MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA a cura di Mauro Mussolin con la collaborazione di Clara Altavista SilvanaEditoriale In copertina Michelangelo Buonarroti Studio per il prospetto di Porta Pia Firenze, Casa Buonarroti MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA Roma, Musei Capitolini 6 ottobre 2009 - 7 febbraio 2010 Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana Comune di Roma Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione Commissione Cultura Sovraintendenza ai Beni Culturali Promossa da Gianni Alemanno Sindaco Umberto Croppi Assessore alle Politiche Culturali e della Comunicazione Federico Mollicone Presidente Commissione Cultura Umberto Broccoli Sovraintendente ai Beni Culturali Claudio Parisi Presicce Dirigente dei Musei Archeologici e d’Arte Antica Maria Elisa Tittoni Dirigente dei Musei d’Arte Medievale e Moderna Silvana Editoriale Servizio Mostre e Attività Espositive e Culturali Federica Pirani, Responsabile Progetto e realizzazione Arti Grafiche Amilcare Pizzi Spa Direzione editoriale Dario Cimorelli Art Director Giacomo Merli Redazione Micol Fontana, Maria Chiara Tulli Impaginazione Claudia Brambilla Coordinamento organizzativo Michela Bramati Segreteria di redazione Valentina Miolo Ufficio iconografico Deborah D’Ippolito Fondazione Casa Buonarroti Servizio Comunicazione e Relazioni Esterne Renata Piccininni, Responsabile Alberto Federici Teresa Franco Servizio Coordinamento Attività nei Musei Capitolini Emilia Talamo, Responsabile Regione Lazio Piero Marrazzo Presidente Ufficio stampa Lidia Masolini, [email protected] Provincia di Roma Nicola Zingaretti Presidente Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. L’editore è a disposizione degli eventuali detentori di diritti che non sia stato possibile rintracciare Ministero per i Beni e le Attività Culturali Claudio Strinati Tullia Carratù © 2009 Silvana Editoriale Spa Cinisello Balsamo, Milano Fondazione Casa Buonarroti Consiglio di Amministrazione Eugenio Giani Presidente del Consiglio Comunale di Firenze Presidente Franca Arduini già Direttrice della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze Consigliere Alessandro Cecchi Direttore della Galleria Palatina e del Giardino di Boboli di Firenze Consigliere Sindaci revisori Stefano Pozzoli, Presidente Roberto Campanile Franco Cristiano Amministrazione Marco Bellini Daniela Frosali Pina Ragionieri Direttrice Elisabetta Archi Funzionario Elena Lombardi Storica dell’Arte Marcella Marongiu Storica dell’Arte Romeo Zigrossi Direttore tecnico Mostra a cura di Mauro Mussolin Pina Ragionieri Progetto scientifico Fondazione Casa Buonarroti Catalogo a cura di Mauro Mussolin con la collaborazione di Clara Altavista Testi Clara Altavista Anna Bedon Francesco Benelli Alessandro Brodini Cammy Brothers Oronzo Brunetti Claudia Echinger-Maurach Emanuela Ferretti Golo Maurer Mauro Mussolin Claudio Parisi Presicce Pina Ragionieri Guido Rebecchini Georg Satzinger Maddalena Scimemi Christof Thoenes Vitale Zanchettin Traduzioni Colette Bouverat ed Elisabetta Pastore (per il saggio di Georg Satzinger) Floriana Pagano (per i saggi di Cammy Brothers) Organizzazione della mostra Comune di Roma Servizio Mostre e Attività Culturali e Espositive Maria Pia Favale Mara Minasi Gloria Raimondi Ufficio Mostre dei Musei Capitolini Micaela Perrone Daniela Tabò Ufficio Attività Didattiche Maria Dell’Era Revisione conservativa delle opere Ombretta Bracci con Elda Occhinero (Zètema Progetto Cultura) Allestimenti G-Bang S.r.l. Progetto di illuminazione Sergio Aristei Cornici in legno Belle Epoque Cornici in acciaio Medori Elvisio Trasporti Minguzzi S.r.l. Montenovi S.r.l. Foto e realizzazione Spot Tv Massimo Menghini Progetto grafico Cinzia Carcaterra Traduzioni Judith Green Associazione Culturale Metamorfosi Pietro Folena Presidente Vittorio Faustini Direttore generale Elisa Massetti Coordinamento organizzativo Segreteria organizzativa Domenico Laneve, Pietro Faustini Account executive Valeria Zucconi Progetto di allestimento Giuliano Macchia con Brunella Bronchi, Giorgio Gentili, Ilda Pendenza Supporto organizzativo Zètema Progetto Cultura Francesco Marcolini Presidente Albino Ruberti Amministratore delegato Roberta Biglino Direttore generale Coordinamento Renata Sansone con Andrea Enrico Rossi Consulenza legale Andrea Catizone Promozione e comunicazione Patrizia Bracci con Fabiana Magrì, Ufficio stampa Antonella Caione con Natalia Lancia, Promozione Elisabetta Giuliani, PR Eventi Consulenza organizzativa Fabrizio Conti Servizi didattici Marco Falciano con Lucia Imundi Direttore tecnico Ottorino Neri Ufficio stampa Maria Grazia Filippi Albo dei prestatori Anzio, Biblioteca Clementina di Clemente e Alvaro Marigliani Con la collaborazione di Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro Servizi di vigilanza Trevis Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale Con il sostegno di Firenze, Casa Buonarroti Firenze, Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Roma, Accademia Nazionale di San Luca Roma, Archivio Storico Capitolino Con il contributo tecnico di Sponsor ufficiali Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte Roma, Biblioteca Hertziana Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte Roma, Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” Roma, Musei Capitolini Roma, Museo di Roma Vicenza, Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio Si ringraziano inoltre tutti i prestatori che hanno voluto mantenere l’anonimato Crediti fotografici Archivio fotografico Musei Capitolini (foto di Zeno Colantoni e Antonio Idini) Massimo Menghini Antonio Quattrone Organizzazione Assicurazioni Supporto organizzativo Ringraziamenti L’Associazione Culturale Metamorfosi esprime la più viva gratitudine alla Fondazione Casa Buonarroti, alla Biblioteca Clementina di Clemente e Alvaro Marigliani e ai prestatori privati e ringrazia in particolare Fabrizio Ambrosi de Magistris, Aloisio Antinori, Luciano Arcadipane, Elisabetta Archi, Maurizio Bacci, Daniela Barbieri, Gianluca Belli, Amedeo Belluzzi, Guido Beltramini, Mario Bevilacqua, Laura Biancini, Anna Maria Bisio, Annalia Bonella, Ombretta Bracci, Michela Bramati, Claudia Brambilla, Marianna Brancia di Apricena, Franco Brescia, Howard Burns, Elena Capperoni, Costanza Caraffa, Daniela Carosio, Silvia Catitti, Anna Cedroni, Dario Cimorelli, Gianluigi Ciotta, Angela Cipriani, Card. Angelo Comastri, Lucia Corrieri, Maria Pia Corso, Andrea D’Antonio, Deborah D’Ippolito, Francesco Paolo Di Teodoro, Bruce Edelstein, Caroline Elam, Marzia Faietti, Luisa Falchi, Cristina Falcucci, Sara Faustini, Carla Ferrantini, Micol Fontana, Margherita Fratarcangeli, Christoph Luitpold Frommel, Giacomo Gallarati, Gianluca Gaudioso, Paola Gaudioso, Eugenio Giani, Carla Gobetti, Carla Godetti, Francesco Guidi Bruscoli, Marco Guardo, Cristiano Habetswallner, Cristiana Lucani, Maria Luisa Jacini, Mons. Vittorio Lanzani, Anna Maria La Pica, Elena Lombardi, Antonella Magagnini, Giorgio Marini, Andrea Margaritelli, Marcella Marongiu, Cinzia Matrì, Giacomo Merli, Pietro Metelli, Armando Mileto, Mara Minasi, Michele Misuraca, Marco Misuri, Alessandro Nova, Riccardo Pacciani, Enrichetta Palmeri, Giuseppe Papillo, Marco Pasquali, Susanna Pelle, Roberta Perfetti, Micaela Perrone, Leonardo Pili, Carla Pinzauti, Federica Pirani, Vittorio Pizzigoni, Gloria Raimondi, Christina Riebesell, Domenico Rocciolo, Daniela Ronzitti, Andrea Enrico Rossi, Renata Sansone, Luca Sbardella, Chiara Siro Brigiano, Lucia Soleri, Marco Spallanzani, Marco Spesso, Anna Storace, Daniela Tabò, Maria Tasselmeier, Andreas Thielemann, Assunta Tonetti, Daniela Tovo, Simonetta Tozzi, Patrizia Trucco, Chiara Tulli, Biancamaria Verde, Orietta Verdi, Raffaele Viola, Gerhard Wiedmann, Alessio Zagaglia, Pietro Zander, Luisa Zotti. Michelangelo Buonarroti, il gigante solitario che visse in un secolo di giganti, è lo straordinario protagonista di questa eccezionale mostra, che si candida a essere l’evento clou della prossima stagione autunnale 2009 dei Musei Capitolini per la profondità e ampiezza dell’indagine sui contributi del Maestro alla produzione architettonica e scultorea dell’Urbe. Dalla cappella Sistina alle dimore private, dalle fortificazioni cittadine, agli interventi per la basilica di San Pietro, alla ristrutturazione di piazza del Campidoglio, fino a porta Pia, un viaggio lungo e documentato che traccia un profilo inedito di Michelangelo, dalla sua attività giovanile volta alla perfetta assimilazione dei classici nella bottega del Ghirlandaio, alla passione per progetti in piccola scala, alle innovazioni della maturità, che sfociano nella trasformazione delle introspettive architetture delle terme di Diocleziano nello spazio mistico di Santa Maria degli Angeli. Questo importante momento espositivo, coronato da ricchi reperti iconografici raccolti in questo prezioso catalogo e provenienti da illustri istituzioni come la Fondazione Casa Buonarroti a Firenze, è una esperienza che rimanda, inoltre, alla magia dell’arte scultorea michelangiolesca, dove la luce scavata nel mistero della pietra illumina di bellezza le forme scolpite in un disegno perfetto. Una mostra intensa, che si presta a riscuotere un successo internazionale, perché riassume il genio cinquecentesco, permeato da un nuovo umanesimo, in una perfetta sintesi degli opposti in cui l’artista rinsalda il patto tra l’umano e il divino. Le sue opere sono poetiche e dolorose insieme perché Michelangelo ha saputo vedere la bellezza e il dramma della vita nell’arte, perché di Roma conosce la verità che esprime questa contraddizione e perché, in questo, Michelangelo Buonarroti appartiene al nostro tempo come apparteneva al suo. Gianni Alemanno Sindaco di Roma Sentirsi infinitamente piccoli al cospetto del Genio assoluto non è sempre un’esperienza sublime. Il nome di Michelangelo porta infatti con sé la certezza che ogni parola pronunciata o scritta a suo commento suoni, qual è, superflua, non aggiungendo nulla dinanzi alla Bellezza che egli ebbe a creare. Nemmeno il tempo o la morte potrebbero farlo. Essere ospite di una mostra dedicata a Michelangelo architetto a Roma è certamente un onore, in ispecie considerando che i suoi tanti anni spesi qui a operare coincisero con due periodi ben differenti e ben circoscritti della sua estetica: nel primo (dal 1505 al 1516) egli fu immerso nell’impresa di realizzare la sua perfetta concezione classica dell’arte; nel secondo (dal 1534 al 1564), l’opera e il pensiero di Michelangelo annunciarono un’epoca nuova, in conflitto con l’armonia e la serenità classicistiche. L’esser stato il sommo interprete di due momenti così contrastanti della storia dell’arte, ovverosia classico e anti-classico in egual misura e con il medesimo splendore, fu il segno di una perennità insuperabile. I suoi scritti più significativi, in ogni caso, appartengono al secondo Michelangelo, e qui traluce una stupefacente coerenza teoretica, da un lato egli riconoscendo la limitatezza umana nel rendere pienamente la bellezza delle cose, dall’altro rivendicando con forza, tanto la scelta dell’Artista dinanzi alla Natura, quanto il principio individuale sul quale risiede il criterio del valore dell’arte. Da questa mostra risalta in grande misura un’idea di “progetto” che prende origine dalla visione; quel che per l’estetica michelangiolesca era cioè un dono innato, un talento che risiede nel cuore di chi sa creare e rappresentare, in un “mondo cieco ove il buon gusto è raro…”. Non varrebbe, a tal proposito, infierire sul nostro presente. Assai meglio rifugiarci in una silenziosa, ammirata contemplazione. Umberto Croppi Assessore alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma È difficile immaginare il Rinascimento senza la genialità di un artista come Michelangelo Buonarroti, i cui fondamenti artistici non furono quelli artigianali di una bottega, bensì quelli intellettuali dell’Umanesimo classicista della cerchia dei Medici e del Vaticano, suoi mecenati. Molto si è detto e scritto sulla sua complessa personalità, e diverse sono state le rassegne sia italiane che straniere, che negli anni hanno cercato di indagare sulla sua poliedrica attività artistica e sul suo pensiero filosofico, e anche Roma che può essere considerata a ragione la sua città d’adozione, dedica al grande Maestro un doveroso tributo. Michelangelo architetto a Roma, presentata presso i Musei Capitolini, nasce da un progetto scientifico di Casa Buonarroti, fortemente sostenuto dalla VI Commissione Consiliare Permanente alla Cultura, in sinergia con l’Assessorato alle Politiche Culturali e la Sovraintendenza del Comune di Roma, in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Delle diverse discipline artistiche Michelangelo predilesse la scultura, ma sarà interessante scoprire per il visitatore come anche nell’architettura egli impresse il proprio carattere, rinnovandola con crescente originalità, imprimendole lo stesso vigore plastico delle sue sculture. Roma è testimone di questo grande appuntamento con l’arte, che sarà riproposto successivamente in un’altra grande capitale europea, Vienna, in rappresentanza del genio italiano nel mondo. Un coinvolgimento particolare è riservato alla didattica scolastica, grazie all’Assessorato alle Politiche Educative e Scolastiche, con attività collaterali rivolte alle scuole, che consentiranno di far conoscere a un pubblico più ampio l’effetto comunicativo della rassegna. La mostra, che si configura come l’evento mediatico della prossima stagione, traccia un profilo esauriente del Maestro, in relazione alle numerose committenze romane, dagli anni della giovinezza alle straordinarie invenzioni della vecchiaia. Di particolare rilievo in sede espositiva saranno i disegni della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, edificata da Giacomo Della Porta, di cui si conoscono cinque splendidi disegni di Michelangelo, che immaginano una chiesa a pianta centrale. Torna dunque a Roma, per tutti coloro che apprezzano l’importanza della memoria storica e che hanno a cuore la bellezza, uno dei maggiori ambasciatori dell’arte italiana nel mondo. Federico Mollicone Presidente Commissione Cultura e Sport Comune di Roma Michelangelo a Roma, appunti, spunti, quasi un ricordo “E quelli che non ammirano le cose sue non hanno punto di giudicio, e massimamente d’intorno alla parte del disegno, nella quale senza dubbio è profondissimo; perciochè egli è stato il primo che in questo secolo ha dimostro a’ pittori i bei dintorni, gli scorti, il rilevo, le movenze e tutto quello che si ricerca in fare un nudo a perfezione.” Così Ludovico Dolce, poligrafo italiano (Venezia, 1508-1568) parlando di Michelangelo Buonarroti. Quanti spunti a margine di questa mostra, quanti ricordi. Le opere sono raccolte e descritte nel catalogo: gli autori sono illustri, conoscitori profondi dell’arte di Michelangelo. Michelangelo a Roma: un rapporto iniziato il 25 giugno 1496, con lui ventunenne alla corte di Alessandro VI Borgia, ricorda Claudio Strinati. Da quel momento nasce il legame fra Michelangelo e Roma. Un legame secolare. È inutile che io qui ricordi le opere in mostra. Michelangelo e Roma evoca anche altro. Per esempio la Pietà. Nel marmo di Carrara, marmo antichissimo, marmo con cui si è costruito il mondo. Marmo di quelle montagne esportate in briciole costosissime in ogni luogo. In un blocco di quel marmo, Michelangelo vede “la Pietà”. Ricordate quella domenica del 21 maggio del 1972? Laslo Toth entra in San Pietro. È un ungherese, non proprio a posto con il cervello. Si definisce e si atteggia a novello Gesù Cristo, tunica rossa e papillon. Un martello nelle mani, nella testa il desiderio di distruggere la statua della Madonna, tirata fuori dal marmo di Carrara da Michelangelo Buonarroti. Laslo Toth prende a martellate la Pietà. Una commissione con Giovanni Fallani, Deoclecio Redig de Campos (nomi infiniti), riporterà tutto come stava. All’ombra delle cave di Carrara. Spesso mi sono fermato di fronte alla Pietà, riflettendo. Pietà: una parola in grado di evocare immagini precise. Si dice “pietà” e (generalmente) si pensa a quella statua. La madre distrutta dal dolore, mentre sorregge il corpo del figlio morto. Una statua in grado di parlare. Così come avrebbe voluto Michelangelo, secondo la leggenda. Guardandola, si sente il grido dell’anima di una madre, costretta a seppellire suo figlio. E quante ne abbiamo viste. Ricordo un’altra immagine forte, dirompente. Il viso di quella donna algerina cui avevano ammazzato i figli. Aveva il capo velato, leggermente inclinato da una parte. Sembrava una madonna: una madonna musulmana. Dagli occhi, non una lacrima: il dolore le aveva tolto anche la possibilità di piangere. Sguardo assente, bocca contratta in una smorfia disumana: espressione senza parole a sottolineare la mancanza di pietà di chi le aveva massacrato l’anima. Ne ricordo un’altra, di là dal mare Adriatico. Un’altra mamma accasciata sul corpo di una bambina: un cecchino aveva sparato nel mucchio, al mercato, in nome di una differenza etnica. E aveva colpito una figlia, lasciando biologicamente viva una mamma. Di fatto, aveva ammazzato madre e figlia: una madre difficilmente sopravvive al dolore di un figlio strappato via. Una madre in quelle condizioni vegeta fino alla fine della sua esistenza. Spesso chiedendo la pietà di aver accorciata la pena di vivere. E chissà quante madri prima di Michelangelo, chissà quante madri dopo Michelangelo. E in quanti, ancora oggi si commuovono di fronte a quel gruppo scolpito nel marmo. In quanti avvertono la sofferenza strappata via a un pezzo di montagna di Carrara. L’arte riesce a riprodurre la pietà. Ma ci chiediamo quale? Quale pietà? È la pietà di chi soffre ed è costretto a seppellire un corpo. È la pietà effetto di un’altra causa. La causa di chi non ha avuto pietà. La causa di chi ha ucciso senza pensare alle madri. La causa di chi ha fatto una strage seguendo l’istinto della bestia di sesso maschile: pronta a combattere, pronta a sterminare. Gli animali maschi non hanno pietà: gli animali maschi attaccano, assaltano, uccidono. Le femmine animali soffrono: si lamentano per il cucciolo morto, per il compagno che non rientra nella tana. La pietà rappresentata è una contraddizione. È il risultato della pietà non avuta, della pietà dimenticata. E gli uomini sono campioni nel creare modelli per altre opere d’arte nelle quali le donne piangono per la pietà calpestata dagli uomini. L’uomo adora rappresentarsi come lupo. Poi (in preda a sensi di colpa inconsci), adora dipingere e scolpire immagini della pietà… Quel folle, Laslo Toth, tanti, tanti anni fa prese a martellate la statua della Pietà di Michelangelo. Il mondo dell’arte rabbrividì e un restauro riuscì a rimettere a posto quanto Laslo Toth aveva scheggiato con la sua violenza. Non si è mai capito perché quel gesto di follia. Inammissibile. Ma non è la stesso tipo di follia, ben più grave, quella mossa dall’uomo, quando (quotidianamente) prende a martellate la pietà, bombardando città, sparando sulla gente, trasformando donne vive in esseri impietriti dal dolore di vedere massacrati figli e compagni? Chi sarà in grado di restaurare questa pietà? Umberto Broccoli Sovraintendente ai Beni Culturali del Comune di Roma Il punto di forza di questa mostra è l’ottica particolare da cui ci si è posti per un riesame complessivo della figura di Michelangelo Buonarroti e su tale aspetto occorre richiamare l’attenzione del visitatore. Sembra incredibile che Michelangelo possa essere conosciuto in modo diverso e innovativo rispetto a quanto è avvenuto fino a oggi. E, effettivamente, la diagnosi critica inerente a un artista del genere è per larga parte compiuta né è lecito pensare, al di là di modifiche interpretative di questa o quella opera, a un ribaltamento dell’immagine del sommo artista così come è stata elaborata da una storiografia ormai secolare. Eppure la mostra è basata su metodi e criteri che debbono essere valutati proprio nella direzione della novità, tanto più importante se riferita a un artista di cui entro certi limiti si può veramente pensare che sia stato detto tutto. Ma in questo caso specifico non si tratta di una operazione clamorosa che intenda sfatare eventuali luoghi comuni; ribaltare una immagine consolidata; proporre una sorta di rivoluzione critica per quel che riguarda l’approccio a Michelangelo. Si tratta quasi dell’esatto contrario cioè della dimostrazione, nel concreto della ricerca, di un criterio diverso di indagine inerente allo sviluppo dell’insieme del lavoro michelangiolesco, alla ricerca di quelle innumerevoli interconnessioni tra una attività e l’altra del maestro, da sempre dichiarate e ampiamente argomentate ma sovente divise in maniera schematica, per lo più secondo le tecniche artistiche utilizzate dal Buonarroti. Nessun dubbio sul fatto che in Michelangelo convivessero tante competenze distinte ma tutte espresse al massimo livello e con una coscienza profonda della organicità dell’artista creatore, secondo un principio umanistico condiviso da vari artefici insigni di quel tempo. Michelangelo anzi è il simbolo dell’artista creatore che è tale ancor prima di avere affrontato il problema specifico della tecnica che dovrà utilizzare. Scultore di vocazione assoluta, pittore eccelso, architetto addirittura proiettato sulla sfera del sublime, Michelangelo è l’artista universale per antonomasia, in modo radicalmente diverso, se non addirittura opposto, rispetto a un Leonardo da Vinci. Tutto questo è ben chiaro e fornisce la spiegazione intuitiva dei motivi per cui la figura di Michelangelo Buonarroti è e resterà sempre incomparabile e unica nella storia dell’arte. E tuttavia in questo ambito di pensiero e di approccio critico è possibile approfondire l’indagine e renderla sempre più nitida e comprensibile. Proprio qui è la novità consistente ed estremamente interessante che promana dalla mostra, nutrita di apporti critici di primissimo ordine e da accostamenti indispensabili per una conoscenza sempre più precisa di questo genio grandissimo. In Michelangelo è certamente difficile distinguere il progetto dall’esecuzione. Michelangelo, in tutte le tecniche artistiche che ha praticato come maestro supremo, attua un processo creativo complesso e sovente intralciato la cui comprensione è ardua. Basandosi sull’idea del “non finito” si è spesso pensato che ci fosse nel maestro una specie di insuperabile limite interiore che gli impedisse di estrarre in maniera ottimale la forma dall’inerte, così come egli sarebbe stato immancabilmente in grado di fare secondo un percorso platonico di definizione piena della forma, individuata nella fase progettuale e poi portata a compimento. C’è in questa idea del “non finito” un principio che sembra portare vicino ai metodi di lavoro leonardeschi, quando l’impossibilità di dotarsi dello strumento infallibile per l’infallibile realizzazione dell’“idea” condusse Leonardo a continue interruzioni o a esecuzioni insoddisfacenti sotto il profilo conservativo e finanche espressivo. Ma è evidente che la dimensione leonardesca e quella michelangiolesca erano totalmente antitetiche, quindi la spiegazione dei comportamenti michelangioleschi non può essere la stessa di quelli leonardeschi, fermo restando come l’utilizzo indiscriminato della chiave interpretativa del “non finito” abbia recato più danni che vantaggi alla storiografia michelangiolesca. Ecco, allora, che la mostra attuale tiene nel massimo conto questa difficoltà di comprensione dell’opera del Buonarroti globalmente intesa e va a indagare nei più sottili recessi del processo creativo del maestro, cercando di rintracciare nelle varie tecniche artistiche il “laboratorio” dell’autore, sulla base di una ipotesi forse non espressamente dichiarata ma di fatto rintracciabile nella impostazione generale della manifestazione, che un sorta di “laboratorio” interiore ed esteriore guidasse per tutta la vita il metodo progettuale del maestro e ne condizionasse le modalità di attuazione certa, sia che egli fosse incaricato di mettere in opera una montagna di sculture, sia che avesse l’incombenza di ripensare per intero il principio stesso dello spazio dipinto, sia che si immergesse nello sbalorditivo esperimento di imprimere segni indelebili e possenti sulla città rinascimentale considerata come modello speculativo e insieme come luogo vivente in cui esercitare attività ben concrete e impegnative. Dalla mostra si ricava un’idea centrale che può essere così espressa: malgrado le apparenze, se è certamente legittimo parlare di un Michelangelo pittore, di un Michelangelo scultore, di un Michelangelo architetto, è pur vero come nel caso di Michelangelo sia necessario, e non meramente metaforico, usare la definizione di “artista universale”. Michelangelo non è universale perché è bravo in tutto, è universale perché un principio universale di comunicazione guida la sua formidabile attitudine al fare e la capillare analisi che viene qui svolta aiuta in modo nuovo e intelligente ad avvicinarsi sempre di più a tale semplicissima e determinante conclusione. Claudio Strinati Il grande evento culturale dell’anno nella capitale rappresenta una tappa di straordinario rilievo nel lungo lavoro che la Fondazione Casa Buonarroti, con la forza e l’impegno di Pina Ragionieri, sta compiendo per far conoscere l’opera complessa e stupefacente di uno dei più grandi italiani di tutti i tempi. Che sulla piazza del Campidoglio, progettata, con le sue statue e i suoi palazzi, da Michelangelo, si renda onore a Michelangelo architetto rappresenta il saldo di un debito di quasi cinque secoli. Lo scultore e il pittore, che nel disegno e nelle sue trasformazioni poggiavano le loro basi e sperimentavano nuove realizzazioni, anche nella grande sfida dell’architettura – dell’incontro cioè tra il pensiero e la società, tra il sogno e la storia – toccano vette di perfezione assoluta. Il rigore filologico dell’esposizione romana permetterà al grande pubblico di riconoscere nei segni della città eterna la mano di Michelangelo, e di comprendere meglio la relazione culturale così stretta che lega, ben prima dell’era della Frecciarossa, Firenze e Roma. Metamorfosi (e cioè cambiamento e trasformazione continui, nella vita come nell’arte) è un’associazione che intende condurre un’iniziativa, se necessario controcorrente, per contrastare l’inaridimento delle idee e gli eccessi della spettacolarizzazione, dell’effimero e del pensiero unico televisivo – veri e propri agenti di un’insopportabile idea superficiale e passeggera della cultura. Con l’organizzazione di questa mostra, sostenuta con tanto impegno dal Comune di Roma, da tante istituzioni e anche da collezionisti privati, ci vogliamo rivolgere in particolare agli studenti e ai giovani, perché diventino, dopo un lungo periodo di tendenze omologanti, protagonisti di una metamorfosi culturale e morale della società contemporanea. Pietro Folena Presidente di Metamorfosi Il sostegno di British American Tobacco Italia alla realizzazione della mostra Michelangelo architetto a Roma si inserisce in un percorso che abbiamo intrapreso, già da qualche anno, per la valorizzazione della storia del nostro Paese, che è soprattutto storia d’arte e di cultura, e per un più stretto legame tra cultura e impresa. Questa straordinaria possibilità è stata da noi accolta come un’occasione irripetibile per contribuire a diffondere la conoscenza di un patrimonio d’arte e di cultura che appartiene a tutto il mondo. Le potenzialità offerte dal nostro Paese, del resto, grazie al patrimonio artistico-culturale di cui i cittadini italiani, persone fisiche e giuridiche, vanno fiere, costituisce un vero e proprio serbatoio, da cui attingere per sperimentare il piacere dei suoi capolavori. Le sempre più numerose sponsorizzazioni di eventi artistici e culturali da parte delle aziende confermano, poi, una accresciuta consapevolezza da parte del mondo delle imprese della propria responsabilità, non solo nei confronti degli stakeholder classici, ma anche di soggetti quali le istituzioni culturali e della società in genere. L’impresa, oggi, riveste un ruolo sempre più concreto e costante come supporto alle iniziative culturali ed è nell’attuale contesto socio-economico che BAT Italia intende continuare a essere presente in qualità di azienda appassionata della cultura e sua attiva sostenitrice. Peraltro, l’impegno di BAT Italia per la cultura è solo una delle espressioni con cui vogliamo concretizzare la nostra adesione al principio della Responsabilità Sociale d’Impresa. Alla domanda sul motivo per cui un’azienda produttrice di tabacco debba confrontarsi con il tema della Responsabilità Sociale d’Impresa, rispondiamo in maniera decisa, che la responsabilità sociale è, per tutte le imprese, un indicatore fondamentale del loro stato di “salute”. Ecco perché la presenza di BAT Italia fra i sostenitori della mostra Michelangelo architetto a Roma, si inserisce nel programma di sostegno alla cultura e all’arte italiana come nostro impegno nei confronti del territorio ma chiarisce anche il modello culturale che governa BAT e quindi le aziende del Gruppo, tra cui BAT Italia, che operano nel mondo. Giovanni Carucci Vice President Head of Corporate and Regulatory Affairs L’impegno di noi Monini a sostegno della mostra Michelangelo architetto a Roma è mosso dalla responsabilità, oltre che dal piacere, di dare il nostro contributo a tutela del patrimonio artistico e architettonico italiano, elemento che contraddistingue il nostro Paese nel resto del mondo. Una responsabilità che noi Monini sentiamo in quanto, nel nostro piccolo, siamo parte delle eccellenze del nostro Paese come custodi del saper fare dell’olio extra vergine d’oliva. D’altronde la passione per l’olio extra vergine d’oliva non è poi diversa da quella dell’artista. Infatti, così come l’artista s’impegna tutta la vita a perfezionarsi nella sua arte, così noi Monini da novant’anni dedichiamo la stessa cura che un tempo nostro nonno metteva nella scelta dei blend per produrre il migliore olio extra vergine d’oliva possibile. Siamo convinti, inoltre, che l’enorme patrimonio culturale di cui disponiamo necessiti ancora di essere divulgato e che chi operi nella produzione e promozione dell’eccellenza italiana debba rendere merito e sentirsi parte della eccellenza delle eccellenze italiane: la nostra cultura. L’attenzione per la qualità del nostro olio extra vergine e la tutela dei capolavori della nostra terra diventa così per noi un tutt’uno, perché a trarre beneficio di ciò è l’Italia intera e i suoi cittadini. L’olio d’oliva, che noi Monini rappresentiamo nella sua accezione massima, l’extra vergine, prodotto tipico della natura e del clima del nostro Paese, da sempre presente nella nostra alimentazione, ci tramanda, con la sua storia, le tradizioni della nostra terra e fa di Monini uno dei principali player impegnati nella conservazione dei nostri beni culturali. Di fatto questa iniziativa si inquadra in una più ampia opera a sostegno della cultura e dell’arte in tutte le sue forme, che già da molti anni abbiamo messo in atto sponsorizzando ad esempio gli spettacoli teatrali del Festival dei due Mondi di Spoleto, Umbria Jazz e prossimamente anche il Festival Internazionale del Film di Roma. Il sostegno per questa mostra è ancora più contestualizzato se pensiamo che noi Monini e il nostro marchio veniamo dell’Umbria, il cuore verde dell’Italia, regione che fa idealmente da ponte tra due mondi michelangioleschi. Questa meravigliosa terra ha, infatti, a nord la provincia natia di Michelangelo, ricca dei suoi primi capolavori, e a sud Roma, in cui l’artista espresse la sua migliore vena creativa e che ha in sé le opere architettoniche al centro della mostra. Maria Flora e Zefferino Monini SOMMARIO 25 38 Michelangelo architetto a Roma 118 Michelangelo e le fortificazioni del Borgo Oronzo Brunetti Michelangelo e Architettura Christof Thoenes 124 Tomba di Cecchino Bracci Pina Ragionieri 128 Piazza del Campidoglio Anna Bedon La collezione di disegni di Michelangelo della Casa Buonarroti Pina Ragionieri 46 Architetture minori di Michelangelo a Roma Anna Bedon 138 Le colonne alveolate di palazzo dei Conservatori Francesco Benelli 58 Le dimore di Michelangelo a Roma. Dalle prime abitazioni alla casa di Macel de’ Corvi Clara Altavista 142 Michelangelo e la decorazione scultorea della piazza Capitolina Claudio Parisi Presicce 158 Palazzo Farnese Emanuela Ferretti 170 San Pietro in Vaticano Alessandro Brodini 180 Il tamburo della cupola di San Pietro in Vaticano Vitale Zanchettin 200 Progetti per edifici residenziali eseguiti a Roma intorno al 1550-1560 Claudia Echinger-Maurach 206 San Giovanni dei Fiorentini Mauro Mussolin 214 Cappella Sforza in Santa Maria Maggiore Georg Satzinger 226 Porta Pia Golo Maurer 240 Santa Maria degli Angeli Alessandro Brodini 242 bibliografia Gli anni dal 1505 al 1516 73 Michelangelo: ritratti e autoritratti Pina Ragionieri 80 Cappella Sistina Cammy Brothers 84 Finestra a edicola della cappella dei santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo Mauro Mussolin 90 Disegni dal Codice Coner: studi dall’antico e da architetture romane Cammy Brothers Gli anni dal 1534 al 1564 95 Michelangelo e la cultura architettonica a Roma alla metà del XVI secolo Maddalena Scimemi 100 La “sepoltura” di Giulio II: dai primi progetti alla realizzazione Claudia Echinger-Maurach 114 Michelangelo e le mura di Roma Guido Rebecchini MICHELANGELO E ARCHITETTURA Christof Thoenes MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA Che i grandi artisti del Rinascimento fossero geni universali – pittori, scultori e architetti – è un luogo comune e, come tutti i luoghi comuni, vero e falso allo stesso tempo. La verità di ciò è dimostrabile senza fatica per mezzo di singoli esempi; la falsità sta nella generalizzazione. Se, fiero, Raffaello scriveva allo zio di essere stato designato da Leone X come architetto di San Pietro “in loco di Bramante” e che per questo sarebbe diventato “perfettissimo” anche in quest’arte1, al contrario, Michelangelo (secondo Giorgio Vasari), pur opponendosi, si lasciava convincere dallo stesso papa ad assumere l’incarico per la facciata di San Lorenzo2. Reazioni di resistenza e di opposizione avrebbero accompagnato tutta la sua successiva attività architettonica. “Non sono architector” scriveva egli ancora negli anni quaranta su un foglio con dettagli architettonici3. Per Michelangelo appare decisivo il momento del condizionamento esterno. Che Paolo III lo avesse indotto ad assumere la guida del cantiere di San Pietro “contra mia voglia, e con grandissima forza”, lo dichiarerà egli stesso molto più tardi in una lettera a Vasari4. Esser costretto a fare ciò che non vuole rappresenta un topos della sua biografia: affrescare la volta della Sistina anziché intagliare le figure della tomba di Giulio II, tomba che anch’essa, ben presto, divenne un peso e una causa per nuove lamentele, come ogni ulteriore incarico. Ancora a 82 anni egli deplorava di dover perseverare nella “fatica e fastidio” della costruzione di San Pietro, anziché lasciar tramontare la propria vita nella pace della sua patria5. Ma chi lo tratteneva, allora? Vi erano a Roma tanti dei suoi colleghi (e concorrenti) che ben volentieri avrebbero voluto vederlo partire per Firenze, mentre i papi MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA continuavano a proteggerlo. Da tempo questa coercizione era stata interiorizzata, vale a dire, Michelangelo in verità era diventato committente di sé stesso. Ed era proprio questo a cui egli, come credo, aveva mirato fin dall’inizio. Sarebbe erroneo pertanto – ed è questa la tesi che desidero sostenere – considerare l’architettura, che nel corso della sua vita giocò un ruolo sempre maggiore, alla stregua di un’attività secondaria ovvero una sorta di deviazione dalla propria professione6. Al contrario essa fu un complemento sempre più importante, finché divenne l’ultima meta del suo operato, connessa con la scultura e al contempo opposta a essa. Infatti, se il mestiere di scultore l’aveva quasi nel sangue (trasmesso, come egli stesso credeva, o fingeva di credere, dal latte della sua balia proveniente da una famiglia di scalpellini)7, egli era entrato assai tardi nel campo dell’architettura, riflettendo su di essa – da quel momento – sempre con maggior consapevolezza. Questo è il percorso che cercherò di seguire. Il racconto vasariano della vicenda dell’incarico di San Lorenzo, suggerito senza dubbio da Michelangelo stesso, non ha trovato credito nella ricerca recente8. Se si torna alle fonti (che risiedono prima di tutto nella corrispondenza dello stesso Michelangelo), si compone l’immagine di un uomo che, del tutto consapevolmente, mirava a raccogliere la completezza dell’incarico nelle proprie mani e a espellere concorrenti, come anche possibili collaboratori, fossero essi architetti o scultori. Il suo obiettivo era il controllo dell’insieme e la strada per giungervi conduceva all’architettura – ciò dovette averlo chiaro, al più tardi, durante le trattative con Leone X e i suoi incaricati. Solo in qualità di architetto, che decideva anche a chi affidare i lavo25 1. Michelangelo Buonarroti, Profeta Isaia, circa 1511. Città del Vaticano, cappella Sistina 2. Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, particolare, 1510. Città del Vaticano, Palazzo Apostolico, Stanza della Segnatura ri di scultura (fin tanto che non li eseguiva egli stesso), poteva realizzare ciò che aveva in mente. L’autonomia artistica presuppone quella economica: così pretese di venire a patti con il papa quale imprenditore indipendente che lavorava “a tutte sue spese”9, e sottolineò ciò nel dire di aver già investito un capitale proprio nell’acquisto di materiali di pietra10. E non da ultimo, se vedo bene, fu a causa di questa ambizione che l’intera impresa alla fine naufragò. Così della facciata di San Lorenzo non ci rimane nient’altro che il modello ligneo. In una lettera del marzo 1520, Michelangelo trasse un bilancio amaro: tre anni spesi a lavorare, con perdite finanziarie e la vergogna di non aver portato a termine una commissione annunciata in grande (com’era già avvenuto per la tomba di Giulio II)11. Quello che egli non vedeva, ovvero di cui preferiva non parlare, era il passo compiuto nel campo dell’architettura durante quegli anni. Ciò non era implicito. Infatti l’incarico per la facciata si riferiva in prima linea alla decorazione. Il testo del contratto, come anche le lettere dell’incaricato papale, menziona principalmente il programma scultoreo: una montagna di corpi marmorei e bronzei, ancora più imponente della tomba di Giulio II. Ma è strano: nella serie di schizzi che inizia già prima della stipulazione del contratto – circa 35 disegni di ogni misura e tipo – la scultura gioca un ruolo decisamente subordinato12. Ciò che lo coinvolgeva era l’architettura: non più come sfondo, come nella tomba o nella volta della Sistina, bensì come medium sui generis. Era una scoperta che dovette colpirlo profondamente: gli elementi architettonici – colonne, pilastri, trabeazioni – non servivano solamente ad accompagnare le figure umane, essi potevano quasi sostituirle, appellandosi, come quelli, al nostro senso corporeo, capace di trasmettere impulsi di movimento. Certamente il campo di espressione delle forme architettoni26 3. Michelangelo Buonarroti, Dettagli dell’ordine dorico del teatro di Marcello (dal Codice Coner, f. 86), circa 1516. Londra, The British Museum, inv. 1859-6-25-560/1 recto che era di per sé più limitato, la loro semiotica rigida e regolata da convenzioni. Ma proprio in ciò risiedeva anche la loro forza attrattiva. Una tendenza verso la tipizzazione, persino verso la monotonia si percepisce anche nel mondo figurativo di Michelangelo. Egli non fece alcun ritratto, e già gli Ignudi della Sistina sono rappresentanti del loro genere piuttosto che individui; anzi, c’era già nella Sistina qualche intima affinità tra figure e membri architettonici, radicalmente diversa dal modo in cui Raffaello aveva trattato questo rapporto nelle Stanze vaticane (figg. 1, 2). Michelangelo non esitò – e ciò mi pare indicativo della consapevolezza di un nuovo inizio – a intraprendere lo studio della lingua dell’architettura classica quasi in modo scolastico. Ciò è dimostrato da una serie di disegni a matita rossa degli anni 1516-1517 (fig. 3). Si tratta di copie dal Codice Coner, con il cui aiuto Michelangelo recuperò lo studio dei monumenti romani, nonché di certe architetture bramantesche, obbligatorio per gli architetti della sua generazione13. Lo stile dei disegni è secco, oggettivo, rivolto alla fedeltà; se essi tuttavia non appaiono noiose copie, ciò è dovuto al fatto che l’autore sapeva esattamente ciò che voleva. Non si curava di misure e proporzioni – non troviamo né numeri né segni di compasso su questi fogli – e nemmeno della grammatica degli “ordini”, bensì dell’interazione tra pesi e sostegni e del potenziale energetico che essi contenevano. E proprio questo aspetto entrò a far parte integrante del lavoro compositivo per la facciata di San Lorenzo. Il risultato fu un’architettura nella quale le membrature verticali e orizzontali non appaiono più alla stregua di un apparato decorativo applicato al corpo dell’edificio, come in Giuliano da Sangallo (fig. 4), ma come sua essenza vera e propria. La parete stessa si articola in strutture che sembrano generare pilastri e colonne, mettendo in moto le trabeazioni (fig. 5)14. L’obiettivo non è l’effetto più ricco possibile nel rilievo, bensì il collegamento delle membrature in un tutto “organico”. Trent’anni più tardi, nel concepire l’abside meridionale di San Pietro, Michelangelo avrebbe sfruttato appieno quest’invenzione dei suoi esordi. Non si dice niente di nuovo qualificando Michelangelo come architetto-scultore. Ma il cliché diviene tanto più vero quanto più viene preso alla lettera. Il punto saliente non sta nelle effettive o presunte qualità “plastiche” delle sue architetture, bensì nel suo rapporto con la pietra. Egli non sapeva concepire un edificio se non come una scultura in grande formato: un intreccio di blocchi accatastati e ammorsati l’uno sull’altro. Gli elementi dell’architettura sono contenuti nel marmo, come statue; così lo scultore non divenne architetto, ma fu l’architettura a trasformarsi in lavoro scultoreo. James Ackerman ha mostrato come sia possibile ricomporre la facciata di San Lo- 4. Giuliano da Sangallo, Progetto per la facciata di San Lorenzo a Firenze, 1516. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 281 A 5. Michelangelo Buonarroti, Disegni di blocchi di marmo, circa 1518. Firenze, Casa Buonarroti, 74 A 6. Michelangelo Buonarroti, Schizzi di blocchi di marmo per la facciata di San Lorenzo, circa 1518. Firenze, Archivio Buonarroti, 144-145, ff. 260 verso-261 recto renzo alla stregua di un puzzle, partendo dagli schizzi dei blocchi disegnati da Michelangelo (fig. 6)15. Si spiega così il comportamento a prima vista enigmatico di Michelangelo nella fase iniziale della commissione. Stipulato il contratto che gli dava otto anni di tempo, egli non si recò in cantiere, bensì tornò nelle sue cave di marmo, dove rimase ancora un anno e mezzo per attendere al lavoro di sbozzatura dei blocchi. Fu la pietra a ispirarlo. Già così era stato per il suo primo incarico architettonico, il piccolo fronte della cappella di Castel Sant’Angelo: un puro lavoro di marmo, che forse per questo fu delegato a un intagliatore16. Anche la facciata fiorentina, impresa colossale, fu pensata completamente in marmo. Nella Sagrestia Nuova Michelangelo si rapportò all’architettura in pietra serena di Filippo Brunelleschi; il ricetto della Laurenziana si trasformò nell’apoteosi della “pietra del fossato”, la più nobile sorta del macigno fiorentino. A Roma Michelangelo, secondo il detto di Giorgio Vasari, venne a “nobilitare il travertino”17, utilizzandolo non come rivestimento di strutture murarie, ma come materiale da costruzione; recentemente Vitale Zanchettin ci ha fornito una nuova chiave di lettura di questo procedimento18. In San Pietro la tecnica di Michelangelo diede l’impulso a una riorganizzazione radicale del funzionamento del cantiere19. Il modo di pensare dello scultore si rispecchia nella prassi del disegno. Sono le tecniche proprie del lavoro con materiali lapidei a imporsi nel nuovo mestiere. Quella strada che conduce dal primo schizzo al disegno elaborato, documentata nell’opera grafica di tanti architetti, qui viene incrociata da un’alMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA 27 tra strada che viaggia dalla cava al cantiere. Nel blocco della pietra si nasconde – secondo quel celebre sonetto20 – il “concetto” dell’opera che l’artista deve liberare: non sulla carta, ma solamente nell’edificio, attraverso il lavoro nel materiale, le idee diventano realtà. Non è un caso se tra i disegni architettonici di Michelangelo non troviamo “fogli di dimostrazione”. Un precoce tentativo di realizzarne uno per la facciata di San Lorenzo rimase incompleto; alcuni disegni successivi, sui quali torneremo in seguito, mostrano progettazioni in continuo divenire. A compensare questa mancanza abbiamo gli schizzi dei blocchi lapidei, nonché i grandi disegni di lavoro realizzati al vero per porte e finestre, tracciati sulle murature della Sagrestia Nuova (fig. 7)21, insieme ai profili per i “modani” ritagliati sulla carta per i tagliapietra (fig. 8)22. Disegnare al vero sulle murature non fu certamente un’invenzione di Michelangelo, né possiamo essere certi che queste linee siano state tutte tracciate dalle sue mani. Ma ciò che dimostrano – e 28 7. Michelangelo Buonarroti, Studio di finestra, graffito su parete, circa 1525. Firenze, Sagrestia Nuova, scarsella 9. Antonio da Sangallo il Giovane, Studi di alzati e pianta parziale di San Pietro, circa 1518. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 70 A 8. Michelangelo Buonarroti, Studio per modano, 1533. Firenze, Casa Buonarroti, 60 10. Michelangelo Buonarroti, Studi per la scala del ricetto della Biblioteca Laurenziana, 1525. Firenze, Casa Buonarroti, 92 A ciò che veramente importa – è la continuità del lavoro ideativo: non esiste alcun punto dove la tensione creativa si rilassi nella elaborazione delle forme, anche dopo che queste apparivano ormai stabilite. Tra questi due estremi si collocano i fogli operativi; essi costituiscono la parte maggiore del materiale sopravvissuto. Qual è la loro peculiarità? Diamo uno sguardo a un foglio analogo di un grande “professionista” del tempo (fig. 9)23: Antonio da Sangallo, di nove anni più giovane, fiorentino egli stesso, ma coinvolto nella costruzione di San Pietro dai tempi di Donato Bramante, e primo architetto dalla morte di Raffaello. Aveva memorizzato il progetto a cui lavorava in tutta la sua complessità, tanto da poter estrarre – con mano mirabilmente leggera – vedute parziali, per chiarire a sé stesso come si sarebbero viste le singole parti. Nel disegno, in alto a destra, si vede una sezione dell’innesto tra la tribuna sud e il deambulatorio, in cui l’orientamento della visione, da nord verso sud, è scelto in MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA 29 11. Antonio da Sangallo il Giovane, Modello ligneo del progetto per San Pietro, 1539-1546. Città del Vaticano, Archivio della Fabbrica di San Pietro (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) modo da rappresentare al meglio l’articolata struttura, come oggi potremmo fare al computer. È qui al lavoro un’intelligenza più combinatoria che genuinamente creativa: le singole forme sono disponibili nel codice degli “ordini”, si tratta di applicarle senza errori in tre dimensioni. A ciò si dedicò lo studio di Sangallo. Confrontiamo un foglio di Michelangelo (fig. 10), di qualche anno più tardi, per il ricetto della Laurenziana24. Il tema principale è la scala. Essa viene schizzata in pianta, sezione e prospettiva, non distinte l’una dall’altra, ma in modo frammentario, come il processo creativo richiedeva. Questa non è architettura virtuale che il disegnatore ha in mente e raffigura, ma un oggetto materiale – pietra o legno – che egli mette davanti a sé come se dovesse lavorarlo con lo scalpello. Laddove Sangallo cerca distanza, per chiarire la visione d’insieme, Michelangelo vuole contatto. Così il disegno diviene un equivalente del rapporto con la materia, quasi a compensare la rinuncia al lavoro materiale richiesta all’architetto. Tuttavia l’energia emanata dal foglio appare più spirituale che corporale, cioè, si esprime meno nel vigore della penna che segue la mano, che nell’intensità del processo creativo che ci coinvolge – “la mano che ubbidisce all’intelletto”25. Che cosa ne risulta? Sangallo (fig. 11) sviluppa strutture, in sé coerenti senza salti e universalmente applicabili26, Michelangelo (fig. 12) crea oggetti, interessanti in sé; Sangallo applica regole, Michelangelo inventa forme. Qui si capisce ciò che Vasari, nel passo sempre ripreso dalla Vita di Michelangelo, esalta come la grande conquista degli anni fiorentini: il disegno architettonico come regno della libertà e dell’emancipazione da “ragione e regola”27. Non obbligato alla ripresa dalla natura (come sono scultori e pittori), ma neppure alla ripetizione di un canone quasi-naturale, l’architetto può produrre pure opere d’arte in modo “assai diverso da quello che […] facevano gli uomini secondo il comune uso”28. Se vedo bene, l’euforia di Vasari riflette, consapevolmente o no, uno dei pochi momenti anche soggettivamente felici nella carriera architettonica di Michelangelo29. Al 1526 – un anno prima della cacciata dei Medici da Firenze –, mentre Michelangelo lavorava con grande concentrazione al disegno della Laurenziana, risale uno scambio di lettere con Giulio de’ Medici, papa Clemente VII30. Michelangelo spedì da Firenze una serie di disegni di portali e Clemente li ammirò per quel che erano: pure opere d’arte (fig.13)31. Di fatto si tratta di fogli di emozionante bellezza, punti culminanti anche nell’arte del disegno michelangiolesco. A chi li osserva conoscendo il contesto potrebbero ricordare la produzione di un musicista che improvvisa sul suo strumento, incitato dall’applauso di un ascoltatore comprensivo. Il rapporto tra Michelangelo e Giulio soprav30 12. Firenze, San Lorenzo, Biblioteca Medicea Laurenziana, ricetto visse anche alla successiva crisi dell’occupazione e conquista di Firenze da parte delle truppe papali. Michelangelo, il quale non si era potuto sottrarre al servizio come architetto militare della Repubblica, non fu punito, bensì doveva essere “carezzato”, come un animale domestico bello e prezioso, al di là del bene e del male, per non interrompere il completamento delle tombe medicee32 In fondo entrambi, papa e artista, erano dei non-politici. Questo cambiò con il trasferimento di Michelangelo a Roma, dove con Paolo III era salita al soglio pontificio una figura eminentemente politica. Ciò diede l’impronta alle committenze architettoniche nelle quali Michelangelo fu coinvolto. Nuovo era in primo luogo il bisogno di creare architetture rivolte verso l’esterno. Infatti – dopo il tentativo naufragato per la faccia- 13. Michelangelo Buonarroti, Disegno del prospetto del portale dal ricetto alla sala di lettura della Biblioteca Laurenziana, ante 18 aprile 1526. Firenze, Casa Buonarroti, 98 A ta di San Lorenzo – ciò che si lasciava alle spalle erano puri mondi interiori. Si poteva, e si può ancora oggi, attraversare la città di Firenze senza accorgersi dell’opera di Michelangelo architetto. A Roma egli imparò a muoversi nello spazio aperto, più ancora, egli divenne l’araldo architettonico del potere rivendicato su questo spazio dal nuovo pontefice. Era il caso esemplare di una costellazione produttiva: il potenziale drammatico della sua architettura, cresciuto a Firenze e motivato in modo puramente soggettivo, si scontrò a Roma con un mondo di conflitti politico-religiosi concreti. Come architetto del Campidoglio Michelangelo finì per cadere nel campo di tensioni fra papa e Comune; ereditò palazzo Farnese nel momento di ascesa da residenza familiare a dimora principesca; mentre San Pietro si ergeva sul tappeto del dibattito sul ruolo della MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA 14. Roma, Palazzo Senatorio, scalone monumentale Chiesa papale dopo la Riforma. In tutti questi casi fu Michelangelo a mettere gli accenti decisivi; in fondo fu lui stesso a conquistare il potere sulla città33. Ma non subito. I grandi lavori del primo periodo romano erano di pittura: il gigantesco affresco del Giudizio universale, la cappella Paolina a cui lavorò fino al 1550. A proposito della scultura, la vicenda attorno alla tomba di papa Giulio II non si era ancora conclusa; a ciò si aggiungevano incarichi occasionali come il busto del Bruto. Anche la collocazione del Marco Aurelio in Campidoglio, per la quale il papa coinvolse Michelangelo (riluttante, come al solito), era ancora una volta un lavoro da scultore. Se e da quando egli abbia pensato o meno a un’articolazione architettonica della piazza, e come questa si sarebbe vista, non è dato sapere. È sicuro solo che egli attorno alla metà degli anni quaranta disegnò lo scalone davanti al Palazzo Senatorio (fig. 14)34. Fu il passo liberatore dal guscio mediceo alla dimensione aperta. Il futuro di Michelangelo architetto si decise nel 1546: con la morte di Antonio da Sangallo il cantiere di San Pietro rimase orfano, e Michelangelo venne chiamato alla guida dell’impresa. È noto e spesso ripetuto che egli fu costretto a impegolarsi nella lotta con la burocrazia della Fabbrica e il clan sangallesco trincerato in essa35. Non appare ancora discusso a sufficienza, invece, il mutamento simultaneo della sua architettura. Infatti è sorprendente come Michelangelo – dopo la pausa degli anni trenta-quaranta – cercasse di arrangiarsi con quel repertorio di forme classiciste che dai tempi di Bramante e Sangallo aveva determinato il gusto architettonico romano, e dal quale egli stesso a Firenze si era allontanato in modo sempre più deciso. 31 15. Roma, palazzo dei Conservatori, facciata, dettaglio di una campata 16. Città del Vaticano, San Pietro, tribuna meridionale, esterno 17. Città del Vaticano, San Pietro, tribuna meridionale, interno 18. Città del Vaticano, San Pietro, tribuna meridionale, esterno, dettaglio dell’ordine gigante Vorrei intendere questo nel senso di un processo di “socializzazione” che attraversa l’architettura di Michelangelo durante gli anni quaranta: dall’ermetico, e chiuso in sé, stile personale dell’epoca fiorentina alla discussione aperta tra libertà e ordine, innovazione e tradizione, che vediamo svolgersi nella facciata del palazzo dei Conservatori36 o nella tribuna di San Pietro (figg. 15-16). Ciò corrisponde allo scarto tra l’autosufficienza virtuosa dell’architetto mediceo e l’attività nella sfera politico-sociale. Di fatto, mentre a Firenze l’opera architettonica era diventata un affare più o meno privato fra artista e committente, a Roma bisognava presentarsi in pubblico e, allo stesso tempo, connettersi con un contesto storicamente prestabilito, sia semantico sia strutturale. Le paraste e le colonne all’interno della tribuna di San Pietro non riprendono soltanto formalmente quelle dell’edificio bramantesco-sangallesco, ma ne riutilizzano materialmente alcune parti (fig. 17)37. Nella ristrutturazione michelangiolesca esse fungono da sistema di riferimento per l’introduzione di dettagli innovativi, come le enormi finestre con le edicole a timpano spezzato spinte verso la trabeazione. Non si tratta più della sospensione di “ragione e regola” celebrata da Vasari, bensì della loro assimilazione nel mondo espressivo dell’artista. Rivolto a un corrispondente a noi sconosciuto, Michelangelo spiegò in modo alquanto sibillino come si dovessero mutare gli adornamenti avendo mutato la pianta, e come ciò fosse connesso con la relazione tra le membra del corpo umano38. Vale a dire: esistono leggi superiori a quelle della scuola sangallesca. La nuova varietà viene tenuta insieme dall’intensità incessante nel lavoro di dettaglio. Nel trattamento degli ordini all’esterno Michelangelo mise in mostra gradi di variazione: il corinzio delle grandi paraste rimane rigorosamente canonico, il dorico viene appena accennato nelle “guttae” delle nicchie 32 MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA 19. Città del Vaticano, San Pietro, tribuna meridionale, esterno, dettaglio della trabeazione inferiori che solo lontanamente ricordano le forme classiche. Tra loro si collocano come genere intermedio le colonne ioniche con i loro capitelli “alla michelangiolesca”, riconoscibili dai festoni appesi alle volute (figg. 18-19). Al cambiamento di stile corrisponde un mutamento delle motivazioni interiori: tale mutamento tocca – senza per questo coincidere – quello di papa Farnese, convertito da Saulo a Paolo. Anche questo si manifesta così chiaramente nel caso di San Pietro. Ciò che aleggiava davanti a Michelangelo si evince dalla sua polemica contro il modello di Sangallo, in principio approvato dal papa39. Michelangelo lo trovava buio, confuso, gonfiato e ripartito in compartimenti inutili; le implicazioni di una critica “dissimulata” alla condizione della Chiesa romana sono difficili da ignorare. Il suo ideale personale è raccolto, in una sua lettera, dalla celebre formula “chiaro e schietto, luminoso e isolato attorno”40. Quindi una costruzione semplice, ben percepibile, chiaramente circoscritta, piena di luce e libera da aggiunte. Che la questione per lui andasse oltre la pura estetica è percepibile da lettere più tarde (a Vasari, al nipote Leonardo, al duca di Firenze), le quali parlano degli obblighi verso San Pietro che lo costringevano a rimanere a Roma, lasciando sullo sfondo tutti gli altri incarichi41. Traspaiono sensi di colpa e timori di fallimento: minacciato dalla morte, doveva mettere a sicuro la propria opera, rispondendo in prima persona; sciuparla sarebbe stata una sventura, una vergogna e “un gran peccato”42. Entra qui in gioco la personalità religiosa di Michelangelo, e non sembra troppo audace intendere quella formula (“chiaro, schietto, luminoso”) come visione di un nuovo tempio cristiano, nel quale il fedele avrebbe potuto incontrare Dio conscio della propria responsabilità, libero da legami tradizionali e non più bisognoso di mediazione da parte di gerarchie ecclesiasti33 20. Monogrammista RD, Orthographia Exterior et Interior Designati Templi Sancti Ioannis Baptistae Nationis Florentinorum in Urbe Michaele Angelo Bonaroto Architecto, in Valérie Régnard, Praecipua Urbis Romanae Templa, Francesco Collignon editore, Roma 1650, tav. 26 che. Se questa era l’idea, lui solo sarebbe stato chiamato a realizzarla, salvando la chiesa di Pietro dalle mani dei “ladri” e degli incapaci, quali Sangallo e la sua gente43. Non vide nessun successore, e non fece niente per trovarlo. Anni dopo, gli si presentò un’ultima opportunità di realizzare, per i fiorentini a Roma, una chiesa secondo le proprie idee; in essa egli stesso avrebbe dovuto essere sepolto. Che pure questa fosse un’utopia lo dovette capire presto. Ci avviciniamo con questo all’ultimo e, a me pare, più difficile capitolo del suo percorso: l’opera tarda. Già il fenomeno come tale lascia perplessi. L’ottantaquattrenne, spesso non sano, piegato sotto l’immenso peso della guida di San Pietro, che egli riusciva a malapena a gestire per mezzo di mediatori, si caricò di quattro altre grandi imprese e concepì, nel corso dei cinque anni che aveva ancora da vivere, le sue più singolari architetture: San Giovanni dei Fiorentini, la cappella Sforza a Santa Maria Maggiore, Santa Maria degli Angeli nelle terme di Diocleziano e porta Pia; come quinta si iniziò, un anno prima della sua morte, la trasformazione del Campidoglio secondo i suoi disegni. Non poteva più negare che, nel frattempo, l’architettura fosse diventata la sua “professione”. Ma chi avrebbe avuto da ridire se egli a questo punto avesse rifiutato nuovi incarichi? Non lo fece; al contrario, egli attaccò con decisione tutti questi lavori e cercò di portarli più avanti possibile, e nel tempo più breve. Quali erano i suoi motivi? Nel 1559, quando iniziò questo ultimo periodo di attività, fu eletto al soglio pontificio Pio IV, papa Medici, milanese. Tre di questi lavori furono avviati su sua diretta commissione, negli 34 21. Roma, Santa Maria Maggiore, cappella Sforza, interno altri egli fu forse coinvolto in modo indiretto44. Non sembra esagerato sostenere che dobbiamo a quest’uomo sobrio ed energico l’esistenza dell’opera architettonica tarda di Michelangelo, benché sembri che in privato il suo gusto tendesse piuttosto al “Rinascimento tardo” superficialmente antichizzante di Pirro Ligorio. D’altro canto si trattava di un nuovo “papa politico”, il suo obiettivo dichiarato era la promozione della Controriforma, e in questo egli pensava di poter contare sul vecchio Buonarroti. Ma l’artista reagì diversamente da come aveva fatto venti anni addietro. La prima cosa che salta all’occhio dal suo lavoro tardo è la rinnovata concentrazione sull’architettura interna (fatta eccezione per porta Pia). Essa contrassegna il ritiro del vecchio maestro dalla sfera pubblica, revocando l’intesa (vera o presunta) con le personalità di potere. Non ne condivideva più i fini. L’isolamento crescente del Maestro si mostra al più tardi con il naufragio del progetto per San Giovanni, suo ultimo tentativo di uscire vincitore dal rapporto con i grandi del suo tempo (in questo caso, il duca Medici che egli stesso aveva messo in gioco). Rimase fedele alle imprese pubbliche di lunga durata iniziate per il papa Farnese, in Campidoglio e nella basilica vaticana. Ma quel che intraprese da allora in poi furono opere individuali. Esse lo mostrano nuovamente su una strada propria. La difficoltà maggiore nell’interpretazione di questi lavori risiede nella loro eterogeneità. Essi non sono riconducibili a uno “stile tardo”, più ancora, non hanno in comune nessuno stile che possa definirli. Potremmo piuttosto parlare di una serie di tentativi finalizzati a sondare i limiti di fattibilità nell’ambito dei singoli generi. Le incisioni di Valérie Regnard tratte dal modello di Tiberio Calcagni per San Giovanni dei Fiorentini (fig. 20; cat. 80) dimostrano in modo impressionante la rinuncia a qualsiasi effetto esterno. L’architettura è piena di finezze, ma concentrata tutta all’interno, uno spazio puramente centrale, rotondo e pacifico in sé. Si può assumerlo, lo ripeto, come documento di una religiosità rivolta verso l’interno, ritirata dal mondo, che dominò il pensiero del vecchio Michelangelo e lasciò la sua impronta anche nei suoi pochi tardi lavori di figura. D’altra parte esistono disegni che rivelano ben altre ambizioni45. Tutti i motivi di piante centralizzate dati dalla storia – rotonde, ottagoni, cerchi nel quadrato, deambulatori, cappelle angolari, croci greche e di sant’Andrea – dovevano compenetrarsi e dissolversi in un’unità più alta. Ai mercanti fiorentini Michelangelo prometteva che il suo edificio avrebbe eclissato tutto ciò che “Romani e Greci mai nei tempi loro feciono”46. Doveva sorgere, quindi, qualcosa di assolutamente nuovo, un’architettura che fin allora non era esistita. Un anno dopo Michelangelo disegnò la cappella Sforza (fig. 21): il contrario di una cappella laterale, secondo l’uso roma- no, senza precedenti nell’architettura dell’epoca e, in questo, comparabile ai disegni per San Giovanni47. Tuttavia, in questo caso – a giudicare dai pochi schizzi conservati – il processo di ideazione seguì un percorso inverso: dal semplice al complicato, da uno spazio chiuso a una struttura aperta, stranamente frazionata, convenzionale nei dettagli, ma audace fino all’incomprensibile nella concezione spaziale; in ultima istanza un pezzo di “architettura assoluta” come a suo tempo era stato il ricetto della Laurenziana, ma liberato dalla rigidità monolitica del lavoro fiorentino. Sembra quasi di sentir rispondere il tardo Beethoven a un encomio per un suo lavoro giovanile: “A quel tempo non sapevo comporre. Adesso, penso, di saperlo fare”48. Nello stesso anno però, nell’adattamento di Santa Maria degli Angeli, invece di trasformare la sala delle terme imperiali in una chiesa cristiana, come in un trionfo sull’antico (ciò che più tardi avrebbe fatto Vanvitelli), Michelangelo la lasciò praticamente immutata, rinunciando sovranamente non solo all’architettura dell’esterno, ma all’architettura in toto. Doveva restare solo la nuda dimensione dell’edificio romano (fig. 22)49. Non si trattava di giochi mentali bensì di progetti concreti, che Michelangelo avrebbe voluto veder sorgere; il suo appello tanto urgente ai fiorentini evidenzia quanto gli stesse a cuore la realizzazione di quella chiesa50. Bisogna ricordare, a questo punto, che l’opera architettonica di Michelangelo, in tutta la ricchezza nella quale si era sviluppata fino ad allora, consisteva in edifici ristretti da vincoli, frammentati e non giunti a compimento; la stessa Laurenziana, culmine del periodo fiorentino, era rimasta incompleta. Non gli era stato concesso (come ad altri architetti del tempo) di realizzare l’edificio perfetto, iniziato dalle fondamenta e portato a termine. In retrospettiva, il suo operato architettonico poteva apparirgli facilmente come una catena di fallimenti, ovvero di impegni non ancora assolti di fronte ai committenti, al mondo e alle sue attese e, in fine, nel caso di San Pietro, di fronte a Dio. Quando una volta della nuova basilica vaticana venne eseguita in modo erroneo, senza seguire le sue istruzioni, egli avrebbe voluto “morire di vergogna”51. Fallire è disonore: Vasari tocca questo punto, forse inavvertitamente, nel contesto della distruzione dei disegni avvenuta poco prima della morte. “Lui voleva – scrive – non apparire se non perfetto”52. Suona come vanità d’artista, ma il vero motivo è morale: sentirsi inadeguati di fronte al proprio compito. Dal rogo vennero risparmiati alcuni fogli di lavoro in grande formato degli ultimi anni, tre per San Giovanni e tre per porta Pia53. Forse essi erano pensati come una sorta di lascito. Non sono “perfetti” nel senso di disegni finiti, ma in quanto registrano – con le tecniche più raffinate – il processo di ideazione, MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA accumulando e, allo stesso tempo, trascendendo tutti i motivi apparsi nel corso del lavoro, fenomeno questo che osserviamo anche nell’ultima opera scultorea, la Pietà Rondanini54. Con ciò i disegni si collocano quasi al posto della costruzione, anzi la superano nella propria sostanza architettonica, salvando la pienezza delle idee dalla necessariamente riduttiva realizzazione materiale, non come progetti fissati nel disegno o nel modello, bensì come work in progress (fig. 23; cat. 94). Nel caso di porta Pia, come già in quello di San Giovanni, questi disegni sarebbero stati dati al committente così com’erano, lasciando a lui la scelta fra le alternative55: comportamento contrastante con quello consueto di Michelangelo, sempre avveduto a mantenere il controllo sulle proprie idee. Forse si può intendere ciò come indizio che per il vecchio maestro l’intesa sulle finalità del progetto era diventata meno importante del proprio operare. Creatività in sé, il produrre stesso diveniva ultimo fine del lavoro artistico56. E qui risiede, se non sbaglio, la più profonda ragione della svolta definitiva verso l’architettura, compiuta da Michelangelo negli ultimi anni. Infatti, alla fine, tutta l’arte figurativa rimaneva imitazione, rimandando a una realtà nota. Scolpire o dipingere significava in ogni caso “dire” qualcosa, comunicare con i contemporanei riferendosi a contenuti. E proprio questo sembra essere diventato un problema per il vecchio maestro, il cui Giudizio universale, oltre i consueti encomi, aveva attirato anche critiche massicce e non infondate57. Già la celebre quartina con cui Michelangelo aveva respinto il complimento obbligato per le sculture “parlanti” (e quindi quasi viventi) della Sagrestia Nuova accenna a un rifiuto di comunicazione: “Caro m’è ’l sonno – egli fece rispondere alla figura della Notte – e più l’esser di sasso, mentre che ’l danno e la vergogna dura”58. Non poter parlare, non dover parlare: a que35 22. Van der Hulst, Veduta dell’interno di Santa Maria degli Angeli, Chambéry, Musée de Beaux-Arts sto ideale, infatti, si avvicina più delle altre arti l’architettura. Così non meraviglia che l’ultima creazione architettonica di Michelangelo abbia resistito fino a oggi a qualsiasi tentativo di strapparle un qualsivoglia “messaggio” (fig. 24)59. Ancora una volta, il compito è politico, e Michelangelo non si sottrae a esso, ma lo tratta a un livello d’astrazione che impedisce qualsiasi comprensione diretta, relativa a contenuti. Vorrei affrontare solo due aspetti che, a quanto vedo, non sono stati ancora discussi nella letteratura. Il primo riguarda la scala urbana60. Porta Pia è una porta della città, ma ciò che Michelangelo ha costruito o quanto meno disegnato è soltanto il fronte interno del suo impianto, vale a dire il prospetto terminale del viale sul crinale del Quirinale voluto, e realizzato con stupefacente rapidità, da Pio IV. Ora, il punto di vista all’estremità opposta di “via Pia” era costituita da un capolavoro della scultura antica, il gruppo dei Dioscuri, secondo una vecchia tradizione frutto di un concorso tra Fidia e Prassitele61. Possiamo credere che Michelangelo non abbia visto in ciò un “Paragone”? In tal caso, l’opera conterrebbe due antitesi: moderno versus antico, e architettura versus scultura. Vista così, la porta di Michelangelo rappresenterebbe una specie di “architettura essenziale”, depurata da qualsiasi reminiscenza organico-mimetica: piatti strati di pietra, spigoli affilati, colonne completamente escluse, capitelli ridotti a segni; solo il mascherone in chiave d’arco si sporge in modo plastico, accentuando la tettonica astratta dell’insieme. L’elemento figurativo richiesto, uno stemma papale presentato da Angeli (Angelo Medici), fu lasciato da Michelangelo a Jacopo Del Duca, e pertanto escluso dal suo ambito d’invenzione. Questo sottolinea – ed è il secondo punto – il carattere non36 23. Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di porta Pia, circa 1561. Firenze, Casa Buonarroti, 106 A 24. Roma, porta Pia parlante della sua architettura. Anziché “leggerla”, si dovrebbe insistere su quello che essa non dice. Ciò che il compito richiedeva, e che il papa senza dubbio si attendeva, era l’arco trionfale, il più triviale e il più “parlante” di tutti i modelli di porta. Qualsiasi architetto glielo avrebbe fornito, Michelangelo no. Anzi, egli eliminò nel corso della sua elaborazione l’arco in assoluto. Lo sostituì con un’apertura a piattabanda con cornice rustica, sopra la quale appare, come una eco, quasi una parodia, l’arco ribassato. Così viene trattato anche il repertorio rimanente: segmentato, spezzato, rimescolato come materiale onirico; i dettagli sono alienati, il tutto assurdo, incomprensibile, eppure – come Jakob Burckhardt formulò già nel suo Cicerone – eseguito “con tutta arbitrarietà seguendo una legge interiore che il maestro crea per sé stesso”62. Quindi, non più conciliazione con la tradizione, ma neanche ricorso alle “licenze” degli anni medicei, bensì autonomia assoluta. Possiamo forse fare ancora un passo avanti cercando l’intenzione dietro l’arbitrio. Michelangelo e Architettura: è una storia lunga. Architettura non fu il medium dei suoi esordi artistici, si può dire che non fu la sua “lingua madre”. L’aveva imparata e aveva calibrato il suo rapporto con essa di fase in fase. Così porta Pia, alla fine di questo percorso, assume i tratti di un dramma satirico: come se il maestro, ironizzando sul tema dato, avesse voluto manifestare la sua distanza interiore da questa ultima comparsa in scena, desiderata dal papa. Il trattamento del lessico classico che sembra beffarsi di tutte le “buone regole” segnala uno scetticismo assoluto nei confronti dei contenuti ascrittigli dalla convenzione. Non si allude a nulla di consueto, nessun proclama o suggerimento; semmai, torna alla mente il sarcasmo di certe frasi, a volte sbalorditive e non sempre sottili, che si incontra leggendo le lettere del Maestro. In effetti, è proprio in questa ultima, più astratta ed enigmatica opera che appare in modo singolare la personalità del vecchio Buonarroti; anzi, è questa forse l’architettura più “perso- nale” che un maestro classico si sia mai permesso di realizzare. Se potesse esistere qualcosa come un autoritratto architettonico – ovvero l’autorappresentazione di un artista in un medium non-figurativo – dovremmo cercarla qui. Questo saggio costituisce la versione italiana del testo in lingua tedesca letto alla conferenza d’apertura del convegno internazionale, Michelangelo e il linguaggio del disegno d’architettura, a cura di Alessandro Nova e Golo Maurer, svoltosi a Firenze presso la sede del Kunsthistorisches Institut, dal 29 al 31 gennaio 2009. L’autore esprime un particolare ringraziamento a Vitale Zanchettin per la preziosa collaborazione alla stesura della versione italiana; il curatore di questo volume è profondamente grato agli organizzatori del convegno, Alessandro Nova e Golo Maurer, per avere generosamente concesso la pubblicazione in questa sede della versione italiana; la versione originale in lingua tedesca sarà pubblicata negli atti del convegno in corso di stampa. rio tra Michelangelo e Giovan Francesco Fattucci dell’anno 15251526, in Carteggio, vol. III. 30 Ibidem; cfr. anche Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007, p. 226. 31 Corpus 549-551, 555. 32 Gaye 1839-1840, pp. 22 sgg.; cfr. anche Carteggio, vol. III, pp. 303306, n. DCCCXIII (29 apr. 1531). 33 Sulla storia della progettazione e della costruzione degli edifici nominati in seguito, da ultimo, cfr. Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007, pp. 356-376 e 476-489. 34 Bedon 2008, pp. 81-88. 35 De Maio 1978; Bardeschi Ciulich 1977; Saalman 1978; Bardeschi Ciulich 1983; Bredekamp 2008. 36 Sul problema della datazione del progetto di Michelangelo si veda la mia recensione al volume di Anna Bedon sul Campidoglio (Bedon 2008), in corso di pubblicazione sulla rivista “Annali di Architettura”. 37 Cfr. Thoenes 2001, pp. 303-320. 38 Carteggio, vol. V, pp. 123 sgg.; sull’argomento, da ultimo, Thoenes 2008a, in part. pp. 69 sgg. 39 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. IV, pp. 162 sgg., vol. V, pp. 467 sgg., vol. VII, pp. 218 sgg.; Carteggio, vol. IV, pp. 251-252, n. MLXXI (fine 1546 o primi del 1547), lettera a “Messer Bartolomeo”. 40 Carteggio, vol. IV, pp. 251-252, n. MLXXI (fine 1546 o primi del 1547). 41 Carteggio, vol. V, passim. 42 Carteggio, vol. V, pp. 35-36, n. MCCIX (22 giu. 1555). Shearman 2003, vol. I, pp. 180184. 2 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 188. 3 Corpus 358 verso. 4 Carteggio, vol. V, p. 30, n. MCCV (11 mag. 1555) e pp. 105-106, n. MCCLVII (22? mag. 1557). 5 Ivi, pp. 102-103, n. MCCLV (ante 22 mag. 1557). 6 Nella letteratura di orientamento biografico su Michelangelo l’opera architettonica viene citata – nel migliore dei casi – solo marginalmente, cfr., ad esempio, Forcellino 2005. 7 Condivi, ed. Nencioni 1998, pp. 8 sgg.; Vasari, ed. Milanesi 18781 1885‚ vol. VII, p. 137. Da ultimo, Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007, pp. 216 sgg. 9 Contratti, pp. 129-132, n. L (19 gen. 1518). 10 Carteggio, vol. I, pp. 277-279, n. CCXXI (2 mag. 1517). 11 Carteggio, vol. II, pp. 218-221, n. CDLVIII (fine di feb. - 10 mar. 1520). 12 Millon, Smyth 1988a. 13 Corpus 511-520; Agosti, Farinella 1987a. 14 Si veda, in merito, l’analisi dei disegni nei fogli di Casa Buonarroti, 67 A, 74 A e 77 A (Corpus 460, 463, 505), in Maurer 2004, pp. 177 sgg. 15 Ackerman 1966, vol. I‚ pp. 18 sgg. 16 Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007, pp. 217 e 470. 17 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. I, p. 123. 18 Zanchettin 2008a. 19 Zanchettin 2008b. 20 “Non ha l’ottimo artista alcun concetto” (Sonetto 151); Residori 1998, pp. 262 sgg. 21 Dal Poggetto 1978; Elam 1981; Collareta 1992. 22 Cooper 1994. 23 Frommel, Adams 2000, pp. 9193. 24 Corpus 525. 25 Residori 1998, pp. 262 sgg. 26 Benedetti 1994; Thoenes 1994; Evers 1995, pp. 351-381. 27 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 193. 28 Ibidem. 29 Si confronti, in merito, l’epistola8 MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA Carteggio, vol. V, pp. 18-20, n. MCXCVI (20 ago. 1554) e pp. 105106, n. MCCLVII (22? mag. 1557). 44 Per la cappella Sforza cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 327-414, in particolare p. 342. Per San Giovanni dei Fiorentini cfr. Günther 2001; Thoenes 2008b. 45 Corpus 609, 610, 612. 46 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 263. 47 Satzinger 2003-2004. 48 Citato da Kaiser 1979, p. 503. 49 Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007, pp. 374 sgg. e pp. 487 sgg. 50 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 263. 51 Carteggio, vol. V, pp. 113-114, n. MCCLXI (1 lug. 1557); cfr. Brodini 2006. 52 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 270. 53 Corpus 609, 610, 612, 615, 618, 619. 54 Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007‚ p. 437. 55 Su porta Pia, cfr. Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 260; su San Giovanni: Carteggio, vol. V, p. 182, n. MCCCIV (1 nov. 1559). 56 In merito, cfr. Bredekamp 1995, pp. 116-123. 57 Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007‚ pp. 263-266. 58 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 197. 59 Maurer 2008, in particolare pp. 125-127 e 155-160. 60 Ivi, pp. 127-130. 61 Thielemann 1992. 62 Burckhardt 1978, pp. 313 sgg. 43 37 1. Michelangelo Buonarroti, Nudo di schiena, 1504-1505. Firenze, Casa Buonarroti, 73 F LA COLLEZIONE DI DISEGNI DI MICHELANGELO DELLA CASA BUONARROTI Pina Ragionieri go scusa al duca per il “misfatto dello zio”, e per di più di offrirgli, come dono riparatore, ciò che dell’artista restava ancora nello studio di via Mozza a Firenze. In una lettera del 4 marzo 1564, scritta un giorno prima della lamentela ducale a Serristori, Vasari così perorava: Né mi parria fuor di proposito, Messer Lionardo mio, […] che la Signoria Vostra scrivessi una lettera a S.E.I, dolendovi della perdita che à fatto la città e S.E.I. in questa morte, e che, non avendo lassato [Michelagnolo] né disegni, né cartoni, né modegli, come ò visto che scrivete, vi dogliate, perché avevi disegniato fargniene parte. Ma poi che se n’è ito et non avendo lassato se non voi, che in fede et in servitù sarete il medesimo che vostro zio e che, poi che di qua non è se non le cose di via Mozza, che quelle saranno, se gli piaceranno, sue, pregandolo che e’ non manchi aver la medesima protezione a voi vivo, che aveva a Michelagniolo inanzi che fussi passato a l’altra vita. È sempre utile citare il celebre episodio riferito da Giorgio Vasari, nella seconda edizione della Vita del 1568, secondo il quale Michelangelo “innanzi che morissi di poco, abruciò gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l’ingegno suo, per non apparire se non perfetto”. Sappiamo per certo che questo gran falò, acceso in due volte, fu il più cospicuo ma, presumibilmente, non fu l’unico: e così riusciamo a capire perché il corpus dei disegni del Buonarroti risulta spesso lacunoso agli studiosi; e a volte, proprio per l’impossibilità di tracciarne la vicenda come una linea continua che accompagni gli accadimenti artistici di una lunga vita, problematico anche dal punto di vista attributivo. Nonostante le drastiche distruzioni, di Michelangelo rimanevano, alla sua morte: alcuni cartoni nella sua dimora romana a Macel de’ Corvi, ma anche disegni già in vendita sul mercato, specialmente romano, molti fogli lasciati a Firenze nella casa della famiglia e nello studio di via Mozza; senza contare i non pochi disegni donati agli amici. A proposito di questi doni, vale la pena sottolineare che l’artista credeva nella “imperfezione” (cioè nella progettualità e provvisorietà) del tratto grafico, e usava e riusava le carte per usi diversi: ne è esempio il Nudo di schiena di Casa Buonarroti (fig. 1), mirabile figura tracciata su di un foglio che, ripiegato in quattro, molto tempo dopo sarebbe stato riutilizzato per annotare minute spese. Ma insieme, attraverso gli anni, l’artista si serviva del mezzo grafico per fare doni ad amici a lui particolarmente cari: sono i fogli oggi chiamati, secondo una fortunata definizione, presentation drawings: invenzioni altamente elaborate, classicamente rifinite e dai soggetti complessi, quasi sempre profani e spesso di non facile interpre38 tazione, di cui beneficiarono tra gli altri Gherardo Perini, Tommaso Cavalieri, Vittoria Colonna. Sono disegni sopravvissuti alla furia distruttrice dell’artista non solo perché custoditi gelosamente dai proprietari, ma anche per il loro essere, appunto, portati compiutamente a termine, e dunque “perfetti”. A Cosimo I de’ Medici era da tempo venuta l’idea di raccogliere disegni di artisti celebri quando Michelangelo era ancora in vita, ma ormai residente da lunghi anni a Roma, lontano dagli accadimenti della corte fiorentina; perciò il duca, al fine di esaudire le sue brame collezionistiche, per quanto riguardava il Buonarroti non si rivolse direttamente a lui, ma al già citato Tommaso Cavalieri, il giovane patrizio romano amico di Michelangelo fin dal 1532, e destinatario del gruppo più consistente, e straordinario per qualità, di presentation drawings. Già nel 1562, due anni prima della morte del suo grande amico, Cavalieri si era trovato costretto a regalare a Cosimo I la meravigliosa Cleopatra (fig. 3), il disegno che aveva ricevuto in dono da Michelangelo circa trent’anni prima; non si trattenne però dall’affermare, nella lettera che accompagnava la forzata cessione, che privarsi di quell’opera gli aveva procurato non meno sofferenza della perdita di un figlio. Per avere di più, con ogni evidenza Cosimo I aspettava la morte del grande vegliardo, e una facile a prevedersi eredità. Non meraviglia dunque che Cosimo, in una lettera inviata al suo ambasciatore Averardo Serristori meno di un mese dopo la morte di Michelangelo, definisse quel suo bruciar disegni “atto non degno di lui”; e che grande delusione si avvertisse nella corte fiorentina per una decisione che aveva tolto al duca un patrimonio che già riteneva suo. Fu così che Vasari consigliò caldamente a Leonardo Buonarroti, nipote ed erede, di chiedere in primo luo- Leonardo ubbidì prontamente, ma si spinse anche oltre, donando a Cosimo il mirabile marmo con la Madonna della scala (fig. 2), eseguito da Michelangelo appena adolescente e da sempre di proprietà della famiglia; e recuperando a caro prezzo sul mercato romano le poche, ma pregevolissime, carte autografe ancora disponibili. Tra queste, lo splendido foglio con l’Annunciazione, ancor oggi al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Per questa via dunque, come sappiamo ancora da Vasari, molti “disegni, e schizzi e cartoni di mano di Michelagnolo” entrarono a far parte delle collezioni medicee; e pochi mesi dopo, alla morte di Gherardo Perini, “tre carte con alcune teste di matita nera divine” divennero di proprietà di Francesco de’ Medici, “principe di Fiorenza, che le tiene per gioie, come le sono”. Anche le “teste divine”, ormai identificate con sicurezza dalla critica, fanno tuttora parte del catalogo sterminato del succitato Gabinetto. Quando, nel secondo decennio del Seicento, Michelangelo Buonarroti il Giovane, figlio di Leonardo, decise di allestire una serie di sale monumentali nella casa di famiglia di via Ghibellina, trasformando gran parte della propria abitazione in un museo dedicato alla memoria del grande avo e alla esaltazione dei fasti di famiglia, la Madonna della scala e una parte dei disegni donati ai Medici gli furono restituiti, come segno di alto apprezzamento, dal granduca Cosimo II. Tra i fogli michelangioleschi tornati a casa c’era però un nuovo, preziosissimo acquisto: quel famoso disegno raffigurante Cleopatra, che con tanto dolore Cavalieri aveva dovuto cedere alle collezioni medicee. Michelangelo il Giovane gradì senza dubbio l’arrivo in Casa Buonarroti di un’opera straordinaria; e non meraviglia che un così memore pronipote stesse ordinatamente sistemando negli armadi della MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA sala detta “Studio” la maggior parte dei disegni, raccolti in volumi. Volle però esporre nel suo “Scrittoio” (fig. 4), il ristretto e raffinato ambiente nel quale si ritirava per attendere ai suoi studi, la restituita Cleopatra (fig. 3). Ma in quegli anni anche altri fogli michelangioleschi che sembrarono di particolare bellezza al padrone di casa furono incorniciati e appesi alle pareti delle nuove sale: per esempio, nella “Camera degli angioli”, il cartonetto con la Madonna col Bambino (fig. 5), senza dubbio uno dei più emozionanti capolavori della Collezione; e, nella “Camera della Notte e del Dì”, il primo progetto grafico per la facciata di San Lorenzo (fig. 6), segno quest’ultimo, che qui volentieri si cita, di un riguardo speciale (e raro a quei tempi) per un disegno architettonico. Da questa notizia si può dedurre che Michelangelo il Giovane non dubitava dell’autografia del nostro 45 A, ormai 39 2. Michelangelo Buonarroti, Madonna della scala, circa 1490. Firenze, Casa Buonarroti 3. Michelangelo Buonarroti, Cleopatra, 1535. Firenze, Casa Buonarroti, 2 F 4. Firenze, Casa Buonarroti, Camera della Notte e del Dì, “Scrittoio” tornato dopo anni di incertezze alla sua legittima paternità. Da questo momento in poi, i disegni di Michelangelo rimasti nelle collezioni medicee e quelli devotamente conservati da Michelangelo il Giovane costituirono due nuclei indipendenti l’uno dall’altro. La raccolta di proprietà della famiglia Buonarroti, che ben presto si arricchì di alcuni pezzi appartenuti a Bernardo Buontalenti, era a questo punto la più cospicua del mondo; e tale rimane tuttora, con i suoi più di duecento fogli, nonostante i gravissimi assalti subiti: fu infatti impoverita alla fine del Settecento da una prima vendita che il rivoluzionario Filippo Buonarroti fece a Jean-Baptiste Wicar, pittore e collezionista tristemente noto anche per i disinvolti acquisti fatti in nome della Francia e del suo imperatore; e nell’ottobre del 1859 da una seconda, che il cavalier Michelangiolo Buonarroti fece al British Museum. Rimandiamo, per precise notizie su questi passaggi di proprietà, al saggio di Dora Thornton e Jeremy Warren datato 1998, dove, con l’intento di passare in rassegna le acquisizioni di fogli michelangioleschi da parte del British Museum si finisce col fornire una narrazione davvero interessante, particolareggiata e partecipe com’è, degli ultimi cinquant’anni in cui Casa Buonarroti rimase di proprietà della famiglia. Dalle vendite suddette la Collezione della Casa usciva dunque privata di non pochi importanti fogli, che ora fanno parte delle collezioni del British Museum, dell’Ashmolean Museum, perfino del Louvre. Le opere grafiche passate ad altre collezioni erano però soprattutto disegni di figura; è rimasto invece pressoché intatto l’imponente gruppo di disegni di architettura, in numero di oltre centoventi di sicura paternità michelangiolesca, che attraversando l’intera vita del Maestro, spaziano dalla lunga esperienza presso la fabbrica di San Lorenzo a Firenze fino agli stupendi progetti romani della vecchiaia. Si danno queste indicazioni anche per far comprendere come si riesca, attingendo soltanto a questa fonte, a dare una visione piuttosto completa della progettualità di Michelangelo architetto a Roma. Come gli atteggiamenti collezionistici di Cosimo I insegnano, già nel Cinquecento l’opera grafica, specialmente se riferita ad artisti di grande e solida fama, era apprezzata e ricercata, ma senza dubbio non si comprendeva ancora la portata straordinaria di questo mezzo d’espressione come momento progettuale finalizzato a dipinti, sculture, monumenti. Lo stesso Michelangelo, come abbiamo visto, voleva distrutto ciò che non gli appariva ben rifinito e terminato. (Affascina, lo diciamo di passata e non più che tra parentesi nel presente contesto, la differenza fra questo genere di incompiutezza e il “non finito” michelangiolesco). Ne consegue che dobbiamo riportarci a tempi molto più vicini a noi per vedere compresi e valutati nel loro intrinseco valore i disegni di architettura. E a tutt’oggi, l’iniziativa vicentina del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza, alla quale la Casa Buonarroti si è con impegno e partecipazione associata tra 2006 e 2007 con la mostra Michelangelo e il disegno di architettura, si rivela utile anche in questo senso: si parlò allora di disegni d’architettura di Michelangelo e se ne mostrarono esempi insigni proclamandone l’intrinseco valore, celebrando la forza e 40 michelangelo architetto a roma la bellezza del progetto in sé. L’affascinante esposizione curata per la Casa Buonarroti da Pietro Ruschi nel 2007 su Michelangelo architetto a San Lorenzo indagava invece, dividendola in quattro temi, la lunga esperienza nel complesso laurenziano che dal 1516 tenne l’artista costantemente impegnato fino al 1534, anno della sua partenza senza ritorno per Roma. Attraverso la puntuale analisi di tali vicende emersero problemi ancora aperti, come l’individuazione di una fabbrica preesistente alla Sagrestia Nuova, la realizzazione della celebre scala del ricetto della Biblioteca Medicea Laurenziana, l’interpretazione dei disegni di Michelangelo per una irrealizzata “libreria secreta”, il rapporto della Tribuna delle Reliquie con la controfacciata quattrocentesca della basilica . Per la nostra istituzione, dunque, con la mostra che si apre ai Musei Capitolini si porta avanti un discorso consapevolmente iniziato da tempo. Non a caso abbiamo deciso, con Mauro Mussolin, di non esplorare soltanto il glorioso trentennio romano della vecchiaia, ma al contrario di cominciare da soggiorni pre41 5. Michelangelo Buonarroti, Madonna col Bambino, circa 1525. Firenze, Casa Buonarroti, 71 F 6. Michelangelo Buonarroti, Primo progetto per la facciata di San Lorenzo, 1516. Firenze, Casa Buonarroti, 45 A Sembrano quasi un incredibile ex-tempore i ventotto disegni di bastioni di Casa Buonarroti, carichi d’avvampante furore e dirompente energia. Sono soltanto planimetrie, ma non vanno considerati come studi preparatori in vista di una futura costruzione. [Michelangelo] sapeva che non sarebbero stati mai costruiti: non c’era il tempo né la volontà […]. Sarebbe tuttavia un errore considerare quei disegni come una sorta di avventura intellettuale in uno stato di eccitazione patriottica, ma sostanzialmente isolata nel percorso della sua opera architettonica. cedenti per indagare l’impatto del giovane artista con una realtà complessa come quella romana, che acuì senza dubbio il rapporto con l’antico in lui così presente per tutto il corso della vita. Torniamo alla storia della Collezione. Un discorso a parte meriterebbero i disegni di fortificazione, espressione di un periodo unico nella biografia di Michelangelo, nominato durante la seconda repubblica fiorentina “generale governatore et procuratore delle fortificazioni”. Investito di una carica così importante, incoraggiato dalla stima dei concittadini e ben fermo nella fede repubblicana, Michelangelo elaborò allora una serie di proposte di difesa per le porte delle mura, interventi che oggi si possono precisare solo attraverso lo studio degli straordinari studi di fortificazione della Collezione della Casa Buonarroti (fig. 7). Suggestiva in proposito l’ipotesi di Giulio Carlo Argan, e del tutto realistico il giudizio storicopolitico che ne consegue: 42 Nel 1858 moriva Cosimo Buonarroti, ultimo erede diretto della famiglia, che per questo possedeva anche la parte più consistente delle carte michelangiolesche, da lui lasciate per testamento al godimento pubblico, insieme al palazzo di via Ghibellina e agli oggetti in esso contenuti. Da allora, anche in anni difficili per l’istituzione, i disegni restarono permanentemente esposti all’interno del museo in cornici e bacheche, e solo nel 1960 furono finalmente sottratti, come racconta Paola Barocchi che promosse questa azione davvero meritoria, alle “forche caudine” di una “irrazionale custodia”, che aveva procurato non pochi danni ai fogli. Era allora direttore della Casa Buonarroti Giovanni Poggi, benemerito degli studi michelangioleschi, e alla direzione del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi era preposta Giulia Sinibaldi. I due studiosi decisero, nella primavera del 1960, di provvedere d’urgenza al ritiro, allo scopo di restaurarli, di tutti i fogli; e intanto di affidare a Paola Barocchi la stesura del catalogo integrale della Collezione della Casa Buonarroti, che doveva comprendere anche gli schizzi michelangioleschi dell’Archivio Buonarroti. Per iniziativa della Sinibaldi, al catalogo si aggiunse anche l’esame dell’opera grafica michelangiolesca agli Uffizi, “in modo da riunire, per comodità di consultazione, tutto il materiale delle raccolte fiorentine”. Ancora oggi i tre ben noti volumi rilegati in rosso, dai quali abbiamo estratto le citazioni di questo capoverso, usciti a stampa tra il 1962 e il 1964 come esito di una monumentale ricerca, costituiscono il riferimento obbligato e insostituibile per chi voglia comprendere e approfondire la storia dei disegni di Michelangelo presenti nelle collezioni fiorentine. Ricoverati dunque al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e ivi restaurati, i disegni della Collezione tornarono alla Casa Buonarroti soltanto nel 1975. Nel 1960 facsimili dei disegni di Michelangelo erano stati posti, nel museo, nelle cornici e nelle bacheche a sostituire gli originali, per ovviare in qualche modo a una traumatica mancanza. Dopo la grande mostra che celebrava il quinto centenario della nascita di Michelangelo e insieme il ritorno dei disegni in Casa Buonarroti, di nuovo le pareti del museo si riempirono di facsimili. Ormai invecchiate e soprattutto non più rispondenti alle attuali esigenze museologiche, queste copie sono state sostituite, dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso, dalla esposizione temporanea a rotazione, in una sala del museo appositamente attrezzata, di piccoli nuclei della Collezione, in accordo con l’attuale e corretta normativa di conservazione che ne vieta l’esposizione permanente. Il patrimonio grafico della Casa Buonarroti comprende anche le numerose carte di famiglia (dal 1399 al 1815) e i molti autograMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA fi di Michelangelo (lettere, rime, ricordi, ma anche disegni, come accade nel raro foglio con autoritratto dell’artista e sonetto esposto nella nostra mostra), attualmente riuniti nei centosessantanove volumi dell’Archivio Buonarroti. Anche questo archivio ha subito un lungo esilio: il suo quasi centenario soggiorno presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze ha portato a importanti operazioni di riordino e di conservazione, in anni nei quali le forze della Casa erano piuttosto allo stremo. Di questo si dovrà avere per sempre riconoscenza. Ma è bello poter di43 7. Michelangelo Buonarroti, Studio di fortificazione per la porta al Prato d’Ognissanti, 1527. Firenze, Casa Buonarroti, 13 A re che qualche anno fa, quando i tempi sono sembrati maturi per un ritorno a casa, in un ambiente idoneo e già in attesa, questo ritorno è effettivamente avvenuto. Così come nel 1975 il direttore Charles de Tolnay vide rientrare dal Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, dopo un provvidenziale restauro, i disegni di Michelangelo e della sua scuola che costituiscono la Collezione della Casa Buonarroti, oggi possiamo rallegrarci del ritorno di un Archivio con il quale le ricerche in corso da noi richiedono un rapporto quotidiano, e al quale di necessità bisogna tornare per chiarire e comprendere episodi familiari di arte e di storia. Orientamenti bibliografici I disegni che fanno attualmente parte della Collezione della Casa Buonarroti sono stati spesso citati negli studi michelangiole44 schi fin dai tempi di Vasari. Gli esiti delle secolari ricerche fino all’inizio degli anni sessanta del XX secolo sono registrati nel catalogo in tre tomi di Paola Barocchi (Barocchi 1962-1964), più volte citato nel testo che precede. Questi fondamentali volumi contengono schede relative ai fogli della Collezione, provviste di esauriente bibliografia e riproduzioni fotografiche del recto e del verso, spesso accompagnate da particolari. Il Corpus dei disegni di Michelangelo redatto da Charles de Tolnay tra 1975 e 1980 (qui Corpus) aggiorna lo stato degli studi sino alla fine degli anni settanta del XX secolo, limitatamente però ai fogli autografi di Michelangelo, o ritenuti tali dall’autore. Nel 1985 è stato pubblicato un volume con le riproduzioni di tutti i disegni della Collezione, accompagnati da sintetiche schede di Alessandro Cecchi e Antonio Natali; il volume si apre con una illuminante in- troduzione di Luciano Berti (Berti 1985). Gli studi di Michelangelo dal Codice Coner, tutti conservati in Casa Buonarroti (tranne il foglio diviso in due metà del British Museum), sono stati oggetto della Strenna Utet 1987, curata da Giovanni Agosti e Vincenzo Farinella (Agosti, Farinella 1987a). Molti disegni della Collezione sono discussi da Michael Hirst nel suo Michelangelo and His Drawings (Hirst 1988). Sulla provenienza dalla Casa Buonarroti di nutriti gruppi di disegni giunti a metà Ottocento nelle collezioni inglesi si può utilmente leggere il saggio di Dora Thornton e Jeremy Warren The British Museum’s Michelangelo Acquisitions and the Casa Buonarroti, in “Journal of the History of Collections” (Thornton, Warren 1998). I disegni della Collezione hanno costituito una delle colonne portanti delle due grandi, e ormai classiche, mostre curate da Henry A. Millon e Craig Hugh Smyth e da Michael Hirst nel 1988-1989 che si tennero alla Casa Buonarroti, alla National Gallery of Art di Washington e al Louvre. I rispettivi cataloghi (Michelangelo Architect e Michelangelo Draftsman) arricchiscono la bibliografia per i pezzi presenti in mostra (Millon, Smyth 1988a; Hirst 1988b). Nell’ultimo decennio del Novecento, i fogli della Collezione hanno fatto parte di importanti eventi espositivi, in Italia e all’estero; in particolare, una nutrita scelta antologica di essi animava la mostra The Genius of the Sculptor in Michelangelo’s Work, tenutasi a cura di Pietro C. Marani, nel 1992, presso il Montreal Museum of Fine Arts (Marani 1992); e un consistente nucleo di disegni di architettura era presente tra 1994 e 1996 nelle varie edizioni (Venezia, Washington, Parigi, Berlino) della mostra Rinascimento. La rappresentazione dell’architettura da Brunelleschi a Michelangelo, a cura di Henry A. Millon e Vittorio Magnago Lampugnani (Millon, Magnago Lampugnani 1994). Un gruppo sempre omogeneo di disegni della Casa Buonarroti, ogni volta variato per motivi di conservazione, è il cuore di quella particolare forma promozionale per la conoscenza della Casa costituita dalla mostra Invito in Casa Buonarroti, a cura di Pina Ragionieri, che a partire dal 1994 ha visitato Londra, Edimburgo, Albi, Tokyo, Kyoto, San Paolo del Brasile, Valencia, Atlanta (Georgia), Toledo (Ohio), Roma, L’Aquila, Syracuse (New York), New York, e dal 15 ottobre di quest’anno a Seattle (Washington). A questa manifestazione si è affiancata, a partire dall’anno 2000, la mostra Michelangelo. Grafia e biografia, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich e Pina Ragionieri, rassegna composta, come la precedente, esclusivamente da opere di proprietà della Casa Buonarroti, nella quale a una copiosa campionatura di carte autografe di Michelangelo si affiancano disegni collegati con momenti salienti della vita del Maestro. Le tappe toccate finora da questa manifestazione, pensata per un pubblico di lingua italiana, sono state Milano, Brescia, Roma, Bienna (Ch), Catania, San Benedetto del Tronto. michelangelo architetto a roma Le esposizioni che si svolgono a scadenza annuale nelle quattro sale al piano terreno della Casa Buonarroti sono, ormai da oltre un ventennio, frequente occasione per ricerche e approfondimenti su settori della nostra Collezione grafica: si vedano in particolare i cataloghi delle mostre Disegni di fortificazioni da Leonardo a Michelangelo, a cura di Pietro C. Marani (Marani 1984), Michelangelo e i maestri del Quattrocento, a cura di Carlo Sisi (Sisi 1985), Michelangelo e l’arte classica, a cura di Giovanni Agosti e Vincenzo Farinella (Agosti, Farinella 1987b), Le due Cleopatre e le “teste divine” di Michelangelo, a cura di Paola Barocchi (Barocchi 1989), Costanza ed evoluzione nella scrittura di Michelangelo, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich (Bardeschi Ciulich 1989), Rodin e Michelangelo, a cura di Maria Mimita Lamberti e Christopher Riopelle (Lamberti, Riopelle 19961997), L’Adolescente dell’Ermitage e la Sagrestia Nuova di Michelangelo, a cura di Sergej Androsov e Umberto Baldini (Androsov, Baldini 2000), Vita di Michelangelo, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich e Pina Ragionieri (Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2001), Daniele da Volterra amico di Michelangelo, a cura di Vittoria Romani (Romani 2003), Vittoria Colonna e Michelangelo, a cura di Pina Ragionieri (Ragionieri 2005); i cataloghi delle due esposizioni dedicate a Michelangelo architetto, Michelangelo e il disegno di architettura, a cura di Caroline Elam (Elam 2006) e Michelangelo architetto a San Lorenzo, a cura di Pietro Ruschi (Ruschi 2007). 45 1. Roma, ponte Rotto, già ponte di Santa Maria ARCHITETTURE MINORI DI MICHELANGELO A ROMA 2. Anonimo (da Maarten van Heemskerck), Veduta circolare di Roma da Monte Caprino, 1536, particolare con il ponte Santa Maria. Berlino, Staatliche Museen - Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, 79D2, cc. 91v-92r Anna Bedon Nel 1546, all’età di settantuno anni, Michelangelo era ancora un uomo vigoroso e in buona salute. Si trovava a Roma dal 1534, aveva raggiunto la tranquillità economica nel 1535 quando Paolo III (1534-1549) gli aveva assegnato la rendita di un ponte sul Po a Piacenza e da alcuni anni non si era più occupato direttamente di architettura. Dal 1531 era servito-assistito dal buon Francesco di Bernardino d’Amadore, detto Urbino, e aveva un discreto numero di amici che frequentava1. Ma nel 1545 Michelangelo, alla conclusione dell’ultima opera per Paolo III – gli affreschi della cappella Paolina in Vaticano – era diventato piuttosto inquieto per il proprio futuro: sentiva che non avrebbe avuto ancora a lungo le forze per affrescare e scolpire e temeva che il papa gli revocasse la rendita per non essergli più utile2. Passò così un anno di incertezze sul da farsi, pensando di andare in pellegrinaggio a Santiago di Compostela e di investire quanto aveva accumulato in una rendita sicura per la vecchiaia3. Con la morte di Antonio da Sangallo il Giovane, l’8 agosto 1546, e la successiva nomina a responsabile di quasi tutte le fabbriche portate avanti da Sangallo, i problemi di Michelangelo si risolsero: in qualità di architetto, sarebbe stata sua competenza soltanto “l’ideazione” delle opere, mentre l’esecuzione sarebbe ricaduta su altri, rendendo ininfluente la forza fisica, lo stato di salute e l’età. Per Michelangelo la sola fabbrica di San Pietro in Vaticano fu una vera ragione di vita e sembrò poter morire solo quando quella fu a un punto tale da non poter più far venir meno il suo progetto. Nel 1547 non ebbe solo l’incarico per San Pietro, ma anche quello di palazzo Farnese, del Campidoglio e, dall’agosto 1548, anche quello della ristrutturazione di ponte Santa Maria4. In tutte queste opere organizzò i cantieri in modo uniforme, scelse so- 46 prastanti, secondi architetti e maestranze, pretendendo di nominare personalmente i propri collaboratori. La necessità di sostituire tutti coloro che già lavoravano a opere iniziate da Antonio da Sangallo era dovuta anche al carattere particolarmente “sperimentale”, dal punto di vista costruttivo, di molte opere dell’ultima fase della sua vita. In San Pietro, Michelangelo aveva deciso di costruire in marmo la calotta della cappella del Re di Francia e la scelta come secondo architetto di Juan Bautista de Toledo si deve senza dubbio alla sua conoscenza della stereometria applicata al taglio della pietra. A Roma, tra l’altro, Michelangelo si trovava di fronte a usi e metodi costruttivi ignorati a Firenze: nell’Urbe infatti si fabbricava con conglomerati cementizi che permettevano il reimpiego dei molti frammenti che provenivano dalle rovine della città o con murature di materiali diversi tenuti insieme da abbondante malta. Il conglomerato cementizio dovette sembrare a Michelangelo una tecnica straordinariamente congeniale, perché poteva essere gettato in casseforme con un metodo non diverso da quello utilizzato per il getto delle statue in bronzo. La potenza e la compattezza del San Pietro di Michelangelo si devono alla sua capacità di sfruttare a pieno la potenzialità della massa, come fosse creta. Un simile metodo richiedeva maestranze preparate e continuamente poste sotto controllo, vere “mani” del Maestro. La scelta degli scalpellini doveva essere attenta, i manovali perfettamente coordinati dal soprastante e dal mastro muratore dai quali dovevano prendere ordini e tutto avrebbe dovuto essere quotidianamente riferito a Michelangelo. L’organizzazione dei cantieri michelangioleschi diverrà, quindi, una scelta strategica. Spesso soprastanti e mastri vissero a casa del Maestro perché, non potendo recarsi spesso in cantiere e prevedendo di vivere non troppo a lungo, escogitò questa particolare organizzazione del lavoro che gli permetteva di seguire il progressivo sviluppo delle opere a distanza. Del cantiere di San Pietro incaricò Sebastiano Malenotti da San Gimignano, del cantiere di palazzo Farnese Mario Maccarone, soprastante anche alla fabbrica del Campidoglio. I fornitori dei materiali erano spesso i medesimi per tutte le opere. Molti dei lavoranti nelle ditte di scalpello in San Pietro avevano precedentemente collaborato con lui in altri cantieri fiorentini. Dal momento che l’età non gli permetteva di assumere responsabilità troppo pesanti, prese la direzione solo dei “monumenti” più prestigiosi. Il 6 agosto 1548, il Primo Conservatore del Comune di Roma comunicò al Consiglio l’intenzione del papa di restaurare il ponte Santa Maria servendosi dell’opera di Michelangelo, ma chiedendo al Comune di esigere la relativa tassazione5. Non si tratta dunque di un’opera che viene affidata all’architetto del Popolo Romano, ma a quello della fabbrica di San Pietro, Primo Architetto, Scultore e Pittore del Palazzo Vaticano. Posto a valle dell’isola Tiberina, ponte Santa Maria costituiva una sfida tecnica che dovette essere molto piaciuta al “nuovo” Michelangelo sperimentatore. Il ponte, del quale oggi resta in piedi una sola campata (fig. 1), collegava le due zone poste in corrispondenza del tempio della Fortuna Virile al Foro Boario da un lato e dell’attuale piazza Castellani in Trastevere dall’altro. Ponte di fondazione romana, all’epoca di Michelangelo esso aveva ancora tutte le campate in piedi, ma “era indebolito e rovinava” perché i piloni facevano resistenza al flusso delle acque del Tevere accelerate dalle rapide che si trovano presso l’isola Tiberina e dalla curva data dall’ansa del fiume. I piloni del ponte romano erano infatti mal posizionati perché perpendicolari rispetto alla carreggiata del ponte, diversamente da quelli dell’attuale ponte Palatino costruiti con una giacitura che asseconda il flusso della corrente. Nei casi di piena i piloni del ponte Santa Maria erano fortemente sollecitati su uno solo dei loro lati. Il restauro si rendeva necessario perché tale strada di collegamento tra le due rive era quella maggiormente utilizzata per il trasporto dei pesanti materiali necessari alla fabbrica di San Pietro, provenienti dal Colosseo e dalle terme di Caracalla: “fu ordinato da Michelagnolo per via di casse il rifondare e fare diligenti ripari alle pile”6. I documenti non indicano quali archi fossero pericolanti, ma solo che si temeva “la ruina delli doi archi” e pertanto veniva disposto il rinforzo di un solo pilone7. L’opera era di iniziativa pontificia, non comunale, pertanto la contabilità venne tenuta da Leonardo Boccaccio “commissario generale” della Camera Apostolica. Il 17 luglio 1548 si cominciò a raccogliere il denaro per il restauro attraverso una tassazione straordinaria; il 20 luglio si iniziarono a comprare i materiali e Michelangelo avviò il cantiere, facendo “spese grosse in legnami e michelangelo architetto a roma trevertini a benefizio di quella opera”9. Buonarroti scelse come “comisario” alla fabbrica Jacopo Ermolao al quale fu dato potere di spedire i mandati di pagamento al Banco degli Altoviti, inviati nei primi tempi personalmente controfirmati dal Maestro; per Ermolao affittò inoltre una casa presso il ponte perché potesse risiedere costantemente sul cantiere – si tratta forse dell’edificio visibile nelle vedute precedenti il 1561, collocato esattamente al centro del ponte, trasformato in cappella nel 1551 (fig. 2)9. Michelangelo nominò Francesco Prata soprastante dei lavori e Andrea Schiavone, o Seimone, “capo Maestro della fabbrica in detto ponte”, ma anche “deputato per M. Michel Angelo sopra il Ponte Santa Maria”10. I lavori veri e propri iniziarono nel settembre 1548 e nei primi pagamenti compare anche Giorgio Vasari con la qualifica di “revisore delli conti”11. Il cantiere fu condotto alacremente, notte e giorno, specie d’estate, fino alla fine d’ottobre 1549, quando fu smontato e la casa di Ermolao venne lasciata libera12. La prima tranche di lavori al ponte era ultimata e si prevedeva di avviare in breve una seconda fase. Tuttavia, nell’estate del 1551, con grande amarezza di Michelangelo, la Camera Apostolica incaricava l’architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio per “rifare il fondamento del puntone del pilastro del ponte Santa Maria, quale fu rifondato l’anno passato e mancò a rifondarsi”, e cioè un nuovo pilone che si doveva rifare nei modi del pilone costruito l’anno precedente da Michelangelo; inoltre Nanni era “tenuto murare ditto puntone a l’alteza de li altri, fatti da papa Nicola e Martino, di travertini di fuora e dentro di buona materia di matoni e pesami, come ancora sono fatti gli altri già fatti a detto ponte”13. Non si trattava della prosecuzione del lavoro, ma di un pilone distante da quello già fatto: bisognava, infatti, restaurare integralmente anche i due archi che si trovavano vicino a quelli già sistemati nel XV secolo da Martino V (1417-1431) e Niccolò V (1447-1455). 47 3. Giovan Antonio Dosio, Ponte S. Maria con la parte ristaurata, circa 1575. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2582 A 4. Antonio Tempesta, Pianta prospettica di Roma, 1593, particolare con il ponte Santa Maria 5. Jan Asselijn, Veduta di ponte Santa Maria o ponte Rotto, 1635-1645. Amsterdam, Rijksmuseum Probabilmente quello assegnato a Nanni era il pilone presso la testa di ponte del Foro Boario, perché i deputati lasciarono facoltà di “racconciare, se parerà sia di bisogno in alcuna parte, l’arco a volta prima che comincia di terra”, cioè l’arco verso il Foro Boario dove il ponte aveva, oltre alla testa, un ulteriore arco di sostruzione, attaccato alla riva dalla parte dell’Aventino, ben visibile in un disegno di Giovanni Antonio Dosio (fig. 3). Il lavoro fu retribuito a cottimo, diversamente da come disposto nel cantiere di Michelangelo, e fu interesse di Nanni poter spendere meno possibile per avere maggior margine di guadagno. Così, nel giro di tre anni furono risistemati quattro archi su sei, ma solo due piloni: Nanni rifece il primo pilone verso Foro Boario e Michelangelo il primo verso Trastevere. Rimasero da restaurare i due archi centrali e i tre piloni centrali. Il secondo pilone (dal lato di Trastevere) crollò durante l’alluvione del 1557, tirandosi dietro sia il secondo arco – uno dei due restaurati da Michelangelo –, sia il terzo arco, insieme alla casetta che si trovava al centro del ponte, mai più ricostruita (fig. 4)14. La sostituzione di Michelangelo con Nanni fu senza dubbio un’ingiustizia e le accuse di imperizia da parte di Nanni a Michelangelo totalmente infondate: “questo si è, come sa Vostra Eccellenza, quanti danari si spesono a Ponte Santo da Michelagnolo e dal Boccaccio; tale che questo anno saranno tutti isbigottiti. E’ lasciorno l’opera per disperata, e io la presi, e con altri modi in 15 giorni la spedii, che se ne stupì tutta Roma; di sorta che li errori fatti mi feciono bene”15. Nonostante tali calunnie, il pilone fondato da Michelangelo rimase infatti in piedi fino al 1885 (fig. 5), quando per costruire il moderno ponte Palatino furono distrutti sia l’arco sia il pilone di Buonarroti. Con una certa superficialità, il nuovo pontefice Giulio III del Monte (1550-1555) mostrò inizialmente di dare credito alle voci calunniose di quelli che Vasari chiamò genericamente “cherici di Camera”, personaggi sicuramente mal disposti verso il Maestro dopo che questi era riuscito a estrometterli completamente dalla fabbrica di San Pietro. Ma il papa ricambiò in qualche modo Buonarroti chiedendogli progetti e pareri in più occasioni e trasformandolo in un vero e proprio consigliere artistico. A lui si rivolse per supervisionare e scegliere gli artisti destinati a realizzare la tomba di famiglia in San Pietro in Montorio e la villa Giulia, in relazione alla quale Vasari scrisse: “io fui nondimeno quegli che misi sempre in disegno i capricci del papa, che poi si diedero a rivedere e correggere a Michelangelo”16. Ma Giulio III commissionò a Michelangelo anche i progetti per una nuova scala nel Belvedere vaticano e per un nuovo palazzo di famiglia. Nel 1550 Giulio III, infatti, chiese un appartamento nel cortile superiore del Belvedere vaticano, da costruirsi dietro il muro termi- 48 6. Ricostruzione del fronte della scala del Belvedere vaticano di Michelangelo 7. Ricostruzione dell’aspetto originario della scala del Belvedere vaticano di Michelangelo nale. Si trattava di alcune stanze separate tra loro dal nicchione centrale, che dovette per questo essere rimpicciolito al fine di creare un corridoio semianulare che collegasse le due parti (figg. 6-7). Ciò comportò la distruzione della bella scala circolare bramantesca e la sua sostituzione con il nuovo scalone michelangiolesco17. Il 20 settembre 1551 si pagò il trasporto di “diverse pietre di peperino, per far la scalla di Belvedere”18. A citare Michelangelo michelangelo architetto a roma 8. Giovan Antonio Dosio, Veduta del cortile del Belvedere vaticano, 1558-1561. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, A 2559 come autore di questa scala fu Vasari: “perché né alla Vigna Iulia [Giulio III] fece cosa alcuna senza il suo consiglio, né in Belvedere, dove si rifece la scala che v’è ora in cambio della mezza tonda che veniva innanzi, saliva otto scaglioni et altri otto in giro entrava in dentro, fatta già da Bramante, che era posta nella maggior nicchia in mezzo Belvedere. Michelagnolo vi disegnò e fe’ fare quella quadra, coi balaustri di preperigno, che vi è ora, molto bella”19. La scala a due rampe con al centro un podio fu addossata al muro per non invadere il cortile superiore del Belvedere e per coprire l’angolo d’attacco tra l’ordine del cortile e quello interno al nicchione. La modesta altezza del piano da raggiungere – solo quattro metri – spiega la brevità della salita e i due scaloni a rampa unica, principale differenza, insieme alla mancanza di una nicchia centrale, rispetto allo scalone del Palazzo Senatorio in Campidoglio realizzato tre anni prima20. La forma e le dimensioni dei gradini sono identiche a quelle dello scalone senatorio: gli scalini delle rampe del Belvedere sono a forma di U e le ali laterali della U reggono i balaustrini, due per ogni gradino21. Il lavoro fu completato nell’inverno del 1552, quando l’intera ala era già stata coperta dai tetti, come mostra un disegno di Giovanni Antonio Dosio (fig. 8)22. La balaustra originaria del Belvedere è perduta, ma ne resta memoria in un disegno di Giovanni Colonna da Tivoli che studia il ritmo dei balaustrini (figg. 9-10)23. La maggior differenza con la scala del Palazzo Senatorio era principalmente cromatica: se la scala del Belvedere aveva balaustri in peperino grigio scuro, con un fronte costituito da mattoni a vista color rosso in contrasto con un cortile realizzato in travertino e mattoni, lo scalone del Palazzo Senatorio, era realizzato in travertino grigio chiaro in contrasto con la facciata originaria del palazzo caratterizzata dal colore assai scuro della sua muratura in tufo. Nel Belvedere, tale attento studio coloristico deve essere stato con- 49 9. Giovanni Colonna da Tivoli, Prospetto parziale dello scalone del Belvedere, 1554. Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. Lat. 7721, c. 93v cepito per dare deliberatamente risalto a una scala di modeste dimensioni. Due schizzi di Michelangelo disegnati nei due lati del foglio di Casa Buonarroti 19 F recto-verso (cat. 23a-b; Corpus 368 recto-verso) riproducono una scala a due rampe simile sia a quella del Belvedere sia allo scalone del Campidoglio. La maggior parte della critica ha posto tali schizzi in relazione col Campidoglio perché in entrambi i lati del foglio sono più volte tracciate alcune figure ritenute studi preparatori per il Giudizio universale e studi per una tomba, assai spesso riconosciuta come quella di Cecchino Bracci che fu realizzata nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli su disegno di Michelangelo (1544). È stato altrove dimostrato come, dal momento che le figure appartengono a uno studio del Maestro per il San Giovanni Battista nel deserto di Daniele da Volterra oggi alla Pinacoteca Capitolina24, i disegni del foglio possano essere convincentemente datati intorno al 1550: ciò rende certa la relazione degli schizzi di scalone monumentale con quelli per il Belvedere, mentre mette in discussione il rapporto tra gli schizzi per monumento funebre ivi contenuti con il progetto per la tomba di Cecchino Bracci, precedenti di circa un lustro25. Nel 1551, Giulio III aveva deciso di costruire a Roma un palazzo per la propria famiglia presso la chiesa di San Rocco. Per tale progetto, che intendeva incorporare le vestigia del mausoleo di Augusto, aveva chiesto un modello a Michelangelo. In quegli anni, la vita domestica di Buonarroti stava lentamente cambiando poiché con il venir meno della sua autonomia fisica le persone che vivevano con lui andavano aumentando. Con lui aveva iniziato ad abitare Sebastiano Malenotti, soprastante della fabbrica di San Pietro, il quale coadiuvò Michelangelo nella elaborazione del modello destinato a questo palazzo. Non ci sono rimasti disegni, ma Condivi (1551) e Vasari (1568) scris- 50 10. Giovanni Colonna da Tivoli, Continuazione del prospetto dello scalone del Belvedere, 1554. Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. Lat. 7721, c. 94r sero rispettivamente: “Fece nondimeno Michelagnolo a requisizione di Sua santità un disegno d’una facciata d’un palazzo, il quale avea in animo di fabricare in Roma; cosa, per chi lo vedde, inusitata e nuova, non ubbligata a maniera o legge alcuna, antica over moderna”26 e “fecegli fare un modello d’una facciata per un palazzo che Sua Santità desiderava fare allato a San Rocco, volendosi servire del mausoleo di Augusto per il resto della muraglia; che non si può vedere, per disegno di facciata, né il più vario, né il più ornato, né il più nuovo di maniera e di ordine, avenga, come s’è visto in tutte le cose sue, che e’ non s’è mai voluto obligare a legge o antica o moderna di cose d’architettura, come quegli che ha auto l’ingegno atto a trovare sempre cose nuove e varie e non punto men belle. Questo modello è oggi appresso il duca Cosimo de’ Medici, che gli fu donato da papa Pio Quarto quando gli andò a Roma, che lo tiene fra le sue cose più care”27. Tra l’ottobre 1551 e il febbraio 1552 vi furono vari pagamenti “per il modello di Nostro Signore” ritirati da Malenotti delegato da Michelangelo: “Denari dati a buon conto questo mese di ottobre presente 1551 a Bastiano soprastante della fabrica di San Pietro a buon conto del modello che M.° Michelagnolo pittor ha cominciato per fare una facciata di un palazzo di ordine di Sua Beneditione: scudi 10”28. Il modello in legno di tiglio venne realizzato in scala 1:24 o 1:30; era di grandi dimensioni e prevedeva 16 colonne e 16 semicolonne o pilastri, sette finestre quadre, cinque “rivolte” di finestre, un numero imprecisato di maschere e 385 balaustri29. Per Bruno Contardi il progetto prevedeva una facciata a due piani e sette campate, elevata di fronte al mausoleo, quest’ultimo coronato da una balaustra tutt’intorno. Sicuramente il fronte principale non sarebbe stato rivolto verso via di Ripetta, zona di nuova urbanizzazione e cattive frequentazioni, ma sulla futura piazza 11. Egidius Sadeler, Veduta del Mausoleo di Augusto, Marcus Sadeler editore, Praga 1606 degli Otto Cantoni, verso via del Corso: il lato rappresentato da tutte le incisioni (fig. 11). La sfida posta dal progetto di questo palazzo non era tecnica, ma puramente concettuale. Porre davanti al mausoleo di Augusto il prospetto di un palazzo in una zona di forte rilancio edilizio, che permetteva al tempo stesso ampi spazi di sviluppo, significava misurarsi con la scala e la memoria di un monumento antico del quale sarebbe rimasta la grandiosità e la suggestione, ma non il significato, adesso completamente rivisitato. Non è dato sapere quale potesse essere questo nuovo significato, probabilmente legato al toponimo medievale del mausoleo, ovvero monte dell’Austa, possibile richiamo al nome della famiglia del papa: impresa araldica in forma di palazzo urbano con l’antico sepolcro ricoperto nuovamente di terra e cipressi30. Nel 1552 la costruzione del palazzo fu abbandonata in favore di altri due edifici del papa, di città e di villa: il modesto palazzo Cardelli in Campo Marzio e la magnifica villa Giulia sulla via Flaminia. Come ricordato da Vasari, a seguito di questo cambiamento di rotta del progetto del palazzo col mausoleo d’Augusto rimase solo il modello di legno, oggi perduto, che fu donato da Pio IV al duca Cosimo I nel 1560 quale prezioso cimelio di Michelangelo31. Durante lo stesso papato, il Maestro fu invitato dal cardinal camerlengo a fornire un progetto per la chiesa della Compagnia di Gesù in Roma. Il nuovo ordine religioso era stato riconosciuto da Paolo III nel 1540, il quale aveva concesso la chiesa di Santa Maria della Strada presso piazza Altieri, futura piazza del Gesù. Fin dal 1548 i padri gesuiti avevano fatto eseguire alcuni disegni per una nuova chiesa e, nel 1549, i Maestri di Strada avevano approvato il “filo” – ovvero il perimetro in relazione alle strade cittadine – per il progetto del modesto architetto Jacopo Meleghino, allora sovrintendente alle fabbriche papali32. Morto Meleghino alla fine del 1549, dovendo scegliere un nuovo architetto i gesuiti incaricarono Nanni di Baccio Bigio, che propose il disegno di una chiesa “a tre navi e colonne” per la quale fu concesso un nuovo filo33. A ritardare la costruzione vi furono, però, due contingenze: bisognò ancora una volta cambiare il filo della chiesa a causa della nuova via che i Maestri di Strada stavano tracciando dal Campidoglio a piazza Altieri e fu necessario far fronte alle lamentele dei proprietari dei terreni sui quali sarebbe stata realizzata la nuova chiesa. Nel 1554, il cardinal camerlengo Bartolomeo de la Cueva, nuovo finanziatore dell’opera, chiese a Michelangelo un progetto per la chiesa del Gesù, dando modo a Buonarroti di vendicarsi di Nanni che l’aveva sostituito su ponte Santa Maria. In tre occasioni (10, 14 e 21 giugno 1554), padre Alfonso Polanco, procuratore dell’ordine, riferì più volte del nuovo incarico dato a Michelangelo: “Quanto alla nostra chiesa è stato a vedere il luogo Mastro Michel’Angelo scultore et a cura de fare il michelangelo architetto a roma modello, di modo che presto, con l’aiuto di Dio, se comincerà a fabricare” e ancora “de la fabrica de la yglesia ha tomado cargo Michael Angelo por devotion, que es el que tiene el assumpto principal de la obra de San Pedro, y es tenido por el hombre mas señalado que ha havìdo muchos tiempos ha; y hale puesto en ello el cardinal de la Cueva, que tiene à esta obra specìal inclìnation”34. Anche Ignazio di Loyola, il 21 luglio 1554, informò il teologo e legato imperiale Didaco Hurtado che Michelangelo aveva assunto l’incarico “por devotion sola, sin enteresse alguno”. Il progetto sarebbe stato realizzato su un terreno più piccolo di quello poi effettivamente utilizzato, discosto dalla strada papale, attuale via del Plebiscito. Gerolamo Altieri, infatti, proprietario di alcune case tra la vecchia chiesa e la strada papale, aveva avuto il permesso di costruirvi sopra un palazzetto col fronte verso la piazza e il fianco sulla strada, separato dalla nuova chiesa del Gesù da una piccola via35. Entrambi, palazzetto e chiesa, avrebbero avuto la facciata su piazza Altieri, ma è chiaro che il prospetto della chiesa sarebbe risultato di ampiezza assai minore dell’attuale, come d’altronde la prevista casa professa, residenza dei religiosi. La posa della pietra angolare avvenne il 6 ottobre 1554 e l’architetto, di cui non si disse il nome, “descesse al fondamento per asetar la pietra”; ma i problemi sorti con i vicini, che si rifiutarono di vendere i terreni, insieme all’insoddisfacente affaccio verso la piazza e all’insufficiente spazio riservato alla casa professa, portarono Ignazio di Loyola a interrompere i lavori e accantonare il progetto36. Tuttavia qualcosa doveva essere stato costruito almeno fin dall’epoca di Nanni di Baccio Bigio, poiché in una memoria senza data, ma di poco successiva al 1554, i padri gesuiti si lamentarono che Gerolamo Altieri era riuscito a far cambiare il filo della chiesa a favore del suo nuovo palazzetto, nonostante fosse già stato fatto un pilastro della chiesa “nel qual, dicono, furono spesi molti dinari, et adesso per haver mutato il dissegno […] ne fanno perdere quelle spese”37. Con il terreno disponibile all’epoca – che avrebbe dovuto accogliere anche un chiostro convenientemente grande per ospitare la casa professa – sarebbe stato possibile realizzare una chiesa lunga 26 canne o poco più (circa 58 m) e larga al massimo 18 canne (circa 40 m). Il problema è determinare quale fosse il progetto di Michelangelo. Anni Popp ha per prima indicato nel foglio 1819 A del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (Corpus 604 recto) il progetto di Michelangelo caratterizzato da una planimetria di chiesa a navata unica con cappelle laterali di lunghezza pari a 25 canne (fig. 12). Antonia Nava Cellini, seguita da Charles de Tolnay, attribuisce invece tale progetto a Bartolomeo de’ Rocchi38. James Ackerman ha diversamente pensato che quel disegno rappresentasse il progetto di Nanni di Baccio Bigio del 1550-1554 ritoccato da Michelangelo a sanguigna per ridurre le lunghezze del 51 12. Nanni di Baccio Bigio o Bartolomeo de’ Rocchi, Pianta della chiesa del Gesù di Roma, 1550-1554. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 1819 A transetto e dell’abside. L’ipotesi è stata accolta da Bruno Contardi, mentre Klaus Schwager, pur condividendo l’attribuzione dei segni a sanguigna a Michelangelo, ha accettato l’attribuzione a de’ Rocchi per la pianta disegnata a stecca e squadra39. In realtà, le modifiche al disegno sono state messe in relazione col Maestro solo perché a sanguigna e, come ha scritto Richard Schofield, è difficile credere che sulla base di quei pochi segni a sanguigna si possa basare qualsiasi attribuzione40. Il papato successivo, quello di Paolo IV Carafa (1555-1559), vide una guerra contro la Spagna (1556-1557), una rovinosa inondazione (1557) ed epidemie varie, tutti avvenimenti che resero impossibile nuove imprese architettoniche. Il 27 agosto 1558 Michelangelo accettò dal Comune l’incarico di progettare la sistemazione dell’area intorno alla colonna Traiana, “perché la colonna Traiana e una delle più belle et integre antichità, che siano in questa città, sicome le Signorie Vostre sanno, pare conveniente cosa, che selli adorni, et accomodi il loco dove ella sta, di sorte che corrisponda alla bellezza di essa, et per questo si è auto sopra di ciò un desegno de Michel’Angelo, quale Vostre Signorie potranno vedere, et acciò questa opera tanto lodevole se mandasse a effetto si contentano i convicini contribuire alla metà della spesa, et desiderariano che nell’altra metà contribuisse il Popolo essendo cosa publica”41. Nel 1536, per la visita dell’imperatore Carlo V a Roma, le due colonne coclidi di Traiano e di Marco Aurelio erano state valorizzate distruggendo “doi chiese: una chiamata santo Nicola alla colonna Traiana, 52 et l’altra s. Andrea alla colonna de Antonino, acciò si veda dette colonne”42. Poi nel 1545-1546 Paolo III aveva deciso di mettere bene in luce la base della colonna Traiana facendo scavare una buca (fig. 13), divenuta presto un luogo di scarico di rifiuti, così che il papa ordinò ai Maestri di Strada un po’ di piazza intorno, non sappiamo con quali risultati43. Nel 1558, quando Michelangelo ne fu incaricato, alcuni lavori si fecero ma dovettero essere poca cosa, perché la nomina di Marcello Alberini a deputato all’opera avvenne solo il 24 gennaio 1560: “electus ac deputatus fuit superastans fabricae ac restaurationi Columnae Traianae ac illius plateae D. Marcellus Alberini cum potestate ei concessa omnia et singula in eam rem necessaria ac opportuna faciendi”. Questi era uno dei membri più autorevoli del consiglio comunale e l’incarico gli fu rinnovato nel 1569 senza che ai lavori venisse mai data esecuzione44. Il mancato completamento della sistemazione urbana è da addebitare alla mancanza di fondi, congiuntura risolta solo nel 1573. Nell’anno successivo l’incarico fu assegnato a Jacopo del Duca, già “protetto” di Michelangelo, il quale si limitò a realizzare un semplice recinto intorno alla fossa della colonna (fig. 14)45. Nel 1558 Michelangelo lavorava anche a ciò che per lui costituiva l’opera più importante, il progetto per la cupola di San Pietro. Nel novembre di quell’anno gli intagliatori iniziarono a costruirne il modello, terminato nel novembre del 156146. Nel frattempo, un’altra opera riapparve dal passato: il 16 dicembre 1558 Michelangelo comunica al nipote Leonardo a Firenze che Bartolomeo Ammannati “mi scrive e domanda consiglio da parte del Duca d’una certa scala che s’ha a·ffare nella libreria di San Lorenzo. Io n’ho facto così grossamente un poco di bozza pichola di terra, come mi par che la si possa fare, e ho pensato d’aconciarla in una scatola e darla qua a chi lui mi scriverrà che gniene mandi”47. Nella successiva lettera di accompagnamento al modello che Michelangelo scrisse all’Ammannati, aggiunse d’essere “vecchio, cieco e sordo e mal d’accordo con le mani e con la persona”, ma – si può aggiungere – certamente indomito, perché il modello di scalone che stava per essere spedito avrebbe permesso di terminare i lavori allo scalone del vestibolo della Biblioteca Laurenziana di Firenze48. Negli anni del papato di Paolo IV, Michelangelo non ricevette alcun incarico dalla Camera Apostolica. Tuttavia, a sorpresa, nel 1558 il papa gli chiese di studiare un grande progetto a scala urbana: un’enorme tripla scalinata di circa 300 metri, coperta nelle due rampe laterali, che da Monte Cavallo – il colle Quirinale – avrebbe collegato la chiesa di San Silvestro con il fronte di palazzo Venezia, similmente a quella antica posta di fronte al diruto Frontespizio di Nerone: “Sua Santità ha fantasia che, partendosi da S.to Salvestro, die far tre scale, drieto l’una a l’altra, e che la prima e l’ultima fussi coperta, e quella del mez- 13. Stefano Dupérac, Disegno della Colonna Traiana, in Stefano Dupérac, I Vestigi dell’Antichità di Roma, Roma 1575, tav. 33 zo scoperta, e che di poi si facessi una dirittura che andassi fino a S.to Marco”49. La morte di Paolo IV, avvenuta il 18 agosto 1559, lasciò questo ambizioso progetto allo stato di “fantasia”. Il successivo 25 dicembre, l’elezione di Pio IV dei Medici di Milano rincuorava finalmente Michelangelo sulla certezza che i lavori in San Pietro sarebbero stati nuovamente finanziati. Nel 1561, questo pontefice riprese l’idea relativa alla creazione di un collegamento diretto tra piazza Venezia e il Quirinale, pensando a una strada perfettamente diritta che dal portale di palazzo Venezia, attraversando la città, giungesse fuori le mura alla chiesa di Sant’Agnese sulla via Nomentana. Tale impresa si dimostrò tuttavia impossibile perché le pendici del Quirinale erano troppo scoscese per realizzarvi un asse urbano rettilineo e l’indennizzo per risarcire i proprietari delle case e dei palazzi che si sarebbero dovuti demolire per cambiare la pendenza della strada era troppo oneroso50. Il progetto fu pertanto ridimensionato facendo concludere la nuova strada, chiamata via Pia, in piazza del Quirinale e provvedendo alla realizzazione di una nuova porta urbana in corrispondenza delle mura, il cui disegno fu affidato a Michelangelo; allo stesso piano di intervento urbano risale la volontà di trasformare in chiesa, col nome di Santa Maria degli Angeli, le sale del frigidarium delle terme di Diocleziano collocate lì vicino. I lavori alla nuova via Pia furono avviati nel gennaio 1561, quelli preliminari per porta Pia iniziarono in marzo e la posa della prima pietra avvenne il 18 giugno seguente51. Vasari racconta che Pio IV nell’incaricare Michelangelo del lavoro ebbe da questi molti disegni da poter usare anche per altre porte. Per molto tempo si è creduto che la contemporanea porta del Popolo (1561) e la poco successiva porta San Giovanni (1574) fossero state costruite prendendo spunto da quei progetti. In realtà, la prima fu costruita da Nanni di Baccio Bigio – forse con il coinvolgimento del giovane scultore Giacomo della Porta, di cui si possiedono quattro disegni di progetto relativi a questo monumento – e la seconda, quasi sicuramente, dallo stesso Giacomo della Porta52. Una nuova campagna di restauro delle mura e delle porte cittadine fu avviata infatti durante il papato di Gregorio XIII (15721585), durante la quale fu forse persino completato il fronte di porta Pia rivolto verso la campagna con un progetto di Giacomo della Porta, in quel tempo architetto del Popolo Romano e della Congregazione Cardinalizia delle Acque e Strade53. Nel 1561, Pio IV aveva inoltre invitato i possessori delle vigne sul Quirinale e sul Viminale a costruire delle mura di cinta con portali ornati prospicienti la nuova via Pia. In breve, lungo la strada furono eseguiti alcuni eleganti portali per le vigne Grimani, Caetani e Pio. Qualcuno fra i contemporanei ebbe modo di credere che dietro queste realizzazioni vi fosse una regia michelangiolesca, cosicché i disegni di questi monumentali inMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA 14. Giuseppe Vasi, Veduta di piazza della Colonna Traiana, 1753, in Giuseppe Vasi, Delle magnificenze di Roma antica e moderna, Roma 1747-1761, vol. II, tav. 38 gressi furono pubblicati nel 1610 con la dicitura di “portali michelangioleschi”54. La pubblicazione costituiva una Aggiunta alla Regola dei cinque ordini di Jacopo Barozzi da Vignola, inserita a partire dall’edizione stampata a Roma nel 1607 da Andrea Vaccari. I disegni dei portali erano stati realizzati dall’intagliatore Giovan Battista Montano55. Nell’appendice sono riprodotti sei portali in alzato, pianta e fianco: porta Pia (figg. 15-16; cat. 96) e porta del Popolo (figg. 16-17), di cui si è detto prima, un portale non più esistente per il palazzo dei Conservatori in Campidoglio, sicuramente disegnato da Giacomo della Porta, e i tre portali costruiti nel 1561 su strada Pia (figg. 18-20). Gli autori dei tre portali, in realtà, ci sono ignoti, e non vi è traccia di lessico michelangiolesco, mentre appare certa l’ispirazione derivata senza dubbio dall’Extraordinario libro di architettura di Sebastiano Serlio datato 1551. Entrambi i lavori ai cantieri di porta Pia e di Santa Maria degli Angeli alle terme di Diocleziano dipendevano dai Maestri di Strada e procuravano a Miche- 53 15. Giovanni Battista Montano, Prospetto di porta Pia, in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635], in Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXI 16. Giovanni Battista Montano, Sezione di porta Pia e di porta del Popolo, in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635], in Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXX 17. Giovanni Battista Montano, Prospetto di porta del Popolo, in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635], in Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXVIIII 18. Giovanni Battista Montano, Portale di villa Caetani, in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635], in Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXIIII langelo un’unica remunerazione mensile pari a 50 scudi56. A partire da questi anni, in particolare dalla metà di maggio del 1561, un certo Pier Luigi Gaeta riuscì a farsi nominare da Michelangelo soprastante del cantiere di porta Pia, incarico che gli venne tolto dai Maestri di Strada il 24 dicembre 1561, certamente non per volontà del Maestro57. A Gaeta, come anche ad Antonio del Francese, sono legati alcuni sgradevoli avvenimenti occorsi negli ultimi mesi di vita del Maestro, che meritano di essere riassunti rapidamente. Il 3 gennaio 1556 era morto Francesco Urbino: Michelangelo ne rimase a tal punto sconvolto da iniziare ad appoggiarsi sempre più al servitore Antonio del Francese, con il quale il Maestro sembra aver sviluppato un legame progressivamente più saldo. Ad Antonio infatti, nel corso di pochi anni, furono donate sia la Pietà di Santa Maria del Fiore sia la Pietà Rondanini58. Nel 1561 a questi si aggiunse come servitore il citato Pier Luigi Gaeta. Entrambi cer- carono di isolare Michelangelo dagli amici, con il chiaro intento di ottenerne denaro e vantaggi personali: Gaeta aspirava a diventare soprastante del cantiere di porta Pia e aiuto soprastante in quello di San Pietro; Antonio, analfabeta, non poteva sperare in una posizione altrettanto prestigiosa59. Nel novembre 1561 e nel febbraio 1562, Michelangelo propose il nome di Gaeta come soprastante alla fabbrica di San Pietro, dal momento che “stando in casa mia, [Gaeta] mi potrà raguagliare la sera quello si farà il giorno”, ma ricevette un rifiuto in entrambe le occasioni60. Già licenziato dal cantiere di porta Pia per ragioni che rimangono oscure, i deputati della fabbrica di San Pietro, che ben conoscevano la mancanza di esperienza di Gaeta, si erano rafforzati nell’idea che Michelangelo fosse incapace di affrontare tale incarico. Vasari ebbe a scrivere su Pier Luigi Gaeta: “troppo giovane ma suffizientissimo”61. Nell’aprile 1563, Michelangelo fece una donazione di 2000 scudi ad Antonio del Francese, atto che fu tenuto segreto e che venne registrato presso un notaio capitolino per evitare contestazioni62. Tiberio Calcagni venne a sapere di questa donazione solo alcuni mesi più tardi e avvertì prontamente Leonardo Buonarroti di questo e dell’altro che nel frattempo era occorso: Gaeta era finito in galera, dopo essere stato denunciato da un cambiavalute per aver trafugato alcune monete trovate nella vigna di Orazio Muti; l’ottantottenne Michelangelo era stato a sua volta indagato come sospetto complice; nonostante tali incidenti, Michelangelo aveva assurdamente riproposto il nome di Gaeta quale sostituto del soprastante della fabbrica di San Pietro, frattanto ucciso da un marito geloso. Calcagni non poteva che concludere laconicamente il resoconto di tale declino chiosando “Ora, come si sia, Dio li perdoni”63. Alla fine di agosto del 1563 Michelangelo sostenne la sua ultima battaglia per imporre Pier Luigi Gaeta come soprastante di San Pietro, con esiti stavolta ancora più umilianti: i deputati alla fabbrica di San Pietro gli comunicarono ufficialmente che avevano scelto come secondo architetto Nanni di Baccio Bigio, dal momento “che l’età impedisce il buon volere di Vostra Signoria in non potere essere presente spesso, come soleva, alla fabbrica de Santo Pietro”64. A breve giro di posta, Michelangelo inoltrò le sue dimissioni, che il papa pregò di ritirare, cosicché il seguente 17 settembre il Maestro poteva fare nuovamente ritorno al cantiere65. A 88 anni Michelangelo seguiva ancora i cantieri di San Pietro, di porta Pia e di Santa Maria degli Angeli; grazie all’assistenza di Guidetto Guidetti curava la costruzione della nuova facciata del palazzo dei Conservatori in Campidoglio, attraverso Tiberio Calcagni stava dietro al cantiere della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore, per mezzo di Daniele da Volterra seguiva l’elaborazione del monumento equestre di Enrico II di Francia. Si muoveva con difficoltà e aveva continuamente bisogno di collaboratori 54 MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA 55 19. Giovanni Battista Montano, Portale di villa Grimani su strada Pia, in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635], in Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXIII 20. Giovanni Battista Montano, Portale di villa Pio da Carpi su strada Pia, in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635], in Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXV 7 che gli riferissero quotidianamente quanto avveniva nelle diverse fabbriche, ma diffidava sistematicamente di ciascuno: quale soluzione poteva essere migliore di quella di averli tutti in casa e legarli a sé, magari attraverso regali e denaro? Ogni variazione a questa che finì per essere una sua specifica consuetudine avrebbe sconvolto quel sorprendente equilibrio che gli permise, con fatica e testardaggine, di lavorare fino all’ultimo giorno della sua vita: per lui tutto il resto più nulla contava. 1 Carteggio indiretto, vol. II, p. 23, nota 3; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 1618-1638, nota 661; 18701882, nota 704. 2 Carteggio indiretto, vol. II, p. 26, n. 254 (13 feb. 1546); Carteggio, vol. IV, p. 231, n. MLV (ante 25 feb. 1546). 3 Carteggio, vol. IV, pp. 220, n. MXLVI (ante 22 dic. 1545); 227, n. MLIII (6 feb. 1546). 4 Lanciani 1988-2002, vol. II, p. 27 e di questa patria”, Roma, Archivio Storico Capitolino (in seguito ASC), cred. I, to. 18, Decreti dei Consigli, 15441550, c. 73v, 6 agosto 1548; Lanciani 1988-2002, vol. II, pp. 27-28. 6 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 87 [ed. 1568]. Lo scopo del ponte è dichiarato nel contratto del 24 agosto 1561 stipulato col bolognese Raffaele Bombello per la riparazione del ponte, “Conciosia cosa che la 56 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 1589-1594, nota 653. 5 “M. Michael Angelo Buonarrota huomo singolarissimo la cui virtu ne stata commendata da S. Santita et ne la proposto, il quale, como si crede, per compiacere à Sua Beatitudine et per far’ cosa grata à questo Popolo non manchara de pigliare questa fatiga con l’altre che fa nelle nostre fabriche publiche come buono cittadino romano et affettionato Santità di Nostro Signore Pio Papa Quarto habbia gran desiderio, como ottimo Principe, che si rifaccia et restauri il Ponte di S. Maria, dalla preterita inondatione del Tevere ruinato, si per passaggio delle tevertine che per uso della Fabrica di San Pietro si adoprano como anche per utilità commune di questa città”, ASC, cred. VII, to. 78, Istrumenti Diversi, 1558-1570, cc. 34r sgg. ASC, cred. I, to. 18, Decreti dei Consigli, 1544-1550, c. 73v , 6 agosto 1548; Lanciani 1988-2002, vol. II, pp. 27-28. 8 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 87 [ed. 1568]; Conforti 2002, pp. 80-81, 86, nota 11. 9 Conforti 2002, p. 81. Della cappella al centro del ponte si parla in un Avviso di Roma scritto immediatamente dopo l’inondazione del 15 settembre 1557: “Hà portato via metà del ponte Santa Maria insieme con quella bella cappelletta di Giulio III che vi era nel mezzo con tanta arte e spesa fabricata”, in D’Onofrio 1980, p. 147; un’altra casa era stata affittata presso il ponte per conservare i libri dei conti, effettuare i pagamenti alle maestranze e ai fornitori, Conforti 2002, pp. 80-81. 10 Varasi, ed. Barocchi 1962, vol. IV, p. 1590; Conforti 2002, pp. 81, 87, note 28 e 24. 11 Conforti 2002, p. 81. 12 Ivi, pp. 80-81, 87, nota 28. 13 Podestà 1875, pp. 136 sgg.; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 15901592. 14 Lanciani 1988-2002, vol. II, p. 30. La parte crollata fu ricostruita in legno nel 1561 per permettere il trasporto dei materiali per San Pietro con l’assicurazione che durasse almeno dieci anni (“fare un Ponte di ligname che venga al pari di quello di pietra che hoggi di si ritruova in essere di tal fortezza che vi possano andare di sopra le carrozze di bufali cariche di tevertini ordinariamente che si tirano per la Fabrica di San Pietro per prezzo et nome di prezzo di scudi dua millia di moneta […] con li suoi parapetti como monstra il modello fatto per esso m. Raffaelle [Bombello] et monstrato alli sodetti Signori”, ASC, cred. VII, to. 78, Istrumenti Diversi, 1558-1570, cc. 34r sgg.); in realtà, la struttura in legno fu distrutta al momento del montaggio per il cedimento dei canapi (Ferrucci 1588, c. 75r). Nel 1573 si bandì un concorso per la ricostruzione dei due archi e del pilone in previsione dell’anno santo 1575 (Lanciani 1988-2002, vol. II, p. 31). Luca Peto, uno dei deputati alla ricostruzione, consigliò di costruire un unico arco al posto di due, abbandonando il pilone crollato, ma il Comune, dopo un’ampia discussione, decise di ricostruire i piloni precedenti secondo il progetto di Matteo Bartolini (D’Onofrio 1970, p. 225). Gli unici piloni e l’arco non rinforzati – il terzo e il quarto pilone da Trastevere e il quarto arco – crollarono durante l’inondazione del Natale 1598 insieme al pilone rinforzato da Nanni di Baccio Bigio e non furono mai più ricostruiti. 15 Lettera di Nanni a Ottavio Farnese del 17 marzo 1553, Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, p. 1592. 16 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 694. 17 Ackerman 1954, p. 76. 18 Archivio di Stato di Roma (in seguito ASR), Camerale I, Fabbriche, b. 1517, c. 56v, 20 settembre 1551, in Ackerman 1954, p. 165, nota 77. 19 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 83 [ed. 1568]. 20 Ackerman 1954, pp. 75-78, 138; B. Contardi, scheda 23, in Argan, Contardi 1990, p. 338; Frommel 1997, pp. 251-252, 255. 21 Frommel 1997, pp. 254, 257-258. 22 Ackerman 1954, pp. 77, 216-217, nota 30 e fig. 25. 23 Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana (in seguito BAV), Cod. Vat. Lat. 7721, cc. 93v-94, in Micheli 1982. 24 Wilde 1953, p. 109; Hirst 1963, pp. 170-171; Hirst 1993, p. 54; Romani 2003a, p. 45; V. Romani, scheda 37, in Romani 2003, pp. 134-135. 25 M. Marongiu, scheda 36, in Romani 2003, pp. 130-133; tali schizzi di scale sono stati riferiti al Belvedere in Frommel 1997a, p. 255. 26 Condivi, ed. Nencioni 1998, p. 57. 27 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 86 [ed. 1568]. 28 Città del Vaticano, Archivio della Fabbrica di San Pietro (in seguito AFP), IV, 33, pacco 3, in Millon 1979, pp. 770-777. 29 Podestà 1875, p. 136; B. Contardi, scheda 23, in Argan, Contardi 1990, pp. 338-339. 30 Riccomini 1996. 31 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, p. 1586, nota 651. 32 Schwager 1990, pp. 70, 75, nota 8. 33 Ivi, pp. 70, 72. 34 Bösel 1985, p. 175. 35 Schwager 1990, p. 73. 36 Pirri 1941, pp. 181, 202; Schwager 1990, p. 71. MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA 37 Pirri 1941, pp. 216-217, doc. 8. Popp 1927, pp. 413 sgg.; Nava Cellini 1936; Tolnay 1951. 39 Ackerman 1968, p. 282; Schwager 1990, pp. 71-72; B. Contardi, scheda 26, in Argan, Contardi 1990, p. 341. 40 Schofield 2002, p. 299. 41 ASC, cred. I, to. 20, Decreti dei Consigli, 1551-1560, c. 166r-v, consiglio pubblico. 42 Catalogo delle chiese demolite in Roma per la visita di Carlo V, BAV, Cod. Vat. 8468, c. 208, in Pastor 1942, pp. 793-794, doc. 22. 43 Lanciani 1988-2002, vol. II, pp. 122 sgg. 44 ASC, cred. I, to. 20, Decreti dei Consigli, 1551-1560, c. 224v, Consiglio Segreto; ASC, cred. I, to. 24, c. 114r, 6 dicembre 1569. 45 Benedetti 1973, pp. 186-187. 46 Frey 1909, p. 172; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 1702-1703, nota 676; 1729, nota 678. 47 Carteggio, vol. V, p. 146, n. MCCLXXX (16 dic. 1558). 48 Ivi, p. 152, n. MCCLXXXIV (13 gen. 1559). 49 Lettera dell’ambasciatore fiorentino a Roma Gianfigliazzi del 28 settembre 1558, in Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 1841-1842, nota 698; De Maio 1973, pp. 105-113; Brothers 2002b, p. 56. 50 Ackerman 1968, p. 283. 51 Schwager 1973, pp. 40, 78-79, nn. 37-38, 40. 52 Ackerman 1968, p. 286; Schwager 1975b, pp. 128-129. 53 Una ricerca sistematica sull’argomento non è stata fatta, ma si riporta uno dei molti documenti all’Archivio Capitolino relativi a questi lavori: “Adi 18 xmbre 1576 / A mo Meo Bassi scarpellino scudi cinque dei moneta quali sonno per quasi dieci giornate che ha messo a mettere insieme l’Arco de tevertino de porta Pia et a ferrare li cancheri della porta del Popolo et fare piu busi alle porte de Roma”, sotto la supervisione di Giacomo della Porta architetto del Popolo: ASC, cred. VI, to. 23, Registro de Mandati a favore degli Offiziali et Artisti del Popolo Romano, c. 7. Anche Gregorio Caronica, allora mastro muratore, dal 3 ottobre 1576 al 6 giugno 1577 fu impegnato nella riparazione 38 delle mura di Roma sotto la supervisione di Giacomo della Porta (ivi, cc. 1r-v, 2v, 3, 4, 9, 21). Architetto della Congregazione “super viis, pontibus, fontibus” era stato fino alla morte nel 1568 Nanni di Baccio Bigio, sostituito poi da Giacomo della Porta (ASR, Congregazione cardinalizia “super viis, pontibus, fontibus”, b. 1, Liber Congregationum ab Anno 1567 usque ad Annum 1587, passim). 54 “NVOVA ET VLTIMA / AGGIVNTA DELLE / PORTE D’ARCHITETTVra / DI / MICHEL ANGELO BVONAROTI FIOREN / TINO PITTORE SCVLTORE ET ARCHI / TETTO ECCELL.mo / In Roma apresso Andrea Vaccario all’Insegna della / Palma l’A.° 1610 / GIOVANNI BATTISTA MONTANO MILANESE INVENTOR”. 55 Bedon 1999. 56 Siebenhüner 1955, p. 190, nota 52. 57 Schwager 1973, pp. 42, 80, note 59, 60, 61. 58 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, pp. 92-93 [ed. 1568]; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 1670-1677, nota 666; 1677-1678, nota 667. 59 Carteggio indiretto, vol. II, pp. 107, n. 310 (19 set. 1561); 108-109, n. 311 (1561?); 118-120, n. 319 (2 mag. 1562); Carteggio, vol. V, pp. 309-310, n. MCCCXC (21 ago. 1563), nota 1, che riporta una lettera dello scalpellino Pietro di Domenico a Leonardo Buonarroti, datata 27 febbraio 1563. 60 Carteggio, vol. V, p. 272, n. MCCCLXVII (dopo il 4 nov. 1561); Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 2061-2065. 61 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 105 [ed. 1568]. 62 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 2061-2065. 63 Carteggio indiretto, vol. II, pp. 157158, n. 346 (8 ago. 1563); 159, n. 347 (14 ago. 1563); 161-162, n. 349 (2 set. 1563). 64 Carteggio, vol. V, p. 323, n. MCCCXC bis (ante 6 set. 1563). 65 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19671987, vol. VI, p. 106 [ed. 1568]; Frey 1916, p. 48; Carteggio, vol. V, p. 324, n. MCCCXC ter (6 set. 1563); Carteggio indiretto,vol. II, pp. 163, n. 350 (16 set. 1563); 165-166, n. 352 (23 ott. 1563); 168, n. 355 (18 dic. 1563). 57 1. Antonio Tempesta, Pianta prospettica di Roma, 1593. Il rettangolo individua il retro della casa di Michelangelo a Macel de’ Corvi verso vicolo dei Frangipane LE DIMORE DI MICHELANGELO A ROMA. DALLE PRIME ABITAZIONI ALLA CASA DI MACEL DE’ CORVI Clara Altavista Vostro Michelangniolo Buonarroti al Macello de’ poveri1 Secondo l’architetto Bernardo Buontalenti, un epitaffio sarebbe stato scritto da Michelangelo Buonarroti “a mezza scala” della sua casa romana di Macel de’ Corvi: Io dico a voi, c’al mondo avete dato l’anima e ’l corpo e lo spirito ’nsïeme: in questa cassa oscura è ’l vostro lato2. Al di sotto dell’iscrizione l’artista avrebbe disegnato in chiaroscuro uno scheletro sulla cui debole spalla gravava la “cassa oscura”, parafrasi del destino umano e allegoria di questa residenza romana, conosciuta dalle poche descrizioni che se ne traggono come luogo modesto e tetro. Questa dimora, poco più che una piccola casa su due piani con pertinenze e orto, fu il rifugio nel quale Michelangelo trascorse con continuità gli ultimi trent’anni della propria esistenza: una residenza per la quale lottò strenuamente e grazie alla quale poté vivere quasi isolatamente in una città in cui forse non si sentì mai veramente integrato3. Nessuno, prima del pittore e trattatista portoghese Francisco de Hollanda, aveva fatto espresso riferimento alla collocazione topografica della casa romana di Michelangelo, identificata genericamente “ai piedi di Monte Cavallo”4. Nelle loro edizioni della Vita di Michelangelo, sia Giorgio Vasari sia Ascanio Condivi accennarono ad alcune residenze romane che, in tem58 pi e con modi differenziati, fecero da scenario alla sua esistenza, ma mai si espressero apertamente a riguardo della dimora in cui l’artista visse stabilmente per più tempo5. Di questa casa si interessò per primo Benvenuto Gasparoni il quale, tra il 1865 e il 1866, pubblicò una serie di documenti inediti a essa relativi e definì, con una certa attendibilità filologica, la sua articolazione planivolumetrica e la sua collocazione urbana: lungo via dei Fornai, presso la chiesa di Santa Maria di Loreto, poco oltre il Foro di Traiano (fig. 1)6. Secondo Gasparoni, questa residenza fu venduta nel 1605 allo scalpellino viggiutese Stefano Longhi per la considerevole somma di 3800 scudi d’oro, benché lo studioso non portasse a supporto di questa affermazione alcuna testimonianza documentale. Egli, inoltre, non riuscì a mantenere la promessa fatta di un successivo approfondimento della materia con la pubblicazione di documenti inediti – rimasti a lungo tali e dei quali in questa sede, per la prima volta, si offrono alcuni stralci – e pertanto restarono aperti numerosi interrogativi sulle vicende, edilizie e proprietarie, di cui la casa di Michelangelo si rese protagonista nel corso dei secoli. Dopo Gasparoni, Luigi Mazio (1872) si interessò alle dimore di Michelangelo spingendosi ad analizzare sommariamente le residenze nelle quali l’artista fu ospite prima del suo spostamento definitivo presso la chiesa di Santa Maria di Loreto intorno al 15347. Se, a riguardo di quest’ultima dimora, Mazio riprese con fedeltà quasi testuale i saggi di Gasparoni, sulla scorta di Vasari, credette di individuare nella residenza suburbana del cardinale Raffaele Riario in via della Lungara la prima casa romana in cui Michelangelo avrebbe vissuto: una collocazione che però si sarebbe rivelata inesatta. Fatta salva una nutrita letteratura inerente la trascrizione più o meno integrale di documenti romani su Michelangelo, nei quali è citata la dimora di Macel de’ Corvi8, o alcune monografie dell’artista che accennarono alla sua residenza romana9, solo agli inizi del XX secolo l’argomento fu ripreso in maniera analitica. Il tedesco Ernst Steinmann, in due saggi successivi del 1907 e del 1912 – di cui il secondo riproponeva nella massima parte il primo – si interessò con una certa ostinazione alle residenze romane dell’artista10. Valendosi dei precedenti saggi di Gasparoni per la parte documentaria e basandosi essenzialmente sulla lettura del carteggio michelangiolesco tratto da Gaetano Milanesi (1875) e da Karl Frey (1907), gli studi di Steinmann non introdussero argomentazioni inedite rispetto allo stato dell’arte. Unico elemento di menzione può considerarsi una brevissima nota ricavata da un precedente scritto di Rodolfo Lanciani (1906) del quale Steinmann fece propria la tesi secondo cui l’acquisto della casa presso Macel de’ Corvi da parte di Stefano Longhi si poneva cronologicamente dopo una precedente vendita del 1584, avvenuta tra agli eredi di Michelangelo e l’architetto Martino Longhi il Vecchio, lontano parente di Stefano. Il riferimento a Lanciani però si rivelò imprudente poiché – come avrebbero dimostrato dapprima Fabrizio Apollonj Ghetti (1968) e successivamente Paola Barocchi, Kathleen Loach Bramanti e Renzo Ristori (1988-1995) – esso era derivato da una lettura poco attenta della documentazione consultata11. L’attenzione per le case romane di Michelangelo si affievolì sino al 1930, allorquando il senatore Corrado Ricci ne scrisse un brevissimo articolo pubblicato sulle pagine del quotidiano “Il Messaggero”. L’autore però cadeva in un clamoroso errore, fondando la descrizione dell’abitazione di Macel de’ Corvi sull’osservazione diretta delle litografie che, da Angelo Uggeri (1800-1828)12 fino a Paul Letarouilly (18401857)13, avevano cominciato a circolare per l’Europa, sull’onda di quel filone pittoresco basato più sulle tradizioni orali che non sulla ricostruzione documentaria14: le incisioni, infatti, illustrano il prospetto esterno e l’atrio di una casa che Michelangelo Buonarroti avrebbe abitato (o posseduto?) alle falde del Campidoglio, non molto distante dal palazzo dei Conservatori. Nello stesso equivoco cadde Luigi Callari, il quale, nella sua pubblicazione sui palazzi di Roma (1932), ripropose la descrizione di Ricci15. Alla metà degli anni sessanta del Novecento, Anna Maria Corbo pubblicò, insieme a un documento inedito, il regesto di una selezione di atti inerenti la casa di Macel de’ Corvi16, ma solo nel 1968, il già citato Apollonj Ghetti poté ricostruire piuttosto fedelmente la storia della casa, adducendo alcune prove circostanziate sulla sua corretta collocazione17. Recentemente Rab Hatfield (2002) nello studio sulle finanze di Michelangelo ha ripercorso assai brevemente le viMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA cende legate alle residenze romane dell’artista, aggiungendo alcune novità che tuttavia non riguardano più direttamente la casa di Macel de’ Corvi18. Modificata sostanzialmente durante i molti anni nei quali fu di proprietà della famiglia Longhi, passata poi all’avvocato Scipione Cavi, entrata a far parte del patrimonio immobiliare del principe Alessandro Torlonia dalla seconda metà del XIX secolo, demolita per lasciare posto al nuovo palazzo delle Assicurazioni Generali in piazza Venezia (1902-1906), la dimora di Michelangelo Buonarroti è oggi ricordata solo da una targa, il cui brevissimo testo non può che darne una flebile e scolorita testimonianza19. Le dimore dal 1496 al 1501 Michelangelo arrivò a Roma per la prima volta a ventuno anni, il 26 giugno del 1496, portando con sé solo una lettera di presentazione scritta da Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici20. Il suo scopo era quello di presentarsi al cardinale Raffaele Riario, meglio noto come cardinale di San Giorgio al Velabro, “parte per isdegno d’essere stato fraudato, parte per vedere Roma, cotanto […] lodatagli come larghissimo campo di poter ciaschedun mostrare la sua virtù”21. Le vicende relative a questo primo soggiorno romano di Michelangelo sono conosciute e legate essenzialmente alla realizzazione di alcune celebri opere scultoree, prima delle quali il Cupido dormiente, scolpito a Firenze, ma sapientemente contraffatto – secondo i biografi – per essere immesso sul mercato antiquario romano e come pezzo antico acquistato dal cardinale Raffaele Riario per 200 ducati, a fronte dei 30 pagati a Michelangelo dal mediatore della vendita, forse Baldassarre del Milanese22. L’artista, visto il grande successo riscosso dalla propria opera e sentendosi a sua 59 2. Giuseppe Vasi, Veduta del palazzo della Cancelleria Apostolica, 1754, in Giuseppe Vasi, Delle magnificenze di Roma antica e moderna, Roma 1747-1761, vol. IV, tav. 94. Alla destra del palazzo della Cancelleria si vede il distrutto palazzetto di Jacopo Galli volta raggirato, aveva deciso di uscire allo scoperto. Come era prevedibile, l’alto prelato richiese indietro i denari spesi, ma, al contempo, espresse il vivo desiderio di conoscere personalmente l’esecutore di quell’opera, tanto da riceverlo presso la propria residenza romana. Il primo soggiorno di Michelangelo a Roma durò fino alla metà del mese di maggio dell’anno 1501. Sulla dimora che ospitò l’artista durante quei primi mesi del suo soggiorno e sulla durata di questa permanenza non esistono più equivoci. Come anticipato, Luigi Mazio credette di riconoscere questa dimora nella residenza che la famiglia Riario possedeva in Trastevere23. Tuttavia, studi recenti hanno dimostrato come la prestigiosa dimora, sorta in una vasta area situata tra via della Lungara e il Gianicolo, dove poi sarebbe sorto palazzo Corsini, fosse stata edificata per volontà del cardinale di San Giorgio solo nel 1511 e che quindi difficilmente avrebbe potuto ospitare Michelangelo24. Già in alcuni saggi successivi, l’ipotesi avanzata da Mazio veniva superata dalla certezza che si trattasse invece del palazzo che il cardinale Raffaele Riario iniziò a far costruire nell’autunno del 1489 presso la chiesa di San Lorenzo in Damaso25. L’edificio, conosciuto come palazzo della Cancelleria, nel 1496 era ancora in fase di costruzione, sebbene una parte di esso fosse già abitata dal suo committente26. Michelangelo fu ospite del cardinale di San Giorgio per circa un anno tra 1496 e 1497: ad affermarlo con estrema precisione fu lo stesso Michelangelo attraverso Ascanio Condivi e Giorgio Vasari27. Nipote di Sisto IV della Rovere (1471-1484), cardinale camerlengo di Santa Romana Chiesa, preposto alle finanze, agli edifici e alle fortezze papali, Raffaele Riario lasciò l’Urbe nell’autunno del 1499, per forti dissensi politici con Alessandro VI Borgia (14921503)28, tornandovi solo alla morte di quest’ultimo nell’estate del 1503. È difficile dunque immaginare che, nonostante attendesse a diverse commissioni scultoree, il giovane artista continuasse a risiedere presso il cardinale Riario in sua assenza e ininterrotta60 3. Giovanni Antonio Dosio, Veduta del Borgo Nuovo, seconda metà del XVI secolo. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2580 A. La casa di Michelangelo doveva situarsi nel tessuto edilizio alle spalle del passetto di Borgo, alla sinistra dell’immagine mente fino al 1501. Appare più realistico credere che, una volta lasciata la residenza cardinalizia, Michelangelo fosse ospitato per qualche tempo dal banchiere romano Jacopo Galli. A lui, ricco ed erudito, assiduo frequentatore della casa del cardinale di San Giorgio, Michelangelo diede il Bacco che aveva iniziato a scolpire a grandezza naturale appena un mese dopo il suo arrivo a Roma29. La residenza del banchiere, collocata “dirimpetto al palazzo di san Giorgio”30 presso Campo de’ Fiori, potrebbe dunque essere stata la seconda dimora, seppure temporanea, dell’artista. Secondo una nota del Carteggio la frase di una lettera scritta nell’agosto del 1497 da Michelangelo al padre Ludovico, “io non ò comodità di tenello meco, perché io sto in casa d’altri”31, relativa al fatto di non aver potuto ospitare il fratello Buonarroto giunto a Roma, potrebbe essere riferibile alla dimora di Jacopo Galli. Scomparso in seguito allo sventramento dell’attuale corso Vittorio Emanuele II (a partire dal 1873)32, palazzetto Galli era una residenza caratteristica del tardo Quattrocento romano, i cui tratti essenziali si possono cogliere in tutta la loro semplicità osservando l’incisione settecentesca di Giuseppe Vasi dedicata al palazzo della Cancelleria (fig. 2)33. Fu nel giardino di palazzo Galli che il pittore olandese Maarten van Heemskerck raffigurò, insieme a un ricco campionario di antichità, proprio il Bacco michelangiolesco34. Il 23 marzo 1497 Michelangelo aprì un proprio conto presso il banco romano dei Balducci-Galli35. Su quello stesso conto, nel novembre successivo, gli fu accreditata la somma di 133 e mezzo fiorini di Reno, valuta nordica erogata come anticipo per la committenza del gruppo scultoreo della Madonna della Febbre, meglio nota come Pietà36. L’incarico gli era stato affidato da Jean Bilhères de Lagraulas, cardinale di Saint-Denis, e la scultura, destinata al suo sepolcro, avrebbe dovuto essere collocata nella cappella di Santa Petronilla – piccola rotonda contigua alla basilica di San Pietro – divenuta luogo di venerazione ab antiquo da parte della Corona francese e per questo nota come “cappella dei re di Francia”. In quest’ultima fase del primo soggiorno romano sembra che Michelangelo si fosse trasferito in una abitazione per la quale veniva corrisposto un affitto mensile di un ducato e mezzo, come documentato da Rab Hatfield secondo cui il basso costo lascerebbe intuire uno spazio relativamente modesto, seppur sufficiente per tenervi uno studio37. Non si conosce la collocazione topografica di questa casa, ma non è del tutto inverosimile immaginare che tale dimora fosse situata nei pressi della stessa basilica di San Pietro, non lontano dal luogo dove avrebbe vissuto nel suo secondo soggiorno romano. Le dimore tra il 1505 e il 1516 La chiesa di Santa Caterina alle Cavallerotte in Vaticano, e il suo annesso convento di monache, era un edificio di antica fonda- zione che ebbe grande importanza soprattutto nel medioevo proprio per la sua vicinanza alla basilica38. Collocata in prossimità di piazza San Pietro, lungo la linea di Borgo nuovo, non molto distante dal cosiddetto passetto che collegava la basilica vaticana a Castel Sant’Angelo, la piccola costruzione si inseriva in un contesto edilizio frammentario, costituito in prevalenza da modeste abitazioni di artigiani39. In quest’area urbana, come riporta esclusivamente Vasari, “Michelagnolo aveva fatto la stanza da lavorar le figure et il resto della sepoltura”40. L’opera a cui si fa riferimento è il monumento funebre per Giulio II della Rovere (1503-1513) commissionato all’artista nel marzo del 1505, anno del ritorno di Michelangelo a Roma41. La dimora, proprietà del Capitolo di San Pietro42, data a Buonarroti in comodato d’uso “per servire nostro Signore, papa Iulio, [la quale] l’ebbe da esso papa […] in possessione”43, si collocava nel fitto tessuto edilizio cresciuto alle spalle della linea di Borgo nuovo, in prossimità del corridore, e costituito in prevalenza da piccole unità abitative organizzate su due livelli, così come appare in una puntuale veduta di Giovanni Antonio Dosio custodita agli Uffizi (fig. 3)44 e come mostra assai bene, con dettagli quasi fotografici, la successiva pianta prospettica di Antonio Tempesta nell’edizione del 163045. A voler seguire testualmente le indicazioni date da Vasari circa la collocazione di questa nuova residenza romana di Michelangelo, si comprende come essa sorgesse immediatamente a ridosso del passetto di Borgo, poiché “il Papa aveva fatto fare un ponte levatoio dal corridore alla stanza [dell’artista]”46 per osservarlo personalmente al lavoro. Il termine “stanza” usato da Vasari, piuttosto che indicare una unità abitativa di tipo minimo, sembrerebbe riferirsi alla casa-studio dove venivano scolpiti i blocchi destinati alle sculture della “sepoltura”. Lo stesso Michelangelo riferì genericamente di una serie di “stanze dreto a Santa Catherina”47, ma, nel puntualizzare come fosse stato necessario fornire l’abitazione “di lecti e masseritie”48 per sé e i suoi collaboratori, non esitò a usare il termine “chasa”: si tratta degli stessi arredi che Michelangelo ordinò di vendere quando fece ritorno a Firenze a seguito di un ennesimo screzio sorto con il pontefice, avvenuto nell’aprile del 1506 e mediato dall’amico Giuliano da Sangallo49. Michelangelo rientrò a Roma nel 1508 per potere continuare il monumento di Giulio II e avviare gli affreschi nella cappella Sistina (1508-1512). Un atto del Capitolo di San Pietro, documenta che Buonarroti fu affrancato nel dicembre 1510 da ogni onere sulla casa presso Santa Caterina, ormai abitata da nuovi inquilini. Michelangelo stesso racconta come “el primo anno di papa Leone, [1513] venne maestro Lucha [Signorelli] da Chortona […] a chasa mia dal Macello de’ Chorvi, nella casa che io tengo anchora oggi [1518]”50. Ciò ha da sempre fatto riMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA tenere che l’artista si fosse trasferito in Macel de’ Corvi solo a partire dal 1513, ma, in mancanza di altra documentazione, dovendo escludere dal 1510 il domicilio presso Santa Caterina, non è improprio anticipare l’ingresso di Michelangelo in Macel de’ Corvi a una data compresa tra 1508 e 151351. Le vicende legate alla ideazione e alla realizzazione del monumento funebre di Giulio II della Rovere seguono in maniera perentoria e inequivocabile gli avvenimenti connessi al possesso della casa, o, per meglio dire, di quel piccolo gruppo di unità immobiliari e spazi verdi collocato a Macel de’ Corvi in vicinanza della chiesa di Santa Maria di Loreto, e con quella vicenda si confondono sino a divenire un tutt’uno. L’atteggiamento di Michelangelo nei confronti delle proprie abitazioni fu talvolta contraddittorio e si può verificare chiaramente negli stralci di due lettere. Scritte nel gennaio del 1515 e indirizzate entrambe al padre, rivelano, da un lato una preoccupazione sentita: “de’ facti della chasa credo achonciarla in buona forma, che la sarà mia e arò buona sicurtà”52; dall’altro, quasi un suo ridimensionamento: “non è cosa che importi, perché io so che e’ non me ne va altro che la pigione del tempo che io ci starò”53. Nel contratto del luglio 1516, relativo a un nuovo disegno del monumento funebre, stipulato tra Michelangelo Buonarroti e gli esecutori testamentari di Giulio II – il cardinale Leonardo Grosso della Rovere vescovo di Agen e il protonotario apostolico Lorenzo Pucci –, fu stabilita una clausola secondo la quale venne concessa all’artista, gratis et amore e per il termine di nove anni (a decorrere però dal 1513), “una chasa con palchi, sale, chamere, terreni, orto, pozzi e suoi altri habituri, posta in Roma inella regione di Treio […] ad presso a Santa Maria del 61 4. Salvestro Peruzzi, Pianta di Roma con la contrada di Macel de’ Corvi (presso il cavalcavia di San Marco), metà del XVI secolo, particolare. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 274 A Loreto”, della quale furono descritti puntualmente i confini54. Nessuno dei due contratti precedenti, certamente non quello del maggio 1513, fa mai esplicito riferimento a questo piccolo complesso edilizio55. Appartenenti forse al patrimonio personale del vescovo aginense56, queste case erano presumibilmente quelle abitate da Michelangelo a partire dal 1510, le stesse nelle quali, nell’autunno del 1516, l’artista fece murare due statue destinate alla tomba di Giulio II – lo Schiavo morente e lo Schiavo ribelle (oggi entrambe al Louvre) –, secondo quanto documenta Leonardo Sellaio, collaboratore di Michelangelo, in una lettera indirizzata a Buonarroti: “non bisogna mi richordiate la chasa; e stane di buona vogl[i]a, ché, chome per altre mia v’ò detto, le due fighure stanno bene, che sono murate e in chasa non viene nessuno, e qualchuno che me n’à dimandato, e de’ più stretti, ò detto voi le soterasti e murasti”57. La contrada cittadina generalmente definita “Macel de’ Corvi”, come testimoniano alcuni puntuali recenti studi di Marianna Brancia di Apricena, apparteneva al quartiere di San Marco, situato all’incrocio di quattro rioni (Monti, Campitelli, Trevi e Pigna) e limitava a nord la zona dei Fori58. Sobborgo popoloso, sorto nel medioevo e sviluppatosi nel corso del tempo59, il quartiere di San Marco, segnando idealmente il confine tra la città dell’età di mezzo e quella rinascimentale, rappresentava, forse meglio di ogni altro, la complessità abitativa e residenziale della Roma del tempo, rivelandone le numerose contraddizioni (fig. 4). A partire da quegli anni, infatti, si avviò un lento ma costante processo di riqualificazione urbana attraverso la costruzione di nuove importanti residenze o la trasformazione delle poche dimore cardinalizie e nobiliari già esistenti. Accanto a esse continuarono tuttavia a coesistere piccoli fabbricati di chiaro impianto medioevale, alcuni dei quali al limite della fatiscenza, spesso dotati di piccolissimi spazi aperti60. Tra queste costruzioni emergeva su tutte il tempio dedicato a Santa Maria di Loreto. Costruito per volontà della confraternita dei Fornai di Roma a partire dall’anno 1507 (a breve distanza dalla data dell’istituzione della stessa congregazione)61, la chiesa, con annessi ospedale e cimitero, fu ampliata non prima degli anni 1518-1520 su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane62. Dal Carteggio di Michelangelo appare evidente come accanto al toponimo generale di “Macel de’ Corvi”, posto in calce a numerose lettere, Buonarroti avesse scelto proprio la chiesa di Santa Maria di Loreto quale riferimento architettonico più adatto a indicare l’esatta collocazione delle proprie case, mentre rara fu invece l’indicazione come toponimo della poco distante chiesa dei Santi Apostoli. Esemplificativa in tal senso è la chiosa di una missiva inviata al nipote Leonardo nell’ottobre del 1550, in occasione di una sua imminente visita, nella quale Michelangelo precisò “credo sa62 pra’ [Leonardo] in Roma trovar la casa, cioè a•rriscontro a Santa Maria del Loreto, presso Macel de’ Corvi”63. Tuttavia, nel celebre foglio con quattro epitaffi dedicati a Cecchino Bracci e scritti per Luigi del Riccio, segretario di Michelangelo, l’artista preferì chiudere la missiva non scrivendo il proprio domicilio, bensì disegnando un piccolo corvo (AB XIII, 33; cat. 24)64. L’appellativo di “Macel de’ Corvi” fu mantenuto nel linguaggio corrente sino alla metà del Cinquecento, come si può desumere dalle piante di Leonardo Bufalini (1551) e di Stefano Dupérac (1577), nelle quali la denominazione di macella corvorum o macello corvorum riguarda, non una sola strada, bensì due diverse arterie viarie, entrambe confluenti in uno slargo antistante la chiesa di Santa Maria di Loreto65. Una di queste strade, intersecante con via dei Fornai, delimitava a sud l’isolato urbano al quale appartenevano le residenze di Michelangelo Buonarroti. la mia allegrezz’è la malinconia, e ’l mio riposo son questi disagi: che chi cerca il malanno, Dio gliel dia. chi mi vedess’a la festa dei Magi sarebbe buono; e più, se la mia casa vedessi qua fra sì ricchi palagi.66 Stando ai confini rilevati nel contratto del 1516, infatti, le case di Michelangelo si trovavano alle spalle dell’allora piazza San Marco ed erano prossime a palazzo Venezia, residenza dei cardinali titolari dell’omonima chiesa e palazzo pontificio, fino a quando non venne donato alla Repubblica veneziana da Pio IV Medici (1559-1565)67. Nell’intorno si trovava la casa dei signori Frangipane la quale, divenuta proprietà del conte Giovanni Antonio Bigazzini, sarebbe stata in parte trasformata nel suo prospetto verso piazza San Marco dall’architetto Carlo Fontana (1678-1683)68 e, una volta acquistata dal conte Giacomo Bolognetti, avrebbe ottenuto, grazie all’intervento dell’architetto Nicola Giansimoni (1757), un nuovo fronte anche su piazza Santi Apostoli69. Entrata in possesso del principe Alessandro Torlonia nel 1806, l’originaria casa dei Frangipane fu nuovamente trasformata per essere poi demolita nel 190270. Contiguo alle case di Buonarroti era altresì il palazzo della famiglia Zambeccari, che era stato ampliato intorno agli anni trenta del Cinquecento e significativamente trasformato dall’architetto fra’ Domenico Paganelli, intorno al 1585, per volontà del nuovo proprietario, il cardinale Michele Bonelli71. Nipote di Pio V Ghislieri (1566-1572) e meglio noto come “Cardinale Alessandrino” (dalla località di provenienza), Bonelli fu finanziatore e promotore di un’opera di generale bonifica dell’intera area intorno al Foro di Traiano, luogo che pren- derà il nome di “quartiere alessandrino” e che avrà nella strada Alessandrina il suo asse viario principale72. Non molto distante da palazzo Zambeccari, verso piazza Santi Apostoli, infine, sorgevano sin dal Quattrocento la residenza di Pietro Riario, cardinale di San Sisto – che, a sua volta, aveva annesso e ampliato una più antica casa del cardinale Giovanni Bessarione73 – e la dimora di Giuliano della Rovere (futuro Giulio II e cugino di Pietro Riario), la cui famiglia possedeva nell’immediato intorno, oltre alle case assegnate a Buonarroti, altre numerose proprietà immobiliari e fondiarie74. Le case di Macel de’ Corvi dal 1534 al 1564 “E delle sei figure di che fa mentione il contracto n’è facte quactro, come voi sapete, che l’avete viste nella casa mia a•rRoma [sic], la quale mi donano, come pel contracto si vede.”75 Questo scrisse Michelangelo all’amico Giovanni Francesco Fattucci – cappellano di Santa Maria del Fiore a Firenze – nel giugno del 1532. Il successivo contratto per l’esecuzione del monumento funebre per Giulio II, stipulato nell’aprile di quello stesso anno, aveva confermato a Michelangelo di poter abitare a titolo gratuito la casa di Macel de’ Corvi, ovvero una piccola abitazione su due piani, orto e pertinenze, corrispondenti a due altre piccolissime abitazioni76. Questo possesso divenne irrevocabile circa dieci anni dopo, a seguito del motu proprio di Paolo III Farnese (1534-1549) che impediva agli eredi di Giuliano della Rovere qualsiasi futura rivendicazione sulla proprietà77. L’estate del 1533, che precedette il trasferimento definitivo a Roma, vide Michelangelo costantemente preoccupato per lo stato di manutenzione delle proprie residenze. Lo testimonia il fitto carteggio con Bartolomeo Angelini, uno dei suoi più stretti collaboratori: “la chasa vostra è di chomtinovo ongni notte guardata e di giorno spesso da me vicitata”78, “le chose vostre stanno bene e ne’ medesimi termini che le lassasti”79. Apparentemente le preoccupazioni di Buonarroti per lo stato di conservazione delle proprie residenze possono sembrare infondate, ma che il piccolo complesso edilizio versasse in cattive condizioni lo rivelano alcune lettere del pittore Sebastiano del Piombo, inviate qualche tempo prima di quelle più rassicuranti di Angelini: “et potresti dar hordene a la chasa vostra, che in vero va male el più de le cosse, come tecti et altre cosse”80, “più volte ho voluto scrivervi de la casa vostra. In vero le cosse vostre vanno molto male: è in mano de un sbirazo che brava et dice ha fatto et dritto, de modo che se li haverà a rifar de molti duchati: et ve ruinano la chasa. […] Seria pur meglio […] meter que’ aconzi ne la botega grande, benché ’l tecto tutto piove”81. Lo “sbirazo” al quale Sebastiano del Piombo fa riferimento era uno dei numerosi affittuari ai quali Michelangelo diede sisteMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA maticamente in locazione parte di quelle case. Non sono noti questi contratti, ma sia dalla lettera in questione sia dagli atti prodotti in seguito alla morte dell’artista, emerge chiaramente la volontà di rendere economicamente redditizie quelle parti del complesso edilizio non in uso diretto82. L’articolazione planimetrica e spaziale dell’intero aggregato si può in parte ricostruire attraverso le descrizioni che ne furono date nel 1564 dall’inventario post mortem83 e nel 1605 dal contratto di vendita84. La natura diversa di queste fonti consente di ottenere alcune informazioni essenziali, poiché, come è risaputo, non esistono che immagini di fantasia delle abitazioni romane di Michelangelo. Se l’inventario rende nota la sola distribuzione interna della residenza principale in uso a Buonarroti, il contratto di vendita stabilisce invece l’articolazione generale del complesso, che disponeva di una discreta estensione di superficie, includendo, oltre la “casa grande” turrita, due casette annesse ma tra loro indipendenti, separate da due viculi communes, ovvero stretti passaggi che risolvevano eventuali problemi di comunicazione interna o di servitù. Queste due piccole case, più prossime all’ospedale di Santa Maria di Loreto, e quindi al crocicchio di Macel de’ Corvi, si articolavano su tre bassi livelli fuori terra, con piccole finestrelle quadrate, ed erano dotate sul retro di orti o giardini, visibili dall’esterno attraverso un basso muro di recinzione, così come si può osservare con nitore primaverile nella citata incisione di Antonio Tempesta85 e nel rilievo di alcune simili costruzioni poste nel medesimo isolato, eseguito dall’architetto Nicola Giansimoni nel 175586 (fig. 5). Riconducibile più genericamente alla tipologia della casa a schiera con giardino e pertinenze – la cui definizione di allora potrebbe essere stata “casa con fienile” –, il corpo principale del complesso, la cosiddetta “casa grande”, era dotata di poca estensione in facciata, possedeva due affacci contrapposti, uno sul fronte principale di via dei Fornai e uno sul retro, l’antico vicolo dei Frangipane, poi Bolognetti, infine Torlonia, ed era contraddistinta da una piccola torre quadra articolata su due diversi livelli, alla quale si accedeva attraverso una scala a chiocciola collocata in uno dei piccoli anditi interni ricavati nella planimetria dell’edificio. Per quel che concerne l’organizzazione planimetrica della cosiddetta “casa grande”, si può fare riferimento a una analoga residenza, prossima a quella di Michelangelo, appartenente all’ospedale di Santo Spirito in Sassia, in seguito venduta all’architetto Onorio Longhi87. Si tratta di un rilievo quotato del 1587 che mostra bene lo schema tipologico di una “casa con fienile” dell’epoca (fig. 6)88. Sulla base di questo rilievo, integrando con i documenti prima citati che descrivono la composizione delle case di Macel de’ Corvi, è possibile tentare una ipotetica ricostruzione della residenza di Michelangelo Buo63 5. Nicola Giansimoni, Prospetto di case verso palazzo Bolognetti in costruzione, 1755. Archivio di Stato di Roma, Notai del Tribunale delle Acque e delle Strade, busta 155, ff. 598-603 narroti. L’ingresso era posto lungo la via dei Fornai con andito, in parte occupato da una scala posta perpendicolarmente al fronte stradale e confinante con il muro di delimitazione del lotto. Oltrepassato l’andito si può verosimilmente immaginare un ampio cortile con spazio aperto loggiato. Al piano superiore, vi si sarebbe trovata la sala e la stanza da letto con le altre stanze a esse collegate. La torre quadrata avrebbe svolto una funzione a sé, disposta com’era mediante una serie verticale di piccoli ambienti sovrapposti: e che fosse indipendente dalla casa principale lo testimonia il fatto che Leonardo Buonarroti, durante i suoi soggiorni romani, chiese espressamente di potervi abitare per garantirsi una completa indipendenza89. Similmente a tutte le abitazioni artigiane della zona, il piano terreno era articolato in modo tale da predisporre ampi spazi protetti – le cosiddette logge – alternati a spazi aperti, entrambi 64 6. Anonimo, Casa di Onorio Longhi ai Santi Apostoli, 1587. Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Fondo Ottaviano Mascarino, inv. 2371 destinati allo stivaggio dei materiali e a laboratorio, con annessa fucina per forgiare attrezzi90. È documentato che l’abitazione di Michelangelo fosse dotata di logge e spazi aperti e che questi avessero una estensione significativa tanto da consentire allo stesso Buonarroti di depositare, nel giardino, i blocchi di marmo da utilizzare per le proprie statue e di alloggiare, all’interno della propria residenza, alcune sculture. Nonostante le attenzioni mostrate verso le case di Macel de’ Corvi queste continuavano a permanere in condizioni obsolete91. Lo stato precario dell’immobile obbligò Michelangelo, colpito in due diverse occasioni da brevi malattie (luglio 1544, gennaio 1546)92, a trasferirsi presso la casa del ricco fuoriuscito repubblicano fiorentino Roberto Strozzi, collocata sulla via dei Banchi a Canale di Ponte e meglio nota come palazzo Gaddi-Niccolini93. Sia l’esatta cronologia del cantiere di questa residenza – nel quale intervenne sul finire degli anni dieci del Cinquecento Jacopo Sansovino e in seguito fors’anche Giulio Romano – sia la corretta successione proprietaria, restano a tutt’oggi oggetto di discussione esistendo in merito pareri discordanti94. Certo è che la residenza di Roberto Strozzi, rispetto all’epoca in cui accolse Michelangelo Buonarroti malato e poi convalescente, subì alcune sostanziali modifiche tra Otto e Novecento95. “Circa l’esser stato ammalato in casa gli Strozzi, io non tengo essere stato in casa loro, ma in camera di messer Luigi del Riccio, il quale era molto mio amico […] e poi che morì, in decta casa non ò più praticato, come ne può far testimoniantia e tucta Roma”96, questo scrisse Michelangelo nell’autunno del 1547 a riguardo della vicenda. L’apparente mancanza di riconoscenza verso Roberto Strozzi non coincide però con quanto riportato da Vasari il quale ribadì come, una volta ultimati, i due Prigioni (oggi al Louvre) “furono da lui donati […] al Signor Roberto Strozzi, [proprio] per trovarsi […] malato in casa sua”97. Si è detto come l’attaccamento di Michelangelo al piccolo complesso edilizio di Macel de’ Corvi si esprimesse attraverso una condotta contraddittoria. Nonostante si fosse a lungo impegnato per ottenerne il pieno possesso, più di una volta espresse la ferma intenzione di alienare l’intera proprietà, anche quando questa sembrava non ancora appartenergli ufficialmente. La prima volta avvenne nel luglio del 1531, allorquando in una lettera inviata a Buonarroti, Sebastiano del Piombo riferiva come avesse saputo da messer Hieronimo Ostacoli che “Michelagniolo voria vender la casa” e che, una volta finito il monumento per Giulio II “la si venderà”, aggiungendo inoltre “Et me disse, più, che la casa non era la vostra [bensì], che l’era del cardinal Aginensis”, concludendo “Pregovi ancora avisateme come sta la cossa de la chasa, si è vostra o di li eredi del Cardinale?”98. La seconda fu nel dicembre 1558, quando Michelangelo, rivolgendosi al nipote Leonardo, scrisse “io ti [dissi] già di comprare costà [a Firenze] una casa che fussi onorevole e in buon luogo, e ancora son della medesima voglia, perché comprai qua circa novecento scudi di Monte del qual me n’uscirei volentieri, e con la casa che io ò qua, e comprar costà”99. Michelangelo Buonarroti non vendette mai le proprie case romane di Macel de’ Corvi e lì si spense alle prime luci dell’alba di venerdì 18 febbraio 1564. Il primo maggio di quello stesso anno Leonardo Buonarroti, erede universale dello zio, locò a Daniele Ricciarelli da Volterra, pittore e scultore, fedele amico di Michelangelo, una “casa posta nel Rione di Trevi presso S. Maria di Loreto [… con la clausola che] non possa appiggionare […] le due casette appartenenti e congiunte a detta casa”100. Nonostante abitasse ancora la casa di Monte Cavallo101 – nella quale era impegnato a terminare la statua equestre di Enrico II di Francia102 –, Daniele provvide al restauro della dimora che era stata di Michelangelo, la cui nota dei lavori fu pubblicata per la prima volta da Gasparoni nel 1866103. Il serrato elenco di interventi – utile in taluni casi a conoscere il dimensionamento di certi ambienti, ma non a stabilirne l’esatta collocazione –, trattando prevalentemente di opere di messa in sicurezza delle strutture portanti dell’edificio, del tetto e del ripristino del vano della scala principale, rivela uno stato dell’immobile ai limiti dell’obsolescenza104. Nel brevissimo periodo di tempo durante il quale Daniele da Volterra possedette la “casa grande” di Buonarroti, egli si dovette occupare anche della questione inerente il tentativo di rivendicazione del piccolo complesso immobiliare da parte di alcuni eredi della famiglia Della Rovere. “Questi del Papa hanno fatto gran forza d’aver la casa. Io la ho difesa in modo che non credo ci penseranno più; e acciò che si vegga la casa più abitata, ho messo Iacopo [l’architetto Giacomo del Duca] con le sue donne in le stanze che abitavano le donne d’Antonio [Antonio del Francese, l’ultimo servitore di Michelangelo]. E io non mancho di dormir del continuo nella torre con un de’ miei”105 Altre lettere analoghe furono scambiate tra Daniele o Giacomo del Duca e Leonardo Buonarroti, tra i quali evidentemente correvano ottimi rapporti106. Questi però si interruppero bruscamente con la morte di Daniele (4 aprile 1566) che lasciava ai propri eredi – tra i quali figurava il pittore Michele Alberti, suo esecutore testamentario107 – il gravoso compito di avere restituite le spese sostenute per i lavori eseguiti alle case di Michelangelo. Con sentenza del Consolato della Nazione fiorentina in Roma, nel novembre del 1567 fu stabilito che Leonardo, attraverso il suo procuratore romano Carlo Gherardi, rifondesse gli eredi di Daniele da Volterra della somma dovuta108. In quegli stessi anni il nipote di Michelangelo aveva dovuto occuparsi direttamente anche della questione di alcune “pietre” lasciate nella casa dello zio da un precedente inquilino, l’uomo d’affari senese Diomede Leoni. Un MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA nuovo anonimo affittuario, infatti, lamentava la presenza di questi materiali in una delle stanze del complesso immobiliare – forse di una delle case annesse –, stanza che lo stesso Leoni aveva provveduto a serrare trattenendo la chiave109. Non è documentato se l’anonimo inquilino fosse quello stesso scalpellino Stefano Longhi da Viggiù al quale poi fu venduta l’intera proprietà, certo è che, stando a una lettera inviata da Carlo Gherardi a Leonardo Buonarroti nell’ottobre del 1572, qualcuno era già determinato ad acquistare l’intera proprietà con ogni sua pertinenza110. Epilogo Il 17 febbraio 1605, a circa quarant’anni dalla scomparsa di Michelangelo Buonarroti, presso il notaio capitolino Gazza, Orazio Zappato111, procuratore romano degli eredi subentrati dell’artista, Buonarroto e Michelangelo figli di Leonardo, vendeva una “domu divisam in plures habitationes […] posita Ro65 7. Ricostruzione delle proprietà immobiliari delle famiglie Longhi presso Macel de’ Corvi alla fine del XVII secolo, sulla base del Catasto urbano di Roma del 1824. ASR, Catasto urbano, Rione II Trevi, f. I. Con la lettera A sono indicate le proprietà di Michelangelo Buonarroti e con le lettere B e C rispettivamente quelle che dovrebbero essere state le abitazioni di Martino Longhi il Vecchio e di Onorio Longhi (elaborazione dell’autore) me in regione Trevij” a Stefano Longhi del fu Francesco, per la somma di 3800 scudi d’oro112. Questo inedito documento, al quale aveva accennato Benvenuto Gasparoni nel 1866 senza fornirne alcuna indicazione archivistica, stabilisce definitivamente il passaggio di proprietà della residenza romana di Michelangelo Buonarroti alla famiglia di Stefano Longhi. Nessuno studioso interessato alle case di Macel de’ Corvi era infatti andato oltre quel vago riferimento indicato da Gasparoni. Solo un secolo più tardi Sylvia Pressouyre, in una nota del suo lungo saggio dedicato allo scultore francese Nicolas Cordier, forniva una collocazione archivistica riconducibile a quello che si credette essere l’atto di vendita113. In realtà, tale segnalazione, in seguito ripresa da Margherita Fratarcangeli che si è a lungo dedicata a questa famiglia di artisti114, si riferisce soltanto a una “dichiarazione di possesso” avvenuta nell’aprile del 1605 nella quale Stefano Longhi testimonia di avere la proprietà delle case già di Michelangelo115. Due analoghe dichiarazioni furono rese in altrettante fideiussioni dallo stesso Stefano nel marzo e nel maggio del 1611, in occasione del processo contro il pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, nel quale era stato implicato un parente di Stefano, l’architetto Onorio Longhi116. Onorio era figlio di Martino Longhi il Vecchio, la cui abitazione, nelle immediate adiacenze delle case di Michelangelo, aveva generato l’equivoco che fosse stato Martino ad acquistare nel 1584 le proprietà di Buonarroti, delle quali era solo confinante, e solo in seguito, nel 1605 appunto, Stefano avesse acquistato da Martino le di66 8. Giovanni Battista Falda, Veduta di Piazza de Santi Apostoli, 1665, in Giovanni Battista Falda, Il nuovo teatro delle fabbriche et edifici fatte fare in Roma e fuori, Roma 1665-1669, vol. II, tav. 4 9. Lievin Cruyl, Colonna Traiana, 1664 (disegno preparatorio in controparte) more117. Analizzando ciò che emerge della collocazione topografica delle proprietà immobiliari di questo architetto lombardo, del figlio Onorio e del nipote Martino il Giovane, si chiarisce – seppur con un certo margine di approssimazione – come fossero distribuite le unità edilizie appartenenti a questa famiglia e soprattutto come fossero articolate quelle di Stefano Longhi, a esse adiacenti e in esse confuse (fig. 7)118. Fino a ora nessuno aveva rilevato la residenza di Stefano e della sua famiglia nelle case di Michelangelo almeno a partire dal 1595: lo Stato d’Anime della parrocchia dei Santissimi Apostoli lo dimostra119. Abitando probabilmente all’inizio presso una delle due casette annesse alla “casa grande” di Michelangelo, Stefano Longhi riuscì entro breve tempo ad avere in locazione l’intera proprietà120. Trattenendo per sé la “casa grande”, Longhi provvide in seguito ad affittarne le pertinenze, nei cui spazi aperti si riservava però di stivare le ingenti scorte di marmo, sia personali, sia di suoi colleghi conterranei121. Referente per i vigguitesi romani dopo la scomparsa degli architetti Martino il Vecchio e Flaminio Ponzio, lo scalpellino-scultore-imprenditore Stefano Longhi raggiunse ben presto uno status sociale ed economico di un certo prestigio, condizione che gli fu garantita non solo da una accorta politica matrimoniale (sua e dei suoi figli)122, ma anche da importanti commesse che lo videro passare dalla semplice decorazione scultorea della cappella del Santissimo Sacramento in Santa Maria Maggiore all’ideazione del pulpito per la chiesa del Gesù123. Acquistata nelle immediate adiacenze un’altra casa più grande da destinare alla sua nuova residenza, Stefano Longhi decise di offrire in dote alla figlia Caterina la casa di Michelangelo con le sue pertinenze124. La donna, sposata al notaio romano Sante Floridi, vi risiedette almeno dal 1613 al giorno della sua morte125. Gli eredi Floridi possedettero queste case sino al 1824, anno nel quale, oramai modificate e corrotte nel loro stato architettonico originario, erano già proprietà dei figli dell’avvocato Scipione Cavi126 – noto alla cronaca romana di quegli anni per aver difeso i fratelli Giorgi, famosi tombaroli, rei di avere trafugato numerosi oggetti preziosi dallo scavo di Vejo127 – per poi entrare a far parte del patrimonio immobiliare del principe Alessandro Torlonia (1871), che le annetteva al proprio palazzo fra le sue “pertinenze”128. Il piccolo complesso immobiliare di Michelangelo Buonarroti a Macel de’ Corvi coincideva principalmente con il civico numero 212 di via dei Fornai – la “casa grande” –, ma si estendeva anche tra i civici precedenti (nn. 208-211) e sucessivi (nn. 213-219) sulla via dei Fornari e lungo l’antico vicolo Frangipane (civici nn. 154 e 160)129. Nonostante sia di ieri la notizia secondo cui le case di Michelangelo a Macel de’ Corvi sarebbero riconoscibili in un ritrovato affresco cinquecentesco raffigurante il prospetto principale di palazzo Valentini su piazza Santi Apostoli, è legittimo ritenere che, data la loro collocazione lungo la via dei Fornari, queste non possano essere osservate dal punto di vista dal quale è ritratto l’edificio130. Tutte le vedute di Roma prodotte dal XVII secolo in avanti raffiguranti le due piazze che delimitavano su estremi opposti la via dei Fornari – piazza dei Santi Apostoli e piazza della colonna di Traiano – non riescono infatti a restituire neppure di scorcio le abitazioni che furono dell’artista131, quasi che queste, rispettose delle parole che Michelangelo aveva consegnato ai loro muri, si fossero docilmente volute depositare in quella “cassa oscura” in cui persone e cose trovano ineluttabilmente la propria fine (figg. 8-9). Alcune note a margine La prima segnalazione ufficiale della casa di Michelangelo Buonarroti a Macel de’ Corvi fu data dalla Guida di Roma pubblicata nel 1687 da Giovan Battista Mola. Qui risulta che “passato [l’] ospedale [di Santa Maria di Loreto], per andare alla piazza de’ Santi Apostoli, si vede la casa che servì da habitatione à Michelangelo Buonavanti [sic]”132. Nonostante l’evidente errore tipografico, la residenza di Buonarroti è localizzata in maniera corretta, analogamente a quanto fa la Breve guida di Roma curata dalla locale Camera di Commercio nel 1875133. Se si escludono due pubblicazioni risalenti l’una alla fine degli anni sessanta del XIX secolo e l’altra al 1925134, sembra che nessun’altra guida edita tra XVIII e XIX secolo renda esplicitamente conto della residenza di Michelangelo. In alcune edizioni di Roma e dintorni del Touring Club Italiano, in corrispondenza della descrizione della passeggiata del Gianicolo, riappare la notizia della “elegante facciata della casa detta di Michelangelo, già prospetto situato in fondo al cortile della demolita casa dell’artista a Macel de’ Corvi, ricomposto in via delle Tre Pile, nuovamente demolito nel 1930 e qui ricostruito nel 1941”135 (fig. 14). La confusione che questo testo presenta è frutto di alcuni equivoci generatisi a partire forse dagli inizi del XIX secolo, con la pubblicazione di due vedute di Angelo Uggeri (1800-1822) che raffigurano il prospetto principale e il vestibolo della casa di Michelangelo “costruita e abitata da lui medesimo”136, ma ancor più dagli studi svolti dall’architetto Adolfo Penier tra gli anni trenta e quaranta del XX secolo (fig. 13). La prima riproduzione di Uggeri individuava la collocazione della dimora alle falde del colle Capitolino presso il palazzo dei Conservatori ed ebbe diffusione scarsa, se non del tutto inesistente: essa ritraeva un edificio in rovina dal prospetto organizzato in un piano terreno bugnato e due piani sovrastanti scanditi da lesene binate di ordine dorico alternate a porte e finestre. Maggiore fortuna godette invece la seconda, la quale divenne subito la matrice di alcune fortunate litografie – MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA che declinavano dall’originale per alcuni piccoli dettagli – tra le quali vale la pena ricordare quelle di Luigi Rossini (1818)137, Giuseppe Galli (1825)138 e quella già citata di Paul Letarouilly (1840-1857) (figg. 10-11). Quest’ultima puntualizzava trattarsi “d’une maison habiteé jandis par Michel’Ange Buonarroti située au pied du Capitol, via d’Ara Coeli”139, precisando non solo il toponimo ma anche che la “tradition” aveva associato questo edificio all’artista. L’architetto Adolfo Pernier, sul finire degli anni venti del XX secolo, credette di riconoscere la residenza riprodotta da queste immagini ottocentesche in una casa posta in via delle Tre Pile (civici 59-63), ipotesi pubblicata nel 1942 in forma di saggio140. In occasione della demolizione dell’edificio (1929-1930) dovuta all’allargamento della strada, una volta riconosciuto il pregio architettonico del prospetto di questa residenza chiaramente documentata nell’incisione seicentesca di Giovanni Battista Falda (cat. 38), ne furono smontati i pezzi che vennero in seguito ricomposti e ricollocati a opera dello stesso Penier su un muro cieco lungo la passeggiata gianicolense, presso la porta di San Pancrazio (1941)141. L’edificio in questione era un palazzetto cinquecentesco costituito da una facciata a due piani, di cui il primo, al di sopra di un lungo sedile si articolava con un ordine architettonico di lesene con capitelli dorici e trabeazione ionica inqua67 10-11. Paul M. Letarouilly, Vue d’une maison habitée jadis par Michel’Ange Buonarroti située au pied du Capitole, via d’Ara Celi, 1840, in Paul M. Letarouilly, Edifices de Rome Moderne, ou Recueil des palais, maisons, églises, couvents, et autres monuments publics et particulieres les plus remarquables de la ville de Rome, Paris 1840-1857, vol. I, tav. 326 14. Roma, la cosiddetta “casa di Michelangelo” oggi al Gianicolo 12. Anonimo, Casa in via delle Tre Pile nn. 59-63, 1871. Roma, Archivio Storico Capitolino, Volume degli Atti pubblici, P-Z, anno 1874, ff. ss. nn. 13. Angelo Uggeri, Casa di Michelangelo costruita e abitata da lui medesimo, in Angelo Uggeri, Journées pittoresque des anciens édifices de Rome et des environs, Roma 1800-1828, vol. II, tav. 14 e vol. III, tav. 16 “casa con fienile” al cui modello anche la “casa grande” di Buonarroti deve essere ricondotta146. Non si conoscono le ragioni per le quali Angelo Uggeri, forse avendo a mente il bel palazzetto dell’architetto Giulio Romano posto a breve distanza, identificasse in un più signorile palazzetto posto alle falde del colle Capitolino la residenza di Michelangelo147. Certo è che drante alternatamente nicchie e finestre con timpani semicircolari e rettangolari, mentre il secondo, concluso da un’alta balaustra, vedeva avvicendarsi, in corrispondenza delle aperture sottostanti, specchiature cieche e finestre incorniciate142. Attraverso l’analisi iconografica delle riproduzioni ottocentesche, ma in aperta contraddizione con la veduta di Falda, Penier sostenne che questo prospetto corrispondesse al fondale del cortile interno (visibile nelle raffigurazioni a partire da Uggeri) della presunta “casa di Michelangelo” di via delle Tre Pile, ricollocato in facciata della stessa abitazione dall’architetto Domenico Jannetti, tra gli anni settanta e gli anni ottanta del XIX secolo, a proprie spese143. È evidente che l’operazione di restauro avrebbe implicato alcune significative alterazioni compositive e proporzionali poiché, come si evince osservando sia la planimetria della cosiddetta “casa di Michelangelo” descritta da Letarouilly sia il rilievo planimetrico dell’edificio di via delle Tre Pile datato 1871, non può esistere corrispondenza tra le misure del prospetto esterno e quelle del fronte del cortile interno (fig. 12). Quel rilievo planimetrico fu pubblicato da Penier a sostegno della sua teoria e venne da lui ritrovato in allegato a un atto di vendita stipulato nel 1872 tra Benedetto Pellegrini, allora proprietario dell’edificio di via delle Tre Pile, e la Municipalità di Roma144. Nonostante Penier si ostinasse nell’indicare l’edificio come “casa di Michelangelo”, lasciando intendere che questa definizione venisse impiegata anche negli atti ottocenteschi, è da rilevare come, in un documento di ipoteca risalente al 1842, riguardante gli eredi di Filippo Invernizzi allora proprietari, questa abitazione non fosse mai indicata come tale145. È pur vero però che la planimetria del palazzetto di via delle Tre Pile corrisponde a quella di analoghi edifici sorti a Roma nel secondo Cinquecento e che, tratte le dovute differenze, potrebbe in qualche misura essere avvicinata anche alla planimetria della casa di Onorio Longhi della quale si è detto qualche pagina avanti e che non contraddice una tipologia di residenza diffusa nell’isolato urbano di Macel de’ Corvi: quella 68 Questo lavoro è stato realizzato solo per l’insistenza e la tenacia di Mauro Mussolin, che qui ringrazio profondamente, e ha preso forma anche attraverso i preziosi suggerimenti di Anna Bedon e l’amichevole aiuto di Alessandro Brodini. 