Introduzione alla fisiologia
Lezione 1 -
prof. Perciavalle
Il professore: “a me viene chiesto di insegnarvi come funziona un uomo”, quali sono i meccanismi
che permettono a un uomo in condizioni di normalità di funzionare, vedremo quali sono i principi
fisici e chimici che permettono a un organismo complesso di esistere.
Cosa si intende per fisiologia?
La parola deriva dal greco phusis che letteralmente significa natura e quindi il termine fisiologo
dovrebbe indicare lo “studioso della natura”. Il termine fisiologo è stato coniato da Aristotele per
riferirsi a un gruppo di filosofi vissuti 300 anni prima di lui, Talete, Anassimandro e Anassimene.
Questi filosofi furono i primi che cercarono di spiegare i fenomeni naturali non associandoli a
divinità, ma provando a spiegare i fenomeni naturali con la natura stessa e non con un intervento
soprannaturale.
In contrapposizione ai filosofi che ricorrevano alle divinità per spiegare i fenomeni naturali, cioè
quelli che Aristotele chiamava oi teologoi, questi filosofi che spiegavano la natura con la natura
stessa furono chiamati oi fisiologoi.
Da quel momento il termine venne utilizzato per indicare quello che ai giorni nostri chiameremmo
un “naturalista”, tuttavia il termine indica ancora ai nostri tempi chi si occupa di fenomeni vitali,
pensiamo ad es. che in inglese la parola “medico” viene tradotta con physician.
Uno di questi oi fisiologoi prearistotelici era Democrito, secondo il quale “le cause sono inerenti
alle cose” (determinismo), cioè ogni fenomeno è il risultato di qualcosa che lo ha provocato
tuttavia, nel verificarsi, diventa a sua volta causa di qualcos’altro.
Questo criterio deterministico fu introdotto da Democrito e ancora oggi di fatto è quello che
differenzia le scienze sperimentali dalle altre.
Il metodo sperimentale venne messo a punto in parte da Galileo e in parte da Cartesio, tra la fine del
‘500 e l’inizio del ‘600.
Una determinata affermazione non appartiene alla categoria della scienza ma a quella della opinione
quando non esiste la possibilità di dimostrare che quanto viene detto sia vero o falso, cioè quando
l’affermazione non è suscettibile di verifica o di falsifica sperimentale.
Nella scienza comunque esistono anche verità provvisorie, in attesa che qualcuno, migliorando le
tecniche, migliorando gli approcci, dimostri che è falso o almeno incompleto.
Questo semestre verrà dedicato alla comprensione dei principi chimici e fisici che stanno alla base
del funzionamento di un organismo complesso.
# Per dare un’idea della complessità
Ciascuno di noi possiede grossomodo tra 80 e 90 grammi di sangue per kilo di peso corporeo (più 80
nelle donne, più 90 nei maschi), per un totale di circa 5 kili di sangue.
La metà di questa quantità è costituita da acqua, l’altra metà e quindi 2,5 kili, è costituita da cellule.
La maggior parte di queste cellule, il 99.99% appartengono a un tipo cellulare inconfondile chiamato
globulo rosso (priva nucleo e dalla tipica forma a lente biconcava).
Il globulo rosso ha un diametro maggiore di circa 7.5 Ƭ e ne sono presenti 5000 miliardi per litro.
Se immaginassimo di metterle uno dopo l’altro i globuli rossi di un singolo individuo, sono così
numerosi che coprono la metà della distanza tra la terra e la luna!
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Per capire come funziona un organismo complesso è bene iniziare dall’organismo più semplice,
cioè dalla cellula, cioè ad es. un organismo unicellulare.
La membrana crea il confine tra il self e il non-self e la regola principale prevede che l’organismo
potrà sopravvivere a patto che riceva dall’esterno tutto ciò che gli serve ed elimini all’esterno tutto
ciò che non gli serve.
La sopravvivenza di questo individuo è legata a uno scambio tra mondo interno e mondo esterno.
Tra gli elementi che servono alla cellula possiamo annoverare al primo posto l’ossigeno e gli altri
nutrienti come glucosio, amminoacidi, acidi grassi, sali minerali, vitamine. Queste sostanze
vengono metabolizzate e attraverso questi processi metabolici si producono prodotti di rifiuto: ad
es. dall’utilizzazione dell’ossigeno si produce una sostanza tossica, l’anidride carbonica,
dall’utilizzazione delle proteine si formano sostanze tossiche a base di ammoniaca.
E’ semplice sapere di cosa si ha bisogno: la cellula ha bisogno di tutto ciò che nella cellula si
consuma, viene meno, mentre non ha bisogno di ciò che nella cellula si accumula, cioè va in
eccesso. Quando viene mantenuto questo equilibrio, evitando che venga meno ciò che è utile e si
accumuli ciò che è inutile, la cellula si trova in condizioni ottimali.
Oltre a questi aspetti molecolari vi sono poi degli aspetti non molecolari, il più importante dei quali
è legato alla temperatura: La temperatura della cellula non può salire e scendere oltre certi valori,
poiché tutte le cinetiche enzimatiche e tutte le reazioni verrebbero alterate.
Insieme alla temperatura è importante mantenere costante il pH cellulare, perché si sa che
cambiando il pH cambia ad es. anche il comportamento degli amminoacidi (sostanze anfotere).
Il contenuto di acqua è un altro aspetto fondamentale, cioè il rapporto solvente-soluto all’interno
della cellula è molto importante, per cui la concentrazione, l’osmolarità.
· Se si riesce a garantire che sia gli aspetti fisici che gli aspetti chimici non vengono modificati, la
cellula si trova in una condizione ottimale per la sua esistenza.
Nella filogenesi l’unico modo che è stato trovato dagli organismi unicellulari per realizzare questo
obiettivo è vivere in un ambiente fatto di acqua (non a caso il mare è stato il primo ambiente in
cui la vita è nata).
Il motivo è dato dal fatto che: 1. Tutte le cellule viventi sono fatte principalmente da acqua.
2. Soprattutto si sfrutta in questo modo un fenomeno formidabile dell’acqua: l’acqua è un solvente
eccezionale per moltissime sostanze. Le sostanze si sciolgono in acqua e così facendo diffondono:
per il principio di diffusione dei soluti infatti a un certo punto tutti i punti della soluzione hanno la
stessa concentrazione, per cui non è tanto la cellula che va a cercare le sostanze bensì sono le
sostanze che sciogliendosi in acqua diffondono fino a raggiungere la membrana cellulare.
A questo punto devono soltanto attraversare la membrana cellulare, però a una condizione, cioè che
vi sia all’esterno una concentrazione maggiore di quella all’interno: in questo modo per un banale
gradiente di concentrazione la sostanza entra nella cellula.
3. L’acqua ha un elevato coefficiente termico. E’ molto difficile scaldare e raffreddare l’acqua,
per cui una cellula che vive in acqua vive a temperature abbastanza costanti nel tempo.
Il problema sorge nel momento in cui le cellule “decidono” di vivere associate in un organismo
pluricellulare, dove il vantaggio notevole per la cellula consiste nella possibilità di specializzarsi
mentre il vantaggio complessivo per l’organismo è dato dalla somma di tutti questi piccoli vantaggi
di specializzazione.
Problema: come fa a sopravvivere un organismo complesso e soprattutto come fa a sopravvivere
fuori dall’acqua, perdendo così tutti i vantaggi visti in precedenza?
Questo è il problema che si è dovuto affrontare nella filogenesi quando si è passati da organismi
unicellulari a organismi pluricellulari.
Gli organismi complessi sono circoscritti, sono isolati da una “barriera” non permeabile che separa
l’ambiente esterno da quello interno. La pelle umana non è permeabile all’acqua.
Quindi come fanno gli organismi complessi e le loro cellule a ricevere ciò che a loro serve e ad
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eliminare ciò che a loro non serve? Gli organismi complessi ricorrono a un espediente abbastanza
logico dal punto di vista organizzativo: le cellule non vivono a contato le une con le altre, cioè il
contatto è più virtuale che non reale; in realtà infatti le cellule vivono immerse in un liquido, che si
trova tra cellula e cellula, il quale ricalca in un certo senso l’ambiente acquoso, il “mare”
primordiale.
# In un individuo di 70 Kg ci sono circa 45 litri di acqua dei quali circa 30 litri sono compresi
all’interno delle cellule (l’acqua che forma il citoplasma) ma gli altri 15 litri si trovano attorno alle cellule,
cioè costituiscono un compartimento extracellulare.
§ Secondo un’ipotesi che risale alla fine dell’ ‘800 a un grande fisiologo francese (Paul Bernard), il
quale sostenne che all’interno degli organismi complessi si è ricreato in piccolo quello che
succedeva nell’ambiente acquoso primordiale.
Si capisce però che 15 litri sono una quantità molto limitata rispetto al “mare” per cui nell’arco di
pochi secondi le caratteristiche chimico-fisiche di questo ambiente extracellulare si potrebbe
alterare al punto tale che la sopravvivenza delle cellule diventerebbe impossibile.
A questo proposito Paul Bernard sostenne che la sopravvivenza di un organismo complesso dipende
da un fattore, cioè che questi 15 litri di acqua, questo “ambiente interno” come lui lo chiamava,
mantenga inalterato i suoi caratteri chimici e fisici (temperatura, osmolarità, concentrazione dei
soluti).
In che modo le caratteristiche di questi 15 litri di acqua si mantengono inalterati sia dal punto di
vista chimico che dal punto di vista fisico?
Devono esistere dei meccanismi che mettano in relazione questo ambiente interno con il mondo
esterno. Gli organismi complessi si devono dotare quindi di veri e propri “sistemi di
comunicazione” che permettano al mondo interno di venire a contatto con il mondo esterno.
Gli organismi complessi possiedono grossomodo 3 di questi sistemi:
1. Il primo sistema consente l’entrata e l’uscita dall’interno del nostro organismo delle molecole
volatili ed è quello che viene definito apparato respiratorio.
L’apparato respiratorio costituisce la porta attraverso la quale i gas possono entrare e uscire.
Naturalmente entrano i gas che all’esterno hanno una concentrazione maggiore rispetto all’interno e
viceversa. L’O2 all’interno viene consumato per cui entra, la CO2 viene prodotta all’interno ed è
destinata a uscire. L’aria possiede anche altri gas, come l’azoto, ma dal momento che l’azoto non si
consuma e non si produce, non subisce significativi spostamenti ai due lati del sistema.
Qualsiasi gas, in quanto tale, può sfruttare questo sistema di comunicazione.
2. – 3. Gli altri due sistemi sono rappresentati da apparati un po’ più specializzati che servono per
tutte le molecole che non sono volatili. Questi due apparati sono unidirezionali (one way), cioè
uno serve solo in l’entrata, l’altro serve solo in uscita.
L’apparato che serve solo per l’ingresso è quello che viene chiamato apparato digerente, quello che
solo per l’uscita è il rene o emuntorio renale.
Per mezzo di questi due apparati si riesce a far entrare nel corpo e a far uscire dal corpo tutte le
molecole non volatili.
· Qualunque organismo complesso per funzionare deve essere costituito da un insieme di cellule
isolate rispetto all’esterno, che vivono immerse in un ambiente interno liquido e deve essere in
grado di comunicare con l’ambiente esterno attraverso tre aperture che sono l’apparato respiratorio
per l’entrata e l’uscita di gas e altri due apparati unidirezionali che sono l’apparato digerente e il
rene che consentono rispettivamente l’entrata e l’uscita delle molecole non volatili.
Questi sono i requisiti minimi, però non sufficienti!!
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Questi requisiti non sono sufficienti perché si viene a determinare un problema di equilibrio:
immaginiamo una cellula A che si trovi più vicina all’apparato respiratorio rispetto a una cellula B
che si trova più lontano: in teoria la cellula A avrebbe più facilità a ricevere O2 e ad eliminare CO2,
rispetto alla cellula B che in queste condizioni di disuguaglianza non riuscirebbe a sopravvivere.
Bisogna trovare quindi un sistema che annulli questo problema, in cui la distanza non deve avere
importanza: l’unica soluzione che si è trovata e che funziona in tutti gli organismi è rappresentata da
un’idea normale dal punto di vista funzionale: questi 15 litri che rappresentano l’ambiente acquoso
interno dove vivono le cellule non sono immobili, ma in continuo movimento!
In questo modo non ha importanza che la cellula sia vicina o lontana e ad ognuna di esse è garantito
di poter ricevere quello che gli serve e di liberarsi di ciò che non gli serve.
4. Il quarto sistema, che non serve per comunicare con il mondo esterno, ma serve per creare questo
equilibrio, questa uniformità nelle probabilità di nutrizione è l’apparato cardiocircolatorio.
L’apparato cardiocircolatorio ha lo scopo di evitare che l’immobilizzazione dei liquidi metta alcune
cellule nell’impossibilità di rifornirsi: prova di questo ne è il fatto che si muore quasi subito se si
arresta l’apparato cardiocircolatorio, cioè l’arresto cardiaco non è compatibile con la vita se dura
più di 5-6 minuti.
Anche se dopo si rimette in moto il sistema, trascorsi questi 5-6 minuti sono già morti i neuroni per
cui l’individuo non è più un uomo ma un donatore di organi.
In definitiva per fare un organismo complesso sono necessari 4 apparati: tre di questi servono
per gli scambi tra ambiente interno e ambiente esterno (apparato respiratorio, apparato
digerente ed emuntorio renale), il quarto apparato (apparato cardiocircolatorio) non ha scopo
di comunicazione ma serve per mantenere in movimento il liquido che costituisce l’ambiente
interno.
La domanda è: Un organismo così costituito riesce a sopravvivere o non è ancora idoneo?
In teoria un organismo con queste caratteristiche potrebbe sopravvivere, in pratica questo non
accade e il motivo è semplice: tornando al discorso che si tratta di un organismo che vive fuori
dall’acqua, l’organismo deve essere anche in grado di procurarsi ciò che a lui serve.
E’ chiaro che un organismo che vive fuori da un ambiente acquoso, se deve sopravvivere ha
bisogno di trasformarsi da organismo passivo, immobile, in un organismo attivo: questo presuppone
naturalmente la creazione di un nuovo apparato, molto complicato e che rappresenta il vero salto di
qualità evolutivo: il sistema nervoso.
Il sistema nervoso trasforma gli organismi da passivi in organismi attivi e in grado di interagire con
l’ambiente che li circonda, per cui la comparsa del sistema nervoso ha creato una serie di
potenzialità senza le quali naturalmente un organismo complesso non avrebbe nessuna possibilità di
sopravvivenza.
Un sistema nervoso, di qualunque tipo e complessità, deve essere in grado di garantire 3 cose:
- ricevere informazioni*
- elaborare le informazioni
- sulla base di questo elaborazione l’azione
*non si intende soltanto le informazioni ricevute dall’ambiente esterno, infatti vi sono informazioni
altrettanto importanti che provengono dall’interno del nostro corpo: un esempio di queste
informazioni è rappresentato dalla quantità di glucosio nei liquidi.
La diminuzione del glucosio viene avvertita come sensazione di fame e questo obbliga a introdurre
cibo e così facendo viene fatta risalire la concentrazione di glucosio.
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§ Provate a pensare a un verbo che esprima un’azione qualsiasi.
Provate a immaginare adesso di realizzare questa azione senza usare muscoli: vi accorgerete così a
cosa servono i muscoli striati. I muscoli striati sono lo strumento che permette al cervello di
trasformare il pensiero in azione, senza i muscoli striati un organismo complesso non è in grado di
interagire in nessun modo con il mondo che lo circonda.
Nella filogenesi dunque insieme al sistema nervoso è comparso il sistema muscolare e osteoarticolare, senza il quale il sistema nervoso riceve le informazioni, le elabora ma non riesce a
tradurle in azione.
Questo crea un problema ulteriore: il fatto che il sistema nervoso crei azione complica la situazione,
perché fa passare le cellule da un fabbisogno minimo a un fabbisogno che può aumentare da 40 a 50
volte, cioè bisogna adattare il metabolismo delle cellule alle decisioni del sistema nervoso.
Per risolvere il problema dell’adattamento metabolico delle cellule all’esigenza del sistema nervoso
centrale bisogna creare un apparato con il compito di modificare i livelli di attività.
Questo compito viene realizzato attraverso degli strumenti noti abitualmente con il termine ormoni
e lo strumento in questione è il sistema endocrino, il quale dipende comunque dal sistema nervoso
ma permette di adattare il corpo alle decisioni del sistema nervoso.
Riassumendo per fare un uomo sono necessari l’apparato respiratorio, l’apparato digerente,
l’emuntorio renale, l’apparato cardiocircolatorio, il sistema nervoso con “parenti e amici” cioè ossa,
muscoli, articolazioni, tendini e il sistema endocrino.
La prima parte costituita da apparato respiratorio, digerente, reni e apparato cardiocircolatorio
permettono all’individuo di avere semplicemente una vita vegetativa.
La seconda parte costituitala sistema nervoso con parenti e amici e il sistema endocrino permettono
invece all’individuo di avere una vita di relazione, cioè di interagire con l’ambiente che lo circonda.
Un organismo con questi apparati è in grado di sopravvivere però con alcuni problemi: cioè le
cellule negli organismi complessi hanno come comune denominatore il fatto che producono
energia. L’energia necessaria per la loro sopravvivenza viene prodotta principalmente (in molti casi
esclusivamente), all’interno dei mitocondri utilizzando dei processi ossidativi.
I processi ossidativi sono quei processi in cui si produce l’energia mentre si consuma ossigeno: una
parte di questa energia diventa utilizzabile sottoforma di ATP, la maggior parte (l’80%) di questa
energia rimane inutilizzata e viene dispersa nell’ambiente sottoforma di calore.
Il calore del nostro corpo deriva dal fatto che la maggior parte dell’energia che viene prodotta a
livello cellulare rimane inutilizzata.
Quando vi sono processi ossidativi, cioè quando si utilizza l’ O2 inesorabilmente si producono
sostanze tossiche dell’ossigeno che vengono abitualmente chiamate ROS (specie reattive
dell’ossigeno) o radicali liberi (Condorelli non sarebbe d’accordo).
I radicali liberi danneggiano le componenti della cellula e prima o poi questo danneggiamento
ucciderà la cellula. Quindi in tutti gli organismi pluricellulari che usano prevalentemente i
meccanismi ossidativi, quest’ultimi sono associati costantemente alla produzione di ROS che
inesorabilmente determinano un danno della cellula che li sta producendo.
E’ una classica dimostrazione della differenza tra entropia ed entalpia, cioè il secondo principio
della termodinamica.
- Il II principio della termodinamica si può riassumere con “chi mangia fa molliche”
Quando la cellula viene danneggiata e muore si procede alla sua sostituzione, per cui il
rinnovamento cellulare è una caratteristica costante.
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I globuli rossi vengono rinnovati ogni 4 mesi.
Le cellule della pelle ogni 3 settimane.
Le cellule della mucosa gastrica ogni 8 ore (in quel caso anche l’HCl è responsabile)
Il problema deriva dal fatto che esistono delle cellule che non possono riprodursi, ad es. quelle del
sistema nervoso. Il sistema nervoso infatti deve rimanere immutato nel tempo per immagazzinare le
informazioni man mano che queste vengono acquisite.
Di fatto se venissero cambiate ogni 3 mesi, ogni 6 mesi queste cellule verrebbe azzerata (in termini
di ricordi e capacità) la propria vita e si dovrebbe ripartire da quel momento.
Ne deriva che con il passare del tempo, prima o poi le cellule del sistema nervoso vengono
inesorabilmente danneggiate e iniziano a morire con tutti i problemi legati inesorabilmente alla
vecchiaia.
La vecchiaia è una terribile malattia di cui tutti speriamo di ammalarci (Plinio il Vecchio)
Qualsiasi sistema vivente è un sistema a termine.
Come si fa quindi a risolvere il problema della morte?
In natura è stato creato un modo per sopperire a questo problema, cioè quello di trasferire i propri
geni a un nuovo organismo, il quale trasferirà a sua volta i geni a un altro individuo.
La riproduzione è la migliore soluzione che si è trovata in cui non sopravvive il singolo individuo,
ma sopravvivono i suoi caratteri.
Altre strade come la clonazione si sono rivelate un fallimento perché le cellule degli animali clonati
sono già vecchie, con i processi di invecchiamento già avviati.
Agli apparati che sono stati ricordati bisogna aggiungere un nuovo apparato che ciascuno di noi
deve possedere e cioè l’apparato riproduttivo, lo strumento che consente a ciascuno di noi di
trasferire in un nuovo individuo il 50% dei suoi geni, in modo tale da garantire in questo modo la
sopravvivenza dei propri geni nei discendenti.
Ciascuno di noi possiede geni che hanno centinaia di migliaia di anni.
Questi geni sono stati pazientemente trasferiti da una generazione all’altra (la media di
trasferimento generazionale è di 25 anni) per riuscire a garantire questa continuità.
Il vantaggio della riproduzione sessuata, che senza dubbio è più complicata di quella asessuata
perché per generare un individuo ne servono due, consiste nel fatto che mentre l’individuo che si
genera nella riproduzione asessuata è la copia di quello da cui deriva, nella riproduzione sessuata il
nuovo individuo è sempre diverso dal precedente, perché miscela di due genotipi.
Questo garantisce la possibilità di adattamento in seguito al rimescolamento genetico.
In questo semestre vengono definite le leggi di chimica e di fisica che sono alla base del
funzionamento degli organismi viventi a livello della singola cellula.
Nel II semestre si inizierà a parlare di apparati, a partire dalla vita vegetativa, quindi gli apparati
cardiocircolatorio, digerente, respiratorio e il rene.
L’anno prossimo si passerà dalla vita vegetativa alla vita di relazione, quindi il sistema nervoso e
l’endocrino.
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Biofisica della circolazione
Lezione 2 -
prof. Perciavalle
Oggi iniziamo a parlare di biofisica della circolazione cercando di individuare alcuni concetti
chiave che vi dovranno essere di aiuto quando faremo le parti più strettamente fisiologiche.
La circolazione è una definizione che si riferisce all’apparato circolatorio, formato dall’interazione
di tre componenti:
un liquido, definito sangue, che si muove
all’interno di un sistema chiuso di tubi, i vasi sanguigni
spinto da una pompa detta cuore.
Noi dovremo capire quali sono le leggi di fisica, in termini di applicazione biofisica, che regolano il
movimento del sangue all’interno di questo sistema. Il sangue è un fluido, quindi quello che
affermeremo per il sangue ha validità generale per qualunque fluido che si muove all’interno di un
sistema (quindi vale per l’urina che si muove nelle vie urinarie o per l’aria che si muove nelle vie
aeree). Qualunque fluido che si muove all’interno di un sistema di condotti obbedisce a delle leggi.
Quando noi parliamo di cuore, è noto che esso può essere diviso in 2 metà, che dalla vita fetale in
poi non comunicano tra loro. Vi è una metà dx e una metà sx ed ognuna di esse, in posizione
ortostatica è formata da una parte superiore chiamata atrio e una parte inferiore detta ventricolo.
Tutto ciò che il cuore riceve arriva sempre negli atri, invece tutto ciò che il cuore manda esce
sempre dai ventricoli.
Gli atri rappresentano quindi la sezione di entrata del sistema cuore, i ventricoli rappresentano la
sezione di uscita.
In fisiologia e poi in clinica le due metà del cuore vengono considerate come entità separate (infatti
in futuro si parlerà di malattie del cuore di dx o malattie del cuore di sx), e lo possiamo anche
rappresentare graficamente (disegnare): infatti considerando il cuore dx avremo un atrio dx
superiormente ed un ventricolo dx inferiormente. Tutto ciò che arriva all’atrio dx giunge attraverso
le vene cave mentre tutto ciò che esce dal ventricolo dx utilizza l’arteria polmonare e ovviamente
uno schema simile può essere costruito per il cuore sx.
Ovviamente il termine arteria polmonare ci fa comprendere che essa si porta al polmone: nel
polmone vi sono dei capillari, poi si formano delle vene dette vene polmonari che riportano il
sangue al cuore, alla metà sx del cuore, precisamente all’atrio sx. Anche qui vi è un’arteria detta
arteria aorta che esce dal ventricolo sx per fornire una serie di vasi che anch’essi daranno origine a
capillari per cui il circuito riprende.
Ciò che si evince da questo schema è che il sistema circolatorio, dalla nascita in poi, è un sistema
chiuso di vasi in cui il sangue si muove passando prima nel cuore dx e subito dopo nel cuore sx: in
termine tecnico si dice che cuore dx e cuore sx sono montati in serie, per cui un globulo rosso è
costretto, data l’organizzazione, prima nella parte dx e poi in quella sx del cuore.
In definitiva, come l’anatomia ci insegna, tutto ciò che interessa di questo discorso è rappresentato
dai due sistemi capillari del circolo polmonare e del circolo sistemico, perché questa i capillari
sono l’unica parte del sistema in cui le pareti sono permeabili e consentono lo scambio fra interno
ed esterno dei vasi.
Nei capillari polmonari ad esempio penetra ossigeno e fuoriesce l’anidride carbonica mentre nei
capillari del circolo sistemico succede esattamente il contrario: fuoriesce ossigeno verso le cellule
ed entra anidride carbonica sottratta ai tessuti.
Il sistema quindi può essere analizzato secondo due criteri: anatomico o funzionale.
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Da un punto di vista anatomico, tracciando una linea orizzontale, si può dividere la circolazione
in due metà: quello che sta sopra si chiama piccolo circolo o circolo polmonare, quello che sta
sotto si chiama grande circolo o circolo sistemico.
La circolazione polmonare nasce dal ventricolo dx e include arterie polmonari, capillari polmonari,
vene polmonari e finisce a livello dell’atrio sx. La grande circolazione parte dal ventricolo sx e
include l’aorta, tutti i rami che nascono dall’aorta, i capillari e le vene che confluiscono nelle vene
cave superiore e inferiore che sboccano nell’atrio dx con il ripetersi del ciclo.
Se invece si traccia una linea verticale che passa per i capillari, possiamo considerare il sistema da
un punto di vista fisiologico e possiamo analizzare una differenza funzionale: nella parte sinistra
avremo un sangue ricco di ossigeno e povero di anidride carbonica: questo sangue giunge al cuore
sx mediante le vene polmonari, il cuore sx lo metterà nella aorta che provvederà a far arrivare
questo sangue ricco di ossigeno ai tessuti.
A livello tissutale l’ossigeno viene ceduto alle cellule e il sangue acquista l’anidride carbonica,
cambiando naturalmente le pressioni parziali di O2e di CO2: il sangue venoso è povero di ossigeno e
ricco di anidride carbonica e attraverso le vene cave tornerà al cuore dx e da esso si dipartirà
nuovamente l’arteria polmonare che porterà tale sangue ai polmoni con l’obiettivo di eliminare la
CO2 e acquistare l’ossigeno.
In termine tecnico sangue ricco di O2 significa che la pressione parziale di O2 è nell’ordine dei 100
mmHg, povero di CO2 significa che la pressione parziale di CO2 si arresta al di sotto dei 40 mmHg:
questo sangue povero di CO2 e ricco di O2 si chiama arterioso, dal colore rosso vivo.
Invece il sangue dal colore rosso scuro, povero di ossigeno, prende il nome di sangue venoso e ha
una PO2 intorno ai 40 mmHg, mentre la pressione parziale di CO2 è intorno ai 46 mmHg.
· L’aggettivo venoso e l’aggettivo arterioso non derivano dal fatto che il sangue si trova in
un’arteria o in un vena (infatti ad esempio il sangue arterioso si trova anche nelle vene polmonari),
non è quello il problema: l’aggettivo venoso e l’aggettivo arterioso derivano solo dalle pressioni
parziali di O2 e di CO2.
E così, inoltre, una vena non è un vaso che contiene sangue venoso oppure una arteria non è un vaso
che contiene sangue arterioso, il concetto di vena e di arteria deriva solo da un’altra considerazione,
cioè la direzione del flusso sanguigno: centripeta nelle vene, centrifuga nelle arterie.
Qualsiasi vaso porti via sangue dal cuore è un’arteria, qualunque vaso porti sangue verso il cuore è
una vena, indipendentemente che al suo interno si trovi sangue venoso o sangue arterioso.
§ È dunque solo la direzione centripeta o centrifuga che ci permette la distinzione tra vene ed
arterie. In realtà i termini vena ed arteria risalgono ad osservazioni effettuate dai primi anatomici nel
1500, Vesalio e Fabrizio D’Acquapendente ad esempio, i quali durante le dissezioni dei vasi si
accorsero che tagliando una vena essa era piena di sangue, se invece tagliavano un’arteria era
sempre vuota: la parola arteria significa proprio “priva di contenuto”, dunque era facile all’epoca
distinguere in un cadavere una vena da un’arteria poiché se vi era sangue era vena, se non vi era
sangue era arteria. (in seguito vedremo anche il perché, in particolare è un problema di pressione).
Vediamo quali sono le leggi che regolano il movimento di un fluido all’interno di un sistema chiuso
qual è la circolazione umana.
Durante la vita fetale vi sono delle modificazioni.
La prima di tali modificazioni ovviamente riguarda il fatto che il piccolo circolo non esiste, infatti
durante la vita fetale il bambino non respira quindi non c’è motivo di mandare sangue al polmone:
durante la vita fetale al polmone giunge circa l’1% del sangue rispetto a quello che giunge
nell’adulto, questa piccola quota di sangue serve solo per nutrire il polmone ed evitare che esso
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vada incontro ad atresia.
Quindi nel feto l’ossigenazione non deriva dalla circolazione polmonare ma dal fatto che vi è
qualcosa in più, la circolazione placentare, infatti nel feto la circolazione dell’addome dispone di un
vaso aggiuntivo: dall’aorta addominale nascono dei vasi diretti alla placenta, le arterie ombelicali
che portano sangue venoso alla placenta e a livello della quale viene addizionato dalla madre di
ossigeno e privato dell’ anidride carbonica, attraverso le vene ombelicali, reflue dalla placenta,
questo sangue, divenuto sangue arterioso, torna verso l’addome e diventa un ramo della vena porta,
attraverso il fegato questo sangue arterioso raggiunge la vena sovraepatica e da lì va a finire alla
vena cava inferiore e quindi finalmente arriva dell’ossigeno in circolo nel feto.
Quindi la circolazione sanguina pre e post natale sono molto differenti: il momento del parto per il
bambino è drammatico perché il distacco della placenta non permette più di ricavare ossigeno dalla
madre, quindi appena la placenta si stacca il bambino ha un guaio poiché non riceve più ossigeno e
quindi ha 6-7 minuti per mettere in funzione il polmone. Se entro quei 6-7 minuti il polmone
funziona, arriva l’ossigeno e il cervello è salvo; se entro quei 6-7 minuti non arriva ossigeno dal
polmone, i danni cerebrali diventano permanenti e si parla di paralisi cerebrale infantile che il
nascituro porta con sé per tutta la vita sotto forma di spasticità o altre forme cliniche che sono
irreversibili.
Noi per adesso ci limiteremo ad analizzare l’adulto e quindi:
una pompa, il cuore
un liquido, il sangue
Anche se si parla di liquido, il sangue in realtà è un tessuto, costituito da cellule immerse, anziché in
un tessuto vischioso, nel plasma che è formato per il 99% da acqua e che quindi sono abbastanza
libere di muoversi le une rispetto alle altre.
Si può calcolare che in un uomo adulto, se si prende un litro di sangue, poco meno della metà,
quindi il 45% è formato da cellule, il resto cioè la parte acquosa detta plasma rappresenta il 55%:
questo rapporto 45/55 viene definito ematocrito e risulta essere abbastanza costante nel tempo.
* Il 45% di cellule nei maschi, nelle donne si arriva a stento al 40% quindi solitamente la donna
possiede un ematocrito inferiore almeno del 5-6% rispetto ad un uomo di pari età, e questa
differenza rimarrà per tutta la vita della donna dalla pubertà alla menopausa: le differenze tra
maschi e femmine non vi sono o prima della pubertà o dopo la menopausa e questo dipende dagli
ormoni sessuali.
Per quanto riguarda la componente cellulare si ricordi che il 99% di tali cellule sono gli eritrociti,
globuli rossi, che servono al trasporto dell’ossigeno nel sangue mediante l’emoglobina.
Il restante 1% è costituito dalle altre cellule del sangue e cioè i leucociti (globuli bianchi) e le
piastrine.
La maggior parte del sangue è formato dagli eritrociti, inconfondibili perché non hanno il nucleo.
L’altra parte , il 55%, è la parte liquida, cioè il plasma che rappresenta la parte privata di cellule.
Quindi 45/55 per l’uomo, e 40/60 per la donna sono dei valori di ematocrito abbastanza normali.
Se si considera 1 litro si sangue e di questo se ne prende un milionesimo di litro, quindi 1 ȝl (o 1
mm³) un uomo possiede 5 milioni di globuli rossi, una donna circa 4,5 milioni e tra l’altro i globuli
rossi nei maschi sono un po’ più grandi quindi contengono una quantità maggiore di emoglobina
rispetto ai globuli rossi delle donne.
# In un individuo di sesso maschile vi è una maggiore concentrazione di Hb, 160-170 gr per litro,
mentre in una donna circa 120-130 gr per litro.
Inoltre una donna possiede meno litri di sangue, a parità di peso corporeo, rispetto ad un uomo:
un maschio ha 80-85 ml di sangue per kg di peso corporeo, una femmina ne possiede circa 70-75 ml
per kg di peso corporeo.
Quindi le donne, tra la pubertà e la menopausa, hanno una significativa inferiorità sia in termini di
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quantità di sangue sia in termini di cellule che costituiscono il sangue e quindi anche di quantità di
emoglobina Hb per il trasporto dell’O2.
C’è un motivo di base: una donna, fra la pubertà e la menopausa, è formata per il 25% da grassi,
quindi il peso di una ragazza normopeso di 1,60 m e di 50 kg, è dato per il 25% da grassi; un
maschio normopeso di 1,70 m che pesa 65 kg non supera mai il 12% di grassi: la differenza è che la
parte non occupata da grasso nel maschio è formata da tessuto muscolare.
Quindi più tessuto muscolare meno tessuto adiposo nell’uomo, mentre nella donna più tessuto
adiposo ovviamente a spese del tessuto muscolare.
Questa differenza presuppone dei vantaggi ma anche degli svantaggi, ad esempio nelle donne, il
fatto che il pannicolo adiposo sia più sviluppato che nei maschi, assicura una migliore protezione
nei confronti della termodispersione, cioè per intenderci quando una ragazza va in acqua perde
calore in quantità inferiore rispetto ad un maschio.
Inoltre è opportuno ricordare che i grassi hanno un peso specifico inferiore a quello del tessuto
muscolare: 1 litro di tessuto muscolare pesa 1 kg, mentre 1 litro di tessuto adiposo pesa 700 gr,
quindi una ragazza ha un rapporto volume/peso più favorevole rispetto ad un maschio.
§ Questo rappresenta ad esempio un vantaggio nel nuoto perché una ragazza galleggia più
facilmente e disperde il calore meno velocemente: questo ci spiega ad esempio perché nelle gare di
nuoto di lunga durata vincono sempre le donne, non c’è partita.
