, ma la loro identificazione è ardua non avendo a disposizione alcun dato di riferimento. In più l’erosione dovuta al tempo, della pietra su cui sono scolpiti, ha sfumato, rendendoli vaghi, i contorni delle figure, talché queste sono di incerta interpretazione. Frammento n° 18, entro uno scudo ovale a cartiglio è raffigurato un toro (?) furioso: l’arma potrebbe essere quella della famiglia Torelli che era: “d’azzurro al toro furioso d’argento con il capo d’Angiò”. I Torelli, secondo il Salaroli ed il Dolfi, si trapiantarono a Bologna nel 1130 provenendo da Ferrara e fecero parte del Consiglio degli Anziani dal 1142 al 1375. Tra i suoi membri Podestà, 48 ambasciatori, Dottori, Cavalieri Gaudenti ecc. Avevano casa con torre, in prossimità della chiesa di S.ta Margherita, vicino alle casa dei Griffoni. Frammento n°19 entro uno scudo a cartiglio è scolpito un cavallo fermo con la zampa anteriore sollevata. Sugli stemmari bolognesi sia a stampa che manoscritti, non esiste un’arma simile e pertanto è impossibile ipotizzare una attribuzione. Frammento n° 20 è ben visibile un grifo rampante ed è quindi quasi certa l’attribuzione alla famiglia Loiani la cui arma era : “d’argento al grifo rampante di rosso” I Loiani o De Loiani, di ascendenza germanica, appartenevano alla antica nobiltà feudale e derivarono il loro nome da Loiano, borgo appenninico poco lontano da Bologna. Arroccati nei loro feudi di montagna condussero una accanita resistenza contro l’autorità comunale che lentamente ma inesorabilmente andava erodendo ogni privilegio feudale. Nel 1266 Ubaldino cedeva il castello di Loiano al Comune che lo fece cittadino bolognese. La famiglia, una volta inurbatasi, partecipò alle lotte politiche cittadine contrastando la signoria di Giovanni da Oleggio prima, e quella dei Bentivoglio poi. I Loiani furono castellani di Pianoro, Piancaldoli, Bisano ecc. Molti i condottieri, gonfalonieri, dottori ecc. La famiglia fu poi investita della dignità senatoria. F R A M M E N T O N ° 21 Questo grande stemma in arenaria di provenienza ignota risale alla prima metà del XVI secolo quando Giulio II Della Rovere scaccia definitivamente i Bentivoglio acquisendo definitivamente la città alla Chiesa. Il manufatto, tenuto conto delle dimensioni e del notevole valore artistico, con tutta verosimiglianza fu commissionato per essere collocato sulla fortezza di porta Galliera fatta costruire da Giulio II sulle rovine dell’antica, eretta dai Visconti quando si impadronirono della città. La fortezza venne poi distrutta un’altra volta dai bolognesi durante l’effimero ritorno di Giovanni II Bentivoglio. L’arma Della Rovere era: “D’azzurro, alla rovere sradicata d’oro, fruttata dello stesso con i rami passati in doppia croce di S.Andrea”. Essa venne adottata da Francesco Della Rovere quando salì al trono pontificio con il nome di Sisto IV; la famiglia, di umili condizioni, era originaria di Savona in Liguria ed il Papa Sisto IV zio di Giulio II, pensò bene di assumere l’arma della nobile famiglia torinese Della Rovere signori di Vinovo. Questi, trattandosi di un Papa, accettarono la cosa di buon grado, tanto più che lo stesso Sisto IV compensò i Dalla Rovere di Torino creando cardinali ben due suoi membri : Cristoforo nel 49 1477 e suo fratello Domenico nel 1478. La storia dell’araldica ecclesiastica registra un altro caso simile nel 1559 quando venne eletto Papa con il nome di Pio IV il milanese Giovan Angelo De Medici che nulla aveva a che fare con i Medici di Firenze, ma che tuttavia ne assunse l’arma rinunciando alla sua, al momento della incoronazione. F R A M M E N T O N° 22 Il reperto N°22 porta scolpito uno stemma che è quello di Berlingherio Gessi che fu Vescovo di Rimini nel 1606 e poi cardinale nel 1627. Precedentemente era stato vicario del vescovo di Bologna. La pietra calcarea risalente alla fine del XVI secolo, reca scolpito, entro una cornice rettangolare uno stemma con: “Due leoni affrontati contro rampanti al fusto di un albero piantato su di un monte di sei cime moventi dalla punta ed il capo D’Angiò”. L’arma è cimata da una testa d’angelo sormontata da un cappello vescovile con cordoni e fiocchi laterali. Berlingherio apparteneva ad una famiglia originaria di Zappolino, una località nelle vicinanze di Bologna che non aveva nulla a che fare con l’omonima famiglia dei conti