1 Carteggio, vol. IV, pp. 131-132, n. CMXC (fine giu. primi lug. 1542). 2 Rime, p. 62 (Terzina 110). 3 Il Carteggio di Michelangelo rivela una costante attenzione dell’artista al solo patrimonio immobiliare di Firenze e grande ostinazione per il suo incremento, in particolare intorno gli anni quaranta e cinquanta del Cinquecento. 4 Bessone Aureli 1953, p. 55. 5 Vasari, ed. Barocchi 1962; Condivi 1553, ed. Nencioni 1998, passim. 6 Gasparoni 1865a; Gasparoni 1865b; Gasparoni 1866a; Gasparoni 1866b; Gasparoni 1866c. 7 Mazio 1872, pp. 290-294. 8 Si vedano i riferimenti en passant nella documentazione in Gaye 1840; Bertolotti 1875; Gori 1875; Gotti 1876. 9 La questione è trattata in Symonds 1893 e analogamente in Papini 1962, pp. 40-42, che riprende quanto già espresso in Papini 1949, pp. 501503. 10 Steinmann 1902; Steinmann 1912. 11 Carteggio indiretto, nello specifico il vol. II. 12 Uggeri 1800-1828, vol. II, tav. 14; vol. III, tav. 16. 13 Letarouilly 1840-1857, vol. I, tav. 326; Morozzo della Rocca 1981, p. 115. 14 Gere, Pouncey 1983, vol. I, p. 68 e P. Ragionieri, scheda 52, in Ragionieri 2003, pp. 146-149, nello specifico p. 146. 15 Callari 1932, pp. 494-500. 16 Corbo 1965, pp. 110-112, 146149. 17 Apollonj Ghetti 1968. 18 Hatfield 2002, pp. 98-103, sulla cifra pagata da Michelangelo per l’affitto semestrale per l’anno 1500 di una casastudio collocata a Roma ma non identificata topograficamente, cfr. infra. 19 Sul prospetto del palazzo delle Assicurazioni Generali verso piazza Venezia sono apposte due targhe. La prima ricorda la presenza della dimora di Buonarroti: QUI ERA LA CASA / CONSACRATA DALLA DIMORA E DALLA MORTE / DEL DIVINO MICHELANGELO / S.P.Q.R. / 1871. La seconda si riferisce più specificamente all’intervento architettonico: QUESTA EPIGRAFE / APPOSTA DAL COMUNE DI ROMA / NELLA CASA DEMOLITA / PER LA TRASFORMAZIONE EDILIZIA / È STATA COLLOCATA NELLO STESSO LUOGO / PER CURA DELLE / ASSICURAZIONI GENERALI DI VENEZIA. 20 Carteggio, vol. I, pp. 1-2, n. I (2 lug. 1496). 21 Condivi 1553, ed. Nencioni 1998, p. 18. MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA dovendo sceglierne una nella zona nella quale l’artista visse realmente, individuò un edificio la cui immagine architettonica di misurata compostezza, e stante l’evidente derivazione michelangiolesca dei dettagli architettonici, ben più aderisse alla figura di artista universale quale fu quella di Michelangelo Buonarroti. 22 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 15 [ed. 1568]; Agosti, Farinella 1987b, pp. 43-47. 23 Mazio 1872, p. 290. 24 Borsellino 1988, p. 24, nota 13; per le vicende cinquecentesche del palazzo, cfr. Frommel 1973, vol. I, pp. 99100; vol. II, pp. 281-291; vol. III, tavv. 118-120. 25 Carteggio, vol. I, p. 355, nota 4, commento alla citata lettera n. I. Gli stessi autori, tuttavia, nell’interpretare la lettera n. III (19 ago. 1497), sempre indirizzata al padre, lasciano aperta la possibilità che si trattasse del palazzo Riario alla Lungara, ivi p. 359, nota 3. 26 Nel 1492 le botteghe al piano terreno poste lungo la via del Pellegrino furono affittate, sebbene quell’ala dell’edificio non fosse ancora ultimata, cfr. Rodocanachi 1912, documenti in Appendice; Tomei 1972, pp. 220-221. 27 Condivi 1553, ed. Nencioni 1998, p. 19; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 16. 28 Valtieri 1982, p. 21, nota 4; Bruschi 2002a, p. 34. 29 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 16 [ed. 1568]. 30 Ibidem. 31 Carteggio, vol. I, p. 359, nota 3. 32 Insolera 1985, pp. 374-375. 33 Vasi 1747-1761, tav. 94. 34 M. van Heemskerck, Giardino di casa Galli (1532-1535), incisione, Berlino, Staatliche Museen. 35 Hatfield 2002, p. 3. Ivi, p. 5. 37 Ivi, p. 8. 38 Armellini 1891, p. 782; Adinolfi 1859, pp. 112-122. 39 Petrucci 1998, pp. 35-46; circa un possibile coinvolgimento di Giuliano da Sangallo nel progetto di trasformazione della chiesa, cfr. Frommel 1962. 40 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 28 [ed. 1568], ripreso da De Angeli d’Ossat 1964, p. 195. 41 Relativamente a quest’opera michelangiolesca si rinvia al saggio di Claudia Echinger-Maurach presente in questo catalogo. 42 Contratti, p. 40, n. XVII (4 dic. 1510). 43 Ibidem. 44 Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2580 A. 45 A. Tempesta, Recens prout hodie iacet almae Urbis Romae […], incisione su rame, ed. De Rossi, in Le piante di Roma 2007, pp. 202-204, n. 108. 46 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 28 [ed. 1568]; la chiesa si trovava tra le attuali via di Porta Angelica, via Mascherino e via Borgo Pio; cfr. Frommel 1962. 47 Carteggio, vol. IV, pp. 150-155, n. MI (ante 24 ott. 1542): p. 152. 48 Ivi, vol. III, pp. 7-9, n. DXCIV (fine dic. 1523): pp. 7-8; analoga testimonianza si trova in vol. IV, pp. 150155, n. MI (ante 24 ott. 1542): p. 154. 49 Carteggio, vol. I, Appendice, pp. 36 69 364-366, n. VIII (2 mag. 1506); Ernst Steinmann fa risalire questo episodio all’aprile 1503, cfr. Steinmann 1912, p. 215. 50 Carteggio, vol. II, pp. 7-8, n. CCLXXXV (prima metà di mag. 1518). 51 Contratti, p. 40, n. XVII (4 dic. 1510). 52 Carteggio, vol. I, p. 156, n. CXVIII (gen.? 1515). Espressioni analoghe si trovano a p. 153, n. CXVI (28 ott. 1514); pp. 154-155, n. CXVII (5 gen. 1515). 53 Ivi, vol. I, pp. 154-155, n. CXVII (5 gen. 1515). 54 Contratti , pp. 56-60, n. XXIV (ante 8 lug. 1516): p. 57; pp. 65-78, n. XXVII (ante 8 lug. 1516): p. 68. 55 Ivi, pp. 45-48, n. XX (6 mag. 1513); pp. 49-51, n. XXI (6 mag. 1513). 56 “el reverendissimo cardinale Aginensis s’obriga e promecte dar la casa al decto Michelagniolo, dove è chominciato decto lavoro”, ivi, pp. 6162, n. XXV (ante 8 lug. 1516): p. 61. 57 Carteggio, vol. I, p. 203, n. CLXI (11 ott. 1516). 58 Brancia di Apricena 2002, ma anche Brancia di Apricena 2007. 59 Brancia di Apricena 2007, p. 104. 60 Simoncini 2004, passim. 61 Fanucci 1601, pp. 227-228. 62 Jobst 1986, p. 277. L’ospedale di Santa Maria di Loreto dei Fornai è evidenziato ancora nella pianta di Roma di Giovanni Battista Nolli del 1748, cfr. Le piante di Roma 1962, vol. III, pianta CLXIXa, 3, tav. 399, Indice de numeri della pianta. 63 Carteggio, vol. IV, p. 354, n. MCLIV (4 ott. 1550). 64 Si veda in questo stesso catalogo il saggio di Pina Ragionieri, Tomba di Cecchino Bracci. 65 Brancia di Apricena 2007, p. 104. 66 Rime, p. 127 (Capitolo 267). 67 Fratarcangeli 2006, p. 156; Bonaccorso 1998 per un quadro generale. 68 Hager 2003, p. 244. 69 Pancotto 1995, pp. 165-169. 70 Ibidem, cfr. la bibliografia presente in nota; Birkedal Hartmann 1967, pp. 21-22. 71 Il palazzo è oggi conosciuto come palazzo Valentini e dagli anni settanta del XIX secolo è sede della Provincia 70 di Roma, cfr. Farina 1996, passim. 72 Toscano 2006. 73 Tomei 1942, pp. 211-214. 74 Benzi 1990, pp. 145-162. 75 Carteggio, vol. III, p. 412, n. DCCCLXXV (giu. 1532). 76 Contratti, pp. 199-203, n. LXXXV (29 apr. 1532): p. 200; pp. 204-207, n. LXXXVI (29 apr. 1532): p. 205. 77 Ivi, pp. 250-255, n. CVI (20 ago. 1542 e 10 gen. 1543): p. 252. Michelangelo Buonarroti, assorbito totalmente nella decorazione ad affresco della cappella Paolina, commissionatagli da papa Paolo III, non poteva infatti attendere anche al completamento del monumento sepolcrale di Giulio II. 78 Carteggio, vol. IV, p. 13, n. CMVII (12 lug. 1533). 79 Ivi, p. 20, n. CMIX (19 lug. 1533), del medesimo tenore sono le lettere a p. 25, n. CMXV (26 lug. 1533); pp. 32-33, n. CMXXI (2 ago. 1533); pp. 40-41, n. CMXXVI (16 ago. 1533); pp. 42-43, n. CMXXVII (23 ago. 1533); pp. 53-54, n. CMXXXV (4 ott. 1533). 80 Carteggio, vol. III, pp. 299-300, n. DCCCXI (24 feb. 1531). 81 Ivi, pp. 308-310, n. DCCCXV (16 giu. 1531). 82 Dal contratto di affitto della “casa grande” stipulato tra Daniele Ricciarelli e Leonardo Buonarroti (1 mag. 1564) sono segnati i nomi degli affittuari di Michelangelo, cfr. Gasparoni 1865a, p. 266. 83 Pubblicato per la prima volta in Bertolotti 1875a, pp. 13-22. 84 Pubblicato senza indicazione archivistica in Gasparoni 1866a, pp. 160162, conservato in Archivio di Stato di Roma (in seguito ASR), Trenta Notai Capitolini, Notaio Gazza, Ufficio 14, vol. 23, atto del 17 feb. 1605, ff. 311r-v, 312r-v. 85 A. Tempesta, Recens prout hodie iacet almae Urbis Romae […], incisione su rame, ed. De Rossi, in Le piante di Roma 2007, pp. 202-204, n. 108. 86 ASR, Notai del Tribunale delle Acque e delle Strade, b. 155, anno 1755, ff. 598-603. 87 ASR, Preziosi, Censuario delle case di Santo Spirito, n. 1458, c. 104 (106/134). 88 Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Fondo O. Mascarino, Casa di Onorio Longhi ai Santi Apostoli, n. 2371, ampiamente descritto in Wesserman 1966, pp. 86-87 e Marconi, Cipriani, Valeriani 1974, p. 17. Il rilievo potrebbe costituire la rappresentazione grafica della descrizione scritta del cabreo dell’ospedale di Santo Spirito in Sassia. 89 Si veda il contratto di affitto stipulato tra Daniele Ricciarelli e Leonardo Buonarroti (1 mag. 1564), pubblicato in Gasparoni 1865a, pp. 265-267. 90 Per avere un’idea chiara della dimensione di questi spazi aperti cfr. Carteggio, vol. IV, p. 20, n. CMXI (19 lug. 1533); pp. 32-33, n. CMXXI (2 ago. 1533); pp. 40-41, n. CMXXVI (16 ago. 1533); pp. 42-43, n. CMXXVII (23 ago. 1533); pp. 53-54, n. CMXXXV (4 ott. 1533). 91 Nonostante l’edificio avesse indirettamente beneficiato dei lavori di ampliamento di “quandam viam publicam exeuntem inter ecclesiam beate Marie Loreto et palatium […] de Zambeccaris” al quale i Maestri delle strade diedero inizio nel 1554, cfr. Corbo 1962, pp. 146-147. 92 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. II, p. 314, nota 252. 93 Sebbene gli studi abbiano chiarito come Roberto Strozzi fosse entrato nel pieno possesso del palazzo avito solo nel 1560, l’ospitalità offerta a Michelangelo intorno alla metà degli anni quaranta anticiperebbe di almeno un ventennio la presenza di Strozzi nella residenza a Canale di Ponte o, al più, dimostra come questi potesse disporne a proprio uso, cfr. Morresi 2000, p. 58. 94 Pagliara 1972; Frommel 1973, vol. I, pp.120-122; vol. II, pp. 198-206; Rezzi 1982; Morresi 2000, pp. 5065. 95 Rezzi 1982; Morresi 2000, pp. 5065. 96 Carteggio, vol. IV, pp. 279-280, n. MXCII (22 ott. 1547). 97 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 29 [ed. 1568]. Una spiegazione a questo comportamento incoerente si trova nel vol. II, p. 315 ed è imputata all’emanazione da parte di Cosimo de’ Medici nel 1548 della legge contro cospiratori e ribelli (è noto l’orientamento politico di Strozzi). Ascanio Condivi riferisce del donativo delle statue benché non ne spieghi la motivazione, cfr. Condivi 1553, ed. Nencioni 1998, p. 63. 98 Carteggio, vol. III, pp. 316-319, n. DCCCXX (22 lug. 1531). 99 Ivi, vol. V, p. 145, n. MCCLXXIX (2 dic. 1558). A riguardo del fitto carteggio tra Michelangelo e il nipote Leonardo per l’acquisto di nuove proprietà immobiliari a Firenze si veda supra. 100 Gasparoni 1865a, pp. 265-268. Notizie di questo contratto si trovano anche in Firenze, Archivio Buonarroti (in seguito AB), Leonardo Buonarroti, Debitori e Creditori dello stesso [1545-99], ms. XXXVIII, p. LXVII. 101 ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Tomassini, Testamenti, atto del 4 aprile 1566, f. 284. 102 Carteggio indiretto, vol. II , p. 238, nota 7. 103 Gasparoni 1866a, pp. 162-164. 104 Ibidem. Sulla natura degli interventi eseguiti da Daniele Ricciarelli cfr. anche Carteggio indiretto, vol. II, pp. 222-223, n. 381 (11 feb. 1565); pp. 237-238, n. 387 (2 nov. 1565). 105 Ivi, pp. 198-200, n. 370 (11 giu. 1564). Antonio del Francese era uno di quegli affittuari che abitavano le pertinenze della casa ma che aveva lasciato da poco la conduzione dell’immobile, cfr. ivi, p. 200, nota 12 e Frey 1923-1940, vol. II, p. 38. 106 Carteggio indiretto, vol. II, p. 203, n. 372 (24 giu. 1564); pp. 222-223, n. 381 (11 feb. 1565); pp. 237-238, n. 387 (2 nov. 1565); pp. 246-247, n. 392 (18 apr. 1566). 107 Le ultime volontà di Daniele da Volterra volevano Michele Alberti subentrare nella conduzione della casa di Michelangelo per il restante tempo della durata del contratto di affitto, che era stato concordato in nove anni, cfr. ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Tomassini, Testamenti, atto del 4 aprile 1566, f. 284 e Bedon 2008 p. 165. 108 Alla definizione dell’esatta cifra si giunse a seguito del conguaglio fatto tra un anticipo versato da Leonardo e il pagamento da parte degli eredi di Daniele di alcune “masserizie” appartenenti allo stesso Leonardo andate perdute, cfr. Carteggio indiretto, vol. II, pp. 290-291, nota 2. 109 Ivi, p. 253, n. 397 (22 gen. 1567); p. 254, n. 398 (19 feb. 1567); pp. 257-258, n. 400 (25 giu. 1567); pp. 260-261, n. 402 (28 dic. 1567); pp. 267-268, n. 407 (26 ago. 1569). 110 Ivi, pp. 277-278, n. 414 (24 ott. 1572). A questo riguardo si potrebbe avanzare l’ipotesi che potesse anche trattarsi di una principessa appartenente al ramo siciliano della famiglia Colonna. Luigi Mazio, in una nota in calce al suo testo, infatti, accenna ad alcuni documenti conservati presso l’archivio Colonna di Roma nei quali sarebbe stata presente una lettera della donna in cui era espresso il desiderio di acquistare la casa “ove poco prima aveva cessato di vivere il gran Michelangelo nella via de’ Fornari”, cfr. Mazio 1872, nota s.n., p. 294. 111 Monsignor Orazio Zappato era stato segnalato agli eredi di Leonardo Buonarroti dal loro procuratore a Roma Aurelio Leodoro, cfr. Carteggio indiretto, vol. II, pp. 315-316, n. 439 (6 lug. 1601). La procura era stata fatta a Firenze dal notaio Giacomo de Barnis il 7 gennaio 1604, cfr. ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Gazza, Ufficio 14, vol. 23, atto del 17 feb. 1605, f. 311v. 112 ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Gazza, Ufficio 14, vol. 23, atto del 17 febbraio 1605, ff. 311r-v, 312r-v. 113 Pressouyre 1984, p. 95, nota 18. La studiosa francese sbaglia nell’indicare l’anno (1606) e il numero del foglio (171). 114 Margherita Fratarcangeli corregge gli errori di Pressouyre, ma non puntualizza che si tratta di una “dichiarazione di possesso”, cfr. Fratarcangeli 2003, pp. 103-104; su fatti della famiglia di Stefano Longhi che riguardano il presente studio, cfr. Fratarcangeli 2000, pp. 241-243, 255-258; Fratarcangeli 2006, pp. 153-172; a riguardo si segnala l’imminente uscita di un saggio più approfondito della stessa autrice. 115 ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Gazza, Ufficio 14, vol. 23, atto del 17 febbraio 1605, f. 600r. 116 Bertolotti 1881, vol. II, p. 20 nel quale è trascritta la fideiussione del 28 maggio 1611 e Corradini 1993, p. 109 nel quale è riportata la fideiussio- ne del 14 marzo 1611; cfr. inoltre Antinori 2002. 117 Il primo a parlare di Martino il Vecchio è stato Rodolfo Lanciani, cfr. Lanciani 1906, p. 190, seguito da Ernst Steinmann, cfr. Steinmann 1912, p. 222. Nel testamento dell’architetto non è fatta alcuna menzione di questa casa cfr. ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Serravezzi, Ufficio 11, Testamenti, vol. I, ff. 568 sgg. 118 Per le diverse ricostruzioni proprietarie è stata fondamentale la lettura di Pugliese-Rigano 1972; Patetta 1982; Fratarcangeli 2003, pp. 103104. 119 Archivio Storico del Vicariato di Roma (in seguito ASVR), Santi Apostoli, Stati delle Anime, vol. 45 (15951609), f. 34, nel quale è segnato “Mag.r Stefanus Longhis scarp.s ied Michaelis Angeli”, che vi risultava abitare insieme alla moglie Angela e ai numerosi figli. È questo il primo volume che registra le anime della parrocchia, potrebbe essere quindi che Longhi abitasse la casa di Michelangelo ben prima dell’anno 1595. Fonti documentali contemporanee prodotte dalla famiglia Buonarroti tuttavia non sembrano individuare la presenza dello scalpellino viggiutese, cfr. AB, Leonardo Buonarroti, Debitori e Creditori dello stesso [1545-99], ms. XXXVIII. 120 Non si conosce l’esatta cronologia di questi passaggi, ma essi sono ricavabili in linea di massima dalla lettura attenta dei registri degli Stati delle Anime della parrocchia dei Santi Apostoli relativamente agli anni 1595-1609. 121 ASVR, Santi Apostoli, Stati delle Anime, vol. 45 (1595-1609), f. 34; vol. 46 (1619-1620), ff. 157 r-v; vol. 50 (1631-1637), ff. 100r, 135v136r, 167v-168r. 122 ASR, Notai Cancellieri del Tribunale dell’AC, Notaio Floridi, Testamenti, vol. 52, ff. 396 sgg. (6 giu. 1629); ivi, vol. 53, ff. 161 sgg. (28 mar. 1635), testamenti di Stefano Longhi qm. Francesco; cfr. anche Fratarcangeli 2003, p. 104. 123 Bertolotti 1881, vol. II, p. 107; Di Benedetti 2005. 124 ASR, Notai Cancellieri del Tribunale dell’AC, Notaio Floridi, Testamenti, vol. 53, ff. 161 sgg. MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA 125 ASVR, Santi Apostoli, Stati delle Anime, vol. 46 (1619-1620), f. 157r; cfr. anche Apollonj Ghetti 1968, p. 16; Fratarcangeli 2003, p. 103. 126 La “casa grande” di Michelangelo sarebbe stata venduta dalla famiglia Floridi all’avvocato Cavi tra il 1804 (anno al quale risaliva il Catastro della nomenclatura e numerazione delle porte, dal quale risultava che l’immobile apparteneva ancora ai Floridi) e il 1824, anno della registrazione dei dati catastali, dalla quale emerge che lo stabile apparteneva ai figli dell’avvocato Scipione Cavi, cfr. Corbo 1962, p. 111 e ASR, Presidenza generale del Censo, Catasto urbano, Rione II Trevi, Prima serie, isola 58, f. 105. 127 Sulle vicende processuali cfr. la Risposta Antiquario-Legale alla scrittura del sig. Avvocato Scipione Cavi […], Roma 1822. 128 ASR, Presidenza generale del Censo, Catasto urbano, Rione II Trevi, Aggiornamenti, isola 58, appartenente interamente al principe Alessandro Torlonia a esclusione di alcune unità immobiliari ancora di proprietà della Congregazione dei Fornai di Santa Maria di Loreto. Intorno alla metà degli anni quaranta del XIX secolo, quello che restava delle case di Michelangelo era stato venduto da Francesco Caracciolo, procuratore della famiglia Floridi, al pricipe Alessandro Torlonia, cfr. Apollonj Ghetti p. 15. 129 Una prima sommaria indicazione si trova in Apollonj Ghetti 1968, p. 22. 130 L’affresco è venuto alla luce a seguito della campagna di restauri che ha come oggetto palazzo Bolognetti-Valentini, cfr. Bucci 2009. 131 Si vedano a esempio G.B. Falda, Veduta di Piazza de Santi Apostoli, acquaforte (1665), in Falda 16651669, vol. II, tav. s.n. e L. Cruyl, Colonna Traiana, disegno (1664), in Connors, Rice 1991, p. 191, tav. XIV. 132 Guida di Roma Sacra 1687, p. 157. 133 Breve Guida di Roma 1875, p. 154. 134 Pellegrini 1869, p. 86; Bertarelli 1925, pp. 285-286. 135 Roma 1977, p. 485. L’identificazione di questa casa come quella di Michelangelo Buonarroti a Macel de’ Corvi si trova in Hatfield 2002, p. 103, nota 31, dove si puntualizza che la segnalazione è di William Wallace. L’edizione aggiornata al 1999 della stessa guida così si esprime: “è stata ricostruita nel 1941 la cosiddetta casa di Michelangelo, che riprende, con alcune varianti, la partitura architettonica del prospetto sul cortile di una casa del ’500, ritenuta di Michelangelo già a Macel de’ Corvi”, p. 588. 136 Arrigoni, Bertarelli 1939, p. 70, tav. 652. 137 Rossini 1818, tav. 9. 138 Firenze, proprietà privata, cfr. P. Ragionieri, scheda 52, in Ragionieri 2003, pp. 146-149, nello specifico p. 146. 139 Letarouilly 1840-1857, vol. testo, p. 670. 140 Pernier 1942. 141 Ivi, p. 86. 142 Sulla presunta corrispondenza stilistica del sedile con quello analogo presente lungo il prospetto dell’edicola monumentale per la cappella dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo si veda il saggio di Mauro Mussolin in questo catalogo. 143 Archivio Storico Capitolino di Roma (in seguito ASC), Atti della Giunta Comunale del 30 settembre 1873, n. 30, ff. s.n. 144 Pernier 1942, p. 96, fig. 13, ma soprattutto ASC, Volume degli Atti pubblici, P-Z, anno 1874, Pianta rilevata dalla Commissione degli Architetti ed Ingegneri deputata allo studio ed ornato della città di Roma, ff. sgg. s.n. 145 ASC, Rubrica contratti, Volume degli Atti pubblici, 1871-1875, n. 2, documento del 1 feb. 1842, nel quale la casa in oggetto è ipotecata per 2000 scudi. 146 Chi scrive si riserva di approfondire in altra sede l’analisi della planimetria così come lo studio di una possibile attribuzione della veduta del vestibolo alla casa che Michelangelo possedeva a Macel de’ Corvi. 147 Cfr. Brancia di Apricena 2007, pp. 103-147. 71 MICHELANGELO: RITRATTI E AUTORITRATTI Pina Ragionieri GLI ANNI DAL 1505 AL 1516 Abbiamo voluto adornare l’itinerario di questa mostra, dedicata alla lunga vicenda romana di Michelangelo architetto, di tre ritratti dell’artista, significativi segnali che vanno oltre il riferimento strettamente biografico: di qui l’obbligo di parlare dell’argomento. Tanto più che, incredibilmente, se si affronta il tema dei ritratti di Michelangelo, ci si trova davanti una questione più da proporre che da riepilogare. Serve una premessa: l’interesse per l’argomento è naturale per chi, lavorando all’interno della Casa Buonarroti, giocoforza all’ombra di Michelangelo, dei ritratti dal vero del Maestro ne può vedere in originale ben quattro: e sono i dipinti di Giuliano Bugiardini (fig. 1) e di Jacopino del Conte (fig. 2), la medaglia di Leone Leoni (fig. 3) e il busto di Daniele da Volterra. Ma nella bibliografia michelangiolesca sono tutt’altro che numerose le voci che interessano il nostro discorso; e si può supporre che alla base della situazione stia l’avversione dell’artista a ritrarsi e a essere ritratto. Dice Giorgio Vasari: “Di Michelagnolo non ci è altri ritratti che duoi di pittura, uno di mano del Bugiardino e l’altro di Iacopo del Conte, et uno di bronzo tutto rilievo fatto da Daniello Ricciarelli, e questo [cioè la celebre medaglia] del Cavalier Lione, da e’ quali se n’è fatte tante copie, che n’ho viste, in molti luoghi di Italia e fuori, assai numero”. Al succinto elenco vasariano si possono fare poche aggiunte, tra le quali spicca l’acquerello di Francisco de Hollanda, immagine singolarmente domestica di un Michelangelo più che sessantenne, che evoca alla nostra memoria le conversazioni di San Silvestro in Capite presiedute da Vittoria Colonna, e in parte trascritte dall’allora ventunenne portoghese. Si può dire che le altre immagini di Michelangelo sono derivazioni dai gli anni dal 1505 al 1516 prototipi qui indicati, con forte maggioranza del ritratto di Jacopino. Nel ricetto del piano nobile della Casa Buonarroti sono esposti numerosi ritratti di Michelangelo, giunti come deposito dalle Gallerie fiorentine nella prima metà del Novecento, derivanti tutti proprio da questo prototipo. È il caso del dipinto in mostra (cat. 1), attribuito a Marcello Venusti (circa 1515-1579), che fa parte però da secoli delle collezioni della famiglia Buonarroti: infatti è nominato in un inventario del 1799, che ne precisa anche la collocazione nelle sale secentesche al primo piano del palazzo. Merita menzione la ricca cornice barocca, opera di artigianato fiorentino del XVII secolo. Incisioni e immagini cinquecentesche, numerose data la fama di Michelangelo, furono elencate fino a circa cento da Ernst Steinmann, lo studioso che all’inizio del secondo decennio del Novecento scandagliò coraggiosamente, con serietà scientifica e in gran parte di prima mano, l’argomento, concludendo con la descrizione delle immagini di primo Seicento della “Galleria” della Casa Buonarroti. Benemerito, in che misura non staremo qui a ripetere, degli studi michelangioleschi, lo storico dell’arte tedesco fu coinvolto nel 1911 nelle celebrazioni del cinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Correva un anno cruciale per la nazione, rimasto nella storia soprattutto per l’impresa libica, che il quarto ministero Giolitti portò avanti nonostante la diffusa ostilità all’estero e i non ascoltati pareri di chi all’interno, come per esempio Gaetano Salvemini, giudicava l’attacco alla Libia niente altro che un dannoso “trabocchetto”. Intanto che la musa di Gabriele d’Annunzio s’impennava pericolosamente con le sue Canzoni delle gesta d’oltremare, un altro filone di nazionalismo – casereccio e sicura73 1. Giuliano Bugiardini, Ritratto di Michelangelo, 1522. Firenze, Casa Buonarroti mente più innocuo – lavorava a celebrare il cinquantenario. Ci furono iniziative in tutta Italia; nella capitale si svolse la grande Esposizione internazionale di Villa Giulia, e alla sua ombra fiorirono molte altre iniziative, tra le quali, a Castel Sant’Angelo, le cosiddette “Mostre retrospettive”. Qui Steinmann collaborò alla prima e, a quanto sappiamo, unica (salvo quella svoltasi nel 2008 in Casa Buonarroti) mostra di ritratti michelangioleschi, con una competenza di lunga data che sarebbe confluita nella sua monumentale opera sullo stesso tema pubblicata nel 1913 (Steinmann 1913). È singolare che le due voci principali della bibliografia sull’argomento risalgano allo stesso anno: nel gennaio del 1913, Paul Garnault licenziava il suo Les Portraits de Michelange, opera assai informata di un conoscitore appassionato delle città d’arte italiane, nella quale si cita dello Steinmann soltanto la produzione anteriore al 1911, approdando tuttavia a conclusioni simili: “Si l’on tient compte des images tardives, purement imaginaires, ou de celles qui s’inspirent de simples réminiscences, le nombre des portraits 74 2. Jacopino del Conte, Ritratto di Michelangelo, circa 1535. Firenze, Casa Buonarroti, “Galleria” connus, vrais ou supposés, de Michelange s’élève presque à cent. Dans cet immense bric-à-brac, on compte seulement cinq portraits véritables, c’est à dire posés”. Ma l’immagine di Michelangelo ci è tramandata anche da un altro genere di ritratto: come per altri grandi, e non solo della storia dell’arte, la sua fisionomia fu infatti riprodotta da artisti a lui contemporanei conferendone le caratteristiche a personaggi effigiati in scene d’insieme; e qui soccorrono molti esempi, tra i quali ricordiamo: Raffaello nella Stanza della Segnatura nei Palazzi Vaticani, dove in un corrucciato Eraclito sempre più concorde è la critica nel riconoscere Michelangelo (fig. 4); Giorgio Vasari nel Salone dei Cento giorni del palazzo della Cancelleria a Roma e nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze; Alessandro Allori nella cappella Montauti della Santissima Annunziata a Firenze; Daniele da Volterra che diede le fattezze del suo grande amico a un apostolo nell’affresco con l’Assunzione della Vergine, nella cappella della Rovere nella chiesa di Trinità dei Monti a Roma. Di quest’ul- 3. Leone Leoni, Medaglia di Michelangelo, 1561. Firenze, Casa Buonarroti timo ritratto esiste il famoso, intenso cartone preparatorio, conservato nelle collezioni del Teylers Museum di Haarlem (fig. 5). Daniele giunge a Roma dalla natia Volterra non ancora trentenne, negli anni in cui Michelangelo lavora al Giudizio universale; e ben presto rivolge la propria attenzione al Buonarroti, mostrando, come afferma Vittoria Romani, di essere il solo artista in grado di confrontarsi autonomamente con il linguaggio difficile e sempre più severo e introverso del Maestro, con un sentimento di ammirazione e di amicizia che lo avrebbe posto tra i pochissimi presenti alla morte di lui, e che lo avrebbe spinto ad accettare di eseguirne la maschera funebre, poi tramutata nella celebre testa bronzea, un esemplare della quale, di proprietà dei Musei Capitolini, si potrà ammirare in mostra (cat. 2). In questo “ritratto di metallo”, di straordinaria suggestione, agiscono le stesse motivazioni biografiche, gli stessi sentimenti di amicizia che fanno anche del citato cartone di Haarlem un vero ritratto dell’anima (fig. 5), evidentemente ripreso dal vivo, in cui Daniele ritrae il grande amico frontalmente ma con il capo un po’ reclinato, con lo sguardo che sembra perso in tristi pensieri, e con le labbra serrate da un senso di solitudine e di arcana mestizia. Contemporanee al Maestro, e conseguenza della sua fama, sono anche immagini che si collocano tra l’aneddoto e la fantasia. Una rara e suggestiva acquaforte, di proprietà del British Museum, ritrae l’artista in meditazione: un’iscrizione al suo interno rivela l’intenzione dell’autore di ritornare all’immagine di Michelangelo ventitreenne del primo soggiorno romano e della Pietà di San Pietro. Nel 1527, Sigismondo Fanti ritrae “Michael Fiorentino”, che scolpisce, seminudo e con gran foga, una statua femminile nella quale, ai tempi di Steinmann, si volle riconoscere l’Aurora della Sagrestia Nuova. E dopo la scomparsa di Michelangelo, alla soglia degli anni ottanta del secolo, Federico Zuccari, in un piacevole quadretto, ritrae Michelangelo che osserva suo fratello Taddeo mentre dipinge la facciata del romano palazzo Mattei (fig. 6). E qui ci fermiamo: giacché, nel rispetto dei limiti cronologici della mostra, di necessità anche il nostro discorso non va oltre i contemporanei del Maestro, non escludendo però una rapida indagine sul tema autoritratto. È noto che Michelangelo raffigurò sé stesso assai raramente. Una di queste eccezioni è il celebre foglio dell’Archivio Buonarroti, presente in mostra (cat. 3; Corpus 174), in cui l’artista si rappresenta nell’atto del suo arduo dipingere la volta Sistina. Nel 1508 Michelangelo, poco più che trentenne, dà inizio infatti a una insolita fatica – per lui che ama definirsi scultore – come è quella di affrescare le sterminate volte della cappella papale: immane impresa, destinata a esprimere un concetto spaziale ed estetico nuovo, sovrumano, sovvertitore – che segli anni dal 1505 al 1516 gna, infatti, nella storia dell’arte, quel punto fermo che spazzò via tanto passato. Fatica insolita, ma anche pesante, che si protrasse per quattro anni, trascorsi in gran parte in piedi e talvolta disteso su di uno scomodo ponteggio. Ed ecco Michelangelo, in un momento d’umor nero, descrivere a un amico pistoiese, di nome Giovanni, con un sonetto caudato, la strana posizione che è costretto a tenere. Sul verso del foglio si legge infatti, di mano di Michelangelo, l’indirizzo “A Giovanni, a quel / proprio da Pistoia”. In verticale, a commento dei versi, si colloca il celebre autoritratto: un pezzo noto e da sempre ammirato. Ma nonostante in questo caso si possa parlare di precoce popolarità, in generale la fama dei disegni di Michelangelo conservati nei preziosi volumi dell’Archivio Buonarroti è stata fino a non molti anni fa piuttosto modesta, se si considera il loro pregio spesso di grande rilievo. A lungo ha prevalso sul livello artistico il valore documentario, che procurava a studiosi e biografi testimonianze indispensabili a decifrare una vita e una carriera complesse e difficili. Un disegno del Louvre, molto deperito, che sembra raffigurare un Michelangelo non giovane con “turbante” fu scoperto da Steinmann, che lo ritenne un autoritratto; tale ipotesi fu raccolta nel 1938 da Bernard Berenson e accettata sia da Charles de Tolnay nel 1975 sia da Michael Hirst nel 1988; più recentemente Paul Joannides ha attribuito il disegno a Baccio Bandinelli (2003). Senza dubbio Michelangelo ritrasse sé 75 4. Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, post 1511, particolare con il ritratto di Michelangelo. Città del Vaticano, Palazzo Apostolico, Stanza della Segnatura 6. Federico Zuccari, Michelangelo osserva il giovane Taddeo Zuccari che decora la facciata di palazzo Mattei, ottavo decennio del XVI secolo. Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini 5. Daniele da Volterra, Ritratto di Michelangelo, 1550-1552. Haarlem, Teylers Museum, inv. A 21 stesso nella testa inserita nella pelle scorticata di san Bartolomeo del Giudizio universale della Sistina; ma avrebbe impresso in modo ben più emozionante i suoi tratti sul volto sereno, al di là di ogni dolore, del Nicodemo della Pietà del Museo dell’Opera del Duomo a Firenze (fig. 7). Tuttavia, resta un dato di fatto la ritrosia dell’artista a effigiare tanto sé stesso quanto gli altri, a meno che non si trattasse di soggetti di avvenenza estrema. “Ritrasse Michelagnolo Messer Tommaso [Cavalieri] in un cartone, grande di naturale, che né prima né poi di nessuno fece il ritratto, perché aborriva il fare somigliare il vivo, se non era d’infinita bellezza.” Così dice Vasari; e non bastano a contraddirlo gli esempi di autoritratto or ora citati, né la distrutta statua bronzea di Giulio II, né il ritratto perduto del bellissimo Tommaso, né le effigi di Pietro Aretino e di Biagio da Cesena che si riconoscono in quello spietato affresco di eterna salvazione e condanna che è il Giudizio universale. E infatti i due antichi biografi preferirono ritrarre il Buonarroti tramandandone le fattezze per iscritto: Ascanio Condivi, nel 1553, mischiando caratteristiche fisiche con tendenze, abitudini e pensieri, Vasari, nell’edizione giuntina del 1568, copiando senza remora alcuna la descrizione del collega, fin nei particolari di certe pagliuzze fra l’oro e l’azzurro negli occhi del Maestro. Nell’introduzione alla sua opera sui ritratti di Michelangelo, lo stesso Steinmann si chiede: Perché Tiziano ha dipinto il ritratto dell’Aretino e non quello di Michelangelo? Perché nel secolo d’oro della moderna arte non si è trovato nessun pennello o scalpello che abbia creato un’immagine realmente grande del più grande dei maestri? Sebbene così discordi siano le opinioni sui nomi degli artisti che hanno tentato di ritrarre Michelangelo, e malgrado si scontrino i pareri anche sulla qualità di queste opere, il senso di tutto ciò è tuttavia che il grande Buonarroti non è mai stato rappresentato in maniera corrispondente all’altezza dell’esercizio artistico di quel tempo, e della sua stessa grandezza. Ogni artista dipinge sé stesso nel modo migliore, ha affermato una volta Michelangelo, ma egli non ha mai attuato su di sé la verità di questa sentenza. E, prosegue Steinmann: Michelangelo spinse l’ardore dell’amicizia a esprimersi più volentieri con la penna che con il pennello o lo scalpello. Del resto, egli abbozzò un disegno per il monumento funebre del prematuramente scomparso Cecchino Bracci, e sorvegliò l’esecuzione del monumento, ma compose 76 tuttavia non meno di cinquanta epigrammi apposta per consolare l’amico Luigi del Riccio della perdita del suo prediletto. Quando Gandolfo Porrino [poeta e amico di Michelangelo] pregò di restituire gioia e pace ai suoi occhi, e di conservare con pennello o scalpello i tratti dell’amata che gli era stata precocemente strappata, Michelangelo compose in effetti un epigramma per il monumento della defunta, ma rifiutò la preghiera di un ritratto. È con una convinzione molto vicina a queste affermazioni dello studioso tedesco che si tenterà ora di delineare, del Maestro, anche una sorta di ritratto (e a volte autoritratto) interiore attraverso testimonianze dello scrittore e del poeta. Diciamo subito che la statura smisurata di Michelangelo nel panorama storico artistico ha messo in ombra, nei secoli, le doti del poeta. Le sue rime, lui vivo, fecero naturalmente parte del suo mito: furono amate ed esaltate, e non solo dagli intimi, giacché la loro notorietà oltrepassò questa ristretta cerchia, e alcune di esse, nonostante l’oggettiva asperità dei versi, furono messe in musica. Le lodi per questo genio cui non mancava “l’ornamento della dolce poesia” (Vasari) si sprecavano: accesa e dotta fu l’ammirazione di Donato Giannotti e di Benedetto Varchi, che fece di un sonetto michelangiolesco ancor oggi celebre, Non ha l’ottimo artista alcun concetto, l’argomento di una sua lezione all’Accademia Fiogli anni dal 1505 al 1516 rentina (1547); si giunse a iperboli smodate con Pietro Aretino che, prima di guastare i rapporti con l’artista, espresse il desiderio di poter collocare gli scritti di Michelangelo nel vaso smeraldino in cui Alessandro Magno custodiva i poemi di Omero. E intanto Francesco Berni contrapponeva le rime del Buonarroti agli eccessivi languori dei petrarchisti suoi contemporanei: Ho visto qualche sua composizione, sono ignorante, e pur direi d’avelle lette tutte nel mezzo di Platone. Sì ch’egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle. Tacete unquanco, pallide viole e liquidi cristalli e fere snelle: e’ dice cose e voi dite parole. D’altra parte il paragone tra la pittura e la poesia, così vivo in tutto il Cinquecento, aveva consacrato anche da questo punto di vista l’universalità di Michelangelo il quale, da parte sua, si schermiva davanti a lodi così inusitate, come risulta dal carteggio e come annota fedelmente Condivi: “Ma a questo [poetare] ha atteso più per suo diletto che perché egli ne faccia professione, sempre se stesso abbassando et accusando in queste cose la ignoranza sua”. Per primi i neoclassici misero a confronto la poesia di Buonar77 7. Michelangelo Buonarroti, Pietà, 1550-1555, particolare dell’autoritratto nelle sembianze di Nicodemo. Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore roti con la sua opera figurativa; ma una vera e propria riflessione critica su Michelangelo poeta cominciò, come oggi comunemente si riconosce, con Ugo Foscolo, che nel corso dei suoi drammatici tardi anni londinesi per due volte, nel 1822 e nel 1826, tornò su questo tema, rapportandolo forse troppo recisamente ai suoi ideali classicistici, fermo nel non voler considerare le rime di Michelangelo come “produzioni d’un uomo professante poesia” (sono d’altronde termini che ricordano quelli dell’antico biografo!); e tuttavia apprezzando in quei versi “un certo che d’originale e d’insolito che, separandoli da ogni cosa volgare, li rende preziosi e mirabili”. Le rime furono studiate e tradotte nelle principali lingue europee, anche da poeti del livello di William Wordsworth e Rainer Maria Rilke, e spesso celebrate lungo tutto l’Ottocento, quando di Michelangelo poeta ci si cominciò a occupare anche con giusto fervore filologico, da Cesare Guasti a Karl Frey, nonostante il silenzio di Francesco De Sanctis. Nel corso del Novecento il giudizio su Michelangelo poeta si fa più severo, a cominciare dalle negazioni di Benedetto Croce. Ma l’accusa di dilettantismo e di inesperienza letteraria doveva fatalmente cadere, come sembrano ad esempio dimostrare le convincenti letture giovanili di Gianfranco Contini, o le declamate ma felici intuizioni di Giovanni Papini sulla poesia di Michelangelo come esigenza del suo sviluppo spirituale. Difficile e non del tutto chiarita resta tuttavia una definizione 78 stilistica di questa poesia. Si può ancora ripetere, con Luigi Baldacci, che “quando non si tratti di bizzarrie manieristiche o di rime spirituali, la poesia di Michelangelo ha ispirazione amorosa e si riferisce per massima parte alle sue relazioni fondamentali: quella col giovane romano Tommaso Cavalieri, conosciuto dal poeta intorno al 1532, del quale i contemporanei testimoniarono la straordinaria bellezza e la leggiadria dei costumi e dell’ingegno, e l’altra con Vittoria Colonna, iniziatasi più tardi e di cui l’eco perdura dopo la morte della donna (1547)”. E si può ancora concordare con questo grande critico quando acutamente contrappone il platonismo (che oggi può sembrare addirittura glaciale) di Vittoria a quell’eroico furore che in Michelangelo è “il segno di un’immensa prova spirituale che si placò solo in Dio”. Del resto, molti tra i più attenti e sensibili lettori dei nostri tempi ci hanno convinti a ritrovare nelle rime del Maestro un’esigenza di personale, intimo conforto, uno sfogo dell’anima, pensosi e privatissimi appunti della memoria; espressioni, insomma, di elevato sentire che possono commuovere, oltre che aiutare lo studioso e il biografo, ma che rimangono non esplorate fino in fondo, in un marginale, anche se assai nobile, limbo autobiografico. Due clausole finali a questa veloce introduzione alla lettura di Michelangelo poeta. In primo luogo, non appare del tutto superfluo sottolineare che i suoi più ferventi ammiratori sono a tutt’oggi quelli che più a lungo e con più forte intento filologico l’hanno studiato, dai già citati pionieri ottocenteschi a Enzo Noè Girardi, la cui edizione critica delle rime di Michelangelo porta ottimamente i suoi quasi cinquant’anni; infine, può forse aiutare a comprendere l’alta meditazione e la spiritualità di questi versi la nostra allusione a quel Michelangelo privato che agli amici donava, come intimi autoritratti, poesie stilate in bellissima grafia. Orientamenti bibliografici Prima del recente catalogo Il volto di Michelangelo (Ragionieri 2008), il testo di riferimento sui ritratti fatti a Michelangelo resta Steinmann 1913; per i ritratti di Giuliano Bugiardini e di Jacopino del Conte cfr. le schede 1 e 3, in Ragionieri 2003, pp. 18-19, 22-23; per il busto bronzeo di Daniele da Volterra, si veda A. Cecchi, scheda 55, in Romani 2003, pp. 170-172; il passo sui ritratti di Michelangelo nell’edizione giuntina delle Vite di Vasari si può leggere, con ricco commento di Paola Barocchi, in Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 108, vol. IV, pp. 1738-1743; sull’acquerello di Francisco de Hollanda compreso nel codice delle Antigualhas (c. 2 recto), cfr. Tormo 1940, pp. 37-38; questa edizione presenta in facsimile l’intero contenuto del prezioso codice; il rapporto tra l’artista portoghese e Michelangelo è stato indagato, in più occasioni, in Deswarte-Rosa 1988-1989; Deswarte-Rosa 1991; Deswarte-Rosa 1997; sul ritratto di Michelangelo nei panni del filosofo greco Eraclito, inserito da Raffaello nella Scuola d’Atene, come si sa ad affresco finito, si veda la scheda 64, in Forlani Tempesti 1984, p. 59; per i ritratti di Michelangelo nei cicli vasariani, a Roma (nella scena con la Remunerazione della virtù nella Sala dei Cento Giorni, 1546, del palazzo della Cancelleria) e a Firenze (nella scena con Leone X che elegge i cardinali nella Sala di Leone X, 1555-1562, in Palazzo Vecchio), cfr. J. Kliemann, scheda 19a-g, in Corti et al. 1981, pp. 120-123; Allegri, Cecchi 1980, pp. 119-120, sez. 27/21; altro ritratto di Michelangelo è presente nella grande tavola con il Giudizio universale, eseguita per la cappella Montauto, ma ora trasferita nella cappella Galli, alla Santissima Annunziata di Firenze (cfr. Lecchini Giovannoni 1991, pp. 218-219, n. 11), dipinta dal giovane Alessandro Allori quale testimonianza della sua devozione a Michelangelo, come per primo osservato da Filippo Baldinucci: “Dietro alla persona di Gesù disputante sono due vecchi […]; il primo è il Buonarruoti, il secondo, che gli sta a sinistra, è Agnolo Bronzino, zio e maestro del pittore”, cfr. Baldinucci, ed. Ranalli 1845-1847, vol. III, p. 521; sul cartone di Daniele da Volterra al Teylers Museum di Haarlem (inv. A 21), cfr. I. di Majo, scheda 27, in Romani 2003, pp. 110-112; sull’illustrazione del Triompho di fortuna di Sigismondo Fanti, si veda la scheda 2, in Ragionieri 2003, pp. 20-21; per il dipinto di Federico Zuccari, cfr. L. Mochi Onori, schede 16 e 49, in Ragionieri 2003, pp. 42, 122-123. Relativamente agli autoritratti, per il disegno di Casa Buonarroti, cfr. Ragionieri 2008, pp. 110-111; per il disegno del Louvre (inv. 2715), di attribuzione discussa tra Michelangelo e Baccio Bandinelli, cfr. Joannides 2003, pp. 398-400, n. R 27; l’effigie di Michelangelo inserita nella pelle scorticata del san Bartolomeo del Giudizio universale è stata al centro di ampio dibattito, a partire da La Cava 1925; che Michelangelo si fosse autoritratto nei panni di Nicodemo della Pietà del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze è ipotesi per prima avanzata da Vasari in una lettera del 18 marzo 1564 a Leonardo Buonarroti: “èvvi un vechio che egli ritrasse sé”, Carteggio indiretto, vol. II, pp. 179-183, n. 362; su questo tema sono ancora significative le considerazioni di Stechow 1964, pp. 289-302; più di recente Paoletti 2000, pp. 60-63. Il passo vasariano sul perduto ritratto di Tommaso Cavalieri si legge in Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 118, e si veda Agosti, Farinella 1987b, p. 97. Le vicende della “Galleria” della Casa Buonarroti sono ricostruite in Vliegenthart 1976; le celebrazioni del 1911 per festeggiare l’unità d’Italia sono ricostruite nel catalogo Roma 1911 (Piantoni 1980), mentre manca ancora un adeguato esame delle correlate “mostre retrospettive”. gli anni dal 1505 al 1516 La Lezzione di Benedetto Varchi sul sonetto di Michelangelo, “fatta da lui pubblicamente nella Accademia Fiorentina la seconda domenica di Quaresima” del 1547, è stata edita da Torrentino, a Firenze, nel 1549: si può leggere, commentata, in Barocchi 1971-1977, vol. II, pp. 1322-1341; una ottima antologia di testi cinquecenteschi sul paragone tra pittura e poesia – da Leonardo a Gaurico, da Equicola a Speroni, da Varchi a Borghini – è contenuta in Barocchi 1971-1977, vol. I, pp. 221-462. I saggi di Ugo Foscolo su Michelangelo poeta, Michelangelo del 1822 e Poems of Michel Angelo Buonarroti del 1826, sono compresi in Foscolo 1940, pp. 333-344; i giudizi di Benedetto Croce sono in Croce 1933, pp. 391-400; Gianfranco Contini tenne a Strasburgo nel 1935 una conferenza sulla poesia di Michelangelo, pubblicata nel 1937 con il titolo Il senso delle cose nella poesia di Michelangelo, che coincide con il saggio Una lettura su Michelangelo, in Contini 1974, pp. 242-258; le considerazioni di Luigi Baldacci si possono leggere in Baldacci 1955, pp. 27-45. L’edizione più affidabile delle Rime michelangiolesche è ancora quella di Enzo Noè Girardi del 1960 (qui Rime), nonostante le osservazioni in Contini 1960; da tempo Guglielmo Gorni sta preparando una nuova edizione critica delle poesie di Michelangelo: si veda per ora l’ampia antologia Poeti del Cinquecento, di Gorni, Danzi, Longhi 2001; sul testo di Girardi si fondano edizioni più accessibili tuttora in commercio, tra cui si segnala quella curata da Matteo Residori negli Oscar Mondadori del 1998; lo stesso Residori ha curato, insieme a Paolo Grossi, gli atti di una giornata di studi tenutasi a Parigi nel 2005, che raccoglie una serie di contributi anche di carattere filologico, cfr. Grossi, Residori 2005. 79 1. Michelangelo Buonarroti, Studi per la volta della cappella Sistina, 1508. Londra, The British Museum, inv. 1859-6-25-567 recto CAPPELLA SISTINA Cammy Brothers È il partimento di questa opera accomodato con sei peducci per banda, et uno nel mezzo delle facce da piè e da capo […]. Nel partimento non ha usato ordine di prospettive che scortino, né v’è veduta ferma, ma è ito accomodando più il partimento alle figure che le figure al partimento. Giorgio Vasari1 Quando Michelangelo nel 1508 accettò l’incarico da parte di Giulio II della Rovere (1503-1513) per la volta della cappella Sistina, non solo pose sé stesso nella condizione di diventare un celebrato pittore, ma iniziò anche a maturare le competenze di cui si sarebbe avvalso per inserirsi nel campo dell’architettura2. Ciò comportò la necessità di affinare tanto le tecniche del disegno, quanto le capacità compositive. Inoltre in questo contesto iniziò a costruire quel lessico architettonico che avrebbe continuato a impiegare nei lunghi anni a venire. Prima del 1508, le principali esperienze di Michelangelo erano avvenute nel campo della scultura: la logica scultorea resta certamente il principio fondante del progetto della volta della cappella Sistina. Ciò è ben evidente sia nella rappresentazione delle scene, attraverso lo sfalsamento dei piani secondo differenti profondità (gli Ignudi paiono sporgersi nello spazio dell’osservatore, mentre gli episodi narrati sembrano arretrare rispetto alla superficie dipinta), sia nell’enfasi data alle differenti materie rappresentate (bronzo, oro, marmo e persino corpi umani). La volta dimostra inoltre la nuova attenzione di Michelangelo per il partito architettonico delle scene3. L’interesse dell’artista verso elementi quali i rilievi illusionistici, i diversi materiali e il gioco delle cornici, prepararono il terreno per po80 tere successivamente affrontare la sua prima grande commessa architettonica: il progetto della facciata della chiesa di San Lorenzo a Firenze. Al pari di quest’ultima, anche la volta Sistina costrinse Michelangelo a pensare in grande scala, facendo fronte simultaneamente a complessi problemi di varia natura4. Alcuni indizi sul modo in cui l’artista sviluppò il suo personale approccio verso la composizione architettonica si trovano in due superstiti fogli che mostrano i progetti iniziali elaborati da Michelangelo per la volta Sistina. In essi si vede come l’artista rifletté anzitutto sulla creazione di un opportuno sistema per creare una corrispondente cornice a ciascuna figura5. Sul foglio conservato presso il British Museum, inv. 1859-6-25-567 recto (fig. 1; Corpus 119 recto)6, ritenuto il più antico fra i progetti sopravvissuti per la decorazione della volta, è rappresentata una figura in trono racchiusa fra due archi in posizione corrispondente a quella delle Sibille e dei Profeti. Il progetto contiene ancora elementi decorativi che si pongono in continuità con alcune soluzioni tradizionali sperimentate nell’architettura quattrocentesca, come cerchi inclusi in quadrati, bordi a cartiglio e losanghe, similmente a quanto realizzato da Giuliano da Sangallo nella volta del salone di villa Medici a Poggio a Caiano o nella volta del vestibolo della sagrestia di Santo Spirito a Firenze. Ma anziché riproporre uno schema consueto, Michelangelo configura il rapporto reciproco fra queste componenti in modo nuovo, sovrapponendo le forme e variando i rapporti proporzionali. Il disegno custodito al Detroit Institute of Arts, inv. 27.2 recto (fig. 2; Corpus 120 recto), relativo a una fase di progetto successiva, mostra come l’artista inizi a modellare ciascun riquadro del partito architettonico: i pannelli rettangolari e quelli ovali sembrano esercitare pressione l’uno sull’altro e le figure alate si appoggiano alla cornice ovale preannunciando la posizione degli Ignudi. Il progetto definitivo della volta Sistina sembra prendere le distanze da questi schemi iniziali, derivando piuttosto la propria articolazione dagli elementi architettonici della cappella stessa, quali il sistema di lunette, volte e vele7. In mostra si propone una inusuale immagine del partito architettonico della cappella Sistina tratto da una cromolitografia applicata a un tavolino della seconda metà dell’Ottocento (cat. 5). Nella parte centrale della volta, le divisioni tra le varie scene sono create attraverso una serie di illusionistici arconi trasversali, mentre le ripartizioni sui fianchi della volta sono formate dall’incontro di questi arconi con i profili ogivali delle lunette. L’intero “partimento” architettonico è qui pertanto concepito come una struttura unitaria, mentre le scene che essa suddivide sembrano appartenere a uno sfondo posto al di là di questa architettura fittizia. Prescindendo dai problemi compositivi, per popolare la volta della cappella Sistina Michelangelo dovette inventare un’amgli anni dal 1505 al 1516 pia serie di figure da porre sia a decorazione dei riquadri figurativi sia ad arricchire il partito architettonico. Fino ad allora la principale commissione pittorica ricevuta dall’artista era stata quella della Battaglia di Cascina per Palazzo Vecchio a Firenze, dipinto che non fu portato a termine, ma per cui l’artista eseguì numerosi disegni. In quel contesto, lavorando accanto a Leonardo, Michelangelo maturò un proprio metodo creativo per l’invenzione delle figure e delle loro posture8. I disegni illustrano in che modo l’artista iniziasse a ritrarre la figura a partire da una posa studiata dal vero, per poi modificarla e manipolarla in successive varianti correlate, ma distinte, sparse sull’intero foglio. Tale approccio gli tornò utile quando prese a sviluppare le idee per la volta della cappella Sistina. L’esigenza di ideare figure in pose continuamente variate fu particolarmente stringente nella definizione delle figure degli Ignudi, collocati a scandire le scene in corrispondenza degli arconi trasversali della volta. Proprio gli Ignudi sono il frutto di una serie di operazioni compositive coerenti a partire dalla stessa figura: rotazione, inversione, slittamento, rispecchiamento, allungamento, torsione e capovolgimento9. 81 2. Michelangelo Buonarroti, Studi per la volta della cappella Sistina, 1508. Detroit, Detroit Institute of Arts, inv. 27.2 recto 4. Michelangelo Buonarroti, Studi per le basi dei monumenti dei duchi nella Sagrestia Nuova, 1524. Firenze, Casa Buonarroti, 10 A recto 3. Michelangelo Buonarroti, Due studi di cornice; studi di figure per la cappella Sistina e per il monumento per Giulio II, post 1508. Oxford, The Ashmolean Museum, cat. Parker 297 recto Nel foglio di Casa Buonarroti 75 F recto (cat. 4; Corpus 145 recto), sono presenti molti degli effetti adottati da Michelangelo per ottenere le pose delle figure. Le nove presenti sul foglio sembrano studi per due specifici Ignudi, in particolare quelli situati in alto a sinistra rispetto a Gioele e in alto a destra rispetto a Isaia. In questo foglio, la figura più grande, posta in alto a destra, sembra essere stata velocemente schizzata per prima dal vero. Nella parte inferiore del foglio, le numerose figure più piccole presentano tutta una serie di minime variazioni: le due centrali a destra sono versioni capovolte l’una dell’altra, mentre le altre si distinguono per lievi modifiche dell’angolazione del torso, della posizione delle gambe e della direzione dello sguardo. A giudicare dalle dimensioni ridotte e dal carattere abbozzato di queste figure, oltre che semplicemente dalla 82 loro quantità, si direbbe che siano state tracciate senza ausilio di un modello dal vero, ma a memoria. Nel foglio è contenuto anche un frammento di cornice, a rivelare che Michelangelo rifletteva al contempo sia sui problemi architettonici sia su quelli figurativi. Nell’alternanza di motivi a conchiglia e a ghianda, questo dettaglio architettonico corrisponde alle finte modanature impiegate dall’artista per incorniciare le lunette della volta. L’inclusione delle ghiande nella cornice, chiaramente riferibile al cognome di Giulio II della Rovere, è tipica della decorazione architettonica fiorentina a cominciare dalle soluzioni adottate in più casi da Giuliano da Sangallo. Un ulteriore foglio autografo conservato all’Ashmolean Museum di Oxford (fig. 3; Corpus 157 recto) si caratterizza per una composizione straordinariamente simile al disegno appena analizzato. In esso si osserva una cornice che mostra una soluzione più audace, con dettagli antropomorfi, assai più insolita e movimentata di quella effettivamente dipinta sulla volta10. Questo schizzo architettonico ricorda sia i vivaci capitelli che Michelangelo disegna all’inizio della sua carriera11, sia la base dal profilo umano raffigurata nei suoi studi per le basi dei monumenti ducali della Sagrestia Nuova conservata nel foglio di Casa Buonarroti 10 A recto (fig. 4; Corpus 201 recto). Sebbene la natura eterogenea di questo foglio, contenente studi sia per la volta Sistina che per il monumento per Giulio II, renda difficile la sua esatta datazione, è assai probabile che tale particolare sia stato disegnato pressoché nello stesso torno d’anni in cui veniva progettata la volta e pertanto indichi come l’artista, a partire da queste esperienze, iniziasse a concepire i dettagli architettonici con sempre maggiore audacia. Al di là delle specifiche questioni compositive e progettuali, si può affermare che nella volta Sistina Michelangelo ricorse a una serie di inconsueti particolari architettonici che continuò a rielaborare per anni. Tra questi figurano cariatidi dall’aspetto di putti, teste d’ariete, medaglioni e balaustri. Questi singoli elementi, come ad esempio i balaustri posti in serie, vennero riprodotti da Michelangelo più e più volte in una vasta gamma di contesti, come attestano i disegni destinati alla sepoltura di Giulio II, alla Sagrestia Nuova e alla Biblioteca Laurenziana. L’uso caratteristico e personale di tali componenti rappresenta la prima testimonianza della personale variazione apportata da Michelangelo al linguaggio classico dell’architettura: per tutto il corso della vita l’artista avrebbe continuato a sviluppare questo lessico per riprodurlo in svariati progetti con continue variazioni, secondo un processo che avrà il suo culmine nel linguaggio ormai affatto idiosincratico di porta Pia. Presenti in mostra sono due documenti autografi di Michelangelo, un celebre sonetto caudato destinato a un amico pistoiese di nome Giovanni, con umoristico autoritratto nell’atto di dipingere la volta della cappella Sistina (datato tra 1508 e 1512; cat. 3)12: documenti entrambi del sovrumano sforzo compiuto dall’artista per condurre a termine questa impresa in soli quattro anni. La volta Sistina non è considerata che di rado in rapporto all’architettura di Michelangelo. Tuttavia, i problemi sollevati da tale progetto permisero all’artista di elaborare una serie di idee e di pratiche che gli sarebbero tornate assai utili nell’affrontare i suoi primi progetti architettonici. In tal modo egli sviluppò una grande esperienza che gli permise di articolare le sue composizioni secondo piani sfalsati in profondità e con grande attenzione al rapporto tra i riquadri e le figure. Michelangelo mise inoltre a punto un metodo per elaborare sempre nuove invenzioni, non solo attraverso un incessante lavorio compiuto attraverso l’esercizio del disegno, ma anche mediante un insieme di specifiche operazioni volte a generare variazioni tematiche su soggetti specifici. Seppur maggiormente evidenti nel caso dei disegni a soggetto figurativo, tali consuetudini si sarebbero rivelate essenziali anche per la composizione della sua architettura. Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 41 [ed. 1568]. 2 Una estensiva analisi dell’argomento si trova in Brothers 2008; per una discussione generale sul rapporto fra figura e architettura nell’opera di Michelangelo, si veda Brothers 2006. 3 Caroline Elam ha esaminato l’idea correlata di opera di “quadro” e opera di “figura”, cfr. Elam 2006a, pp. 45-50. 4 Riguardo alla volta della cappella Sistina in rapporto all’architettura di Michelangelo, si vedano Frommel 1 gli anni dal 1505 al 1516 1994b; Robertson 1986; Robertson 1994; più in generale sull’architettura della cappella Sistina, cfr. Pane 1964, pp. 95-120; F. Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 826-829; B. Contardi, scheda 3, in Argan, Contardi 1990, pp. 60-63. 5 Per i primi progetti della volta, si vedano Brandt 1992; Chapman 2005, pp. 102-112, con particolare riguardo per il citato disegno del British Museum. 6 Wilde 1953a, n. 7r. 7 L’architettura della cappella è esaminata in Pagliara 2003. Si presta attenzione al rapporto fra Leonardo e Michelangelo e alla loro competizione in Palazzo Vecchio, in Wilde 1944 e Wilde 1953b. 9 Per analogie metodologiche con altri artisti, si vedano Fusco 1982; Summers 1977; riguardo ai metodi compositivi dei fogli di Michelangelo, cfr. Hirst 1988. 10 Il disegno è esaminato in dettaglio, con vasta bibliografia, in Joannides 2007, pp. 120-126, cat. 18, il quale ipotizza che la cornice sia correlata al monumento per Giulio II, tuttavia, 8 non essendovi alcuna ragione a sostegno di tale ipotesi, non può essere esclusa la sua relazione con la volta Sistina. 11 I disegni dei capitelli sono conservati in due fogli rispettivamente al British Museum inv. 1895-9-15496 verso (Corpus 36 verso; Wilde 1953a, n. 3v) e al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi 233 F recto (Corpus 37 recto). 12 Rime, pp. 4-5 (Sonetto 5); P. Ragionieri, scheda 52, in Ragionieri 2008, pp. 110-111. 