Ogni 2-3 anni viene tenuta una gara di nuoto che consiste nella traversata dello stretto di Bering,
che separa l’Alaska dalla Siberia, ebbene non solo hanno vinto solo donne, ma nessun maschio ha
mai finito la gara! Poiché ovviamente la termodispersione è tale che i maschi non riescono a finire
la gara.
Una ragazza ha una capacità di trasportare l’ossigeno nel sangue del 20% inferiore rispetto a quella
di un ragazzo perché come visto ha meno sangue, meno globuli rossi, meno Hb.
§ Questa osservazione aveva portato alla conclusione che una donna è meno adatta a compiere
prestazioni che richiedono ossigeno, cioè lavoro aerobico e quindi con questa strana idea
(è esattamente al contrario poi vedremo) fino agli anni 80 alle olimpiadi alle donne venivano
proibite certe gare di lunga durata come la maratona. Solo a partire dagli anni 80 le donne sono state
ammesse a tali gare e considerando i tempi registrati è possibile affermare che nel corso degli anni
si avrà parità di prestazioni.
La vera differenza non è nel lavoro aerobico ma nel lavoro anaerobico, nella forza esplosiva:
lì non c’è partita tra maschi e femmine. Ad esempio ci saranno 4 donne al mondo che corrono i 100
m in meno di 11 secondi, invece ci sarà qualche milione di uomini che corre i 100 m in meno di 11
secondi, addirittura c’è chi li corre in meno di 10 s.
( Il record mondiale di sollevamento pesi femminile è di 130 Kg, mentre il record mondiale di
sollevamento pesi maschile è di 247 Kg, il che significa che lui solleva lei mentre solleva i pesi
L’obiettivo di oggi è fornire le linee guida delle leggi che regolano la circolazione.
I primi studi a cui faremo riferimento risalgono alla fine del 400’ , quando Leonardo da Vinci iniziò
a studiare le leggi che regolano il movimento dei fluidi, il primo vero grande fisico dell’idraulica fu
dunque Leonardo.
Leonardo era interessato all’idraulica per motivi tutt’altro che nobili perché in quell’epoca Firenze
era in guerra con Pisa e Leonardo studiava per cercare di deviare il fiume Arno e non far arrivare
acqua a Pisa, dunque i primi studi avevano come obiettivo quello di creare un disagio. Però, nel fare
questo, scoprì un fenomeno che è la prima legge che verrà analizzata e prende il nome di legge di
Leonardo, la quale stabilisce questo: se si ha un circuito chiuso, cioè in cui il liquido non può ne
entrare ne uscire ed è costretto a muoversi all’interno di esso, se ci si mette in un punto qualunque e
si va a vedere quanto liquido passa in un minuto, per esempio 5 litri in un minuto, in quello stesso
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istante in qualunque altro punto del circuito passeranno 5 litri al minuto, cioè in un sistema chiuso la
portata, o flusso, è uguale in tutti i punti del circuito (legge dell’equivalenza delle portate o legge di
Leonardo).
Questa è la prima grande osservazione da cui partì lo studio della moderna idrodinamica.
La legge dell’equivalenza delle portate fu un fenomeno interessante, Leonardo infatti aveva notato
un fenomeno noto : se in un punto del circuito si allarga il tubo, facendolo diventare più grande, la
velocità del flusso rallenta; se il tubo si restringe, la velocità del flusso aumenta, ma la quantità di
flusso cioè il numero di litri che in un minuto attraversa la sezione è costante. Per cui se la sezione è
più piccola affinché passino sempre 5 litri/minuto il flusso deve essere più veloce, se invece la
sezione è più grande deve essere più lento; quindi cambia la velocità e non la portata (o fluido) che
è costante e naturalmente la velocità del flusso è inversamente proporzionale alla sezione.
Dunque tutte le volte che la sezione si allarga il flusso rallenta e tutte le volte che la sezione
diminuisce il flusso accelera ma quanto fluido passa nella sezione, nell’unità di tempo, è costante,
non cambia. Questo è il contributo di Leonardo, che però non conosceva una cosa…
La svolta avviene circa 100 anni dopo, nel 600’ in Svizzera, dove si verificò un fenomeno curioso:
all’interno della stessa famiglia nacquero una serie di matematici e fisici, la stessa famiglia per 200
anni ha fornito fisici e matematici alla scienza, la famiglia Bernoulli.
Tra i tanti Bernoulli vi fu Joan, il quale si occupava di dinamica dei fluidi però indirettamente,
poiché egli in realtà si occupava di un altro concetto: fu il primo a studiare il concetto di energia.
Egli affermava che se qualcosa si muove è perché possiede una energia cinetica che permette,
appunto, a questa particella di potersi muovere, e quindi egli si pone la seguente domanda:
se si cambia la sezione del condotto e la particella rallenta significa che è cambiata la sua energia
cinetica, se rallenta vuol dire che ha una minore energia cinetica o se accelera vuol dire che ha una
maggiore energia cinetica. Quindi Bernoulli si chiede: quando la particella rallenta e ha meno
energia cinetica, l’energia in meno dove è andata a finire? E quando accelera e quindi ha una
maggiore quantità di energia cinetica, l’energia in più da dove l’ha presa?
Questa è la domanda che si pose Bernoulli, per Leonardo era ancora troppo presto perché non aveva
il concetto di energia.
Quindi Bernoulli introduce un altro concetto: l’energia cinetica è solo una parte dell’energia che la
particella possiede, infatti la particella possiede una quantità di energia X totale, una parte della
quale in un certo momento si manifesta come velocità, il resto rimane energia potenziale.
Quindi se si ha un valore 100 di energia, con un condotto di un certo diametro, il 5% sarà energia
cinetica mentre il 95% rimane energia potenziale; se il condotto si restringe aumenterà la velocità
cioè l’energia cinetica ma al tempo stesso diminuisce l’energia potenziale, ad esempio avremo 15
con 85: ne deriva che l’energia totale non cambia, quindi Bernoulli introduce il principio di
conservazione dell’energia secondo il quale l’energia totale del sistema è sempre uguale e quello
che cambia è come tale energia si manifesta.
Inoltre Bernoulli dà una definizione molto interessante di energia potenziale perché egli dice: se si
prende un condotto e all’interno di questo condotto si muove una particella con una certa velocità,
ovviamente è facile sapere qual è l’energia cinetica della particella poiché basta conoscere la
velocità e la massa (1/2 mv²) , ma l’energia potenziale come si calcola?
Egli afferma che l’energia potenziale è quella che si manifesta come pressione, forza esercitata
perpendicolarmente contro la parete del condotto.
Quindi in realtà un fluido esercita 2 vettori: un vettore perpendicolare contro la parete che
rappresenta l’energia potenziale, l’altro è lo spostamento in avanti e coincide con l’energia cinetica.
E come fa Bernoulli a provare quello che dice? Egli fece degli esperimenti molto ingegnosi e
abbastanza convincenti: prese un tubo di vetro in cui faceva muovere un liquido e mise
perpendicolare un secondo tubo di vetro per cui il liquido movendosi nel tubo saliva anche in quello
perpendicolare raggiungendo un certo livello. Questo livello (mmHg) è la pressione del liquido
contro la parete del vaso e cioè l’energia potenziale. Se però il tubo anziché farlo perpendicolare lo
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faceva orientato ad L contro la direzione del flusso, il liquido andava un po’ più in alto. Allora egli
cosa diceva: questa è l’energia potenziale, mentre la differenza tra questa e questo è il vettore di
spinta cioè l’energia cinetica e quindi con questi due semplici tubi (quello inserito
perpendicolarmente e quello ad L con direzione opposta al flusso, questa tecnica ricordate si chiama
piezometria in fisica), con questa banale sperimentazione dimostrò che esiste una quota cinetica ed
una quota potenziale.
Se lui allargava il condotto vedeva che l’altezza di una colonna diminuiva mentre nel tubo ad L la
quota cinetica diventava più alta però il livello finale era sempre lo stesso, l’energia totale era
sempre la stessa.
Quindi introduce un concetto: quando un fluido si muove nei condotti e si applica una variazione di
raggio del condotto, il fluido subisce una modifica nella sua velocità cioè cambia il modo in cui
l’energia si manifesta, tutte le volte che il raggio diminuisce aumenta l’energia cinetica a spese però
dell’energia potenziale e viceversa tutte le volte che il raggio aumenta si ha un rallentamento del
flusso cioè diminuisce l’energia cinetica ma ovviamente aumenta l’energia potenziale.
* Questa in medicina è una legge fondamentale, perché spiega l’insorgenza di alcune patologie a
carico dell’apparato circolatorio. Per esempio, immaginate un’arteria in cui scorre del sangue che
avrà una certa energia cinetica, non più del 5% , e una certa energia potenziale.
Provate ad immaginare cosa accade se per un motivo qualunque la parete di questa arteria si
indebolisce: se la parete si indebolisce, la pressione inizia a dilatare l’arteria, ma se l’arteria si dilata
diminuisce l’energia cinetica e aumenta ancora di più l’energia potenziale: quindi la parete già non
resisteva alla pressione iniziale e se aumenta l’energia potenziale essa si dilata ancora di più, se si
dilata ancora di più rallenta maggiormente il flusso e aumenta l’energia potenziale che farà a sua
volta dilatare maggiormente l’arteria, si mette in moto un meccanismo perverso autosostentativo
che non si può bloccare e inesorabilmente porterà l’arteria a scoppiare (aneurisma), non c’è niente
da fare è solo questione di tempo.
Se tutto questo anziché in un’arteria avviene in una vena cambia solo il nome, anziché chiamarsi
aneurisma si chiama varice.
Sono patologie le varici nelle vene e gli aneurismi nelle arterie che vengono definite dagli
Americani “one way” cioè a senso unico perché possono solo peggiorare ma non possono tornare
indietro, se la parete si è dilatata come si torna a stringere? Se il medico è bravo può bloccarle ma
certo non si torna indietro.
E’ qui che la legge di Bernoulli manifesta tutta la sua gravità, quando una parete inizia a cedere e si
crea questa spirale (che nelle vene diventerà varice e nelle arterie diventerà aneurisma) e anche gli
stessi vasi prima o dopo cederanno.
!! I maschi si ammalano di più di arterie e le donne si ammalano di più di vene per un motivo legato
al collagene, i maschi e le femmine hanno un diverso connettivo e quindi un diverso collagene.
Nelle arterie questo meccanismo è micidiale perché la rottura di un’arteria può causare emorragia
interna e in pochi secondo il paziente è nei guai, mentre nelle vene è un processo molto più lento
perché le pressioni sono minori, infatti nelle vene il rischio maggiore è che il sangue rallenta
talmente tanto che inizia a coagulare e ad un certo punto si ha la formazione di un trombo che
occlude il vaso (tromboflebite).
E’ importante quindi che sia chiaro il “salto” fra Leonardo e Bernoulli: il salto è legato
all’introduzione del concetto di energia.
In realtà Bernoulli barava alla grande perché per farsi quadrare i conti introduce un concetto fasullo
e cioè tutta la sua legge quindi il principio di conservazione dell’energia funziona perfettamente se
si parte da un presupposto che non esiste, cioè che i liquidi siano ideali, cioè privi di attrito interno.
Ma capite bene che in natura non esistono fluidi ideali, i liquidi sono reali in cui vi è attrito interno e
cioè le molecole si urtano fra loro creando dispersione di energia.
Quindi in condizioni reali non esiste una energia che gradualmente non va diminuendo, man mano
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che l’attrito interno agisce, man mano che le molecole si urtano le une con le altre ovviamente
l’energia del sistema va a diminuire.
!! D’altra parte, il fatto stesso che esista il cuore è la prova che non esiste la conservazione
dell’energia nei liquidi reali, perché voi capite che se l’energia venisse conservata sarebbe
necessaria una sola sistole all’inizio e il sangue scorrerebbe per sempre.
Il fatto che bisogna intervenire almeno 70 volte al minuto aggiungendo nuova energia attraverso un
lavoro muscolare, significa che si devo rimpiazzare l’energia che è venuta meno a causa delle forze
d’attrito.
Quindi, il vero problema, dopo Bernoulli, fu di non studiare più i liquidi ideali che non esistono ma
la necessità di cominciare a studiare liquidi reali, cioè dotati di attrito interno.
E non fu facile, furono necessari altri 150 anni, bisogna arrivare agli inizi dell’800’ quando
separatamente un francese e un tedesco cominciarono ad analizzare questi problemi.
Poiseulle in Francia e in Germania Hagen, furono i primi a studiare sistematicamente i liquidi reali,
lavorando ognuno all’insaputa dell’altro, partirono da punti diversi e arrivarono alle medesime
conclusioni.
Essi introducono un concetto: se si ha un fluido che si muove all’interno di un condotto, questo
fluido ha bisogno di una spinta, ha bisogno di energia che è possibile chiamare pressione, la quale
serve per vincere una resistenza dovuta alle forze di attrito interne del sistema.
Viene per la prima volta introdotto il concetto di resistenza che si oppone al flusso, quindi il flusso
cresce se cresce la pressione che lo spinge, il flusso decresce se cresce la resistenza che si oppone
alla spinta pressoria. Quindi per la prima volta il movimento di un fluido all’interno di un condotto
viene ad essere considerato tenendo conto dell’attrito interno, che quindi il sistema è reale e dotato
di resistenza che si oppone al movimento del fluido.
Hagen si concentrò principalmente sul concetto di pressione e Poiseulle su quello di resistenza.
Cosa vide Hagen? Hagen osservò una cosa molto interessante e cioè che il flusso non è
proporzionale alla pressione assoluta ma è proporzionale alla differenza di pressione che vi è agli
estremi del condotto. Quindi introduce il concetto di gradiente di pressione, cioè non conta la
pressione assoluta ma conta la (p ovvero la differenza di pressione tra l’inizio e la fine.
§ Vi faccio un esempio: se ho un vaso e in un certo punto ho una pressione di 100 e in un altro una
pressione di 99, il gradiente reale è 1 mmHg; se consideriamo un altro vaso dove in un punto c’è
una pressione di 5 e in un altro una pressione di 3, si ha un gradiente di 2 mmHg che è il doppio
del gradiente precedente: le pressioni assolute sono molto più basse ma ciò che conta non è la
pressione assoluta ma la differenza di pressione agli estremi del condotto.
Per la prima volta viene presa in considerazione il concetto di gradiente di pressione cioè di
differenza di pressione.
Il flusso cresce se cresce il gradiente pressorio, il flusso decresce se decresce se decresce il
gradiente pressorio, il flusso non esiste se non c’è una differenza di pressione.
F = 'p
R
Quindi per la prima volta viene analizzata cosa realmente serva per creare una spinta e Hagen per
primo dimostra che non conta il valore assoluto di pressione ma quello che conta è soltanto la
differenza tra il valore all’inizio del condotto e il valore alla fine del condotto.
Se questa differenza cresce, quindi se la ǻp cresce, cresce anche il flusso: il flusso è direttamente
proporzionale al gradiente pressorio.
Il grande contributo di Hagen è quello di aver introdotto il concetto di gradiente pressorio,
per chi si occuperà di circolatorio, farà il cardiologo e si occuperà di emodinamica vedrà qual è
l’importanza della misurazione del gradiente.
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Ricapitoliamo:
1. Leonardo: introduce il concetto di equivalenza delle portate. In un sistema chiuso dove il
liquido non può né entrare né uscire, né essere aggiunto né essere tolto, il flusso è uguale in tutti i
punti del sistema. Questo naturalmente vale anche per l’uomo, quindi se si considera l’aorta e in
certo momento da essa passano 6 litri/min , in qualunque altro punto in quel momento passeranno 6
litri/min (dalle vene cave passeranno 6 litri/min, dai capillari polmonari passeranno 6 litri/min).
Naturalmente il fatto che il flusso sia costante non vuol dire che sia costante la velocità e cioè se io
allargo o restringo il condotto, il sangue che scorre rallenta o accelera però attenzione: l’obiettivo
finale è mantenere costante la portata e quindi se il condotto si allarga io rallento per mantenere
costante il flusso di 6 litri/min, se il condotto si restringe io accelero per avere sempre 6 litri/min. Il
flusso si mantiene costante, ciò che cambia è la velocità: al diminuire del raggio aumenta la
velocità, all’aumentare del raggio diminuisce la velocità.
2. Bernoulli introduce il concetto di energia. Egli chiarisce che un rallentamento o una
accelerazione vogliono dire che vi è una quota di energia in più o in meno, ma da dove proviene
l’energia in più e dove va a finire l’energia in meno. E introduce il concetto di energia totale: in
realtà l’energia è sempre uguale, varia la forma con cui essa si manifesta. Il fluido che si muove nel
condotto possiede una quota di energia cinetica, minore, il resto rimane sottoforma di energia
potenziale. Quindi siccome rimane sottoforma di energia potenziale, si manifesta
perpendicolarmente contro la parete del vaso, per cui si capisce che se si rallenta sempre di più il
flusso del sangue, quando si ferma esso avrà solo energia potenziale, che si esercita
perpendicolarmente come pressione idrostatica.
*Naturalmente questa osservazione ha delle implicazioni mediche importanti, se aumenta l’energia
cinetica diminuisce l’energia potenziale e ciò si verifica quando il vaso si restringe.
Se invece il vaso si dilata si verifica il contrario: diminuisce l’energia cinetica e aumenta nettamente
l’energia potenziale. Nel momento in cui la parete del vaso si indebolisce per un motivo qualunque,
perché ad es. le pareti delle vene e delle arterie non sono ferro o plastica ma tessuti vivi che per
rimanere tali possiedono una loro circolazione, i vasa vasorum: se si rompono i vasa vasorum
s’indebolisce l’intero sistema parete-vaso.
Una patologia dei vasa vasorum diventa una tragedia per l’aorta, per le vene cave, una tragedia della
safena, perché naturalmente facendo venire meno fibroblasti e collagene si indebolisce la resistenza
di parete e la pressione idrostatica prima o poi causerà aneurisma o varice.
Quindi tutte le malattie dei piccoli vasi, vasa vasorum, ad esempio nel diabete, diventano patologie
a carico dei grandi vasi, ad es. con rottura dell’aorta.
Quindi la microangiopatia diabetica diventa macroangiopatia a carico principalmente dell’aorta, dei
vasi retinici e così via. Il diabete è al primo posto in Italia e su 60milioni di abitanti, il 5% della
popolazione è diabetica: ci sono 3 milioni di diabetici dei quali la metà non è a conoscenza di essere
diabetico. In questi individui la microangiopatia agisce e porta inesorabilmente ad una serie di
conseguenze: il diabetico è 10 volte di più a rischio di ictus cerebrale, 10 volte più a rischio di
infarto del miocardio, il diabete è la prima causa di cecità perché si rompono i vasi retinici, è la
prima causa di amputazione ad esempio delle gambe, dei piedi a causa dei danni agli arti inferiori. *
Questo ci fa capire come si creano delle situazioni in cui questi fenomeni fisici diventano
inarrestabili: nelle donne ad esempio la facilità con cui insorgono le varici a carico degli arti
inferiori, ad esempio della safena, deriva dal fatto che nelle donne il collagene è meno efficiente
rispetto a quello degli uomini e quindi la stessa pressione che nel maschio è bilanciata da una parete
vasale più robusta , nelle donne è invece molto meno resistente. In un maschio le uniche varici
frequenti sono quelli che interessano il plesso venoso pampiniforme del testicolo, il cosiddetto
varicocele, cioè le varici delle vene del testicolo.
* La sifilide è una malattia dei piccoli vasi ma i sifilidici morivano per rottura dell’aorta
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Lezione 3 -
prof. Perciavalle
L’ultima volta, descrivendo la dinamica dei fluidi, eravamo arrivati ad introdurre Hagen e
Poieseuille e cioè un liquido reale che nel muoversi incontra una resistenza.
Finora si è parlato di legge dell’equivalenza delle portate di Leonardo e soprattutto del teorema di
Bernoulli, le quali affermavano che in un liquido ideale l’energia era costante e cambiava solo il
modo con cui si manifestava. Ma in natura non ci sono liquidi ideali, ci sono liquidi reali e gas reali,
con le molecole che si urtano le une contro le altre e quindi con attriti interni che progressivamente
nel tempo disperdono l’energia che la molecola possiede.
Se non fosse così basterebbe una sistole nella vita intrauterina per garantire una circolazione
sanguigna perenne, ma non è così infatti se il cuore si ferma in pochi minuti andiamo incontro a
decesso proprio perché si ferma la circolazione del sangue.
Hagen e Poiseuille introducono una relazione a tre, fra:
- il liquido che si muove, cioè il flusso
- il gradiente pressorio necessario affinché il liquido possa muoversi
- la resistenza, cioè l’attrito interno del sistema
Hagen si è occupato principalmente di analizzare il problema del gradiente pressorio. Fu il primo a
capire che ciò che conta non è la pressione assoluta ma solo la differenza di pressione che c’è agli
estremi del condotto: quindi ciò che spinge il sangue è solo la 'p tra punto di partenza e punto di
arrivo.
Poiseuille fu il primo a capire cosa è la resistenza, in particolare lui usava tubi di vetro in cui faceva
scorrere acqua arrivando a capire che la resistenza varia al variare di tre fattori:
- lunghezza del condotto
- raggio del condotto
- Ș viscosità del liquido che scorre nel condotto.
Di questi fattori due dipendono dal condotto (lunghezza, raggio), la terza dipende dal liquido in
movimento e cioè la sua viscosità.
Se prendete due siringhe uguali e con una aspirate acqua e con l’altra aspirate olio, incontrate una
resistenza differente: è chiaro che il fattore variabile non è la siringa ma la viscosità Ș del liquido
che cerchiamo di aspirare. Quindi il terzo parametro è la viscosità del liquido all’interno del
condotto.
R=8lȘ
ʌ r4
Poiseuille osservò che un fattore molto importante per la resistenza è il raggio, anzi la quarta
potenza del raggio, infatti nella formula che egli introduce si deduce che la resistenza è
inversamente proporzionale alla quarta potenza del raggio.
Questo significa che se si considera un vaso di 2 cm e riduco il raggio del vaso da 2 a 1 cm (la
metà), la resistenza aumenta di 16 volte!
Cioè bastano minime variazioni di raggio per creare enormi variazioni di resistenza: in pratica per
raddoppiare o dimezzare la resistenza basta cambiare il raggio di 1/16. Quindi se il raggio di un
vaso passa da 15 a 16 mm la resistenza si dimezza, invece se il raggio passa da 16 a 15 mm,
diminuisce di 1/16, la resistenza raddoppia.
15
Quindi con minime variazioni di raggio si ottengono enormi variazioni della resistenza.
E di contro se si ottengono enormi variazioni di resistenza, si ottengono di conseguenza variazioni
degli altri 2 parametri.
F = 'p
R
Se si mantiene costante la pressione varierà il flusso.
Se si mantiene costante il flusso varierà la pressione.
Quindi possiamo riscrivere la formula: F = 'p ʌ r4
8lȘ
cioè sostituendo ad R il suo significato, e quindi il flusso F è direttamente proporzionale al
gradiente pressorio moltiplicato ʌ r4 e inversamente proporzionale alla viscosità e alla lunghezza
del condotto. Cioè se si vuole aumentare il flusso si deve aumentare il gradiente pressorio oppure
aumentare il raggio (vasodilatazione) oppure si deve diminuire la viscosità del liquido o il tragitto
che il liquido deve percorrere (lunghezza vaso).
Facciamo un esempio. Consideriamo la circolazione sanguigna del nostro corpo: tale circuito è
chiuso. Ricordando la Legge di Leonardo, F è sempre costante quindi misurando quanto sangue
passa nell’unità di tempo nel piccolo circolo o nel grande circolo sarà sempre uguale, circa 5
litri/minuto. Se invece si misurano le pressioni, si osserva che all’inizio della circolazione generale
vi è una pressione di 90 mmHg mentre alla fine è 0 mmHg: quindi la 'p è 90 mmHg.
Se invece effetto la misurazione nella circolazione polmonare, osservo che la 'p è 15 mmHg.
Allora ragioniamo: il gradiente di pressione ('p) nel piccolo circolo è 7 volte minore rispetto al
gradiente pressorio del grande circolo, infatti abbiamo 15 e 90 mmHg, eppure il flusso è uguale
perché passano sempre 5 litri/minuto.
La domanda da porsi è: perché per far muovere 5 litri/minuto di sangue, nel piccolo circolo è
sufficiente un gradiente pressorio di 15 mmHg mentre nel grande circolo è necessario un gradiente
7 volte maggiore? Perché evidentemente la resistenza è diversa, la resistenza che si incontra nel
piccolo circolo è 7 volte minore rispetto alla resistenza che si incontra nel grande circolo.
Ricordiamo la formula della resistenza
R=8lȘ
ʌ r4
Cosa può variare nel piccolo circolo da determinare una R 7 volte inferiore?
I parametri che si considerano per la resistenza sono lunghezza, viscosità e raggio, però
chiaramente non può variare il raggio poiché non è pensabile ipotizzare che il raggio dei vasi del
polmone (sommati quindi la sezione totale) sia maggiore del raggio dei vasi della circolazione
generale che interessa tutto il corpo umano.
Non può essere nemmeno la viscosità Ș perché il sangue che circola è sempre lo stesso.
Evidentemente è la lunghezza dei vasi. Cioè il tragitto cuore-polmoni e ritorno è mediamente 7
volte inferiore rispetto al tragitto cuore-piedi e ritorno.
E quindi essendo più piccola l (lunghezza vasi) sarà minore la resistenza complessiva, e quindi
essendo 7 volte minore la resistenza complessiva per avere lo stesso flusso di 5 litri/minuto dovrà
essere 7 volte inferiore anche la 'p.
Infatti F = 'p . Se si riduce il denominatore deve ridursi anche il numeratore per ottenere lo stesso
R risultato.
16
Questa è la dimostrazione concreta che i parametri resistenziali sono questi tre: lunghezza, raggio e
viscosità. D’altra parte capite bene anche un’altra cosa: la lunghezza di un vaso non si può
modificare da un momento all’altro (mica posso allungare o accorciare l’aorta), né d’altra parte è
facile modificare da un momento all’altro la viscosità del sangue, in pratica l’unico parametro che
può variare da un momento all’altro è il raggio dei vasi, vi è la muscolatura liscia della parete
soprattutto nei vasi di piccolo e medio calibro, che svolge proprio tale funzione e quindi serve a
creare vasodilatazione o vasocostrizione.
Inoltre tale modifica è anche conveniente, poiché con minime variazioni del raggio, con il minimo
lavoro muscolare, si ottengono notevoli variazioni della resistenza perché R = 8l Ș e quindi 1/16
di raggio in più o in meno raddoppia o dimezza il fattore resistenziale
ʌ r4
Quindi nella dinamica della circolazione in realtà l’unico parametro resistenziale che possiamo
sfruttare per modificare da un momento all’altro i parametri emodinamici è il calibro dei vasi,
soprattutto i vasi di piccolo e medio calibro che essendo i più numerosi sono quelli che è possibile
sfruttare di più.
Infatti i vasi in cui prevale la muscolatura liscia sono soprattutto le arteriole e le vene.
Le grandi arterie e le grandi vene hanno una componente muscolare insignificante, a favore
soprattutto del collagene che conferisce solidità. Quindi agendo sui piccoli e medi vasi che sono
molto numerosi è possibile modificare la resistenza con poco lavoro, cioè con piccole variazioni di
raggio.
Quindi considerando la nostra formula F = 'p possiamo riscriverla in 'p = F R :
R
Questo significa che in un paziente con la pressione bassa, se si vuole provocare un aumento della
pressione, o si provoca un aumento del flusso F oppure un aumento della resistenza R.
Se ho un paziente che manifesta ipertensione ( pressione troppo elevata) si agisce facendo
diminuire il flusso F oppure provocando una riduzione della resistenza R.
Per provocare una diminuzione del flusso agisco sulla pompa cuore facendo pompare meno volte il
cuore al minuto (invece di 5 litri/min, gli faccio pompare 4 litri/min ad esempio).
Per causare una diminuzione della resistenza R agisco sui vasi provocando una vasodilatazione
(ricordiamo che basta un aumento del raggio di 1/16 per avere un dimezzamento della resistenza).
Questa è una formula molto importante, è necessario comprenderla appieno perché davanti ad un
paziente ci fa capire come bisogna agire.
I tre parametri resistenziali (viscosità, lunghezza e raggio) rappresentano tutto quello che avete a
disposizione per poter “giocare” con il paziente.
Ripetiamo ancora una volta: la legge di Hagen-Poiseuille stabilisce come si comporta un fluido
reale, dotato di attrito interno, durante il movimento all’interno di un circuito chiuso.
La formula F = 'p / R ci dice che questo fluido, per muoversi, ha bisogno di un gradiente pressorio
(cioè energia) perché deve vincere una resistenza. Se la 'p è 0 il flusso è 0 ovvero se non c’è un
gradiente pressorio non vi è movimento del fluido (questo vale per tutto non solo per il sangue).
§ Se la vostra collega vuole far entrare aria nei polmoni: l’aria è un fluido, quindi vuole un flusso di
aria dall’esterno all’interno e affinché vi sia un flusso ci vuole un gradiente pressorio.
L’aria esterna ha una pressione di 760 mmHg, quindi all’interno deve essere minimo 759 mmHg
per riuscire ad avere un gradiente pressorio che assicuri il flusso.
Ma come si fa a far diminuire la pressione all’interno? Si sfrutta la legge di Boyle PV= k, la quale
afferma appunto che pressione e volume sono inversamente proporzionali e quindi ogni volta che
un gas viene espanso la sua pressione diminuisce, infatti ispirando aumenta il volume e diminuisce
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la pressione scendendo ad un valore inferiore rispetto alla pressione esterna: si crea un gradiente
pressorio 'p che assicura l’ingresso dell’aria.
!! Qual è l’errore che si commette? Si afferma: il volume della gabbia toracica aumenta perché è
entrata l’aria. SBAGLIATO. È la dilatazione del torace (aumento volume) che permette
l’ingresso dell’aria e non l’aria che provoca dilatazione.
Come accade quando si vuole aspirare con una siringa.
Quindi qualunque sia il fluido, liquido o gas, per muoversi necessita di una differenza di pressione,
se essa è 0, non c’è flusso: né di sangue, né di urina, né di aria. Su questo non si scappa: se non c’è
gradiente non c’è energia necessaria per vincere la resistenza, e per resistenza intendiamo sia la
resistenza geometrica dovuta al raggio e alla lunghezza del condotto sia quella del fluido data dalla
sua viscosità.
In realtà Hagen e Poiseuille hanno barato. Per farsi quadrare i calcoli hanno semplificato la
situazione più del lecito, in quanto studiavano tubi di vetro in cui si muoveva acqua e invece:
1- I vasi sanguigni non sono tubi rigidi come quelli di vetro. Sono condotti distensibili, dotati di una
certa compliance e inoltre addirittura una parte di questa distensibilità è di natura elastica.
Si capisce infatti che se si ha un tubo rigido e si aumenta la pressione l’unica cosa che può fare il
liquido è procedere in avanti, ma se si un tubo distensibile e si aumenta la pressione non è detto che
tale aumento provochi l’avanzamento del liquido: può accadere anche che ceda la parete del tubo
ma il liquido non va in avanti. Dunque la distensibilità della parete è una variabile in più da
considerare.
E i vasi umani, i vasi reali, i vasi sanguigni sono distensibili .
Le arterie sono distensibili, anche se non moltissimo, le vene invece sono molto distensibili.
* In generale inoltre i vasi del piccolo circolo, a parità di calibro, sono più distensibili rispetto a
quelli del grande circolo.
Quindi dobbiamo capire in che modo tale caratteristica influenza la dinamica della circolazione,
considerando che inoltre una quota di essa è di tipo elastico: quindi si capisce che una cosa è una
parete che può cedere in seguito ad aumento di pressione e una cosa è una parete elastica che cede
se la pressione aumenta ma che ritorna allo stato iniziale se la pressione diminuisce. Si tratta quindi
di una variabile importante.
2- Le proprietà dell’acqua sono molto diverse rispetto al sangue. L’acqua è un liquido newtoniano
cioè un liquido formato solo da particelle di solvente, all’acqua potete aggiungere dei soluti, se i
soluti si sciolgono perfettamente l’acqua rimane un liquido newtoniano.
Ma se voi nell’acqua aggiungete dell’olio, come noto insolubile in acqua, come si comporta un
liquido che contiene sia particelle in soluzione che particelle in sospensione?
Esso non è più un liquido newtoniano e il sangue è un liquido non newtoniano, infatti in esso vi
sono cellule, lipide, proteine…etc.
La domanda che dobbiamo porci è la seguente: il comportamento nei vasi di un liquido non
newtoniano come modifica la legge di Hagen e Poiseuille?
3- Hagen e Poiseuille nei loro esperimenti facevano scorrere i liquidi lentamente.
Ma cosa c’entra la velocità? In fisica si è studiato che quando un fluido supera una certa velocità
detta critica, si raggiunge un numero detto di Reynolds e il fluido non si muove più in lamine
ordinate ovvero con il cosiddetto flusso laminare, ma cominciano a crearsi delle turbolenze
(nelle quali le particelle si urtano le une con le altre in maniera esponenziale) che causano un
notevole aumento dell’attrito interno. Allora come cambia la legge di Hagen e Poiseuille quando il
fluido si muove di moto turbolento? Esiste un moto turbolento in condizioni fisiologiche nei vasi
umani?
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Dunque l’operazione che dobbiamo svolgere adesso è quella di adattare la legge di Hagen e
Poiseuille a queste nuove condizioni reali e cioè:
1- il sangue non è un liquido newtoniano.
2- non è detto che il sangue si muova sempre di moto laminare.
3- le pareti dei condotti in ci scorre il sangue non sono rigide.
E quindi cosa cambia?
Allora, ricordiamo che quando si parla di moto laminare si intende un particolare modo del fluido di
scorrere, cioè il liquido si dispone in lamine e di tali lamine quella più vicina alla parete è ferma
(perché fa attrito con la parete) e man mano che ci si sposta verso il centro le lamine si muovono di
più: si creano una serie di cilindri coassiali in cui il cilindro centrale è quello più veloce e via via
che si va verso la periferia i cilindri periferici sono sempre più lenti e quello a contatto con la parete
è fermo.
§ Se vi mettete in riva a un fiume, buttate in acqua un pezzettino di legno e considerate la velocità,
osserverete che se si butta al centro si muove di velocità massimale, se si butta vicino alla riva si
muove sempre più lentamente.
Newton si occupò dello studio di tale moto e si accorse che se vi sono due lamine che scorrono
l’una sull’altra, nell’interfaccia tra una lamina e l’altra si crea attrito: allora se ci sono tante lamine
fra loro si creano degli attriti e la somma di tutti gli attriti andrà a costituire la viscosità del liquido.
La viscosità quindi è la somma di tutti gli attriti che si hanno nei punti in cui una lamina entra in
interface di solito con due lamine adiacenti (una per ogni lato).