di Gesso. I Gessi compaiono a Bologna intorno al XV secolo ed erano iscritti all’arte degli orefici. La famiglia, divenuta ricca e influente, partecipa alla vita politica della città ottenendo, già verso la fine del XV secolo l’accesso all’Anzianato, raggiungendo nel 1626 la dignità senatoria con Camillo fratello di Berlingherio, dignità che tennero fino al 1780. Berlingherio nacque a Bologna poco prima del 1550 da Giulio e Valeria Segni, studiò presso l’ateneo della città e, una volta ottenuta la laurea in Diritto si trasferì a Roma presso l’omonimo zio Berlingherio, uditore di Rota e cugino di Papa Gregorio XIII bolognese anche lui. Nel 1589 ottenne la cattedra di Diritto Pubblico a Venezia, incarico che lasciò per entrare in prelatura iniziando così una rapida e brillante carriera: prima vicario generale del Vescovo di Rieti Cesare Segni suo zio materno, poi a Benevento, poi a Bologna dove venne nominato prevosto della cattedrale. Nel 1599 Clemente VIII lo nominò Luogotenente prima e Vice Gerente civile di Roma poi. Nel 1606 diviene Vescovo di Rimini e Nunzio Apostolico a Venezia. Nel 1619 rinuncia al vescovado e torna a Roma ove fu nominato Governatore di Roma. Dopo 4 anni lascia l’incarico, nel 1624 ottiene la nomina cardinalizia e viene inviato ad Urbino come Governatore. Ritorna a Roma nel 1627, è Prefetto della Segnatura nel 1633 e Camerlengo del Sacro Collegio nel 1639. Quest’ultimo incarico fu da lui svolto solo per pochi mesi poiché nell’aprile dello stesso anno moriva per un attacco di gotta, lasciando il ricordo di un prelato pio, coscienzioso ed incorruttibile. Il Cardinale Gessi fu sepolto in Roma ed il grande Guido Reni eseguì un suo ritratto. La lastra di marmo venne ritrovata alcuni decenni fa durante gli scavi per una fognatura nel centro di Bologna, non lontano dalla Curia 50 Vescovile. La lastra, databile fra il 1622 e il 1639, cioè tra la sua elezione al cardinalato e la sua morte, proviene con ogni probabilità dalla vicina Cattedrale di S. Pietro che, nella prima metà del XVIII secolo, venne completamente trasformata. E’ quindi verosimile che la lapide sia stata smurata in quella occasione e poi interrata per insipienza, con altro materiale di scarto. F R A M M E N T I N° 23 - 24 - 25 Di questi frammenti in calcare tutti di provenienza ignota, solo del terzo è possibile tentare una identificazione quasi certa. Trattasi di un frammento architettonico su cui è scolpito in rilievo un leone con nelle branche un ramo con tre pomi (peri) il tronco del leone appare attraversato da una banda caricata da una stella. E’ anche visibile l’estremità della coda. L’opera denota una mano esperta e, a giudicare dal frammento il manufatto che doveva essere piuttosto grande, è databile alla seconda metà del XVI secolo. Orbene proprio sul finire del XVI secolo e precisamente dal 1587 al 1590 era legato a Bologna per la prima volta il cardinale Alessandro Peretti nipote di Papa Sisto V la cui arma, come si vede sulla fontana del Terribila nel cortile del palazzo comunale, era: “D’azzurro al leone d’oro tenente tra le zampe anteriori un ramo di pero di verde fruttato di tre pezzi d’oro e la banda di rosso attraversante caricata in capo da una stella d’oro ed in punta da un monte di tre cime d’argento posto nel senso della banda”. L’analogia del frammento con lo stemma descritto qui sopra è evidente, così come la datazione corrispondente all’epoca della permanenza del cardinal Peretti in città. Tutti questi elementi fanno quindi ritenere quasi certa l’attribuzione . E’ anche probabile che il pezzo architettonico provenga dal Palazzo Comunale. Degli altri due frammenti uno è illeggibile e nell’altro è possibile vedere delle sbarre doppio merlate per cui è stata avanzata l’ipotesi che possa trattarsi dello stemma dei Duglioli la cui arma però era: “D’Azzurro a tre bande doppio merlate d’argento ed il capo d’Angiò” Tuttavia c’è da rilevare che anche la famiglia degli Abati aveva un’arma che differiva da quella dei Duglioli solo per i colori e cioè: “D’azzurro a tre bande doppio merlate d’oro ed il capo d’angiò”. Gli Abati vennero a Bologna nel 1280 provenienti da Ferrara, altri dicono da Modena, erano iscritti all’Arte degli orefici e fecero parte del Consiglio dei 600 e degli Anziani consoli dal 1294 al 1430, ma poiché erano avversari della Signoria dei