83 1. Michelangelo Buonarroti, Progetto per altare monumentale, 1516-1518. Oxford, Christ Church, JBS 64 recto FINESTRA A EDICOLA DELLA CAPPELLA DEI SANTI COSMA E DAMIANO IN CASTEL SANT’ANGELO 2. Michelangelo Buonarroti, Studi per altari monumentali, 1516-1518. Oxford, Christ Church, JBS 64 verso Mauro Mussolin Invariabilmente citato come il più antico incunabolo dell’opera architettonica di Michelangelo, la finestra a edicola della cappella dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo reca una attribuzione al Maestro mai posta in dubbio1. Mancano tuttavia ricerche documentarie approfondite sulla realizzazione di questo prospetto, che appare formato da due parti distinte e, si direbbe, poco coerenti: la finestra crociata centrale di sapore quattrocentesco e il telaio d’inquadramento dell’edicola di gusto assai più classicista2. La sua struttura in marmo statuario, materiale piuttosto raro nella coeva architettura romana, è costituita da un’ampia edicola centrale sormontata da timpano triangolare e da due campate laterali leggermente arretrate. L’ordine architettonico è caratterizzato da capitelli dorici e basi attiche: la campata centrale è sostenuta da semicolonne alle quali si affiancano, verso l’esterno, semi-lesene che diventano lesene ai due estremi laterali del prospetto. Particolarmente interessante è l’edicola centrale, occupata da una finestra dalla raffinata partitura cruciforme. Si tratta di una finestra cosiddetta guelfa o crociata, assai diffusa nell’architettura romana del Quattrocento, qui composta con grande novità di disegno: il braccio orizzontale della crociera è una cornice modanata che risalta sui montanti inferiori in modo da formare pseudo-capitelli; questi elementi svolgono, a loro volta, la funzione di basi d’appoggio alle volute che occupano il posto dei montanti superiori della crociera. Delle quattro aperture della finestra, quelle inferiori sono di forma quadrata e appaiono schermate da allungatissimi balaustrini doppi in bronzo, ribattuti su ciascun lato da semi-balaustrini di analogo profilo, scolpiti in marmo nei corrispon84 denti blocchi dei pilastri; quelle superiori sono di forma rettangolare e protette da semplice grate di ferro. Ciascuna delle due campate laterali è animata da nicchie, i cui piccoli catini absidali si impostano su una cornice che è il prolungamento del braccio orizzontale della finestra. Uno splendido foglio autografo, databile intorno al 15161518, conservato presso la biblioteca della Christ Church di Oxford, JBS n. 64r-v (figg. 1-2, Corpus 280 recto-verso)3, contiene una serie di studi per altari monumentali i quali, seppur con alcune differenze, mostrano partiture architettoniche simili alla facciata in Castel Sant’Angelo (fig. 3). La somiglianza diviene particolarmente evidente con il progetto disegnato nel recto del foglio4: esso rappresenta uno degli assai rari “disegni di dimostrazione” di Michelangelo, ovvero un progetto in pulito da mostrare a un committente che resta ancora ignoto agli studi5. In questo caso l’opera di “quadro”, ovvero la partitura architettonica, fa da supporto all’opera di “figura”, ovvero a rilievi scultorei e statue, lasciando entrambe ben distinte6. Nella finestra di Castel Sant’Angelo appare ancora indubbia la memoria delle macchine d’altare tardoquattrocentesche di tradizione fiorentina7, come pure evidente è l’andamento ritmico a-b-a derivato dal motivo dell’arco di trionfo8. Schemi entrambi, che Michelangelo abbandonerà presto per dare avvio a più complesse meditazioni architettoniche che lo porteranno, in breve, a superare la convenzionale distinzione fra “quadro” e “figura” e a concertare un dialogo tra architettura e scultura di pari potenza espressiva9. Spesse volte gli studiosi hanno sottolineato il carattere epifanico di questo iniziale progetto in rapporto alla successiva pro- duzione architettonica di Michelangelo. La semplice, ma ben concatenata disposizione degli elementi evidenzia infatti alcuni dei più tipici leitmotive dell’architettura michelangiolesca: fra i dettagli, sono presenti le volute, i balaustri, le cornici articolate da risalti, il timpano centrale ridotto, le nicchie sormontate da targhe, mentre fra le soluzioni plastico-compositive, si ritrovano i piani verticali sfalsati, la variatio dei sostegni verticali, l’utilizzo del marmo statuario abbinato al bronzo10, la rivisitazione di elementi tradizionali, in questo caso la finestra crociata11. Tracciando la fortuna degli elementi architettonici dell’edicola presenti nella produzione successiva di Buonarroti, James Ackerman ha sottolineato la “notevole individualità” della composizione che anticipa le soluzioni della facciata di San Lorenzo a Firenze12, evidenziando al tempo stesso come esista un rapporto strettissimo fra l’edicola e le finestre inginocchiate di palazzo Medici, opere entrambe in cui i “motivi tradizionali sono adoperati in maniera antitradizionale”13; Eraldo Gaudioso, che più di tutti ne ha osservato l’architettura, ha evidenziato l’affinità con i vigorosi risalti e la forza plastica del telaio architettonico dipinto sulla volta della cappella Sistina14. È interessante poi registrare la vitalità dello schema di questa facciata che riappare in un’opera successiva e poco documentata di Michelangelo, ovvero la restituzione grafica che il Maestro fece del monumento per i Fasti Consolari rinvenuti nel Foro Romano, il cui schematico disegno fu inserito e pubblicato da Bartolomeo Marliani nel suo volume intitolato Consulum, dictatorum censorumque romanorum series del 1549 (cat. 7)15. Ancora piuttosto simile è il prospetto della distrutta facciata della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore a Roma, convenzionalmente assegnata a Michelangelo, ma più probabile invenzione di Giacomo della Porta (cat. 87)16. Considerando come la finestra a edicola di Castel Sant’Angelo sia principalmente un’opera di “quadro”, i rari elementi di “figura” acquistano valore altamente simbolico. Sul breve timpano triangolare è scolpito un anello con diamante legato con nastri e piume, mentre una testa di leone su targa liscia appare sopra ciascuna delle due nicchie. Questi emblemi figurati costituiscono un inequivocabile segno posto a identificare il pontificato di Leone X de’ Medici (1513-1521). Questo papa, che abitò spesso e di buon grado in Castel Sant’Angelo, fu certamente colui che commissionò l’opera dopo il 1514. A quest’anno risale infatti un motu proprio del papa che assegna un reddito mensile di tre ducati d’oro per l’ufficiatura della cappella “noviter constructa”, per l’occasione nuovamente dedicata ai Santi Cosma e Damiano17. La cappella, inizialmente eretta sotto Eugenio IV Condulmer (1431-1447), era stata unita agli appartamenti pontifici da Niccolò V Parentucelli (1447-1455) gli anni dal 1505 al 1516 intorno al 1450. A Leone X si deve il ripristino del vano con importanti modifiche strutturali, per le quali fu coinvolto Antonio da Sangallo il Giovane. I documenti riferiscono al 10 novembre 1514 alcuni pagamenti a questo architetto per opere di regolarizzazione dei muri perimetrali e degli ingressi18. Alla stessa tornata di lavori vanno datati anche la costruzione della 85 3. Roma, Castel Sant’Angelo, finestra a edicola della cappella dei Santi Cosma e Damiano allo stato attuale 4. Raffaello da Montelupo, Base di cratere antico e alzato quotato della edicola dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo, 1530-1535. Lille, Palais des Beaux-Arts, Cabinet des Dessins, f. 24 (cat. Pluchart n. 733) volta lunettata con arma medicea al centro e il pavimento in maiolica19. Sui peducci della volta sono invece scolpite le armi del senese Raffaello Petrucci, che fu castellano di Castel Sant’Angelo dal 12 marzo 1513 fino alla sua elezione al titolo cardinalizio l’1 luglio 151720. L’accurato rilievo della cappella e dell’edicola, condotto da Stefano Rezzi, ha correttamente suggerito allo studioso l’ipotesi secondo cui la forma e il posizionamento della finestra, unica fonte di luce dell’ambiente, vadano considerati coevi ai lavori del 1514, o comunque correlati, dal momento che il piedritto della volta lunettata della cappella cade esattamente sul montante centrale della finestra21. Tuttavia, la qualità non pregevole della lavorazione dei blocchi e la loro poco accurata realizzazione potrebbero anche ammettere una messa in opera avvenuta in assenza del suo ideatore, probabilmente successiva o eseguita da un tagliapietre22. Le fonti iconografiche relative con sicurezza all’edicola di Castel Sant’Angelo sono costituite da quattro disegni cinquecenteschi, tutti derivati da un prototipo comune, i quali mostrano tra loro significative differenze rispetto a quanto effettivamente costruito23. Di questi quattro disegni il più antico, forse addirittura il prototipo, è un foglio, dapprima attribuito a Bastiano da Sangallo detto Aristotile e oggi concordemente assegnato a Raffaello da Montelupo24, che fa parte del cosiddetto Libro di schizzi di Michelangelo, realizzato intorno al 15301545, ma forse persino successivo, come raccolta di disegni d’ornato e di rilievi di fabbriche michelangiolesche, oggi custodito presso il Palais des Beaux-Arts di Lille (fig. 4)25. In questo foglio l’alzato dell’edicola si mostra ben dettagliato, mentre una nota ricorda “Queste in chastello diroma di mano di Michelagnolo di traverti[no]”26. L’errore nell’indicare il travertino al posto del marmo lascia aperta la questione se si tratti di un rilievo, di un disegno derivato da un modello, o di una proposta di modifica. Le tre versioni successive sono caratterizzate da analoghe quotature e da note con minime variazioni linguistiche. La copia più vicina al foglio di Lille è conservata in altro foglio oggi in collezione privata (fig. 5) che riporta “Questa in Castello Santangolo inroma è di michellagniolo / Misurato col palmo”27. Altra derivazione dal foglio di Lille è il rapido schizzo parziale, corrispondente alla metà sinistra dell’edicola, contenuto nel cosiddetto Taccuino senese di Oreste Vannocci Biringucci composto intorno al 1582 e conservato presso la Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena (fig. 6)28, con nota attributiva assai semplificata: “in castello di Ro[ma]. Michelang[iol]o”. L’ultima fonte iconografica nota, sebbene indubbiamente più tarda, è quella a lungo ritenuta il progetto originale di Michelangelo. Si tratta del foglio 4686 A del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze, presente in mostra (cat. 6). Oggi fondatamente attribuito a Giorgio Vasari il Giovane, questo disegno dell’edicola è condotto a squadra e compasso e restituito in scala secondo misurazioni non annotate sul foglio, ma proporzionalmente corrette rispetto a quelle riportate nella versione del disegno in collezione privata da cui direttamente sembra derivare; la nota riporta poi: “Questa è in Castello S. Agnolo di disegno di Michelagnolo”. Non troppo somiglianti tra loro, questi quattro disegni non rappresentano l’edicola come fu realizzata, ma si distanziano da essa per una serie di differenze, tra cui la comune verticalizzazione delle proporzioni della finestra centrale, la sensibile riduzione 86 5. Anonimo del XVI secolo, Monumento funebre e alzato quotato della edicola dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo, circa 1550. Collezione privata (negativo conservato presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, n. 126259) 6. Oreste Vannocci Biringucci, Facciata della chiesa di San Silvestro a Monte Cavallo in Roma, alzato quotato della edicola dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo, cosiddetti ‘nicchioni’ di Todi, decorazione a treccia e vaso ansato, circa 1582. Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati, ms. S.IV.1, c. 12 verso 7. Rilievo della finestra a edicola della cappella dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo nel 1890 (da Borgatti 1890, tav. 33) dell’altezza delle nicchie laterali e la dissimile composizione dei quadranti della finestra crociata, le cui aperture superiori sono sempre caratterizzate da una coppia di oculi con “invetriate” in luogo delle aperture rettangolari, e dalla presenza del sedile modanato. Analizzando con sistematicità questo gruppo di fogli, Eraldo Gaudioso ha ipotizzato che tali disegni registrino alcune proposte di modifica alla facciata di Michelangelo per adeguare le ridotte dimensioni del prospetto alla nuova scala monumentale del cortile dell’Angelo quando, tra 1544 e 1547, venne deciso il suo riallestimento per fare da corte d’onore agli erigendi appartamenti di Paolo III Farnese (15341549)29. A tali lavori di ammodernamento, già attribuiti ad Antonio il Giovane30 poi ad Aristotile da Sangallo31 e oggi unanimemente assegnati a Raffaello da Montelupo32, si deve anche l’inserimento della grande nicchia circolare sormontata dal giglio farnesiano dentro la quale è inserito un busto eseguito da Guglielmo della Porta, speculare a una analoga nicchia scavata nella parete frontale della stessa corte. A ben guardare però, questo gruppo di disegni non può avere nulla a che fare con tali ipotetiche proposte di modifica per rendere più alto il prospetto michelangiolesco, allungandone l’ordine architettonico, mentre restano valide due ipotesi alternative: che i disegni registrino una delle proposte eseguite per inquadrare la finestra crociata con una edicola architettonica connesse ai lavori di ristrutturazione del cortile, oppure, più dubitativamente, che tali disegni tramandino l’immagine di un modello disegnato o effettivamente costruito dallo stesso Michelangelo33, come era stato indotto a credere l’ingegnere Mariano Borgatti, comandante del Genio, oltre che docente di architettura mili- tare e fantasioso storico dilettante. Nel 1910, costui era stato infatti incaricato dell’allestimento del Museo dell’Arte Medievale e Rinascimentale all’interno di Castel Sant’Angelo. Nell’opera di adattamento in stile del monumento, egli decise di ripristinare anche la piccola edicola secondo il citato disegno degli Uffizi, quello attribuito a Vasari il Giovane, allora considerato come disegno autografo del Maestro. Senza ripensamenti, vennero dunque realizzati sia il sedile con base modanata34, sia le due lastre marmoree borchiate angolarmente, aperte da oculi vetrati (figg. 8-9)35. Insofferente di fronte a tale falso storico, nel 1988 Bruno Contardi provvedeva giustamente a ripristinare le aperture rettangolari, eliminando gli oculi, ma mantenendo il sedile, impossibile da togliere senza dover ricorrere a nuovi blocchi marmorei integrativi. L’edicola come oggi si presenta appare dunque irrimediabilmente falsificata dalla volontà di Borgatti, solo in parte cancellata da Contardi il quale, sulla scorta di Gaudioso, riteneva che il prospetto originale fosse quello visibile fino alle manomissioni del 1910, documentato dalle fotografie d’epoca e dal rilievo pubblicato dallo stesso Borgatti (fig. 7). In chiusura occorre ritornare dunque all’elemento più caratteristico di questa facciata, la finestra a edicola. Il suo aspetto monumentale non può essere dovuto al puro caso e la sua giustificazione deve andare oltre la semplice richiesta di rendere architettonicamente rilevante una semplice fonte di luce. La piccola cappella non ha accesso dal cortile, ma solo dagli appartamenti papali. Pertanto una tale facciata serve a dare inquadramento architettonico all’unica finestra attraverso cui un più vasto pubblico avrebbe potuto seguire le celebrazioni liturgiche all’interno gli anni dal 1505 al 1516 87 8. Roma, Castel Sant’Angelo, finestra a edicola della cappella dei Santi Cosma e Damiano, prima dei restauri del 1910 9. Roma, Castel Sant’Angelo, finestra a edicola della cappella dei Santi Cosma e Damiano, dopo i restauri del 1910 del vano, seguendone lo svolgimento più comodamente dal cortile dell’Angelo. È noto inoltre che Leone X avesse raccolto una importante collezione di reliquie “ex ipsa quoque Graecia, et Civitate Constantinopolitana ad almam Vrbem advectas”36, collezione poi recuperata da Clemente VII e da questi fatta montare dentro i vasi in pietra dura che appartennero a Lorenzo il Magnifico, per essere poi donate alla chiesa di San Lorenzo a Firenze: per la custodia di tale tesoro sarebbe stato incaricato Michelan- gelo che nel 1532 aveva terminato la cosiddetta Tribuna delle Reliquie posta nella controfacciata della chiesa37. Se questa ipotesi dovesse essere comprovata, la presenza in Castel Sant’Angelo delle reliquie costantinopolitane di Leone X potrebbe giustificare non solo la ragione della ri-dedicazione della cappella ai Santi Cosma e Damiano nel 1514, ma anche la forma stessa della sua finestra a tabernacolo, posta a segnare un luogo di venerazione particolarmente caro al pontefice. Sull’argomento, cfr. Borgatti 1890a, p. 186, fig. 60; Borgatti 1931, pp. 279-282; Ackerman 1961, vol. I, p. 29, vol. II, pp. 1-2; F. Barbieri e L. Puppi in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 830-831; Ackerman 1968, pp. 123124; D’Onofrio 1971, pp. 213 sgg.; Gaudioso 1976; Ackerman 1986, p. 291; Ackerman 1988, pp. 141-142; B. Contardi, scheda 4, in Argan, Contardi 1990, pp. 64-66; Echinger- fronte a un pastiche; una più approfondita analisi documentaria sulla costruzione della cappella e della sua monumentale finestra potrebbe meglio verificare la sua datazione e rivelare sorprese sulla sua stessa autografia (almeno per quanto riguarda il telaio architettonico dell’ordine inquadrante); piuttosto irrisolto resta infatti il problema delle fonti iconografie relative a questa faccia- 1 88 Maurach 1991, vol. I, pp. 318-320; Giustozzi 2003, pp. 98-101, 104107; Rezzi 2005. Il mio più sincero ringraziamento va a Paola Gaudioso per il dono della piccola, indispensabile monografia del padre Eraldo dedicata all’edicola michelangiolesca di Castel Sant’Angelo. 2 Osservando attentamente questo piccolo prospetto, non può essere negata la sensazione di trovarsi di ta: oltre agli esempi qui di seguito analizzati, si vedano gli enigmatici schizzi dell’edicola eseguiti da Antonio da Sangallo il Giovane, secondo un aspetto assai modificato rispetto alla realtà, contenuti nel foglio 1259 A verso del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, cfr. Tafuri 1984, p. 87, fig. a p. 80; B. Contardi, scheda 4, in Argan, Contardi 1990, p. 64, fig. 66. Allo stato at- tuale delle analisi resta tuttavia più prudente limitarsi a valutare l’evidenza di quanto rimasto e riassumere le più importanti ipotesi storiografiche sul monumento. 3 Shaw 1976, p. 52, n. 64. 4 Il progetto del recto certamente precede gli schizzi del verso, i quali, come ha suggerito Caroline Elam, sembrano davvero disegnati rapidamente come successive riflessioni a margine dopo aver sottoposto il disegno al committente, cfr. C. Elam, schede 5r5v, in Elam 2006, pp. 168-172. 5 Sul possibile committente del progetto, ibidem. 6 Sul rapporto tra opera di “quadro” e opera di “figura” in Michelangelo, si vedano le importanti considerazioni in Elam 2006a, pp. 45-50. 7 Si confrontino, ad esempio, tanto il partito architettonico dell’altare Corbinelli disegnato da Andrea Sansovino (1485-1490) nell’omonima cappella in Santo Spirito a Firenze, quanto la distrutta macchina per l’altare maggiore della chiesa della Santissima Annunziata nella stessa città, con i celebri dipinti di Pietro Perugino e Filippino Lippi, realizzata da Baccio d’Agnolo (1500-1502), secondo la ricostruzione di Silvia Catitti, in Nelson 2005, pp. 154-155. 8 Al gruppo dei precoci progetti michelangioleschi derivati dal motivo dell’arco di trionfo che mostrano affinità con la finestra a edicola della cappella di Castel Sant’Angelo possono essere avvicinati sia i disegni contenuti nel foglio del British Museum, inv. 1859-6-25-559 recto (Corpus 272 recto; su cui, oltre che Rezzi 2005, pp. 90-91, resta fondamentale l’analisi in Wilde 1953a, 22r-v) sia il progetto di arco di trionfo presente nel recto di un foglio di proprietà della Collezione Fondazione Cariverona in deposito permanente nella Raccolta grafica del Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio di Vicenza (Corpus 630 recto), recentemente analizzato in H. Burns, scheda 24r-v, in Elam 2006, pp. 209220); per entrambi i fogli vale una datazione compresa tra il 1515 e il 1519. 9 Sul “passaggio all’architettura” e sul superamento del motivo dell’arco di gli anni dal 1505 al 1516 trionfo da parte di Michelangelo, si vedano le belle pagine di Brothers 2006, pp. 81 sgg. 10 La combinazione di materiali diversi nella stessa opera è tipica dei primi progetti architettonici di Michelangelo, dalle iniziali versioni per il monumento funebre di Giulio II, al telaio architettonico dipinto sulla volta della cappella Sistina, fino al progetto per la facciata di San Lorenzo a Firenze. 11 Coeve finestre a crociera, nella variante con montante inferiore soppresso, compaiono nel cortile della villa papale della Magliana presso Roma, realizzata sotto Sisto IV (14711484) su progetto di Giuliano da Sangallo con importanti modifiche operate da Bramante avvenute sotto Giulio II (1503-1513) e, all’elezione di Leone X nel 1513, con nuove trasformazioni di Giuliano da Sangallo, al quale si deve l’esecuzione delle citate finestre, cfr. Dezzi Bardeschi 1971, p. 125. Altre finestre a crociera di disegno semplificato sono presenti nel cortile di Leone X dello stesso Castello Sant’Angelo, cfr. Gaudioso 1976, p. 15, fig. 6. 12 Ackerman 1988, p. 142. 13 Ivi, p. 165. 14 Gaudioso 1976, p. 21. 15 Bedon 1991, p. 76; Bedon 2008, p. 75. 16 Si veda il saggio di Georg Satzinger sulla cappella Sforza in Santa Maria Maggiore a Roma in questo stesso catalogo. 17 Sulla titolazione originaria di questa cappella non è stata fatta alcuna chiarezza; gli inventari quattrocenteschi del castello descrivono una cappella presso la “magna curia”, ovvero l’odierno cortile dell’Angelo, dotata di un semplice altarolo portatile e che certamente corrisponde al vano in esame; cfr. Zippel 1912, alla voce ecclesia dell’indice dei nomi a fine volume; sulle antiche cappelle di Castel Sant’Angelo, cfr. anche Borgatti 1931, p. 280; D’Onofrio 1971, pp. 108-110. 18 Argan, Contardi 1990, p. 64. 19 L’ambiente attuale, con le statue e il più moderno altare, è frutto di numerosi restauri successivi, tra cui i lavori di trasformazione dei soffitti dell’ambiente effettuati tra 1734 e 1735, sotto il pontificato di Clemente XII (1730-1740), e i lavori di ripristino più recenti compiuti da Mariano Borgatti a partire dal 1910, cfr. Borgatti 1931, pp. 279-282, in part. 280 e figg. 104-105; sul pavimento in maiolica si vedano le interessanti considerazioni relative alla committenza e all’esecuzione in Mazzucato 1985 e Spallanzani 2005. 20 Pagliucchi 1906-1909, ed. consultata 1973, pp. 69-73. 21 Rezzi 2005, p. 89, figg. 4-8; Gaudioso 1976, p. 16, fig. 7 e p. 38, fig. 36. 22 Gaudioso 1975, p. 26; un giudizio poco lusinghiero sull’esecuzione dell’opera è annotato in Schiavo 1953, p. 154, fig. 38. 23 Sono numerosi i disegni che, nel tempo, la critica ha avvicinato alla progettazione di questa facciata. Pur rilevandone la sostanziale incongruenza, se ne dà di seguito un rapido excursus; Casa Buonarroti, 89 A recto (Corpus 524 recto, in Schiavo 1953, p. 154), meglio assegnabile come studio per la parete occidentale del ricetto della Biblioteca Laurenziana, cfr. Hirst 1993, p. 135; Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 18724 F verso (Corpus 317 verso, Ferri, Jacobsen 1904, p. 32; Ferri, Jacobsen 1905, tav. XIX, fig. 236; Tolnay 1975, p. 63), assai dubitativamente autografo, come sottolineato in Gaudioso 1976, p. 33; Casa Buonarroti, 58 A recto (Corpus 494 recto, Tolnay 1975, p. 85), per una finestra alla “veneziana”, cfr. Gaudioso 1976, p. 16; Archivio Buonarroti II, III, f. 30 verso, attribuito da Tolnay (Corpus 493 verso), e più convincentemente assegnato da Caroline Elam come probabile pianta per il monumento dei Magnifici nella Sagrestia Nuova, cfr. C. Elam, scheda 12, in Elam 2006, pp. 185-187. 24 Il disegno è assegnato ad Aristotile da Sangallo da Geymüller 1885, pp. 22-31 e Gaudioso 1976, pp. 34-37; a Raffaello da Montelupo a partire da Nesselrath 1983; ulteriori precisazioni sono in Nesselrath 1986, pp. 129 e 135; il foglio figura escluso e silentio dal catalogo di Aristotile da Sangallo anche da Ghisetti Giavarina 1990, pp. 97-98. 25 Per il disegno cfr. Lemerle 1997, p. 298, cat. n. 740 e, per l’analisi del taccuino, ivi, pp. 283-289 oltre che Nesselrath 1986, pp. 129 e 135. 26 Nelle riproduzioni fotografiche del foglio, l’estremo margine inferiore dove è scritto “di traverti[no]”, oltre ad apparire ormai quasi illeggibile, non arriva mai a essere riprodotto, cfr. Lemerle 1997, p. 298. 27 Il foglio, della cui esistenza ha dato annuncio per primo Charles de Tolnay (la notizia è riferita in Gaudioso 1976, p. 16 e Ackerman 1961, vol. II, p. 1) è stato pubblicato per la prima volta in Gaudioso 1976, p. 37, fig. 35. 28 Sul taccuino, si veda Mussolin 2009. 29 Eraldo Gaudioso non ha escluso “la possibilità che all’ideazione originaria di Michelangelo, ricavata dall’opera realizzata, si sia aggiunta anche una rielaborazione grafica del progetto”, operata successivamente da altri artefici e testimoniata proprio da questi quattri fogli, Gaudioso 1976, p. 37. 30 Ackerman 1961, vol. II, p. 2. 31 Gaudioso 1976, pp. 9 e 37. 32 Nesselrath 1983, pp. 46-47; Contardi 1991. 33 Resterebbe tuttavia stilisticamente problematico giustificare la presenza di quegli strani oculi invetriati inseriti nei riquadri rettangolari dei quadranti superiori. 34 Il sedile, oltre che dai disegni citati, sembra derivare dall’analogo elemento presente nella facciata della cosiddetta “Casa di Michelangelo”, già in via delle Tre Pile in Campidoglio rimontata sulla passeggiata del Gianicolo nel 1941; su questo popolare falso storico, si veda il saggio di Clara Altavista presente in questo volume. 35 La fig. 8 mostra la facciata prima del 1910; la fig. 9, la facciata dopo il ripristino integrativo di Mariano Bogatti. 36 Ciò è noto dalla bolla di Clemente VII con la quale si istituisce il tesoro della Tribuna delle Reliquie nella chiesa di San Lorenzo a Firenze, cfr. Moreni 1816-1817, tomo II, p. 478. 37 Mussolin 2007; Mussolin in c.d.s. 89 DISEGNI DAL Codice Coner: STUDI DALL’ANTICO E DA ARCHITETTURE ROMANE 1. Bernardo della Volpaia, Disegno di due basi ornamentali, circa 1514. Londra, The Sir John Soane’s Museum, Codice Coner, f. 131 Cammy Brothers 2. Bernardo della Volpaia, Rilievi di basi, circa 1514. Londra, The Sir John Soane’s Museum, Codice Coner, f. 137 dei profili e delle modanature, più che dei loro rispettivi rapporti proporzionali o della loro derivazione archeologica. A connotare diversamente le copie dal Codice Coner dai coevi studi architettonici è l’uso della matita rossa, lì impiegata da Michelangelo con sole due eccezioni eseguite a penna e inchiostro, tra cui il foglio del British Museum, inv. 1859-6-25-548 (Corpus 515)8 e quello presente in mostra di Casa Buonarroti 5 A recto (cat. 13; Corpus 514 recto), la cui dipendenza dal Codice Coner non sembra però essere così diretta9. Distinta dalla matita nera perché più difficilmente cancellabile ed eccezionalmente utilizzata per disegnare architetture da Bramante e Baldassarre Peruzzi (che alla stregua di Michelangelo erano anche pittori), la matita rossa non è mai stata uno strumento di disegno comunemente impiegato dagli architetti che le hanno sempre preferito la penna a inchiostro, la quale diversamente richiede grande attenzione e assai più tempo10. L’impiego della matita rossa da parte di Michelangelo avvalora pertanto l’idea che le copie in questione siano state eseguite in velocità, rivelando una mano assai sicura nei pochissimi pentimenti. Tra XV e XVI secolo, nessun architetto che ai nostri occhi possa definirsi tale fece a meno di stabilire un profondo legame con l’antico e le sue architetture. In certa misura ciò fu vero anche per Michelangelo, che, avendo vissuto a Roma a più riprese fin da quando era appena ventenne, maturò una naturale familiarità con le antiche rovine romane1. Le sue architetture evitano di citare i più ovvi riferimenti all’antichità, tipici di molti contemporanei, e non presentano quelle esplicite rielaborazioni delle tipologie antiche quali se ne osservano ad esempio nell’opera di Donato Bramante2. D’altra parte, per un architetto di quell’epoca, e proveniente da un ambiente culturale così influenzato dal passato classico, sarebbe stato impossibile non tener conto della tradizione romana e non adattarsi a essa. Di Bramante non è tuttavia nota alcuna testimonianza diretta di rilievi dei monumenti, anche se Giorgio Vasari riferisce che questi eseguì tali disegni per servirsene nelle sue prime commissioni3. Anche per Michelangelo, fino a poco tempo fa, non era attestata nessuna prova del fatto che si fosse cimentato in tale attività. Alcune annotazioni su copie di monumenti romani, in parte tratte dall’opera di Alberto Alberti, indicherebbero che Michelangelo abbia schizzato e rilevato dettagli e frammenti di architetture antiche4. Ma dai disegni autografi giunti fino a noi sembra che l’artista, intorno al 1516, abbia aggirato l’arduo compito di esercitarsi con studi e rilievi dal vero, scegliendo piuttosto di servirsi dei disegni eseguiti probabilmente intorno al 1514 dall’architetto fiorentino Bernardo della Volpaia, conosciuto probabilmente tramite il comune amico Giuliano da Sangallo5. Quei disegni, inseriti nel volume oggi chiamato Codice Coner (figg. 1-4), conservato presso il Sir John Soane’s Museum di 90 Londra, descrivono una vasta gamma di tipologie architettoniche rappresentate in proiezione ortogonale, con accurate planimetrie, sezioni e prospetti. Va detto tuttavia che i soggetti copiati da Michelangelo nei suoi fogli includono solo un esiguo numero di dettagli, ciascuno estrapolato dal suo contesto e raffigurato in maniera selettiva e senza alcun interesse per le misurazioni. Si tratta di sei fogli, cinque custoditi in Casa Buonarroti, 1 A recto-verso (cat. 8a-b; Corpus 518 recto-verso), 2 A recto-verso (cat. 9a-b; Corpus 517 recto-verso), 3 A recto-verso (cat. 10ab; Corpus 520 recto-verso), 4 A recto-verso (cat. 11a-b; Corpus 519 recto-verso), 8 A recto (cat. 12; Corpus 512 recto), e un altro foglio al British Museum, oggi diviso in due metà, inv. 18596-25-560/1 recto-verso (Corpus 516 recto), 1859-6-25560/2 recto-verso (Corpus 511 recto)6. Pur non potendo considerare Michelangelo un interprete letterale del De Architectura di Vitruvio (I sec. d.C.), egli prestò un’attenzione ai dettagli architettonici riscontrabile solo in quei coevi architetti che al trattato vitruviano ricorsero quale principale autorità di riferimento7. Probabilmente ciò rispondeva a esigenze pratiche: nel prepararsi alla sua prima commissione architettonica, quella relativa alla facciata della chiesa di San Lorenzo a Firenze, Michelangelo ebbe bisogno di dimostrare in tutta concretezza la propria familiarità con il linguaggio architettonico “all’antica”, cosicché tralasciò ogni altro interesse, teorico o compendiario, che non rientrava nei suoi immediati programmi. D’altro canto, l’attenzione dell’artista per il disegno dei dettagli architettonici si distingue assai bene da quello manifestato dalla sua controparte vitruviana: dai disegni di Michelangelo trapela una ricerca continua per la modellatura Funzione Gli architetti al tempo di Michelangelo ebbero diverse ragioni per disegnare copie dall’antico. Già agli inizi del Cinquecento questa pratica era stata assunta a principale metodo di formazione della disciplina. I taccuini da essi realizzati giunsero così a fungere quasi da “diploma” da esibire ai committenti quale prova delle loro specifiche conoscenze in materia. In mancanza di altre forme di certificazione, avere raccolto una serie di disegni di antichità costituiva una sorta di attestato professionale. Ma al tempo in cui Michelangelo ebbe modo di conoscere a fondo l’architettura antica, la fama da lui già raggiunta rendeva superflua ogni altra credenziale. Una ulteriore caratteristica, da aggiungere alle molte peculiarità delle copie michelangiolesche dal Codice Coner, è quella che esse non furono destinate ad altri se non allo stesso autore, diversamente dagli analoghi disegni dei contemporanei. Sotto tale aspetto, il contrasto con i disegni del suo mentore Giuliano da Sangallo difficilmente potrebbe essere maggiore11. I disegni di Bernardo della Volpaia non emergono per spirito di invenzione, ma presentano vari elementi architettonici con chiarezza e precisione; aspetti, questi, che Michelangelo non tentò in alcun modo di riprodurre nell’esecuzione delle sue copie. Il disordine che regna nei fogli di Michelangelo, con schizzi sparsi secondo orientamenti vari e proporzioni disparate, è tale che avrebbe probabilmente ostacolato persino una ricorrente consultazione da parte del suo autore. Questi schizzi non danno l’impressione di essere stati realizzati come “schede di archivio”, ma piuttosto si direbbero eseguiti in fretta, quasi fossero gli anni dal 1505 al 1516 91 esercizi di memoria. Il sembrare rapide annotazioni grafiche non esclude un loro riutilizzo nel tempo da parte di Michelangelo e, nonostante molti altri disegni dell’artista presentino tale caratteristica, la loro stessa sopravvivenza fa supporre che Michelangelo li abbia potuti riutilizzare al di là dello scopo per cui essi furono realizzati. La tendenza dell’artista a ripetere e a riutilizzare alcuni specifici elementi per tutto l’arco della vita costituisce un’ulteriore indicazione dell’uso coerente con cui utilizzò il proprio archivio di immagini. Le copie michelangiolesche si differenziano dunque dagli analoghi esempi coevi non solo per l’aspetto ma anche per la funzione. Affrancato dall’esigenza di stupire i committenti grazie alla propria posizione, Michelangelo impiegò i suoi disegni come un taccuino personale e come un diario della propria formazione da autodidatta. Composizione e contenuto Se i fogli del Codice Coner di Bernardo della Volpaia mostrano un materiale attentamente organizzato per tipologie, con esempi elegantemente disposti su ogni singola pagina, nelle sue copie Michelangelo non si è minimamente premurato di rispettare l’ordine o la logica compositiva dell’originale. Il foglio di Casa Buonarroti 1 A recto, contenente studi di basi, raccoglie esempi tratti da diverse pagine del Codice Coner e li raggruppa in maniera ravvicinata secondo orientamenti disparati, con poco o nessun riguardo per l’ordine o per la leggibilità. Basti confrontare, ad esempio, il citato 1 A recto (cat. 8a) con i corrispondenti dise92 gni del Codice Coner, sparsi in molti fogli, tra cui i ff. 131 e 137 (figg. 1-2)12. Diverse basi sono persino capovolte, dando l’impressione che l’artista lavorasse in estrema velocità, curandosi soltanto dello spazio vuoto presente sulla carta. La combinazione sul medesimo foglio di elementi tratti da pagine diverse del codice indica che, più che studiare il Codice Coner nel suo complesso, Michelangelo creò in modo consapevole una serie di raggruppamenti personali di esempi utili o interessanti. Le copie si incentrano in prevalenza su particolari architettonici, quali basi, capitelli, cornici, trabeazioni. Per esempio, sui due fogli 8 A recto parte destra (cat. 12; da Codice Coner, ff. 53 e 54)13 e 2 A verso parte destra (cat. 9b; da Codice Coner, f. 49, fig. 3)14 Michelangelo eseguì studi dell’arco di Costantino e del mausoleo dei Plauzi al ponte Lucano sulla via Tiburtina. L’elemento comune di questi due monumenti, per esempio, è di lasciare ampio spazio alle campiture a rilievo, caratteristica che può servire da modello su come incorporare questi ultimi in uno schema architettonico complesso. Pertanto, gli alzati copiati dall’artista, al pari dei particolari architettonici, gli avrebbero fornito quei modelli da impiegare prontamente nel progetto per la facciata della chiesa di San Lorenzo. La parte sinistra del foglio 2 A recto (cat. 9a) è un particolare della trabeazione della basilica Aemilia copiato dal f. 77 del Codice Coner con analogo soggetto (fig. 4)15. Sebbene il Codice Coner includa principalmente architetture an- 3. Bernardo della Volpaia, Rilievo del prospetto del mausoleo dei Plauzi, circa 1514. Londra, The Sir John Soane’s Museum, Codice Coner, f. 49 4. Bernardo della Volpaia, Rilievo assonometrico della cornice della basilica Aemilia, circa 1514. Londra, The Sir John Soane’s Museum, Codice Coner, f. 77 tiche, Bernardo della Volpaia vi descrisse graficamente anche opere e dettagli a lui contemporanei. Michelangelo copiò insieme modelli antichi e a lui coevi, anche se non è del tutto chiaro se conoscesse tali esempi e prestasse attenzione alla loro differenza. Comunque sia stato, il risultato è alquanto paradossale, giacché mostra come Michelangelo, fiero assertore della propria indipendenza, imparasse oltre che dagli antichi, anche da suoi contemporanei rivali quali Bramante e Antonio da Sangallo il Giovane. Alcuni disegni mostrano dettagli del cortile del Belvedere in Vaticano (1 A verso, cat. 8b) e cornici di Antonio da Sangallo il Giovane (1 A verso, cat. 8b; 4 A recto, cat. 11a)16. Il modo in cui i disegni del Codice Coner sono presentati sulla pagina produce un effetto unificante dovuto all’affiancamento dei dettagli antichi a quelli moderni. Conseguenza di tale effetto – assimilato anche da Michelangelo – fu che le opere antiche e quelle moderne presentassero il medesimo valore di modello. Ma se Bernardino fornì almeno una minima quantità di dati identificativi riguardo alle fonti dei particolari disegnati, Michelangelo li omise del tutto. Così anche se al momento dell’esecuzione delle copie egli venne a conoscenza dell’origine di questi modelli, nei suoi disegni non compare traccia di ciò. Seppur talvolta Michelangelo si preoccupò di rappresentare i dettagli d’ornato in alcune delle cornici e delle basi copiate, ad esempio in 2 A recto e 4 A recto-verso (cat. 9a, cat. 11a-b), nella maggior parte dei casi preferì ridurre i disegni all’essenziale e sovente al solo profilo. Nel foglio 1 A verso (cat. 8b) l’artista schizzò sulla metà sinistra del foglio i contorni di una serie di cornici e sulla metà destra diversi piedistalli e cornici. La riduzione dei disegni a un unico profilo non garantiva soltanto all’artista uno studio più rapido, ma agevolava anche i reciproci confronti. Senza distrazioni dovute all’ornamentazione, era possibile individuare più facilmente la differenza tra profili affini. L’attitudine di Michelangelo verso l’antico, così come la sua formazione, sembra ancora sfuggire alla critica. Su entrambi gli aspetti Michelangelo stesso contribuì a creare maggior confusione non riconoscendo alcun maestro né tra gli autori del passato, né tra quelli contemporanei. In tale contesto, le poche copie superstiti dal Codice Coner offrono preziose informazioni sul modo in cui Michelangelo imparò a praticare l’architettura e formò la sua esperienza della tradizione antica. L’argomento di questo breve saggio è analizzato più dettagliatamente in Brothers 2008, pp. 45-83; i principali studi sulle copie michelangiolesche dal Codice Coner sono Lotz 1967; Agosti, Farinella 1987a; B. Contardi, scheda 6, in Argan, Contardi 1990, pp. 154-160; i singoli disegni sono inoltre esaminati in Wilde 1953a, nn. 18-19; Maurer 2004, pp. 160-164; Burns 2006, pp. 31-36, in part. p. 33; Brothers 2006, pp. 164-165. 2 Ackerman 1951; riguardo al rapporto di Michelangelo con l’antichità, cfr. Hemsoll 2003; Krieg 2003. 3 L’aneddoto è riferito in relazione alla commissione a Bramante del chiostro di Santa Maria della Pace a Roma da parte del cardinale Oliviero Carafa, cfr. Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 1966-1987, vol. IV, p. 76. 4 Vale la pena citare come esempio suo taccuino, H. Burns, scheda 3.2.11, in Frommel, Ray, Tafuri 1984, p. 422; un altro possibile intermediario per far conoscere il taccuino a Michelangelo potrebbe essere stato Baccio d’Agnolo, cfr. Elam 2006a, pp. 63-65 con attribuzione a questo artista di una parte dei disegni del Codice Coner. 6 Wilde 1953a, nn. 18-19. 7 A quanto risulta, Michelangelo faceva parte di un “gruppo di lettura” vitruviano, cfr. Agosti, Farinella 1987b, p. 81; Elam 2005, pp. 46-49; nonostante ciò, nell’architettura di Michelangelo nulla dimostra la presenza di elementi espressamente improntati al vitruvianesimo. 8 Wilde 1953a, n. 20. 9 Come espresso in Wilde 1953a, n. 20, i disegni presenti in questi due fogli sembrano essere una collazione di esempi tratti dal Codice Coner. 1 gli anni dal 1505 al 1516 almeno una delle annotazioni apposte a questi disegni: “quale Cornice [del foro di Traiano] è bene lavorata et intagliata come se vede, quali Michelangelo Bonarota ce fu visto che la misurò”, cfr. Fairbairn 1998, vol. I, p. 324, n. 495; queste annotazioni riferite a Michelangelo sono contenute in diversi fogli conservati sia al Gabinetto Nazionale delle Stampe di Roma sia al Sir John Soane’s Museum di Londra: quelli di Londra sono forse copia di quelli di Roma, datati alla fine XVI secolo e attribuiti ad Alberto Alberti; sull’argomento, cfr. Fairbairn 1998; C. Brothers, scheda 3, in Elam 2006, p. 165, in part. nota 5. 5 L’attribuzione è stata proposta da Buddensieg 1975; cfr. anche Ashby 1904 e Nesselrath 1992; su Bernardo della Volpaia, cfr. Pagliara 1989; sul Si veda Elam 2006a, pp. 53-54; riguardo all’uso della matita rossa in Bramante, cfr. Huppert 2009, in part. pp. 161-162. Peruzzi impiegò di frequente la matita rossa, talvolta per distinguere fra le effettive rovine dei monumenti e le proprie ricostruzioni; sull’uso della matita rossa in generale, cfr. Cohn 1987; Petrioli Tofani 1991; Brothers 2008, pp. 213-214, n. 14, con bibliografia precedente. 11 Il Codice Barberini di Giuliano da Sangallo è pubblicato per prima da Huelsen 1910; sui diversi approcci al disegno delle rovine antiche, cfr. Nesselrath 1986; Brothers 2002a; Campell 2004. 12 Agosti, Farinella 1987a, pp. 86-87. 13 Ivi, pp. 102-103. 14 Ivi, pp. 106-107. 15 Ivi, pp. 108-109. 16 Ivi, pp. 90-91 e 124-125. 10 93 MICHELANGELO E LA CULTURA ARCHITETTONICA A ROMA ALLA METÀ DEL XVI SECOLO Maddalena Scimemi GLI ANNI DAL 1534 AL 1564 Molti sono gli artisti della metà del Cinquecento che hanno ceduto alle lusinghe della carta stampata. Sembrerebbe una prerogativa di architetti pittori, quasi in reazione ai tentativi in campo teorico lasciati incompiuti della generazione di “illetterati” che li aveva preceduti1. Una generazione con la quale, a cominciare da Donato Bramante, Raffaello, Baldassarre Peruzzi e i Sangallo, si era aperta una delle stagioni più felici della storia dell’arte, in cui la rinascita delle “tante maniere antiche”2 era stata intesa come produzione testuale oltre che materiale, integrando il rilievo delle rovine romane con lo studio dei classici e la loro discussione in ambito teorico3. Se infatti si considera l’intervallo di tempo intercorso tra la prima edizione delle vitruviane Regole generali di architettura sopra le cinque maniere degli edifici (o Quarto Libro, Venezia 1537) e la riedizione dei primi cinque tomi della serie ideata da Sebastiano Serlio, comprendente lo stravagante Extraordinario Libro (Venezia 1566)4, risulta evidente che nell’arco di un trentennio il sapere in campo architettonico è irrorato da un’ondata di sistematizzazione in lingua volgare e a stampa sino ad allora mai conosciuta (cat. 18). È soprattutto a cavallo della metà del secolo che la proliferazione di trattati e di commentari a opera di architetti, in più tomi o in volumi singoli, configura un panorama culturale composito e ambizioso. Vi sono opere destinate a delineare il territorio della disciplina per architetti dilettanti e per addetti ai lavori, come il già citato Trattato di Serlio e La Regola delli cinque ordini di Jacopo Barozzi da Vignola (Roma 1562), o le traduzioni dal latino del De Re Aedificatoria di Alberti a opera di Cosimo Bartoli (Firenze 1550) e del De Architectura di Vitrugli anni dal 1534 al 1564 vio, con le illustrazioni di Andrea Palladio al commentario di Daniele Barbaro (Venezia 1556). Altre che esprimono rigorose selezioni o ampi repertori desunti dalla ricerca e dallo studio delle antichità romane, come il Libro appartenente all’architettura di Antonio Labacco (Roma 1552), il Libro di M. Pirro Ligorio delle antichità di Roma (Venezia 1553), pionieristico nel suo intento enciclopedico, e Le Antichità della città di Roma di Lucio Mauro (Venezia 1556), con il primo catalogo di statue antiche romane compilato dall’Aldovrandi. Altre, infine, come le celebri Vite di Giorgio Vasari (Firenze 1550; cat. 17), che inaugurano il filone della letteratura artistica e, sebbene non esauriscano l’insieme di autori dell’epoca – celebri sono le assenze del bolognese Serlio e del napoletano Pirro Ligorio –, sanciscono una pregnante equivalenza tra pittura, scultura e architettura (cat. 14-15). In campo strettamente architettonico, il fenomeno rispecchia l’esigenza di riscattare la professione dell’architetto dallo status di faber a quello di gentilhomo e così assicurarsi una promozione in società, diffondendo il proprio sapere tra i colleghi, ma anche tra principi e cardinali, umanisti, numismatici e mercanti5. I contenuti presentano con testi e soprattutto con illustrazioni le “diverse maniere”, nelle parole di Serlio, o le “misure, ordine e regole”, citando Vasari, del costruire corretto, adottando nella prosa la forma di dialogo e nel disegno ricorrendo all’uso rigoroso delle proiezioni ortogonali, salvo rare eccezioni6. In questa vasta produzione a stampa, il frontespizio, la dedica a un munifico benefattore o a un ipotetico patrono da ingraziarsi e la “lettera alli lettori”, ovvero un breve saggio pro95 1. Leonardo Bufalini, Pianta di Roma, 1551 (da Marigliani 2007, p. 132) grammatico, giocano un ruolo determinante. Il ritratto dell’autore o, in alternativa, la rappresentazione di una sua architettura, garantisce un sintetico flash dell’identità del trattatista, mentre i riferimenti diretti a un personaggio di rilievo, nelle iscrizioni dedicatorie, intendono stabilire pubblicamente un impegno reciproco tra autore e mecenate, che corrisponderà favori in misura proporzionale alla fatica del volume. Infine il testo introduttivo – emblematico quello inserito nei libri di Serlio e di Labacco – costituisce l’occasione per l’autore di esprimere sinteticamente il proprio credo; di chiarire quante ortodossie ha rispettato e quali invenzioni si è concesso; e persino di ingraziarsi un pubblico di nazionalità diverse, avendo l’accortezza di stampare il testo in due lingue, come fa Serlio al termine della propria carriera. A differenza dei suoi contemporanei, Michelangelo non potrebbe risultare più lontano da tale fervore editoriale. Mentre sono documentati rapporti con la tradizione architettonica fiorentina e romana, come attestato dai fogli di Casa Buonarroti e del British Museum contenenti copie ed elaborazioni dal Codice Coner, ed è nota la sua conoscenza del trattato di Vitruvio7, non c’è la minima traccia di un progetto di pubblicazione autonomo nel corso della sua lunga esistenza. Al disprezzo manifesto per coloro che “cavano” dai modelli antichi corrisponde la sua indifferenza a quanti teorizzano e divulgano, quasi che l’intero sistema di valori estetici allora in costruzione ruoti attorno all’artista come una giostra di insignificanti marionette (cat. 1). Unico esempio da seguire, nei versi delle sue Rime, è un’ideale bellezza che gli è innata ed è perciò assoluta, inconfutabile, sua sola ispirazione nella pittura e nella scultura: Per fido esemplo alla mia vocazione Nel parto mi fu data la bellezza, Che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio. S’altro si pensa, è falsa opinione.8 Ma così è anche nell’architettura, dove la “falsa opinione” deve essere fuggita: è un esplicito rifiuto del dialogo con altri del mestiere, un silenzio costantemente opposto al dibattito che intorno a lui si ramifica tanto nelle cerchie di dilettanti d’arte quanto nelle consorterie di artisti. Michelangelo non ha assecondato alcuno dei “caprici” dei potenti adepti dell’Accademia della Virtù, dove i più devoti funzionari di Paolo III Farnese si riunivano per erudite discussioni di architettura9, e meno che mai ha preso parte agli incontri della Compagnia del Pantheon, approvata da Paolo III il 5 ottobre 1542 e dominata dalla figura di Antonio da Sangallo il Giovane. Qui si raccoglievano gli architetti Jacopo Meleghino e lo stesso Labacco, e altri gravitanti attorno alla “setta sangallesca”, come i pittori Taddeo 96 Zuccari e Cecchino Salviati, o lo stampatore Antonio Salamanca10. Ed è proprio da un membro di tale Compagnia, forse di loro il più assiduo studioso di Vitruvio, che giunge un esplicito attacco a Michelangelo, un attacco esacerbato che, intendendo isolarlo sul piano culturale, sembra involontariamente compiacerne il consapevole distacco. Si tratta del celebre memoriale del Gobbo, ossia di Giovan Battista da Sangallo, in merito al cornicione di palazzo Farnese: una lettera diretta a Paolo III dopo la morte del fratello Antonio il Giovane (29 settembre 1546), nella quale giudica “bastarde” le proporzioni degli elementi del modello ligneo della cornice di Michelangelo, fatta “al modo barbaro” e non secondo le regole dell’architetto di Augusto. A conferma della pertinenza delle critiche mosse all’artista fiorentino, Giovan Battista allega un brano della traduzione di Vitruvio alla quale sta lavorando11. Una simile veemenza si spiega con anni trascorsi dai fratelli Sangallo a studiare le pagine vitruviane, sia per pubblicare una traduzione del trattato latino (mai portata a termine), sia per creare un apparato di illustrazioni a corredo, del quale è testimonianza l’incunabolo corsiniano De Architectura libri decem postillato da Giovan Battista (cat. 16)12. Senza voler qui discutere l’approccio di Michelangelo all’antico, né riferire in dettaglio sulla controversa percezione dell’artista fiorentino da parte dei suoi contemporanei13, si deve comunque rilevare nelle accuse del Gobbo l’affronto subito dall’establishment degli architetti di corte, ormai omologati da anni di studi e discussioni, per effetto delle forme inspiegabili ideate da Michelangelo, forme irriducibili a una regola nota e condivisa. Una distanza abissale allontana l’uno dagli altri, percepita dai suoi oppositori sul piano culturale, mentre dall’artista è fieramente ribadita come conseguenza del proprio ineludibile metodo operativo. Manifestazioni evidenti per i suoi contemporanei di un elevato livello culturale – come cimentarsi in ambiziose imprese editoriali, esser capaci di fedeli citazioni dall’antico, dedicarsi a meticolosi rilevamenti delle rovine – per Michelangelo non contano. Argomenti che sono oggetto di dibattito, come la polemica che vedeva contrapposti gli antiquari, sostenitori della legittima imitazione della rovina nell’architettura moderna, e i vitruviani, che volevano selezionate dall’antico solo le opere coerenti con i precetti espressi nel De architectura, non lo coinvolgono, per lo meno non abbastanza da spingerlo ad abbandonare la quotidiana concentrazione sul lavoro manuale per inserirsi in cenacoli, né per rispondere per iscritto alle provocazioni14. Egli non ha alcun bisogno di produrre titoli per parlare, per progettare, per costruire. E se consideriamo la pubblicazione come un medium dei tanti a disposizione dell’architetto cinquecentesco per comunicare con il suo pubblico, non sorprende riscontrare gli anni dal 1534 al 1564 97 che anche nell’utilizzo del disegno e del modello, strumenti per eccellenza del fare architettura, egli abbia seguito strade diverse dai suoi colleghi15. È inutile rilevare che seppure Michelangelo sembri sottrarsi al dibattito culturale contemporaneo, egli sia ben consapevole delle proprie “terribili” licenze e le sue opere risultino in qualche modo calibrate proprio per reagire a quegli stessi argomenti dibattuti dai suoi avversatori. Esiste, tuttavia, uno specifico campo del sapere di allora al quale egli non sembra essersi mai dedicato né interessato, non essendone rimasta traccia né nei suoi disegni e scritti, né nelle pagine dei suoi biografi: lo studio della topografia di Roma antica e moderna. Proprio nella metà del Cinquecento, infatti, come esito della strategia geopolitica di quindici anni di pontificato di Paolo III (1534-1549), un nuovo impulso viene dato a pittori, architetti e ingegneri militari affinché si cimentino in rappresentazioni bidimensionali della città di Roma e dello Stato della Chiesa16. Ciò corrisponde a una programmatica campagna di riconquista dell’identità della cristianità, messa in atto dal pontefice nei primi delicati anni della Controriforma ed essenzialmente mirata a incidere sulla cultura visiva, più che architettonica, contemporanea17. In primo luogo, moltiplicando le concessioni di privilegio di stampa, Paolo III promuove imprese editoriali di soggetto romano prediligendo immagini solenni e ieratiche, adatte a catturare un pubblico di massa, e intendendo così reagire alla divulgazione delle stampe di ispirazione protestante. Egli assume stampatori ufficiali per pubblicare testi letterari e religiosi in greco e latino, ma patrocina anche opere grafiche dedicate alla descrizione di Roma e del suo territorio, come la mappa cartografica dello Stato della Chiesa disegnata da Eufrosino della Volpaia (Roma 1547)18. In secondo luogo, il “papa romano” predispone il riassetto dell’immagine fisica dell’Urbe, allo scopo di riportarla ai fasti dell’antichità ma anche di aggiornarne la facies sugli esempi di altre capitali europee quali Parigi e Madrid e di potenziare i luoghi di culto e i percorsi tradizionalmente frequentati dai pellegrini19. Nel centro della cristianità si fa promotore dell’apertura e della rettificazione di tracciati viari e di piazze, incoraggiando l’opera dei Maestri di Strada di comprovata fiducia, e intraprende – senza tuttavia riuscire a portarla a termine – la conclusione della cinta aureliana erigendo nuove possenti mura attorno al Vaticano e monumentali porte urbiche, su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane. Al culmine di tale strategia di autopromozione si collocano inoltre gli interventi sulle sedi del potere più simbolicamente pregnanti, ovvero l’allestimento dell’appartamento papale e l’apertura della loggia nord in Castel Sant’Angelo, ma soprattutto la costruzione 98 di un nuovo sontuoso percorso cerimoniale all’interno dei Palazzi Vaticani, costituito dalla Scala Regia, Sala Regia e dalla cappella Paolina. “Preoccupazione prima”, per Paolo III è “l’immediata leggibilità dei messaggi”20. Alle numerose e costose opere in cantiere, pertanto, corrisponde la propaganda delle stesse patrocinata dal pontefice in ambito editoriale, come testimoniano le incisioni del modello della basilica di San Pietro ideato da Antonio da Sangallo il Giovane pubblicate da Antonio Salamanca21, e la straordinaria edizione della pianta zenitale di Roma tracciata da Leonardo Bufalini ed edita in venti fogli e quattro striscie nel 1551 da Antonio Blado (fig. 1). Nella pianta di Bufalini, otto secoli dopo la Forma Urbis Romae, sono tracciate insulae del tessuto urbano moderno, piazze e strade, e con la stessa convenzione sono restituiti i contorni di monumenti superstiti e di rovine, benché la riproduzione risulti sommaria anche quando si tratti di complessi in realtà ancora ben visibili. Con estrema precisione, invece, sono tracciate le mura aureliane e l’orografia, al punto che tutti i segmenti murari del perimetro antico e dei nuovi apparati difensivi – realizzati e incompleti – risultano meticolosamente disegnati e quotati. Compaiono infatti il nuovo bastione nei pressi di porta Ardeatina, accanto alle terme di Caracalla, e quello della Colonnella, il baluardo prospiciente il monte Testaccio presso il Priorato di Malta, sull’Aventino, che all’epoca della pubblicazione non era stato concluso22. Bufalini, il disegnatore, è un ingegnere militare udinese, giunto a Roma negli anni trenta e dal 1534 impegnato nella redazione e nella realizzazione delle nuove fortificazioni farnesiane progettate da Antonio il Giovane. Blado, di origini mantovane, stampatore camerale della Santa Sede23. La pianta del 1551 con il dettaglio delle nuove fortificazioni, a cinque anni di distanza dalla morte dell’architetto che le aveva ideate e a tre anni da quella dello stesso pontefice, sembra voler ribadire l’attualità del progetto farnesiano, ma non solo. Senza essere “corretta” scientificamente (la scala è incoerente, gli angoli distorti, i tracciati viari deformati, qualche toponimo sbagliato), la rappresentazione zenitale di Bufalini restituisce la topografia di Roma antica e moderna impiegando nel metodo di rilevamento e nel sistema di rappresentazione quanto prescritto nella lettera di Raffaello a Leone X24. Forse meglio di qualsiasi altra immagine questa pianta della metà del Cinquecento, intrecciando l’orografia con dati cartografici, archeologici e toponomastici di Roma, dimostra di essere in continuità sul piano culturale con gli interessi e le ricerche intraprese a Roma nei primi decenni del secolo e non sorprende riscontrare che tale continuità sia dovuta a uno stretto collaboratore di Antonio da Sangallo il Giovane, del quale per quindici anni aveva potuto consultare i disegni di rilievo, gli studi sulle antichità e i fogli di progetto. Michelangelo appare essenzialmente estraneo alle ricerche sulla topografia antica e moderna, invece così diffuse tra gli architetti suoi contemporanei, e ciò nonostante nel corso della sua lunga esistenza egli abbia respirato l’ambiente erudito e il gusto antiquario della corte medicea e, in seguito, sia stato coinvolto da Paolo III nel progetto delle nuove fortificazioni di Roma, dovendo per questo confrontarsi con lo stato di fatto dei confini della città e le condizioni del sito. E una conferma della sua estraneità a tale milieu culturale ma, al tempo stesso, la consapevolezza, da parte dei suoi contemporanei, che tale estraneità è dovuta al superamento del tempo presente delle sue opere, si può riscontrare nella dedica di un’opera a stampa di allora. Nella traduzione in volgare della Roma Triumphans di Biondo Flavio (1503), pubblicata a Venezia nel 1544, l’editore veneziano Michele Tramezzino inserisce una dedica a un sorprendente patrono25: si tratta dello stesso Michelangelo, che Tramezzino ammette di non conoscere di persona e che sa impegnato a eseguire gli affreschi della cappella Paolina. L’architettura è solo uno dei temi trattati nel volume di Biondo Flavio ed è concentrata nel Libro Nono, dove si ragiona “de le ville, e de gli edifici de la antica citta di Roma”26, ma Tramezzino non si preoccupa che gli argomenti siano di interesse per Michelangelo, perché la scelta dell’artista come patrono è dovuta al lustro che il suo nome recherà all’edizione. “Difficile cosa è, poter ben giudicare, se le opere vostre più si assomigliano a quelle eccellenti antiche, ò più quelle alle vostre, Anzi posto da canto la debita riverenza ch’all’antichita si porta, chiaramente si vede, che ancor che sia necessario, che chi segue altrui, li sia doppo.” Non sappiamo se e quanto Michelangelo abbia potuto gradire una simile lusinga da parte del “libraro” veneto, né se abbia qualche volta indugiato sulle pagine del volume di gusto antiquario a lui consacrato. Di certo la scelta di preferire un artista al pontefice innamorato di antichità o a un potente membro della Curia Romana è l’ennesima stravolgente conseguenza della grandezza dell’opera di Michelangelo e una riprova del suo essere oltre la cultura del proprio tempo. Sull’impiego del termine “illetterato” adottato da Cesare Cesariano per il suo maestro Bramante si veda Bruschi 1990, p. 262. 2 Bruschi 2002b, p. 10. 3 Sull’esistenza di un trattato in cinque libri di Bramante si vedano Förster 1956, pp. 135 sgg; Forsmann 1988, p. 16; sui progetti editoriali di Raffaello, Burns 1984 e Shearman 2003, pp. 538-542; sul lascito di un trattato da parte di Peruzzi, Burns 1988 e Günther 1990. 4 Sul progetto editoriale complessivo di Serlio, lasciato incompiuto alla sua morte, si veda Fiore 2001; sull’edizione veneziana qui riprodotta si veda Morresi 2004. 5 Si vedano in proposito gli scritti di Christof Thoenes sugli architetti trattatisti dei secoli XV-XVI, dove oltre alle implicazioni sul piano sociale si sottolinea l’importanza della produzione testuale come verifica della prassi progettuale, e in particolare Thoenes 2003; Thoenes 2004. 6 Come le prospettive pubblicate nel Libro d’Antonio Labacco appartenente a l’architettura nel qual si figurano alcune notabili antiquità di Roma, Roma 1552. 14 Sul dibattito tra l’umanista francese Guillaume Philandrier e quanto sostenuto da Serlio si veda Pagliara 1986, p. 57. 15 Sull’importanza dei modelli nell’opera michelangiolesca si veda Mussolin 2006; sul disegno cfr. Elam 2006a, pp. 55-63. 16 Si vedano Almagià 1952, pp. 4243 e Almagià 1916. 17 Sull’importanza delle strategie culturali di Paolo III si vedano Bruschi 2002b, p. 9 e Tafuri 1992, pp. 242-244. 18 Sulla concessione dei privilegi di stampa a Roma nel Cinquecento si vedano Nuovo, Coppens 2005, pp. 204-205 e soprattutto Witcombe 2004 e Witcombe 2008, pp. 87105. Sulla mappa di Eufrosino si veda Ashby 1914. 19 Una rassegna degli interventi sul tessuto urbano durante il pontificato Farnese si trova in Simoncini 2008, pp. 97-148. 20 Tafuri 1992, p. 244. 21 Si veda supra. 22 Per il progetto di fortificazioni di Roma di Antonio il Giovane si vedano Fiore 1989; Fiore 1996; Bianchi 2001. Per una sintesi generale delle 1 gli anni dal 1534 al 1564 Cfr. Elam 2006a, pp. 63-65; Agosti, Farinella 1987a, pp. 25-27 e 3637. 8 Rime, p. 88 (Madrigale 164). 9 Si veda Günther 2002, pp. 126128, con bibliografia. 10 L’ingresso nella Compagnia di Salamanca, avvenuto nel maggio 1546 pochi mesi prima della morte di Antonio il Giovane, è stato messo in relazione con la pubblicazione delle tre celebri stampe rappresentanti la Basilica di San Pietro in Vaticano in prospetto e sezione longitudinali e in facciata secondo il modello di Sangallo eseguito da Labacco tra il 1546 e il 1548. Si veda in proposito Witcombe 2008, p. 104. 11 Pagliara 1982; cfr. inoltre Pagliara 1986, pp. 47-48. 12 L’edizione risale al 1486, mentre le postille e i disegni di Giovan Battista da Sangallo sono databili non prima della fine degli anni trenta. Si vedano P.N. Pagliara, scheda 3.3.8, in Frommel, Ray, Tafuri 1984, p. 428; Vitruvio, ed. Rowland 2003; P.N. Pagliara, scheda p. 281, in Beltramini, Burns 2008. 13 Si vedano rispettivamente: Burns 2006, pp. 29-36; Günther 2006. 7 fasi costruttive della cinta muraria di Roma e delle porte urbiche si rimanda a De Carlo, Quattrini 1995. 23 Antonio Blado (1490-1567) è tra i tipografi più attivi della Roma del Cinquecento. Autore di un carattere corsivo che ottiene un notevole successo, la vastità e la varietà della sua produzione restituiscono mutamenti e pulsioni della vita culturale di Roma dopo il Sacco: nel 1532 stampa l’editio princeps del Principe di Machiavelli, nel 1534 Antiquae Romae Topographia di Giovanni Bartolomeo Marliano, nel 1548 gli Exercitia spiritualia di sant’Ignazio di Loyola e nel 1553 la Vita di Michelagnolo Buonarroti raccolta per Ascanio Condivi. Si vedano Vaccaro 1961 e Witcombe 2008, pp. 65-69. 24 Si riporta qui quanto sostenuto da Huppert 2008, in particolare p. 94. 25 Roma Trionfante di Biondo da Forlì, tradotta pur hora per Lucio Fauno di latino in buona lingua volgare, Michele Tramezzino, Venezia 1544. La segnalazione del volume e della dedica a Michelangelo è uno dei tanti regali che ho ricevuto da Howard Burns, al quale rivolgo un ringraziamento di cuore. 26 Ivi, pp. 315-355. 99 LA “SEPOLTURA” DI GIULIO II DAI PRIMI PROGETTI ALLA REALIZZAZIONE 1. Michelangelo Buonarroti e aiuti, Monumento funebre di Giulio II, 1533-1544. Roma, San Pietro in Vincoli Claudia Echinger-Maurach Io mi truovo aver perduta tutta la mia giovineza legato a questa sepoltura. Michelangelo Buonarroti1 Il monumento funebre per Giulio II della Rovere, commissionato nel marzo del 15052, rappresenta la più antica opera romana di Michelangelo nella quale architettura e scultura sono profondamente legate (fig. 1). Quanto sia facile comprendere l’importanza di questo monumento, tuttora poco apprezzato, lo dimostrano le sue più antiche raffigurazioni e in particolare la magistrale incisione edita da Antonio Salamanca nel 1554 (cat. 22)3. Essa mostra bene come a coronamento del sepolcro vi fosse una grande finestra a lunetta dal profilo ribassato inondata di luce e assai ingrandita rispetto alla realtà, la quale si apriva verso un vano posto direttamente alle spalle del monumento. La stampa costituisce la più antica fonte grafica a evidenziare la presenza di tale ambiente, palesemente descritto da Giorgio Vasari nella seconda edizione della Vita di Michelangelo. Il biografo ricorda infatti quattro piccole finestre rettangolari poste nel registro superiore, riaperte con il recente restauro4: “nel vano della nicchia [Michelangelo] vi fece fare per ciascuna una finestra, per comodità di que’ frati che ufiziano quella chiesa, avendovi fatto il coro dietro, che servono, dicendo il divino ufizio, a mandare le voci in chiesa et a vedere celebrare”5. In tale luogo posto tra la chiesa e il convento aveva dunque sede il coro dei canonici regolari lateranensi, ivi residenti6. Il monumento per Giulio II diveniva così un vero e proprio diaframma attraverso cui i canti e le preghiere dei religiosi venivano amplificati lungo le navate della basilica. 