!! Mi raccomando è importante non confondere la densità con la viscosità: sono due grandezze
diverse, la densità è il rapporto massa/volume mentre la viscosità interessa un fenomeno dinamico
legato all’attrito di un fluido in movimento.
Se si prende l’acqua e la si fa muovere in un condotto, e si va a misurare il suo attrito essa avrà una
certa viscosità: se si fa scorrere l’acqua in vasi di calibro differente ad esempio arteria, arteriola,
capillare la viscosità dell’acqua non cambia ma ciò che conta è solo la velocità poiché al di sotto
della velocità critica fornita dal numero di Reynolds abbiamo un moto laminare e al di sopra invece
abbiamo un moto turbolento. È anche facile aumentare la velocità di un fluido (come visto con la
legge di Bernoulli), basta restringere il calibro del vaso.
E’ chiaro però che nel tratto in cui il fluido è più veloce si ha il rischio di superare il numero di
Reynolds ottenendo un moto turbolento.
Esiste un metodo per comprendere se un liquido passa da moto laminare a moto turbolento: il moto
laminare non fa rumore invece il moto turbolento è legato alla produzione di suoni, di rumore.
È un fenomeno che sfruttiamo anche noi essere umani: la voce umana è dovuta non solo alle
vibrazioni delle corde vocali ma anche a fenomeni di turbolenza, cioè il fatto che l’aria passa
attraverso dei restringimenti dove accelera e muovendosi di moto turbolento emette suoni, quindi la
voce umana è prodotta da un insieme di frequenze prodotte per vibrazione ma anche di frequenze
generate per turbolenza. L’interazione di queste frequenze produce il timbro della voce.
*Ricordate il metodo utilizzato per la pressione arteriosa: si applica nel terzo distale del braccio un
bracciale, detto di Riva-Rocci, insieme ad un fonendoscopio. Se si applica il fonendoscopio senza
gonfiare il bracciale non sento niente perché il moto è laminare, appena si gonfia il bracciale e
quindi il vaso si restringe, se il vaso si restringe il sangue accelera e nel momento in cui passa
produce un suono, il cosiddetto suono di Korotkoff, che è la prova che in quel momento il flusso
non è laminare ma è turbolento.
Man mano che sgonfio il bracciale l’arteria si dilata e non sento più niente, vuol dire che il flusso è
tornato da turbolento a laminare.
!! In realtà anche il flusso laminare produce rumore ma è talmente lieve che è molto difficile da
ascoltare, in particolare l’unico moto laminare che si riesce ad ascoltare è quello dei vasi sanguigni
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della pelle del padiglione auricolare, con un accorgimento: si applica una sorta di coppa (ad es. una
conchiglia) che funziona da cassa di risonanza per non fa disperdere le frequenze del moto laminare
e siccome l’orecchio interno è posto in vicinanza del padiglione auricolare, tali frequenze vengono
captate ed udite ( il famoso mare che si sente con la conchiglia non è altro che il rumore di fondo
del moto laminare dei vasi del padiglione auricolare).
Quindi considerando l’acqua quando il moto è laminare essa è dotata di una certa viscosità, quando
aumenta la velocità oltre il valore critico si raggiunge il moto turbolento e la viscosità aumenta
notevolmente. Ovviamente se vi è un aumento della viscosità, vi sarà un aumento della resistenza e
aumentando la resistenza il flusso diminuisce.
A complicare le cose vi è un altro aspetto: il sangue non è un liquido newtoniano. Infatti se
consideriamo acqua o soluzione fisiologica la viscosità è uguale nei piccoli, medi e grandi vasi.
Invece nei vasi sanguigni cosa osserviamo? La viscosità del sangue è molto elevata nei grandi vasi
mentre nei piccoli vasi è bassa: il sangue, anzi la viscosità del sangue risente del calibro del vaso
e quindi sarà molto alta nei grandi vasi e molto bassa, addirittura inferiore a quella della
soluzione fisiologica, nei piccoli vasi.
Tale fenomeno fu osservato per la prima volta da due studiosi svedesi (Fareaust e Linguist) e venne
definito effetto sigma. Tale fenomeno ha delle implicazioni interessanti in fisiologia umana ma è
stato molto difficile riuscire a spiegarlo. Dunque l’effetto sigma afferma che la viscosità del sangue
non è costante ma cambia in base al calibro del vaso.
L’unica spiegazione possibile è la seguente: consideriamo un vaso di 30 micron di diametro, in esso
si disporranno 3 globuli rossi poiché ognuno ha circa 8 micron di diametro; ricordiamo che la
viscosità è la somma degli attriti che si instaurano fra le lamine quindi dove si hanno più lamine, vi
sono più attriti e quindi più viscosità. Tuttavia se vi sono i globuli rossi, quindi vi sono delle cellule,
lo spazio per le lamine è molto limitato e vi saranno meno lamine a contatto e meno attrito, cioè
meno viscosità.
Tale fenomeno avviene maggiormente nei piccoli vasi poiché in essi il poco spazio disponibile
viene occupato dalle cellule del sangue a sfavore delle lamine e quindi meno lamine, meno attriti e
meno viscosità; invece nel vaso di grande calibro nonostante la presenza delle cellule sanguigne, le
lamine hanno maggior spazio a disposizione e quindi vi saranno più attriti e una maggiore viscosità.
Paradossalmente il sangue ha questo comportamento: nei grandi vasi a causa del fenomeno
dell’accumulo assiale la viscosità è elevata, addirittura superiore rispetto a quella della soluzione
fisiologica, nei piccoli vasi invece la viscosità del sangue è minore e risulta essere vantaggiosa,
perché i piccoli vasi sono numericamente superiori rispetto ai grandi vasi, per cui il 90% del sangue
in proporzione è contenuto in vasi piccoli.
Se si fermasse la circolazione e si va a vedere come è distribuito il sangue, soltanto il 10% è
contenuto in vasi che superano il millimetro, il 90% del sangue è contenuto in capillari, venule,
arteriole, cioè in piccolissimi vasi dove è favorevole l’effetto sigma.
Quindi tale fenomeno globalmente è favorevole perché la maggior parte del sangue (90%) è
contenuto nei piccoli vasi e in essi il sangue ha una viscosità bassa, addirittura inferiore rispetto
quella della soluzione fisiologica (se così non fosse la resistenza sarebbe più alta e il cuore deve fare
più fatica per avere lo stesso flusso).
* Tale fenomeno diviene interessante nei soggetti anemici, l’anemia è caratterizzata da una
diminuzione degli eritrociti, e quindi avendo un numero minore di globuli rossi si perdono i
vantaggi dell’effetto ™. In un soggetto anemico la viscosità assume andamento simile a quello della
soluzione fisiologica, con il risultato che la viscosità migliora nei grandi vasi, che sono pochi, ma
peggiora nei piccoli vasi che sono molti di più. Quindi la viscosità globale tende ad aumentare e si
verifica un fenomeno paradossale: se osservate il cuore di un soggetto anemico si evidenzia una
maggiore consistenza, un maggiore spessore delle pareti poiché il cuore fa più fatica nel
pompare sangue perché è aumentata la resistenza (a causa dell’aumento globale della viscosità).
Le cardiopatie nelle anemie sono una regola se non intervenite e la situazione diventa difficile da
capire senza avere compreso l’effetto ™.
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Quindi la vera differenza che vi è tra un liquido newtoniano come acqua, soluzione fisiologica
e un liquido non newtoniano come il sangue è l’effetto ™ che provoca una differenza della
viscosità del sangue nei grandi, piccoli e medi vasi: tale viscosità cambia al variare del raggio con
valori molto alti nei grandi vasi e valori molto bassi ( al di sotto di quelli della soluzione fisiologica)
nei piccoli vasi.
Se diminuisce la resistenza per avere lo stesso flusso ci vuole meno pressione e quindi il cuore deve
faticare di meno; se aumenta la resistenza per avere lo stesso flusso è necessaria una maggiore
pressione e quindi il cuore deve faticare di più. Perché ricordate che F = 'p .
R
Quindi l’effetto ™ è un fenomeno interessante dal punto di vista clinico perché spiega
l’eziopatogenesi di problemi cardiaci in soggetti anemici (anemia mediterranea e talassemia sono
molto diffusi nelle nostre zone), poiché il cuore deve affrontare resistenze maggiori legate a un
valore maggiore di viscosità del sangue.
L’aspetto fondamentale però è la vera differenza tra un vaso sanguigno e un tubo di vetro.
Nel vaso sanguigno vi è una importante caratteristica: la cedevolezza della parete. I vasi umani non
sono vasi rigidi ma distensibili e una parte di tale distensibilità è di natura elastica.
Come varia la legge di Hagen e Poiseuille se il liquido non si muove in condotti rigidi ma in vasi
dotati di distensibilità, e per giunta anche di natura elastica?
L’elasticità è definita come deformabilità reversibile. Queste proprietà furono studiate da un fisico
inglese, Hook, il quale formulò una importante legge, che in latino recita ut tensio sic vis.
La legge di Hook afferma quindi che più forte è la tensione applicata ad un corpo elastico e
maggiore sarà l’energia che il corpo restituisce quando la tensione viene sottratta.
Vi è una proporzionalità diretta tra forza applicata e tensione elastica restituita: al crescere della
forza applicata crescerà anche la tensione elastica restituita.
Durante la fase in cui viene applicata la pressione, il vaso accumula energia potenziale elastica, non
appena finisce la pressione applicata esso restituisce tale forma di energia elastica accumulata
sottoforma di ritorno elastico.
La parete dei vasi sanguigni è un insieme di corpi elastici e di corpi anelastici: tralasciamo per
ora la componente anelastica rappresentata da muscolatura liscia e soprattutto le fibre collagene,
la componente elastica è rappresentata invece dalle fibre elastiche. Quindi è possibile affermare che
nella tonaca media della parete vasale si riscontra la presenza sia di una componente rigida,
anelastica, sia una componente elastica rappresentata dall’elastina contenuta nelle membrane
elastiche.
Come si comporta un vaso sanguigno in generale? Consideriamo l’aorta, dove vi è una pressione
sanguigna media di 100 mmHg, se si provoca un aumento di pressione si osserva che essa si
distende e più aumenta la pressione più essa si distende. Se si osserva in che modo avviene la
distensione, ci si accorge di un comportamento abbastanza caratteristico che risulta chiaro
considerando un grafico pressione-diametro vaso: ci aspettiamo che mano che aumenta la pressione
sanguigna il diametro dovrebbe aumentare perché la parete del vaso cede ed effettivamente si
comporta così: il vaso si lascia distendere fino ad una pressione di 300 mmHg, però dopo tale
valore non si distende più. I vasi quindi hanno a un duplice comportamento, infatti fino a 300
mmHg sono distensibili, dopo tale valore diventano indistensibili, si comportano come se fossero
rigidi.
Fate caso al valore di 300 mmHg: in realtà un di pressione così elevato nel corpo umano non si
raggiunge mai! I valori più alti rilevati sono al massimo 230-240 mmHg. Quindi questo valore non
è per niente fisiologico e verificabile in vivo.
Il range fisiologico invece data l’elasticità della parete vasale, ci permette di affermare che se la
pressione aumenta il vaso si distende, allo stesso modo se la pressione diminuisce il vaso ritorna a
ridurre il suo raggio.
Questo significa che fino a una certa pressione è più importante il ruolo delle fibre elastiche, oltre
una certa pressione è più importante il ruolo delle fibre collagene che bloccano la distensione del
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vaso. Il sistema pertanto è costruito in modo tale che all’inizio vengono messe in tensione solo le
fibre elastiche e il vaso si lascia distendere, oltre un certo punto vengono messe in tensione le fibre
collagene e il vaso non si lascia distendere più, si crea quindi un confine tra comportamento di
distensibilità reversibile, cioè elastico e comportamento anelastico.
!! Questo significa che se si forzasse la pressione provocando la dilatazione del vaso in un momento
in cui la distensibilità non è più elastica il vaso si dilata ma non torna più indietro e quindi si
verifica l’inizio di una varice nel caso di una vena oppure di un aneurisma nel caso di un’arteria.
È l’elasticità che ci salva dall’aneurisma e dalla varice infatti fino a che la pressione aumenta il vaso
si distende però grazie alla componente elastica appena la pressione diminuisce il vaso si restringe.
I guai si hanno quando la pressione aumenta, il vaso si distende ma quando la pressione diminuisce
il vaso non ritorna alla dimensione iniziale.
· Tale processo come viene regolato dal punto di vista biofisico? Esso è regolato da una legge (una
delle principali cause di morte all’esame) formulata da un personaggio storico molto interessante: il
barone de Laplace (un sughero, cioè uno di quei personaggi che stanno sempre a galla).
Cosa notò Laplace? Egli fu incuriosito da un fenomeno riguardante le bolle di sapone. Vide che
all’inizio ci sono molte piccole bolle, ma dopo un determinato intervallo di tempo le bolle sono
diventate numericamente inferiori ma decisamente più grandi nelle dimensioni.
Quindi osserva che non è mai la bolla grande che si svuota nella bolla piccola ma è sempre la bolla
piccola che si svuota nella bolla grande. Egli capì tale fenomeno dopo aver letto gli esperimenti di
Poiseuille che affermava che esiste un flusso se vi è un gradiente di pressione. E quindi capisce che
la bolla piccola si svuota nella bolla grande perché tra esse si crea una differenza di pressione, in
particolare nella bolla piccola vi è, dunque, una pressione maggiore rispetto la bolla grande.
Laplace formulò una legge che si può applicare a diverse componenti del corpo umano, purché
abbiano una forma sferica, ( la vescica, l’utero durante il travaglio di parto, gli alveoli polmonari):
la pressione endocavitaria è direttamente proporzionale alla tensione che la parete sviluppa
Ricordiamo che nel caso di una sfera vi è una pressione interna che tende a dilatarla e una tensione
sviluppata dalla parete che si oppone alla dilatazione: quando pressione e tensione della parete si
equivalgono la struttura è in equilibrio cioè non aumenta ne diminuisce di diametro.
La pressione è direttamente proporzionale alla tensione ed è inversamente proporzionale al
raggio.
P=2t
r
(il numero 2 è dovuto al fatto che poi in realtà le sfere hanno un doppio raggio di
curvatura)
Quindi se consideriamo due bolle dello stesso sapone (e che avranno quindi la stessa tensione),
siccome la pressione è inversamente proporzionale al raggio, basta avere due bolle comunicanti tra
loro e in quella con raggio minore si avrà una pressione maggiore rispetto all’altra: in questo modo
si crea il gradiente pressorio che provoca il flusso di aria da pressione maggiore a pressione minore
e quindi lo svuotamento della bolla piccola in quella grande.
Questa legge vale per tutto il corpo umano: ad es. una donna sta partorendo, ma l’utero non produce
abbastanza forza per espellere il bambino. Il ginecologo decide, allora, di compiere un’operazione:
dilata la cervice uterina e con un bisturi effettua un piccolo taglio, un buco sulla membrana
amniotica e fuoriesce il liquido amniotico ( tale processo è detto amniocentesi). Perché il
ginecologo effettua tale operazione? Perché ovviamente se esce liquido amniotico, il volume
dell’utero diminuisce, se diminuisce il volume diminuirà anche il raggio, se diminuisce il raggio:
la stessa tensione prodotta dall’utero produce però una pressione maggiore e quindi il bambino può
iniziare ad uscire dalla madre. La rottura delle acque è il momento che porta all’avvio del travaglio
del parto, proprio per la legge di Laplace.
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- Oppure ancora uno dei grandi vantaggi di essere maschio è dato dal fatto che urina in piedi: man
mano che l’urina esce, per la legge di Laplace il raggio diminuisce e la pressione aumenta (in questo
modo si riesce a non urinare sulle scarpe).
Cosa non si deve verificare nel polmone? Nel polmone si potrebbero avere due alveoli collegati da
un bronchiolo in comune e durate la inspirazione essi aumentano di volume mentre durante la
espirazione essi diminuiscono di volume. Si può verificare facilmente che in un determinato
momento il raggio di uno è inferiore al raggio di un altro alveolo, se consideriamo infatti che siamo
dotati di 100 milioni di alveoli per ciascun polmone e che la probabilità che siano sempre tutti delle
stesse dimensioni è praticamente irrisoria.
Qual è il rischio che si ha appena un alveolo diventa più piccolo rispetto ad un altro? Che in quello
più piccolo la pressione dell’aria è maggiore e quindi si crea un gradiente pressorio che provoca lo
svuotamento dell’aria dell’alveolo minore nell’alveolo maggiore. Questo significa che dopo alcuni
minuti anziché avere 100 milioni di alveoli per ogni polmone ne avremo solamente 1!
E questo perché si creerebbe un meccanismo perverso per cui si svuota il piccolo nel grande, il
grande diviene ancora più grande e quindi un altro alveolo più piccolo si svuoterà nel grande e così
via. Tale meccanismo è abbastanza grave, infatti non deve diminuire il numero degli alveoli perché
ciò che conta non il volume degli alveoli ma la superficie di scambio aria-sangue e per avere
abbastanza superficie per lo scambio aria-sangue sono necessari almeno 30-40 milioni di alveoli, al
di sotto di questo numero non c’è abbastanza superficie e si muore.
Allora come viene impedito tale meccanismo? Certamente non posso impedire che durante la
respirazione vi siano alveoli con dimensioni diverse, è impossibile considerando che abbiamo 100
milioni di alveoli per polmone.
Se la pressione è direttamente proporzionale alla tensione superficiale e inversamente proporzionale
al raggio, appena si diminuisce il raggio di un alveolo, esso avrà una pressione maggiore e quindi si
crea il gradiente pressorio che provoca lo svuotamento dell’alveolo: tale fenomeno prende il nome
di atelettasia polmonare.
È necessario impedire alla pressione di modificarsi: c’è un solo modo. Se il raggio diminuisce ma si
fa diminuire contemporaneamente la tensione, siccome
P=2t ,
r
la pressione resta invariata, infatti diminuendo denominatore e numeratore il risultato è sempre
quello. Allo stesso modo se aumenta il raggio ma aumenta anche la tensione, la pressione rimane
costante.
Il polmone quindi si è dotato di uno specifico meccanismo: tutte le volte che il raggio cambia,
cambia anche la tensione superficiale, cioè il polmone sfrutta un meccanismo che è in grado di
modificare la tensione superficiale degli alveoli.
Dentro gli alveoli vi è uno strato di acqua dello spessore di pochi micron dotato di una tensione
superficiale, la quale di solito è costante, nel polmone invece non è costante perché vi sono cellule
specializzate, gli pneumociti di II tipo, i quali producono una particolare sostanza lipidica
(palmitato di fosfatidil colina) detta anche surfactant o tensioattivo polmonare che viene applicato
sullo strato acquoso degli alveoli. Quando l’alveolo si allarga (inspirazione) queste molecole si
disperdono e la tensione superficiale aumenta. Quando l’alveolo si restringe (espirazione) queste
molecole si avvicinano e la tensione superficiale diminuisce. Ciò significa che se si inspira aumenta
il raggio ma aumenta anche la tensione, e se si espira diminuisce il raggio ma diminuisce anche la
tensione: quindi la pressione non cambia e non si crea gradiente, svuotamento e atelettasia.
* Se il polmone non avesse il meccanismo del surfattante, la legge di Laplace ci condannerebbe a
morte dopo pochi minuti: è quello che può accadere ai bambini prematuri; il bambino che nasce di
28 settimane (7 mesi) è a rischio poiché può presentarsi l’eventualità che gli pneumociti di II tipo
non siano ancora maturi per produrre il surfattante, il soggetto appena nato va incontro a rapida
atelettasia polmonare e quindi morte dopo pochi minuti.
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Tale patologia legata alla ritardata maturazione degli pneumociti di II tipo si chiama in pediatria
malattia delle membrane ialine ed è la principale causa di morte dei bambini prematuri. Di solito
tali cellule maturano intorno alla 30-31 settimana, quindi è opportuno tenere in considerazione tale
importante implicazione della legge di Laplace.
* La legge di Laplace è una legge chiave ed è anche alla base dell’ictus cerebrale, dell’infarto del
miocardio e di un’altra serie di problemi.
Il surfattante è una sostanza tensioattiva, ovvero una sostanza dotata di un polo idrofilo e un polo
idrofobo che ha la capacità di ridurre la tensione superficiale.
* Nel corpo umano vengono sfruttati molto i tensioattivi, pensiamo ad es. ai Sali biliari importanti
per la digestione dei lipidi oppure ancora nelle capsule articolari e nelle pleure.
Dopo questa importante parentesi, poniamoci questa domanda: qual è il legame, il rapporto tra le
legge di Laplace e la circolazione sanguigna?
Si è visto che i vasi sanguigni sono distensibili e fino ad una pressione di 300 mmHg se si aumenta
la pressione il vaso si distende, se si diminuisce la pressione il vaso ritorna ad assumere il raggio
iniziale. Si ricordi inoltre che i vasi sanguigni non sono plastica o vetro ma sono tessuti viventi e
quindi tale comportamento è presente se il vaso è in condizioni normali; a questo proposito la parete
del vaso deve essere nutrita e mantenuta efficiente da una circolazione specifica per tale funzione, i
vasa vasorum.
* Una patologia a carico dei vasa vasorum si traduce in una perdita della proprietà elastiche e
meccaniche della parete che si traduce in un aneurisma o in una varice. Ricordiamo che la
principale malattia dei vasa vasorum è il diabete, in cui la sofferenza dei piccoli vasi danneggia
l’aorta, la safena, le vene cave, le arterie cerebrali (rischio di ictus), le arterie coronarie (rischio di
infarto del miocardio); è una microangiopatia che causa una macroangiopatia.
Perché la legge di Laplace è importante nella circolazione del sangue e nei vasi sanguigni?
Intanto è opportuno effettuare una modifica nella formula perché i vasi, a differenza delle sfere
(quindi a differenza degli alveoli), hanno un solo raggio di curvatura e quindi P = t (non più 2t)
r
Se si osserva l’anatomia dei vasi, si scopre un fenomeno interessante: i vasi, ad esempio le arterie,
hanno una parete notevole: se infatti osservate un’arteria andando a vedere come essa è costituita, vi
accorgete che in essa il diametro del lume più meno equivalente allo spessore della parete vasale,
quindi la parete risulta essere notevolmente spessa.
Le vene, invece, hanno una parete molto più sottile, in particolare se osservate una vena vi
accorgete subito che lo spessore della parete è molto inferiore rispetto quello della parete arteriosa.
D’altra parte in un’arteria la pressione sanguigna è dell’ordine di 90-100 mmHg mentre in una vena
è intorno ai 15-20 mmHg, per cui dovendo resistere a pressioni più basse ovviamente è sufficiente
una parete meno sviluppata.
Se consideriamo i capillari, i capillari non hanno parete: la parete dei capillari è una cellula sola,
una singola cellula endoteliale avvolta su se stessa che forma la parete del capillare.
Quindi mentre in vasi arteriosi e venosi, oltre all’endotelio che riveste internamente il vaso, sono
presenti altri dispositivi di fibre elastiche, muscolari e collagene organizzate in tonache, nei
capillari c’è solo l’endotelio.
Quindi se si prende un capillare la sua parete è formata dalla cellula endoteliale.
Eppure i capillari resistono tranquillamente a pressioni di 60-70 mmHg, mentre una vena come la
safena cede a 15-20 mmHg, infatti l’insorgenza di varici a carico delle vene degli arti inferiori si
verifica già a 15-20 mmHg.
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La domanda da porsi è: come mai un vaso come il capillare, il quale ha una parete molto esile
costituita da una sola cellula endoteliale, riesce a resistere a pressioni di 60-70 mmHg senza
problemi, mentre una vena che ha una parete sicuramente più sviluppata già cede a 15-20 mmHg?
La risposta a questo paradosso è la legge di Laplace.
Infatti ponetevi questa domanda: per resistere ad una certa pressione quanta tensione deve produrre
la parete?
La risposta è: dipende dal raggio, infatti se P = t si ha anche t = P r ,
r
quindi minore è il raggio più piccola deve essere la tensione che la parete deve produrre per
resistere a quella pressione. Quindi il capillare che ha un calibro molto piccolo, equivalente a
quello di un eritrocita 7-8 micron, non riscontra normalmente grossi problemi.
Invece la vena safena, che ha un calibro di almeno 104 micron, deve produrre una tensione molto
superiore a quella del capillare (almeno 1000 volte superiore) per resistere alla pressione.
Dunque il vaso di raggio maggiore deve produrre una tensione superficiale maggiore che bilanci la
pressione.
Spesso accade che, nonostante vi sia una parete più sviluppata, tale parete venosa non riesce a
produrre una tensione almeno 1000 volte maggiore rispetto quella del capillare e quindi la vena
inizia a cedere e a causa del meccanismo di Bernoulli si instaurano le varici.
Un altro esempio. Immaginate un’arteria nella quale scorre del sangue. Ad un certo punto tale
arteria si biforca in due rami, una quota di sangue andrà in un ramo, l’altra quota nell’altro. Dove va
più sangue? Dove c’è meno resistenza ( infatti il flusso sarà maggiore dove la resistenza è minore,
ricordate F = 'p) .
R
Considerate che ad un certo punto si verifichi un abbassamento di pressione.
Se si abbassa la pressione i vasi si restringono, perché avendo pareti elastiche se la pressione
aumenta il vaso si dilata ma se la pressione diminuisce il vaso si restringe (Hook). Immaginate che
un vaso si riduca di più rispetto l’altro: questo è un guaio serio, perché quando la pressione tornerà a
livelli normali ovviamente il sangue non andrà nel vaso più piccolo perché nel vaso più piccolo vi è
resistenza maggiore ( R = 8 l Ș ) e come visto il sangue segue la via a minore resistenza,
ʌ r4
quindi andrà nel vaso a calibro maggiore: questo significa che il vaso a calibro minore non verrà più
perfuso. Questo fenomeno non è facile da sbloccare, perché per poterlo dilatare (cioè vincere la
tensione della parete che provoca il restringimento) essendo molto piccolo il raggio ci vorrebbero
pressioni molto elevate che normalmente non si registrano nei vasi.
* E’ la stessa cosa che accade quando si gonfia un palloncino: la fatica maggiore si fa all’inizio,
proprio perché è piccolo il raggio (vedi legge di Laplace).
Allora cosa accade? Immaginiamo un vaso cerebrale che si biforca: quindi abbiamo 2 vasi, vi è
abbassamento di pressione, i vasi si restringono, in seguito la pressione torna a valori normali e i
vasi grazie alla componente elastica si allargano: un vaso però si dilata di meno rispetto l’altro e il
paziente è nei guai. Il vaso più piccolo infatti funzionalmente non riceverà più abbastanza sangue:
quello è un ictus, in clinica tale condizione è definita chiusura critica perché il vaso, pur essendo
anatomicamente pervio, funzionalmente offre una tale resistenza che il sangue non lo irrora.
Inoltre, spesso si commette un errore sul piano terapeutico: se al soggetto si fornisce un farmaco
vasodilatatore la situazione paradossalmente peggiora: il vasodilatatore agisce in maniera migliore
sul vaso sano e quindi provoca una diminuzione della R nei vasi sani mentre lascia inalterata la
resistenza sul vaso chiuso con la conseguenza che aumenta il furto di sangue dal vaso
funzionalmente chiuso.
25
!! La legge di Laplace fornisce una spiegazione per una serie di ictus, in cui all’autopsia non si
trova un coagulo che ostruisce il vaso. Nel 50% dei casi non c’è nulla che ostruisce il vaso dal
punto di vista fisico, un’ostruzione anatomicamente riscontrabile: il vaso appare pervio eppure il
tessuto a valle è morto poiché non ha ricevuto sangue, e perché non ha ricevuto sangue? Perché era
talmente alta la resistenza che il sangue ha preferito una via alternativa a minore resistenza e per
riaprire quel vaso, essendo piccolo il raggio, ci sarebbe voluta una pressione così alta che non si
raggiunge mai nel corpo umano. Da quel momento in poi il vaso è chiuso per sempre: pur essendo
anatomicamente pervio, è funzionalmente chiuso.
Quindi attenzione, nella diminuzione del diametro dei vasi vi è un valore critico al di sotto del quale
il vaso si restringe ma non torna più ad aprirsi; paradossalmente e contrariamente a quello che pensa
la gente per l’ictus cerebrale non sono pericolose le crisi ipertensive ma bensì gli abbassamenti di
pressione, perché nel momento in cui c’è un ritorno elastico, se si è ristretto sotto un valore critico il
vaso non ritorna a dilatarsi perché per la legge di Laplace se il raggio diventa molto piccolo, la
pressione necessaria per dilatarlo dovrebbe essere talmente elevata che magari nel corpo umano non
si raggiunge mai.
Riassumiamo: il fatto che le pareti vasali siano distensibili, e soprattutto che tale distensibilità fino a
300 mmHg sia di tipo elastico, permette ogni volta che si verifica un aumento di pressione la
distensione del vaso e appena la pressione torna a diminuire il vaso assumerà il calibro iniziale.
Questo meccanismo dal punto di vista pratico è abbastanza comodo, perché normalizza la pressione
arteriosa: se si verifica un abbassamento di pressione, il ritorno elastico dei vasi riduce il calibro,
riducendo il calibro aumenta la resistenza e aumentando la resistenza la pressione non diminuisce
eccessivamente (perché deve garantire il flusso F = 'p) , e quindi in questo modo evito gli sbalzi
pressori.
R
Però si deve comprendere la conseguenza di un vaso elastico: tale conseguenza è la legge di
Laplace. La legge di Laplace ci dice che se il vaso è troppo piccolo, cioè il raggio è diminuito
troppo, la pressione che ci vuole per ridilatarlo è talmente elevata che magari nel corpo umano non
si raggiungerà mai, con il risultato che se diminuisce il raggio sotto un certo valore quel vaso
diviene funzionalmente chiuso, perché offre una tale resistenza che il sangue segue un’altra strada e
non c’è modo di riaprirlo, perché per ridilatarlo io dovrei provocare un aumento di pressione molto
elevato in grado di vincere il piccolo raggio, ma tale pressione nel corpo umano non si raggiunge
mai: in definitiva si ha la perdita di un vaso.
Quindi attenzione: infarti del miocardio o ictus cerebrali in cui all’autopsia il vaso è pervio spesso si
possono spiegare con questo fenomeno della chiusura critica, cioè mediante la legge di Laplace.
Si è verificato ad un certo punto una caduta di pressione, questa caduta di pressione ha causato un
restringimento del vaso perché il ritorno elastico ovviamente fa restringere il vaso, se questo
restringimento è eccessivo siamo nei guai perché il raggio diventa troppo piccolo, Hagen e
Poiseuille ti dicono che se il raggio è piccolo la R è grande, se la R è grande il sangue non irrora
quel vaso che quindi non verrà più perfuso.
Non c’è niente da fare. Tale fenomeno è difficile da curare.
*Dunque una cosa sono gli ictus o infarti dovuti ad ostruzione del vaso in seguito alla formazione di
coaguli, dove si interviene per angioplastica (procedura angiografica per eliminare le aree di stenosi
dei vasi sanguigni) con una ottima percentuale di buon esito dell’intervento. Ma quando non c’è una
componente che ostruisce il lume vasale come interveniamo? L’azione terapeutica si complica,
infatti fino a che si deve intervenire su vasi di grande e medio calibro si può operare mediante
angioplastica meccanica con palloncino (introduzione di un catetere a palloncino che gonfiato
provoca dilatazione del vaso); ma se il vaso interessato è un vaso di piccolo calibro, inferiore del
mm, come interveniamo?
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Quindi ricapitolando, per capire la dinamica della circolazione bisogna conoscere quattro leggi,
nell’ordine storico:
1. Leonardo: in un circuito chiuso il flusso è costante. Il flusso ma non la velocità, se il raggio
diminuisce la velocità aumenta, se il raggio aumenta la velocità diminuisce ma il flusso è costante.
2. Bernoulli: variazioni di velocità del fluido corrispondono a variazioni di energia cinetica. E
quindi la domanda è: ma questa energia cinetica aggiunta o sottratta da dove deriva e dove va a
finire? Quindi introduzione del concetto di energia totale, in parte cinetica e in parte potenziale.
Un aumento della velocità corrisponde dal punto di vista energetico ad un aumento dell’energia
cinetica e ad una diminuzione dell’energia potenziale; quando invece è diminuita la velocità
significa che è diminuita l’energia cinetica, a favore dell’energia potenziale ma l’energia
complessiva tende a mantenersi costante, in liquidi ideali.
3. Hagen-Poiseuille: attenzione in natura non esistono liquidi ideali, ci sono liquidi ideali dotati
di attrito interno e quindi si introduce il concetto di resistenza basata su viscosità, lunghezza e
raggio, con un rapporto quantitativo ben preciso: F = 'p
R= 8lȘ .
R
ʌ r4
Tale legge ha due importanti conseguenze:
a) il flusso esiste se c’è un gradiente pressorio, a 'p 0 corrisponde flusso nullo;
b) non basta che ci sia un gradiente pressorio, ma esso deve essere sufficiente a vincere la
resistenza, perché se io non riesco a vincere la resistenza non ho flusso e quindi il flusso cresce se
cresce il gradiente o se decresce la resistenza (il flusso è direttamente proporzionale al gradiente e
inversamente proporzionale alla resistenza).
4. Laplace: il comportamento della parete, essendo parzialmente elastica, almeno fino a 300
mmHg, crea delle conseguenze legate al fatto che se cambia il raggio cambia anche la pressione
necessaria per le variazioni del raggio stesso, e questo può causare la chiusura critica.
L’esempio che si è visto è un esempio drammatico che si verifica nel 50% degli ictus con quella che
si chiama “chiusura critica” dei vasi, ed è un problema perché una volta che il raggio è troppo
piccolo è necessaria una pressione estremamente elevata per ridilatare il vaso, ovvero ci vorrebbero
pressioni che di fatto non si raggiungono mai.
Consideriamo un ultimo concetto, il quale è un’altra delle cause di morte all’esame.
La circolazione umana trasporta il sangue verso la testa e verso i piedi. In posizione clinostatica
(sdraiati) il cuore è alla stessa altezza della testa e dei piedi, invece in posizione ortostatica la testa è
al di sopra del cuore mentre i piedi al di sotto.
Quindi viene spontaneo affermare (ERRONEAMENTE) che la perfusione cerebrale è più
difficoltosa in posizione ortostatica perché la testa è al di sopra del cuore e quindi il sangue percorre
in salita, mentre ovviamente verso le strutture sottocardiache (dal cuore in giù) la perfusione è
favorita dal gradiente gravitazionale.
E quindi per esempio se si effettua la misurazione della pressione sanguigna dell’aorta in un
soggetto in posizione ortostatica, essa è di 100 mmHg; nello stesso istante se si va verso la testa si
osservano valori pressori di 95, 90, 85 perché la pressione andando verso l’alto tende a diminuire e
ovviamente se io mi sposto verso il basso ovviamente registro pressioni di 110,120,130 mmHg e
quindi qual è l’errore che si commette? Si afferma che la forza di gravità, in posizione ortostatica,
ostacola la perfusione sanguigna del cervello e facilita la perfusione delle strutture sottocardiache:
!! è una stupidaggine perché ovviamente se in posizione ortostatica la forza di gravità sottrae
pressione all’arteria, sottrae pressione anche alla vena e quindi il gradiente non cambia.