Bentivoglio furono perseguitati e di loro si perdono le tracce alla fine del XV secolo. I Duglioli invece era una antica e molto nobile stirpe in cui si annoverano Capitani, Dottori, Prelati di alto rango e dettero alla Chiesa anche un Beata Elena: morta nel 1520. La famiglia 51 partecipò alla vita politica con Ugolino che fu del consiglio dei Savi nel 1298, Albizzo Gonfaloniere di Giustizia nel 1321 e Testa nel 1363. Un altro Albizzo di Rinaldo fu insigne Dottore di filosofia e medicina fiorito verso la metà del XIV secolo. La famiglia che si estinse nel 1622 con Tolomeo Referendario di Segnatura con eredi i Marsigli, aveva casa in via Galliera. E’ probabile che il nostro frammento possa provenire da qualche edificio appartenuto a questa famiglia. Lo fa supporre la datazione del frammento che risale al XVI secolo quando cioè degli Abati non c’è più traccia a Bologna. F R A M M E N T O N° 26 La lastra contrassegnata con il N° 26 databile intorno all’ultimo quarto del XV secolo è una bellissima lapide riproducente l’arma dei Cavazza della Somaglia, pervenuta al museo verso la fine del secolo scorso, forse dono di un membro della famiglia. La scultura si riferisce al conte Giovanni Antonio vissuto nel XVI secolo. Particolare interessante è la presenza nell’arma del Capo Visconteo : ”D’argento a tre biscie di verde ondeggianti in palo ed ingolanti un fanciullo di carnagione posto in fascia”, è questo un tipico “Capo di padronanza” messo nell’arma per attestare la devozione della famiglia ai signori di Milano di cui i Cavazza furono fedeli sostenitori. La famiglia venne investita del feudo della Somaglia nel 1371 da Bernabò Visconti, investitura confermata nel 1404 da Gian Maria Visconti. Nel 1452 Francesco Sforza nominò i Cavazza conti e baroni della Somaglia, pertanto la famiglia, in segno di gratitudine, accostò alla biscia di mezzo del capo le sigle F.- S. (che non sono presenti nella lapide). L’arma Cavazza era: “D’azzurro a tre bande di rosso bordate d’oro e la testa di moro attraversante bendata d’argento le spalle coperte dello stesso, e con il capo Visconteo. Cimiero: da un elmo a becco di passero un personaggio uscente, il capo coperto da un cappello con pennacchio ed avente nella mano destra un breve ondeggiante in fascia con inciso il motto MEMINISSE JUVAT”. F R A M M E N T O N°31 Il reperto N° 31 proviene da porta Maggiore, rimonta alla prima metà del XVI secolo e ricorda il conte Vincenzo Hercolani. Vincenzo di Giacomo Hercolani fu personaggio illustre del suo tempo, noto collezionista ed erudito, godé della dignità senatoria e fu investito cavaliere da Papa Giulio II Della Rovere, che allo stesso tempo lo nominò conte delle Rivazze. La contea gli venne 52 poi tolta da Clemente VII nel 1532 proprio nell’anno della lapide. Vincenzo Hercolani morì nel 1557 e la carica senatoriale passò a suo fratello Agostino. Gli Hercolani erano originari di Bagnacavallo da dove un ramo si trapiantò a Bologna. Dal 1593 la famiglia si divise in tre rami di cui uno principesco. Sulla lapide lo stemma appare quasi completamente eraso tuttavia è possibile riconoscere il palato dell’arma al di sotto della quale una breve iscrizione: Vincenzo Hercolani 1532. Gli Hercolani inalberavano : “Palato d’azzurro e d’oro con la banda del primo caricata da tre corone del secondo attraversante, col capo D’Angiò“. F R A M M E N T O N° 38 Questa lapide in arenaria, fu rinvenuta nel 1903 durante uno scavo nel terrapieno antistante la torre di controllo posta nei pressi della Porta di S. Stefano, essa porta scolpita l’arma del Comune di Bologna accompagnata da una epigrafe in scrittura gotica maiuscola che dice: “1378, indizione prima, 7 giugno - muro della cappella di S. Maria degli Alemanni, di 17 archi”. La lapide ricorda quindi la costruzione di un tratto di mura avvenuto nel 1378 con il contributo dei fedeli della cappella di S. Maria degli Alemanni. Lo stemma rappresentato sulla lapide non è quello attuale inquartato che compare verso la metà del quattrocento, quando accanto alla croce rossa in campo bianco è presente la cosiddetta arma del popolo che è : “D’azzurro al motto libertas in oro posto in banda”. I due stemmi per i primi decenni del XV secolo venivano appaiati, ma verso la seconda metà del secolo i due scudi vengono fusi e inquartati. Non vi è dubbio che il più antico scudo