100 Di fronte al sepolcro Della Rovere, sulla parete opposta del transetto, in una nicchia ancor oggi visibile al di sotto dell’organo, si trovava l’altare in cui erano custodite le venerate reliquie delle Catene di san Pietro, commissionato dal grande teologo Nicola Cusano, cardinale titolare della chiesa, il quale aveva fatto apporre la propria lapide sepolcrale ai piedi di quell’altare7. Ciò fornisce bene l’immagine dell’audace invenzione di Michelangelo, capace di mettere in relazione il monumento per Giulio II con il coro dei canonici e di stabilire un rapporto spaziale con l’altare delle reliquie e la tomba di Cusano, rispettivamente posti l’uno di fronte l’altro nelle due testate del transetto. È pur vero tuttavia che l’artista impiegò quarant’anni prima di giungere a questa soluzione. Le ricerche condotte da chi scrive hanno portato a concludere come i diversi progetti michelangioleschi possano essere raggruppati in due fasi cronologiche distinte, la prima riferibile alla “opera grande”, la seconda relativa alla “opera risecata”. Alla “opera grande” appartengono i progetti monumentali isolati o parietali destinati alla basilica di San Pietro in Vaticano, rispettivamente articolati in quattro o tre facciate, ai quali l’artista ha lavorato dal 1505 ai primi anni venti. Alla “opera risecata” sono invece riconducibili le idee progettuali successive al 1525, riguardanti un monumento a facciata singola che nel 1532 si decise di eseguire nella chiesa di San Pietro in Vincoli. Va tuttavia ricordato che alcune parti architettoniche, già terminate nel 1513-1514 e quindi eseguite per la “opera grande”, verranno riutilizzate nella versione finale della “opera risecata”, il cui registro inferiore fu messo in esecuzione a partire dal 1533, quello superiore tra 1542 e 15448. gli anni dal 1534 al 1564 101 2. Michelangelo Buonarroti, Progetto per il monumento funebre di Giulio II (parte sinistra: due paraste su doppio zoccolo; parte destra: nicchia ad arco a tutto sesto con Madonna seduta e sarcofago fiancheggiato da due paraste su doppio zoccolo), circa 1505. Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 8026 verso (parte sinistra), 722 verso (parte destra) Solo l’analisi dell’intero processo creativo di questo monumento consente di comprendere appieno come l’ideazione di Michelangelo abbia sempre rappresentato l’evoluzione e il progressivo ripensamento scaturito da una medesima invenzione iniziale. È difficile fornire un quadro sinottico dei progetti di Michelangelo riguardanti la “opera grande”. Tanto la Vita di Ascanio Condivi del 1553, quanto le due edizioni della biografia vasariana del 1550 e 1568, concordano nel celebrare diffusamente la dirompente forza creativa legata all’idea di un monumento isolato a quattro facce. Di questa iniziale proposta tuttavia non resta alcun disegno autografo, pertanto la sua immagine non può che rimanere affidata alle ipotesi ricostruttive. Infatti l’insieme dei disegni tuttora noti relativi alla “opera grande”, come i perduti modelli ricordati nei più antichi contratti stipulati con la committenza, illustrano piuttosto un monumento di dimensioni colossali con tre facciate libere e la quarta addossata a parete, circostanza, a mio avviso, su cui è stata data scarsa attenzione. Il verso di un disegno autografo oggi conservato al Louvre (fig. 2)9, databile circa al 1505 – il più antico tra quelli appartenenti al gruppo di progetti con soluzione a tre facce – prevede una struttura ad arco di trionfo con piloni tetrastili su doppio piedistallo; sotto al fornice centrale è posto un sarcofago privo di figure, nella nicchia è assisa la Vergine con il Bambino. 102 Una ben più complessa struttura architettonica con nucleo di statue in analoga disposizione è visibile in un successivo disegno autografo del Metropolitan Museum of Art di New York (fig. 3; Corpus 489 recto)10, anche questo databile al 1505. In questa nuova versione dello stesso impianto non solo le dimensioni, ma anche l’espressività e il numero dei personaggi appaiono estremamente potenziati11. Il centro figurativo si sposta adesso sull’imago pietatis del giacente, capace di muovere a compassione le restanti figure del secondo registro, specularmente disposte rispetto all’asse centrale: la coppia assisa più in basso, posta in corrispondenza del basamento, echeggia i versetti del Dies irae rappresentando il Profeta e la Sibilla; la coppia stante, posta davanti ai pilastri dell’edicola, rappresenta due giovani con lunghe vesti, l’uno reggente un’acquasantiera e un aspersorio, l’altro un turibolo; le due coppie rimanenti, poste a sorreggere la salma del pontefice, rappresentano rispettivamente angeli e putti. In alto, al centro dell’edicola, si colloca la mandorla con la Vergine e il Salvatore tra le braccia, entrambi benevolmente rivolti verso il defunto. La drammatica messa in scena a più figure del registro superiore, ispirata tanto alla cerimonia di benedizione della salma del pontefice, quanto al testo della relativa messa da requiem, sovrasta un registro inferiore caratterizzato da un ordine architettonico con semicolonne, che si articola in tre campate: le campate laterali occupate da nicchie con statue a tutto tondo rappresentanti Virtù morali; la campata centrale, in forte recesso, occupata da un grande bassorilievo allegorico di Giulio II della Rovere. La coppia frontale di figure è riconoscibile quale doppia allegoria della Carità, la virtù teologale che più delle altre rende l’uomo degno della grazia divina. Nella prima idea di monumento a quattro facce, Giulio II e Michelangelo avevano inizialmente posto mano a un sepolcro nel quale la magnificenza figurativa dei mausolei antichi potesse fondersi in mirabile sintesi alla struttura compositiva propria degli archi di trionfo romani12. Se si confronta questo primo progetto descritto da Condivi13 con le statue dei Prigioni, sia le due del Louvre, sia le quattro dell’Accademia fiorentina – come noto, eseguite fra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento durante fasi progettuali successive, ma risalenti a un’idea assai vicina alla concezione originaria – emerge con chiarezza come committente e artista aspirassero non solo a creare una tipologia di monumento capace di suscitare ammirato stupore, ma anche ambissero a definire una disposizione iconografica con ben pochi raffronti, sinonimo di una libertà espressiva epocale sotto ogni aspetto14. Un evidente recupero di questa iniziale complessità si riscontra nel successivo stadio progettuale testimoniato da due fogli autografi, il primo al Kupferstichkabinett di Berlino (Corpus 55 recto)15, assai più 3. Michelangelo Buonarroti, Progetto per il monumento funebre di Giulio II, 1505. New York, The Metropolitan Museum of Art, Rogers Fund, 1962, n. 62.93.I 4. Giacomo Rocchetti [Rocca], Progetto per il monumento funebre per Giulio II (da Michelangelo), ante 1559. Berlino, Staatliche Museen zu Berlin – Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, KdZ 15306 5. Michelangelo Buonarroti, Alzato del piano inferiore del monumento funebre di Giulio II con annotazioni e schizzo di blocco di marmo, 1518. Londra, The British Museum, inv. 1859-5-14-824 recto, inv. 1947-1-17-1 recto gli anni dal 1534 al 1564 103 6. Ricostruzione del progetto del 1516 per il monumento funebre di Giulio II secondo l’ipotesi di Johannes Wilde (da Wilde 1954, p. 7, fig. I) 7. Ricostruzione del progetto del 1516 per il monumento funebre di Giulio II secondo l’ipotesi di Martin Weinberger (da Weinberger 1967, vol. II, fig. VIII) 8. Bastiano da Sangallo, detto Aristotile, Alzato del monumento funebre di Giulio II in costruzione, circa 1534-1542. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 1741 A recto 9. Firenze, San Lorenzo, Biblioteca Medicea Laurenziana, ricetto leggibile nella copia di Giacomo Rocchetti anch’essa a Berlino (fig. 4)16, e l’altro, in stato frammentario, agli Uffizi (Corpus 56 recto)17. Questi due disegni, tutti relativi a un medesimo progetto di monumento a tre facce, corrispondono bene alla descrizione contenuta nel contratto del 6 maggio 151318. Questa, come anche i disegni, prevede un alzato a due registri, di cui il superiore rimane piuttosto simile alla disposizione del foglio di New York, mentre l’inferiore risulta più innovativo. Nel registro superiore resta somigliante la disposizione al centro con la monumentale nicchia circolare nella quale si trova la mandorla con la Vergine e il Bambino, elevata sopra un sarcofago attorniato da figure; mutati appaiono invece i fianchi della nicchia, tanto nella disposizione dei pilastri quanto nella coppia di figure elevate al di sopra delle troneggianti statue assise, tra cui il Mosè, disposte in alternanza con putti sodali a pilastrini. Nel registro inferiore, rispetto al foglio di New York, si vede una più innovativa articolazione dei prospetti in tre campate con nicchie laterali ciascuna occupata da una Vittoria in posa trionfante sopra altra figura reclinata ai piedi. Lasciando da parte la soluzione più convenzionale con ordine architettonico inquadrante, Michelangelo introduce adesso il tema delle nicchie incorniciate da coppie di Prigioni incatenati a termini di aspetto antropomorfo; un alto bassorilievo rettangolare in bronzo riempie la campata centrale, celebrando gesta e virtù del papa, arricchendo così l’invenzione con materiali differenti per esecuzione e colore. Sebbene nel contratto del 6 maggio 1513 il progetto venga minuziosamente descritto, le dimensioni del piano inferiore pari a 14 per 20 palmi (altezza per larghezza pari circa a 308 × 440 cm)19 muovono alcune perplessità: o Michelangelo ha calcolato erroneamente lo spazio necessario oppure era veramente intenzionato a costruire un monumento di dimensioni più ridotte. Infatti tale proporzionamento consentirebbe la collocazione di sculture di grandezza inferiore a quella naturale, alte circa 7 palmi (circa 154 cm) mentre nel contratto sono menzionate figure alte circa due metri. Questa incongruenza viene risolta nella convenzione che Michelangelo stipula il 9 luglio 1513 con Antonio da Pontassieve, eccellente scalpellino del cantiere di San Pietro, riguardante l’esecuzione di una delle facce del registro inferiore, “la faccia che viene dinanzi”, calcolata adesso in 17 per 30 palmi (altezza per larghezza pari circa a 374 × 660 cm)20. Queste misure rendono possibile la sistemazione di sculture più grandi del naturale come i due Prigioni del Louvre, eseguiti tra il 1513 e il 1515 per questo stesso progetto. Con la lavorazione dei blocchi e la loro finitura lo scultore si avvia verso la fase conclusiva della realizzazione, ponendosi definitivamente la questione sulla forma finale della “opera grande”. Nel passaggio dalle elaborazioni grafiche e dai modelli alla realizzazione nel marmo si compie dunque il passo decisivo: una volta abbandonato lo strumento del disegno l’artista può tradurre finalmente le invenzioni formali tracciate sui fogli nel linguaggio plastico dei blocchi di marmo. Concepire un’opera di quadro architettonico adeguata per un tale numero e una tale varietà di sculture non deve essere stata impresa facile per Mi- chelangelo. Il progetto databile al luglio 1513, e confermato nel contratto del 1516, tuttavia assegna all’architettura quella progressiva rilevanza che la porterà a eguagliare i risultati raggiunti nell’opera scultorea21. Va ricordato che parte degli elementi architettonici del progetto del luglio 1513 furono eseguiti esattamente tra il 9 luglio 1513 e il 27 agosto 1514 e sono quegli stessi successivamente riutilizzati nel registro inferiore del monumento realizzato in San Pietro in Vincoli. Antonio da Pontassieve, insieme ad altri aiutanti, aveva lavorato all’opera di quadro e aveva parzialmente scolpito i relativi ornati. Questa fase della progettazione è attestata in un disegno del British Museum (fig. 5; Corpus 57 recto)22 che mostra una schematica traccia del primo registro del monumento, formulato come un appunto grafico, vero e proprio ricordo datato 1518, relativo alle parti dell’opera già terminate “di quadro e d’intagli”. A confronto con i disegni prima osservati di Berlino e Firenze, nell’articolazione architettonica corrispondente a questo disegno, l’artista scelse una scansione ritmica del tut- 104 gli anni dal 1534 al 1564 105 to innovativa con elementi portanti più robusti proporzionati ai Prigioni e nicchie più strette con relativi gruppi trionfali maggiormente slanciati e protesi verso l’alto; ma anche si orientò verso una più serrata concentrazione di figure contenute in uno spazio maggiormente ridotto. Va detto inoltre che le due nicchie laterali del fronte principale, inquadrate dai rispettivi termini, sono assai meno incassate della nicchia rettangolare posta al centro, rientrante di quasi 70 cm. Lo stile degli intagli dei contropilastri interni della nicchia con il Mosè in San Pietro in Vincoli suggerisce anch’esso la stessa datazione al biennio 1513-151423; ciò evidenzia inoltre come tale alloggiamento definitivo fosse già stato progettato allora e non costituisce pertanto, come altrove ventilato, un adattamento eseguito in situ – e a posteriori – per ospitare la celebre statua. Alla luce di questa dettagliata analisi sono inevitabilmente portata a supporre che già il progetto del luglio 1513 mostrasse un registro superiore scandito dal medesimo ritmo e dalla medesima coerenza di quello inferiore: tesi da me altrove sostenuta e tuttavia in contrasto con ogni altra ricostruzione tentata a questa data. La mia ipotesi si differenzia da quella degli altri studiosi soltanto nell’anticipare al luglio 151324 la modifica progettuale comunemente assegnata al 151625. Ciò permette di escludere una serie copiosissima di ricostruzioni proposta in sede critica intorno alle ipotizzate modifiche inerenti questa fase progettuale. Il contratto del 1516 descrive nei più minimi dettagli un registro superiore come quello da me delineato26. Di questo progetto resta l’alzato parziale del fianco con misure in braccia, schizzato nel foglio 69 A di Casa Buonarroti (cat. 20; Corpus 58 recto)27, probabilmente disegnato nella primavera del 1518. Un attento esame di questo foglio conferma come l’alzato sia da assegnare al registro superiore28, punto correttamente ricostruito da Johannes Wilde, al quale si deve questo fondamentale riconoscimento: la sua ricostruzione, a esclusione della nicchia centrale con la Vergine troppo elevata e sormontata da cornice centinata, rappresenta l’unica soluzione accettabile del progetto del 1516 (fig. 6)29. Nella versione ridotta del monumento corrispondente a questa data, uno dei fondamentali nodi critici è rappresentato dalla minore dimensione della nicchia centrale del piano superiore, chiamata “tribunetta” da Michelangelo nel contratto del 151630. La nuova dimensione assegnata adesso alla nicchia superiore, sovrapposta a sua volta allo stretto vano del piano inferiore, costringe a una posizione assai più precaria il vero e proprio fulcro del monumento – il bel gruppo di figure con la Vergine, il papa e gli angeli, che tanto entusiasmo aveva suscitato nei primi progetti. Un tale ridimensionamento rende pertanto superati, in quanto irrealizzabili, i movimentati gruppi plastici dei precedenti disegni di New York e Berlino, che prescindevano da un rapporto diretto con la struttura architettonica. È adesso il perento106 rio andamento ritmico del nuovo piano superiore a dettare legge alla composizione scultorea. Il foglio 43 A di Casa Buonarroti (cat. 19; Corpus 501 verso)31, databile al 1516-1517, mostra il profilo laterale del gruppo scultoreo nella nuova disposizione, per il quale, anche in questo caso, propongo di anticipare l’invenzione al 1513-1516. Per potere alloggiare il gruppo centrale di figure, l’artista è costretto a ridurre considerevolmente l’altezza del sarcofago facendolo poggiare direttamente su un piano obliquo e ponendovi il corpo senza vita del pontefice sorretto soltanto da una coppia di angeli. Tale soluzione lascia tuttavia aperte alcune questioni: la statua del papa sarebbe stata sufficientemente visibile nella relativa penombra della “tribunetta”? Tenuto poi conto del rientro della campata centrale del registro inferiore – dato finora poco considerato –, dove avrebbero poggiato i piedi del pontefice? Come collegare la Vergine a tale gruppo? Come immaginare il rapporto reciproco delle figure del registro superiore? Si osservino a tale proposito le interessanti ricostruzioni in proiezione ortogonale e verticale di Martin Weinberger (fig. 7)32, le quali mostrano un registro superiore troppo basso33, nonostante vi sia la convincente proposta di sfruttare le cornici delimitanti le campate laterali come profili di imposta dell’arco della nicchia con la Vergine e di terminare la struttura architettonica con una trabeazione rettilinea. Lasciamo Michelangelo alla data del 1516, quando è ormai realizzata una serie di blocchi di quadro e di figura (alcuni destinati a entrare nella versione finale del monumento in San Pietro in Vincoli, altri, come i Prigioni, avviati a un diverso destino) e guardiamo alle ragioni che motivarono l’artista a far ritorno a Firenze proprio in quell’anno34, secondo un desiderio già espresso dal 1514 che ci fa capire come egli escludesse la possibilità di dovere rimanere a Roma fino al completamento del monumento. Nel contratto del 1516 si autorizzava lo scultore a lavorare i marmi ovunque egli lo avesse ritenuto più conveniente35. Assai di rado infatti l’esecuzione di opere scultoree avveniva negli stessi luoghi in cui esse avrebbero dovuto essere collocate. Finché non fosse stato deciso il luogo esatto dove erigere il monumento Della Rovere, restava a Michelangelo la possibilità di cambiarne la forma procedendo senza fretta. Avendo continuo bisogno di nuovi blocchi di marmo, piuttosto che soggiornare nell’Urbe, lo scultore ritenne più conveniente far da spola tra le cave apuane e lo studio fiorentino. Egli dunque rimase a Roma fino all’estate del 1516, non perché impegnato nella committenza roveresca, ma perché solo allora gli fu chiaro che non avrebbe dovuto pagare alcuna pigione per la casa in Macel de’ Corvi, persino in sua assenza, dal momento che sarebbe comunque diventata di sua proprietà al termine dell’incarico36. Giunto a Firenze, Michelangelo aveva provveduto con metico- loso scrupolo a effettuare gli ordini delle partite di marmo da Carrara e Pietrasanta e organizzarne il non facile trasporto alla volta del capoluogo toscano, dove aveva acquistato un fondo in via Mozza al fine di organizzarvi il nuovo studio37. La realizzazione della nuova serie di sculture destinate alle figure del monumento fu avviata esattamente il 17 maggio 1519 con l’abbozzo dei nuovi blocchi38. In questi anni lo legavano sempre più a Firenze le commissioni per San Lorenzo provenienti da casa Medici, i cui papi, Leone X e Clemente VII, avevano garantito a Michelangelo una progressiva e straordinaria protezione. A impedire definitivamente l’effettiva realizzazione del grande progetto in gestazione dal luglio 1513 e avviato nel 1516, era stata la morte nel 1520 del cardinale Leonardo Grosso della Rovere, nipote del papa e vescovo di Agen, il quale si era impegnato a destinare alla realizzazione del monumento una spesa persino superiore a quella lasciata da Giulio II. Scomparso il principale finanziatore del monumento roveresco gli eredi si rifiutarono tuttavia di ottemperare a quell’impegno, provocando un effettivo cambio di programma39. Non deve quindi meravigliare che alla metà degli anni venti si fosse raggiunto un accordo per realizzare un progetto definitivo per la “opera risecata”, che diventerà realtà solo a partire dal 153240. Il 29 aprile di questo anno, dopo laboriose trattative e sotto la supervisione di Clemente VII, si arrivò infatti alla formulazione di un nuovo contratto, le cui principali clausole erano: l’annullamento definitivo della “opera grande”, prevista ancora come possibilità nel contratto del 1516; l’impegno a erigere un monumento conforme alla somma già ricevuta di 8000 ducati, con sei sculture autografe e le restanti affidate ad aiuti; l’obbligo a terminare l’opera entro tre anni, ossia nell’agosto 153541. Come già accaduto in passato, Michelangelo si dedicò a questo nuovo progetto solo dopo la sottoscrizione dell’atto. Una volta esclusa la possibilità di collocare il monumento nella basilica di San Pietro, già nell’aprile 1532 Michelangelo optò per collocarlo nella basilica eudossiana, ovvero in San Pietro in Vincoli, luogo che offriva condizioni di spazio e illuminazione assai più vantaggiose dell’altra chiesa roveresca per eccellenza, Santa Maria del Popolo, sicuramente più frequentata e più amata dalla famiglia42. In San Pietro in Vincoli l’artista scelse la parete adeguatamente alta e libera posta alla testata meridionale del transetto. Questa scelta, che impediva di concepire soluzioni troppo grandiose o complesse, deve avere alleggerito lo scultore nonostante la rinuncia all’inserimento di alcune statue già realizzate. Un’attenta lettura del motu proprio del 154243, nonché del Carteggio relativo agli anni 1532-1542 (riguardante, da un lato, le lettere tra Michelangelo e Sebastiano del Piombo e, dall’altro, quelle tra Francesco Maria della gli anni dal 1534 al 1564 Rovere duca di Urbino e i suoi corrispondenti a Roma, Giovanni Maria della Porta e Geronimo Staccoli), porterebbe alla seguente conclusione: non solo il progetto del monumento nella sua forma attuale in San Pietro in Vincoli risale al biennio 1532-1533, ma tra maggio e agosto 1533 Michelangelo fece anche predisporre e sfondare il muro che avrebbe accolto la sua opera; contemporaneamente – forse nello stesso 1533 o al più tardi nell’anno successivo – provvide a completare e far collocare i blocchi dell’opera di quadro del registro inferiore del monumento eseguiti fino ad allora; vale a dire che tale inserimento nel muro della chiesa deve essere avvenuto un decennio prima di quanto finora ipotizzato e che, per quella stessa data, il programma iconografico delle statue destinate alle nicchie escludeva definitivamente la collocazione di Prigioni e Vittorie44. L’avvio dei lavori al Giudizio universale45, tra 1534 e 1535, implicò tuttavia un notevole rallentamento alla realizzazione del monumento nella nuova sede. L’aspetto incompiuto dell’opera a questa fase resta ben documentata sia in un foglio di Aristotile da Sangallo oggi agli Uffizi, databile tra 1534 e 1542 (fig. 8)46, sia in un affascinante disegno di autore anonimo posto nel verso di un foglio, venuto alla luce di recente e oggi in collezione privata (cat. 21)47. Entrambe le immagini documentano come il monumento sia stato costruito non solo per singoli elementi, ma anche per fasi successive. Alla fase illustrata dai disegni appartiene anche la messa in opera dei piedistalli del registro superiore, progettati ex novo secondo uno stile prossimo alle soluzioni decorative ideate per la Biblioteca Laurenziana a Firenze (fig. 9). In questa stessa fase, come altrove ho avuto modo di dimostrare, per dare al monumento una conclusione provvisoria l’artista fece collocare come pezzo a sé il sarcofago con la figura giacente del pontefice, che nel frattempo era stata condotta perfettamente a termine48. Tra 1534 e 1541, seppur quasi totalmente assorbito dal Giudizio universale, Michelangelo cominciò comunque ad abbozzare il gruppo con la Vergine e il Bambino, terminato nel breve lasso di tempo compreso tra 1542 e 1544, nonché il Profeta e la Sibilla del registro superiore insieme alle due figure bibliche di Lia e Rachele del registro inferiore, allegorie della vita attiva e della vita contemplativa. Alcune fonti rinvenute di recente dimostrano che Michelangelo e i suoi collaboratori, tra i quali emerge soprattutto Raffaello da Montelupo, si attennero scrupolosamente alle scadenze concordate, forse persino anticipandole49. Tutte le statue – tranne il Mosè – furono sistemate in loco non già a partire dall’inizio del 1545, come finora ritenuto, bensì nel marzo dell’anno precedente. Il Mosè vi era stato collocato addirittura almeno dall’ottobre del 1544, elemento questo finora mai rilevato50. 107 10. Pianta del complesso di San Pietro in Vincoli (da Fontana 1838, vol. II, tav. IV, fig. 1) 11. Rilievo planimetrico del monumento funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli alla quota del primo registro (disegno arch. Giuseppe Papillo) 12. Rilievo planimetrico del monumento funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli alla quota del secondo registro (disegno arch. Giuseppe Papillo) 13. Sezione trasversale del monumento funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli (disegno arch. Giuseppe Papillo) Vale quindi la pena soffermarsi a indagare le istanze che condussero alla realizzazione del monumento in San Pietro in Vincoli nel suo aspetto attuale. È fuor di dubbio che esso fosse previsto a doppio registro, seppur senza quei “risvolti”, ovvero facce laterali, fin lì previsti51. In questa fase Michelangelo non concepisce più un monumento quale opera esclusivamente scultorea, avulsa dal suo contesto architettonico, ma piuttosto imprime un ulteriore potenziamento all’effetto monumentale, integrando il sepolcro nell’architettura della chiesa, similmente a quanto egli stesso aveva realizzato un decennio prima nei monumenti ai duchi medicei nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo. Il muro della testata del transetto di San Pietro in Vincoli oggetto dei lavori, almeno sotto la finestra a lunetta, era quello stesso realizzato in epoca paleocristiana, come d’altronde tutta la grande tribuna della chiesa52. Su questa parete, tramite uno sfondamento, furono create le aperture per una porta (si tratta di quella a sinistra, dal momento che quella sulla destra è assai più recente), per le quattro finestre rettangolari e per la finestra a lunetta ribassata, oltre la quale bisognò rialzare nuovamente il muro. A Michelangelo si presentarono dunque non solo questioni compositive relative all’alzato, ma anche problemi di natura statica. Tali bucature compromettono a tutt’oggi la resistenza della parete ed è straordinario che essa presenti solo piccole crepe. La genialità dell’intervento di Michelangelo è ben evidente osservando sia le antiche planimetrie sia i rilievi recentemente eseguiti. Le 108 prime restituzioni grafiche mostravano infatti una disposizione regolare degli ambienti che non ha mai rispecchiato la realtà. Le nitide planimetrie dell’architetto Giacomo Fontana pubblicate nel 1838 (fig. 10)53 e le belle tavole di Paul Letarouilly54 di poco successive mostrano entrambe la presenza di un vestibolo, o antisagrestia, posto alle spalle del monumento, che serviva per collegare il transetto, la sagrestia e il chiostro, quest’ultimo tramite una scala oggi non più esistente. L’analisi del rilievo attuale (figg. 11-13) lascia emergere piuttosto come la sagrestia fu ricavata all’interno di un vano posto al livello più basso di una preesistente torre, sensibilmente ruotata, insieme al vestibolo, rispetto ai muri della chiesa55. La moderna sezione eseguita lungo il transetto taglia longitudinalmente il muro del monumento, dietro il quale si trovano due ambienti sovrapposti, quello inferiore, più stretto, costituisce il resto dell’originario vestibolo, quello superiore, più ampio, rappresenta il vano dove si svolsero le funzioni di coro della comunità religiosa56. I tre fattori che hanno condizionato la dimensione complessiva del monumento per Giulio II nel modo effettivamente realizzato sono stati determinati sia da elementi interni all’opera sia da vincoli esterni legati alle preesistenze della chiesa: l’elemento interno fu dato dallo sviluppo orizzontale del “quadro” dei blocchi architettonici già eseguiti a Roma dai collaboratori di Michelangelo tra 1513 e 1514; i vincoli esterni furono determinati dall’altezza dei pilastri del transetto e dallo scarto esistente tra le due volte poste a cavallo del muro su cui è addossato il monumento (più alta la crociera sul transetto, più bassa la volta sul coro), dal cui diverso profilo deriva la curva della finestra a lunetta, necessariamente ribassata per non interferire con la volta lunettata del coro, i cui peducci si collocano a una quota appena superiore al cervello dell’arco della stessa finestra a lunetta. Superando la versione del 1513-1516 (caratterizzata da un registro inferiore più basso e aggettante con molte figure e da un registro superiore più alto e profondo), la versione avviata nel 1532 definisce risolutivamente due registri di altezza quasi uguale. Misurazioni da me effettuate mostrano come il registro inferiore già scolpito fosse più basso di un palmo rispetto a quello superiore57. Ma per dare a questo registro inferiore un migliore rapporto proporzionale fu aggiunto quel doppio plinto di marmo che si distacca dai restanti blocchi per un più accentuato colore grigio. Osservando nuovamente la sezione trasversale si chiariscono anche per la prima volta le ragioni del rialzo del registro inferiore, dovuto alla necessità di posizionare la nicchia ospitante la statua della Vergine a un’altezza tale da consentire l’adeguata rientranza nel muro, cosa possibile solo nello spessore compreso tra la volta del vestibolo e il solaio del coro, a fronte del consolidamento del tratto inferiore del muro e della modifica delle retrostanti volte. La soprelevazione del registro inferiore con doppio plinto, condotta nel 1533 o al più tardi entro il 1534, provocò notevoli conseguenze anche sul programma figurativo. Esempio ne sono le nicchie a pianta “ovata” dove stanno le figure di Lia e Rachele, elevate così in alto e di profondità così ridotta da rendere vana la possibilità di potervi alloggiare la grande statua del Genio della Vittoria di Palazzo Vecchio di Firenze, profonda oltre 90 cm. Altro elemento determinante della composizione del registro inferiore sono inoltre i piedistalli con i loro termini, i cui busti a braccia conserte si protendono tanto in avanti da non consentire più la possibilità di collocarvi i Prigioni. Questi piedistalli mantengono comunque una fortissima relazione plastica con i termini corrispondenti e sottolineano la quota su cui è assiso in posa volitiva il Mosè. Le grandi volute collocatevi in seguito raccordano poi tale ritmo di elementi in modo così serrato da essere equiparabile a una vera e propria “marcia funebre” marmorea che anticipa la vista del sarcofago nel registro superiore. Nell’innovativa iconografia di questa tomba, principale elemento di articolazione architettonica sono ancora i termini, generati da quel medesimo universo di forme metamorfiche rappresentato per mezzo delle grottesche che pervadono il registro inferiore. Una volta che i Prigioni non compaiono più di fronte ai termini, questi ultimi possono pienamente svolgere quella funzione al pari di un ordine architettonico gli anni dal 1534 al 1564 109 14. Michelangelo Buonarroti, Studio per tomba parietale, 1526. Firenze, Casa Buonarroti, 128 A recto sui generis, secondo modalità del tutto insolite. Michelangelo aveva già usato tali elementi dove la figura umana si congiunge alla forma tettonica al di fuori di ogni regola canonica. Cinti da serti di abete, come satiri nel corteo di Dioniso, questi termini, raffigurati ora con occhi selvaggiamente roteanti, ora in pose di statico vigore, conferiscono alla tomba un aspetto che induce a un sentimento panico. Rispetto al giovanile foglio di New York emerge, una volta di più, come Michelangelo sia stato capace di infondere poetica espressività all’arte edificatoria. È affascinante osservare come nella soluzione finale l’artista sia riuscito a risolvere tutti i problemi fin qui esposti. L’opera eseguita, con un registro inferiore così ben scandito da una graduale progressione di rientranze e sporgenze in pacata alternanza, mette pienamente in luce, al centro della composizione, il gruppo scultoreo. Esso si dispone intorno al breve 110 15. Edmé Bouchardon, Il Mosè di Michelangelo, circa 1725. Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 23920 sarcofago dai raffinati profili su cui è reclinata la figura del pontefice, ben stagliato nel suo sporto ai piedi della nicchia, con la Vergine retrostante elevata a debita altezza e le rimanenti figure a far da bella corona nel telaio architettonico del monumento. Nella composizione del registro superiore sono radicalmente trasformati i motivi che avevano caratterizzato quello inferiore. I singoli blocchi di marmo danno adesso l’impressione di un insieme coeso da una tesa limpidità di cornici e risalti, apparentemente composto da una materia che potrebbe persino sembrare diversa da quella marmorea, senza per questo dar l’impressione di aver perduto la propria potenza espressiva. Michelangelo si dimostra architetto maturo, pienamente capace sia di sintetizzare e semplificare radicate procedure senza indulgere in compromessi, sia di sfoltire e infrangere antiche convenzioni date ormai per canoniche. Quattro alti e possenti pilastri – terminanti, al posto dei classici capitelli, con maschere ghignanti di demoni anch’essi coronati da fronde di lauro – sono addossati ai loro rispettivi contropilastri e presentano una sottilissima specchiatura rastremata verso il basso, elemento già presente nelle nicchie a tabernacolo del ricetto della Biblioteca Laurenziana (fig. 9), ma qui adottato con espressività magistralmente innovativa. La poderosa solidità espressa da questi bizzarri pilastri rastremati sottolinea la profondità delle tre nicchie, che sarebbe meglio descrivere come torreggianti recessi aperti verso l’alto in cui si addensano le ombre, simili al vano inferiore che ospita il Mosè. In essi trovano spazio le figure del Dies irae con il Profeta e la Sibilla, al di sopra delle quali Michelangelo rinuncia a collocare dei convenzionali rilievi58. Al posto di tali specchiature quadrate di gusto fin troppo antiquariale, nei vani laterali del secondo registro si trovano due delle quattro audaci aperture più volte ricordate, le quali permettevano di osservare dal coro le funzioni celebrate nel transetto e nell’altare maggiore. La forma rettangolare di queste finestre è definita, in larghezza, dalla distanza fra i contropilastri delle campate laterali, in altezza, dalla distanza che corre tra le due cornici orizzontali inquadranti la conchiglia della nicchia superiore, secondo una articolazione formalmente simile alle analoghe cornici del registro inferiore. Tali finestre cuciono indissolubilmente l’architettura del monumento al muro del transetto e preannunciano, al tempo stesso, lo sfondamento determinato dalla finestra a lunetta che si apre sul retrostante coro, dando così modo di elevare in posizione acroteriale lo stemma Della Rovere stagliandolo in forte controluce. Va aggiunto al riguardo che nelle commemorazioni di suffragio a favore dell’anima del pontefice l’effetto dovuto dalla luce proveniente dai ceri ardenti posti sui quattro candelabri marmorei al culmine dei pilastri avrebbe animato tale stemma di dorati bagliori tremolanti. Una delle mie principali finalità è cercare di documentare come, nel nuovo vocabolario formale e sintattico utilizzato da Michelangelo nel sepolcro di San Pietro in Vincoli, rientri a pieno titolo anche il peculiare modo di trattare la luce, incanalata attraverso la finestra a lunetta e le quattro aperture che sfondano la parete e bucano il monumento, secondo una sperimentazione già avviata fin dai tempi della Sagrestia Nuova59. La singolare penombra, che nell’arco della giornata ridisegna i profili della partitura sepolcrale e avvolge le statue di icastica espressività, va probabilmente annoverata tra gli esiti più significativi della tarda attività di Michelangelo. Guardando nuovamente al monumento, si può osservare come la parete di fondo su cui si appoggiano i contropilastri appaia ridotta quasi a divenire una membrana fortemente stirata dagli elementi del telaio architettonico, similmente all’analogo effetto visibile nell’ultimo piano del cortile di palazzo Farnese e nel secondo livello della facciata del palazzo dei Conservatori. Su una particolarità infine occorre concentrare l’attenzione: il modo tanto inconsueto, quanto abile, di collocare al centro del monumento il gruppo con la figura del papa. Esso diviene sia il fastigio orizzontale posto a chiudere superiormente la nicchia con il Mosè sia la base della piramide compositiva delle figure della nicchia centrale. Inoltre, interpretando il sarcofago quale vero e proprio elemento architettonico, esso riesce pienamente a dare centralità alla composizione, raccordando i quattro quadranti di cui è composto il monumento: con funzione di ponte collega la parte destra con la sinistra, con funzione di cerniera orizzontale sottolinea la specularità tra la parte bassa e quella alta. Questa sorprendente complessità di masse sporgenti e rientranti, mai così plasticamente risolta in un monumento funebre, si pone in linea con le sperimentazioni dinamiche realizzate nel ricetto della Biblioteca Laurenziana e ricorda inoltre un altro straordinario foglio di Casa Buonarroti datato 1526, il 128 A (fig. 14; Corpus 279 recto), relativo a un progetto michelangiolesco mai realizzato per una tomba papale da erigersi nel coro di San Lorenzo, nel quale in modo ancor più orchestrato il sarcofago si inserisce fra blocchi parietali di vario aggetto. La comprensione generale di questo monumento resterà sempre poco chiara fintanto che il Mosè, con il suo zoccolo eccessivamente alto e ampio, continuerà a sporgere incongruamente dal vano che lo racchiude, come fosse un elemento avulso dal suo contesto60; anche, e soprattutto, a causa di quella particolare illuminazione che lo presenta come pezzo a sé, alla stregua di un’opera museale. Se invece si procedesse a ricollocare la detta statua ben all’interno dello spazio che gli fu appositamente concepito, come da me più volte espresso, si noterebbe gli anni dal 1534 al 1564 allora come il fulcro del monumento resti il sarcofago con la figura reclinata del pontefice, che grazie all’ultimo restauro possiamo guardare con rinnovato spirito, assai più aderente a quelle che furono le intenzioni originarie di Michelangelo, a noi note attraverso disegni e incisioni del tempo o di poco successivi (fig. 15)61. Riesce difficile interpretare senza pregiudizi il significato iconografico del monumento, che deve essere letto per ciò che realmente rappresenta, un sepolcro cristiano. Fino ad allora Michelangelo aveva abituato lo spettatore a prendere confidenza con le molte possibili raffigurazioni anatomiche del corpo umano, esito di un personale studio sul nudo classico: gli Ignudi della volta della cappella Sistina, i Prigioni nel monumento per Giulio II, le quattro figure allegoriche del giorno nella Sagrestia Nuova. Quest’opera tarda di Michelangelo per111 corre tuttavia una strada totalmente innovativa, quella di volere raffigurare allegorie femminili abbigliate, solo in apparenza aderenti alla più invalsa tradizione iconografica del genere, ma che piuttosto costituiscono una esemplificazione della dicotomia rappresentata dalla vita attiva e dalla vita contemplativa, qui finalmente precisata con esaustività semantica difficilmente superabile. Non esistono precedenti in proposito, come non ve ne sono per il Mosè, coevo ai Profeti della Sistina, collocato quale typus papae sottoposto alla figura di Giulio II, perfetta epitome della fusione tra vita attiva e vita contemplativa. La statua del pontefice, a torto tanto biasimata, è concepita non secondo un aspetto trionfante, ma piuttosto rappresentata secondo una immagine di stanca umanità: il corpo caricato da ricche, ma pesanti vesti; il capo gravato da una opprimente tiara; l’espressione del volto ancora bella e nobile, solcata da profonde rughe; le mani aperte in rassegnata calma. Se l’artista raffigura nelle insegne papali la dignità e l’alto onere del ruolo, la posa della figura svela un uomo che ha rinunziato alle lusinghe mondane e riposa fiducioso nella speranza della resurrezione eterna. Sono dunque le statue di Lia e Rachele, figura delle virtù del pontefice, a servire da tramite per suscitare l’afflitta partecipazione al dolore della Sibilla e del Profeta e per sollecitare il misericordioso sguardo della Vergine che intercede presso il Salvatore tenuto fra le braccia. In fondo, Michelangelo in questa definitiva disposizione di fi- 112 gure, riunita intorno al defunto come per un compianto funebre, ritorna a una delle idee originarie per il monumento, ben visibile per esempio nel disegno di New York. Si chiude così il cerchio dei suoi pensieri. Sbaglierebbe chi considerasse questa soluzione “fuori moda”, riconducibile a schemi quattrocenteschi, dal momento che ciò non è valso per Michelangelo. Nella Sagrestia Nuova con i duchi in trono che, simili a eroi, si elevano al di sopra delle Allegorie del giorno, l’artista aveva definito una nuova tipologia di monumento talmente convincente da essere adottata in quasi tutti i futuri sepolcri papali. Tanto più allora colpisce il fatto di non aver preso in considerazione quel modello per la sua opera scultorea più ambiziosa. Nei vari stadi progettuali del sepolcro per Giulio II la statua del pontefice, mai concepita in tono eroico, vi si mostra come una creatura fragile e bisognosa di salvazione. Questa immagine cruciale del papa attraversa l’intero percorso creativo del monumento e Michelangelo sembra non avervi mai voluto rinunciare: essa dovrebbe perciò costituire il punto di partenza per ogni analisi del sepolcro di San Pietro in Vincoli, concepito dal vecchio artista maturo non come “trionfo della Fama”, soggetto che ci si aspetterebbe invano di trovare, quanto piuttosto come “trionfo della Virtù e della Fede”, nella speranza di una redenzione a cui ambiscono in silenziosa contemplazione il cuore e l’intelletto, dopo che gli occhi si sono saziati dello splendore dell’opera d’arte. Carteggio, vol. IV, p. 151, n. MI (ante 24 ott. 1542). 2 I riferimenti ai più antichi pacti del 1505 tra l’artista e Giulio II riguardanti il monumento sono rammentati in ricordi datati 1508, cfr. Ricordi, p. 1, n. 1 (apr. 1508), pp. 1-2, n. 2 (10 mag. 1508); Echinger-Maurach 2009, pp. 13, 172, nota 108. 3 Sull’incisione, cfr. scheda 41, in Corsi, Ragionieri 2004, p. 55; Echinger-Maurach 2009, pp. 11, 105. 4 Per il restauro del monumento, cfr. Forcellino 2002; Draghi, Viola 2003; Forcellino 2003; Papillo 2003. 5 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 1966-1987, vol. VI, p. 68 [ed. 1568]. 6 Sull’edificio della canonica in San Pietro in Vincoli, cfr. Ippoliti 1999, pp. 12-16; Echinger-Maurach 2009, pp. 74-78. 7 Sull’altare delle Catene e sul sepolcro di Nicola Cusano, cfr. EchingerMaurach 2009, pp. 11, 64-67; Tritz 2008, pp. 263-328. 8 Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp. 145-387. 9 Michelangelo Buonarroti, Progetto per il monumento funebre di Giulio II. Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 8026 verso (parte sinistra), 722 verso (parte destra); i versi di questi due fogli ricomposti non sono presenti in Corpus perché rinvenuti da Dominique Cordellier nel 1991; per l’attribuzione e la bibliografia, cfr. Joannides 2003, pp. 102-107; EchingerMaurach 2009, p. 13, nota 18. 10 Michelangelo Buonarroti, Progetto per il monumento funebre di Giulio II. New York, The Metropolitan Museum of Art, Rogers Fund, 1962, n. 62.93.I. 11 Echinger-Maurach 2009, pp. 13-18. 12 Ivi, pp. 18-22. 13 Ivi, p. 18; cfr. da ultimo Condivi, ed. Davis 2009, p. 24. 14 Echinger-Maurach 2009, pp. 3261. 15 Michelangelo Buonarroti, Progetto per il monumento funebre per Giulio II, 1513, punta di piombo, penna e inchiostro, acquerello, 587 × 409 mm. Berlino, Staatliche Museen, 1 gli anni dal 1534 al 1564 Kupferstichkabinett, KdZ 15305 recto. 16 Giacomo Rocchetti o Rocca (da Michelangelo Buonarroti), Progetto per il monumento funebre di Giulio II. Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, KdZ 15306; cfr. Corpus, vol. I, p. 63. 17 Michelangelo Buonarroti, Progetto per il monumento funebre di Giulio II. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 608 E recto. Per i disegni di Berlino e Firenze e sulle vicende legate al contratto del maggio 1513, cfr. Echinger-Maurach 2009, pp. 22-25. 18 Contratti, pp. 43-44, n. XIX (ante 6 mag. 1513), pp. 45-48, n. XX (6 mag. 1513), pp. 49-51, n. XXI (6 mag. 1513). 19 Ivi, p. 49, n. XXI (6 mag. 1513). 20 Ivi, p. 52, n. XXII (9 lug. 1513). 21 Echinger-Maurach 2009, pp. 26-32. 22 Michelangelo Buonarroti, Alzato del piano inferiore del monumento funebre di Giulio II con annotazioni e schizzo di un blocco di marmo. Londra, The British Museum, inv. 1859-5-14-824/1947-1-17-1 recto; il verso dello stesso foglio contiene disegni di blocchi per il monumento già scolpiti alla data del 1518, cfr. Wilde 1953, cat. 23, p. 43; Echinger-Maurach 2009, p. 26. 23 Echinger-Maurach 2009, pp. 29, 84. 24 La stesura di questo contratto si era resa necessaria per potere fissare il nuovo aspetto del monumento nel modo in cui si stava realizzando; così, pur continuando ad avere sul fronte due campate con tabernacoli, il progetto prevedeva ora che i fianchi avessero una larghezza sufficiente per un solo tabernacolo, di conseguenza il numero complessivo di statue poteva essere ridotto della metà, nonostante l’artista continuasse a ricevere la medesima esorbitante somma di 16.500 ducati. Va ricordato che, probabilmente dal giugno 1515, Michelangelo si trovò inoltre impegnato nell’incarico per la facciata di San Lorenzo a Firenze; cfr. Echinger-Maurach 2009, p. 31. 25 Per una disamina su questa specifica questione, cfr. Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp. 294-360, 439-447; Echinger-Maurach 2009, p. 26. 26 Contratti, pp. 73-74, n. XXVIII (4, 8, 10, 11 lug. 1516); Echinger-Maurach 2009, pp. 30-32. 27 Cfr. Echinger-Maurach 2009, p. 30. 28 Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp. 320-326. 29 Wilde 1954, p. 7, fig. 1; per una dettagliata analisi delle varie ricostruzioni del progetto del 1516, secondo le ipotesi dei numerosi studiosi che se ne sono occupati, cfr. Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp. 439-447, vol. II, figg. 43-55. 30 Contratti, p. 64, n. XXVI (ante 8 lug. 1516), p. 67, n. XVII (ante 8 lug. 1516). 31 Sul disegno cfr. Echinger-Maurach 2009, pp. 31-32. 32 Weinberger 1967, vol. I, pp. 193197, vol. II, fig. VIII; Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp. 445-447, vol. II, fig. 54. 33 Si confrontino a tale proposito le nicchie laterali molto più alte, correttamente ricostruite da Johannes Wilde, qui a fig. 7. 34 Echinger-Maurach 2009, pp. 32-43. 35 Contratti, p. 68, n. XXVII (ante 8 lug. 1516). 36 Echinger-Maurach 2009, pp. 3243; sulla casa in Macel de’ Corvi, cfr. il saggio di Clara Altavista in questo catalogo. 37 Echinger-Maurach 2009, pp. 45-56. 38 Ivi, p. 47. 39 Ivi, p. 57. 40 Ivi, pp. 57-61. 41 Contratti, pp. 199-203, n. LXXXV (29 apr. 1532), pp. 204207, n. LXXXVI (29 apr. 1532); Echinger-Maurach 2009, p. 64. 42 Echinger-Maurach 2009, p. 64. 43 Contratti, pp. 250-255, n. CVI (20 ago. 1542 - 10 gen. 1543), pp. 256258, n. CVII (21 ago. 1542). 44 Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp. 373-382; si veda, per contro, Hatfield 2002, p. 131. 45 Echinger-Maurach 2009, p. 88. 46 Bastiano da Sangallo, detto Aristotile, Alzato del monumento funebre di Giulio II in costruzione. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 1741 A recto; cfr. Echinger-Maurach 2009, pp. 64, 85, 141. 47 Cfr. Echinger-Maurach 2003, p. 338; Echinger-Maurach 2009, pp. 64, 141. 48 Echinger-Maurach 2003, pp. 336344. 49 Forcellino (Maria) 2002, pp. 4950; Echinger-Maurach 2009, pp. 100-101, 114-161, in part. p. 152. 50 Echinger-Maurach 2009, p. 101. 51 Nel contratto del 1516 era prevista un’altezza di 14 braccia, per l’esattezza 6 braccia per il piano inferiore e almeno 8 (se non 9 braccia e mezzo) per quello superiore, cfr. Echinger-Maurach 2009, p. 64. 52 Ivi, pp. 74-78. 53 Fontana 1838, vol. II, tav. IV, fig. 1. 54 Letarouilly 1840-1857, tav. 140. 55 Bartolozzi, Zandri 1999, pp. 221225; per altre planimetrie della chiesa, Ippoliti 1999, tavv. XIV, XXV. 56 Il recente rilievo del monumento è pubblicato in Papillo 2003, pp. 1927, in part. p. 19, fig. 1 e p. 21, fig. 3. 57 Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp. 386-387; tali misurazioni sono state confermate dal rilievo fotogrammetrico del monumento, Papillo 2003, p. 23. 58 Ciò farebbe pensare che anche il progetto del 1532-1533 escludesse la presenza di un rilievo nella nicchia del Mosè, cfr. Forcellino 2002, pp. 75, 98; Echinger-Maurach 2003, p. 342, nota 49. 59 Echinger-Maurach 1991, pp. 384385; Satzinger 2001, pp. 177-222; Satzinger 2007, pp. 239-254. 60 Per le misure dello zoccolo originale, Echinger-Maurach 1991, vol. I, p. 387; Echinger-Maurach 2009, p. 208. 61 Edmé Bouchardon (1698-1762), Il Mosè di Michelangelo, circa 1725. Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 23920; cfr. Echinger-Maurach 2009, p. 108. 113 MICHELANGELO E LE MURA DI ROMA Guido Rebecchini ni romani 200 milia scudi et che baroni contribuiscano per un’altra parte, alla qual cosa elli non vogliono consentire, et però hyeri detti baroni et cittadini furono dinanzi da Sua Santità in grandissimo contrasto de non volere pagare se non per la rata delle gente che s’haveranno a fare et i baroni addimandano di essere pagati loro, se debbono defendere et mettere la vita loro per altri, di modo che ve si vede confusione et Iddio voglia che un giorno tutti non habbino a fugire di qua. […] Sua Santità ha fatto mandar bandi che si debbiano fare processioni et digiuni tre giorni, cioè ’l mercordì, ’l venerdì et ’l sabbato, et le devote processione et una bolla per la qual Sua Santità concede plenaria indulgentia da colpa et da pena, confessi et contriti, come Vostra Eccellentia per le copie d’esse che qua alligate mando, potrà vedere. Le processioni et digiuni son buoni, ma altro dippuoi vi vuole appresso con l’arme.5 Una delle prime iniziative a scala urbana intraprese da Paolo III fu la ridefinizione dei confini della città, che venne perseguita avviando, nell’estate del 1537, un radicale rifacimento della cinta muraria aureliana, gravemente danneggiata e del tutto inefficiente dal punto di vista difensivo1. L’impresa intendeva in primo luogo dotare la città di una efficace protezione in caso di eventuali attacchi esterni, ma possedeva anche un forte valore simbolico. Da una parte, infatti, le fortificazioni costituivano uno strumento di costruzione dell’autorità pontificia e un monito contro ogni eventuale ribellione interna – una prospettiva sempre temibile nel quadro dei difficili rapporti tra potere papale e aristocrazia romana – e, dall’altra, contribuivano in maniera decisiva alla ridefinizione dell’identità urbana, gravemente destabilizzata dal Sacco del 1527, dall’alluvione del 1530 e dalle crisi alimentari e igieniche che ne derivarono2. I margini della città, infatti, come ha notato Kevin Lynch, intesi come soglia o confine giuridico, sociale ed economico, costituiscono uno spazio ambiguo e liminare tra la civiltà urbana e l’universo rurale, tendenzialmente anarchico e potenzialmente pericoloso. La loro demarcazione mediante una rinnovata cinta muraria, quindi, mirava non solo a dare alla città una solida linea difensiva, ma anche a riaffermare e consolidare l’identità cittadina3. L’impresa, che si annunciava colossale, fu preparata da Paolo III enfatizzando le voci di una crescente aggressività dell’esercito turco, un incubo ricorrente nell’immaginario romano degli anni successivi al Sacco, e accentuando l’atmosfera di allarme mediante l’organizzazione di processioni e digiuni per fronteggiare tali minacce, vere o presunte che fossero. Contemporaneamen114 te, il papa avviò una capillare raccolta di fondi imponendo tasse speciali, dapprima sulle città dello Stato della Chiesa e sui membri della comunità ebraica in esse residenti e, successivamente, presso gli ufficiali della curia, gli esponenti dell’aristocrazia romana e il popolo. Il 12 giugno 1537, due oratori bolognesi, inviati a Roma per cercare di limitare la portata di queste gravose imposizioni, confessarono di essersi sforzati invano: tanto maggiormente sopragiungendo ogni giorno n[u]ove del Turco via più dispiacevoli, et piene di spavento, di maniera che si fanno tutto il giorno congregationi de cardinali sopra queste cose del Turco, né si attende per hora ad altro e Nostro Signore ha detto voler fare un buon numero di fanti per mettere alli porti et alla guardia di Roma et per tal effetto ha fatto intendere alli Romani che vuole concorrino a questa spesa.4 Di queste impopolari iniziative scrisse anche Fabrizio Pellegrini, agente diplomatico del duca di Mantova, il quale riferì la volontà del papa di voler raccogliere nella sola Roma oltre 250.000 scudi, una cifra impressionante che si spiegava con l’intenzione di assoldare truppe sia da inviare a combattere i Turchi sul fronte balcanico, sia da dislocare a difesa del Regno. Da questo punto di vista il quadro offerto da Pellegrini è del massimo interesse, poiché offre una prospettiva sulle reazioni del popolo romano alle iniziative papali: Oltra delle due mesate che Nostro Signore toglie alli offitiali della corte, che, fatto ’l conto, andaranno a XXV milia scudi ’l mese, Sua Santità ancora addimanda al popolo et a’ cittadi- Nella corrispondenza di Pellegrini il tema delle processioni si ripresenta dopo dieci giorni quando, all’annuncio dell’intenzione del papa di andare scalzi in corteo, egli confessò ironicamente che avrebbe indossato delle scarpe sotto le calze, aggiungendo con realismo che “altro ce vole appresso alle processione a volersi difendere dal Turco”6. In questo quadro di forti tensioni maturò la decisione di avviare il rifacimento delle mura, formalizzata l’11 agosto 1537 con una lettera del cardinale camerlengo al Senato Romano che esordiva minacciosamente rievocando “quanto ostinatamente perseveri il tiranno de’ Turchi in far preparamenti immensi per assaltar di hora in hora la Italia […] non senza principal disegno d’invadere questo santo luoco et capo della cristianità, la città di Roma”7. In tale situazione di allarme, la portata strategica e simbolica dell’iniziativa papale assunse un rilievo tale da rendere del tutto ininfluente la disperazione degli abitanti per i danni arrecati alle loro proprietà. Il 23 luglio 1537 il medesimo Pellegrini aveva annunciato che “dalla Porta di San Pavolo già si incomminciano a fortificare le mura della città, a far fosso di fuori et a reparare le mura d’intorno”, rilevandone con preoccupazione le conseguenze: Bandi sono andati de ordine di Sua Santità che vigne, orti et giardini fuori et intorno alle mura d’essa città si debbiano alargare discosto de ditte mura XVII canne de misura et VII canne di drento, che ne viene un danno inestimabile, di modo che ognuno grida, si lamenta et duole et a molti converrà forse d’abandonare Roma et andare a vivere altrove, s’el potrà.8 A questo proposito, una serie di lettere scritte a Ercole Gonzaga dal suo agente a Roma Nino Sernini offre importanti precisazioni. A differenza di Pellegrini, che riferiva perlopiù voci raccolte gli anni dal 1534 al 1564 nelle piazze o per le vie, il punto di vista di Sernini conduce a una posizione assai prossima alla “cabina di regia” delle imprese edilizie di Paolo III, grazie a una rete di contatti evidentemente più influente e informata. In una lettera del 29 luglio 1537, ad esempio, Sernini mostrò di conoscere direttamente il progetto e i protagonisti coinvolti. Forte di un solido appoggio farnesiano, l’architetto e ingegnere Pierfrancesco da Viterbo appare nelle lettere dell’agente gonzaghesco come colui al quale era stato inizialmente affidato il piano di rifacimento delle mura, un incarico che venne però interrotto dal sopraggiungere di una fatale malattia in conseguenza della quale l’artefice si spense l’1 agosto 15379. In concomitanza con quest’evento il papa era stato indotto ad affidare la responsabilità dei lavori ad “Antonio da Sangallo, Michelangelo e il Melleghino”10. I tre mostrarono però rapidamente di non andare d’accordo, per cui poco dopo, secondo un’altra lettera di Sernini, “del fortificare Roma Sua Santità n’ha dato il carico a Michelangelo”11. Quest’informazione è confermata da un’ironica missiva del vescovo di Pavia, Giovan Girolamo de’ Rossi, nella quale si legge: Roma si fortifica non nel modo che dissegnò Pier Francesco da Viterbo, che morì anzi a Cesis dui dì, ma secondo el dissegno di Michele Angelo et fassi una fraccassata nelle vigne tra le fortificatione et soldati che vendemiano in agreste, che li vini grechi andarano alto. Fano una strada intorno dentro e fora, x cane large […] et lassano fori Porta San Paulo et monte Testazzo et Turchi a vostra posta. Trastevere non pensano deffenderlo altrimenti.12 Queste notizie ci riconducono a una primissima fase dei lavori, durante la quale, dopo la morte di Pierfrancesco da Viterbo, Michelangelo si impose su Antonio da Sangallo e Jacopo Meleghino. Le lettere consentono anche di anticipare di qualche anno il dissidio di Buonarroti con Sangallo sulla questione delle mura, il cui avvio, secondo la testimonianza vasariana, è stato sempre collocato nei primi anni quaranta del Cinquecento13. Negli ultimi mesi del 1537, in effetti, a conferma di una sua iniziale emarginazione dalla scena cittadina, Sangallo sembrò concentrare le proprie attività fuori da Roma, assumendo l’incarico dei numerosi cantieri aperti nello Stato farnesiano e soprattutto dedicandosi all’edificazione della città di Castro, capitale del neo-istituito ducato, creato il 31 ottobre 153714. Questo primo incarico a Michelangelo si esaurì tuttavia rapidamente, forse per l’inasprirsi dei rapporti con la potente setta sangallesca e forse perché inconciliabile con gli altri lavori di Buonarroti, allora impegnato nel completamento del Giudizio e, probabilmente, già coinvolto nella risistemazione del colle capitolino15. Al termine del gennaio 1538, come conseguenza del mancato 115 coinvolgimento di Michelangelo, Antonio da Sangallo il Giovane, che poteva peraltro vantare una vasta esperienza nella progettazione di fortificazioni, ricevette l’incarico ufficiale di sovrintendente alla costruzione delle mura di Roma16. I lavori avviati in questa prima fase, ideati da Pierfrancesco da Viterbo, forse ridefiniti da Michelangelo, e poi fatti propri da Sangallo, riguardarono, come è noto, solo una piccola porzione meridionale delle fortificazioni romane e condussero all’erezione, tra l’estate 1537 e il settembre 1539, del bastione detto della Colonnella sull’Aventino e di quello detto Antoniniano presso la porta Ardeatina, secondo un progetto difensivo che, come testimoniano le citate lettere di Pellegrini e del vescovo di Pavia, lasciava fuori la chiesa di San Paolo allora collocata in una zona ancora scarsamente abitata17. Una serie di missive inviate al cardinale Alessandro Farnese e allo stesso papa testimonia il difficoltoso procedere dei lavori nei mesi successivi. Alla fine di aprile, Stefano Tarugi, corrispondente del pontefice, lo informava che ai bastioni “si lavora molto adagio; dicano non haver denari con dir [che] le gabelle non fruttano per l’absentia della corte”18. Più ottimisti apparivano invece il governatore di Roma Benedetto Conversini e il cardinale legato Gian Pietro Carafa, futuro Paolo IV, incaricati di controllare l’avanzamento delle fortificazioni durante l’assenza di Paolo III, allora in viaggio per incontrare Carlo V e Francesco I a Nizza e tentare di ricomporne i dissidi. Il porporato napoletano Gian Pietro Carafa scrisse al cardinale Farnese di essere stato a vedere il cantiere e di aver constato che “sono già cominciati a mettere li cordoni, quali hanno molta gratia, et ornano sì che fanno una bellissima vista”19. Pochi giorni dopo, il governatore avvisò il cardinale Farnese di aver avviato la realizzazione delle “arme per ponere al cantone della Colonnella, che serà molto bella et superba, come ricercha il locho; et da piè si metterà quella del Popolo Romano et l’altra ho pensato debba essere la [arma] del illustrissimo signor ducha [Pierluigi Farnese] come capitano et gonfaloniere di Santa Chiesa, se già Sua Santità non disponesse altrimenti”20. A fronte di questi segnali positivi e all’anticipazione del forte impatto simbolico attribuito agli stemmi che avrebbero sigillato il nesso fra la famiglia del pontefice e la città, sul finire del mese le notizie si fecero meno promettenti e il governatore, alle strette di fronte alle dirette sollecitazioni del papa, riferì che tre ordini di problemi impedivano uno spedito avanzamento dei lavori: le difficoltà finanziarie, quelle legate alla mano d’opera (infatti in quel periodo dell’anno i contadini tornavano ai loro campi per il raccolto) e infine i problemi di natura tecnica. “Il terzo impedimento – scrisse – è che nel cavare i fondamenti s’è truovato una profonda caverna la quale ha ritardato et forsi ritarderà un pezzo il lavorare, sinché se riempia e se truovi altro modo che la fabrica non sprofondi, talché per tutti 116 questi impedimenti sarà difficile possere fabricare molto per questa estate”21. Il lievitare delle spese, quindi, e l’indefinito protrarsi dei tempi necessari a realizzare quest’impresa, insieme alla pressione esercitata dal fallimento della spedizione imperiale dell’ottobre 1541 contro la flotta comandata da Barbarossa ad Algeri, indussero il papa ad abbandonare il progetto generale e a concentrare l’azione difensiva solo intorno all’area del Borgo vaticano. Di questa svolta impressa ai lavori ci informa ancora una lettera di Sernini del novembre 1542, in cui si fa riferimento ai progetti papali di fortificare il Borgo, cingendo la basilica di San Pietro entro una cittadella dominata da Castel Sant’Angelo, secondo una strategia non dissimile da quella già messa in atto a Firenze con la Fortezza da Basso22. Qualche mese più tardi, il primo febbraio 1543, il medesimo agente registrò la presenza a Roma del capitano Alessandro Vitelli, testimoniandone il forte disappunto, motivato da ragioni logistiche e militari, per l’intenzione del papa di abbandonare le fortificazioni avviate intorno a porta San Paolo a esclusivo favore della cittadella vaticana. Secondo Sernini, la medesima opinione di Vitelli fu espressa dall’ingegnere militare del duca d’Urbino, cioè Francesco de’ Marchi, venendo tuttavia categoricamente rifiutata da Paolo III, più che mai deciso a perseguire i propri obiettivi. Scrive Sernini: Il signor Alessandro Vitelli è qui, ma non l’ho ancora veduto; ho inteso che insieme col signor Giovan Battista Savello et il capitano Alessandro da Terni vanno rivedendo il sito di Roma et del Borgo, il quale al signor Alessandro par f[u]or di proposito di fortificare, ma giudica esser più necessario et sicuro seguitare la fortificatione di Roma. Però non è d’opinione che si rimure con tanta spesa come s’è fatto sin qui, et li baluardi siono più raccolti, servendosi più che si po’ di la muraglia antica per mettersi in guardia et al sicuro senza tanta spesa et lunghezza di tempo et ne dà molte ragioni, mostrando in somma quanto poco rilevaria perdere Roma et salvare il Borgo, nel quale non si potriano mai ridurre le persone et robbe che sono in Roma, et così è di parere l’ingegnere del signor duca d’Urbino, ch’è stato qui, a cui Sua Santità ordinò che vedesse il tutto. Ma non piacque a Sua Beatitudine, la quale ho inteso c’ha risposto al signor Alessandro che in questo non vole il suo consiglio, ma che considere [sic] bene il sito del Borgo, et vol che si fortifichi; dicono che sarà spesa di CC milia scudi.23 Questo episodio è chiaramente da connettere con la rievocazione di tali discussioni contenuta nel Trattato d’architettura militare di Francesco de’ Marchi24 (che può quindi ora trovare una più precisa collocazione cronologica), così come in una re- lazione di Guglielmo della Porta a Bartolomeo Ammannati25. Frutto delle scelte scaturite da quelle concitate discussioni sono i bastioni realizzati da Antonio da Sangallo il Giovane e le imponenti opere murarie ancora oggi visibili intorno al Borgo, che solo l’autorità papale, sfruttando l’urgenza del Giubileo del 2000, ha avuto la forza di alterare, non già per difendere la città dai congetturali assalti delle galere del Barbarossa, ma da quelli ben più concreti dei torpedoni dei fedeli. 1 Sulle le fortificazioni di Roma d’età farnesiana, cfr. Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. III , pp. 1433-1437 [ed. 1568]; Guglielmotti 1880; Ackerman 1968, pp. 250-251; Lanciani 1988-2002, vol. III, pp. 103-113; Occhipinti 2007, pp. 147-184, in part. p. 165, nota 39. 2 Più in generale, per una riflessione sul rapporto tra mura e città, cfr. De Seta, Le Goff 1989; per un quadro della situazione a Roma negli anni trenta, cfr. Rebecchini 2008. 3 Lynch 2006, pp. 78-82. 4 Archivio di Stato di Bologna, Senato, Lettere di principi e prelati, Serie VI, vol. 6, c. 645v, Giorgio Biagioli e Giovan Battista Bianchini al Senato, 13 giugno 1537; questi riferirono di aver udito che “Il Turco […] pensava passare in persona in Italia […] et che veniva con grande animo contra Christiani, havendo intese le loro poche provisioni”. 5 Archivio di Stato di Mantova (in seguito ASMn), Archivio Gonzaga, busta 887, c. 60r, Fabrizio Pellegrini a Federico Gonzaga da Roma, 20 giugno 1537. Ma si veda anche ASMn, Archivio Gonzaga, busta 887, c. 73r, Fabrizio Pellegrini a Federico Gonzaga da Roma: “Le brigate stanno malcontente e impaurite con una meza desperatione, massimamente per le estorsione delle angarie et pagamenti gli sonno imposti ogni giorno, di sorte che molti sonno forzati ’l partirse di Roma con le loro famigliate per non havergli ’l modo di possere vivere, è necessario che Iddio ce aiuti, se gli piacerà”. 6 ASMn, Archivio Gonzaga, busta 887, c. 64r, Fabrizio Pellegrini a Federico Gonzaga da Roma, 30 giugno 1537. Per tenere alta la tensione, il papa insistette nel diffondere timore per la sicurezza di Roma e sulla necessità di difendere la città, cfr. ASMn, Archivio Gonzaga, busta 887, c. 415, Girolamo Gonzaga a Federico Gonzaga, 23 settembre 1537: “questa mattina si è fatto oratione al Signore Iddio acciò che la lega fatta tra questi prìncipi contra el 199; Ragionieri 2007, pp. 136-144. ASMn, Archivio Gonzaga, busta 1906, c. 423, Giovan Girolamo de Rossi a Ercole Gonzaga, 13 agosto 1537. 