Se il gradiente è 100 con 0, nella parte al di sopra sarà 90 nell’arteria ma -10 nella vena
corrispondente: il gradiente pressorio è lo stesso, quello che conta non è il valore assoluto della
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pressione ma ciò che conta è la 'p.
E’ possibile fare la medesima considerazione per gli arti inferiori, nei piedi se all’inizio la pressione
è 100 con 0, al livello inferiore è diventata 120 nell’arteria ma 20 nella vena, quindi il gradiente
pressorio non cambia.
Quindi il flusso del sangue nel corpo umano, nel passare da clinostatismo ad ortostatismo non
subisce nessuna variazione perché non si modificano i gradienti cioè le differenze di pressione
ma le pressioni assolute (diminuiscono nei vasi sopracardiaci e aumentano in quelli sottocardiaci)
e ciò non ha effetto sul flusso.
Nei corpi venosi del cervello la pressione diventa così bassa che può arrivare anche a -15 mmHg e
quindi addirittura è necessario ancorare la parete del seno venoso al tessuto cavitario perché la
pressione all’interno è diventata sub atmosferica.
Ma a parte questo aspetto pittoresco, siccome al diminuire della pressione della vena corrisponde la
diminuzione della pressione nell’arteria, il gradiente pressorio non cambia e quindi non cambia il
flusso.
- Dunque il primo studente che afferma che di salita viene male, di discesa è favorita..si trova
assicutato!
L’influenza della gravità non è sul flusso ma sulla pressione, cioè ad es. nella vena safena
quando si sta in piedi si hanno 20 mmHg di pressione in più rispetto alla posizione clinostatica cioè
la parete viene dilatata con 20 mmHg di pressione in più, e questo mette a dura prova la resistenza
di parete della vena, causando spesso l’insorgenza di varici.
Ricordiamo che per questo motivo nelle vene degli arti inferiori ci sono le valvole a nido di rondine,
proprio per evitare il reflusso del sangue.
* In semeiotica c’è una prova, detta di Frenderburg(?) per verificare se le valvole funzionano:
se con le dita si schiaccia una vena, la vena si deve gonfiare e rimanere gonfia; cioè il sangue arriva,
non può passare perché la vena viene schiacciata, ma non può tornare indietro.
Se la vena non si gonfia vuol dire che il sangue arriva, non può passare, però non funzionano le
valvole e quindi il sangue torna giù.
Con questa semplice prova è possibile valutare l’efficienza delle vene degli arti inferiori in termini
valvolari.
Sul flusso non c’è gioco: in tutti i circuiti chiusi il fattore gravità non ha influenza sul flusso, il
sangue scorre nei vasi perché c’è un gradiente pressori e quindi si può stare in posizione
clinostatica, ortostatica, o anche se si è astronauti in assenza di gravità: è il gradiente pressorio che
assicura la perfusione sanguigna e non il fattore gravità.
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Lezione 4 -
prof. Perciavalle
Potenziale d’azione, cellule eccitabili e non eccitabili
1. Se si considera una qualunque cellula del nostro corpo, ad es. un cheratinocita, e si posizionano
un elettrodo dentro e un elettrodo fuori e si osserva cosa accade chiudendo il circuito, ci si accorge
che fra l’interno e l’esterno di questa cellula esiste una differenza di potenziale il quale fa sì che
l’interno della cellula sia elettricamente negativo rispetto all’esterno.
Elettricamente negativo significa che all’interno della cellula le cariche di segno negativo sono
maggiori delle cariche di segno positivo, poiché se vi fosse lo stesso numero di ioni positivi e di
ioni negativi la cellula sarebbe elettricamente neutra.
Il fatto che ai due lati della membrana c’è una negatività interna di diversi millivolt (mV) dimostra
il fatto che all’interno della cellula gli anioni, cioè le particelle di segno - , sono maggiori dei
cationi, cioè delle particelle di segno + .
Se si va a ripetere questo stesso esperimento con altri tipi cellulari ci si accorge che tutte le cellule
viventi sono elettricamente negative rispetto all’esterno.
L’unica differenza che c’è tra una cellula della pelle, una cellula del sangue o un neurone sta nel
valore di questa negatività: in alcune cellule la negatività è modesta, intorno a -20, -30 mV, in altre
cellule come ad es. le cellule muscolari striate è più importante, intorno ai -90 mV rispetto
all’esterno.
In generale tutti gli organismi viventi, di qualsiasi tipo, sono elettricamente negativi, cioè al
loro interno esiste una disuguaglianza tra anioni e cationi, a favore degli anioni.
*Le eccezioni in natura sono scarse, esistono pochissime cellule viventi (e non dell’uomo) che sono
elettricamente positive, ma sono delle cellule particolari, ad es. quelle del pesce elettrico chiamato
torpedo.
2. Se si considera una cellula qualunque, ad es. un cheratinocita, e si va a misurare qual è la
differenza di potenziale è possibile costruire un grafico in cui si indica il voltaggio in mV, ad es. -60
mV : si osserva che al trascorrere del tempo non accade nulla e la differenza di potenziale rimane
tale. A questo punto è possibile fare un esperimento: si cerca di perturbare l’ambiente della cellula
per vedere cosa succede, cioè si sottopone la cellula a sollecitazioni meccaniche, la si fa attraversare
da campi elettrici, da campi magnetici, per capire che rapporto esiste tra le perturbazioni applicate
alla cellula e questa elettronegatività.
Ci si accorge che se la perturbazione (meccanica o termica, qualunque sia la sua natura) non
danneggia la cellula, non si osservano variazioni significative della negatività, cioè questa
negatività rimane inalterata nonostante i tentativi che vengono fatti per cercare di perturbare il
sistema. Soltanto la morte della cellula porta alla scomparsa della negatività.
Il segno di morte in una cellula è rappresentato dalla scomparsa dell’elettronegatività.
- Questo aspetto è stato visto sicuramente nei telefilm americani, quando il paziente muore si
appiattisce l’elettrocardiogramma, cioè non ci sono più variazioni di potenziale significative.
La presenza di elettronegatività è espressione di vita cellulare.
Domanda: tutte le cellule si comportano in questo modo?
Invece di prendere un cheratinocita, si può considerare un globulo rosso, nel quale si ottengono gli
stessi risultati anche se la differenza di potenziale è comunque inferiore (intorno ai -40 mV).
Lo stesso vale per molti altri tipi cellulare, fino a quando non consideriamo una cellula nervosa o
una cellula muscolare oppure una cellula in grado di secernere.
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Le cellule nervose, cioè i neuroni, le cellule muscolari (non ha importanza se lisce, striate o
miocardiche) e le cellule secernenti (esocrine o endocrine) si comportano in un modo diverso.
Se si inserisce un elettrodo dentro un neurone si può verificare che anche questo all’interno è
negativo, con la differenza che è più elettronegativo, intorno ai -70 mV.
In questo caso però, se si applica una perturbazione, si osserva un fenomeno particolare: applicando
una stimolazione la negatività della cellula rapidamente scompare, la cellula diventa positiva,
intorno a +20 mV, resta positiva per circa 1 millesimo di secondo e poi altrettanto rapidamente
ritorna negativa.
Di solito la cellula impiega un ms a passare da negativa a positiva e un altro ms per ritornare
da positiva a negativa, cioè tra andata e ritorno (tranne in un caso) si impiegano 2-3 millesimi di
secondo. Vi sono cellule che passano quindi da -80 a + 20, per cui la variazione di potenziale è di
un decimo di volt.
Ricapitolando Tutte le cellule sono negative, ma non tutte hanno questa curiosa modalità di
rispondere agli stimoli applicati.
Questo modo di reagire alle perturbazioni, questa proprietà prende il nome di eccitabilità.
In definitiva le cellule viventi sono tutte negative ma non sono tutte eccitabili, soltanto tre
categorie di cellule viventi in tutti gli organismi sono eccitabili: i neuroni, le cellule muscolari
(liscie, striate e cardiache) e le cellule secernenti.
Le cellule del corpo umano si dividono quindi nelle varie categorie, eccitabili e non eccitabili:
le cellule non eccitabili sono quelle che rimangono negative per tutta la vita, non diventano mai
positive (quando muoiono scompare la negatività), le cellule eccitabili invece hanno la straordinaria
proprietà di reagire alle perturbazioni con una inversione di polarità della durata di 2-3 ms (questo
significa che in un secondo questo processo si può ripetere anche 300 volte).
Qual è l’importanza biologica di questa proprietà?
Come visto questa proprietà è posseduta da 3 categorie di cellule.
Se si considera una cellula secernente e si sfrutta questa sua capacità, si osserva che appena la
cellula secernente passa da cellula negativa a cellula positiva, inizia a secernere.
La cellula muscolare quando diventa positiva si contrae.
La cellula nervosa quando diventa positiva consente la trasmissione dell’impulso nervoso.
Dunque per queste categorie di cellule questo evento significa passare da una condizione di riposo a
una condizione di attività: il segnale che fa passare queste cellule da una condizione di riposo a
una condizione di attività è un segnale di natura elettrica.
Quando le cellule sono elettricamente negative sono a riposo, se invece diventano positive le cellule
passano a una condizione di attività, tanto che in fisiologia questo evento si chiama potenziale
d’azione, proprio perché indica l’evento che stabilisce che la cellula deve cominciare a entrare in
azione.
Ricapitoliamo
- Tutte le cellule viventi sono negative ma non tutte sono eccitabili.
Questo significa che fino a quando una cellula è viva e sana, deve essere elettricamente negativa
rispetto all’esterno. L’unica differenza tra una cellula e l’altra riguarda solo di quanto è negativa, in
alcuni casi infatti si tratta di piccole elettronegatività, in altri casi ad es. nei muscoli striati si arriva a
-90 mV, in ogni caso il segno – è una costante.
Alcune categorie di cellule, se vengono perturbate, reagiscono con una inversione di polarità,
ovvero da cellule negative diventano positive (in fisica questo fenomeno da negativo a positivo
prende il nome di depolarizzazione) e poi altrettanto rapidamente ritornano alla negatività iniziale
(in fisica questo fenomeno si chiama ripolarizzazione). Questo fa in modo che la cellula passi da
una condizione di riposo a una condizione di attività.
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* Questa proprietà permette ad es. di distinguere le cellule del sistema nervoso: molto spesso infatti
cellule gliali e neuroni si assomigliano, quindi non è tanto la morfologia che ci può permettere di
distinguere queste cellule; il principio da seguire infatti è un altro: se è un neurone è eccitabile, se
non è un neurone, cioè se è una cellula gliale, non è eccitabile.
* Il termine glia in tedesco significa “colla” e se ci facciamo caso è la stessa radice della parola
inglese glue; infatti gli antichi anatomici tedeschi erano convinti che queste cellule servissero per
mantenere adesi i neuroni.
· Possiamo considerare quanto visto finora come un’opportuna premessa, adesso è il caso di fornire
importanti spiegazioni, ad es. perché le cellule sono elettricamente negative?
Cos’è che obbliga tutte le cellule viventi di tutti i tipi ad essere elettricamente negative?
Questo è un problema che non è stato semplice risolvere, però andando per ordine: il fatto che le
cellule funzionassero su base elettrica fu intuito alla fine del ‘700 da un medico italiano, Luigi
Galvani, il quale condusse importanti esperimenti sulle rane.
Galvani osservò che dopo aver sezionato la rana a metà, prendendo solo la parte inferiore con i
nervi diretti ai muscoli delle gambe, se lui collegava questo nervo a una bottiglia di Leida (che fu il
primo generatore di scariche elettriche nella storia della fisica) i muscoli delle gambe della rana si
contraevano. Galvani quindi fu il primo a intuire che la contrazione dei muscoli dipende da
fenomeni di natura elettrica, cioè fu il primo a intuire che queste cellule si contraevano su base
elettrica.
Tuttavia furono necessari più di 100 anni affinché qualcuno avesse una vaga idea di come poteva
avvenire tutto questo: un fisiologo tedesco di nome Bernstein condusse delle interessanti ricerche
sulla composizione dei liquidi corporei descrivendo un fenomeno interessante: considerando i
liquidi che si trovano attorno alle cellule, cioè i cosiddetti liquidi extracellulari e la loro
composizione ionica, Bernstein notò che fuori dalle cellule lo ione positivo era rappresentato nella
stragrande maggioranza dallo ione Na+, mentre lo ione negativo era rappresentato nella stragrande
maggioranza dallo ione Cl¯.
Na+ e Cl¯ sono i due tipici ioni che si trovano fuori dalle cellule, cioè negli ambienti
extracellulari.
Se si prendeva invece il citoplasma delle cellule, per cui un ambiente intracellulare, trovò che Na+ e
Cl¯ sono quasi inesistenti: all’interno delle cellule lo ione positivo tipico è lo ione K+, così come lo
ione negativo delle cellule viventi è rappresentato da una trilogia di ioni negativi molto particolare.
· Il primo di questi ioni negativi è rappresentato dal fosfato (che si libera ad esempio dall’ATP), il
quale però in seguito diffonde anche all’esterno della cellula, per cui dopo un certo tempo
ritroviamo la stessa concentrazione sia dentro che fuori: questo significa che il fosfato non può
essere il responsabile della negatività intracellulare.
· Il secondo ione negativo è invece uno ione che si forma in tutte le cellule viventi attraverso un
meccanismo particolare: le cellule producono CO2, la CO2 si lega all’H2O, si forma H2CO3 il quale
si dissocia con la formazione di HCO3¯. Tuttavia anche lo ione bicarbonato poi diffonde all’esterno,
per cui neppure lo ione bicarbonato può essere il responsabile della negatività intracellulare.
Allora qual è lo ione negativo tipico degli ambienti intracellulari?
Lo ione negativo tipico degli ambienti intracellulari è rappresentato dalle proteine della
cellula.
Le proteine sono per definizione molecole anfotere, cioè possono comportarsi come acidi o come
basi a seconda del pH dell’ambiente in cui si trovano. Se l’ambiente è acido, cioè è ricco di ioni H+,
il sistema tende a legare ioni H+, se invece l’ambiente è basico, cioè povero di ioni H+, il sistema
tende a perdere lo ione H+ e quindi la molecola si comporta da anione.
Il sistema in pratica funziona da tampone: in un ambiente basico la proteina cede ioni H+
dall’estremità carbossi-terminale, in un ambiente acido lega gli ioni H+ al gruppo aminoterminale.
31
Il pH delle cellule viventi è di 7,4: poiché il pH è basico ovviamente tutte le proteine di tutte le
cellule si comporteranno da anioni, cioè si comportano da ioni negativi.
Pertanto le proteine che si trovano all’interno delle cellule (sia le proteine strutturali, sia gli enzimi)
si comportano come un enorme quantità di ioni negativi.
Gli anioni proteici sono responsabili della negatività intracellulare.
Da queste osservazioni Bernstein formulò una teoria per spiegare perché le cellule non possono che
essere negative. Vediamo in cosa consiste questa teoria.
Inizialmente per comodità lasciamo perdere il sodio e il cloro extracellulari, consideriamo soltanto
potassio e anioni proteici.
Immaginate una cellula qualunque in cui vi sono 10 potassio e 10 anioni proteici: questa cellula sul
piano elettrico è neutra. Allora Bernstein si chiese cosa sarebbe successo lasciando la cellula a se
stessa, senza intervenire: il potassio è un piccolo ione che attraversa facilmente le membrane
cellulari, invece nessuna proteina in condizioni fisiologiche è in grado di attraversare le membrane
cellulari (l’unico modo sarebbe per endocitosi, cioè per mezzo di un trasporto attivo).
I pori della membrana cellulare sono in grado di far passare piccoli ioni ma non certamente le
macromolecole proteiche.
Ricordiamo a questo punto che il potassio ha una notevole differenza di concentrazione tra l’interno
e l’esterno, per cui diffonde dall’interno verso l’esterno secondo gradiente di concentrazione.
Il risultato è che quando esce il primo potassio la cellula non è più elettricamente neutra ma assume
carica negativa: questo determina un fenomeno che fino a questo momento non era evidente.
La legge di Coulomb afferma che cariche di segno opposto si attraggono, per cui dal momento che
il potassio è di segno + , mentre l’interno inizia a diventare di segno - , il potassio adesso non è più
sottoposto solo alla forza del gradiente di concentrazione, ma compare una seconda forza di natura
elettrica che lo trattiene all’interno della cellula.
Immaginiamo che il secondo potassio esca (8 dentro, 2 fuori): l’interno della cellula diventa ancora
più negativo per cui la forza che trattiene il potassio aumenta, inoltre la forza del gradiente dovuta
alla differenza di concentrazione si è ridotta.
Si arriverà a un momento (ad esempio 7 dentro, 3 fuori) in cui il potassio non si muove più,
ha raggiunto una condizione di equilibrio perché la forza che lo spinge ad uscire è bilanciata dalla
forza che lo trattiene al suo interno.
Quando queste due forze si equivalgono vi sarà sempre comunque una maggiore concentrazione di
potassio dentro e meno fuori: nell’uomo il rapporto interno/esterno è di 40 a 1, cioè per ogni 40 ioni
potassio all’interno ce n’è 1 fuori.
* Si capisce quindi che per trattenere all’interno della cellula questa concentrazione è necessaria una
bella negatività, ci vogliono -60, -70 mV altrimenti il potassio continuerebbe ad uscire.
In poche parole a un certo punto si raggiunge un valore di negatività che impedisce al potassio di
uscire e che si chiama potenziale di equilibrio per il potassio.
Potenziale di equilibrio significa che quel valore è sufficiente per mantenere stazionaria la
situazione: il potassio sarà sempre di più all’interno della cellula e meno fuori, ma non uscirà,
nonostante la presenza di una differenza di concentrazione, perché trattenuto dalla forte
elettronegatività intracellulare.
Ci sono però delle possibili quantificazioni: uno scienziato di nome Nernst ha stabilito una legge
che permette di sapere quanto deve essere la negatività, conoscendo la concentrazione dello ione
all’interno e all’esterno, per impedire allo ione di spostarsi.
Per il potassio questo valore di negatività è tra – 60 e – 70 a seconda della differenza di
concentrazione (questo valore può cambiare cellula per cellula).
32
Bernstein concluse quindi che tutte le cellule sono negative in seguito a un fenomeno obbligatorio:
le cellule possiedono uno ione di segno + che può uscire e uno ione che di segno – che non può
uscire.
L’unico ione che le cellule possono perdere è quello di segno positivo ed è evidente che
perdendo ioni di segno + le cellule diventeranno elettricamente negative.
La risposta potrebbe essere presentata con una domanda: come fanno le cellule a non essere
negative se l’unico ione che possono perdere è quello di segno positivo?
L’ipotesi di Bernstein si fonda quindi su questa osservazione: le cellule al loro interno possiedono
come ione positivo il potassio, come ione negativo le proteine (quest’ultime quasi assenti
all’esterno). Di questi due ioni solo quello di segno positivo è diffusibile attraverso le membrane
cellulari. La cellula quindi inizia a perdere ioni di segno +, diventa sempre più negativa e questa
elettroonegatività a un certo punto impedirà al potassio di uscire.
Il potassio sarà quindi in perfetto equilibrio tra un gradiente elettrico che lo trattiene e un gradiente
elettrico che lo spinge fuori.
Non solo conclude Bernstein le cellule sono negative, ma lo saranno per tutta la vita!
Dov’è che però Bernstein imbrogliava?
Bernstein barava facendo finta di non ricordarsi cosa che fuori dalle cellule vi sono Na+ e Cl¯.
(il rapporto tra Na+ fuori e Na+ dentro è di 40 a 1 e lo stesso vale per il Cl¯).
Poiché il cloro è di segno – e anche l’interno della cellula è di segno – , per cui nonostante il
gradiente di concentrazione il cloro è respinto da un ambiente che ha lo stesso segno.
!! Il sodio invece viene spinto all’interno della cellula per due motivi: il gradiente chimico
(ricordiamo che ce n’è molto fuori e poco dentro) e dal gradiente elettrico.
Si capisce quindi che se il potassio che esce fosse sostituito dal sodio che entra, la cellula non
sarebbe mai negativa.
Di fronte a questo problema Bernstein concluse che il Na+ non entra nella cellula perché le
membrane cellulari non fanno passare il Na+.
Secondo Bernstein quindi le membrane cellulari fanno uscire il K+ , ma non fanno entrare il Na+
(tra l’altro ricordiamo che il Na+ e il K+ hanno quasi lo stesso diametro).
Tuttavia fu facile dimostrare che qualunque membrana cellulare, di qualunque tipo, fa passare con
estrema facilità il Na+.
Quindi la domanda è: com’è possibile che la cellula rimanga negativa nonostante vi sia fuori il Na+
il quale è sottoposto a due forze che lo spingono a entrare e in più anche la membrana lo lascia
passare? Quindi non si riusciva a spiegare perché sebbene il Na+ sia in grado di entrare la cellula
rimane negativa.
· Quando iniziarono ad essere prodotti i primi isotopi radioattivi del sodio, si vide che
continuamente la radioattività passava dentro e fuori la cellula.
Quindi l’ipotesi di Bernstein fu modificata: le cellule non sono negative perché il Na+ non entra,
bensì sono negative perché il Na+ entra ma appena entrato viene nuovamente riportato fuori
dalla cellula.
Le cellule quindi non sono negative passivamente: al contrario le cellule rimangono negative
attivamente perché devono prendere Na+ che entra spontaneamente, seguendo un gradiente
elettrochimico, e lo devono portare fuori dalla cellula contro gradiente elettrico e contro gradiente
chimico. Questo trasporto costa energia, consuma ATP: ci vuole una molecola di ATP per ogni 3
Na+ che vengono presi dentro e portati fuori.
Pertanto l’elettronegatività delle cellule non è gratis ma è il risultato di un continuo lavoro che le
membrane fanno e che consiste nel prendere il Na+ che entra spontaneamente e buttare fuori
attivamente con dispendio di energia esattamente la stessa quantità di Na+ che entra.
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§ Il professore: “la vostra collega ha un fabbisogno energetico di circa 1300-1400 Kcal al giorno, il
90% di questa energia viene utilizzata solo per pompare il sodio all’esterno della cellula, per far
rimanere negative le cellule. Per fare tutto il resto, cioè per camminare, studiare, ecc, le basta il 10%
del dispendio energetico”.
La negatività cellulare è un equilibrio dinamico che rappresenta il principale costo energetico per la
cellula. Il nostro obiettivo comunque è capire in cosa si differenziano le cellule eccitabili.
· Iniziamo però dalle cellule non eccitabili. Se consideriamo una porzione di membrana di una
cellula non eccitabile si osservano due caratteristiche fondamentali per l’elettronegatività:
- Il primo aspetto è rappresentato dai pori che permettono allo ione K+ di uscire e allo ione Na+ di
entrare (ricordiamo che le pareti di questi canali sono formati da 5 a 6 proteine).
# In un micron² di membrana di una cellula non eccitabile di questi pori ne sono presenti
mediamente 50 e da ognuno di questi buchi in un millesimo di secondo passano qualcosa come 50
milioni di ioni sodio per ogni poro, per cui provate a immaginare la quantità di sodio che entra e la
spesa energetica visto che per ogni 3 ioni sodio riportati all’esterno ci vuole una molecola di ATP.
- Nella stessa porzione di membrana sono presenti i trasportatori, carrier (proteine integrali di
membrana) che devono prendere il sodio dentro e portarlo fuori e sono chiamati pompe per il sodio.
Questi carrier di solito sono talmente numerosi che sono sufficienti a trasportare fuori tutto il Na+
che entra da 50 canali, ma anche da 70 canali. Quindi potremmo dire che c’è un margine di
sicurezza: anche se i canali fossero un po’ di più il sistema funzionerebbe.
Dunque in condizioni fisiologiche le pompe, in una cellula non eccitabile, sono più che sufficienti
per prendere il Na+ che entra e riportarlo fuori.
Il problema quindi non sta tanto nella quantità delle pompe quanto piuttosto nella capacità
metabolica di produrre l’ATP necessario per far funzionare le pompe e se il sistema funziona
l’elettronegatività della cellula non viene perturbata.
· Per quanto riguarda le cellule eccitabili, ad es. se si prende un micron² di membrana di un neurone,
il primo aspetto importante è che anche nel neurone i carrier sono più o meno gli stessi, cioè più o
meno sono sufficienti per 70 canali. La differenza quindi non riguarda la quantità di trasportatori.
Se invece si prendono in considerazione i canali, cioè i pori, nella membrana di una cellula
eccitabile il numero di pori presenti è almeno 10 volte superiore, cioè una membrana di una
cellula eccitabile possiede per ogni micron² da 500 a 2000 canali mentre le pompe sono sempre
sufficienti solo per 70 canali! In ogni caso il neurone fino a quando non viene stimolato è negativo.
Dunque la domanda è: come fa a rimanere negativa una cellula che ha 500 pori per l’entrata del
sodio ma solo pompe sufficienti per 70 canali per buttarlo fuori?
L’unica spiegazione possibile che è stata trovata per questa apparente contraddizione numerica è la
seguente: è vero che ci sono 500 pori però a riposo di questi ne sono aperti solo 50.
Gli altri 450 pori sono presenti ma rimangono chiusi.
La negatività quindi viene garantita dal fatto che il sodio entra solo attraverso 50 canali e le pompe
presenti sono così sufficienti. La differenza importante però riguarda il fatto che in questo caso vi
sono altri 450 canali momentaneamente chiusi, ma che si possono in opportune condizioni aprire.
Nel caso dei canali normalmente chiusi, le proteine che formano le pareti hanno una forma ben
precisa: la proteina sporge nel lume e lo occlude, cioè assume una determinata configurazione
allosterica (off) in modo tale che lo ione non riesce a passare. Queste proteine possono ovviamente
cambiare la loro conformazione allosterica (on) e determinare l’apertura del canale.
Dunque le proteine che formano i canali sono di due tipi: circa 50 (il 10%) sono sempre aperti, gli
altri 450 sono formati da proteine canale che esistono in due conformazioni allosteriche (on e off).
Normalmente sono in conformazione off per cui il canale non è precorribile da parte dello ione.
Cosa fa cambiare la conformazione da off a on al canale e viceversa?
Esistono solo due modi fisiologici (+ uno non molto fisiologico), per aprire un canale.
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* Il metodo non molto fisiologico è legato all’edema cellulare: se una cellula rigonfia si ha il rischio
che le proteine che formano la parete, anche se rimangono off, si allontanano e gli ioni riescono a
passare. Questo meccanismo è una conseguenza patologica che si verifica ad es. in un edema
cerebrale.
I metodi fisiologici per aprire un canale sono due (dove aprire significa far cambiare la
conformazione allosterica delle proteine canale da off a on).
La regola vuole che quasi tutti i canali siano in grado di sfruttare entrambi i meccanismi.
1. Il primo di questi meccanismi consiste nel fatto che ci sono delle sostanze chimiche che
legandosi alla proteina fanno cambiare la conformazione allosterica del canale.
Quando avviene il legame tra la proteina e la sostanza chimica cambia istantaneamente (in pochi
nano secondi) la conformazione del canale. Il canale passa dalla conformazione off a on e quando la
sostanza chimica si stacca dalla proteina la conformazione della proteina da on torna ad essere off.
Queste molecole che portano all’apertura dei canali possono provenire dall’esterno della cellula
(con il sangue ad es. neurotrasmettitori, ormoni) oppure possono essere prodotte all’interno della
stessa cellula, in quest’ultimo caso vengono indicate con il nome di secondo messaggero.
2. Il secondo metodo per l’apertura dei canali non necessita di sostanze chimiche. Questo metodo
fisiologico si basa sul fatto che le proteine canale sono proteine e come tali possiedono delle
cariche elettriche. La presenza di queste proteine dotate di cariche elettriche fa in modo che se
artificialmente si riduce la negatività della cellula (ad es. da -60 a -50), questa minore negatività da
sola è sufficiente per determinare l’apertura dei canali.
E’ sufficiente depolarizzare la cellula, cioè ridurre la negatività, che una certa quantità di
canali spontaneamente cambia configurazione allosterica da off a on, cioè da chiusi diventano
aperti. E’ chiaro che la quantità di canali che si apre dipende dalla riduzione della negatività, cioè
se si passa da -60 a -50 se ne apre una certa quantità, se invece si riduce da -60 a -40 se ne apre una
quantità superiore.
Si dice in termine tecnico che questi canali sono voltaggio-dipendenti, cioè la loro condizione di
aperti o chiusi dipende dal potenziale, cioè più la cellula è negativa più è elevato il numero di canali
chiusi, più la cellula perde negatività maggiore è il numero di canali aperti. Quando il potenziale
della cellula è esattamente 0, tutti i canali sono aperti.
· L’elettronegatività dipende quindi dal modello di Bernstein, cioè dal fatto che gli ioni intracellulari
sono diversi dagli ioni extracellulari: negli ambienti intracellulari lo ione positivo è il potassio, lo
ione negativo è rappresentato dagli anioni proteici, mentre fuori dalle cellule sodio e cloro.
* Per sapere ad es. quanta acqua è contenuta nelle cellule si potrebbe prendere del K+ radioattivo, il
quale andrà a finire dentro le cellule: non bisogna far altro che attendere un po’ e andare a misurare
la concentrazione del K+, cioè qual è il rapporto tra ioni radioattivi rispetto al solvente.
Conoscendo la concentrazione del soluto è facile arrivare al volume del solvente.
Seguendo lo stesso principio, se anziché potassio radioattivo si usa il Na+ radioattivo, è possibile
misurare il volume dei liquidi extracellulari.
In alcuni casi si può utilizzare un isotopo dell’acqua (cioè con l’aggiunto di tritio, isotopo
dell’idrogeno) si possono ricavare i volumi complessivi dei liquidi nel corpo.
Riepilogando bisogna ricordare una trilogia di concetti importanti:
1. L’ ipotesi di Bernstein, dice che dentro le cellule vi sono K+ e anioni proteici e solo il potassio è
diffusibile, quindi perdendo cationi la cellula è ovviamente costretta a diventare elettricamente
negativa. L’ipotesi di Bernstein spiega quindi la nascita della negatività.
Il fatto che la cellula rimanga negativa richiede di eliminare il Na+ il quale entra sia per gradiente
elettrico che per gradiente di concentrazione. Per rimanere negativa nel tempo la cellula deve
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neutralizzare l’entrata del sodio attraverso le pompe per il sodio, le quali trasportano 3 ioni sodio
con il costo di 1 ATP.
# Ricordiamo che la membrana di una cellula non eccitabile contiene circa 50 canali per ȝ² e
attraverso un canale spontaneamente entrano 50 milioni di ioni sodio al millesimo di secondo,
quindi la quantità di ioni sodio che entra è notevole e la quantità di ATP necessario per farlo uscire
è altrettanto notevole. Se si considera invece la membrana di una cellula eccitabile la differenza
più importante riguarda il fatto che i canali sono molto più numerosi, almeno 10 volte più numerosi,
cioè almeno 500 canali per ȝ²: in questo caso la negatività della cellula si giustifica con il fatto che
di tutti questi canali, soltanto 50 circa sono sempre aperti.
Gli altri canali si aprono come visto o in risposta a sostanze chimiche che si legano alla proteina
canale oppure variando il potenziale.
Immaginiamo di stimolare una cellula eccitabile, ad es. un neurone: si fanno legare ad esso delle
sostanze chimiche in piccola quantità che determinano l’apertura per esempio di 10 canali. Se prima
la cellula possedeva 50 canali aperti, il legame delle sostanze porta la cellula ad avere 60 canali
aperti. L’effetto di questa situazione non è determinante perché come visto le pompe per il sodio
sono sufficienti per 70 canali aperti, quindi la cellula rimane negativa.
A questo punto viene fornita una maggiore quantità di queste sostanze chimiche: la situazione
cambia quando vengono aperti 71 canali. Infatti le pompe sono in grado di portare fuori una
quantità di sodio pari a quella che entra da 70 canali e dunque una certa quota di Na+ resta dentro la
cellula. Con la permanenza del Na+ all’interno, la cellula si depolarizza.
Man mano che il sodio resta dentro e la cellula si depolarizza si apriranno gli altri canali facendo
depolarizzare ulteriormente la cellula, in pratica si mette in moto un meccanismo che porterà
inesorabilmente la cellula a diventare elettricamente positiva: questo fenomeno prende il nome di
ciclo di Hodgkin dal nome dello studioso che negli anni ’50 lo descrisse per primo.
Questo fenomeno autosostentativo è inarrestabile.
Si capisce che il comportamento delle cellule eccitabili è interessante: se si produce uno stimolo di
piccola intensità per cui non si aprono più di 70 canali, o meglio se non arriva ad aprire il 71˚
canale, non succederà nulla, cioè lo stimolo in questione non è in grado di far scattare il fenomeno.
Se invece si apre il 71˚ canale, cioè il valore critico, il fenomeno non si può più fermare, cioè si
mette in moto un fenomeno autosostentativo che porta inesorabilmente alla genesi del potenziale
d’azione. Il sistema obbedisce quindi alla legge del tutto o del nulla.
Il punto critico è determinato in definitiva dall’intensità dello stimolo applicato: se lo stimolo non è
sufficientemente intenso da aprire il 71˚ canale non succede nulla, invece se si apre il 71˚ canale il
fenomeno diventa autosostentativo: è importante capire che non c’è differenza se il valore critico di
70 canali si supera di uno o di cinquanta!
Il valore critico è rappresentato dall’apertura 71˚ canale: al di sotto nulla, al di sopra tutto.
Il termine che si utilizza per indicare l’apertura del 71˚ canale è la soglia.
*In latino limen significa “confine” per cui gli stimoli si distinguono in subliminali e sopraliminali
a seconda che siano in grado di superare la soglia.
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Lezione 5 -
prof.ssa Serapide
La corteccia frontale comanda i muscoli del nostro corpo tramite il midollo spinale.
I segnali arrivano dalla corteccia al midollo spinale e da questo ai muscoli per mezzo dei potenziali
d’azione che viaggiano lungo gli assoni, quindi lungo i fasci di fibre che non sono altro che
l’insieme degli assoni delle cellule sulle quali questi potenziali si sono generati. Il potenziale
d’azione viene condotto, si propaga lungo le fibre.
Cosa succede quando l’assone di questo neurone arriva alla sua terminazione?
In corrispondenza della sua terminazione l’assone può trovare o un altro neurone oppure può
trovare un muscolo (ad es. se si tratta di un assone il cui corpo cellulare si trova nel midollo spinale,
incontra un muscolo). Queste cellule che innervano espressamente i muscoli e si trovano localizzati
nel midollo spinale prendono il nome di motoneuroni, proprio perché sono dei neuroni che
determinano contrazione dei muscoli e quindi movimento. Queste cellule sono localizzate nella
parte anteriore del midollo spinale.