del Comune di Bologna fu la croce rossa in campo d’argento, non si conosce però quando tale arma venne adottata poiché la sua più antica raffigurazione risale al 1259 e si trova disegnata su di una rubrica degli statuti del Comune di tale anno, ma è certo che l’arma sia stata adottata in età anteriore a quella comunale. Sul perché della sua scelta a parte quella fantastica fornita dal Ghirardacci nella sua “Historia di Bologna”, non è possibile dire alcunché, certo il simbolo della croce fu adottato frequentemente da varie città (per esempio Genova, Milano) e come è noto anche la Lega Lombarda assunse come simbolo un’arma del tutto simile. Probabilmente l’origine dello stemma bolognese non trova spiegazione se non nell’uso frequente di tale simbolo nei secoli XII e XIII. Da notare anche che tale arma non compare nei sigilli, ne sulle monete più antiche, è comunque sicuro che la croce rossa in campo bianco fu l’insegna bolognese per tutto il XII secolo e per la prima metà del XIII quando con il conflitto tra Impero e Papato, Bologna, schierata con il secondo, a sua volta 53 sostenuto militarmente dalle armi francesi, adottò il capo D’Angiò che in effetti rappresenta una sintesi dell’Arma di Carlo D’Angiò fratello del re di Francia che era: “D’Azzurro seminato di gigli d’oro caricata da un lambello di rosso di quattro pendenti”. Il lambello era la “Brisura” (spezzatura) che indicava la linea cadetta dei reali di Francia: la casa D’Angiò appunto. Lo stemma Angioino veniva alzato insieme a quello del Comune in battaglia, e spesso posto accanto all’arma bolognese nelle miniature; successivamente per riunire insieme le due armi si pensò di mettere nel capo una sintesi di quello Angioino che fu appunto il lambello di rosso con alcuni gigli di Francia in campo azzurro. I gigli il cui numero all’inizio fu arbitrario, venne poi fissato definitivamente in tre, così l’arma di Bologna per l’ultimo quarto del XIII e per tutto il secolo successivo fu: “D’Argento alla croce di rosso ed il capo d’Angiò”. Verso la fine del trecento però il capo d’Angiò scompare, viceversa si aggiunge un altro elemento araldico: la cosiddetta Arma del Popolo. Anche di questa l’origine è ignota ed il Ghirardacci dà come al solito, una fantasiosa spiegazione. Sta di fatto che lo stendardo del popolo appare intorno al 1366 su di una copertina membranacea di un registro del comune. Lo stemma del popolo in un primo tempo appare appaiato con quello di Bologna per poi inquartarsi con quest’ultimo verso la seconda metà del XV secolo. Tale forma si è conservata fino ai nostri giorni. Particolare interessante, sebbene anomalo, è la testa di leone in maestà che cima lo scudo. Tale ornamento compare nel XVI secolo sulle prime saltuariamente, ma nei secoli successivi diviene costante ed in pratica sostituisce la corona turrita di cui sono ornati gli stemmi della città. Da dove derivi tale uso non si conosce, secondo il Cencetti potrebbe originare da alcune monete coniate nel 1376 quando Bologna, resasi indipendente dal potere papale, si dette una nuova costituzione affidando il potere esecutivo agli Anziani con a capo il Gonfaloniere ed i Massari delle Arti. In queste monete per la prima volta compare un leone rampante che tiene nelle branche anteriori una bandiera con la croce. Il leone con il tempo venne poi ridotto alla sola testa. F R A M M E N T O N° 40 La lapide contrassegnata dal N° 40 proviene dalle mura della città (terza cerchia) la cui costruzione, cominciata già nel tredicesimo secolo, si completò solo agli inizi del XV secolo. Giulio II occupata definitivamente Bologna, ordinò la costruzione di una rocca a Porta Maggiore e la lapide ricorda appunto l’avvenimento. Il reperto è in arenaria, in cattivo stato e rotto in più frammenti, vi è scolpito in rilievo uno scudo a testa di cavallo con un leone illeopardito sormontato 54 dal capo d’Angiò, l’arma è posta entro una corona di lauro con bacche ed un fiore a cinque petali in alto. Sotto lo stemma una iscrizione dove si può leggere: “Al tempo de Zoane da-- la b.(?.)...sa.” .Purtroppo il cognome del personaggio è in parte abraso e la data è scomparsa. Tutto ciò rende impossibile qualsiasi tentativo di identificazione del personaggio, trattasi comunque di un capitano comandante della rocca. 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64