13 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I , p. 82 [ed. 1568]; vol. III, p. 1433. L’omissione di questa prima fase dei lavori nella ricostruzione del conflitto tra Michelangelo e Sangallo proposta da Vasari nell’edizione giuntina delle Vite, risolta a tutto vantaggio di Buonarroti con il racconto delle celebri critiche pubbliche effettuate da quest’ultimo al progetto sangallesco, si spiega, a mio giudizio, con la volontà di nascondere un probabile insuccesso iniziale di Michelangelo, o comunque un abbandono che poteva apparire come un fallimento. 14 Giess 1994. 15 Michelangelo sarà nuovamente interpellato sulla fortificazione di Borgo intorno al 1545, sull’argomento si veda il seguente saggio di Oronzo Brunetti; sugli interventi michelangioleschi in Campidiglio, cfr. Bedon 2008 e, dello stesso autore, il saggio nel presente catalogo. 16 Adams, Pepper 1994; sull’incarico ad Antonio da Sangallo il Giovane, cfr. F.P. Fiore, scheda U 1019 A recto, in Frommel, Adams 1994, p. 185. 17 F.P. Fiore, scheda U 1019 A recto, in Frommel, Adams 1994, p. 184. 18 Archivio di Stato di Parma, Carteggio farnesiano, Estero, b. 421, cc. non numerate, Stefano Tarugi a Paolo III (25 aprile 1538). 19 Ivi, cc. non numerate, Gian Pietro Carafa ad Alessandro Farnese (27 maggio 1538). 20 Ivi, cc. non numerate, governatore di Roma ad Alessandro Farnese (5 giugno 1538). 21 Ivi, cc. non numerate, governatore di Roma ad Alessandro Farnese (20 giugno 1538). 22 Hale 1968; ASMn, Archivio Gonzaga, busta 1912, c. 301r, Nino Sernini a Ercole Gonzaga, 16 novembre 1542: “Dipoi Sua Beatitudine [in concistoro] gli anni dal 1534 al 1564 Turco sequa et sii giovevole a’ Christiani e Nostro Signore ha voluto che si faccia messa solenne e mostri el Volto Santo, e Sua Santità è stata presente all’uno e l’altro, et ha puoi data l’indulgenzia che Vostra Eccellentia potrà vedere nel bando”. 7 Lanciani 1990, p. 103. 8 ASMn, Archivio Gonzaga, busta 887, c. 73r, Fabrizio Pellegrini a Federico Gonzaga da Roma, 23 luglio 1537. 9 ASMn, Archivio Gonzaga, busta 1906, c. 240v, Nino Sernini a Ercole Gonzaga, 2 agosto 1537: “Messer Pierfrancesco da Viterbo morì heri con gran dispiacer della corte”. 10 ASMn, Archivio Gonzaga, busta 1906, c. 234v, Nino Sernini a Ercole Gonzaga, 29 luglio 1537: “Messer Pierfrancesco da Viterbo ch’era quello che aveva la cura di fortificare Roma è amalato gravemente, et pur hoggi ho inteso che non v’è più speranza della sua salute, della sua morte rincresce generalmente per essere huomo pratico et intelligente et molto al proposito in questi bisogni. Intendo che alle muraglie vi vanno mò maestro Antonio da Sangallo, Michelangelo e il Melleghino, li quali poi non pare che siano molto d’acordo et si credeva molto a messer Pierfrancesco detto, il quale il signor Pierluigi ha [sic] andato in casa sua in questa sua infermità et gli s’ha havuta grandissima cura”. 11 ASMn, Archivio Gonzaga, busta 1906, c. 240v, Nino Sernini a Ercole Gonzaga, 2 agosto 1537: “Messer Pierfrancesco da Viterbo morì heri con gran dispiacer della corte, del fortificare Roma Sua Santità n’ha dato il carico a Michelangelo et perché io non ho tempo non scriverò quello che fin qui s’è cominciato, ma per la prima occasione le ne scriverò. Testaccio e fino alla porta di Sampavolo resta fori, come più apieno scriverò”. Sulle precedenti esperienze di Michelangelo come architetto militare, cfr. C. Elam, scheda 18, in Elam 2006, pp. 196- 12 disse che si meravigliava che gli suoi antecessori non havessero pensato alla fortificatione del borgo per mettere in sicuro San Pietro, in la cui chiesa erano li sanctissimi corpi di san Pietro et san Pavolo et di tant’altri santi, insieme con tante altre divotissime reliquie, et il tutto stava senza alcuna guardia et sotto posto ad ogni periculo, et però haveva deliberato di fortificarlo et a questo effetto voleva acrescere la mola quattro iulii per rubbio di grano che si macenasse. Io non ho ancora inteso il modo che s’ha da tenere per questa fortificatione, et quanto s’ha da crescere il borgo. M’è ben stato detto che s’ha da unire una cittadella col castello, che n’ha bisogno per essere luogo raccolto et stretto et mal atto in ricevere le provisioni necessarie per tal fortezza di tant’importanza”. 23 ASMn, Archivio Gonzaga, busta 1913, c. n.n., Nino Sernini a Ercole Gonzaga, 1 febbraio 1543. 24 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Francesco de’ Marchi, Trattato d’architettura militare (metà XVI secolo), ms. Magl. II.I.278, cap. 34, cc. n.n., “la dupplicatione alli fianchi delli belouardi fu inventione di maestro Gio. [sic] da San Gallo, huomo famosissimo in tempo di papa Paolo Terzo quando egli diede principio di fortificar Roma […] la qual figura mi ricordo di sentirla disputare innanzi a papa Pavolo Terzo et dal signor Alessandro Vitello, huomo molto famoso nell’arte della guerra, e maestro Giovanni [sic] da San Gallo, e il capitan Jacomo Castriotto, e il capitan Francesco da Montemellino, e maestro Leonardo da Uden, e maestro Mangone, e il Medechino, e Galasso da Carpi, con molti altri architetti e capitani dove io fui domandato et fummi mostrato un dissegno”. 25 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. III , p. 1434; per la vicenda relativa a questi anni e per la trascrizione della citata lettera di Guglielmo della Porta, si rimanda al seguente saggio di Oronzo Brunetti in questo catalogo. 117 1. Roma, Borgo vaticano, bastione del Belvedere MICHELANGELO E LE FORTIFICAZIONI DI BORGO Oronzo Brunetti Un effettivo coinvolgimento di Michelangelo nelle opere di difesa per Roma è datato al febbraio 1545 quando, regnando Paolo III Farnese (1534-1549), un consulto si rese necessario per superare la situazione di crisi sorta fra il capitano Giovan Francesco da Montemellino e l’architetto Antonio da Sangallo il Giovane, incaricato della progettazione del sistema difensivo1. Prima della comparsa della figura professionale dell’ingegnere militare, con specifico ruolo di tecnico appositamente formato, per quasi tutto il XVI secolo e senza distinzioni geografiche, architetti e militari erano congiuntamente chiamati a collaborare nella progettazione delle difese urbane e territoriali, con il risultato di causare frequenti attriti dovuti ai non ben delineati confini fra le rispettive competenze. Incarichi di architettura militare venivano affidati agli artisti sin dai tempi di Arnolfo di Cambio e basta ricordare le carriere di Filippo Brunelleschi, Francesco di Giorgio, Leonardo da Vinci, Donato Bramante, Baldassarre Peruzzi2. Papa Paolo III dovette individuare in Michelangelo quell’esperto in grado di imporsi con la propria autorevolezza dal momento che, come noto, si era a lungo confrontato con temi di architettura militare. Già dal luglio 1516, quando Michelangelo era a Carrara impegnato a cavar marmi, una lettera di Argentina Malaspina Soderini, spedita da Roma al fratello Lorenzo, marchese di Fosdinovo, consigliava di rivolgersi all’artista quale esperto militare: La causa di questa è che maestro Michelangelo scultore è molto amato dal mag[nifi]co mio consorte, et è persona tanto da bene, costumato e gentile et tale che non crediamo che sia hogi in Europa homo simile a lui, è venuto a Carrara per lavorare certa quantità di marmi. Desideramo assai che la Si- 118 gnoria Vostra el facci visitare, et per parte nostra li offerite tucto quel potite a beneficio suo; et havendo bisogno, lo recommandiate al marchese Albericho. Lo farrete con ogni efficacia; et vedete farlo venire qualche volta costì a starsi con voi un dì o dui; ché è persona che intende di architettura et di artigl[i]arie et di saper monire una terra, che harete gran piacere della sua conversatione.3 Quindi, nel settembre 1527, un breve di Clemente VII Medici (1523-1534) nominava Michelangelo “revisor arcium et fortilitiorum in dicta civitate et territorio [di Bologna]”4. Seguì poi la partecipazione, anche politica, alle difese di Firenze dopo la cacciata dei Medici del 17 maggio 1527; dapprima fu incaricato di revisionare i lavori già avviati dai Medici nel 1526 intorno all’area di San Miniato; dal 10 gennaio 1529 gli fu poi assegnata la responsabilità delle opere difensive cittadine in qualità di commissario dei “Nove della Milizia” e, il successivo 6 aprile, persino quella di “generale governatore et procuratore” dell’intero sistema di fortificazioni5. L’incalzare degli avvenimenti politici occorsi a Firenze aveva reso necessario mettere in sicurezza l’intera cerchia muraria, costringendo Michelangelo a realizzare le difese più urgenti in opera provvisoria – ovvero rinforzi in terra battuta mista a paglia ricoperta di mattoni – che furono presto distrutte al rientro dei Medici; il ricordo di tali strutture è documentato in alcuni dipinti e soprattutto nei celeberrimi fogli conservati presso Casa Buonarroti6. Poco dopo, nel giugno del 1529, Michelangelo fu inviato a ispezionare le fortificazioni di Pisa e Livorno e durante la stessa estate venne inviato a Ferrara per studiare il più avanzato sistema difensivo urbano dell’epoca, da poco approntato dal duca Alfonso d’Este7. Una volta trasferitosi a Roma, sembrò normale che le sue conoscenze di architettura militare fossero tenute in gran conto. È infatti Giorgio Vasari a ricordare che Michelangelo “fu adoperato, al tempo di Paulo Quarto, nelle fortificationi di Roma in più luoghi”8. In occasione del Sacco del 1527, le fortificazioni di Roma avevano messo in rilievo la loro inadeguatezza ma, per mancanza di fondi, il pontefice Clemente VII aveva dovuto accantonare ogni progetto di miglioria del sistema difensivo urbano, ancora affidato alle mura d’età romana, riadattate in epoca medievale solo in alcuni particolari punti strategici. L’idea di cingere l’intero perimetro della città ricorrendo a un moderno sistema bastionato era stata poi accarezzata da Paolo III durante i suoi primi anni di pontificato quando, in seguito alla conquista ottomana di Tunisi nel 1534, si era temuta un’invasione della città da parte di quelle armate9. L’ambiziosa impresa di intervenire sul circuito delle mura Aureliane, esteso per diciotto chilometri, prese consistenza nel 1537. In questo scenario si colloca il primo documentato scontro fra Michelangelo e Antonio da Sangallo il Giovane sull’ammodernamento della cinta difensiva, entrambi nominati da Paolo III, insieme a Jacopo Meleghino, come responsabili di questa impresa. Il piano si arenò presto di fronte alla fiera opposizione di chi avrebbe dovuto subire gli espropri dei terreni necessari per raccordare la struttura urbana al nuovo assetto difensivo, con gli ingenti costi e i problemi che ne sarebbero derivati. Venne pertanto messo da parte il progetto di massima di Sangallo che fu impegnato altrove nelle diverse committenze farnesiane e pontificie anche in qualità di esperto in fortificazioni (si vedano per esempio le difese di Castro e Nepi nel 1537 e di Perugia nel 1540). Nel 1538, dopo il mancato coinvolgimento di Michelangelo in questa vicenda, Sangallo poté ottenere a pieno titolo l’incarico di sovrintendente alla costruzione delle mura di Roma, tuttavia con un progetto assai ridotto i cui interventi si concentravano solo sul colle dell’Aventino e lungo la via Ardeatina, luoghi ritenuti meno resistenti di fronte al ventilato attacco10. La questione intorno alla difesa di Roma si presentò nuovamente negli anni quaranta del secolo quando Paolo III, sempre più consapevole dell’impossibilità di intervenire sull’intero circuito difensivo urbano, ritenne necessario concentrarsi almeno sulla difesa del colle Vaticano, trasformandolo in una sorta di cittadella. Nell’area più ristretta, comprendente la porzione urbana di Borgo, tra le pendici del colle Vaticano e Castel Sant’Angelo, insisteva il centro rappresentativo del potere religioso e temporale della Chiesa, area già interessata dagli interventi difensivi di papa Niccolò V Parentucelli (1447-1455)11. Le tappe che precedono il febbraio 1545, coincidente con il nuovo coinvolgimento di Michelangelo in queste vicende, possono essere facilmente delineate. Nel 1542 il papa si trovò nel bisogno di dover chiamare a confronto una serie di proposte suggerite da alcuni comandanti gli anni dal 1534 al 1564 militari di provata esperienza in campo fortificatorio. Coordinati dal capitano Alessandro Vitelli erano dunque presenti: Francesco de’ Marchi, Giovan Francesco da Montemellino, Giacomo Castriotto, Jacopo Meleghino, Giovanni Mangone, Galasso Alghisi. Alla fine della discussione fu deciso di affidare l’incarico ad Antonio da Sangallo il Giovane12. Il 18 aprile dell’anno successivo, i lavori presero avvio alle spalle della chiesa di Santo Spirito, con la posa della prima pietra del baluardo omonimo13; nel 1545 fu avviata la costruzione del nuovo tratto di mura che permetteva di includere il cortile del Belvedere all’interno dell’antica cittadella vaticana (fig. 1). Intorno al tracciato da far seguire a questa linea difensiva si scontrarono gli inconciliabili pareri di Sangallo e di Montemellino: il primo era propenso a estenderlo alle colline circostanti, il secondo riteneva sufficiente contenerlo nei limiti della vallata. Paolo Marconi individua nel quarto foglio del Codice Barberiniano 4391 della Biblioteca Apostolica Vaticana (fig. 2) uno studio planimetrico che sintetizza le due posizioni e attribuisce il disegno allo stesso Sangallo sulla base dei confronti con i fogli autografi conservati agli Uffizi14. È probabile che intorno a questo foglio, che riassumeva i pareri dell’architetto e del militare, si discusse durante il nuovo incontro del 25 febbraio 1545 voluto da Paolo III, a cui partecipò finalmente Michelangelo. Giorgio Vasari e Guglielmo Della Porta (che al contrario di Vasari era presente all’incontro) riportano due resoconti assai discordanti. Scrivendo a Bartolomeo Ammannati, Della Porta annunciò il progetto di pubblicare un’opera che gli offrisse anche l’occasione per esporre i momenti di discussione sorti intorno alla fortificazione di Borgo: fra molti grandi huomini congregati insieme sul Monte di Santo Spirito per ordine et commissione di Paolo terzo, da una parte era l’Ec.mo Signor Pierluigi, Duca di Parma et di 119 2. Anonimo, Pareri per la cinta di Borgo secondo Antonio da Sangallo il Giovane e Giovan Francescoda Montemellino, circa 1546. Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barberiniano Latino 4391, c. 4 (l’immagine è orientata rispetto ai punti cardinali) Piacenza, il Signor Gio. Antonio Garavina, col Signor Giuliano Cesarini, i Conti di Pitigliano et dell’Anguillara et il Signor Ascanio de la Corgna, dell’altra il Duca Ottavio, suo figlio, col conte Santafiore, col Signor Vicino Orsino, col Signor Torquato Conti, li Capitani Alessandro e Lucantonio da Terni con molti altri homini Romani. Vi fù per terzo il Signor Alessandro Vitelli et seco era maestro Anton da San Gallo con alcuni dissegni del detto Borgo. V’intervenne à la fine Michel Agnolo et il Peloro ancora col Capitano Gio. Francesco da Monte Melino, et dopo molte proposte et risposte, essendo nata fra gl’altri quasi un occasion di duello, Michel Agnolo solo standovi queto, domandato dal Signor Alessandro del suo parere, disse, che quando fusse stato tempo, l’harebbe detto; onde referendosi poi al Papa tutto il successo, domandando espressamente Sua Santità, quale fosse stata l’oppenione di Michelagnolo, gli rispose il Vitello che ei s’era stato queto per modo, ch’era lui parso una statua; ma Sua Beatitudine havendo per più opportuno il tacere del Buonarota che ‘l troppo contender de gl’altri, mandò subito il Cavalier Caro à fermare i rumori.15 Secondo Della Porta, nella riunione si erano confrontate quattro posizioni differenti: due, tra loro contrarie, relative ai due gruppi di uomini d’arme (significativamente la categoria più rappresentata), la terza di Vitelli e Sangallo (la cui collaborazione era nata nel 1534 intorno al progetto della Fortezza da Basso di Firenze) e infine la quarta di Michelangelo che aveva temporeggiato senza esprimersi in merito. Diversamente Vasari ricorda che l’occasione offrì lo spunto per l’ennesimo scontro fra Michelangelo e Sangallo, interrotto solo grazie all’intervento del papa; leggendo le parole dello storiografo emergerebbe che: 120 3. Anonimo, Fortificazione di Borgo al tempo dei lavori di Jacopo Castriotto, post 1548. Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barberiniano Latino 4391, c. 2 (l’immagine è orientata rispetto ai punti cardinali) Aveva Paulo dato principio a fortificare Borgo e condotto molti signori con Antonio da San Gallo a questa dieta, dove volse che intervenissi ancora Michelagnolo, come quelli che sapeva che le fortificazioni fatte intorno al monte di San Miniato a Fiorenza erano state ordinate da lui; e dopo molte dispute fu domandato del suo parere. Egli, che era d’oppinione contraria al San Gallo et a molti altri, lo disse liberamente: dove il San Gallo gli disse che era sua arte la scultura e pittura, non le fortificazioni. Rispose Michelagnolo che di quelle ne sapeva poco; ma che del fortificare, col pensiero che lungo tempo ci aveva avuto sopra, con la sperienzia di quel che aveva fatto, gli pareva sapere più che non aveva saputo né egli né tutti que’ di casa sua, mostrandogli in presenzia di tutti che ci aveva fatto molti errori: e moltiplicando di qua e di là le parole, il Papa ebbe a por silenzio; e non andò molto che e’ portò disegnata tutta la fortificazione di Borgo, che aperse gli occhi a tutto quello che s’è ordinato e fatto poi; e fu cagione che il portone di Santo Spirito, che era vicino al fine ordinato dal San Gallo, rimase imperfetto.16 È probabile che Michelangelo conoscesse le critiche che altri esperti militari muovevano alle realizzazioni di Sangallo ma, di certo, il tono stizzito riferito da Vasari derivava da rivalità professionale, dato che il parere di Michelangelo si poneva a metà strada fra i due contendenti gruppi di militari e suo scopo principale restava quello di togliere l’incarico a Sangallo17. Michelangelo stesso illustrò la sua opinione scrivendo una lettera al cardinale Tiberio Crispi, prefetto di Castel Sant’Angelo: Monsignor Castellano, circa il modello di che si disputò ieri, io non dissi interamente l’animo mio, dal quale io sono richiesto 4. Michelangelo Buonarroti, Frammenti di poesia, studio per una testa, schizzi per alabarde, piante di fortificazioni, 1534-1538 e 1546. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 14412 F recto da Vostra Signoria, perché mi pareva troppo offendere quelle persone a chi io porto grandissima afectione; et questo è il capitano Giovan Francesco [Montemellino], con il quale in qualche cosa non convengo seco; perché e’ bastioni cominciati mi pare che con la ragione et con la forza si possino difendere et seguitare, et, nol faccendo, dubito si facci molto peggio; perché in tanti pareri et modegli vari mi pare che habbino messo in gran confusione il Papa et in tal fastidio, che, non si risolvendo a cosa nessuna, potrebbe non seguitare a questo modo, né fare a quel altro, che sarebbe gran male [con] poco onore di Sua Santità. Però, come è detto, a me pare di seguitare, non dico particularmente quel che è cominciato, ma solo l’andamento del Monte, migliorando qualcosa, senza danno del fatto, col consiglio del capitano Giovan Francesco detto, per havere occasione di levare via il governo che vi è, se è come si dicie, et mettervi detto capitano Giovan Francesco, il quale ho per valente et dabbene in tutte le cose. Et quando questo si facci, io me gli offero per l’onore del Papa, poi che più volte sono richiesto, non come compagnio, ma come ragazo in tutte le cose.18 In buona sostanza, Michelangelo suggeriva di non interrompere i lavori, offrendo la propria collaborazione solo a condizione che Sangallo fosse allontanato. Questi tuttavia mantenne l’incarico figli anni dal 1534 al 1564 5. Michelangelo Buonarroti, Studio di figura a cavallo, schizzi per fortificazioni, 1534-1538 e 1546. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 14412 F verso no alla morte avvenuta il 29 settembre 1546, quando i lavori passarono sotto la direzione di Jacopo Meleghino, commissario generale della fabbrica del Palazzo Apostolico, coadiuvato da Michelangelo, solo apparentemente sottoposto a Meleghino. In attesa che sull’intera vicenda fosse espresso un parere definitivo da Alessandro Vitelli, il papa ordinava infatti di adeguarsi alle volontà dello scultore, seppure in contrasto con quanto già predisposto19. Secondo le ricordate parole di Vasari, Michelangelo avrebbe elaborato un disegno generale sulle fortificazioni di Borgo, anche se poi effettivamente concentrò la sua attenzione sul solo tratto corrispondente al lato orientale dei corridoi del Belvedere affacciato verso il Tevere, dove propose la costruzione di un ulteriore baluardo tra la torre di Niccolò V e il palazzo degli Spinelli; un bastione che avrebbe dovuto avere “dui fianchi, o dente, o baluardetto, o piattaforma, che avesse otto tiri, quattro per banda alto e basso”20. Appena un anno dopo, nel marzo 1548, quando l’incarico per le fortificazioni fu assunto dal noto capitano Jacopo Castriotto, il nome di Michelangelo scompare dalla vicenda; pertanto nei pochi mesi che lo scultore ebbe a disposizione, il bastione del Belvedere poté a malapena essere impostato (fig. 3)21. Tra marzo 1548 e novembre 1549, data quest’ultima coincidente sia con la morte di Paolo III sia con la sospensione dei lavori al bastione, deve essere avvenuta una ennesima dieta alla quale, è noto, parteciparono soprattutto uomini d’arme, essendone tra questi tuttavia escluso 121 6. Michelangelo Buonarroti, Frammenti di poesie, studio di figura, schizzi per fortificazioni, 1534-1549(?). Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vaticano Latino 3211, c. 93 recto 7. Michelangelo Buonarroti, Pianta di fortificazione a stella, frammenti di poesie, 1534-1549(?). Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vaticano Latino 3211, c. 84 verso gli29. Cercando di individuare le fonti di ispirazione per questi ultimi disegni di architettura militare di Michelangelo, Pietro Marani ha messo giustamente in luce la loro derivazione dai modelli quattrocenteschi; il sistema di difesa a pianta stellare rimanderebbe alle proposte di Antonio Filarete, di Leon Battista Alberti, di Francesco di Giorgio Martini e la rinuncia al sistema bastionato, secondo Marani, “deve probabilmente essere interpretata come una scelta deliberata e consapevole volta a sottolineare la sua [di Michelangelo] adesione simbolica e spirituale agli ideali dell’Umanesimo”30. Montemellino; la presenza del nutrito gruppo di militari costituito da Ottavio Farnese, Sforza di Santafiora, Alessandro Vitelli, Sforza Pallavicino, Giulio Orsini, Mario Savorgnano, Jacopo Castriotto conferma il momento di svolta decisivo nella storia dell’architettura militare: la necessità di ricorrere a figure specializzate che per esperienza diretta di comando conoscevano la guerra, i suoi problemi e le sue necessità22. L’interpretazione dei pochi documenti disponibili riguardo all’attribuzione del bastione del Belvedere ha portato gli storici a differenti conclusioni: nel 1880 Alberto Guglielmotti riconobbe per primo la mano michelangiolesca nello sperone fortificato che domina piazza del Risorgimento (fig. 1)23; questa paternità è stata poi ribadita da Armando Schiavo nel 195324 ; anche Franco Barbieri e Lionello Puppi, stilando il catalogo delle opere architettoniche di Michelangelo nella monografia curata da Paolo Portoghesi e Bruno Zevi nel 1964, individuano nel bastione del Belvedere i caratteri formali tipici dell’artista, tra cui il cordone con toro e cavetto prossimo a quello presente nella fascia sottostante il cornicione di palazzo Farnese25; diversamente, nel 1902, Enrico Rocchi aveva attribuito a Michelangelo solo il completamento del bastione che avrebbe impostato Sangallo; più condivisibile l’ipotesi sostenuta da James Ackerman nel 1961 – fatta propria anche da Bruno Contardi nella monografia stilata insieme a Giulio Carlo Argan nel 1990 – che ritiene la documentazione non sufficiente per attribuire a Michelangelo un intervento che resta “vigoroso e monumentale” e per questo assai distante dallo stile di Sangallo26; Paolo Marconi ha poi giustificato l’attribuzione a Michelangelo del bastione del Belvedere avanzata da Guglielmotti e da Rocchi imputando l’errore alle scarse fonti iconografiche a disposizione di questi ultimi27. Di contro agli straordinari disegni michelangioleschi per le fortifi- 122 cazioni fiorentine, ai bastioni di Borgo possono essere associati solo tre fogli che, insieme a frammenti poetici o altri studi di figure, presentano minime e rapide tracce di fortificazioni; il primo schizzo è contenuto nel foglio degli Uffizi 14412 F recto-verso (figg. 45; Corpus 379 recto-verso); gli altri due sono compresi nei fogli 93 recto (fig. 6; Corpus 353 recto) e 84 verso (fig. 7; Corpus 607 verso), entrambi facenti parte del Codice Vaticano Latino 3211 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Evidenziando la distanza concettuale tra i progetti per le fortificazione fiorentine e gli schizzi contenuti in questi tre fogli, Charles de Tolnay per primo ha sostenuto il loro rapporto con le difese del Belvedere. Questi disegni pongono tuttavia notevoli problemi interpretativi e possono essere avvicinati alla bastione del Belvedere più per la datazione interna di ciascun foglio, che per quanto vi è rappresentato, che resta assai difficile da localizzare nel contesto planimetrico della cittadella vaticana. Sul recto del foglio Uffizi 14412 F è presente uno studio per fortificazione (fig. 4; Corpus 379 recto); sul verso dello stesso (fig. 5; Corpus 379 verso) è disegnata una cinta muraria di tracciato circolare organizzata per salienti triangolari – quasi una ruota dentata – priva di quei bastioni che, nel pieno Cinquecento, erano ritenuti il sistema difensivo più idoneo anche se oggetto di continue sperimentazioni. Lo schizzo sul foglio 93 recto del Codice Vaticano Latino 3211 (fig. 6; Corpus 353 recto) richiama lontanamente il circuito a salienti presente nel disegno degli Uffizi e pertanto Tolnay lo ha considerato ascrivibile alla progettazione per le difese di Borgo28. A riguardo del foglio 84 verso dello stesso codice (fig. 7; Corpus 607 verso), lo studioso interpreta il minuscolo schizzo a matita per fortificazione a stella come una riconsiderazione dei sistemi difensivi già proposti per Firenze, avanzando l’ipotesi che Michelangelo stesse valutando per Roma analoghe planimetrie di fortezze ideate da Giuliano da Sangallo nei suoi fo- La ricordata crisi nei rapporti fra architetti e militari, che le vicende di Borgo sintetizzano e ben mettono in campo, permettono di ribadire un aspetto fondamentale legato a questi anni. Così come erano venute definendosi nel corso del Cinquecento, le necessità della guerra richiedevano sempre figure di esperti militari con alta preparazione e conseguentemente architetture difensive concepite da chi aveva pratica dei campi di battaglia. Artisti universali come Francesco di Giorgio, Leonardo, Michelangelo, ciascuno in grado di dipingere, scolpire, architettare, ideare macchine da cantiere e da guerra, secondo una creatività fondata sulla riflessione personale, non riuscivano più a rispondere alle esigenze e alla complessità della guerra moderna. Con l’esperienza romana, Michelangelo si trovò coinvolto nella fase cruciale di un generale ripensamento dei modi di praticare l’architettura militare. Un momento di svolta che si concluse a vantaggio di una progettazione condotta necessariamente da équipes presiedute da figure di esperti sempre più specializzate, formatesi in ambito militare, dove non era più possibile lasciare spazio all’ideazione solitaria. 1 Va ricordato che Antonio da Sangallo il Giovane, già architetto di fiducia del papa ancor prima della sua elezione al soglio pontificio, nel 1536, dopo la morte di Baldassarre Peruzzi, divenne responsabile delle fabbriche papali. Per gli studi sulle fortificazioni di Roma si rimanda almeno a Quarenghi 1880; Guglielmotti 1880; Borgatti 1890; Lanciani 1902; Rocchi 1902; Giovannoni 1959; Spagnesi 1995; Eichberg, Eleuteri 1999. 2 A partire dalla storiografia ottocentesca, nello studio delle carriere degli architetti attivi tra XV e XVI secolo, si è prodotta la scissione che ha portato a considerare l’architettura militare una attività secondaria; fra i primi inquadramenti sulla questione si rinvia a Marconi 1966, pp. 109-111. 3 Carteggio indiretto, vol. I, p. 51, n. 33 (15 lug. 1516). 4 Il breve, datato 29 settembre 1527, è riportato in Sauer 1910, p. 226. 5 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, pp. 366-367; la revisione dei lavori nell’area di San Miniato risulta inoltre da una lettera datata 10 ottobre 1528 non contenuta nel Carteggio, pubblicata in Frey 1899, pp. 296-297; sulla politicità di Michelangelo, cfr. Spini 1999; Ragionieri 2007, pp. 136-144. 6 Sui progetti e i disegni michelangioleschi per le fortificazioni di Firenze, per brevità si rimanda solo a Tolnay 1940; Portoghesi, Zevi 1954; M. Tafuri, in Westfall 1984, pp. 13-39; Fiore 2005, pp. 21-31; Mussolin 2005, pp. 217-227. 12 Marconi 1966, p. 113; per la trascrizione del passo tratto dall’inedito Trattato d’architettura militare di Francesco de’ Marchi della Biblioteca Nazionale di Firenze, citato da Marconi senza collocazione, si rimanda alle pagine di Guido Rebecchini in questo catalogo. 13 Marconi 1966, p. 113. 14 Ivi, pp. 116-119. 15 Gronau 1918, p. 195. 16 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 1966-1987, vol. VI, p. 77 [ed. 1568]. 17 Vari trattatisti di architettura militare ricordano la Fortezza da Basso di Firenze come esempio dovuto alla cattiva progettazione di un architetto e non di un militare; fra i primi a criticare Sangallo è Tommaso Scala, il cui parere è riportato in Ruscelli 1568, p. 40; pareri altrettanto negativi sono stati espressi da Maggi-Castriotto 1564, p. 37; Discorsi militari 1583, p. 17; Belluzzi 1598, p. VI. 18 Carteggio, vol. IV, pp. 205-206, n. MXXXVIII (26 feb. 1545). 19 Ciò è ben noto da una lettera di Prospero Mochi al duca Pier Luigi Farnese del 2 marzo 1547, parzialmente trascritta in Ackerman 1988, p. 289: “et perché messer Michelangelo ha havuto il loco del Sangallo, una insieme con il Meleghino (il quale messer Michelan- gli anni dal 1534 al 1564 1964, pp. 377-424 e 872-877; Corpus 563-583; Manetti 1980; Marani 1984, pp. 65-85; Ackerman 1988, pp. 51-58 e 198-205; Portoghesi 1988; B. Contardi, scheda 15, in Argan, Contardi 1990, pp. 202-208; P. Ragionieri, scheda 46, in Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2001, pp. 76-77; P. Ragionieri, scheda 21, in Ragionieri 2003, pp. 60-61. 7 Ragionieri 2007, p. 140. 8 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 1966-1987, vol. VI, p. 91 [ed. 1568]. 9 Tutta la vicenda relativa a questi anni è ben documentata nel saggio di Guido Rebecchini presente in questo catalogo. 10 Quarenghi 1880; Giovannoni 1959; Pepper 1976; Fiore 1989; Adams, Pepper 1994, pp. 61-74; Eichberg, Eleuteri 1999; Fiore 2002a, pp. 143-147. 11 Marconi 1966; il progetto di fortificazione dell’area vaticana non è assimilabile alla volontà di costruire una cittadella militare dentro la città di Roma, ma rappresenta piuttosto il tentativo di voler realizzare una enclave racchiudente gli edifici più rappresentativi del potere ecclesiastico, opposta al resto della città e simile a quanto veniva progettato negli stessi anni dagli Spagnoli a Napoli, cfr. Pessolano 1998; Brunetti 2006, pp. 2030; per il piano di Niccolò V nell’area vaticana si rimanda a Magnuson gelo hora sta a obbedientia) [sic], imperò sua Beatitudine ci ha comandato che, in quanto al disegno, si obbedisca a messer Michelangelo, e non ad altri; et perché messer Michelangelo è di contraria opinione a quel che già fu deliberato di fare, si soprasiede a la venuta del signor Alexandro Vitelli, che così sua Beatitudine ha ordinato.” 20 La citazione, tratta da Portoghesi, Zevi 1964, p. 899, riporta un ulteriore passo della precedente lettera. 21 Il disegno, successivo al 1548, documenta lo stato dei lavori alle fortificazioni di Borgo al tempo dei lavori di Jacopo Castriotto; esso è conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barberiniano Latino 4391, c. 2. 22 Marconi 1966, p. 115. 23 Guglielmotti 1880, pp. 359-360. 24 Schiavo 1953, pp. 253-256. 25 Portoghesi, Zevi 1964, p. 899. 26 Ackerman 1988, pp. 288-289; B. Contardi, scheda 21, in Argan, Contardi 1990, p. 336. 27 Guglielmotti 1880; Rocchi 1902; inoltre, Marconi 1966, pp. 111-112 e 116. 28 Se è vero che tale disegno appartiene alla progettazione michelangiolesca delle mura di Borgo, la data proposta da Tolnay, “verso il 1535 o poco dopo”, è comunque troppo precoce, cfr. Corpus 353 recto. 29 Tolnay 1927, p. 157. 30 Marani 1985, vol. II, p. 601. 123 1. Roma, Santa Maria in Aracoeli, tomba di Cecchino Bracci TOMBA DI CECCHINO BRACCI Pina Ragionieri Morì appena quindicenne, nel gennaio del 1544, Cecchino Bracci, nipote amatissimo di Luigi del Riccio, il fuoruscito fiorentino allora provveditore in Roma del Banco Strozzi-Ulivieri e segretario di Michelangelo. La scomparsa del bellissimo adolescente colpì molto il Maestro, legato al Riccio da rapporti di lavoro ma anche di amicizia, tanto che aderì alla sua richiesta di progettare il monumento sepolcrale di Cecchino. Una lettera di Michelangelo all’amico, scritta tra il luglio e l’agosto del 1544, contiene una vera e propria promessa, che fu poi mantenuta. A proposito del progetto scrive infatti l’artista: “lo farò a ogni modo come posso meglio disegniare”. Il visitatore della nostra mostra che, con breve tragitto, raggiungerà la chiesa di Santa Maria in Aracoeli a Roma potrà ancor oggi vedere sulla parete sinistra dell’atrio laterale dell’edificio il busto del giovanissimo defunto al di sopra di un sarcofago a coperchio, entro una nicchia dal timpano curvo poggiante su mensole (fig. 1). Ai lati, due stemmi della famiglia Bracci di Firenze e due tabelle con iscrizioni, nelle quali si legge, rispettivamente a sinistra e a destra: 124 D.O.M. FRANCISCO BRACCIO FLOREN. NOBILI ADOLESCENTI IMMATVRA MORTE PRAEREPTO AN AGENTI XVI DIE VIII IANVARII M.D.XLIIII M.M.V. ALOISIVS DEL RICCIO AFFINI ET ALUMNO DVLCISS. P. INVIDA FATA PUER MIHI TE REPVERE SED IPSE DO TVMVLVM ET LACHRYMAS QUAE DARE DEBVERAS gli anni dal 1534 al 1564 125 Studi preparatori di questo progetto tombale sono stati riconosciuti nel foglio di Casa Buonarroti 19 F recto, presente in mostra (cat. 23a; Corpus 368 recto). L’analisi di questo disegno permette di seguire lo sviluppo dell’originaria idea michelangiolesca, imperniata appunto sulla tipologia del sarcofago a coperchio, concepito dapprima ininterrottamente curvilineo e poi a volute convesse con l’inserimento centrale di un motivo rettangolare. Nella fase finale della tormentata elaborazione, rintracciabile sulla sinistra del disegno, Michelangelo pensa a un organismo che equilibri il contrasto tra l’andamento a curva spezzata del coperchio del sarcofago e il coronamento a timpano triangolare del fastigio, attraverso l’inserimento di un attico con il busto di Cecchino. Anche sul verso del foglio sono presenti studi per lo stesso sarcofago, insieme a progetti per scale e schizzi di figure (cat. 23b; Corpus 368 verso). Il monumento fu realizzato da Francesco d’Amadore detto l’Urbino, il fedelissimo servitore, amico e collaboratore di Michelangelo. Giacché le calorose istanze e l’invio di scelte cibarie da parte del Riccio, testimoniati ampiamente da un fitto scambio epistolare, non bastarono a far sì che il Maestro scolpisse per lo meno il ritratto in marmo del ragazzo, toccò eseguirlo all’Urbino. Per il resto dell’opera, questi cercò al suo meglio di attenersi all’idea generale di Michelangelo, attuandola, inevitabilmente, in modo piuttosto freddo e manierato. È stata notata la sproporzione delle varie parti del sepolcro: le paraste angolari sono molto esili, specialmente se rapportate alle massicce mensole sottoposte; il timpano a segmento è esageratamente aggettante rispetto all’altezza di tutto il monumento; ma l’urna, le nicchie e le attigue targhe riportano questa struttura di tomba parietale alle ricerche michelangiolesche per la Sagrestia Nuova, precedenti di circa un ventennio, e sono non a caso le parti migliori dell’opera. La tomba è illustrata in mostra anche dallo studio di un artista della seconda metà del XVI secolo (cat. 25)1. Si tratta di un interessante disegno (acquistato nel 1971 per la Casa Buonarroti dall’allora direttore Charles de Tolnay), di cui è documentata l’appartenenza più di due secoli or sono a un michelangiolista come John Charles Robinson; l’opera passò poi nella collezione londinese di Robert Ludwig Mond. Si tratta senza dubbio di una copia ben eseguita, ma non troppo fedele. Un episodio curioso si riallaccia a questa morte immatura: il fatto che Luigi del Riccio riuscisse a convincere Michelangelo, ancora una volta con ripetute promesse e consegne di cibi prelibati, a comporre in pochi mesi circa cinquanta epitaffi (quarantotto quartine, un madrigale e un sonetto) in memoria di Cecchino. Sono rime spesso traversate da un brivido di dolore per la crudele perdita subìta dall’amico, a volte, dato il loro numero, buttate giù frettolosamente, o perfino sfiorate 126 dal sorriso. Per una distesa e convincente analisi, conviene ascoltare Enzo Noè Girardi: Il foglio contiene anche un appunto scritto di traverso, che così recita: Il gruppo [di epitaffi], che è al centro della fase più artisticamente impegnata del poetare di Michelangiolo, esalta e, direi quasi, esaspera quella condizione fondamentale della sua poesia che […] ho indicato col binomio di gioco e ispirazione. Che Michelangiolo sia stato indotto a scriverli anche per disimpegnarsi col Riccio che gli inviava pesci, funghi, fichi e altre leccornie, è indubbio. Ma è pure evidente ch’egli ha finito per trovarsi preso dal gioco dei concetti, sì da sviluppare sul tema centrale della morte tutta una serie di variazioni quanto mai significative in rapporto alla sua tematica poetico-filosofica. Direi ch’egli ha colto l’occasione per adunare intorno al sepolcro del quindicenne nipote di Luigi del Riccio, in forma sintetica, tutti i motivi della sua poesia: il sentimento pessimistico del mondo, la meditazione su gioventù e vecchiaia, il tema cielo-terra, il desiderio di eternità della bellezza, il corpo come carcere, il corpo come veste gloriosa al dì del giudizio […], muor giovane chi è caro al cielo, […] ecc.2 Perché la poesia stanocte è stata in calma vi mando quactro berlingozzi pe’ tre berriquocoli del cacastechi e a voi mi rachomando. Vostro Michelagniolo al Macel de’ [Corvi]. Il felice e veloce schizzo del corvo sostituisce il nome della strada romana nella quale si trovava la casa (ora distrutta) dove Michelangelo abitò fino alla morte4, e sigla scherzosamente le parole ri- volte all’amico. A proposito delle quali così scriveva Cesare Guasti: Berlingozzo, par che lo dicessero per cosa abbozzata. Il Vasari, in lettera, chiama berlingozzi le sue pitture: ‘que pochi berlingozzi ch’io fo’. Michelangelo paragona a’ berlingozzi i suoi componimenti, per contrasto ai berricuocoli, che sono pasta più fina; i quali o ebbe veramente dal Riccio, o sono detti per altri componimenti più belli sul Bracci, scritti da uno che ne faceva con più parsimonia di lui: forse il Giannotti, e forse lo stesso Riccio, chiamato cacastecchi (che vale uomo spilorcio, dappoco) appunto perché, a pett’a Michelangelo, ne produceva pochi e a stento.5 Il foglio in mostra, esempio famoso, proveniente dall’Archivio Buonarroti, XIII, 33 (cat. 24; Corpus 367) riporta alcuni epitaffi, numerati dal 42 al 45, che qui si trascrivono: 42 Deposto à qui Cechin sì nobil salma per morte, che ‘l sol ma’ simil non vide. Roma ne piange, e ‘l ciel si gloria e ride che scarca del mortal si gode l’alma. 43 Qui giace il Braccio e men non si desia sepulcro al corpo, a l’alma il sacro ufitio. Se più che vivo, morto à degnio ospitio in terra e ‘n ciel, morte gli è dolce e pia. 44 Qui stese il Braccio e colse acerbo il fructo morte anz’il fior c[h]’a quindic’anni cede. Sol questo sasso il gode che ‘l possiede, e ‘l resto po’ del mondo il piange tucto. 45 I’ fu’ Cechin mortale e or’ son divo: poco ebbi ‘’l mondo e per sempre il ciel godo di sì bel cambio e di morte mi lodo, che molti morti e me partorì vivo.3 1 Sul foglio, cfr. Tolnay 1972, pp. 11-13; S. Corsi, scheda 83, in Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2001, p. 116; sulla tomba di Cecchino, cfr. gli anni dal 1534 al 1564 anche F. Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 896-897. 2 Girardi 1974, pp. 119-120. 3 Rime, pp. 106-107, nn. 220-223; sull’argomento, cfr. P. Ragionieri, scheda 82, in Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2001, p. 115. 4 Sulla casa di Macel de’ Corvi e sulle altre abitazioni romane di Michelangelo, si veda il saggio di Clara Altavista nel presente catalogo. 5 Guasti 1863, p. 17. 127 PIAZZA DEL CAMPIDOGLIO Anna Bedon Piazza del Campidoglio fino al 1540 era uno spazio irregolare, posto su due livelli – uno più alto presso la chiesa di Santa Maria dell’Aracoeli e uno più basso di fronte al Palazzo Senatorio – collegati da una breve scala posta sul fianco della chiesa. Non era pavimentata, il terreno era sconnesso ed era raggiungibile solo da viottoli – uno dal Foro e l’altro tracciato dai passanti provenienti da Campo Marzio (figg. 1-2). Non sembrava un luogo raggiungibile agevolmente, ma per tutto il medioevo la piazza e le sue pendici erano state il cuore della città, sede del mercato di Roma. Nel XVI secolo i visitatori che salivano il glorioso colle per visitarne le vestigia erano sorpresi di vedere un tale squallore: Andrea Palladio scrisse “[in Roma] di tanti edificij, che vi erano, non si vede hoggidì in piedi se non il Campidoglio mezo guasto, ristaurato da Bonifacio ottavo, & dato da lui per habitatione del Senatore. Et certo li ornamenti, che erano in […] quelli, superavano li miraculi dell’Egitij, ma si come fu molto ornato, così hoggidì è ripieno di ruine”1. Nel 1536 Paolo III Farnese (1534-1549) decise che il Campidoglio doveva acquisire l’aspetto nobile che per il suo passato e per il suo ruolo gli era dovuto. L’interesse del pontefice fu sottolineato dalla costruzione sull’Arx – la sommità del colle capitolino dove si trovava la chiesa dell’Aracoeli – di una villa in forma di rocca disegnata da Jacopo Meleghino, in asse con via del Corso2. Sotto questo papato le autonomie del Comune di Roma (il “Popolo Romano”) furono molto limitate e il papa dispose liberamente delle cariche comunali – di solito elettive – e delle relative finanze3. In previsione della visita dell’imperatore Carlo V, nel 1536, Paolo III ordinò che il Popolo iniziasse a proprie spe128 se la sistemazione della piazza4. Nella mente del pontefice i lavori dovevano continuare anche dopo la visita dell’imperatore e a tale scopo nominò deputato ai lavori sul Campidoglio (carica che in teoria doveva essere scelta dal Popolo Romano) e Maestro di Strada (uno dei magistrati che decidevano e controllavano i lavori pubblici e privati della città) il suo segretario, Latino Giovenale Manetti5. La città non si era ancora ripresa dal disastro del Sacco di Roma del 1527, i lavori non ebbero un finanziamento regolare e non iniziarono prima della fine del 1537. Paolo III, come atto simbolico, ordinò che la statua equestre di Marco Aurelio fosse trasportata dal Laterano al centro della piazza del Campidoglio6. Il “locum Capitolii noviter explanatum” dove fu posto il monumento segnò l’inizio vero e proprio dei lavori7. Poiché l’imperatore Marco Aurelio era stato considerato come massimo “pacificatore” delle genti, l’inaugurazione della statua ebbe luogo il giorno della partenza del papa per la missione di pace tra Carlo V e Francesco I, il 23 marzo 1538, e Paolo III volle che la giornata fosse organizzata in modo tale che il convoglio assistesse all’avvenimento8. Solo nel 1539, o alla fine del 1538, Michelangelo fu interpellato ufficialmente per la sistemazione del Marco Aurelio “sancitum fuit quod supradicta pecuniarum summa eroget […] partim circa reformatione statuae Marci.Antonij in plateam Capitolii exixtentis secundum judicium .d. Michelangeli sculptoris et partim circa muros fiendos in dictam plateam capitolij”9. Michelangelo fu incaricato di sistemare la statua su un semplice ed elegante basamento da lui disegnato, di forma pseudo-ovale, più stretto della scultura della quale seguiva il profilo, in modo 1. Maarten van Heemskerck, Veduta di piazza del Campidoglio, circa 1536. Berlino, Staatliche Museen - Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Römische Skizzenbücher, 79D2, II, c. 72r. Il disegno mostra, sullo sfondo, il Palazzo Senatorio con le tre rampe, il palazzo dei Conservatori a dieci arcate e, in primo piano, l’obelisco e la cordonata dalla chiesa dell’Aracoeli alla piazza da dare massimo risalto al monumento10. Purtroppo nessun disegno autografo del Maestro richiama in qualche modo lo studio per il basamento e l’attribuzione a Michelangelo è basata su di una frase scritta da Flaminio Vacca nel 1594: “Il Cavallo di Campidoglio […] ivi è stato [al Laterano] sino al tempo di Paolo III, quale lo condusse in Campidoglio, e fecegli fare un piedestallo da Michel’Angelo, e fu guasto un pezzo di fregio ed architrave di Trajano, perché non si trovava marmo sì grande; e perché detto Cavallo fu trovato nella proprietà del Collegio Lateranense, per questo detto Collegio pretendeva esserne padrone, ed ancora litiga col Popolo Romano, né passa anno, che non facciano atti per mantenere le loro giurisdizioni. Tutto questo ho inteso dire”11. Il piedestallo ha un’anima in muratura di forma cruciforme a cui furono aggiunti due conci in marmo semicircolari sui lati brevi, due lastre curve sui lati lunghi e, come base, quattro liste di marmo12. I lati brevi avevano la divisa SPQR e gli stemmi con i gigli di Paolo III collocati entro uno scudo d’invenzione michelangiolesca a “cranio di cavallo”, simile a quelli nella Tribuna delle Reliquie in San Lorenzo a Firenze e nella tomba di Giulio II a San Pietro in Vincoli; i nomi dei tre conservatori dei primi due trimestri del 1538 si trovavano sullo zoccolo del lato breve frontale, mentre i lati lunghi recavano le scritte dedicatorie13. La forma dello scudo basta da sola ad attribuire con sicurezza l’ideazione a Michelangelo, ma i conci di marmo, piccoli e scadenti, che formano lo zoccolo fanno pensare a un’esecuzione non seguita dal Maestro. Latino Giovenale Manetti, occupato per una missione diplomatica, nel 1540 fu sostituito dal segretario del cardinal Alessandro Farnese, Curzio Frangipane, e i lavori di regolarizzazione della piazza non furono affidati a Michelangelo, ma agli architetti dei Maestri di Strada: si eliminò la scala che univa i due livelli della piazza, fu interrotto il collegamento tra la chiesa dell’Aracoeli e i due palazzi della piazza e si costruì un muro di contenimento alto 10 metri14. Questo muro di contenimento fu tracciato usando un filo teso dal pulpito esterno della chiesa fino alla salita del Carcere Tulliano, in modo da determinare un angolo di ottanta gradi rispetto al Palazzo Senatorio, approssimativamente lo stesso angolo che quest’ultimo edificio già aveva rispetto al palazzo dei Conservatori; la piazza assunse, così, una forma trapezoidale (fig. 3)15. Il legame col palazzo dei Conservatori fu fisicamente segnalato da una nicchia scavata sul nuovo muro, in asse con l’entrata del palazzo. Tutto il colle, inoltre, fu circondato da una strada, le pendici dell’Arx furono fortificate e si iniziò a tracciare una via rettilinea che dal Campidoglio conduceva alla piazza degli Altieri, l’attuale piazza del Gesù16. Sulla nuova piazza restavano il Palazzo Senatorio – un fortilizio merlato costruito nel XIII secolo sopra il Tabularium e il temgli anni dal 1534 al 1564 2. Maarten van Heemskerck, Veduta della chiesa di Santa Maria in Aracoeli, circa 1536. Berlino, Staatliche Museen - Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Römische Skizzenbücher, 79D2, II, f. 16r. Il disegno mostra la cordonata fra i due livelli di piazza del Campidoglio pio di Veiove – e il palazzo dei Conservatori, edificato da Niccolò V Parentucelli (1447-1455) nel 1450 addossando ad alcune vecchie costruzioni una facciata porticata (fig. 4)17. Il primo edificio aveva la funzione di palazzo di giustizia e conteneva anche le carceri, mentre il secondo ospitava il consiglio comunale ed era sede delle magistrature cittadine. Nel 1536, Johannes Fichard, dotto giureconsulto tedesco in visita a Roma, diede un quadro desolante del Palazzo Senatorio, “Praetoris igitur Palatium, nihil quod ego viderim, vel ex aliis audiverim, memorabile continet”18, irregolare, arcaico e poco rappresentativo, mentre il palazzo dei Conservatori, anche se degno di nota per le sale decorate da Jacopo Ripanda nel primo decennio del Cinquecento e per la collezione statuaria, aveva un aspetto insignificante. Nel generale ripensamento della piazza si previde la risistemazione di entrambi gli edifici. I lavori di definizione della piazza e di costruzione di una nuo129 3. Anonimo, Veduta di piazza del Campidoglio, 1555-1556. Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, Cabinet des Dessins, Fonds des dessins et miniatures, Ecole d’Italie, Petit format, inv. 11028 5. Anonimo, Facciata del Palazzo Senatorio, seconda metà del XVII secolo. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Notizie dei senatori di Roma, raccolte da Francesco Gualdi e Giacomo Gigli, ms. Vat. Lat. 8257, frontespizio 6. Roma, Palazzo Senatorio, scalone due rampe senza pianerottoli è più vicina a quella del cortile superiore del Belvedere vaticano; è però presente al centro del prospetto una nicchia con una chiave d’arco ed è segnato ripetutamente il livello del podio finale, come se sul prospetto dell’edificio vi fosse un marcapiano23. Uno dei segni alla base della scala prosegue verso destra, oltre la struttura, come se il palazzo fosse messo in prospettiva. Il verso dello stesso foglio (cat. 23b; Corpus 368 verso) è ancora più approssimativo, ma l’elemento centrale e la traccia di un muro curvo, (probabilmente un misto di prospetto frontale e pianta) sembrano nuovamente rimandare all’esedra del Belvedere, come anche conferma la datazione del foglio, posta al 155024. Nel progetto di Michelangelo la vecchia facciata del Palazzo Senatorio doveva mantenere il proprio carattere di fortilizio medievale, con le sue murature di blocchi di tufo a vista, le finestre di foggia quattrocentesca ripetute anche sul nuovo lato destro, insieme ai merli di coronamento: un edificio assai simile al palazzo dei Tribunali che Donato Bramante aveva progettato e iniziato a costruire in via Giulia (fig. 10)25. In Campidoglio, però, la grandiosa ed elegante scalinata di bianco travertino, che creava un forte contrasto coloristico col tufo delle murature, segnalava che ci si trovava di fronte a un palazzo comunale, nel Lazio tradizionalmente dotato di profferlo, cioè di scala esterna conclusa da podio coperto (fig. 11). Quello del Palazzo Senatorio è un profferlo di finissimo disegno, accogliente i Fiumi, sminuiti più che esaltati dalla scala. Tutto il fronte del palazzo fu cinto da un sedile per permettere le udienze all’aperto, con il seggio riservato al senatore in posizione elevata, accolto nel baldacchino sotto il Leone che azzanna il cavallo, simbolo della Giustizia capitolina. Uno straordinario equilibrio si coglie in questa sistemazione in cui le memorie dell’antica Roma sono accolte dal solido fortilizio municipale, fondendosi in un co- 4. Francesco Credenza (?), Veduta di piazza del Campidoglio, 1546-1547. Roma, palazzo dei Conservatori, sala delle Aquile va entrata al convento dell’Aracoeli sembrano essere stati conclusi nel 1543 e, tra il 1544 e il 1546, non si fece altro. Finalmente, alla fine del 1546, il compito di rinnovare il Palazzo Senatorio fu affidato a Michelangelo, che subito cercò una persona di fiducia per seguirne i lavori. Giorgio Vasari nella vita di Aristotile da Sangallo scrisse: “[nel 1547, questi] se ne tornò, lieto a Firenze, non ostante che Michelangelo, il quale gl’era amico, avesse disegnato servirsene nella fabrica che i Romani disegnavano di fare in Campidoglio”19. Così Michelangelo, per la direzione dei lavori, si risolse a confermare il soprastante che già vi era fin dal 1537, Mario Maccarone il quale, avendo l’importante requisito di essere suo vicino di casa a Macel de’ Corvi, gli riferiva quotidianamente quanto veniva fatto e ne raccoglieva gli ordini, tanto da riuscire a ispirare in Michelangelo un tale affidamento che questi lo impose anche sul cantiere di palazzo Farnese20. 130 Michelangelo decise innanzi tutto di regolarizzare la facciata asimmetrica del Palazzo Senatorio: la torre di destra, molto più stretta della sinistra, fu allargata; venne chiuso il doppio loggiato d’entrata sul lato destro e fu aperto un nuovo ingresso al centro del prospetto (fig. 5). Il nuovo portale sarebbe stato posto al primo piano, allo stesso livello della grande sala delle Udienze, che occupava più di metà del fronte del palazzo. Tuttavia, la parte sinistra della facciata era irregolare, formata da una linea spezzata lievemente concava, mentre la parte centrale era arretrata. Per non costruire ex novo tutta la facciata, Michelangelo addossò al prospetto un maestoso scalone a due rampe, coprendo così interamente la parte inferiore del palazzo, fino a raggiungere, con un podio centrale, il livello della nuova entrata alla sala delle Udienze, a otto metri d’altezza (fig. 6). A metà d’ogni rampa, lì dove si trovava l’angolo di ogni torre, fu inserito un ampio pianerottolo. Le prime rampe fiancheggianti le torri furono rese aggettanti rispetto alle seconde rampe che salivano a un ampio podio, a sua volta sporgente quanto le rampe delle torri, in modo da rendere lo scalone plastico e chiaroscurato, con un fronte che potesse essere adatto ad accogliere, nelle parti rientranti, le due statue dei Fiumi poste su ampie basi ai fianchi della nicchia centrale al di sotto dell’ampio podio. Molto probabilmente i due Fiumi facevano parte di una composizione che prevedeva al centro del prospetto la statua del Leone che azzanna il cavallo, simbolo della Giustizia capitolina21. Due leoni in basalto, simbolo della città di Roma, furono posti agli angoli delle torri, quasi a sorvegliare le due salite dello scalone michelangiolesco (fig. 7)22. Un accento particolare fu posto al podio centrale dello scalone, che secondo le intenzioni di Michelangelo doveva essere coperto da un baldacchino marmoreo (fig. 8). Gli scalini erano di lunghezza mano a mano crescente a correggere l’andamento curvilineo del muro e la facciata fu così regolarizzata (fig. 9). Le balaustre rendevano ancora più convincente l’effetto: a quelle verso la piazza ne corrispondevano altre addossate ai muri del vecchio palazzo, formate non da balaustrini interi, ma da mezzi balaustrini incastrati nelle murature di tufo, con i corrimano impercettibilmente inclinati a seguirne l’andamento. Michelangelo non progettò un basamento bugnato per il palazzo: la scala avrebbe dovuto essere montata dopo o, almeno, tenendo conto del futuro bugnato; ma un bugnato molto plastico, collocato in un secondo tempo, avrebbe affogato buona parte degli elementi lapidei delle rampe e, infatti, quando nel 1702 la parte inferiore della facciata fu coperta da uno spesso strato di intonaco per creare un finto bugnato, parte del corrimano fu nascosto. Solo due rapidi schizzi tracciati su un foglio di Casa Buonarroti sembrano richiamare una scala simile a quella del Palazzo Senatorio. Nel 19 F recto (cat. 23a; Corpus 368 recto) la struttura a gli anni dal 1534 al 1564 131 7. Hieronymus Cock, Veduta di piazza del Campidoglio, circa 1549 (da Hieronymus Cock, Operum Antiquorum Romanorum Reliquiae, Anversa 1562) 10. Pier Maria Serbaldi (attribuita), Medaglia di fondazione del palazzo dei Tribunali di Giulio II a Roma, circa 1509 11. Tarquinia, profferlo del Palazzo Comunale 8. Stefano Dupérac, Veduta di piazza del Campidoglio, Bartolomeo Faleti editore, 1568. Particolare con il profferlo del Palazzo Senatorio 9. Rilievo dello scalone del Palazzo Senatorio mune senso di appartenenza a un passato non lontano e pieno di dignità, sotto il segno “pacificatore” del papa romano. Michelangelo lasciò al suo posto, in posizione asimmetrica, la vecchia torre delle campane dai merli ghibellini, come anche mantenne la torre dai merli guelfi di sinistra, ricordo delle battaglie combattute per la libertà comunale, e vi aggiunse soltanto il lussuoso arengario. L’antica torre delle campane e l’aspetto generale del Palazzo Senatorio dopo i lavori michelangioleschi evocavano motivi medioevali fantastici che perpetuavano il ricordo delle lotte e dei fasti comunali che avevano visto il Leone – non la Lupa – campeggiare sulle monete del Popolo Romano e indicare il luogo della Giustizia26. Lo stesso Leone che ora custodiva le scale in forma di ringhiera balaustrata, col ruolo di “parlatorio” come ai tempi di Cola di Rienzo. Michelangelo si concesse solo di rendere simmetrico il fronte del palazzo, costruendo una rampa preziosa il cui biancore e la cui plasticità erano sottolineate dal confronto con la facciata di tufo e mattoni. Con questi lavori, Buonarroti mostrava di non voler costruire una piazza del Campidoglio in forma di foro all’antica e sia l’essenzialità sia l’economicità degli interventi escludono la possibilità che egli desiderasse costruire sulla piazza un terzo palazzo sul lato vuoto verso l’Aracoeli (cat. 29, 30, 31), simile a quello dei Conservatori, ancora ben lontano dall’aspetto accattivante di oggi (cat. 28). Michelangelo abbandonò i lavori di Palazzo Senatorio nel novembre 1549, alla morte di Paolo III e quanto iniziato fu concluso dal soprastante Maccarone e dallo scalpellino Benedetto Schela; il baldacchino previsto sul podio centrale non fu mai concluso27. Lo scarso interesse all’immagine del Campidoglio mostrato dai papi successivi – Giulio III del Monte (1550-1555) e Paolo IV Carafa (1555-1559) – fece mancare i finanziamenti, ma nel 1554, morì Curzio Frangipane e al suo posto, forse non casualmente, fu scelto come deputato ai lavori un amico di Michelangelo, Tommaso de’ Cavalieri, che assicurò il contributo di Michelangelo. Alla testarda volontà di Tommaso dobbiamo l’impegno di Michelangelo di dare una nuova veste alla piazza simbolo delle libertà cittadine e l’accento profondamente diverso da quello impresso all’epoca di Paolo III. Nel 1542-1543, dietro la chiesa francescana dell’Aracoeli, era stata realizzata una scalinata che dal convento conduceva alla piazza. In cima alla scalinata era stata costruita una graziosa loggia a tre archi di pietra scura probabilmente su disegno di Jacopo Meleghino, autore della villa di Paolo III (fig. 12)28. Nel 1554, subito dopo la conclusione dei lavori a Palazzo Senatorio, sul lato opposto della piazza furono costruite una scalinata e una loggia identiche e assolutamente prive di scopo, poiché 132 portavano a un terreno comunale non recintato sul retro del palazzo dei Conservatori (fig. 13). In questo modo, però, la simmetria ricercata nella facciata del Palazzo Senatorio si rifletteva anche nelle sue quinte laterali. Con i pochi finanziamenti disponibili, negli anni cinquanta Michelangelo diede forma conclusiva alla piazza, definendo l’ultimo lato, quello verso la città. Furono costruite due balaustre a separare piazza e pendio, balaustre che lasciavano al centro lo spazio per una cordonata e ai lati un varco. Ne risultò un trapezio “quasi” regolare, sottolineato da due lunghe liste di travertino sui lati paralleli; tra le due liste, sempre in travertino, fu disegnato un ovale, in asse con l’entrata del Palazzo Senatorio e con la futura cordonata; nel punto centrale dell’ovale fu posizionata la statua di Marco Aurelio, la cui base fu allargata per dare maggiore stabilità al gruppo scultoreo (cat. 27)29. La piazza fu pavimentata con un semplice lastrico di mattoni a spinapesce e nessuna decorazione fu prevista all’interno dell’ovale (cat. 26, 34)30. Questi lavori si conclusero nel 1559. Nell’ottobre 1561, papa Pio IV (1559-1572) fece visita al Campidoglio e comunicò al consiglio comunale il suo desiderio che il palazzo dei Conservatori fosse restaurato; ma nell’immediato si trovò più urgente lavorare al Palazzo Senatorio e alla cordonata che doveva divenire l’accesso di rappresentanza alla piazza31. Nei lavori al Palazzo Senatorio non fu coinvolto Michelangelo, anche se gli interventi avrebbero avuto un grande impatto sull’aspetto della facciata, dal momento che si prevedeva di allungare la sala delle Udienze e di sopraelevarla, con un conseguente cambiamento della finestratura32. Buonarroti fu coinvolto, invece, negli altri lavori di sistemazione della piazza. Le due balaustre costruite nel 1554-1559 erano state fondate senza prevedere alcun muro di contenimento sotto di esse. Quando, tra il 1562 e il 1564, si tracciò la cordonata, sotto le balaustre furono costruiti dei muri che crearono un terrapieno alto sei metri33. Un muro di soli sei metri sta a indicare che non era mai stata presa in considerazione l’ipotesi di liberare dalla terra i fianchi della cordonata e che la piazza doveva avere come limite verso la città un declivio relativamente dolce. La cordonata principale, solo sterrata, aveva una larghezza uniforme ed era più ripida e più breve di quella poi costruita, per non toccare la scala dell’Aracoeli (fig. 14; cat. 38, 39). La cordonata fu tracciata perfettamente perpendicolare alle balaustre e non in asse con la nuova Via Capitolina non ancora perfezionata. Non era previsto, dunque, nessun collegamento prospettico con piazza Altieri; inoltre, sotto la cordonata non esisteva ancora una piazza o uno slargo da dove osservare la piazza sovrastante. Nell’idea di Michelangelo, la piazza doveva essere uno spazio chiuso, aprospettico, un luogo che, una volta saliti sul colle, non doveva essere attraversagli anni dal 1534 al 1564 to in linea retta – il Marco Aurelio e le due rampe dello scalone senatorio lo impedivano. Ma dopo lo sterro della cordonata, non si proseguì con la posa di cordoli, gradini e balaustri. È probabile che il deputato Tommaso de’ Cavalieri ne sospendesse la costruzione – verrà ripresa solo nel 1582 – non soddisfatto da questo approccio così poco “teatrale”. Che così fosse, lo si deduce dai fatti successivi. Nel novembre 1562 Tommaso de’ Cavalieri trovò 2000 scudi per costruire la nuova facciata del palazzo dei Conservatori e papa Pio IV, nel febbraio 1563, ne assegnò altri 3000 dalla Gabella del Vino Forense34. L’idea di dare nuova veste al palazzo risaliva all’inizio dei lavori alla piazza, ma Frangipane si era limitato ad aggiungere nuove stanze sul retro dell’edificio – le attuali sale delle Oche, delle Aquile e degli Arazzi35. Vi erano, inoltre, dei vincoli: si voleva in qualche modo preservare quanto esisteva e dare nuova veste senza modificare molto gli interni. A piano terreno, il palazzo ospitava le sedi di alcune corporazioni artigiane; a fronteggiare le cinque stanze delle corporazioni vi era un portico formato da dodici strette arcate su colonne di spoglio e, al piano superiore, verso la piazza, vi erano due logge angolari e al centro due sale per le riunioni consiliari. Il palazzo era a forma di C, con un cortile centrale dotato di una scala sul lato sinistro, un porticato sul destro e sul fondo un muro di contenimento verso monte Tarpeo. Era, insomma, un palazzo privo di attrattive, a parte la straordinaria collezione statuaria ed epigrafica ancora senza degna collocazione, a parte pochi pezzi di particolare significato simbolico – come le due statue di Ercole, rispettivamente in bronzo e in marmo, poste ai lati dell’entrata del cortile e i due leoni, simbolo della città, ai piedi delle sue scale. Michelangelo, su invito di Tommaso de’ 133 12. Anonimo fiammingo, Veduta della piazza del Campidoglio dal palazzo dei Conservatori, 1561. Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum, Kupferstichkabinett 14. Anonimo olandese (cosiddetto Anonimo Fabriczy), Veduta dello sterro per la cordonata principale del Campidoglio, 1573-1574. Stoccarda, Staatsgalerie, Graphische Sammlung 15. Schema planimetrico della prima campata del palazzo dei Conservatori 16. Roma, palazzo dei Conservatori, portico 13. Giovanni Antonio Dosio, Veduta di Palazzo Senatorio dalla cordonata del convento dell’Aracoeli, 1559-1563. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2560 A recto Cavalieri, affrontò una sfida che era insieme tecnica e rappresentativa. Poiché si dovettero mantenere invariate la quota dei solai e l’altezza del palazzo, le modifiche all’involucro furono minime, ma essenziali: il palazzo era di forma lievemente trapezoidale e la facciata non era perfettamente perpendicolare ai muri laterali. Michelangelo decise di renderli tali e allargò la facciata di due metri. I lavori iniziarono dall’angolo verso la città, fondando due possenti pilastri, non sul luogo dei precedenti sostegni, ma sul nuovo angolo di novanta gradi, a circa un metro di distanza (fig. 15). A seguire i lavori sul cantiere fu posto Guidetto Guidetti, architetto della Nazione fiorentina in Roma, “quale si è preso per eseguire li ordini di m. Michelangelo Buonarruoto in la fabrica di Campidoglio”36. 