Il midollo spinale è costituito da sostanza bianca all’esterno e sostanza grigia all’interno. Questa
diversa colorazione indica una diversa composizione: la sostanza bianca è tale perché costituita da
assoni, quindi da fibre la maggior parte delle quali sono rivestite da mielina, una guaina che serve
ad accelerare molto la conduzione di potenziali d’azione lungo le fibre; la parte centrale invece, che
presenta una forma di H, è tale perché lì si trovano corpi cellulari privi di mielina.
* La mielina a livello di un neurone si trova solo sull’assone, quindi sia il soma che i dendriti ne
sono privi.
La sostanza grigia a forma di H presenta quindi due formazioni che prendono il nome di corna, due
anteriori e due posteriori, mentre per i quadrupedi si parla di ventrale e dorsale. In alcuni casi
comunque i termini ventrale e dorsale vengono applicati anche in testi di fisiologia umana anche se
andrebbero utilizzati anteriore e posteriore per riferirsi alla posizione eretta.
Nel corno ventrale della sostanza grigia si trovano i corpi cellulari dei motoneuroni i cui assoni
vanno a innervare i muscoli scheletrici, formando sinapsi con questi muscoli.
In particolare nelle corna ventrali vi sono due popolazioni di motoneuroni.
Una popolazione molto grande è formata dagli Į-motoneuroni, frammisti ai quali vi sono dei
motoneuroni più piccoli che prendono il nome di Ȗ-motoneuroni.
· I motoneuroni Ȗ sono quelli che effettivamente determinano il movimento perché vanno a
innervare i muscoli volontari: al muscolo arriva l’assone di questa cellula, quindi una fibra che
prende il nome di fibra Į .
I muscoli scheletrici volontari sono innervati dagli Į-motoneuroni del midollo spinale tramite
fibre Į .
· I motoneuroni Ȗ con le loro piccole fibre Ȗ vanno a innervare dei recettori che si trovano
all’interno del muscolo.
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Le sinapsi
Le sinapsi sono quindi delle zone in cui due strutture eccitabili vengono a contatto tra di loro.
Nelle sinapsi l’elemento pre-sinaptico è sempre un assone (non potrebbe essere altrimenti) piuttosto
è l’elemento post-sinaptico che varia.
In particolare si parla di sinapsi periferica quando questa sinapsi avviene tra una fibra Į e un
muscolo scheletrico che si trova in periferia. Questa sinapsi viene chiamata anche placca
neuromuscolare, proprio perché è costituita da un elemento nervoso, la fibra Į e da un altro
elemento che è la fibra muscolare scheletrica.
Si parla di sinapsi centrale quando avviene tra due neuroni.
Nel caso della sinapsi periferica l’elemento post-sinaptico è una fibra muscolare, nel caso della
sinapsi centrale la fibra incontra un altro neurone costituito da soma, dendriti e dall’assone.
La fibra pre-sinaptica può prendere contatto con i dendriti di questo secondo neurone formando una
sinapsi asso-dendritica, oppure con il soma formando una sinapsi asso-somatica, oppure può
prendere rapporto anche con l’assone di questo secondo neurone formando una sinapsi assoassonica.
Quindi per quanto riguarda la sinapsi periferica si distingue soltanto un tipo di struttura, la placca
neuromuscolare, mentre per la sinapsi centrale si distinguono tre tipi di sinapsi dal punto di vista
morfologico (asso-dendritica, asso-somatica e asso-assonica).
Sinapsi chimiche
Le sinapsi sono delle regioni specializzate, cioè non tutti i punti di contatto possono diventare
sinapsi ed è una zona di contiguità tra due elementi, cioè una zona in cui gli elementi sono separati
da uno spazio molto ristretto, lo spazio sinaptico o (?) sinaptico, che si misura addirittura con una
unità di misura più piccola del nano metro, nell’ordine degli angstrom.
I due elementi di una sinapsi quindi anche se molto vicini, non sono fusi, non c’è un rapporto di
continuità bensì di contiguità, di estrema vicinanza.
Questo tipo di sinapsi in cui gli elementi sono separati dallo spazio sinaptico sono le cosiddette
sinapsi chimiche cioè quelle sinapsi che lavorano servendosi di una sostanza chimica che prende il
nome di mediatore chimico o neurotrasmettitore, in quanto si tratta di una sostanza che media il
passaggio del potenziale d’azione dalla fibra pre-sinaptica all’elemento post-sinaptico.
Lo spazio sinaptico quindi non viene saltato e ciò rappresenta già una stranezza: quando si
studierà la conduzione del potenziale d’azione lungo le fibre, si vedrà infatti che questa conduzione
è di tipo saltatorio, cioè il potenziale salta lungo la fibra, in particolare salta dei tratti che sono più
ampi dello spazio sinaptico, tuttavia non riesce a saltare questo piccolissimo intervallo che c’è tra
un elemento e l’altro. Perché?
Il motivo è dovuto non tanto al fatto che è incapace di saltare questo preciso spazio, piuttosto al
fatto che il potenziale deve passare da un elemento con determinate caratteristiche a un altro con
caratteristiche diverse, pur essendo entrambi delle strutture eccitabili.
Nel passare da un elemento all’altro cambia la funzionalità, il modo di comportarsi di questo
elemento, ad esempio cambia la soglia, quindi il potenziale non può passare direttamente
saltando, anche se lo spazio è molto piccolo.
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Sinapsi elettriche
Accanto alle sinapsi chimiche vi sono le sinapsi elettriche, cioè delle sinapsi in cui effettivamente i
due elementi che formano la sinapsi si fondono tra di loro e in alcuni punto dove vengono a contatto
si creano dei canali attraverso i quali passano ioni e altri soluti. Questi canali rappresentano quindi
non solo un modo per far comunicare le cellule dal punto di vista metabolico, ma anche per
trasferire ioni, cioè cariche elettriche, segnali elettrici da un elemento all’altro.
Le zone in cui gli elementi vengono a contatto tra di loro sono chiamate gap junctions, cioè delle
giunzioni molto strette formate da un canale che si viene a costituire tra un elemento e l’altro:
questo canale prende il nome di connessone, il quale è formato a sua volta da connessine.
La metà del canale si trova su una membrana, l’altra metà di trova sul canale di fronte, per cui
quando i due elementi vengono a contatto questo canale si completa e attraverso di esso avviene il
passaggio di segnali elettrici, c’è una comunicazione elettrica, da cui il nome di sinapsi elettriche.
! Queste sinapsi dapprima erano considerate più involute rispetto a quelle chimiche, cioè le sinapsi
chimiche erano considerate sinapsi più specializzate, l’evoluzione di quelle precedenti.
Le sinapsi elettriche sono state adesso rivalutate poiché è stato visto che in diversi nuclei del
nostro sistema nervoso si ritrovano queste sinapsi elettriche, le quali fanno in modo che questi
neuroni possano inviare segnali tutti insieme, pressoché contemporaneamente.
Le sincronizzazione dell’attività dei neuroni che è stata ritrovata a livello di diversi nuclei
(talamici, bulbari) avviene proprio tramite le sinapsi elettriche, che sono molto rapide,
permettono una propagazione molto più rapida dell’impulso.
Grazie alle sinapsi elettriche viene modulata molto rapidamente l’attività di un nucleo e senza
sprecare troppa energia, perché si ha il passaggio diretto di potenziale d’azione.
* Addirittura attraverso queste gap junctions vengono mandati dei segnali in grado di regolare
l’apoptosi, la morte programmata della cellula. L’apoptosi è regolata da molti segnali chimici che
probabilmente derivano dalle cellule vicine a quella che deve andare in apoptosi, segnali che si
propagano sfruttando proprio queste sinapsi elettriche.
Le sinapsi elettriche si ritrovano anche nel cuore: il cuore è un organo con tutte le caratteristiche
dei muscoli scheletrici , però dal punto di vista funzionale si comporta come un muscolo liscio!
Mentre nei muscoli scheletrici le fibre muscolari sono entità singole, separate morfologicamente e
funzionalmente tra di loro (tanto che per contrarsi devono essere attivate ad una ad una), nel cuore
invece queste fibre presentano delle gap junctions, quindi in alcune parti della loro membrana sono
connesse in maniera elettrica. Questo significa che le fibre cardiache non devono essere attivate ad
una ad una come quelle del muscolo scheletrico, ma basta che il potenziale d’azione nasca in un
punto, che subito l’impulso attraverso queste zone “a bassa resistenza” si propaga rapidamente e
invade tutto il cuore.
Il cuore quindi dal punto di vista funzionale è un sincizio, cioè si comporta come se fosse un’unica
cellula: funzionalmente non c’è una separazione tra le varie fibre, ma queste sono elettricamente
accoppiate tra di loro, unite tra di loro e questo favorisce la propagazione del potenziale d’azione
una volta che questo nasce in un determinato punto.
§ C’è una differenza tra stimolo e impulso: lo stimolo è quello che si applica ( può essere tattile,
termico, dolorifico); l’impulso è sinonimo di potenziale d’azione, ovvero è la conseguenza dello
stimolo.
Per mezzo delle sinapsi elettriche è sufficiente applicare uno stimolo per cui l’impulso si propaga a
tutta la struttura, senza mediazione chimica, sfruttando soltanto dei canali attraverso i quali possono
passare facilmente gli ioni, e siccome gli ioni sono cariche elettriche il cui spostamento crea delle
correnti elettriche, il segnala si propaga.
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§ Le sinapsi elettriche dunque sono state molto rivalutate negli ultimi tempi; tutti i testi di fisiologia
di questi ultimi anni parlano delle varie connessine che sono state individuate, alcune delle quali
sono specifiche ad esempio per i neuroni, altre per le cellule gliali e così via.
Dal punto di vista funzionale, quali vantaggi e quali svantaggi hanno le sinapsi chimiche e le sinapsi
elettriche?
Il fatto che coesistono vuol dire che per alcuni aspetti sono più indicate le sinapsi elettriche, per alti
le sinapsi chimiche, quindi potremmo dire che ogni categoria, ogni tipo di sinapsi ha pro e contro.
· Il vantaggio delle sinapsi elettriche è intanto la rapidità con cui trasmettono il segnale: le sinapsi
elettriche sono molto più veloci delle sinapsi chimiche poiché il segnale passa direttamente da un
elemento all’altro, invece a livello delle sinapsi chimiche, dovendo far intervenire la sostanza
chimica, occorre del tempo, almeno 0,5 millesimi di secondo per ogni sinapsi.
Considerando che vi sono molte vie in cui sono intercalate diverse sinapsi, questo tempo può
allungarsi ed inoltre 0,5 ms è il tempo minimo, dal momento che alcune sinapsi possono richiedere
più tempo.
Questo tempo dunque, moltiplicato per tutte le sinapsi intercalate, può dare una notevole latenza,
dove per latenza si intende il tempo che intercorre tra quando si applica lo stimolo e quando si ha
l’effetto.
Le sinapsi elettriche inoltre sono vantaggiose dal punto di vista economico, poiché il sistema
consuma meno energia. Nelle sinapsi chimiche invece il soma deve produrre il neurotrasmettitore, il
quale deve migrare lungo l’assone e deve essere rilasciato con dispendio di energia.
Le sinapsi elettriche funzionano sempre, basta che vi sia un segnale e purché i canali siano aperti.
Le sinapsi chimiche invece, dipendendo da una quantità reale di mediatore, possono andare incontro
a fenomeni di fatica (dove per fatica non si intende comunque quella che noi comunemente
definiamo stanchezza). La sinapsi “si affatica” quando viene stimolata ripetutamente e per molto
tempo fino a quando si esaurisce il mediatore. Bisogna attendere in questi casi che il neurone
ricostituisca una giusta quantità di mediatore e la sinapsi riprenda a funzionare.
Ma qual è il vantaggio della sinapsi chimica?
La sinapsi elettrica fa passare tutti i segnali che arrivano, purché non vi siano problemi che
chiudano le connessine.
* Nel cuore ad es. queste comunicazioni tra le varie cellule si chiudono nei casi di ipossia, cioè
quando si riduce la pressione parziale di O2 e la chiusura di queste connessioni tra una fibrocellula e
l’altra può essere causa di infarto cardiaco, poiché estromette dalla conduzione queste fibre che non
sono più comunicanti tra di loro.
In ogni caso il segnale che passa attraverso le sinapsi elettriche non subisce nessun
rimaneggiamento, viene trasferito alle cellule così come è stato prodotto.
Nelle sinapsi chimiche invece si ha una integrazione del segnale: alcuni segnali vengono
cancellati, altri particolarmente importanti vengono amplificati.
Dunque il segnale che nasce in un neurone, a livello delle sinapsi chimiche viene rimaneggiato,
arricchito di altre informazioni, mentre le informazioni inutili vengono eliminate.
Questa modulazione è molto importante per la vita di relazione ed è una caratteristica propria delle
sinapsi chimiche, non certo delle sinapsi elettriche.
Per cui è vero che le sinapsi chimiche presentano alcuni svantaggi, cioè sono più lente e più
dispendiose, però funzionalmente sono capaci di integrare il segnale, cosa che non avviene a
livello di una sinapsi elettrica.
Le sinapsi chimiche sono anche più vulnerabili di quelle elettriche.
Per le sinapsi elettriche vi possono essere delle cause che chiudano queste connessioni e
impediscono il passaggio di questi segnali.
A livello di una sinapsi chimica, le cause che possono compromettere il funzionamento sono
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molteplici. Come visto può accadere che vi sia una scarsa quantità di mediatore o addirittura che il
mediatore si esaurisca, per cui una prima causa si verifica a livello presinaptico.
Può accadere anche che il mediatore sia presente, venga prodotto regolarmente, condotto
regolarmente alla fine dell’assone, ma vi siano dei problemi per il suo rilascio, cioè il mediatore non
viene rilasciato.
Il mediatore chimico per funzionare, una volta che viene rilasciato nel piccolo spazio sinaptico, non
deve disperdersi: la caratteristica di un mediatore chimico è che quando viene rilasciato
dall’assone, dalla terminazione presinaptica, viene subito legato dall’elemento post-sinaptico
tramite recettori.
I recettori che legano i mediatori sono delle strutture di natura proteica con una conformazione tale
da adattarsi a quella del mediatore (come la chiave nella serratura).
Anche i recettori per i neurotrasmettitori sono in numero finito, quindi una causa di
malfunzionamento della sinapsi chimica può essere la riduzione del numero di questi recettori.
Si può verificare inoltre che questi recettori, anziché legarsi al mediatore, vengono legati da
analoghi, da sostanze agoniste, cioè che hanno la stessa struttura del mediatore, per cui si legano al
recettore, ma non essendo mediatori non favoriscono anzi bloccano la trasmissione dell’impulso
nell’elemento post-sinaptico.
Le diverse cause di cattivo funzionamento ci fanno capire che le sinapsi chimiche sono molto più
vulnerabili delle sinapsi elettriche.
· Le sinapsi che prendiamo in considerazione sono sinapsi localizzate, ma bisogna ricordare che
molte sinapsi sono al contrario sinapsi diffuse, cioè sono disposte in maniera più diffusa su
un’ampia superficie.
Le sinapsi localizzate sono tipiche del sistema nervoso centrale.
Le sinapsi diffuse sono tipiche del sistema nervoso vegetativo.
In particolare le sinapsi diffuse sono tipiche dell’ortosimpatico, quindi sono le tipiche sinapsi
noradrenergiche, cioè quelle che utilizzano come mediatore la noradrenalina.
Quando la fibra Į viene a contatto con un muscolo, si sfiocca in diversi rami perdendo la guaina
mielinica e ciascun ramo va a formare una sinapsi ben localizzata con una fibra muscolare.
! L’insieme delle fibre muscolari che sono innervate da un solo motoneurone prende il nome
di unità motrice o unità motoria.
Dal momento che ogni muscolo (anche quelli piccoli) è costituito da molte fibre, generalmente sono
necessari più motoneuroni per innervarlo tutto, pertanto in un muscolo ci sono più unità motorie,
cioè le fibre muscolari fanno capo a neuroni diversi.
Se proviamo a ingrandire questa sinapsi si vede che la fibra nervosa, quindi l’elemento presinaptico,
si presenta slargato e prende il nome di bottone sinaptico.
Il bottone sinaptico contiene al suo interno la sostanza chimica, il mediatore, il quale non è mai
libero ma è avvolto in membrane con la formazione di vescicole.
A livello del soma viene sintetizzato il mediatore, il quale arriva alla terminazione per flusso
assonico. Lo spazio interno alle cellule e agli assoni è occupato da un citoscheletro costituito da
molti filamenti sottili, organizzati in modo da formare un reticolo a maglie molto strette, per cui la
cellula mantiene la sua forma.
Questi filamenti attraversano anche l’assone e su di essi si legano le sostanze prodotte dal soma che
migrano fino alla terminazione: questo è quello che viene definito flusso assonico.
* Questo sistema è molto utile per studiare la vera neuroanatomia. Una volta per verificare le
connessioni tra una struttura e un’altra si usavano delle tecniche un po’ grossolane, in particolare si
distruggeva una struttura, ad es. il soma, e poi si andava a seguire la cosiddetta degenerazione (?),
poiché se viene distrutto il soma gli assoni degenerano.
A questo punto si passava allo studio istologico della struttura che si voleva studiare e al posto delle
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cellule si trovavano degli spazi vuoti lasciati dai corpi cellulari. In generale quindi si trattava di un
sistema molto grossolano.
Con le nuove tecniche invece si è in grado di conoscere la connessione di un solo neurone, cioè la
destinazione dell’assone di un singolo neurone o comunque la proiezione di un ristretto gruppo di
neuroni. Si può sapere così se ad es. all’interno di un nucleo esiste una organizzazione topografica.
Questi studi possono essere condotti sfruttando proprio il flusso assonico, poiché vi sono delle
sostanze che prendono il nome di traccianti neuronali, (molti dei quali sono fluorescenti), i quali
possono essere iniettati in quantità piccolissima in un nucleo, entrano all’interno dei corpi cellulari e
vengono trasportati per flusso assonico nella zona in cui questo neurone proietta, per essere poi
rivelati con il microscopio a fluorescenza. In questo caso si tratta di traccianti anterogradi, che
vanno verso la terminazione.
Infatti esistono anche dei traccianti retrogradi, i quali seguono il percorso contrario, cioè possono
essere iniettati ad esempio a livello della terminazione, vengono assorbiti dalle terminazioni e
sempre per flusso assonico si portano verso il soma.
Quindi proprio sfruttando questo processo fisiologico che la cellula utilizza per trasferire metaboliti,
neurotrasmettitori, si possono anche fare trasferire sostanze esogene dall’esterno per compiere studi
di microanatomia.
Molti neurotrasmettitori sono amminoacidi, possono essere anche piccoli peptidi, comunque sono
sostanze che devono essere sintetizzate: la cellula quindi sintetizza continuamente queste sostanze,
le conduce alla terminazione e le conserva in vescicole avvolte da membrana.
Al microscopio elettronico dunque la terminazione presinaptica si riconosce subito proprio perché
contiene le vescicole con all’interno i mediatori.
La membrana post-sinaptica generalmente si invagina diverse volte quindi aumenta la superficie a
contatto, inoltre si arricchisce di recettori che hanno la capacità di legare questo mediatore.
Le due componenti della sinapsi chimica sono quindi specializzate: la componente presinaptica
contiene il mediatore all’interno delle vescicole, la componente postsinaptica possiede i recettori
che possono legare soltanto quello specifico mediatore.
Da questo ne deriva un’altra differenza tra sinapsi chimica e sinapsi elettrica:
la sinapsi chimica è unidirezionale, cioè la propagazione dell’impulso avviene obbligatoriamente
dall’elemento presinaptico all’elemento postsinaptico, proprio perché per far progredire questo
segnale si deve avere il rilascio del mediatore che si trova a livello presinaptico e il legame di
questo mediatore con i recettori che si trovano a livello postsinaptico.
Nel caso delle sinapsi elettriche invece il passaggio del segnale può avvenire sia in una direzione
che nell’altra, per cui le sinapsi elettriche generalmente sono bidirezionali.
Nel caso di sinapsi localizzate, tipiche del sistema nervoso centrale, ogni filamento nervoso prende
rapporto sinaptico con una sola fibra muscolare.
Il sistema nervoso vegetativo invece, in particolare a livello del sistema ortosimpatico, si ritrovano
invece delle sinapsi diffuse. La fibra che appartiene all’ortosimpatico, quando arriva a livello di una
parete costituita da una muscolatura liscia (un viscere, una ghiandola), si ramifica diverse volte,
proprio come la fibra del motoneurone, tuttavia la sinapsi non è costituita soltanto da un punto
preciso, cioè non è localizzata, ma il mediatore viene rilasciato lungo tutta la terminazione, da cui
deriva la denominazione di sinapsi diffuse.
Queste terminazioni si definiscono a corona di rosario, proprio perché vi sono diverse zone dove
viene rilasciato il mediatore, per cui l’azione del mediatore non è localizzata solo in un punto, ma è
diffusa a tutta la zona dove si estende la terminazione.
Queste sinapsi vengono anche chiamate sinapsi noradrenergiche perché il sistema simpatico
utilizza come mediatore la noradrenalina.
! Questo non avviene in tutto il sistema ortosimpatico, perché bisogna ricordare che il sistema
vegetativo (SNP) è costituito diversamente dal sistema nervoso centrale. *
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Una di queste differenze è la seguente: il SNC va a innervare la muscolatura scheletrica, volontaria
e l’assone della cellula localizzata nel midollo spinale va a innervare direttamente il muscolo; se
invece consideriamo il muscolo liscio, controllato dal sistema vegetativo, sia per la componente
para- che orto- simpatica, pur avendo il soma nel midollo spinale (generalmente nella regione
intermedia), l’assone non si porta direttamente al muscolo liscio ma si interrompe, prende contatto
con un altro neurone ed è questo secondo neurone che si porta la muscolo liscio.
Quindi la differenza tra SNC e SNP riguarda il fatto che il centrale innerva direttamente i muscoli
scheletrici, in quello periferico invece si hanno due neuroni in serie.
Il secondo di questi neuroni si trova in un raggruppamento che prende il nome di ganglio, per cui la
fibra che origina all’interno del midollo spinale prende il nome di fibra pregangliare, mentre quella
che si origina dai neuroni che si trovano all’interno del ganglio è chiamata fibra postgangliare.
* Le sinapsi noradrenergiche diffuse sono quelle delle fibre postgangliari, dal momento che la
sinapsi che avviene a livello del ganglio, sia che si tratti di sistema parasimpatico che di sistema
ortosimpatico, utilizza come mediatore l’acetilcolina ed è una sinapsi localizzata perché riguarda
direttamente il neurone gangliare.
Le sinapsi delle fibre pregangliari sono sinapsi colinergiche localizzate.
· Le sinapsi diffuse sono tipiche del sistema nervoso vegetativo, in particolare dell’ortosimpatico,
però attenzione perché si tratta delle sinapsi stabilite dalla fibra postgangliare sul muscolo liscio o
sulla ghiandola. La prima sinapsi infatti, quella stabilita dalla fibra pregangliare, è una sinapsi
colinergica ed è localizzata, come quelle del sistema nervoso centrale.
Anche le sinapsi che si stabiliscono tra il SNC e il muscolo sono sinapsi colinergiche, cioè
utilizzano l’acetilcolina.
Nel sistema vegetativo in genere si hanno quindi due neuroni in serie.
Se si parla di ortosimpatico la prima sinapsi, cioè quella delle fibra pregangliare, è una sinapsi
colienrgica, la seconda è invece noradrenergica.
Nel sistema parasimpatico invece entrambe le sinapsi sono colinergiche, cioè sia la sinapsi della
fibra pregangliare che quella della fibra postgangliare contengono acetilcolina (l’acetilcolina si
ritrova anche nella sinapsi tra la fibra Į e la muscolatura scheletrica).
L’acetilcolina è uno dei mediatori più diffusi insieme al glutammato.
· Quando l’acetilcolina viene rilasciata a livello della placca neuromuscolare è attivatoria, cioè il
suo rilascio determina la contrazione del muscolo.
· L’acetilcolina rilasciata a livello del neurone gangliare è attivatoria, cioè attiva il neurone
gangliare e fa procedere la trasmissione dell’impulso.
· Quando invece l’acetilcolina, nel caso del parasimpatico, viene rilasciata a livello della sinapsi
delle fibre postgangliari è inibitoria.
Quando il muscolo liscio riceve acetilcolina da parte del parasimpatico in genere diminuisce la
sua contrazione.
!! Il cuore da questo punto di vista si comporta come un muscolo liscio ed è innervato
dall’ortosimpatico e dal parasimpatico. L’ortosimpatico accelera la frequenza cardiaca, il
parasimpatico rallenta la frequenza cardiaca.
L’ortosimpatico è il sistema che entra in funzione nei casi di stress, quando tutti i parametri cardiaci
sono aumentati perché questo sistema rilascia noradrenalina che attiva la contrazione, per cui il
muscolo cardiaco si contrae più volte nell’unità di tempo.
Il parasimpatico entra in azione invece in condizioni normali, quando il cuore ha un’attività più
bassa, proprio perché il parasimpatico tende a inibire, a reprimere tramite rilascio di acetilcolina.
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Com’è possibile che una stessa sostanza, cioè l’acetilcolina, possa avere effetti diversi a livello del
muscolo scheletrico e del muscolo liscio (cuore compreso)?
La risposta è che evidentemente sono diversi i recettori a cui si lega.
Ne deriva che la risposta dell’elemento postsinaptico non dipende dal mediatore che viene
rilasciato, ma dipende dal legame tra il mediatore e il recettore.
Prova di questo ne è il fatto che una stessa sostanza può avere azioni diverse legandosi a mediatori
diversi, cioè può essere attivatoria in un distretto e inibitoria in un altro.
Sia l’intensità che il tipo di risposta dipendono in definitiva dal recettore cui si lega il
mediatore e dal numero di recettori legati: se infatti il mediatore non si lega a un numero
sufficiente di recettori non si ha effetto a livello postsinaptico.
La chiave di lettura di una sinapsi è quindi il recettore, non tanto il mediatore.
* Esiste anche il sistema enterico, cioè un terzo sistema nervoso a esclusivo servizio del sistema
gastrointestinale.
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Lezione 6 -
prof. Perciavalle
Il passaggio di una cellula eccitabile da negativa a positiva significa passaggio da una condizione di
riposo a una condizione di attività. Se è una cellula contrattile diventare positiva significa iniziare a
contrarsi, tornare negativa significa rilasciarsi.
La caratteristica delle cellule eccitabili risiede nella membrana cellulare, che possiede molti più
canali ionici delle cellule non eccitabili. Di solito una cellula non eccitabile (cheratinocita, globulo
rosso) possiede circa 50 canali per ȝ ² che fanno entrare Na+.
Attraverso questi canali entra il Na+ e nella stessa zona di membrana si trovano le pompe, cioè le
proteine carrier con azione di antiporto nei confronti degli ioni Na+ che portano il sodio all’esterno
contro gradiente elettrico (il sodio positivo non uscirebbe mai da un ambiente negativo come la
cellula) e contro gradiente chimico (fuori c’è molto sodio, dentro ce n’è poco).
Il costo di queste pompe è di 1 ATP ogni 3 Na+ trasportati. Se le pompe sono sufficienti la cellula
riesce comunque a prendere tutto il sodio che entra e portarlo fuori. Il risultato del processo è che la
cellula rimane negativa.
Nelle cellule eccitabili invece come visto i canali sono molto più numerosi, da 10 a 50 volte di più,
ovvero ci sono cellule con 500 canali per ȝ ², ma vi sono anche membrane con 3000-4000 canali per
ȝ ². Tuttavia il numero delle pompe presenti in questa porzione di membrana è uguale a quello delle
cellule non eccitabili, cioè riescono a fronteggiare 60-70 canali non di più.
Quindi è vero che una cellula eccitabile possiede molti più canali rispetto a una cellula non
eccitabile, però se la cellula rimane negativa vuol dire evidentemente che tutto il sodio che entra è
stato portato fuori: questo significa che non è possibile che tutti e 500 i canali sono aperti, dal
momento che le pompe sono sufficienti per una settantina di canali.
Ne deriva che in una cellula eccitabile la maggior parte dei canali è presente ma non utilizzabile da
parte degli ioni Na+ , per cui anche in queste cellule i canali aperti sono circa 50, le pompe sono
sufficienti e dunque anche la cellula eccitabile riesce a rimanere negativa.
In ogni caso, considerato che le pompe sono sufficienti per 70 canali, l’apertura del 71˚ canale
significa che uno ione Na+ che entra non viene portato fuori: col passare del tempo questo
accumularsi del sodio depolarizza la membrana, cioè progressivamente la negatività di membrana
diminuisce.
Questa depolarizzazione è importante perché i canali chiusi sono voltaggio-dipendenti, cioè si
possono aprire semplicemente riducendo la negatività di membrana.
In breve tutti e 500 i canali vengono e la cellula viene invasa da ioni Na+ . Il sodio, essendo
positivo, continua a entrare fino a quando l’interno della cellula non diventa positivo, proprio
perché soltanto un ambiente intracellulare positivo può impedire al sodio di entrare.
Una volta che la cellula è diventata positiva cosa succede?
Quando la cellula diventa positiva si verificano due eventi principali:
- La maggior parte dei canali (circa 450) si chiudono e quindi il Na+ non può più entrare, o meglio
la permeabilità della membrana al Na+ ritorna ad essere bassa.
* Bisogna ricordare comunque che lo ione di segno positivo normalmente presente nella cellula è lo
ione K+ . Lo ione K+ è presente all’interno della cellula in una concentrazione di 150-160
milliequivalenti, all’esterno invece 3-4 milliequivalenti.
In condizioni normali il potassio rimane dentro la cellula perché questa è elettricamente negativa.
Quando la cellula diventa positiva è chiaro che il potassio, non essendo più trattenuto, inizia a
passare dalla zona a maggiore concentrazione alla zona a minore concentrazione, cioè esce.
E’ chiaro che la cellula, perdendo ioni K+ positivi, da positiva ritorna inesorabilmente ad
essere negativa.
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Se immaginiamo di disegnare un potenziale d’azione, a partire da – 70 mV, la fase di ascesa, cioè la
depolarizzazione è dovuta all’entrata passiva di ioni Na+ invece la ripolarizzazione è dovuta
alla fuoriuscita passiva di ioni K+ .
* Il grafico ha una caratteristica forma a punta, tanto che gli americani lo chiamano spike
Non bisogna dimenticare infatti che sia l’entrata di Na+ che l’uscita di K+ sono passivi, cioè
avvengono esclusivamente sfruttando i gradienti presenti.
- Il Na+ entra perché è positivo e l’interno della cellula è negativo e perché fuori ce n’è molto e
dentro ce n’è poco.
- Il K+ uscirà invece perché è positivo e anche l’interno diventa positivo e perché dentro ce n’è
molto e fuori ce n’è poco.
Quando però alla fine il potenziale torna ad essere negativo, la cellula non è in condizioni normali
dal momento che dentro la cellula è rimasto Na+ , fuori dalla cellula è rimasto K+ .
Per cui se dal punto di vista elettrico tutto è tornato normale, ma in termini di distribuzione ionica ai
due lati della membrana la situazione non è ancora tornata alla normalità.
Tuttavia quando viene ripristinata la negatività di membrana le pompe ritornano in funzione:
ricordiamo che le pompe per il sodio sono in realtà pompe a scambio ionico, in particolare per
ogni 3 ioni Na+ portati fuori vengono portati dentro 2 ioni K+ e uno ione H+ .
Con questo sistema la distribuzione ionica ai due lati della membrana torna alla normalità, poiché le
pompe buttano fuori il sodio che è entrato e riportano dentro il potassio che è uscito.
* Per compiere questa operazione, cioè per riequilibrare il sistema, la cellula impiega 30-40
millesimi di secondo (mentre ricordiamo che il potenziale d’azione dura 2-3 millesimi di secondo).
E’ evidente che riportare il Na+ all’esterno della cellula costa energia, ma è necessario affinché la
cellula possa essere nuovamente eccitata e pronta per un altro potenziale d’azione.
Un altro concetto importante è che uno stimolo applicato in pieno potenziale d’azione non ha
praticamente alcun effetto, in particolare si dice che durante il potenziale d’azione la cellula è
refrattaria agli stimoli. Il concetto di refrattarietà si identifica proprio con la non-risposta agli
stimoli applicati.
- Il vecchio professore di fisiologia di Perciavalle diceva che il potenziale d’azione assomiglia agli
scarichi dei gabinetti, perché primo ha una soglia, cioè o parte o non parte; secondo, una volta che
parte non si può arrestare e terzo, una volta che parte è inutile continuare a tirare lo scarico perché
non può fare più di quello che già sta facendo.
Tutte le cellule sono negative ma non tutte le cellule sono eccitabili.
Per essere eccitabili le cellule devono possedere delle caratteristiche, in particolare nella membrana
devono essere presenti molti canali normalmente chiusi ma apribili: questi canali si possono aprire o
semplicemente depolarizzando la cellula o con l’intervento di sostanze chimiche che si legano alle
proteine canale, le quali modificano la propria conformazione allosterica facendo aprire il canale.
In questo modo si viene a determinare una situazione in cui il sodio entra nella cellula.
La cellula in condizioni normali in cui sono aperti 50-60 canali per ȝ ² è in grado di portare fuori il
sodio che entra: se questi canali iniziano ad aumentare a un certo punto le pompe non riescono più a
fronteggiare la situazione.
Dentro la cellula vengono attivati dei meccanismi calcio-dipendenti che hanno come effetto il
passaggio della cellula da una condizione di riposo a una condizione di attività.
Ricordiamo che la contrazione muscolare dipende dal calcio che esce dalle vescicole del sistema
reticolo endoplasmatico, la secrezione dipende da calcio e anche le sinapsi, il collegamento tra
neuroni funziona perché entra calcio nel terminale e determina la fuoriuscita del neurotrasmettitore.
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Tutti gli effetti che contraddistinguono il passaggio di una cellula eccitabile da una condizione di
riposo a una condizione di attività dipendono da due eventi:
- Il primo di questi eventi è che la cellula da negativa diventa positiva
- Il secondo è la liberazione dentro il citoplasma della cellula di ioni
E’ l’aumento di concentrazione di ioni Ca ²+ nel citosol il vero evento attivatore dei processi
cellulari (contrazione, secrezione, rilascio dei neurotrasmettitori).
* Durante un intervento al cuore il cardiochirurgo non può certamente lavorare con il cuore in
attività per cui è necessario fermare il cuore ma senza uccidere le cellule e questo risultato viene
ottenuto togliendo il calcio dalle cellule cardiache (somministrazione di calcio antagonisti).
Si verifica così un fenomeno particolare: le cellule da negative diventano positive, ma a questo
punto non essendoci il Ca²+ non può essere avviato il processo contrattile, cioè si disaccoppia il
processo elettrico dal processo meccanico e il cuore non si contrae.
Quando l’operazione è terminata si fa una iniezione si gluconato di calcio nelle coronarie, il calcio
diffonde all’interno dei citoplasmi cellulari e gradualmente ricompaiono i fenomeni meccanici,
per cui al fenomeno elettrico sarà associato il fenomeno meccanico.
* I calcio antagonisti servono anche ad abbassare la pressione. Un paziente che soffre di alta
pressione ha una vasocostrizione arteriosa eccessiva: poiché la vasocostrizione è dovuta a muscoli
lisci e anche il muscolo liscio ha bisogno di calcio per contrarsi, la somministrazione di calcioantagonisti consentono l’abbassamento della pressione.
Cosa accade quando si genera il potenziale d’azione?
Consideriamo ad es. una cellula muscolare, la cui lunghezza corrisponde a quelle delle fibre.
Se la cellula viene stimolata in un punto, in quel punto la cellula diventa positiva. Gli eventi che
seguono sono determinati dalla legge di Coulomb: non appena questo punto diventa positivo gli
ioni negativi delle zone vicine cominciano ad essere attirati verso il punto con cariche di segno
opposto, si crea un flusso di cariche intracitoplasmatiche dal punto vicino a potenziale
negativo verso il punto a potenziale positivo. In questo modo il punto vicino perde ioni negativi e
così facendo si depolarizza. Se il punto vicino si depolarizza si aprono canali per il sodio, scatta un
nuovo potenziale d’azione e lo stesso meccanismo si verifica nei punti successivi.
E’ evidente che in una cellula eccitabile basta che il potenziale d’azione si verifichi in un punto
qualunque della cellula che inesorabilmente, punto dopo punto, invaderà tutta la cellula.
!! Attenzione è sbagliato dire che il potenziale si sposta da un punto all’altro, piuttosto si crea un
nuovo potenziale nel punto immediatamente vicino.
Quindi guardando la cellula dall’esterno sembra che il potenziale si propaghi, in realtà è un
apparente propagazione, si tratta nuovo potenziale che insorge nel punto vicino.
Il potenziale d’azione, una volta generato, invade tutta la cellula, qualunque sia la sua dimensione,
qualunque sia la sua grandezza, non esiste punto della cellula che possa sfuggire a questo processo.
La velocità di propagazione si può anche calcolare e nei mammiferi è grossomodo nell’ordine
di 0,5 m/s.
* In alcune cellule come quelle del nodo atrio-ventricolare o nodo di Tawara la propagazione è di 2
cm al minuto!
Si capisce comunque che queste velocità non sono sufficienti, per cui in natura sono state inventate
delle soluzioni per velocizzare questi fenomeni e renderli più efficienti.
In un primo momento durante la filogenesi si cercò di sfruttare una legge fisica, la legge di Ohm, la
quale afferma che la resistenza elettrica di un conduttore dipende dal diametro del conduttore, per
cui inizialmente si era cercato di velocizzare il processo realizzando neuroni con un diametro
superiore, ma non è stata una scelta che ha avuto molto successo.
Si è trovata quindi una soluzione di gran lunga più efficace che ha portato ad un aumento
dell’ordine di 200 volte della velocità di propagazione!
Questa strategia prevede la presenza di cellule gliali che coprono gli assoni: gli strati lipidici delle
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membrane di queste cellule formano la guaina mielinica e avvolgendosi intimamente intorno agli
assoni, funzionano da tappo, chiudono i canali di membrana. Questo comporta che il Na+ non può
più entrare e il K+ ovviamente non può usare questi canali per uscire.
Se il sodio non può entrare e il potassio non può uscire non può avvenire il potenziale d’azione, dal
momento che il potenziale d’azione non è altro che l’ingresso di sodio seguito dalla fuoriuscita di
potassio. Questo significa che l’unica porzione dell’assone dove non è presente la guaina mielinica
si trova nel punto in cui finisce una cellula di rivestimento e ne inizia un’altra, ovvero i cosiddetti
nodi di Ranvier. In questo modo la propagazione non avviene punto dopo punto ma salta da un
nodo di Ranvier all’altro: la velocità aumenta in maniera notevole, grossomodo 7 m/s per ȝ di
diametro dell’assone, ma poiché vi sono anche assoni di 20 ȝ di diametro, si raggiungono velocità
di 140 m/s.
La comparsa della guaina mielinica rappresenta quindi il vero salto di qualità che è avvenuto
durante la filogenesi, cioè trasformare una propagazione punto dopo punto in una
propagazione saltatoria, cioè in una propagazione in cui l’eccitazione salta interi tratti ricoperti
dalla guaina mielinica e si può realizzare soltanto in corrispondenza dei nodi di Ranvier
(tipicamente ne sono presenti 2 per ogni mm).
* La guaina mielinica è costituita come visto da cellule gliali (cellule di Schwann nel SNP e
oligodendrociti nel SNC) per cui è necessario un sistema di nutrizione costituito da vasi sanguigni
(vasa nervorum). Nei diabetici ad es. le guaine mieliniche vengono interessate e si hanno così le
neuropatie che interessano le fibre nervose, dovute proprio alla demielinizzazione.
DIFFERENZA TRA OLIGODENDROCITI E CELLULE DI SCHWANN
C’è una differenza importante tra cellule di Scwhann e oligodendrociti.
Gli oligodendrociti sono delle cellule particolari costituite da un corpo cellulare dal quale emettono
una estensione che si sfiocca in diversi prolungamenti, circa 40, ciascuno dei quali va ad avvolgere
un assone diverso.
Uno stesso oligodendrocita partecipa alla formazione della guaina mielinica di 30-40 assoni
differenti, tutti vicini tra loro.
Nel caso delle cellule di Schwann invece una cellula si avvolge intorno a un assone, cioè la cellula
di Scwhann partecipa alla formazione della guaina mielinica di un tratto di un solo assone.
* Questo significa che uccidendo una cellula di Schwann si creano problemi a un assone, se invece
muore un oligodendrocita si creano problemi a 40 assoni!
Pertanto nelle malattie del SNP la morte di una cellula di Schwann mette in crisi un piccolo tratto di
un assone, cioè gli assoni vicini non ne risentono.
Quando muore la cellula di Schwann questa viene rapidamente fagocitata dai macrofagi, i quali in
breve tempo (circa 12 ore) ripuliscono il tratto di assone che ha perso il rivestimento mielinico.
A questo punto in prossimità del tratto di assone che ha perso il rivestimento vi sono piccole cellule
staminali della famiglia delle cellule di Schwann, le quali iniziano a differenziarsi e vanno a
prendere il posto delle cellule mancanti, così che dopo qualche settimana tutto torna alla normalità.
La demielinizzazione del sistema nervoso periferico è di solito guaribile spontaneamente con
una buona restitutio ad integrum.
!! E’ particolarmente importante la rimozione da parte dei macrofagi dei frammenti delle cellule,
poiché questi contengono una proteina che prende il nome di proteina Nogo, così chiamata proprio
perché impedisce alle cellule staminali di differenziarsi.
* Un tipico caso di demielinizzazione molto frequente riguarda il VII nervo cranico, è di causa
virale e prende il nome di paralisi a frigore. Il virus mette fuori uso le guaine mieliniche con la
conseguente paralisi del nervo faciale. Non è molto grave poiché nel giro di qualche settimana il
sistema recupera abbastanza brillantemente.
Esistono comunque versioni più gravi di questa malattia dovute al virus dell’influenza.
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Il virus dell’influenza in una certa percentuale di persone uccide in una volta le cellule di Schwann
di tutti i nervi di tutto il corpo con gravissimi problemi ad es. respiratori, provocando quella che
viene chiamata polinevrite acuta o malattia di Guillain-Barré.
Anche in questo caso i pazienti guariscono spontaneamente ma è necessario un lavoro medico di
carattere riabilitativo con fisioterapia per evitare che i muscoli si atrofizzino.
Quando però anziché essere provocata da un virus, la demielinizzazione è dovuta a sostanze
tossiche, tali sostanze oltre ad uccidere le cellule di Schwann uccidono anche le cellule staminali.
Se invece nel SNC (ad es. nel lemnisco mediale, nella via piramidale) si uccide un oligodendrocita,
40 assoni contemporaneamente perdono la guaina mielinica.
Questo si verifica purtroppo in una grave malattia del SNC che prende il nome di sclerosi multipla
in cui si vedono proprio le zone di sostanza bianca che hanno perso la guaina mielinica e danno
anche un altro nome alla malattia, cioè sclerosi a placche.
La complicazione nel caso della morte di un oligodendrocita riguarda il fatto che i macrofagi non
riescono ad eliminare tutti i frammenti, per cui rimane la proteina Nogo e non può avvenire la
rigenerazione.
La vera grande differenza tra mielina centrale e mielina periferica è che la demielinizzazione
periferica è sempre guaribile mentre la demielinizzazione centrale non è mai guaribile a causa
di una imperfetta rimozione dei frammenti degli oligodendrociti per cui rimane la proteina Nogo e
non vi può essere l’attivazione delle cellule staminali che in teoria potrebbero perfettamente
rinnovare la mielina.
* Di questi tempi si sta cercando di intervenire somministrando ad es. anticorpi anti-nogo.
Se si producono anticorpi anti-nogo e si iniettano localmente si neutralizza l’effetto della proteina
Nogo e così facendo le cellule staminali possono differenziarsi e il processo riparativo potrebbe
mettersi in moto. Il problema riguarda la necessità di far agire gli anticorpi soltanto dove si
desidera, altrimenti disattivando la proteina Nogo anche nei distretti sani determinando una
proliferazione incontrollata della guaina mielinica.
! L’eccezione è rappresentata dal nervo ottico ( II nervo cranico): il nervo ottico è un nervo
periferico tuttavia la guaina mielinica non è costituita dalle cellule di Schwann ma dagli
oligodendrociti. Il nervo ottico è quindi l’unico nervo periferico che se viene tagliato non
rigenera.
Il n. ottico a questo proposito si ammala delle stesse patologie che riguardano il SNC, non a caso ad
esempio la nevrite ottica retrobulbare è uno dei segni precoci di sclerosi multipla.
· La guaina mielinica possiede altre importanti caratteristiche.
Se si recide un nervo periferico, oltre alla conseguente paralisi dei muscoli innervati e perdita della
sensibilità, nel punto in cui è stato applicato il taglio si osserva che l’assone degenera
completamente, ma solo dal taglio a valle. Trascorse 24 ore la parte del nervo che degenera viene
fagocitata e rimane il “tunnel” vuoto delle cellule di Schwann.
Il tratto di assone che è rimasto intatto inizia a crescere e si fa strada nel tunnel delle cellule di
Schwann e con una velocità di circa 1 mm al giorno ricresce e va a ripristinare la funzionalità del
collegamento.
Se viene garantita l’integrità del tunnel le cellule di Schwann guidano la rigenerazione
dell’assone.
Oltre all’integrità del tunnel delle cellule di Schwann un altro fattore limitante per la rigenerazione
delle fibre nervose è dato dalla distanza, infatti quando viene reciso un nervo i due segmenti
tendono ad allontanarsi: se questa distanza supera i 5 mm la fibra non può più rigenerare.
* La bravura del chirurgo consiste nel mettere il più vicino possibile il tratto a monte con il tratto
valle, compiendo quella operazione che in termine chirurgico si chiama neuroraffia (o sutura
nervosa). La neuroraffia è l’unica condizione che può garantire una buona guarigione.
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§ Il primo a studiare il fenomeno di degenerazione in seguito a taglio fu uno studioso inglese di
nome Waller, tanto che il fenomeno viene definito degenerazione walleriana.
In definitiva la guaina mielinica ha il compito di velocizzare la propagazione ma serve anche
ai processi riparativi dell’assone.
§ Spesso nei tempi passati si verificavano paralisi ostetriche durante il parto ad es. con lo strappo
traumatico del plesso brachiale in neonati che venivano prelevati per l’arto superiore, con un
distacco superiore ai 5 mm critici dei due segmenti nervosi.
L’utilizzo del forcipe portava inoltre a casi di paralisi del faciale.
Il parto cesareo ha risolto questi problemi.
Curiosità Nella storia della medicina il parto cesareo è stato il frutto di una delle tante fantasticherie
di Galeno (Vanna Marchi dell’epoca). Tra le fantasie di Galeno, costata la vita a molte donne, c’era
quella che l’utero cicatrizzava senza bisogno di essere cucito; quando si praticava dunque un
cesareo, si ricuciva dopo la pelle dell’addome senza occuparsi dell’utero, come conseguenza le
donne morivano. Questa situazione andò avanti per ben 2000 anni!
Il primo cesareo fatto con la sutura venne realizzato a Padova nella seconda metà dell’800 e da
allora divenne prassi.
Le cellule autoeccitabili
Come visto nelle cellule eccitabili quando la quantità di sodio che entra passivamente supera la
quantità che le pompe sono in grado di buttare fuori (di solito le pompe sono sufficienti fino a 70
canali per ȝ ² ) scatta il potenziale d’azione con le modalità che sono state esaminate.
Vi sono però delle cellule in cui le pompe sono sempre sufficienti per 70 canali, però i canali
sempre aperti nella membrana sono 71, 72 ! Queste cellule non riescono a rimanere negative perché
è solo questione di tempo che il sodio si accumuli dentro la cellula e scatti il potenziale d’azione.
Alla fine del potenziale d’azione la cellula ritorna per un istante negativa ma siccome i canali
sempre aperti superano la capacità delle pompe, la cellula lasciata a se stessa non riesce a restare
negativa e dopo un po’ scatta un nuovo potenziale d’azione.
Queste cellule producono il potenziale spontaneamente senza bisogno di essere eccitate: si
tratta delle cosiddette cellule pacemaker, ovvero cellule che non possono rimanere negative
perché già in condizione di riposo la quantità di sodio che entra è superiore a quella che le pompe
riescono a buttare fuori.
Le cellule pacemaker quindi sono cellule autoeccitabili, che non hanno bisogno di essere
eccitate dall’esterno.
E’ chiaro che se i canali aperti sono 71 e le pompe sono sufficienti per 70 canali, l’accumulo del
sodio sarà lento e quindi prima che scatti il potenziale d’azione ci vorrà un po’ di tempo.
Se invece i canali aperti sono 80 e le pompe sono sufficienti sempre per 70 il sodio si accumula 10
volte più velocemente e si arriva 10 volte prima al potenziale.
Il concetto di fondo è che il numero di eccitazioni prodotte da queste cellule nell’unità di tempo
dipende da questa discrepanza tra entrata passiva e uscita attiva di ioni Na+ .
In ogni caso le cellule autoeccitabili possono essere stimolate dall’esterno, cioè sono anche
eccitabili, se vengono stimolate dall’esterno si comportano come una normale cellula eccitabile ma
è importante capire che anche se non vengono stimolate queste cellule producono lo stesso il
potenziale d’azione.
E’ questa la differenza tra le cellule del cuore e le cellule muscolari striate.
Nel cuore vi sono delle zone, il cosiddetto miocardio specifico, dove le cellule lasciate a se stesse
periodicamente generano il potenziale d’azione (120 volte al minuto in alcune zone, 60 volte al
minuto in altre zone, 10 volte al minuto in altre zone a seconda come visto del rapporto tra sodio
che entra e sodio che esce).
I muscoli striati invece se non vengono stimolati dall’esterno non si eccitano.
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* Se si danneggiano i neuroni che innervano i muscoli striati, pur essendo sani i muscoli
degenerano. E’ quello che accadeva un tempo in una malattia nota come poliomielite.
La poliomielite è caratterizzata dal fatto che non colpisce i muscoli, bensì colpisce i neuroni che
comandano i muscoli, ma dal momento che i muscoli non sono più in grado di contrarsi muoiono
per atrofia da disuso.
Quasi tutte le cellule muscolari lisce sono dotate di autoeccitabilità, cioè lasciate a se stesse si
contraggono spontaneamente, ad es. le cellule dell’intestino, le cellule degli ovidutti.
Le uniche cellule muscolari lisce che non sono dotate di questa proprietà sono soltanto quelle
della tunica muscolare dei vasi sanguigni.
Nel cuore alcune cellule hanno questa proprietà (miocardio specifico), altre ne sono prive
(miocardio comune).
Nella lezione precedente vediamo cosa accade quando il potenziale d’azione arriva all’estremità
dell’assone: la sinapsi.
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Lezione 7 -
prof.ssa Serapide
Si è visto nelle lezione precedente che la gran parte delle sinapsi sono localizzate ma vi possono
essere anche delle sinapsi diffuse che liberano il mediatore non solo a livello del bottone sinaptico,
ma lungo tutta la parte terminale dell’assone.
Le sinapsi diffuse sono quelle del sistema vegetativo, in particolare le sinapsi noradrenergiche
dell’ortosimpatico.
Queste sinapsi rilasciano il mediatore in un’ampia zona, per cui un elevato numero di cellule entra
contemporaneamente in contatto con il mediatore.
Sono state anche esaminate le caratteristiche delle sinapsi elettriche, le quali sono state rivalutate
negli ultimi anni poiché prima si pensava fossero presenti solo nel cuore.
· Il vantaggio delle sinapsi elettriche è la velocità, il difetto consiste nel fatto che il segnale non può
essere integrato (amplificato o ridotto), cioè non può essere modificato.
· I vantaggi delle sinapsi chimiche consistono nella possibilità di integrazione perché quando
convergono diversi segnali con mediatori diversi, alcuni attivatori, altri inibitori, cioè alcuni che
amplificano il segnale, altri che lo riducono, il punto in cui si ha questa convergenza è sede di
integrazione.
Il segnale quindi viene modificato, può essere anche cancellato perché questo tipo di sinapsi può
essere anche di tipo inibitorio, cioè possono rilasciare un mediatore che inibisce la membrana postsinaptica.
A livello di fenomeno elettrico in una membrana inibita si registra la iperpolarizzazione, cioè
un aumento della differenza di potenziale.
L’iperpolarizzazione è un evento elettrico che si traduce in una inibizione.
L’iperpolarizzazione è un momento in cui la membrana si allontana dal valore soglia, aumenta la
differenza di potenziale che c’è tra l’interno e l’esterno.
Per essere precisi la membrana ha a riposo un potenziale di – 70 mV: se questo potenziale viene
aumentato a – 90 mV , la membrana deve raggiungere una soglia più lontana che raggiunge più
difficilmente.
Quando si dice che una membrana è inibita significa quindi che sono necessari degli stimoli più
frequenti o più forti per far abbassare la soglia, dal momento che la iperpolarizzazione è un aumento
di negatività delle cariche elettriche che ci sono all’interno.
Questa iperpolarizzazione è attuata dai cosiddetti mediatori inibitori, i quali quando arrivano a
legarsi a recettori di membrana post-sinaptici aprono dei canali esclusivi.
· Il classico mediatore inibitore è il GABA (acido Ȗ-amminobutirrico), molto rappresentato a livello
del SNC, in particolare a livello del cervelletto. Invece a livello del midollo spinale il mediatore
inibitorio più diffuso è la glicina, un amminoacido.
Questi mediatori per iperpolarizzare la membrana, cioè per aumentare la negatività, o fanno
entrare ioni Cl¯, cioè cariche negative e in questo modo all’interno aumenta la negatività oppure
fanno uscire ioni K+ , poiché uscendo queste cariche positive si lasciano scoperte altre cariche
negative che si trovano sulle macromolecole proteiche e quindi anche in questo caso aumenta la
negatività e la membrana viene iperpolarizzata.
Questi fenomeni avvengono a livello di una sinapsi chimica, non possono avvenire a livello di una
sinapsi elettrica.
Le sinapsi chimiche sono invece depolarizzanti quando il mediatore che viene rilasciato riduce la
differenza di potenziale, ad es. da – 70 la porta a – 60, per cui avvicina la membrana al valore soglia
che può essere raggiunto più facilmente: questo viene attuato facendo entrare ioni Na+ , cioè
aprendo i canali per il sodio.
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Si parla di depolarizzazione fino a quando non viene raggiunta la soglia, per cui fino a quel
momento la depolarizzazione resta un fenomeno locale.
Quando una depolarizzazione di una certa entità fa raggiungere la soglia, nasce il potenziale
d’azione che non è più locale, ma è un fenomeno propagato.
Diversi tipi di inibizione
Ci sono dei segnali che in un determinato momento disturbano la conduzione degli impulsi e per
escludere questi segnali si usano proprio le sinapsi inibitorie. La sinapsi inibitoria può avere anche
l’effetto opposto, cioè mettere in evidenza un segnale, quindi privilegiare un’informazione che sta
passando attraverso un’altra fila di cellule: questa è la cosiddetta inibizione laterale.
! L’inibizione laterale è un tipo di inibizione molto frequente ad es. a livello del cervelletto, per cui
vi sono file di cellule che vengono attivate e file di cellule ai lati che vengono inibite.
Di conseguenza se vengono inibiti i segnali laterali non si fa altro che aumentare, far emergere il
segnale che sta passando in quel momento nella fila di cellule attivate.
L’inibizione laterale serve non tanto per bloccare alcune informazioni ma piuttosto a mettere
in rilievo le altre.
Esiste poi un altro tipo di inibizione che prende il nome di inibizione presinaptica.
Infatti le sinapsi inibitorie che sono state esaminate finora consistono in una inibizione postsinaptica.
Possiamo distinguere quindi l’inibizione post-sinaptica, l’inibizione pre-sinaptica, inoltre bisogna
considerare l’inibizione laterale.
Inibizione post-sinaptica
L’inibizione post-sinaptica è quella che si registra quando a livello della sinapsi viene rilasciato un
mediatore inibitorio (GABA, glicina).
L’inibizione post-sinaptica è così definita perché il mediatore, legandosi ai recettori post-sinaptici
della membrana, iperpolarizza la cellula aprendo i canali per il cloro o per il potassio.
Si registra quindi, a livello della cellula i cui recettori si sono legati con il GABA, un fenomeno
inibitorio che va sotto il nome di potenziale post-sinaptico inibitorio (IPSP), che si traduce in un
aumento della differenza di potenziale, cioè in una iperpolarizzazione. Il potenziale post-sinaptico
inibitorio è un potenziale locale.
Il potenziale d’azione invece è preceduto da una depolarizzazione che si verifica a livello di una
sinapsi attivatoria, dove si libera ad es. glutammato, per cui si registra una diminuzione di
potenziale e si ha il potenziale locale chiamato potenziale post-sinaptico eccitatorio (EPSP).
* Il glutammato è uno dei mediatori attivatori più diffusi.
Il potenziale post-sinaptico inibitorio (IPSP) si traduce in una iperpolarizzazione.
Il potenziale post-sinaptico eccitatorio (EPSP) si traduce in una depolarizzazione.
L’iperpolarizzazione e soprattutto depolarizzazione sono comunque dei termini generici, non sono
altro che dei fenomeni locali, cioè modificazioni nella differenza di potenziale che si verificano nel
punto in cui si applica lo stimolo. Questa modificazione di potenziale, se è di tipo inibitorio, non fa
altro che allontanare sempre di più la membrana dalla soglia, se è invece una modificazione è di
tipo eccitatorio avvicina la membrana alla soglia.
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Il termine depolarizzazione quindi è un termine generico che indica una diminuzione della
differenza di potenziale tra l’interno e l’esterno della cellula. Se invece si chiama questa
depolarizzazione con il nome proprio di EPSP sappiamo di trovarci a livello di una sinapsi centrale.
L’EPSP è la depolarizzazione che si verifica a livello di una sinapsi centrale ovviamente
eccitatoria.
Se infatti ci si trova a livello di una placca neuromuscolare, che è una sinapsi periferica sempre
attivatoria, il potenziale locale non viene chiamato potenziale post-sinaptico eccitatorio bensì
potenziale di placca e questo già ci permette di capire che ci si trova a livello di una sinapsi
periferica.
Inibizione presinaptica
L’inibizione presinaptica prevede una base morfologica che è data dalla sinapsi asso-assonica.
Mentre l’inibizione post-sinaptica è data da una sinapsi asso-somatica o asso-dendritica, per avere
l’inibizione presinaptica occorre una sinapsi asso-assonica.
Gli elementi che entrano in gioco in questo tipo di sinapsi sono almeno 3: un neurone A, un neurone
B e un neurone C.
Il neurone B è un neurone attivatorio per cui tra B e C c’è una sinapsi attivatoria e si registra a
livello di C un potenziale post-sinaptico eccitatorio.
Tra B e C c’è quindi una comune sinapsi chimica attivatoria.
Il neurone A realizza una sinapsi asso-assonica sul neurone B, cioè il suo assone termina sulla
terminazione assonica dell’altro elemento.
Il sistema è formato quindi da sinapsi tutte attivatorie.
Se però un istante prima di stimolare C, viene stimolato B, che è sempre attivatorio, non si registra
più questa attivazione: dal momento che non vi è più l’attivazione che si registra attivando solo la
sinapsi tra B e C si parla di inibizione, ma è importante capire che nonostante si parli di inibizione
non si registra nessun effetto inibitorio, nessun IPSP e non c’è neppure il rilascio di mediatore
inibitorio dal momento che le due sinapsi sono attivatorie.
Da cosa deriva quindi questa cancellazione di fenomeno elettrico?
Quando la sinapsi tra A e B arriva alla fine della terminazione ed è attivatoria, si ha una
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modificazione del potenziale di membrana dell’assone di B: in condizione di riposo i punti della
membrana di B sono tutti a – 70 mV, se però si genera una depolarizzazione a livello della
terminazione dell’assone di B mediante la sinapsi asso-assonica, il potenziale in questo punto
diventa ad es. – 60, quindi si riduce la differenza di potenziale.
Prima di andare avanti ricordiamo che il mediatore che viene rilasciato a livello di una sinapsi
dipende da due cose:
1. Da quanto calcio entra nella terminazione pre-sinaptica (il Ca²+ entra dal liquido extracellulare
ogni volta che il potenziale d’azione arriva a livello terminale) perché più ioni Ca²+ entrano, più
vescicole vengono convogliate verso la fine della terminazione, più mediatore viene liberato e
quindi più forte è lo stimolo.
2. Un altro modo per regolare la quantità di mediatore che viene rilasciato è la differenza di
potenziale che c’è a cavallo della membrana.
In condizioni normali quando il potenziale d’azione arriva alla terminazione di B si ha una
differenza di potenziale di – 70 mV che corrisponde a una quantità di mediatore rilasciato
sufficiente a depolarizzare la membrana di C.
Se però con la sinapsi asso-assonica viene depolarizzato il punto terminale dell’assone di B, quando
il potenziale d’azione arriva a questo livello la sua ampiezza si riduce e siccome la quantità di
mediatore liberato è anche direttamente proporzionale all’ampiezza del potenziale d’azione, si
riduce la quantità di mediatore rilasciato e questa quantità può non essere sufficiente a depolarizzare
la membrana postsinaptica di C.
In definitiva non si registra più questo EPSP.
L’inibizione presinaptica è quindi una inibizione particolare ed è stata chiamata inibizione perché i
primi studiosi che la studiarono videro che veniva cancellato il fenomeno eccitatorio che si
registrava stimolando una sinapsi.
E’ stato verificato poi che non si tratta di una vera e propria inibizione sia perché non si
registra né un potenziale post-sinaptico inibitorio (IPSP), né tantomeno viene rilasciato
mediatore inibitorio.
In realtà dalla combinazione temporale di due sinapsi attivatorie, cioè se si fa arrivare lo stimolo di
A su B un istante prima di quello che arriva da B su C, il potenziale d’azione che arriva da B a C
trova la membrana a un livello più basso e quindi il potenziale d’azione riduce la sua ampiezza in
quel punto e viene propagato alla terminazione con un’ampiezza ridotta, di conseguenza viene
rilasciata una quantità minore di mediatore.
L’inibizione presinaptica è molto presente nel midollo spinale e su di essa si basa la
modulazione del dolore, perché le fibre dolorifiche hanno una velocità di conduzione più lenta
rispetto ad altre fibre sensitive, ad es. le fibre tattili. Quindi se c’è una stimolazione dolorifica
ovviamente anche le stimolazioni tattili del punto leso vengono attivate e allora dal momento che le
stimolazioni tattili sono più rapide, il segnale arriva poco prima che arrivi quello dolorifico:
la riduzione di mediatore che ne segue modula il dolore, quindi rende la sensazione dolorifica meno
intensa. A livello del midollo spinale dove arrivano le fibre dolorifiche l’inibizione presinaptica che
avviene tra fibre dolorifiche e fibre tattili è uno dei tanti sistemi utilizzati per modulare la
sensazione dolorifica.
* Ne è prova il fatto che istintivamente quando si sente dolore si tende a stringere la parte
interessata, proprio perché la stimolazione tattile che arriva prima di quella dolorifica riduce la
sensazione dolorifica stessa.
L’inibizione presinaptica, a differenza degli altri due tipi di inibizione non è un modo per
sopprimere totalmente (inibizione postsinaptica) o per mettere in evidenza (inibizione laterale) un
segnale, ma serve per modulare, nel senso di ridurre, l’intensità di una stimolazione.
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Inibizione laterale
L’inibizione laterale verrà ripresa studiando il cervelletto poiché avviene ad opera di interneuroni.
· Gli svantaggi delle sinapsi chimiche consistono nel fatto che sono molto più vulnerabili delle
sinapsi elettriche per diversi motivi:
- La possibilità di andare incontro a un esaurimento del recettore.
- Dal versante presinaptico vi può essere un esaurimento del mediatore, per cui bisogna attendere
che il corpo cellulare produca altro neurotrasmettitore.
A questo proposito a livello delle sinapsi chimiche è presente un sistema che permette di riciclare
non solo il mediatore che non è stato utilizzato, ma addirittura le vescicole.
A livello presinaptico si possono ritrovare infatti dei recettori che servono per il reuptake, per
recuperare dallo spazio sinaptico il mediatore liberato in eccesso il quale viene di nuovo
immagazzinato nelle vescicole e riutilizzato.
Bisogna però stare attenti a non pensare, per la presenza di questi recettori, che la sinapsi chimica è
bidirezionale: il senso con cui viene trasmesso il segnale è dato dai recettori post-sinaptici poiché
solo questi quando si legano al mediatore aprono dei canali ionici.
La sinapsi chimica è unidirezionale, invece le sinapsi elettriche sono bidirezionali.
- Un altro aspetto in grado di danneggiare la sinapsi chimica è legato alle tossine che agiscono a
livello dei recettori, possono occupare i recettori. Il legame mediatore-recettore è un legame
competitivo, quindi se c’è una sostanza in grado di legarsi a questo recettore e soprattutto se è in
eccesso, si lega al recettore al posto del mediatore.
Questa sostanza prende il nome di agonista, quindi è una sostanza che simula il mediatore ma una
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volta che si lega al recettore non ha la capacità di aprire i canali ionici, per cui non favorisce la
trasmissione del segnale.
* Tuttavia sulla fisiologia di questi recettori ha giocato molto la farmacologia: molti farmaci che
hanno la stessa funzione del mediatore e sono agonisti del mediatore, riescono anche ad aumentare
l’azione del mediatore stesso e amplificare lo stimolo.
Una sostanza che invece blocca il recettore e determina degli effetti farmacologicamente opposti,
prende il nome di antagonista.
§ Questo è il caso del curaro. Il curaro è un veleno che in quantità adeguate va a bloccare i recettori
nicotinici che si trovano a livello della placca neuromuscolare sul versante postsinaptico, cioè sulla
membrana muscolare. L’azione del curaro, che provoca morte per asfissia, blocco respiratorio,
incuriosì i ricercatori e fu così che venne scoperta la placca neuromuscolare e la competizione che si
ha tra agonisti e antagonisti a livello dei recettori.
Il curaro è una sostanza che blocca i recettori nicotinici dell’acetilcolina, per cui quando viene
rilasciata l’acetilcolina dalla terminazione presinaptica, questa non trova più recettori a cui legarsi,
non si formano più complessi acetilcolina-recettore, non si aprono i canali per il Na+ , non nasce il
potenziale d’azione sul muscolo e questo non si contrae: se si tratta di muscoli respiratori questi
restano paralizzati, bloccati e il soggetto muore per asfissia.
Il curaro è dunque una sostanza che compete con l’acetilcolina a livello dei recettori nicotinici.
Il curaro viene anche impiegato in piccole dosi nelle miscele anestetiche, poiché in piccole dosi lega
soltanto alcuni e dunque la forza sviluppata nei muscoli è minore, cioè il soggetto durante gli
interventi è più rilassato.
* Una delle terapie dell’ipertensione è basata proprio sull’utilizzo di farmaci, di sostanze che vanno
a bloccare i recettori, come nel caso dei ȕ-bloccanti, cioè sostanze che hanno la stessa struttura della
noradrenalina rilasciata dal sistema ortosimpatico e dunque si vanno a legare ai recettori ȕ, cioè i
recettori noradrenergici, a livello cardiaco e a livello vasale. Il dosaggio farmacologico ovviamente
deve essere tale che questo farmaco prevalga sulla noradrenalina e vada a bloccare più recettori
della noradrenalina.
In una terminazione presinaptica, quando non arriva il potenziale, cioè in una condizione di riposo,
le vescicole sono tenute unite da proteine che prendono il nome di sinaptine.
Le sinaptine tengono “ferme” le vescicole poiché le ancorano al citoscheletro: in questo modo le
vescicole restano ancorate a livello presinaptico e non si disperdono.
In ogni caso nel momento in cui la vescicola deve liberare il mediatore, la vescicola deve essere
sganciata dal citoscheletro e convogliata verso la membrana presinaptica, le membrane si fondono e
il mediatore viene riversato per esocitosi nello spazio sinaptico. La sinaptina quindi deve sganciare
la vescicola dal citoscheletro e quest’azione avviene con il contributo degli ioni calcio.
Quando il potenziale d’azione a livello presinaptico determina l’ingresso massivo di ioni Ca²+ dal
liquido extracellulare.
Il calcio che aumenta a livello della terminazione presinaptica fa diverse cose:
- Il calcio innanzitutto attiva delle chinasi per cui le sinaptine vengono fosforilate, cambiano
conformazione e fanno staccare la vescicola dal citoscheletro.
- Lo stesso calcio attiva altre proteine che indirizzano le vescicole verso il punto della membrana
dove si possono ancorare: questo ancoraggio è determinato da altre proteine, dopodichè si ha
l’apertura in questo punto specifico della membrana e l’esocitosi del mediatore che è sempre
favorita dal calcio.
Il calcio quindi è fondamentale per la liberazione del mediatore e la trasmissione del segnale per cui
anche alterazioni della calcemia, cioè della concentrazione di calcio libero nel sangue e nei liquidi
circolanti può determinare alterazioni a livello delle sinapsi e se si tratta di una placca
neuromuscolare può provocare alterazioni della contrazione muscolare.
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A livello postsinaptico le modificazioni possono interessare il recettore:
- i recettori possono modificare la propria conformazione. Dal momento che i recettori sono delle
proteine, se c’è un’alterazione genica che riguarda quella proteina, basta una piccola modificazione
affinché il recettore non leghi più il neurotrasmettitore.
- i recettori a livello postsinaptico possono traslocare all’interno del citoplasma della cellula. Il
recettore infatti per legare il mediatore deve avere una porzione esposta all’esterno in assenza della
quale non si lega al mediatore.
I punti di vulnerabilità delle sinapsi chimiche sono quindi diversi.
Tra gli altri svantaggi bisogna ricordare il ritardo, in particolare per ogni sinapsi circa 0,5 millesimo
di secondo di ritardo, in ogni caso la possibilità di avere una integrazione è alla base non solo della
vita vegetativa ma soprattutto della vita di relazione.
Differenze tra sinapsi centrale e sinapsi periferica
Una caratteristica che contraddistingue la sinapsi periferica (placca neuromuscolare), dalle sinapsi
centrali è rappresentata dal fatto che la sinapsi periferica è sempre e comunque attivatoria e quindi
non c’è inibizione a livello del muscolo, della placca neuromuscolare.
Questo vuol dire che se il muscolo si contrae, questo accade perché a livello della placca
neuromuscolare è stata rilasciata acetilcolina a sufficienza, si è legata ai recettori nicotinici e questi
recettori hanno aperto i canali voltaggio-dipendenti per il sodio che hanno depolarizzato la fibra
muscolare e il muscolo si è contratto.
Se il muscolo non si contrae non accade perché a livello della placca è stato rilasciato un mediatore
inibitorio, ma si rilascia o perché non è stato rilasciato una sufficiente quantità di acetilcolina
oppure perché il motoneurone che innerva il muscolo è stato inibito.
In quest’ultimo caso dall’integrazione che si ha sul motoneurone, cioè dalla somma algebrica tra
segnali positivi e segnali negativi, prevalgono i segnali negativi per cui il motoneurone viene
iperpolarizzato, non nasce nessun potenziale d’azione che si possa propagare e di conseguenza il
muscolo non si contrae.
La sinapsi periferica è quindi l’unica sinapsi chimica soltanto attivatoria.
Spesso, su una membrana, il raggiungimento della soglia per far nascere il potenziale d’azione si
può avere non soltanto con un singolo stimolo sufficientemente forte ma si può avere anche con
molti stimoli leggeri, stimoli subliminali, i quali però devono essere sommati o nello spazio o nel
tempo.
- Nello spazio significa che si può raggiungere la soglia in un punto della membrana se tutto intorno
a questo punto convergono tante sinapsi, le quali vengono attivate contemporaneamente in maniera
subliminale.
- Un altro modo per raggiungere la soglia è la sommazione nel tempo: questo si verifica quando la
sinapsi è una sola, cioè se in uno stesso punto si fanno arrivare stimoli uno dopo l’altro alla giusta
frequenza (in modo che la depolarizzazione data dal primo stimolo si possa sommare al secondo e
al terzo) si raggiunge la soglia.
Si può intuire così che a livello della placca neuromuscolare si può avere solo la sommazione
temporale, perché ricordiamo che la placca neuromuscolare è formata da una sola sinapsi, ovvero
la fibra Į si sfiocca e ogni ramo va a formare una sinapsi con una fibra muscolare, per cui si
possono far arrivare il potenziale d’azione o segnali subliminali solo lungo questa fibra.
A livello delle sinapsi centrali invece si possono avere entrambi i tipi di sommazione perché s u
una parte della membrana di un neurone o su un dendrite convergono molte sinapsi.
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Un’altra differenza è data dal fatto che la placca neuromuscolare è l’unica sinapsi dove un
solo potenziale d’azione è in grado di dare una contrazione muscolare.
Quindi il potenziale d’azione che si propaga lungo la fibra Į è sufficiente a far liberare una quantità
di acetilcolina tale da far nascere un potenziale sulla fibra muscolare e determinare la contrazione.
Si ha quindi il caso di una sinapsi 1:1, cioè un potenziale sulla fibra Į ĺ una contrazione nel
muscolo.
In una sinapsi centrale invece, dove vi sono miliardi di bottoni sinaptici, un solo potenziale d’azione
non è assolutamente sufficiente.
In definitiva la sinapsi periferica è una sinapsi molto potente, molto forte, proprio perché un
potenziale d’azione determina una singola contrazione muscolare che prende il nome scossa
semplice. Se poi si opera una sommazione temporale a livello di questa sinapsi, si può trasformare
la scossa semplice in tetano muscolare.
Il tetano è un tipo di contrazione prolungata, sostenuta nel tempo.
I nostri muscoli scheletrici subiscono tutti contrazioni tetaniche, solo il cuore non va incontro a
tetano, ma a una scossa semplice (la sistole).
Il motivo è questo: la durata di un potenziale d’azione tipico a livello di una qualunque fibra
muscolare è di 1-2 millesimi di secondo con un’ampiezza generalmente di 90-100 mV (cioè passa
da – 60 a + 30 massimo, quello che viene chiamato spike) …to be continued
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Lezione 8 -
prof.ssa Serapide
Il tetano muscolare
L’ultima volta è stato visto com’è regolato il rilascio del mediatore e cosa accade a livello postsinaptico.
Il tetano muscolare è una conseguenza della sommazione, un altro evento che avviene a livello
delle sinapsi centrali.
Gli eventi che avvengono a livello delle sinapsi centrali sono l’inibizione, che non è presente a
livello della sinapsi periferica e la sommazione, che può essere di tipo spaziale e temporale.
A livello della sinapsi periferica (placca neuromuscolare) si ha solo sommazione temporale perché è
unica, cioè un’unica fibra nervosa stabilisce una sinapsi con una fibra muscolare.
La sommazione temporale e spaziale può avvenire invece quando ci sono più sinapsi, più fibre
nervose che convergono in un singolo spazio. Su ciascuna di queste fibre, considerate
singolarmente, può avvenire la sommazione temporale, ma se più fibre convergono su un punto
vicino si può avere anche la sommazione spaziale.
! Il tetano muscolare è proprio una conseguenza della sommazione che avviene a livello delle
sinapsi.
Si è parlato di sommazione a proposito degli eventi elettrici che avvengono a livello delle sinapsi.
Se un impulso che arriva a livello della sinapsi è sufficientemente intenso, dà subito un potenziale
d’azione che si propaga: questo è quello che avviene sempre a livello della sinapsi periferica, dove
quindi si ha 1 potenziale ĺ 1 contrazione.
A livello delle sinapsi centrali un potenziale d’azione esercita sul neurone (su cui ci sono le sinapsi)
una leggerissima variazione del potenziale di membrana.
Per sinapsi centrali si intende un neurone con il suo soma e con i suoi dendriti sui quali convergono
tantissime sinapsi.
§ Quindi a livello delle sinapsi centrali “un solo potenziale d’azione su una superficie così vasta è
come una goccia nell’oceano” (Serapide).
Questo significa che per avere un potenziale d’azione su questo neurone occorre la sommazione di
tutti gli eventi elettrici che sopraggiungono insieme, quindi se i potenziali che arrivano sul neurone
sono eccitatori (quelli che abbiamo chiamato potenziali post-sinaptici eccitatori – EPSP ), tutti
questi piccoli potenziali (gli EPSP) sono soggetti a sommazione.
Pertanto un singolo stimolo determina una leggera depolarizzazione (per fare un esempio porta la
membrana da – 70 a – 69 mV) che siccome avviene a livello della membrana postsinaptica prende il
nome di potenziale postsinaptico eccitatorio.
Un altro stimolo che è possibile sommare nello spazio e nel tempo, che converge quindi nello stesso
punto, porta la membrana da – 69 a – 67 mV: in poche parole la depolarizzazione aumenta di
ampiezza fino ad arrivare a una soglia, cioè se dalla sommazione di questi impulsi si raggiunge la
soglia, allora nasce il potenziale d’azione .
A livello di una sinapsi centrale quindi un singolo potenziale d’azione che arriva su una fibra
non produce assolutamente nulla: per fare in modo che il neurone che ha ricevuto questa
sinapsi possa dare a sua volta una risposta occorre la sommazione di diversi potenziali
postsinaptici eccitatori.
· E’ importante puntualizzare che gli eventi elettrici sommabili sono soltanto le depolarizzazioni e le
iperpolarizzazioni, quindi sono sommabili i potenziali postsinaptici eccitatori e i potenziali
postsinaptici inibitori, cioè i potenziali locali.
I potenziali d’azione non sono sommabili perché comportano l’inversione della polarità a cui
segue un periodo di refrattarietà assoluta. Quando invece si depolarizza la membrana non si fa altro
che far entrare una piccola quantità di ioni Na+ ma ce ne sono altri fuori che possono entrare in
60
seguito a un nuovo stimolo (cioè non si ha ancora l’inversione della polarità).
Quando invece lo stimolo è capace di far entrare tanto sodio da portare la membrana a soglia, tutto
il sodio è entrato dentro e quindi non si può più stimolare questa membrana fino a quando le pompe
non abbiano ripristinato la situazione ionica portando fuori il Na+ e dentro il K+.
In definitiva parlando di eventi elettrici sono sommabili soltanto i potenziali locali, siano essi
eccitatori o inibitori. I potenziali eccitatori possono essere sommati anche con i potenziali inibitori,
cioè viene fatta una sorta di somma algebrica dei potenziali che prende il nome di integrazione.
I potenziali d’azione non sono assolutamente sommabili.
A questi fenomeni elettrici, cioè ai potenziali d’azione, seguono gli eventi meccanici, ad es. la
contrazione di un muscolo.
Gli eventi meccanici sono sommabili nei muscoli scheletrici! e quindi se il muscolo riceve un
solo potenziale d’azione si contrae una sola volta e si rilascia determinando quella che viene
chiamata scossa semplice.
Se invece si stimola il muscolo con una frequenza più alta, cioè nell’unità di tempo si fanno arrivare
più potenziali d’azione, accade che il muscolo, anziché contrarsi e rilasciarsi, resta contratto.
Questa contrazione prolungata prende il nome di tetano muscolare.
Il tetano muscolare si verifica in tutti i muscoli scheletrici ed è anzi alla base della nostra vita di
relazione: tutte le contrazioni dei muscoli scheletrici sono normalmente di tipo tetanico (tonico,
continuo).
* Per fare degli esempi se si sta un piedi è per via delle contrazioni toniche dei muscoli delle gambe,
la testa sta in posizione per una contrazione tonica dei muscoli del collo, i nostri arti non sono
flaccidi perché i muscoli hanno sempre questa leggera contrazione.
Queste contrazioni tetaniche sono possibili perché a livello di tutti i muscoli scheletrici
l’evento meccanico, cioè la singola contrazione, dura molto più del potenziale d’azione:
per avere una scossa si manda al muscolo un potenziale d’azione che dura 2 millesimi di secondo,
ma esso determina una contrazione (scossa semplice) che dura almeno 10 millesimi di secondo!
Questo significa che quando la scossa sta per iniziare il potenziale è già finito, per cui se arriva un
altro potenziale d’azione che determina una nuova contrazione, questa si somma alla precedente e
così via, in modo tale che il muscolo possa rimanere contratto.
La massima forza che un muscolo può sviluppare si ha proprio durante il tetano.
Questo accade perchè nel muscolo, oltre alla parte contrattile, c’è molta componente inerziale, la
quale deve essere anch’essa messa in funzione: con la prima scossa molta dell’energia che viene
fornita al muscolo viene utilizzata per mettere in funzione la componente inerziale, dopodichè viene
messa in tensione la componente attiva e inizia a svilupparsi la forza.
Se il muscolo viene mantenuto contratto, alla seconda scossa la componente inerziale è già in
tensione, quindi tutta l’energia che viene fornita al muscolo con la seconda scossa serve a mettere in
tensione la componente attiva, la parte contrattile.
Il tetano muscolare in definitiva è un modo per consentire al muscolo di sviluppare la
massima tensione.
Con la singola contrazione il muscolo non riesce a sviluppare tutta la forza che sarebbe in grado di
sviluppare, soltanto con il tetano riesce a raggiungere questo stadio.
Il cuore invece è un muscolo che non entra in tetano!
Questo accade perché nel cuore è più lungo il potenziale d’azione.
La contrazione del cuore dura quanto quella del muscolo soleo, cioè dei muscoli della gamba, per
cui dura più di 200 millesimi di secondo: tuttavia il soleo entra in tetano perché per contrarsi ha
bisogno di un potenziale d’azione di pochi millesimi di secondo, il cuore invece si contrae quando
nasce nel pacemaker un potenziale d’azione che dura quanto dura la scossa (cioè la contrazione).
Si tratta infatti di un potenziale d’azione particolare, con una forma a plateaux , cioè un potenziale
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in cui scattano dei meccanismi ionici che allungano il periodo refrattario.
Nel cuore accade quindi che quando finisce il potenziale d’azione, cioè dopo circa 200 millesimi di
secondo (perché ricordiamo dura quanto la contrazione) e dunque è possibile far nascere un nuovo
potenziale d’azione, anche la contrazione è finita: la conseguenza è che il cuore non entrerà mai
in tetano e la spiegazione risiede proprio nella durata del potenziale d’azione.
Per comprendere questi concetti bisogna imparare a distinguere la sommazione degli eventi
elettrici, che avvengono a livello delle sinapsi e interessano soltanto i potenziali locali dalla
sommazione degli eventi meccanici, che avvengono a livello degli organi effettori, cioè i muscoli.
La sommazione degli eventi meccanici ha come conseguenza nei muscoli scheletrici il tetano
muscolare.
§ E’ su questi concetti che si basa l’esame scritto, i quiz sono fatti su questi concetti
Recettori
A livello delle sinapsi il recettore postsinaptico è l’elemento che decide cosa deve avvenire a livello
postsinaptico, poiché non basta avere la liberazione del mediatore e il legame del mediatore con il
recettore, ma la risposta che si ha nell’elemento postsinaptico dipende dal tipo di recettore e da
quanti recettori si legano al mediatore.
La risposta dipende dal tipo di recettore perché uno stesso mediatore chimico può determinare una
risposta eccitatoria, quindi un potenziale postsinaptico eccitatorio, oppure se cambia il recettore una
risposta postsinaptica inibitoria. Dal momento che si tratta dello stesso mediatore, se cambia la
risposta che si ottiene a livello postsinaptico, la spiegazione è nel recettore.
L’intensità della risposta dipende dal numero di recettori legati al mediatore.
Per cui la risposta può essere modulata in due modi: si diminuisce la risposta riducendo il numero di
recettori che si legano al mediatore o aumentando il numero di recettori che si legano al mediatore.
* Questo principio viene molto utilizzato in farmacologia, poiché se vengono iniettati degli
antagonisti, questi antagonizzano il mediatore legandosi e bloccando alcuni recettori; in questo
modo la sinapsi rilascia sempre la stessa quantità di mediatore (è difficile dosare la quantità di
mediatore rilasciata da una sinapsi: si può fare con l’intensità di stimolazione in laboratorio ma in
natura questa quantità non è controllabile) ma si riduce il numero di complessi mediatore-recettore e
quindi si riduce l’intensità della risposta a valle. Questo obiettivo si può ottenere con l’utilizzo di
antagonisti che bloccano il recettore e fanno in modo che non tutto il mediatore si leghi.
Al contrario se si vuole aumentare la risposta si iniettano delle sostanze che hanno le stesse
caratteristiche del mediatore: ad es. poniamo il caso che arrivino 100 molecole di mediatore che si
legano a 100 recettori con la formazione di 100 complessi mediatore-recettore i quali determinano
una certa risposta; se poi si inietta una sostanza con le stesse funzioni del mediatore, anziché avere
100 complessi mediatore-recettore se ne formano 200 e quindi la risposta viene amplificata.
I recettori postsinaptici.
*E’ bene precisare perché ricordiamo vi sono anche dei recettori a livello presinaptico: i recettori
presinaptici sono importanti per recuperare il mediatore e riciclarlo.
I recettori postsinaptici sono di due categorie:
- ionotropi
- metabotropi (metabotropici)
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Sulla membrana postsinaptica ci sono delle proteine che formano dei canali ionici attraverso cui
passano gli ioni, ma possono passare tutte le sostanze idrosolubili. Proprio a livello postsinaptico la
conseguenza che si ha ogni volta che viene rilasciato un mediatore e si lega al recettore è quella di
aumentare la conduttanza ad alcuni ioni che sono implicati nei processi elettrici: al sodio perché
l’ingresso di Na+ determina la depolarizzazione oppure l’ingresso di cloro perché l’ingresso di Cl¯
determina la iperpolarizzazione (così come la fuoriuscita di K+ ).
A livello postsinaptico si verificano degli spostamenti ionici, i quali avvengono proprio attraverso
queste proteine canale che prendono il nome di canali ionici.
Il recettore ionotropo è una proteina che fa parte di questo stesso canale ionico, cioè una delle
proteine del canale ionico che ha la proprietà di legare il mediatore.
Si tratta di un meccanismo molto semplice e soprattutto molto rapido, poiché è sufficiente che arrivi
il mediatore, si lega al recettore ionotropo, cioè la parte del canale che fa anche da recettore e il
canale si apre così che si ha lo spostamento di ioni.
Il recettore metabotropico invece è un recettore che legandosi al mediatore porta anch’esso
all’apertura dei canali ionici, ma con un tempo più lungo perché il recettore in questo caso
non fa parte del canale ionico. Tra i recettori e i canali vi è una certa distanza che viene colmata
da reazioni metaboliche che avvengono quando il mediatore si lega al recettore (a questo è dovuto il
termine metabotropico). L’attivazione del recettore determina l’attivazione di quelle molecole
che prendono il nome di secondi messaggeri le quali poi attivano il canale.
I secondi messaggeri sono moltissimi, tra di essi ricordiamo l’cAMP, lo ione Ca²+, lo ione Mg²+ , la
stessa molecola dell’ATP. Questi secondi messaggeri si formano quindi da alcune reazioni
metaboliche in cui è interessata frequentemente una proteina chiamata proteina G.
La proteina G è una proteina formata da tre subunità Į, ȕ e Ȗ e si trova attaccata alla membrana, in
questo caso al recettore al quale si deve legare il mediatore. Di queste tre subunità ȕ e Ȗ sono quelle
che tengono ancorate la proteina G al recettore, ma la parte attiva è la subunità Į .
La subunità Į ha la capacità di legare il guanidin trifosfato (GTP) o il guanidin difosfato (GDP).
La prima tappa che si ha quando il mediatore si lega al recettore metabotropico è l’attivazione della
proteina G: la subunità Į lega il GTP e attiva un enzima chiamato adenilato ciclasi (anche se non è
sempre questo). L’adenilato ciclasi è un enzima che porta alla formazione dell’cAMP.
L’cAMP attiva degli altri enzimi, in particolare delle chinasi che attaccano un gruppo fosfato al
canale, cioè vanno a fosforilare una proteina del canale: questa fosforilazione determina l’apertura
del canale stesso e lo scambio di ioni.
Dal momento che devono avvenire diversi passaggi tra l’attivazione del recettore e l’apertura del
canale, il meccanismo di azione dei recettori metabotropico è più lento rispetto a quello dei
recettori ionotropi però è più duraturo nel tempo.
Ci sono dei mediatori che hanno sempre e solo dei recettori metabotropici e uno di questi è la
dopamina. Si conoscono almeno 5 famiglie di recettori per la dopamina, diversi in quanto a
struttura ma che agiscono tutti con meccanismo metabotropico, cioè tramite dei secondi messaggeri.
Ci sono poi dei mediatori che agiscono sui due tipi di recettori, quindi si possono legare sia al
recettore ionotropo che metabotropo: uno di questi è l’acetilcolina.
Il recettore che si trova sulla fibra muscolare scheletrica è un recettore nicotinico di tipo ionotropo.
Questo significa che ogni volta che l’acetilcolina viene rilasciata dalla fibra Į si lega sul recettore
postsinaptico ionotropo (che costituisce una parte della proteina canale) e la proteina canale si apre
e fa entrare gli ioni sodio.
Vi sono poi altre fibre che utilizzano l’acetilcolina, ad esempio le fibre vagali parasimpatiche che
arrivano a livello cardiaco o a livello intestinale. L’aceticolina è sempre la stessa! ma in questi
distretti si trovano invece recettori metabotropici.
Questi recettori cui si lega l’acetilcolina rilasciata dal sistema nervoso vegetativo ad esempio, non
sono recettori nicotinici ma vengono chiamati recettori muscarinici.
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I recettori muscarinici sono diversi dai recettori nicotinici e agiscono con meccanismo
metabotropico, cioè un meccanismo più lento.
La differenza tra recettori nicotinici e muscarinici consiste nel fatto che i recettori nicotinici sono
ionotropi, i recettori muscarinici sono metabotropi ma la differenza è anche nella risposta:
ad es. quando l’acetilcolina si lega a un recettore nicotinico come quello della fibra muscolare attiva
la contrazione, quando invece viene rilasciata dal parasimpatico e si lega a un recettore muscarinico
inibisce la contrazione .
* L’effetto dell’acetilcolina sul recettore muscarinico non si ha soltanto a livello gastroenterico ma
anche nell’occhio. L’atropina viene utilizzata per mantenere dilatata la pupilla: il muscolo
costrittore della pupilla (che chiude la pupilla sotto l’azione della luce) è costituito da muscolatura
liscia e viene innervato dal sistema parasimpatico per cui è ricco di recettori muscarinici.
Quando l’acetilcolina si lega a questo recettore rallenta l’azione del muscolo poiché ha un’azione
inibitoria ma ridurre l’azione di questo muscolo significa chiudere la pupilla. Quando invece il
muscolo si contrae la pupilla si dilata. Bisogna quindi impedire che l’acetilcolina si vada a legare a
questi recettori e faccia avvenire la contrazione del muscolo. Si può bloccare l’azione con un
antagonista che è l’atropina, la quale è specifica per i recettori muscarinici.
* L’utilizzo di atropina può provocare però tachicardia proprio in seguito alla sua azione sulla
muscolatura del cuore che pur essendo un muscolo scheletrico è innervato dal parasimpatico ed è
ricco di recettori muscarinici.
Se invece si vuole bloccare la contrazione di un muscolo scheletrico la somministrazione di atropina
è inutile perché cambia il recettore, bisogna usare il curaro.
* L’anestesista che durante un intervento deve rilasciare la muscolatura scheletrica, aggiunge un po’
di curaro nella miscela anestetica, proprio perché deve antagonizzare l’acetilcolina a livello della
muscolatura scheletrica. L’acetilcolina infatti sul cuore rallenta la frequenza e la forza con cui il
cuore si contrae.
I recettori nicotinici per l’acetilcolina della muscolatura scheletrica sono ionotropi.
I recettori muscarinici per l’acetilcolina rilasciata dal parasimpatico sono metabotropici.
Il legame dell’acetilcolina con un recettore ionotropo (recettori ionotropo) porta a una attivazione,
alla nascita di un potenziale d’azione e quindi alla contrazione del muscolo.
Il legame dell’acetilcolina con un recettore metabotropo (recettori muscarinici) inibisce la
contrazione.
Altri mediatori che utilizzano tutti e due i recettori sono il GABA e la glicina.
Il GABA è il mediatore inibitorio più diffuso a livello del cervelletto, invece il mediatore
inibitorio più diffuso nel midollo spinale è la glicina.
Del GABA si conoscono due tipi di recettori che prendono il nome di recettori GABA A e GABA B .
Il recettore GABA A è un recettore ionotropo, il recettore GABA B è un recettore
metabotropico.
Quando il GABA si lega ai recettori GABA-A apre i canali del cloro, per cui si ha con azione rapida
trasferimento di ioni cloro dall’interstizio al citoplasma; quando invece il GABA trova un recettore
GABA B (recettore metabotropico) l’azione è più lenta e si aprono i canali per il potassio, quindi
fuoriuscita di K+ .
! Il risultato è quindi lo stesso, cioè una iperpolarizzazione, ma il meccanismo è diverso.
· I canali ionici di cui si è discusso sono definiti a porta chimica, cioè si aprono per l’arrivo di una
sostanza chimica che può essere il neurotrasmettitore (nel caso del recettore ionotropo), il secondo
messaggero (nel caso del recettore metabotropico). Il termine a porta viene utilizzato per rendere
l’idea di un passaggio che non è perennemente aperto; è vero che sulle membrane dei neuroni e
delle fibre muscolari vi sono dei canali sempre aperti, ma sono pochissimi.
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Come visto nelle lezioni precedenti (di Perciavalle) anche in condizioni di riposo le pompe sodiopotassio devono agire per mantenere la differenza di potenziale: l’attività di queste pompe è resa
necessaria proprio dalla presenza di questi canali che non sono a porta, cioè sono sempre aperti.
In ogni caso la maggior parte dei canali sono a porta, cioè si aprono solo se vi sono determinate
condizioni, come ad es. la presenza di una sostanza chimica.
· Vi sono poi altri canali definiti a porta meccanica perché si aprono in seguito a una deformazione
meccanica. Le proteine che formano questi canali sono legate alle fibre del citoscheletro; queste
fibre sono ancorate al canale e alla membrana cellulare: se le fibre sono allentate il canale risulta
chiuso, se invece queste fibre vengono tirati il canale risulta aperto.
Questo meccanismo si ritrova meno frequentemente ma è utile da ricordare in previsione della
fisiologia2 dove si studierà un tipo di recettori non sinaptici, e precisamente recettori muscolari
(trasduttori) che prendono il nome di fusi neuromuscolari.
Questi canali a porta meccanica sono abbondantemente rappresentati nella fibra afferente che forma
la terminazione anulo-spirale intorno alle fibre del fuso.
Quando il muscolo e quindi il fuso vengono stirati, il citoscheletro si deforma e tale deformazione
fa aprire i canali, con conseguenti ingresso di sodio e generazione del segnale.
I canali a porta meccanica si trovano proprio nel contesto dei meccanocettori, cioè quel tipo di
recettori che si attivano in seguito a una deformazione.
· Un altro meccanismo da ricordare è quello dei canali a porta elettrica o voltaggio-dipendente.
In molte membrane eccitabili come visto vi sono dei canali sempre aperti, ma questi sono
pochissimi. Se ricordiamo il potenziale d’azione nasce invece quando si raggiunge una soglia che si
aggira intorno a – 55 mV, – 50 mV: quando infatti il valore del potenziale viene portato da – 70 a –
55 si aprono proprio i canali voltaggio-dipendenti.
La soglia è quindi importante perché a quel valore si aprono tutti i canali voltaggio-dipendenti del
sodio e il Na+ entra massivamente nel citoplasma.
Spostare il potenziale significa quindi aumentare di molto il numero dei canali pervi per un
determinato ione e favorire la nascita del potenziale d’azione.
* Bisogna sempre ricordare che i canali sono di natura proteica e le proteine sono costituite da
amminoacidi. Alcuni di questi amminoacidi sono polari e quindi se si cambia la polarità tra interno
ed esterno, anche l’orientamento degli amminoacidi varia ed è questo evento che fa aprire i canali.
Malattie correlate ai mediatori
La dopamina è un mediatore chimico molto diffuso nel SNC e come per altri neurotrasmettitori la
sua importanza si comprende in patologia, in particolare per la dopamina nei malati di Parkinson.
· Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegerativa che colpisce i soggetti dopo i 50 anni ed è
caratterizzata da una scarsa produzione di dopamina a livello della sostanza nigra del mesencefalo
(così chiamata perché normalmente le cellule sono ricche di granuli nerastri contenenti dopamina).
Una scarsa produzione di dopamina dovuta alla degenerazione dei neuroni che la producono
determina il Parkinson; questi pazienti presentano un tipico tremore a riposo, rigidità.
La dopamina quindi è importante per il giusto controllo dei movimenti e va a incidere anche sugli
stati emozionali, la mimica facciale.
Per quanto riguarda il Parkinson una cura che si adotta è la somministrazione di dopamina, ma il
problema sta nel fatto che non tutta la dopamina che viene somministrata dall’esterno riesce a
raggiungere i nuclei o gangli della base. Per raggiungere questa sede la dopamina esogena deve
superare la barriera che separa i neuroni dal sangue, cioè la barriera ematoencefalica, la quale si
lascia attraversare facilmente nel neonato, nell’adulto invece costituisce una barriera vera e propria.
La barriera ematoencefalica crea diversi problemi dal punto di vista terapeutico perché non tutti i
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farmaci riescono a superarla e quindi molte delle malattie che colpiscono il sistema nervoso non
possono essere aggredite.
Per fortuna dopo diversi studi si è scoperto che un precursore della dopamina, la L-dopa , riesce a
superare la barriera ematoencefalica. Questa terapia però funziona per alcuni anni e diventa inutile
nel momento in cui la cellula è totalmente degenerata, poiché non bisogna dimenticare che la
L-dopa a livello dei gangli della base, deve essere convertita in dopamina. Il sistema delle cellule
deve essere quindi ancora ricco di enzimi in grado di convertire la L-dopa in dopamina.
Dal momento che questo farmaco ha una buona efficienza per un arco di tempo limitato (7-8 anni),
si cerca di iniziare la terapia contro il Parkinson il più tardi possibile.
· Un’altra malattia correlata ai mediatori chimici è la miastenia gravis.
Il termine miastenia è dovuto al fatto che si manifesta proprio con una debolezza muscolare, quindi
con una mancanza di forza sviluppata dai muscoli. Questa malattia ha un decorso inesorabile, senza
speranza di guarigione. In ogni caso il decorso è variabile e dipende dai tipi di muscoli che vengono
colpiti in primis: se vengono subito interessati i muscoli respiratori il decorso si riduce, se invece i
muscoli respiratori vengono colpiti alla fine le speranze di vita si allungano.
La miastenia gravis è dovuta ad una scarsa produzione di acetilcolina, è una malattia che
colpisce il rilascio di acetilcolina a livello della placca neuromuscolare.
L’acetilcolina viene liberata in scarse quantità a livello della placca neuromuscolare per cui si
riduce la capacità del muscolo di contrarsi correttamente.
Un tempo si credeva che la miastenia gravis fosse dovuta a una carenza di sintesi di acetilcolina, per
cui sarebbe bastato fornire precursori, aiutare in qualche maniera questa sintesi; è stato accertato
oggi che si tratta di una malattia autoimmune. Nel sistema immunitario si vengono a formare
degli anticorpi contro il self, in questo caso anticorpi anti-acetilcolina, per cui l’acetilcolina
rilasciata viene bloccata dagli anticorpi e non si può legare al recettore postsinaptico per far
contrarre i muscoli. Se si formano pochi anticorpi, come accade all’inizio di questa malattia,
vengono bloccate poche molecole di acetilcolina ma viene garantita una certa attività muscolare,
anche se più lenta e leggera. Con il progredire della malattia il numero degli anticorpi formati
aumenta, fino ad arrivare a bloccare completamente l’acetilcolina, in sedi diverse, fino a quando
arriva a bloccare i muscoli respiratori per cui si muore per asfissia.
· Il morbo di Alzheimer è un’altra malattia neurodegenerativa, proprio come il Parkinson, con la
differenza che il Parkinson è dovuto alla degenerazione dei neuroni dopaminergici della sostanza
nigra che producono dopamina, la malattia di Alzheimer è dovuta alla degenerazione di neuroni
colinergici, che producono acetilcolina, sempre a livello di un complesso di nuclei che si trovano
alla base del cranio e prendono il nome di nuclei o gangli della base, dei quali fa parte anche la
sostanza nigra implicata nel Parkinson. I nuclei della base contengono neuroni che producono
mediatori diversi e sono molto suscettibili alla degenerazione, soprattutto nell’età senile.
neuroni dopaminergici ĺ morbo di Parkinson
neuroni colinergici
ĺ morbo di Alzheimer
Queste patologie sono dovute alla carenza di mediatori, ma vi sono anche problemi dovuti a un
eccesso di mediatori nel vallo sinaptico.
La presenza di recettori presinaptici che recuperano il mediatore serve per diversi scopi:
questi recettori riportano il mediatore nella fibra presinaptica togliendolo dallo spazio presinaptico
perché se il mediatore si accumula nello spazio sinaptico diventa tossico per il neurone
postsinaptico.
Esiste un fenomeno che porta a morte i neuroni e prende il nome di eccito-tossicità dovuto
proprio all’azione tossica che il mediatore stesso se in eccesso esercita sui neuroni.
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Se questo fenomeno ad esempio si verifica a livello del motoneurone spinale, si ha la paralisi
muscolare, poiché morendo il neurone muore tutto il sistema periferico motorio e i muscoli pur
essendo integri non si contraggono più.
A questo proposito nel vallo sinaptico vi sono sempre enzimi che degradano il mediatore, ad
esempio le monoaminossidasi , in sigla MAO.
Questi enzimi degradano i mediatori chimici, come ad es. le catecolammine (dopamina,
noradrenalina, adrenalina). Anche l’acetilcolina viene degradata da un enzima chiamato
colinesterasi che la scinde in acido acetico e colina.
L’elemento che viene ripreso dal terminale presinaptico è la colina, ovvero la specie chimica che
scarseggia, dal momento che invece l’acido acetico si riforma dall’acetil-coenzima A presente in
abbondanza nel metabolismo. Non sempre quindi tutti gli elementi che derivano dalla
degradazione del mediatore vengono recuperati.
* Anche su questi aspetti di reuptake lavora la farmacologia, perché se in una patologia si rende
necessario far agire il mediatore per più tempo, si somministrano dei farmaci che contrastano
l’azione degli enzimi a livello del vallo sinaptico.
** Per fare un esempio, nella miastenia gravis, quando si credeva che fosse dovuta a una carenza di
acetilcolina, i primi farmacologi hanno cercato di utilizzare dei farmaci anti-colinesterasi, cioè dei
farmaci che bloccavano l’enzima che degrada il mediatore.
Anche gli enzimi che si trovano nel vallo sinaptico rappresentano un bersaglio nella strategia
terapeutica, perché se si accelera l’azione di questi enzimi aumenta la degradazione (questa
operazione comunque è difficile), oppure al contrario se si vuole prolungare l’azione del mediatore
è più facile contrastare l’enzima che lo degrada: di conseguenza il mediatore viene degradato più
lentamente e ha più tempo per agire a livello postsinaptico.
In alternativa si possono somministrare dei farmaci che hanno la stessa morfologia e la stessa
funzione del mediatore, per cui si formano più complessi mediatore-recettore e l’effetto viene
amplificato.
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Lezione 9 -
prof.ssa Serapide
Morfologia del muscolo
I muscoli, sia lisci che striati, sono degli effettori e in quanto tali sono strutture che ricevono una
innervazione efferente. Il muscolo scheletrico riceve una innervazione efferente dal sistema nervoso
centrale, nello specifico la fibra Į .
Il muscolo liscio è sempre un effettore ma riceve l’innervazione dal sistema nervoso periferico,
parasimpatico od ortosimpatico.
· Il muscolo liscio è meno organizzato di quello scheletrico e si divide in due grosse categorie,
unitario e multiunitario.
Il muscolo liscio unitario si comporta come il cuore, pertanto è costituito da tante fibrocellule e
inoltre all’interno di questo muscolo si trova spesso un pacemaker, come accade a livello della
muscolatura intestinale. E’ presente quindi un avviatore che fa generare l’impulso e questo si
propaga a tutte le fibre, proprio come nel cuore.
Questo tipo di muscolatura liscia unitaria è la più rappresentata nel nostro organismo e si
ritrova prevalentemente a livello degli organi cavi come la parete intestinale, la parete
uterina, la vescica.
Anche la muscolatura liscia che si trova intorno alle arteriole è di tipo unitario, invece la
muscolatura liscia che si trova nei grossi vasi come le grosse vene e le grosse arterie è di tipo
multiunitario, in quanto si comporta come il muscolo scheletrico, cioè vi sono diverse fibre ognuna
delle quali forma un’unità. Quindi per avere la contrazione delle singole fibrocellule, queste devono
essere stimolate una per una.
· Anche per il muscolo scheletrico, come accade in altri casi in cui si vuole comprendere il
funzionamento di un organo, di una struttura molto complessa, si va a cercare l’unità funzionale,
cioè la più piccola parte di quella struttura o di quell’organo che funzione come l’organo in toto.
Per quanto riguarda il muscolo scheletrico è possibile notare che il muscolo è costituito da tanti
fasci muscolari ĺ ogni fascio muscolare è costituito da tante fibre muscolari ĺ ogni fibra
muscolare è costituita da diverse subunità che prendono il nome di miofibrille.
Già a livello di fibra (e a maggior ragione di miofibrilla) è possibile notare la tipica striatura da cui
deriva il termine muscolo striato. La striatura quindi non è evidente soltanto a livello microscopico,
ma la ritroviamo già a livello di fibra e miofibrilla, dove si possono osservare delle zone chiare
alternate a delle zone più scure.
Questo muscolo è definito striato perché per tutta la lunghezza della fibra o della miofibrilla, si
trovano alternate delle zone chiare e delle zone scure: questo banding è costituito dalla banda I e
dalla banda A.
La banda I è la banda chiara e la I sta per isotropa, invece la banda A è la banda scura e la A sta per
anisotropa.
La banda I è costituita da un solo tipo di filamenti, per cui quando viene colpita dalla luce
polarizzata la deviazione della luce è omogenea, cioè la banda chiara fa deviare la luce in una sola
direzione con una sola componente.
Se invece si fa passare la luce polarizzata attraverso la banda A scura, dove vi sono due tipi di
filamenti con due caratteristiche diverse, la luce viene deviata in maniera disomogenea per cui è
stata chiamata anisotropa.
La banda A e la banda I si alternano regolarmente per tutta la lunghezza della fibra, in
particolare sono disposte in serie e secondo l’asse maggiore della fibra.
Ciascuna di queste bande presenta un centro:
La banda I presenta al centro una linea più scura che prende il nome di linea Z.
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La banda A presenta al centro una zona più slargata (non una linea) che chiamiamo quindi
banda H, la quale presenta a sua volta all’interno una linea che prende il nome di linea M.
La linea Z rappresenta il centro della banda I, la banda H rappresenta il centro della banda A .
E’ importante puntualizzare questi limiti perché l’unità funzionale del muscolo scheletrico, che
prende il nome di sarcomero, è quella parte di fibra muscolare compresa tra due linee Z
consecutive.
La zona di fibra compresa tra due linee Z prende il nome di sarcomero e rappresenta l’unità
funzionale del muscolo scheletrico. I muscoli lisci non hanno questo tipo di organizzazione.
Il sarcomero è l’unità funzionale del muscolo cardiaco, del muscolo scheletrico, ma non dei
muscoli lisci.
Dal momento che è la parte compresa tra due linee Z, il sarcomero è costituito da due mezze bande
I e da una banda A.
!! Attenzione: non è la stessa cosa dire “una banda I e una banda A” perché i confini risulterebbero
spostati.
Se si va ad osservare ancora più a livello microscopico si vede che dalla linea Z partono dei
filamenti sottili che si portano verso il centro del sarcomero senza mai toccarsi. Questi filamenti
sono costituiti da una proteina contrattile che prende il nome di actina.
Questi due filamenti non arrivano a toccarsi ed è proprio lo spazio che resta tra questi filamenti che
forma la banda H, cioè il centro della banda A.
Al centro del sarcomero si ritrovano invece dei filamenti più spessi costituiti da una proteina
contrattile che prende il nome di miosina. I filamenti di miosina sono frammisti a quelli di actina.
La zona anisotropa (banda A) è quella in cui sono presenti entrambi i tipi di filamenti di
actina e miosina, la zona isotropa invece (banda I) è invece quella in cui vi sono solo i filamenti
di actina.
L’actina e la miosina sono proteine contrattili ma non sono le uniche proteine che ritroviamo nel
sarcomero. Il sarcomero contiene anche delle proteine strutturali e delle proteine regolatrici.
· Le proteine strutturali sono diverse, tra cui la titina e la nebulina.
- La titina è costituita da un filamento che in condizioni di riposo è ripiegato e serve per ancorare il
filamento di miosina alla linea Z; la titina inoltre regola anche lo spostamento delle linee Z.
- La nebulina invece mantiene in situ il filamento più leggero.
Nel muscolo è molto importante la distrofina, una proteina che ancora i filamenti al citoscheletro.
* Il gene che codifica per la distrofina può subire delle alterazioni, per cui l’impalcatura non è
mantenuta adeguatamente al citoscheletro e ciò determina la distrofia muscolare, una malattia
genetica invalidante a decorso inesorabile.
Se si va ad osservare l’organizzazione dei filamenti sottili, è possibile notare che il filamento di
actina è costituito da monomeri in forma globulare di G actina.
Diversi monomeri di G actina polimerizzano per formare il filamento di F actina.
Il filamento sottile è costituito in realtà da un doppio filamento di F actina che si organizza a
formare il filamento leggero che parte dalle linee Z.
Dalle linee Z, che rappresentano i lati del sarcomero, prendono origine quindi sia i filamenti leggeri
di un sarcomero, sia i filamenti leggeri del sarcomero adiacente.
L’actina presenta dunque una forma filamentosa ed è costituito da un doppio filamento di
F actina.
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· Sul filamento leggero si dispongono le proteine regolatrici, che sono la troponina e la
tropomiosina.
La tropomiosina è un filamento che si interpone tra i due filamenti di actina e ogni 7 monomeri di
actina, sulla tropomiosina si trova una molecola di troponina.
Il filamento di tropomiosina è interrotto a distanze regolari dalla troponina.
La troponina ha tre siti di legame, uno dei quali serve per legare l’actina, uno la tropomiosina
mentre il sito C è disponibile per il calcio.
In definitiva il sarcomero non è formato solo da actina e miosina che sono le proteine
contrattili, ma sono presenti anche le proteine strutturali e proteine regolatrici.
La miosina è anch’essa formata dalla polimerizzazione di molecole semplici, ognuna delle quali è
formata da una parte lineare, rettilinea con una doppia testa, cioè presenta la forma di una “mazza
da golf con due teste”. Tutte le parti rettilinee si organizzano in modo da formare la porzione lineare
del filamento pesante.
Le teste sporgono dal filamento in maniera tridimensionale, per cui considerando il sarcomero
secondo le tre dimensioni, ogni filamento pesante presenta diverse teste che sporgono su tutti i piani
ed è circondato da filamento di actina.
La contrazione muscolare
E’ importante innanzitutto capire perché il muscolo a volte è contratto, a volte rilasciato.
Il segnale che porta il muscolo a contrarsi è dato dalla nascita del potenziale d’azione sulla
membrana della fibra muscolare.
Se ricordiamo la membrana che riveste la fibra muscolare a intervalli regolari presenta una
invaginazione verso l’interno che costituisce il tubulo a T.
Il tubulo a T è a contatto con le cisterne del reticolo sarcoplasmatico all’interno del quale è
segregato molto calcio, ovvero contiene depositi di Ca²+.
Il calcio viene liberato dai depositi quando arriva il potenziale d’azione sulla membrana muscolare e
per rendere immediato l’arrivo di calcio, il potenziale d’azione non resta lontano dal reticolo
sarcoplasmatico, ma percorrendo anche il tubulo a T il potenziale d’azione arriva anche in
vicinanza del reticolo sarcoplasmatico.
In questo modo vengono liberati immediatamente dal reticolo sarcoplasmatico gli ioni Ca²+.
In questo modo il Ca²+ entra nel citoplasma dove si trova a contatto con il sarcomero: l’unica parte
del sarcomero che riconosce il Ca²+, che ha molta affinità per il calcio e lo può legare è la
troponina C, cioè il sito libero della troponina.
Quando la troponina si lega al calcio si spostano tutte le proteine regolatorie perché il legame
della troponina con il Ca²+ allenta la posizione della tropomiosina.
Quando viene allentata la tropomiosina non resta più interposta tra i filamenti di actina e miosina,
ma scivola all’interno quindi lascia libere le molecole di G actina.
Su queste molecole di G actina vi sono dei siti ai quali si può legare la miosina. Per la contrazione
muscolare infatti è importante il legame tra le teste della miosina e i siti dell’actina.
In assenza di calcio questo legame non avviene perché tra i filamenti di actina è interposto il
filamento di tropomiosina e in questo modo la testa di miosina non riesce a legare i siti dell’actina.
Se non avviene il legame tra actina e miosina non può avvenire la contrazione.
Come visto però la tropomiosina è mantenuta in questa posizione dalla troponina.
La troponina fissandosi all’actina e alla tropomiosina li mantiene uniti impedendo il contatto tra
actina e miosina. Quando comunque il sito libero della troponina si lega al Ca²+ la troponina allenta
il legame con la tropomiosina, la tropomiosina scivola verso l’interno e lascia scoperto il sito di
legame sul quale può “incastrarsi” la testa della miosina e far avvenire la contrazione.
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La contrazione del muscolo scheletrico è un fenomeno calcio-dipendente e dura finchè è
presente calcio all’interno della fibra muscolare: il muscolo può essere efficiente ma se manca il
calcio la contrazione non avviene in quanto il calcio è l’elemento che rimuove l’inibizione.
Riassumendo possiamo dire che la troponina e la tropomiosina sono delle proteine regolatorie e in
particolare la troponina è la proteina che inibisce, blocca la contrazione.
La rimozione di questa proteina da parte del calcio fa avvenire la contrazione, impedisce alla
tropomiosina di interporsi tra le due proteine contrattili nel sito di aggancio.
La singola contrazione (scossa) dei muscoli lenti (muscoli posturali in genere) dura 200-300
millesimi di secondo, invece nei muscoli rapidi la scossa dura 10 millesimi di secondo.
Nel cuore la scossa dura 250 millesimi di secondo, quanto in un comune muscolo posturale.
La particolarità del cuore non consiste quindi nella durata della scossa, che è la stessa di un muscolo
posturale, bensì la particolarità sta nell’allungamento del potenziale d’azione in modo da renderlo
uguale nel tempo alla scossa!
Nel cuore il potenziale d’azione viene allungato in modo da farlo durare quanto dura la scossa, cioè
la sistole. Questo allungamento avviene a carico di una precisa componente del potenziale d’azione,
cioè il periodo refrattario assoluto, cioè quel periodo durante il quale qualunque altra stimolazione
non dà risposta.
Nel cuore il periodo refrattario assoluto viene allungato mantenendo all’interno della fibra il
calcio! L’ingresso di calcio all’interno della fibra cardiaca avviene non solo dai depositi del reticolo
sarcoplasmatico, come nel muscolo scheletrico, ma il calcio entra anche dal liquido extracellulare,
per cui essendo maggiore la concentrazione di calcio all’interno della fibra, la contrazione dura più
a lungo e anche il periodo refrattario.
* Nei casi di ipocalcemia o ipercalcemia si ha la compromissione della contrazione muscolare.
La contrazione muscolare è un processo attivo che comporta la spesa di energia.
La spesa di energia non si ha nella formazione dei legami perché appena arriva il potenziale
d’azione aumenta la concentrazione intracellulare di calcio, si rimuove l’inibizione e la testa della
miosina si incastra sul filamento di actina e avviene la contrazione con un meccanismo di
scivolamento.
! La spesa energetica si ha invece per rompere questi legami, cioè per staccare l’actina dalla
miosina e rendere il sito disponibile per un nuovo attacco.
* Una prova di questo aspetto è data dalla rigidità cadaverica, il cosiddetto rigor mortis: la rigidità
che interviene subito dopo la morte si ha perché i muscoli che in quel momento erano contratti, con
le teste di miosina inserite tra i filamenti di actina, rimangono tali perché non essendoci più processi
vitali non c’è ATP disponibile per rompere questi legami.
La successiva regressione di questa rigidità dopo 12, 36, 48 ore non è dovuta certamente a una
tardiva liberazione di ATP bensì al fatto che le proteine si denaturano e quindi si distaccano.
Il rigor mortis è la prova che la parte attiva della contrazione è la rottura dei legami tra actina
e miosina e non la loro formazione !
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Lezione 10 -
prof.ssa Serapide
La contrazione nel muscolo scheletrico
L’unità funzionale del muscolo è il sarcomero, cioè la parte di fibra compresa tra due linee Z
consecutive.
Il sarcomero è costituita da molte proteine, alcune delle quali contrattili (actina, miosina), proteine
regolatorie (troponina e tropomiosina) e proteine strutturali (titina, distrofina).
L’actina rappresenta il filamento sottile che si ancora alle linee Z e si porta verso il centro del
sarcomero. La miosina occupa la parte centrale ma i filamenti non arrivano fino alla linea Z ma
sono comunque ancorati alla linea Z dalla titina.
La singola molecola di miosina ha la forma di una “mazza da golf” con la porzione rettilinea
disposta al centro del sarcomero e le teste orientate verso le linee Z.
Le proteine regolatrici sono la tropomiosina e la troponina.
La tropomiosina copre normalmente i legami dell’actina per la miosina ed è tenuta in questa
posizione dalla troponina. In condizioni di riposo, quando il muscolo è rilasciato, non c’è
interazione tra l’actina e la miosina poiché in assenza di calcio la troponina inibisce la contrazione.
L’ingresso di calcio nel sarcoplasma determina la contrazione in quanto rimuove questa inibizione:
il Ca²+ si lega alla troponina e questo legame fa spostare la tropomiosina per cui scopre i siti di
legame per la miosina.
La testa della miosina è tenuta normalmente, in condizioni di muscolo rilasciato, perpendicolare
all’actina, cioè forma con il resto della molecola un angolo di circa 90˚: questa posizione viene
mantenuta a spese di energia e sono attaccate alla miosina ADP e Pi.
Quando la testa di miosina si trova in questa posizione e lega ADP e Pi ha un’alta affinità per
l’actina ma non può legarsi per via dell’inibizione delle proteine regolatrici.
Non appena il calcio si lega alla troponina, sposta la tropomiosina e scopre il legame, per cui
la miosina interagisce con l’actina e subisce subito un cambiamento conformazionale, cioè si
inclina di circa 45-50 gradi. Questa è una posizione favorevole dal punto di vista energetico, è la
posizione preferenziale della molecola di miosina e quando assume questa posizione perde affinità
sia per l’ADP che per il fosfato che si staccano l’uno dopo l’altro (non contemporaneamente).
Una volta che si sono staccati la miosina acquista affinità per l’ATP e una volta che l’ATP si è
legato alla miosina perde affinità per l’actina e quindi il legame si rompe.
Quando il legame con l’actina si rompe la miosina acquista nuovamente la posizione verticale
finché di nuovo il ciclo del calcio non ricomincia, si sposta di nuovo l’inibizione, la miosina si
ancora alla sovrastante actina, si piega e mentre si piega la miosina trascina il filamento
leggero: questo meccanismo avviene in maniera speculare sui due lati del sarcomero, perché le teste
sono rivolte verso le linee Z.
Quando la miosina acquista la posizione verticale si determina lo scivolamento del filamento sottile
su quello pesante, quindi si accorcia il sarcomero e si avvicinano le linee Z.
Un sarcomero contratto si riconosce da un sarcomero rilasciato proprio per la distanza delle
linee Z, o meglio ancora per l’ampiezza della banda H che si trova al centro della banda scura
(banda A). Tutto questo avviene finché c’è calcio.
Come visto una caratteristica della fibra muscolare scheletrica è la presenza nel sarcolemma, cioè
nella membrana plasmatica, di invaginazioni a intervalli regolari.
Queste invaginazioni formano i tubuli a T e sono disposti in corrispondenza delle linee Z.
Il tubulo a T è la continuazione del sarcolemma e si approfonda nel sarcomero.
Nei punti in cui la membrana si introflette vi sono delle zone particolari di sarcolemma che sono
capaci di rilevare variazioni di potenziale.
Il tubulo T contiene liquido extracellulare, quindi in condizioni di riposo è polarizzato come
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l’esterno della fibra, cioè positivo perché pieno di Na+ . Dunque tra l’interno del tubulo e l’interno
della fibra c’è una differenza di potenziale: alcuni punti del sarcolemma, cioè della membrana che
delimita il tubulo, sono capaci di rilevare queste variazioni di potenziale per cui sono chiamati
sensori di voltaggio. Questi punti prendono contatto con la membrana delle cisterne del reticolo
sarcoplasmatico dove viene accumulato il calcio.
Come il tubulo contiene delle zone specifiche dal punto di vista funzionale, allo stesso modo le
cisterne contengono zone funzionalmente specializzate, in particolare si tratta di canali ionici per il
Ca²+ . Il tubulo a T viene a contatto con le cisterne del reticolo sarcoplasmatico in punti ben precisi,
in particolare i sensori di voltaggio del tubulo sono collegati con i canali del Ca²+ .
Quando arriva il potenziale d’azione dalla fibra Į viene rilasciata acetilcolina, l’acetilcolina si lega
ai recettori nicotinici, viene depolarizzata la fibra muscolare, nasce il potenziale d’azione sulla
membrana muscolare e la polarità viene invertita anche all’interno del tubulo, determinando una
variazione di voltaggio che viene percepita dai sensori del tubulo.
I sensori attivati a loro volta attivano i canali per il calcio, per cui ioni Ca²+ escono dal reticolo
sarcoplasmatico, diffondono nel citoplasma della fibra e vanno a interagire con il sarcomero, si
legano alla proteina regolatrice e rimuovono l’inibizione.
Questo meccanismo continua finché dura il potenziale d’azione. Quando il potenziale d’azione
finisce il voltaggio torna ai valori di riposo, i sensori del tubulo non sono più attivati, i canali per il
calcio vengono chiusi e si ha un richiamo di ioni Ca²+ all’interno delle cisterne per cui la
contrazione cessa.
Come visto nella lezione precedente la contrazione è attiva, cioè comporta spesa di energia
sottoforma di ATP. Quando la miosina si lega all’ATP fa avvenire la contrazione, perché legandosi
all’ATP la miosina perde affinità per l’actina e i legami si rompono.
Se non c’è ATP disponibile i legami tra actina e miosina persistono e questo fenomeno è alla base
del cosiddetto rigor mortis, cioè della rigidità che si registra nel cadavere, a dimostrare che la spesa
di energia che si ha durante la contrazione serve a rompere i legami e non per formarli.
ĺ per rompere i legami tra actina e miosina è indispensabile l’ATP (cioè spesa di energia)
ĺ per formare i legami è indispensabile il calcio
Questo è quanto avviene a livello del muscolo scheletrico.
La contrazione nel muscolo cardiaco
Se consideriamo il muscolo cardiaco la situazione è un po’ diversa.
Anche nella fibrocellula cardiaca sono presenti il reticolo sarcoplasmatico e la triade ma la
situazione ionica è diversa perché i canali per il calcio si ritrovano sulla membrana della
fibrocellula e non a livello del tubulo.
Nella fibrocellula muscolare cardiaca le scorte di calcio sono molto più elevate che nel
muscolo scheletrico e questo comporta un meccanismo leggermente diverso da quanto visto finora:
l’arrivo del potenziale d’azione apre i canali per il calcio che si trovano lungo il sarcolemma per cui
ioni Ca²+ entrano dal liquido extracellulare nel citoplasma della fibra.
!! Questo calcio non sarebbe assolutamente sufficiente per la contrazione muscolare perché
rappresenta al massimo il 10% di tutto il calcio che serve alla contrazione del cuore.
Tuttavia questo calcio extracellulare è importante perché appena entra nel citoplasma determina il
rilascio del calcio che è segregato nel reticolo sarcoplasmatico.
Il calcio esterno è necessario per indurre il rilascio del calcio depositato all’interno della fibra.
Riepilogando arriva il potenziale ĺ si aprono i canali del sarcolemma ĺ il Ca²+ entra e induce il
rilascio del Ca²+ che si trova depositato nel reticolo.
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Il calcio depositato nel reticolo sarcoplasmatico rappresenta il 90-95% del calcio che serve per
la contrazione del cuore.
DIFFERENZA
Mentre nel muscolo scheletrico il rilascio del calcio dalle cisterne avviene direttamente
all’arrivo del potenziale d’azione, nel muscolo cardiaco il rilascio del calcio dalle cisterne è
secondario all’ingresso del calcio dal liquido extracellulare.
Questo significa che se si riduce la quantità di Ca²+ all’esterno si ha un minore rilascio di Ca²+ a
livello dei depositi e si può avere una contrazione cardiaca insufficiente.
Anche nel muscolo cardiaco il calcio va a interagire con le proteine e determina la contrazione per
scivolamento così come nel muscolo scheletrico.
Tuttavia il calcio, una volta che è finito il potenziale d’azione, in parte rientra nelle cisterne con un
meccanismo attivo che comporta spesa di ATP, ma in parte deve ritornare all’esterno nel liquido
extracellulare, perché altrimenti nel ciclo successivo se non si ha calcio all’esterno non si può avere
la contrazione.
Per riportare all’esterno il Ca²+ che è entrato bisogna operare uno scambio con lo ione Na+ ,
cioè uno ione positivo Ca²+ fuoriesce nel liquido extracellulare e uno ione positivo Na+ entra nella
fibrocellula. *Ricordiamo che il Na+ è lo ione positivo più rappresentato nel liquido extracellulare
ed entra facilmente all’interno di una cellula perché spinto dal gradiente di concentrazione e dal
gradiente elettrico.
Il sodio però non può rimanere all’interno della cellula ed ecco che allora un’ulteriore spesa
energetica è importante per far lavorare la pompa sodio-potassio ATP-dipendente, la quale riporta
fuori il Na+ e lo scambia con il K+ .
* A livello cardiaco quindi la situazione è diversa e questa differenza è molto sfruttata dalla
farmacologia: dal momento che la contrazione muscolare dipende dal calcio è chiaro che se il cuore
è insufficiente, se si vuole migliorare la forza di contrazione, bisogna mettere a disposizione
dell’apparato contrattile più calcio.
Le strategie che vengono utilizzate sono diverse:
- Si fa entrare più calcio dall’esterno tenendo aperti per più tempo i canali del calcio: in questo
modo entra più calcio nel citoplasma, più calcio viene liberato dalle cisterne e la contrazione è più
forte perché una maggiore inibizione viene rimossa e si formano più legami tra actina e miosina.
Questa è l’azione delle catecolammine (adrenalina, noradrenalina).
Il sistema ortosimpatico in genere quindi potenzia l’attività cardiaca, aumenta la forza di
contrazione oltre che la frequenza, la velocità di conduzione, l’eccitabilità.
L’aumento della forza muscolare è dovuto proprio al fatto che le catecolammine mettono a
disposizione dell’apparato contrattile più calcio lasciando i canali aperti per più tempo.
- Un’altra strategia per aumentare la quantità citoplasmatica di calcio è impedire che esca, cioè
bloccare l’esclusione del calcio, far in modo che una maggiore quantità di calcio resti all’interno
della cellula per più tempo. Questa è l’azione di un farmaco, la digitale o digossina, un veleno
metabolico tutto sommato che però si usa molto nei casi di insufficienza cardiaca, quando il cuore
non sviluppa una giusta forza di contrazione.
* Per veleno metabolico si intende una sostanza (tetradotossina) che impedisce la scissione di ATP,
cioè la liberazione di energia, interferiscono con le ATPasi. I veleni metabolici sono indispensabili
quando si vuole dimostrare che un processo avviene attivamente, cioè con scissione di ATP.
La digitale non agisce come le catecolammine sull’ingresso, ma impedisce la fuoriuscita di calcio
che così resta accumulato di più nel citoplasma. In questo caso la digitale interferisce con la pompa
sodio-potassio, cioè fa in modo che il sodio resti all’interno della cellula per un tempo più lungo:
se non è presente Na+ all’esterno, non può essere scambiato con il Ca²+ .
Se si rallenta l’esclusione di Na+ perché la pompa sodio-potassio è più lenta, si rallenta anche la
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fuoriuscita di Ca²+ e il calcio rimane per più tempo all’interno della fibrocellula muscolare.
La digitale è quindi un veleno metabolico, ma somministrato a dosi adeguate va ad agire a livello
cardiaco su questo meccanismo con il risultato di potenziare l’attività del cuore, aumentare la forza
di contrazione e migliorare le prestazioni cardiache.
DIFFERENZA
La singola fibra muscolare cardiaca può graduare quindi la sua forza di contrazione sotto l’influenza
del sistema endocrino o dal sistema nervoso vegetativo mentre nel muscolo scheletrico la
contrazione è del tipo tutto o nulla, cioè non si può modulare.
In definitiva la forza sviluppata dipende sempre dal numero di legami che si formano tra
actina e miosina con la differenza che a livello cardiaco si può potenziare questa forza,
aumentare il numero di legami variando la concentrazione di calcio disponibile invece a livello
del muscolo scheletrico questo non è possibile.
La forza di contrazione viene modulata a livello della fibra striata cardiaca ma non della fibra striata
scheletrica.
Specializzazione delle fibre muscolari
La forza di contrazione dipende quindi dai legami che si formano tra actina e miosina ed esiste un
diagramma che prende il nome di curva tensione-lunghezza.
Questo diagramma dimostra come varia la forza sviluppata in un muscolo scheletrico (che non è
quindi soggetto alla modulazione ormonale o del sistema ortosimpatico) a seconda della lunghezza.
Questo diagramma è stato sviluppato attaccando al muscolo scheletrico pesi di varia entità che
determinavano diverse entità di stiramento, di lunghezza del muscolo.
E’ stato visto che per ogni muscolo esiste una lunghezza l0 che rappresenta la lunghezza
ottimale alla quale si ha il massimo sviluppo di tensione.
Ogni muscolo quindi può essere stirato e determinare gradi diversi di forza, di tensione: la tensione
massima viene sviluppata a una sola lunghezza. Per ogni muscolo esiste una lunghezza ottimale alla
quale si ha il massimo grado di tensione sviluppata: lunghezze inferiori o superiori a quella ottimale
determinano una tensione minore.
* Ad es. lunghezze troppo superiori alla lunghezza ottimale determinano una situazione del
sarcomero in cui le linee Z sono troppo distanziate per cui non c’è molta sovrapposizione tra actina
e miosina, invece una lunghezza inferiore alla lunghezza ottimale corrisponde a un sarcomero
troppo accorciato (addirittura i filamenti tendono a piegarsi) e anche in questo caso le probabilità di
legame sono minori.
· Questo diagramma ci dà anche un’altra informazione: il muscolo non è costituito solo da parte
contrattile, ma è costituito anche da una componente inerziale (parte collagene, parte elastica)
che deve essere messa in tensione prima di poter arrivare allo sviluppo di forza e una volta che
viene stirata anche questa componente sviluppa una forza.
Pertanto quando ci si trova alla lunghezza ottimale è stata messa in tensione tutta la parte contrattile
e quindi la tensione che viene sviluppata è data dalla parte contrattile della fibra; a questa si
aggiunge poi la tensione sviluppata dalla componente inerziale: si arriva così al massimo della
forza.
In questo caso la forza totale è data dalla forza attiva dovuta alla messa in tensione degli
elementi contrattili e dalla forza passiva dovuta alla messa in tensione degli elementi inerziali.
Per quanto riguarda la forza questo è uno dei tanti parametri che portano alla classificazione delle
fibre muscolari scheletriche.
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Ci sono almeno 3 categorie di fibre muscolari:
- fibre lente o rosse
- fibre rapide o bianche
- fibre intermedie
· Le fibre rosse sono tali perché molto vascolarizzate, quindi hanno un apporto continuo di ossigeno,
di glucosio per cui immagazzinano molto glucosio sottoforma di glicogeno e soprattutto il continuo
apporto di ossigeno permette a queste fibre di avere un metabolismo aerobico.
Il rifornimento di ossigeno rende queste fibre lente perché resistono per molto tempo alla fatica,
cioè continuano a sviluppare forza per diverso tempo prima di affaticarsi, cioè prima di ridurre la
forza che sviluppano.
· Le fibre rapide al contrario sono fibre pallide, cioè sono fibre poco irrorate. In quanto tali sono
fibre che ricevono poco glucosio, cioè possono immagazzinare poco glicogeno che esauriscono
subito e avendo uno scarso rifornimento di ossigeno devono avere un metabolismo anaerobico che
comporta liberazione di acido lattico. L’insieme di questi elementi non permette a queste fibre di
resistere per molto tempo quindi dopo pochi minuti vanno già incontro alla fatica.
E’ chiaro che le fibre che resistono di più sviluppano un grado di forza maggiore.
Questa distinzione delle fibre è anche importante perché un muscolo è costituito da fibre diverse,
quindi all’interno di uno stesso muscolo si possono avere fibre lente, fibre rapide, fibre intermedie.
E’ importante però ricordare un aspetto: fibre dello stesso tipo ricevono lo stesso tipo di
innervazione. Ad esempio la fibra Į, quando arriva a livello di un muscolo scheletrico, perde la
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guaina mielinica e si ramifica e ogni ramuscolo va a formare una sinapsi, cioè una placca
neuromuscolare, con una fibra muscolare: i rami di un’unica fibra Į si distribuiscono a fibre
muscolari di uno stesso tipo.
Una fibra Į innerva soltanto fibre lente, un’altra fibra Į innerva solo fibre rapide: il risultato è che
un solo motoneurone non può innervare fibre diverse.
L’insieme costituito da motoneurone Į , fibra Į e fibre muscolari innervate prende il nome di
unità motoria.
L’insieme delle fibre muscolari innervate dallo stesso motoneurone prende il nome di unità motoria.
L’unità motoria è costituita da un motoneurone Į , da una fibra Į e da un numero variabile di fibre
muscolari, tutte dello stesso tipo.
Se le fibre muscolari sono poche l’unità motoria si dice piccola, se invece comprende centinaia di
fibre muscolari l’unità motoria si dice grande. La differenza non consiste soltanto nella dimensione:
le unità motorie piccole sono costituite in genere da fibre lente oppure ancora le unità motorie
piccole sono alla base di movimenti specializzati.
I muscoli delle dita ad esempio, che compiono dei movimenti estremamente specializzati, i muscoli
della fonazione, presentano delle unità motorie piccole; questo significa che un motoneurone
controlla poche fibre e quindi il controllo è molto più preciso, molto più selettivo.
L’unità motoria è importante perché se un muscolo scheletrico deve aumentare la forza sviluppata,
dal momento che non può aumentarla in base alla modulazione ormonale o nervosa come fa il
cuore, il muscolo scheletrico o aumenta la lunghezza del sarcomero e quindi cerca di raggiungere la
lunghezza ottimale oppure se ha già raggiunto la lunghezza ottimale, per aumentare ulteriormente la
forza sviluppata deve reclutare più unità motorie, cioè deve far in modo che vengano attivati più
motoneuroni che innervano lo stesso muscolo, più unità motorie, in modo che si possa sommare la
forza sviluppata dalle varie fibre.
Un altro modo per aumentare la forza è quello di far entrare il muscolo in contrazione tetanica:
la singola scossa, la singola contrazione non determina un notevole sviluppo di forza, ma se si
mantengono queste fibre in uno stato continuo di contrazione, in uno stato tetanico, la forza
sviluppata aumenta.
Riepilogando
In un muscolo scheletrico la forza sviluppata è maggiore durante la contrazione tetanica che
durante la singola scossa, è maggiore quando si raggiunge la lunghezza ottimale e può
aumentare reclutando più unità motorie.
Nel caso dei muscoli scheletrici non intervengono i meccanismi nervosi e umorali che invece
regolano la contrazione cardiaca.
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Altri tipi di contrazione
Per quanto riguarda la contrazione del muscolo, oltre alla scossa singola e alla contrazione tetanica,
bisogna ricordare che esistono altri tipi di contrazione, in particolare la contrazione isometrica e
contrazione isotonica.
- Si parla di contrazione isometrica quando il muscolo si contrae senza variare la sua lunghezza ed
è il caso di un muscolo fissato ai due estremi.
La contrazione isometrica è molto importante per esempio a livello cardiaco quando sia le valvole
atrioventricolari che le valvole semilunari sono chiuse per cui il ventricolo pieno di sangue (liquido
incomprimibile) si deve contrarre senza poter modificare la sua lunghezza, proprio perché è
costituita da fibre bloccate ai due capi dalle valvole chiuse e non può comprimere il liquido che
contiene nel suo interno.
Questo tipo di contrazione prende quindi il nome di contrazione isometrica: il risultato è lo sviluppo
di forza, di tensione che a livello cardiaco si traduce in un aumento di pressione intraventricolare.
Questa forza infatti va ad agire su una superficie, il sangue ( p = F/S) per cui la contrazione
isometrica nel ventricolo determina un aumento pressorio indispensabile per inviare il sangue
a livello arterioso.
- Quando invece uno dei due capi della fibra è libero, come accade ad esempio quando si aprono le
valvole semilunari, questa fibra può ridurre la sua lunghezza, si può accorciare.
Questo tipo di contrazione prende il nome di contrazione isotonica perché in questo caso varia la
lunghezza (il muscolo si accorcia) ma la forza sviluppata non varia più.
La contrazione isotonica è importante dappertutto ma il riscontro pratico si ha a livello cardiaco:
a livello del ventricolo la contrazione isometrica serve per far raggiungere al ventricolo una
pressione superiore a quella dell’arteria, in modo da far passare il sangue per gradiente di
pressione.
Il ventricolo sinistro deve fare passare il sangue nell’aorta dove la pressione è di 80 mmHg e quindi
per far spostare il sangue dal ventricolo all’aorta è necessario che il ventricolo raggiunga una
pressione di almeno 81 mmHg, cioè di almeno 1 mmHg superiore a quella dell’aorta!
Questo obiettivo viene raggiunto con la contrazione isometrica, cioè la contrazione si manifesta
come aumento di pressione: una volta che la pressione ha superato il valore da raggiungere non
aumenta più quindi la contrazione diventa isotonica, in quanto la tensione, la forza si mantiene
costante e il parametro che varia è la lunghezza, quindi la fibra si accorcia.
La forza muscolare aumenta nella contrazione isometrica, la contrazione isotonica è invece
una contrazione con uno sviluppo costante di tensione.
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PROGRAMMA DEL CORSO
Biofisica
-
Trasporti di acqua e soluti attraverso le membrane biologiche. I compartimenti idrici
Elettrofisiologia generale: le basi ioniche dei potenziali di membrana
L’eccitabilità cellulare: dal potenziale di riposo al potenziale d’azione
Le interazioni tra le cellule eccitabili
Cellule recettoriali e trasduzione di varie forme di energie
Biofisica della contrazione muscolare
Modalità della contrazione muscolare
Elettromiografìa
Biofisica della dinamica dei fluidi
I capitoli da studiare (biofisica) dal baldisserra sono: dal 1 al 11. 20 e 21. 44. 51. 57
Dario Cavallaro e Salvo Bellinvia
Scarica

Introduzione alla fisiologia