134 Tra il 1563 e il 1564 fu costruita solo la prima campata del portico, formata da quattro pilastri affiancati da colonne ioniche. I capitelli di queste colonne erano di forma insolita, con facce concave sui fronti e convesse ai lati, come se fossero stati modellati con l’argilla e premuti con le mani (cat. 32). I tre pilastri esterni avevano addossata al centro una lesena su alto plinto, che raggiungeva il tetto, mentre all’interno del portico essi si tramutavano in blocchi astratti, le cui fasce continuavano nel soffitto. Le colonne libere reggevano trabeazioni piane, sia sul fronte che attraverso il portico, creando un baldacchino. I blocchi portanti erano costituiti dai pilastri più le quattro colonne affiancate e, durante tutta la durata dei lavori, non si costruì campata per campata, bensì blocco per blocco, cioè una campata più le due colonne appartenenti alla campata successiva. Questo insieme di sostegni e travi reggevano un nuovo solaio, alla stessa quota del precedente, realizzato non con travi di legno, bensì di marmo e tra una trave e l’altra fu gettato in cassaforma il conglomerato cementizio, per creare un unico cassettone gradonato decorato a stucco per ogni campata (fig. 16)37. La nuova struttura fu costruita senza poggiare sul muro interno del vecchio portico, muro al quale ne fu accostato un altro, autonomo, entro il quale furono incassate le colonne ioniche. Al centro del prospetto interno fu posto un portale che dava accesso al locale che era stato il Consolato dei Mercanti di Roma. Al primo piano, la loggia verso la piazza fu tamponata e vi furono aperte due finestre, una per ogni lato. Gli elementi decorativi del portico citavano le opere fiorentine di Michelangelo – le colonne inalveolate ricordavano quelle della Biblioteca Laurenziana e la porta del Consolato era identica a quella che dal primo loggiato del chiostro di San Lorenzo porta alla Tribuna delle Reliquie –, mentre la facciata e le finestre citavano l’ordine gigante e le finestre dell’esterno di San Pietro. Nel palazzo dei Conservatori i potenti pilastri che agganciavano la vecchia facciata (trasformando il primitivo sistema murario in una griglia che rese possibile lo svuotamento di un’intera campata per fare spazio alla finestra centrale) e il loro aspetto in forma di un più sottile ordine gigante con fasce ribattute di travertino ai lati (fig. 17), mostrano un’abilità tecnica impensabile nel Michelangelo fiorentino38. L’abilità di mimetizzare l’ampiezza dei pilastri attraverso fasce apparentemente decorative – in realtà parti integranti del sistema portante – e di trasformarle in cornici intorno a specchiature di mattoni a vista è quasi inedito, ma l’elemento troverà grande fortuna nella seconda metà del Cinquecento romano, come tutti i dettagli decorativi “inventati” da Michelangelo, facendo di queste specchiature con mattone a vista uno dei motivi più usati dalle maestranze lombarde a Roma (fig. 18). La sobrietà decorativa, che affida agli elementi tettonici la propria espressività, la stretta aderenza al sistema costruttivo degli elementi usati, l’indifferenza verso la decorazione che fa concentrare l’attenzione sul forte chiaroscuro formato da pieni e vuoti, sulle masse create dagli elementi portanti e sull’interpretazione in forma plastica, altamente emotiva, di porte, finestre, capitelli e cornici sono gli elementi che fanno del palazzo dei Conservatori l’ultima opera di Michelangelo39. Alla morte di Michelangelo nel febbraio 1564 i pilastri del portico erano già costruiti, le sue apparecchiature murarie completate e le finestre, già ordinate agli scalpellini, non erano ancora state montate. Era in opera solo la parte inferiore delle lesene giganti e mancavano totalmente i capitelli e il coronamento finale (fig. 19). Guidetto Guidetti, l’architetto deputato da Michelangelo a seguire i lavori, non gli sopravvisse e morì nell’autunno dello stesso anno, così come il soprastante “storico” dei lavori alla piazza capitolina, Mario Maccarone, che morì nel giugno 156540. Tuttavia la presenza del deputato Tommaso de’ Cavalieri fece superare senza scosse quell’anno problematico, poiché scelse come esecutore del “programma michelangiolesco” un giovane scultore-architetto suo protetto, Giacomo della Porta, che disegnò e completò quanto mancava della facciata: i capitelli dell’ordine gigante e il cornicione con balaustra di coronamento41. Michelangelo aveva preparato la parte superiore della facciata per accogliere un alto cornicione, ma non vi era alcun muro continuo che potesse sostenere una pesante balaustra di marmo, né erano stati predisposti acroteri per le statue. Tommaso de’ Cavalieri, che fin dall’inizio della fabbrica aveva accumulato statue di dimensioni simili, ordinò a Giacomo della Porta di aggiungere una balaustra e gli affidò il compito di interpretare in modo michelangiolesco il completamento del palazzo dei Conservatori con l’uso sistematico di elementi tratti da opere del Maestro42. gli anni dal 1534 al 1564 Noi non sappiamo come Michelangelo avrebbe continuato il palazzo – la complessità della tessitura della facciata e la vitalità creativa del Maestro ci impediscono ogni ipotesi, ma il tema del palazzo sede dell’amministrazione comunale all’interno della piazza rappresentativa della nobiltà e dell’antichità di quelle magistrature era inedito e certamente, se Michelangelo avesse potuto continuarlo, avrebbe offerto una soluzione sorprendente. Giacomo della Porta subentrava nella fabbrica nel momento più delicato: non bastava più un bravo esecutore, era necessario un interprete dell’opera michelangiolesca che completasse quanto iniziato. La costruzione di una sola campata non dava certezza che questa dovesse necessariamente ripetersi eguale 135 17. Schema planimetrico del sistema portante della facciata di palazzo dei Conservatori (ricostruzione dell’autore) 19. Giacomo della Porta (?), Alzato delle prime due campate della facciata del palazzo dei Conservatori, 1565. Vienna, Albertina Graphische Sammlung, It. Arch. Rom nr. 31r 20. Roma, piazza del Campidoglio 18. Roma, palazzo dei Conservatori, facciata ri approvato da Nostro Signore”, frutto di un accordo personale stipulato con Pio IV. Tommaso auspicava una facciata in travertino, come disse Vasari44. Inoltre, prima di dare avvio alla conclusione della cordonata principale, Cavalieri attese che i lavori alla Via Capitolina e alla nuova piazza ai piedi della salita fossero conclusi. Subito dopo fu bandito un concorso di idee per uno scalone e una serie di salite che “aprissero” la nuova piazza capitolina alla città, rendendola visibile fino a piazza Altieri45. Il progetto di Tommaso de’ Cavalieri, di chiaro significato ideologico nella sua aulicità, quale coerente e leggibile restituzione dell’immagine classica del Campidoglio, è di fatto quello che sarà realizzato nel giro di un secolo. Ben lontano dal rigore iconoclasta dell’ultimo Michelangelo, Tommaso de’ Cavalieri fu il fautore del Campidoglio teatrale e nostalgico dei fasti antichi che vediamo oggi (fig. 20; cat. 36, 37, 30, 33). Palladio, ed. Faciotto 1600, pp. 21-22. Sulla costruzione della villa a partire dal 1535, sono fondamentali Brancia di Apricena 1997-1998; Brancia di Apricena 2000. 3 Bedon 2008, pp. 51-52. 4 Lanciani 1988-2002, vol. II, p. 232. 5 Bedon 2008, pp. 51-52. 6 Ivi, pp. 55-58. 7 Diario di Biagio de Martinelli, 25 gennaio 1538, in Pastor 1959, p. 716. 8 Su Paolo III e la simbologia usata nel corso del suo pontificato, si veda Canova 1998. 9 Lanciani 1988-2002, vol. II, p. 77; Bedon 2008, p. 338, doc. 22 marzo 1539. 10 Melucco Vaccaro 1989, p. 119; sui problemi di ancoraggio della statua al basamento, si veda Parisi Presicce 1997. 11 Vacca 1594, p. iv, n. 18; Lanciani 1883, p. 239; Michaelis 1891, p. 1 per sette volte, ma ogni pilastro formava un blocco unico con le quattro colonne che lo affiancavano e la colonna a sinistra della seconda lesena gigante, posta in opera con Michelangelo ancora vivente, garantiva che anche la seconda campata sarebbe stata identica alla prima. Quindi, almeno le prime due campate sarebbero state eguali. Anche ripetendo per sette volte la stessa campata, rimanevano da risolvere le parti non affrontate da Michelangelo: oltre al coronamento del palazzo, la campata centrale col portale e il vestibolo d’entrata al cortile. Tommaso aveva ottenuto da Michelangelo un frammento di facciata, ma era necessario che si dicesse che egli l’aveva costruita tutta; anzi, era necessario poter dire che Michelangelo aveva costruito tutta la piazza del Campidoglio: era questo il compito, puntualmente portato a termine, di Giacomo della Porta, che dal 1573 avrà la stessa missione – portata a buon fine – anche in San Pietro. Il coronamento a balaustra con acroteri è sicuramente un desiderio di Tommaso, e Giacomo della Porta lo rese michelangiolesco, proponendo la stessa balaustrata che delimitava la piazza verso la città (cat. 40, 41). 136 La nuova facciata del palazzo dei Conservatori, in gran parte in travertino, implicava una serie di conseguenze sull’intera piazza – dal nuovo rapporto col Palazzo Senatorio alla necessaria definizione del lato del muro di terrapieno dell’Aracoeli. Tommaso de’ Cavalieri ne elaborò una personale versione e nella sua idea, di fronte al palazzo dei Conservatori, avrebbe dovuto essere costruito un portico identico, privo di profondità e di scalone, non per uno scopo pratico, ma per creare un’immagine complessivamente “compiuta” del Campidoglio43. In pratica, sentiva la necessità di una terza “quinta” che definisse simmetricamente lo spazio architettonico. L’intendimento di Tommaso de’ Cavalieri era la restituzione di un Campidoglio all’antica – non del Campidoglio antico – in forma di foro porticato, coronato da statue con al centro l’effigie dell’imperatore. Una tale piazza non poteva mantenere la facciata medievaleggiante del Palazzo Senatorio nella forma consegnata da Michelangelo nel 1550. E infatti il Maestro non fu affatto coinvolto da Tommaso nei lavori fatti al Palazzo del 1562, basati su un “nuovo designo de m. Thomao de Cavalie- 2 gli anni dal 1534 al 1564 28; Ferroni, Sacco 1989, p. 196; le iscrizioni sono riportate in Forcella 1869-1884, vol. I, p. 33, n. 44. 12 Künzle 1961; Ferroni, Sacco 1989. 13 Sulla particolare forma usata da Michelangelo per gli stemmi, si veda Wallace 1987. 14 Brancia di Apicena 2000, pp. 450452. 15 Güthlein 1985, p. 99; fondamentali per la storia dei lavori in questo periodo, sono ancora Brancia di Apricena 1997-1998; Brancia di Apricena 2000. 16 Bedon 2008, pp. 52-53. 17 Ivi, pp. 9-49. 18 Fichard 1815, p. 27. 19 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 1966-1987, vol. V, p. 403 [ed. 1568], Vita di Aristotile da Sangallo. 20 Frommel 1973, vol. II, p. 110, n. 52; Uginet 1980, pp. 20 sgg., p. 46, nota 126. Bedon 2008, p. 92. Ivi, p. 105. 23 Frommel ipotizza che in fase di progetto anche la scala del Belvedere prevedesse una nicchia centrale, si veda Frommel 1997, p. 255. 24 Hirst 1993, p. 54; Frommel 1997, pp. 255-257. 25 Frommel 1974; Bruschi 1979. 26 De Angelis d’Ossat 1965, p. 37. 27 Bedon 2008, p. 99. 28 Coolidge 1945-1947; Hess 1961, pp. 347-348. 29 Bedon 2008, pp. 125-129. 30 Ivi, pp. 121-125. 31 Ivi, p. 345, doc. 13 ottobre 1561. 32 Ivi, pp. 131-133. 33 Ivi, pp. 129-131. 34 Ivi, pp. 145-147. 35 Ivi, pp. 66-71. 36 Ivi, p. 350, doc. 26 luglio/10 dicembre 1563. 37 Ivi, pp. 153-156. 21 22 Frommel 1997b, p. 26. Ivi, p. 25. 40 Bedon 2008, pp. 158, 161. 41 Ivi, pp. 161-162. 42 Ivi, p. 162; per la discussione sul coronamento si vedano pp. 171203 43 Il “Terzo Palazzo” è citato per la prima volta da Giorgio Vasari: “dirimpetto a questa [facciata del palazzo dei Conservatori] ne ha a seguitare un’altra simile di verso tramontana sotto Araceli”, si veda Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 1966-1987, vol. VI, p. 80 [ed. 1568]. Esso è riprodotto nelle incisioni del Campidoglio a partire dal 1567, ma venne menzionato per la prima volta in un consiglio comunale nel 1576, Bedon 2008, p. 241. 44 Vasari, ed. Bettarini, Barocchi, vol. VI, pp. 79-80 [ed. 1568]; Bedon 2008, pp. 131-133. 45 Bedon 2008, pp. 253-260. 38 39 137 1. Roma, palazzo dei Conservatori, portico. Dettaglio della colonna alveolata della prima campata verso palazzo Caffarelli LE COLONNE ALVEOLATE DI PALAZZO DEI CONSERVATORI Francesco Benelli Le colonne ioniche alveolate, o inalveolate, messe in opera da Michelangelo nel muro interno del portico del palazzo dei Conservatori in Campidoglio, hanno una funzione realmente portante1 (fig. 1). Esse appartengono a un sistema strutturale a baldacchino composto da due coppie di colonne, di cui la prima coppia, posta lungo la facciata, è inquadrata dai pilastri dell’ordine gigante, mentre la seconda è costituita dalle corrispondenti colonne alveolate poste sul muro interno del portico; tale sistema sorregge gli architravi di scarico, col fine di escludere i vecchi muri preesistenti dal peso delle strutture superiori. Tuttavia le colonne alveolate svolgono anche una duplice funzione visiva: la prima è quella di evidenziare l’indipendenza del citato sistema strutturale a baldacchino sia dall’ordine gigante della facciata sia dal muro nel quale sono inserite2 (fig. 2); la seconda è quella di inquadrare, a mo’ di vestibolo, ciascun ingresso alle Corporazioni delle Arti che nel palazzo avevano la loro sede3. Tale duplice effetto visivo non sarebbe stato così evidente se si fossero utilizzate semplici semicolonne addossate al muro le quali, oltre che poco diffuse nel vocabolario architettonico michelangiolesco4, avrebbero fatto apparire il sistema strutturale eccessivamente dipendente dalla parete di fondo, come accade nell’archetipo brunelleschiano di Santo Spirito e, ancor più, in quello di San Lorenzo, dove l’impiego di paraste appiattisce ulteriormente il senso dell’unità volumetrica-strutturale5. Inoltre, per inserire la colonna dentro la parete del portico, Michelangelo predispose uno scavo nella cortina muraria al fine di alloggiare anche i blocchi di travertino che costituiscono l’alveo delle colonne. Questo sistema alveo-colonna rappresenta anche una soluzione chiaroscurale che permette di 138 esaltare la forma della colonna in condizioni di relativa penombra, secondo un atteggiamento affine alla sensibilità di uno scultore. La colonna alveolata è quindi la migliore soluzione possibile per soddisfare le esigenze poste dalla trasformazione dell’edificio capitolino, confermando la celebre intuizione albertiana riguardo la duplice funzione strutturale e decorativa propria di questo elemento6. Il termine alveo, derivato dal latino alveus, significa incavo ottenuto tramite escavazione; ma già dall’antichità questo significato era stato allargato ben oltre la sua originaria enunciazione, finendo per essere impiegato frequentemente anche al di fuori della terminologia tecnica7. La colonna alveolata non figura come argomento della trattatistica rinascimentale e la sua definizione appartiene alla storiografia moderna che, tuttavia, giudicando a posteriori, ha evitato di considerare molte delle sue implicazioni formali8. Prima della sua adozione nel palazzo dei Conservatori è raro trovare l’insieme alveo-colonna in esempi di architettura tanto antica, quanto medievale e rinascimentale. Questo insieme inizia invece ad avere una certa diffusione a Roma solo successivamente all’intervento di Michelangelo in Campidoglio, in esempi quali l’ordine interno della chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri di Jacopo Barozzi da Vignola, il fronte della chiesa di Sant’Andrea della Valle di Carlo Rainaldi e soprattutto la trionfale facciata della basilica di San Pietro di Carlo Maderno9. Per tutti i casi precedenti è necessaria un’analisi individuale, dal momento che l’apparente somiglianza di queste soluzioni più antiche con il modello capitolino può essere spiegata con considerazioni strutturali e formali assai diverse, come per esempio il riuso di elementi architettonici di spoglio non modificabili oppure il rispetto di vincoli derivati dalla natura delle fondazioni. Tranne le poche eccezioni riconducibili a deliberate scelte formali, l’alveo può essere l’unico tra i possibili espedienti decisi in corso d’opera per raccordare e adattare elementi architettonici contigui, appartenenti a fasi diverse di costruzione. Più che un motivo formale, l’alveo ha rappresentato un escamotage di cantiere tipico del più tradizionale bagaglio tecnico non solo di architetti, ma anche e soprattutto, di muratori, scalpellini e cavapietra10. Diventa pertanto di secondaria importanza se Michelangelo conoscesse o meno esempi di colonna alveolata al tempo della progettazione del ricetto della Biblioteca Laurenziana, cominciata nel 1526. I disegni che riguardano quest’opera, anche se mostrano ripensamenti e correzioni sulla composizione e sull’altezza delle pareti, prevedono univocamente due costanti: l’uso di coppie di colonne libere e la loro collocazione entro nicchie rettangolari ricavate nello spessore murario, particolare che rivela la volontà di eliminare qualsiasi aggetto dal filo del muro per evitare di poggiare in falso sul solaio della sala capitolare sottostante11. Tale soluzione nasce soprattutto da una necessità strutturale che dà modo a Michelangelo di avviare un complesso ragionamento sul rapporto tra superficie muraria e sostegni verticali incassati, già avviato sin dai progetti per i monumenti sepolcrali della Sagrestia Nuova. I muri del ricetto sono realizzati in laterizi rivestiti da intonaco e lo spazio per accogliere le colonne lapidee non è dunque scavato bensì lasciato libero, come un vuoto, al momento della posa in opera dei mattoni, in modo da ottenere una ritmica alternanza di masse murarie e spazi liberi che non corrisponde all’uso classico del termine alveus. Come è stato recentemente ipotizzato, le colonne del ricetto hanno una funzione puramente decorativa, come statue dentro nicchie e pertanto lasciano al tratto di muro pieno il vero compito strutturale12. La soluzione statica delle colonne incassate nel ricetto è pertanto ben diversa da quella impiegata nel sepolcro romano di Annia Regilla alla Caffarella, tradizionalmente indicato come prototipo antico13. In esso i due pilastri ottagonali alveolati in laterizio, presenti all’esterno di uno dei fianchi dell’edificio, mantengono la loro funzione portante quali parti effettive del muro, lasciando all’alveo una funzione puramente chiaroscurale. Ammesso che tale esempio sia stato tenuto presente da Michelangelo nel ricetto, egli ne fece comunque un uso strutturale e formale assai differente, dal momento che non si tratta di un alveo curvo, bensì di una nicchia rettangolare, e che le colonne sono prive della loro funzione portante. Nel palazzo dei Conservatori, come detto, il sistema alveo-colonna assume sia un significato formale (evidenziato dalla struttura a baldacchino delle quattro colonne ioniche, a sua volta vestibolo d’ingresso monumentale alle sedi delle Arti), sia gli anni dal 1534 al 1564 una valenza strutturale (messa in atto dalla colonna quale dispositivo per scaricare il peso dei muri superiori), volta ad alleggerire il carico del muro retrostante. In questo modo al sistema alveo-colonna viene anche restituita una immagine di grande forza scultorea come fosse veramente quella di un insieme di elementi scavati nella pietra viva, nonostante gli alvei siano formati da blocchi sovrapposti e le colonne costituite da rocchi impilati, senza alcuna corrispondenza fra le altezze reciproche di queste due componenti. Gli alvei ricavati dai blocchi assumono una forma a semicerchio, analoga, per esempio, agli alvei delle paraste lapidee della facciata del duomo di Pisa: effettivamente simile a ciò che si vede nelle cave di marmo quando la colonna sta per essere estratta dalla vena. Fin dall’antichità, nel caso in cui la colonna era estratta in posizione verticale, si procedeva inizialmente a sbozzare l’alveo intorno al fusto, fintanto che quest’ultimo non fosse completamente libero dal- 139 2. Roma, palazzo dei Conservatori, facciata. Dettaglio del livello inferiore della prima campata 3. Mariano di Jacopo detto il Taccola, Liber Tertius de ingeneis ac edifitiis non usitatis, fine della prima metà del XV secolo. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Palatino 766, cc. 14 verso-15 recto la materia circostante. Il procedimento è tuttora visibile in siti archeologici come le cave di Cusa in Sicilia, ma è ancor più chiaramente evidenziato nel disegno contenuto nel De ingeneis di Mariano di Jacopo, detto il Taccola (circa 1382-1453), in cui è visibile l’alveo semicircolare attorno alla colonna, ben simile a quello capitolino14 (fig. 3). Nella seconda edizione della Vita di Michelangelo, Giorgio Vasari testimonia che, durante l’approvvigionamento dei blocchi per la facciata di San Lorenzo a Firenze avvenuto tra 1516 e 1519, “consumò Michelangnolo molti anni in cavar marmi” ricavandone “cinque colonne di giusta grandezza” provenienti dalle cave apuane di Rozzeto, Seravezza e Stazzema15. Lo scultore doveva conoscere con esattezza la tecnica di scavo della colonna dalla parete di cava e al contempo aveva ben presente la forma che essa avrebbe assunto durante le diverse fasi della sua estrazione. Il metodo di scolpire un oggetto a partire dal suo fronte principale dopo averne tracciato il profilo – procedendo dall’alto verso il basso alla stessa maniera di come si sarebbe ottenuta una figura a mezzorilievo – coincide esattamente con la tecnica scultorea di Michelangelo descritta da Benvenuto Cellini16 e, dal punto di vista teorico, con quello che Michelangelo stesso scrive nel celebre attacco del Sonetto dedicato a Vittoria Colonna: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circonscriva / col suo superchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto”17. Anche Vasari aveva divulgato questa pratica scultorea michelangiolesca, paragonando il graduale disvelarsi della figura dal blocco di marmo a un modello tridimensionale immerso nell’acqua che affiora gradualmente18. Tale formarsi della figura fa si che la statua venga percepita dallo spettatore come se volesse mostrarsi dapprima da un punto di vista frontale privilegiato e in seguito attraverso vedute laterali19. Questa sequenza è esattamente quella con cui i sette baldacchini costituiti dalle quattro colonne ioniche nel portico del palazzo dei Conservatori sono individualmente percepiti: l’osservatore infatti – provenendo dalla piazza, diretto verso uno qualunque degli ingressi alle Arti – si trova costretto a una visione frontale della colonna che gradualmente si trasforma, approssimandosi verso l’ingresso in veduta laterale. Michelangelo sembra quindi aver immaginato il momento dell’estrazione della colonna dalla materia che la racchiudeva secondo quel personale metodo esecutivo proveniente dalla sua pratica di scultore, ma espresso attraverso elementi architettonici realizzati con le tecniche tipiche del cantiere edilizio. Il sistema alveo-colonna è pertanto impiegato da Michelangelo non come citazione di un motivo antico quanto piuttosto come memoria dell’estrazione in cava della colonna nel momento in cui da materia si trasforma in elemento architettonico. La colonna alveolata capitolina inserita nel retrostante muro – che, da una 140 parte, allude all’elemento architettonico nel momento della sua nascita in cava, e dall’altra, questo stesso elemento pienamente finito – manifesta in termini architettonici la forma retorica del contrapposto, ben noto a Michelangelo e volto a descrivere concetti discordanti o opposti20. Per quale motivo Michelangelo arriva a impiegare la colonna alveolata, intesa quale elemento scavato nella roccia, solo alla fi- ne della sua carriera? Certamente si può dire che questa scelta sia il risultato di un lungo percorso creativo e sperimentale avviato nei monumenti della Sagrestia Nuova e poi ripreso nel ricetto della Biblioteca Laurenziana. È certo però che nel palazzo dei Conservatori essa si trasforma da mero espediente di cantiere in un motivo figurativo di straordinaria fortuna e denso di nuovi significati teorici e poetici. 1 Bedon 2008, pp. 153-156, con bibliografia completa e ampia analisi critica della letteratura riguardante la tecnica utilizzata da Michelangelo per riadattare le murature preesistenti al nuovo edificio; sull’argomento si vedano anche, per le fasi di costruzione, Pecchiai 1950, pp. 122-125; per le tecniche di costruzione, Pagliara 1997, pp. 59-66; Rinaldi 1997, pp. 141-148. 2 Moretti 1966, pp. 444-454. 3 Bellini 2001, p. 70. 4 Si vedano le semicolonne della finestra-edicola della cappella dei santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo e quelle nel portale interno della sala di lettura della Biblioteca Laurenziana; semicolonne sono inoltre presenti in una pianta autografa dell’Archivio Buonarroti di Firenze (II-III, n. 30 verso; Corpus 493 verso), che rappresenta la sezione orizzontale del secondo livello di una delle proposte per il monumento dei Magnifici nella Sagrestia Nuova, cfr. C. Elam, scheda 12, in Elam 2006, pp. 185-187. 5 Bruschi 2006, pp. 114-115. 6 Alberti, ed. Orlandi 1966, vol. I, pp. 70-71 (libro I, cap. X) e pp. 194197 (libro III, cap. VI); su questi argomenti, cfr. Burns 1998, p. 125. 7 Lo storico romano Velleio Paterculo impiega il termine alveus per descrivere la realizzazione di una canoa ottenuta da un tronco di legno: “cavatus ex materiis alveus”, cfr. Velleius Paterculus, ed. Shipley 1924, p. 270 (libro II, cap. 107); forse l’unico a usare il termine con pieno significato architettonico è Vitruvio che impiega alveus sia per definire il concetto di concavo applicato allo stilobate del tempio: “Si enim ad libellam dirigetur, alveolatus narroti 80 A (Corpus 560 recto) destinato alla libreria segreta della Biblioteca Laurenziana, anche se a ben guardare gli alloggiamenti che accolgono le colonne poste a fianco delle nicchie angolari della pianta triangolare sono in realtà ottenuti dalla sporgenza delle paraste e non da scavo nel muro – che mantiene spessore costante – similmente al disegno per il portale del monastero di Santa Apollonia in Firenze, dubitativamente assegnato a Michelangelo, dove la colonna libera è accostata alla cornice della porta. Analoga relazione fra muro e colonna incassata dentro una nicchia rettangolare, come nel ricetto laurenziano, è contenuta nel verso del foglio dell’Ashmolean Museum, inv. n. 1846.78 (Corpus 605 verso) contenente un progetto iniziale per il portico del palazzo dei Conservatori analizzato da C. Elam, scheda 21v, in Elam 2006, pp. 204205. 12 Ackerman 2008, pp. 45-67, corregge quanto affermato nel precedente Ackerman 1961, pp. 108111, 153-156; sull’argomento, si veda anche la posizione espressa in Catitti 2007, pp. 97-98. 13 Per l’interpretazione dei modelli antichi da parte di Michelangelo, da ultimo Hemsoll 2003, pp. 52, 56. 14 Il disegno è databile agli anni 1431-1433; cfr. Mariano di Jacopo detto il Taccola, Liber Tertius de ingeneis ac edifitiis non usitatis, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Palatino 766, cc. 14 verso-15 recto; Taccola allega al disegno una dettagliata descrizione tecnica sul processo di escavazione in cava e sui principali modi di trasporto della colonna. 15 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, gli anni dal 1534 al 1564 oculo videbitur” sia per definire una vasca di pietra, cfr. rispettivamente Vitruvio, ed. 1997, vol. I, p. 254 (libro III, 4.5) e p. 582, in part. nota 321 (libro V, 10.1 e 10.4). 8 Per questi argomenti si rimanda a un mio più ampio studio in corso di pubblicazione dedicato alla storia e al significato della colonna alveolata dall’antico a Michelangelo. 9 A fronte del notevole successo riscontrato a Roma dalla colonna alveolata nel XVII secolo, ritengo di poter individuare l’ultima applicazione di questo elemento in città nel grande cortile settecentesco antistante la chiesa dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino, datata 17511752; cfr. Bevilacqua 1998, p. 110. 10 Ragioni costruttive e non linguistiche potrebbero spiegare il motivo della diffusione della “colonna a nicchia”, presente in regioni geografiche lontanissime: realizzata in mattoni essa si ritrova anche in posizione angolare, come nel mausoleo di Ismail il Samanid a Bukhara in Uzbekistan, databile all’inizio del X secolo o nei quattrocenteschi esempi veneziani di Ca’ del Duca e dell’Arco Foscari in Palazzo Ducale, ma si può aggiungere anche la tomba medievale Jeongjeon a Seoul nella Corea del Sud, dove colonne lignee sono alveolate all’interno di murature in laterizio. 11 Sulla Biblioteca Laurenziana, cfr. Elam 2002, pp. 208-239, in part. note 73-80. 12 Si vedano i disegni del British Museum di Londra, inv. n. 1946-7-1333 recto (Corpus 561 recto) e dell’Ashmolean Museum di Oxford, inv. n. 1846.54 (Corpus 191 recto); colonne pseudo-alveolate compaiono anche nel disegno di Casa Buo- vol. VII, p. 191; sui documenti relativi ai ripetuti soggiorni di Michelangelo presso le cave apuane, cfr. ivi, pp. 356-357; Wallace 1994; Wallace 2002, pp. 97-107; Zanchettin 2008a, p. 12. 16 “Et il miglior modo che si sia mai visto è quello che ha usato il gran Michelagnolo, il qual modo si è di poi che uno ha disegnato la veduta principale, si debbe per quella banda cominciare a scoprire con la virtù de’ ferri, come se uno volessi fare una figura di mezzo rilievo, e così a poco a poco si viene scoprendo”, Cellini, ed. Milanesi 1857, p. 198. 17 Rime, p. 82 (Sonetto 151). 18 “che il modo [di cavar de’ marmi le figure] è questo: che se e’ si pigliassi una figura di cera o d’altra materia dura, e si mettessi a giacere in una conca d’acqua, la quale acqua, essendo per sua natura nella sua sommità piana e pari, alzando la detta figura a poco a poco del pari, così vengono a scoprirsi prima le parti più rilevate, ed a nascondersi i fondi, cioè le parti più basse della figura, tanto che nel fine ella così viene scoperta tutta. Nel medesimo modo si debbono cavare con lo scarpello le figure de’ marmi; prima scoprendo le parti più rilevate, e di mano in mano le più basse: il quale modo si vede osservato da Michelagnolo ne’ sopradetti prigioni, i quali Sua Eccellenzia vuole che servino per esemplo de’ suoi accademici”, Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 273. 19 Su questo argomento si veda, per esempio, la classica descrizione in Hibbard 1985, p. 94. 20 Per il concetto di “contrapposto”, le sue origini nella retorica classica e la riscoperta nel XV secolo, Summers 1977b, pp. 336-361. 141 MICHELANGELO E LA DECORAZIONE SCULTOREA DELLA PIAZZA CAPITOLINA 1. Roma, palazzo dei Conservatori, vestibolo d’ingresso, lastra marmorea con iscrizione dedicatoria posta da Prospero Boccapaduli e Tommaso Cavalieri nel 1568 Claudio Parisi Presicce Aveva il Popolo Romano, col favore di quel papa [Paolo III], desiderio di dare qualche bella, utile e comoda forma al Campidoglio, ed accomodarlo di ordini, di salite, di scale a sdruccioli, e con iscaglioni, e con ornamenti di statue antiche che vi erano per abbellire quel luogo, e fu ricerco per ciò di consiglio Michelangelo, il quale fece loro un bellissimo disegno e molto ricco, nel quale da quella parte dove sta il senatore, che verso levante, ordin di travertini una facciata ed una salita di scale che da due bande salgono per trovare un piano […]. Dove per arricchirla dinanzi vi fece mettere i due fiumi a giacere antichi di marmo sopra a alcuni basamenti, uno de’ quali il Tevere, l’altro il Nilo, di braccia nove l’uno, cosa rara; e nel mezzo ha da ire in una gran nicchia un Giove. Seguitò dalla banda di mezzogiorno, dove il palazzo de’ Conservatori, per riquadrarlo, una ricca e varia facciata con una loggia da più piena di colonne e nicchie, dove vanno molte statue antiche, ed attorno sono vari ornamenti e di porte e finestre, che già n’è posto una parte; e dirimpetto a questa ne ha a seguitare un’altra simile verso tramontana sotto Araceli; e dinanzi una salita di bastioni di verso ponente qual sarà piana con un ricinto e parapetto di balaustri dove sarà l’entrata principale, con un ordine e basamenti, sopra i quali va tutta la nobiltà delle statue di che oggi è così ricco il Campidoglio.1 Con queste parole tratte dalla Vita di Michelangelo del 1568, Giorgio Vasari indica le linee fondamentali del progetto di rinnovamento del complesso capitolino. Nell’ideazione della nuova scenografia le statue collocate davanti alla scalinata del 142 Palazzo Senatorio e sopra il parapetto di coronamento dei due palazzi laterali giocano un ruolo fondamentale. La collocazione delle sculture alla sommità degli edifici richiama un motivo di età classica2, documentato all’epoca da rilievi figurati di età romana; nel desiderio di restituire al Campidoglio l’antico decoro, Michelangelo rivolse il suo sguardo alle testimonianze del passato. A ciò sembra alludere l’iscrizione posta nel vestibolo del palazzo dei Conservatori da Prospero Boccapaduli e Tommaso Cavalieri nel 1568: “maiorum suorum praestantiam ut animo sic re quantum licuit imitatus deformatum iniuria temporum Capitolium restituit”3 (fig. 1). Uno dei tre pannelli marmorei provenienti da un arco trionfale di Marco Aurelio, giunti in Campidoglio nel 1515 e collocati in un primo tempo nel cortile del palazzo dei Conservatori, costituiva all’epoca la sola raffigurazione antica del colle capitolino (fig. 2): l’imperatore compie un sacrificio davanti al tempio di Giove Capitolino, affiancato da un portico coronato da statue4. Il richiamo appare significativo in quanto la scena si svolge in Campidoglio, il rapporto prospettico tra il tempio di Giove e il portico laterale riflette l’accostamento tra il palazzo del Senatore e il palazzo dei Conservatori e, infine, il protagonista è lo stesso imperatore a cui era dedicata la statua equestre, collocata al centro della platea capitolina. Nel rilievo il tempio di Giove occupa idealmente il posto del Palazzo Senatorio, la cui scalinata sembra ripetere le linee di un triangolo frontonale; il progetto iniziale michelangiolesco prevedeva al centro di essa la collocazione dell’immagine di Giove, con i due fiumi ai lati e con statue sui piedistalli dei parapetti in funzione acroteriale. Quanto ai due palazzi laterali, Vasari parla di una “loggia da più piena di colonne e nicchie, dove vanno molte statue antiche”: quest’ultima affermazione, non del tutto chiarita, potrebbe alludere alla volontà di Michelangelo di collocare lungo la parete di fondo dei portici una serie di nicchie, nelle quali ospitare sculture antiche, esattamente come nel porticato del teatro del Belvedere vaticano costruito da Donato Bramante. L’idea iniziale sarebbe stata poi abbandonata, con l’inserimento di una serie di porte al posto delle nicchie, garantendo così alle corporazioni e ai consolati di mestieri che vi avevano sede un accesso dall’esterno del palazzo. Le statue nelle nicchie sotto i porticati costituivano la premessa ideale di quelle collocate sui parapetti della scalinata del Palazzo Senatorio, presenti nel disegno preparatorio (fig. 3) e nelle incisioni di Stefano Dupérac (cat. 30). L’eliminazione delle prime determinò conseguentemente quella delle seconde. In un foglio di Casa Buonarroti, il 97 A verso (fig. 4; Corpus 616 verso) interpretato come uno studio di finestra o collegato con l’edicola dello scalone del palazzo dei Conservatori5, potrebbe essere conservata la raffigurazione di una delle nicchie mai realizzate. Secondo la testimonianza delle vedute prospettiche di Dupérac, Michelangelo aveva previsto di collocare alla sommità dei palazzi capitolini immagini delle divinità dell’antica Roma, a partire da Giove e Giunone e dai loro rispettivi figli Ercole e Marte, collocati in coppia sui risvolti laterali dei due palazzi visibili dalla parte della città nuova6. Al piano inferiore dovevano trovare posto gli uomini illustri, le cui virtù furono espresse simbolicamente dai trofei raffigurati sui soffitti in stucco del portico del palazzo dei Conservatori (fig. 5). Dei personaggi scelti da Michelangelo, conosciamo soltanto le quattro figure loricate poste sulla balaustra della platea capitolina nell’edizione del 1568 della veduta prospettica di Dupérac, nelle quali si possono riconoscere le statue di Giulio Cesare, di ‘Ottaviano Augusto’, di Costantino e di suo figlio Costantino II7. Opponendo forti resistenze alla volontà di Paolo III di trasferire sulla piazza i colossi di Montecavallo8, l’artista fiorentino intendeva conservare coerenza e unità al suo progetto, sia che avesse riconosciuto nelle sculture le immagini dei Dioscuri9, sia che le identificasse con Alessandro Magno, un condottiero che non aveva avuto alcun ruolo nella storia di Roma. Con la sistemazione delle statue antiche sulla piazza capitolina, Michelangelo non intendeva solo restituire al colle l’antica maiestas, ma probabilmente aveva accarezzato il disegno di proporre una sorta di cosmologia della grandezza di Roma, che attraverso le immagini immobili degli dei e degli uomini valorosi ne perpetuasse la memoria, ma il suo intendimento non è stato pienamente realizzato. Tuttavia, il messaggio intrinseco del suo progetto era stato in parte recepito da Tommaso Cavalieri e dagli altri suoi seguaci e ha costituito la linfa vitale che ha portato gli anni dal 1534 al 1564 in sostanza alla realizzazione del disegno complessivo, seppure con i ritardi e i cambiamenti intervenuti nel frattempo. Gran parte degli studiosi che si sono occupati della piazza capitolina ritiene che il progetto di ristrutturazione della platea e dei palazzi del Campidoglio non fosse stato concepito nel dettaglio fin dall’inizio, ma venisse realizzato con aggiustamenti progressivi che l’artista fiorentino selezionava, tra le diverse ipotesi formulate, al momento stesso di passare alla fase esecutiva dell’opera. Nonostante ciò l’arredo scultoreo della piazza appare concepito secondo un disegno unitario, che prende forma nella mente dell’artista fin dal suo primo intervento nel 1539 e risulta documentato nelle sue linee generali definitive attraverso l’incisione stampata trent’anni dopo da Dupérac, che esplicitamente fa riferimento all’exemplar del maestro fiorentino. Il basamento michelangiolesco di Marco Aurelio Un documento della Biblioteca Apostolica Vaticana ci informa che i lavori per il trasferimento del gruppo equestre di Marco Aurelio dal Laterano in Campidoglio iniziarono per ordine di papa Paolo III Farnese (1534-1549) il 9 gennaio 1538, tre giorni dopo il Capitolo Lateranense registrò la rimozione della statua10. Il monumento giunse sulla platea capitolina probabilmente il 18 gennaio e il 25 il pontefice salì sul colle per una visita. Il diario del suo cerimoniere, Biagio Martinelli da Cesena, ci informa che “dopo pranzo il papa giunse in città per porta S. 143 2. Roma, palazzo dei Conservatori, primo ripiano dello scalone, pannello marmoreo proveniente da un arco trionfale di Marco Aurelio con raffigurazione del colle capitolino, 161-180 d.C. Sebastiano e attraversò diversi luoghi insieme ai cardinali visitando le sue nuove costruzioni presso le mura dell’urbe e l’area del Campidoglio appena spianata con il cavallo bronzeo di Costantino trasferito dal Laterano sulla platea capitolina”11. Il documento fa esplicito riferimento ai lavori di livellamento della piazza, primo passo del grande progetto di ristrutturazione che sarà completato solo nel secolo successivo. Manca, invece, qualsiasi indicazione sullo stato di conservazione della statua equestre, ossia se fosse poggiata per terra, se fosse collocata su un alloggiamento provvisorio o se fosse già sistemata su un basamento appositamente costruito. In una lettera indirizzata al duca di Urbino Francesco Maria della Rovere dal suo corrispondente romano Giovan Maria della Porta12, nella quale si parla del trasferimento della statua voluto da Paolo III, si fa menzione del tentativo di convincere “chi ha cura di farvi la nova base” a conservare in essa memoria del papa Sisto IV della Rovere (1471-1484), che aveva realizzato l’ultima sistemazione al Laterano. Questa notizia da un lato conferma che il basamento sistino, a noi noto da alcuni disegni, dall’affresco di Filippino Lippi nella cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva e dalla descrizione riportata da Francesco Albertini nel suo Opusculum pubblicato nel 1510, non giunse in Campidoglio con il Marco Aurelio e dall’altro autorizza a ritenere che la persona incaricata di realizzare il primo 144 basamento, di cui nella lettera non viene menzionato il nome, non fosse Michelangelo, con cui il corrispondente romano del duca di Urbino aveva rapporti diretti. Nella stessa epistola si afferma che l’artista fiorentino “contrastò assai, per quanto lui mi dice, che questo cavallo non se levasse, parendigli che ’l stesse meglio dove l’era, et che se lui non havesse tanto disuaso il papa che S. S.ta voleva similmente levare gli due cavalli e statue di monte Cavallo”13. Il coinvolgimento diretto di Michelangelo compare per la prima volta più di un anno dopo la visita del papa in Campidoglio. Nella seduta del 22 marzo 1539 il Consiglio Pubblico stabilì di spendere la somma di 320 scudi, raccolta grazie alla riscossione di alcune pene pecuniarie, “partim in reformatione statue M. Antonii in platea Capitolii existentis secundum iudicium d. Michaelis Angeli sculptoris et partim circa muros fiendos in dicta platea”14. Il muro da realizzare può essere identificato con quello che delimitava la piazza verso l’Aracoeli. Costruito in posizione simmetrica rispetto alla facciata del palazzo dei Conservatori, aveva una nicchia al centro che, in base al disegno dell’Anonimo di Braunschweig (fig. 12 a p. 134) e all’incisione edita da Bernardo Gamucci (cat. 28), accolse il gruppo del leone che assale il cavallo, indicata da Flaminio Vacca come una delle sculture antiche più ammirate da Michelangelo. La parola adoperata con riferimento all’intervento sul Marco Aurelio (“reformatione”) risulta, invece, meno esplicita e ha dato luogo a interpretazioni diverse. L’ipotesi più accreditata interpreta il testo del documento con riferimento alla costruzione di un nuovo basamento, realizzato inizialmente senza i “membretti”, ossia i pilastrini angolari aggiunti in seguito. Non è escluso, tuttavia, che possa trattarsi di un vero e proprio restauro15, non documentato ma possibile, in considerazione dei sicuri traumi subiti dalla statua prima e durante il trasferimento. A un intervento cinquecentesco potrebbero essere attribuiti, per esempio, il rifacimento del culmine della capigliatura nella testa del cavaliere e due grossi risarcimenti in bronzo sul petto e sul gluteo destro, che presentano un buon modellato, sono saldati con la tecnica a cordone e sono privi di doratura, ripristinata periodicamente almeno fino al tempo di Sisto IV16. L’esistenza di un primo basamento quadrangolare17 è testimoniata da una veduta fedele della sistemazione della piazza capitolina, databile negli anni quaranta del XVI secolo, raffigurata in un affresco della sala delle Aquile nel palazzo dei Conservatori (cfr. fig. 5 a p. 130), considerata attendibile per l’estrema cura con cui l’autore ha riprodotto l’assetto della piazza18. Il piedistallo della statua equestre è raffigurato ancora di forma quadrangolare nella pianta di Leonardo Bufalini del 1551, che documenta per la prima volta l’avvenuta costruzione del muraglione con la nicchia verso l’Aracoeli, mentre nella sua forma 3. Stefano Dupérac (attribuito), Veduta di piazza del Campidoglio (disegno preparatorio in controparte). Oxford, Christ Church College definitiva è riprodotto in una edizione successiva della pianta Bufalini (fig. 6) e nella veduta anonima pubblicata nello Speculum di Lafrèry (cat. 26), datata entro il 156319. Il basamento attuale (fig. 7), il cui disegno è unanimemente attribuito a Michelangelo, è il frutto di un geniale ripensamento che contempera un affinamento estetico delle linee progettuali con la necessità pratica di ampliare il piano d’appoggio al quale ancorare la statua equestre. Il progetto iniziale, privo dei quattro “membretti” angolari, era stato definito entro il mese di marzo del 1540, data della partenza da Roma di Francisco de Hollanda20, autore di un disegno del Codice Escurialense in cui compare per la prima volta la raffigurazione del piedistallo curvilineo21. Sembra probabile, tuttavia, che la veduta non sia ripresa dal vero, ma riproduca il disegno del basamento preparato da Michelangelo, raffigurato anche su una medaglia coniata sotto il pontificato di Paolo III22. Se si eliminano i quattro “membretti” e gli inserti centrali in travertino, i blocchi del piano d’appoggio nei quali è lavorata la cornice superiore del basamento (fig. 8) combaciano in modo sorprendente e presentano fori per grappe che si corrispondono perfettamente. Questa osservazione è stata la base di partenza di Paul Künzle per ipotizzare l’esistenza di un basamento di dimensioni più piccole costituito, almeno nei blocchi superiori, dagli stessi elementi che compongono il monumento attuale23. Il rilievo del piano superiore eseguito gli anni dal 1534 al 1564 in occasione della rimozione della statua e lo studio che ne è derivato, con particolare riferimento alle aree di appoggio degli zoccoli del cavallo, ha dimostrato, tuttavia, che nell’ipotetico piedistallo di dimensioni minori i perni delle gambe anteriore sinistra e posteriore destra cadrebbero su zone integre dei blocchi corrispondenti24. Da questa constatazione si deduce che il basamento di dimensioni ridotte progettato da Michelangelo sia stato modificato prima che vi fosse ancorato il gruppo bronzeo. Non è da escludere che l’aggiunta dei “membretti” sia avvenuta in corso d’opera, ossia durante la lavorazione dei blocchi che lo compongono, dato che il taglio di forma ellittica degli elementi che costituiscono il corpo centrale e la rifinitura delle cornici avevano ridotto in modo eccessivo la superficie su cui la statua equestre doveva distribuire il proprio peso. In tal senso può essere accolta la proposta di Anna Mura Sommella che la somma pagata allo scalpellino Benedetto Schiena nel 1561, riportata nel libro dei conti di Prospero Boccapaduli, sia il corrispettivo non solo dell’esecuzione dei quattro “membretti”, ma anche della rilavorazione del basamento parallelepipedo più antico e dell’aiuto dato a mastro Ludovico Caronica per “smurare e rimurare ditto posamento”25. L’ammontare del pagamento – 45 scudi – appare congruo se rapportato ai 320 scudi spesi per la costruzione del muro sul lato della piazza verso l’Aracoeli e per la “reformatione” del monumento eque145 4. Assistente di Michelangelo Buonarroti, Studio di nicchia (forse riferibile al portico esterno del palazzo dei Conservatori). Firenze, Casa Buonarroti, 97 A verso 5. Roma, palazzo dei Conservatori, portico esterno, soffitto in stucco con raffigurazione di trofeo forse in occasione della costruzione dei tre gradini che delimitano l’area centrale di forma ovale (“ovato”), sovrintende alla realizzazione del nuovo piedistallo indicando sul posto le modifiche che resero più sicura la dislocazione della statua equestre. La “reformatione” affidata al maestro fiorentino nel 1539 potrebbe sottendere principalmente il problema statico, risolto verosimilmente con il recupero del sistema di ancoraggio originario, costituito da lunghi perni inseriti nelle gambe e fissati nel basamento. Questo sistema permise di eliminare i sostegni posti sotto le gambe del cavaliere quando la statua si trovava al Laterano, ed evitò al monumento i traumi subiti in precedenza, in occasione dei frequenti crolli successivi alla perdita dell’appoggio sotto la gamba sollevata del cavallo30. stre affidata a Michelangelo, e soprattutto se si confronta con i 53 scudi e 50 baiocchi pagati nel 1565, dopo un contenzioso, al capomastro che aveva costruito il castello di legno, rimosso e ricollocato la scultura bronzea e il piedistallo (palamidon)26. Anche l’incisione di Nicolas Beatrizet edita da Lafrèry nel 1548 (cat. 27), la decorazione in stucco di Luzio Luzi nel palazzo dei Conservatori27 (fig. 9) e i bronzetti che riproducono la statua capitolina con il basamento privo dei “membretti”28 non raffigurano l’opera già realizzata, ma soltanto il disegno originale michelangiolesco, reso noto probabilmente proprio attraverso il rame pubblicato nello Speculum, alla vigilia della morte di Paolo III. Alla luce di queste considerazioni appare probabile che l’intervento di Michelangelo sul monumento equestre sia avvenuto verosimilmente in due momenti diversi, come per il progetto di ristrutturazione della piazza29. Superando l’iniziale riluttanza al trasferimento del Marco Aurelio, l’artista dapprima fornisce il suo “iudicium” per la sistemazione della statua e traccia il disegno per un nuovo basamento; in seguito, grazie alla ripresa dei lavori sotto la spinta di papa Pio IV Medici (1559-1565), 146 La balaustra alla sommità della scalinata di accesso alla piazza In un’incisione anonima raffigurata in controparte conservata agli Uffizi di Firenze (cat. 29), delle due sculture previste su ciascun lato della balaustra in corrispondenza dei piedistalli, appare indicata solo la sagoma della figura collocata sull’angolo dove il parapetto s’interrompe, incontrando la cordonata di accesso al colle. Evidentemente solo per la coppia di statue centrali era stato già stabilito il soggetto. Che i quattro piedistalli lungo la balaustra, ben evidenziati anche nella pianta anonima pubblicata da Bartolomeo Faleti nel 1567 (fig. 10), fossero stati concepiti fin dall’inizio come basamenti di statue, è documentato dal disegno preparatorio di Stefano Dupérac già rovesciato per il rame con la veduta prospettica della piazza capitolina, conservato nel Christ Church College di Oxford31 (fig. 3). Esso riflette forse il progetto originario di Michelangelo, prima che fosse concepito il disegno interno dell’ovato con la statua equestre di Marco Aurelio al centro, e riproduce la sagoma di tutte e quattro le statue collocate sul parapetto della cordonata. Per l’identificazione delle sculture non vi sono elementi sicuri, ma le statue dei piedistalli centrali appaiono delineate con maggior precisione. In base all’indicazione degli arti inferiori e alla presenza di un lembo del panneggio su una spalla è verosimile che in questa posizione fossero previste fin dall’inizio due statue imperiali loricate. L’incisione di Dupérac con la veduta prospettica della piazza capitolina edita da Faleti nel 1568 (fig. 11) consente di riconoscere nelle figure centrali del parapetto le due statue raffiguranti Costantino Augusto e suo figlio Costantino Cesare, trasferite in Campidoglio da Montecavallo. In particolare quella di destra, seppure disegnata con qualche variazione, presenta le stesse caratteristiche della statua dell’imperatore sia per l’abbigliamento sia per la posa sia per la presenza dello scettro, che è ricordato da Ulisse Aldrovandi e compare nel disegno della statua eseguito da Pierre Jacques tra il 1572 e il 157732. Papa Paolo III, abbandonata l’iniziativa di trasferire sulla piazza i due colossi del Quirinale, forse anche per l’opposizione di Michelangelo, decise di farvi trasportare le statue della famiglia imperiale di Costantino, che avevano un significato simbolico analogo a quello connesso con la statua equestre di Marco Aurelio. Le sculture furono condotte in Campidoglio tra il 153633 e il 154434 e furono subito destinate a occupare il luogo più eminente dell’arredo scultoreo progettato per la nuova platea capitolina. Nella veduta prospettica di Dupérac, però, compaiono ben delineate quattro statue: due sui fianchi della cordonata e due quasi alle estremità dei parapetti. In queste ultime sono verosimilmente riconoscibili quelle di Giulio Cesare e del Navarca, all’epoca identificato con “Ottaviano Augusto”. Le due sculture furono offerte ai magistrati capitolini da monsignor Alessandro Rufini, vescovo di Melfi, quale risarcimento per una garanzia prestata a favore di alcuni appaltatori pubblici che non rispettarono i loro impegni35. La proposta fu accettata il 15 dicembre 1562 e le due statue risultano già presenti nel palazzo dei Conservatori almeno dal 1565, dal momento che i documenti d’archivio36 datano a questo anno e al seguente i restauri delle statue, eseguiti da Nicolò Longhi, e la lavorazione dei piedistalli per mano dello scalpellino Benedetto Schiena, posti nella sala degli Imperatori (oggi dei Capitani) che da essi prese nome37. La scelta delle due sculture da collocare sul parapetto vicino alle statue dei Costantini può essere attribuita allo stesso Michelangelo. Nella veduta prospettica riprodotta nell’incisione del 1568 di Dupérac sono illustrate fedelmente le idee dell’artista fiorentino relative all’arredo scultoreo della piazza, anche a distanza di quattro anni dalla morte, come del resto indica l’iscrizione incisa nel cartiglio in alto a destra: “Capitolii quod S.P.Q.R. impensa ad Michaelis / Angeli Bonaroti eximii architecti exemplar / in anteiquum decus restitui posse videtur tabula / accuratissime Stephani Dupérac Parisiensis Galli / opera delineata senatoris III virorum Urbis / conservatorum praetoria aream gradus moeni/ana complectens Romae Kal. Octobris anno salutis / MDLXVIII”. La dedica della lastra in rame a Pio V Ghislieri (1566-1572) con le parole “S.D.N. Pii V pont. max. liberalitati dicatum” è strettamente connessa con la donazione delle statue del Belvedere vaticano, effettuata dal pontefice due anni prima, proprio per consentire che i parapetti dei palazzi capitolini fossero decorati secondo le indicazioni del progetto michelangiolesco. Nella nuova incisione della veduta prospettica di Dupérac pubblicata da Antonio Lafrèry nel 1569 (cat. 30) le due statue centrali scompaiono e sono sostituite dai Dioscuri, collocati in posizione affrontata su due piedistalli notevolmente più ampi dei precedenti. La datazione ravvicinata delle due diverse redazioni della stampa farebbe supporre un intervento del papa, ma è gli anni dal 1534 al 1564 difficile pensare che la sostituzione sia avvenuta come conseguenza della disapprovazione, da parte del pontefice, della precedente disposizione delle statue sulla balaustra. Con la seconda proposta, infatti, per volontà dei magistrati capitolini si eliminano definitivamente dal prospetto della piazza rivolto verso la città non le statue di Giulio Cesare e di “Ottaviano Augusto”, ma i simulacri di Costantino e di suo figlio, immagini simboliche che legavano fin dalla più antica tradizione medievale l’impero romano con l’autorità papale, scelte da Paolo III proprio in funzione dell’appropriazione del colle capitolino da parte della Curia38. Nessuna menzione del papa, inoltre, compare nelle due iscrizioni dedicatorie apposte qualche anno dopo sui basamenti dei due gruppi scultorei. Pur escludendo che l’incisione del 1569 riproponga il vecchio progetto di papa Farnese di trasferire il gruppo di Montecavallo, lo stato frammentario dei colossi marmorei da poco rinvenuti indusse Dupérac a disegnare i gruppi scultorei secondo lo schema compositivo delle statue del Quirinale, ma con le caratteristiche iconografiche dei Dioscuri capitolini, soprattutto il lungo mantello allacciato su una spalla e la testa terminante a forma di pileo39. Del resto i due giganti di Montecavallo, interpretati inizialmente come raffigurazioni di Alessandro con il cavallo Bucefalo, furono identificati con Castore e Polluce soltanto nel 1638 su proposta di Perrier40, mentre i due colossi capitolini furono riconosciuti come Dioscuri fin dall’inizio. 147 6. Anonimo, Pianta di Roma, con aggiornamento della pianta di Bernardo Bufalini del 1551. Particolare della piazza capitolina con piedistallo della statua equestre di Marco Aurelio secondo il disegno originario di Michelangelo. Roma, Biblioteca Nazionale Centrale 7. Roma, piazza del Campidoglio, basamento della statua equestre di Marco Aurelio realizzato su disegno di Michelangelo entro il 1563 8. Rilievo del piano superiore del basamento marmoreo della statua equestre di Marco Aurelio Nell’incisione di Dupérac sul palazzo dei Conservatori compaiono nove statue. La scultura posta al di sopra della parasta angolare è una figura maschile seminuda con il braccio destro sollevato che tiene il fulmine (fig. 14b). Si tratta senz’altro di Giove e può essere identificato con la statua colossale di Zeus in marmo pario (cat. 43), proveniente dal Belvedere vaticano, già nell’atrio del Museo Capitolino e dal 1956 sullo scalone del palazzo Braschi48. In considerazione della sua altezza, a essa fa riferimento probabilmente Vasari, quando nel descrivere il disegno michelangiolesco della facciata del Palazzo Senatorio ricorda che “nel mezzo ha da ire in una gran nicchia un Giove”49. La scultura, indicata da Michelangelo come emblema della memoria capitolina, raggiunse subito grande fama e fu raffigurata in una delle cento tavole pubblicate da Giovanni Battista Cavalieri, che reca la scritta “Iouis signum marmoreum Romae in Capitolio”50 (cat. 45) e nella scelta di tavole ripubblicate da Lorenzo Vaccari (cat. 44). La statua giunse in Campidoglio soltanto dopo la morte del maestro fiorentino, in seguito alla donazione delle sculture del Belvedere vaticano. Sebbene a essa nella sistemazione definitiva delle opere sia stata assegnata una diversa destinazione, la scelta di Michelangelo di collocare nella nicchia centrale della facciata del Palazzo Senatorio una statua conservata in Vaticano è un’importante testimonianza del ruolo avuto dall’artista nell’acquisizione del complesso scultoreo necessario per realizzare il progetto di allestimento della piazza capitolina. La donazione di Pio V al Popolo Romano di gran parte delle sculture antiche raccolte nel Belvedere vaticano dai suoi predecessori, soprattutto da Giulio III Chiocchi del Monte (15501555) e da Pio IV avvenne due anni dopo la morte di Michelangelo, ma certamente scaturì dalle necessità connesse con il progetto di decorazione scultorea della piazza capitolina. Della munificenza pontificia diede comunicazione al Consiglio pubblico del 9 febbraio 1566 il conservatore Gianfrancesco Ridolfi: 9. Luzio Luzi, decorazione in stucco della volta con raffigurazione della piazza Capitolina, 1575-1577. Roma, palazzo dei Conservatori, secondo ripiano dello scalone Il piano di ristrutturazione della piazza capitolina si interrompe subito dopo la morte di Michelangelo fino alla fine del 1577, quando furono avviati i lavori per l’abbassamento del livello della piazza, la costruzione della seconda rampa di accesso e la ristrutturazione della cordonata centrale. Per tutto questo periodo non abbiamo altre notizie delle due statue colossali, che fino al completamento delle balaustre, avvenuto nel 1582, rimasero all’aperto nel luogo dove erano state trasportate. La sostituzione delle figure centrali della balaustra con le due statue di Castore e Polluce da poco rinvenute scaturì, quindi, da una decisione autonoma dei magistrati capitolini. Un ruolo determinante va assegnato probabilmente a Giacomo della Porta, architetto del Popolo Romano almeno dal dicembre 1564, e a Tommaso Cavalieri, depositario dei disegni di Michelangelo41. Senza dubbio il significato storico dell’intervento dei due gemelli divini in favore dei romani presso il lago Regillo indusse i magistrati capitolini a decidere di collocare le due statue colossali all’ingresso della piazza capitolina. I due figli di Giove, antico sovrano del colle, erano il simbolo del favore divino all’ascesa e al predominio della Roma repubblicana, fondata sulla virtus che i cittadini testimoniavano coralmente nelle battaglie. La stessa memoria storica, insieme ad altri tre episodi dell’antica storia di Roma, sarà dipinta da Tommaso Laureti tra il 1587 e il 1594 sulle pareti della sala dei Capitani del palazzo dei Conservatori, nell’ambito di un programma decorativo che celebrava le virtù civiche romane42. Il significato attribuito all’immagine dei Dioscuri dai magistrati capitolini è confermato dalla presenza ai piedi dei basamenti nell’incisione di Dupérac di due globi, simboli tradizionali della sovranità universale di Roma, espressa concretamente negli anni successivi con l’erezione del miliario sormontato dal globo appartenente al colosso bronzeo di Costantino, denominato palla Sansonis. 148 Il Giove nella nicchia del Palazzo Senatorio e la donazione di Pio V Nel disegno anonimo in controparte conservato agli Uffizi di Firenze (cat. 29) con la raffigurazione del progetto di ristrutturazione della piazza capitolina43, sopra le balaustre del palazzo dei Conservatori e del Palazzo Senatorio sono indicate le sagome delle sculture. L’arredo scultoreo dei palazzi compare pure nel disegno preparatorio rovesciato per il rame, conservato nel Christ Church College di Oxford (fig. 3), che riproduce la veduta prospettica della piazza capitolina secondo l’exemplar di Michelangelo44. Il disegno è identico alle incisioni di Dupérac del 1568-156945, ma senza la torre e senza l’ovato con il monumento equestre di Marco Aurelio. La raffigurazione precisa delle sculture da collocare sulle balaustre dei palazzi capitolini è indicata per la prima volta nell’incisione di Dupérac del 1568, con alcune varianti nell’edizione del 1569, ripetute senza mutamenti nelle due redazioni successive46, databili nel 1583 per la presenza delle statue sulla torre (fig. 12) e nel 1590 circa per la presenza dei Trofei di Mario accanto ai Dioscuri (fig. 13). La disposizione delle sculture documenta l’esistenza di un progetto complessivo di arredo scultoreo, che rappresenta il più antico programma di recupero dell’antico concepito con finalità di carattere ideologico. La presenza delle statue restituiva al colle capitolino la sacralità dell’età antica e nel contempo indicava nel Campidoglio, erede della tradizione classica, il locus publicum per eccellenza. Nei documenti contemporanei le sculture vengono considerate proprietà del Popolo Romano, che attraverso le attività dei magistrati esercitava la propria sovranità sulla res publica. La trasformazione della piazza capitolina secondo una nuova concezione politica della memoria fu attuata sulla base del progetto architettonico di Michelangelo, al quale va attribuita evidentemente anche la scelta dei soggetti da utilizzare per l’arredo scultoreo. La selezione delle statue da porre sulle balaustre dei palazzi capitolini denota il superamento della cultura antiquaria di tipo erudito, come quella che aveva spinto Pirro Ligorio a restituire un nome alle immagini raccolte senza coerenza nel Belvedere vaticano47. gli anni dal 1534 al 1564 La Santità di Nostro Signore come principe benigno et amoreuole da se stesso mosso da la bontà sua ha liberalmente donato al Popolo per magnificenza et grandezza del nostro palazzo di Campidoglio tutte le statue che sono nel teatro di Beluedere eccetto per le rinchiuse. Il che oltre che dimostra il suo buon animo uerso questo Popolo dà ancora speranza alla giornata di altri doni et gratie non solo simili ma anche molto maggiori. Donde conoscendosi tanta amoreuolezza et liberalità di sua Beatitudine uerso del Popolo, ci parrebbe conueniente che noi parimenti a lui ce li mostrassimo in qualche parte grati con alcun segno di laude et honore di quella et memoria perpetua della liberalità sua. / Decretum fuit. / Ad perpetuam huius rei memoriam et pro incolumitate diuturnaque Sanctitatis suae uita, proque foelici huius almae Urbis totiusque christianitatis statu quotannis perpetuo in Ecclesia Beatae Mariae Super Mineruam in die natiuitatis coronationisque Sanctitatis Suae die scilicet xvii ianuarii celebretur solemnis missa cui uniuersus magistratus interueniant simulque calicem argenteum deauratum quatuorque faces cereas candidas eidem ecclesiae offerantur. / Cui etiam supplicetur ut statuta et decreta aliorum pontificum innouare dignetur super eo quod aliae statuae et urbis antiquitates nullatenus ab urbae extrahi possint. / Iidemque magistratus et viri nobiles eligendi ut statuae donatae huiusmodi in Capitolium conducantur curare debeant. / et pro impensa ad hoc necessaria amplam 149 10. Anonimo, Pianta della piazza del Campidoglio, 1567, incisione edita da Bartolomeo Faleti 11. Stefano Dupérac, Veduta di piazza del Campidoglio, 1568, incisione edita da Bartolomeo Faleti con dedica a papa Pio V 12. Stefano Dupérac, Veduta di piazza del Campidoglio, circa 1583, incisione ristampata da Claudio Duchet con l’aggiunta delle statue sulla torre campanaria 13. Stefano Dupérac, Veduta di piazza del Campidoglio, circa 1590, incisione ristampata con l’aggiunta dei Trofei di Mario accanto ai Dioscuri sulla cordonata capitolina habeant auctoritatem inueniendi pecunias super bonis Populi Romani eo modo meliori quo ipsius Populi detrimento possibili.51 Come previsto dal Consiglio, furono eletti commissari Bernardino Caffarelli, Paolo del Bufalo, Rutilio Alberini, Prospero Boccapaduli e Tommaso Cavalieri. La gratitudine del Popolo Romano si manifestò, oltre che con la partecipazione di tutti i magistrati a una messa solenne nel giorno della nascita e dell’incoronazione del pontefice e con l’offerta di un calice d’argento dorato e di quattro fiaccole di cera bianca, attraverso la dedica del rame inciso da Dupérac con la prima veduta prospettica raffigurante la piazza capitolina secondo il progetto di Michelangelo. L’incisione reca nel cartiglio posto in alto a destra la scritta “Capitolii quod S.P.Q.R. impensa ad Michaelis / Angeli Bonaroti eximii architecti exemplar / in anteiquum decus restitui posse videtur tabula / accuratissime Stephani Dupérac Parisiensis Galli / opera delineata Senatoris III virorum Urbis / conservatorum praetoria aream gradus moeni / ana complectens Romae Kal. Octobris anno salu150 tis / MDLXVIII”; nella dedica posta in alto a sinistra contiene un esplicito riferimento alla generosità del papa: “S.D.N. Pii V / pont. max. / liberalitati / dicatum”. Prospero Boccapaduli, allora deputato alla fabbrica dei palazzi del Senatore e dei Conservatori, compilò un inventario delle figure donate dal pontefice al Popolo Romano, che è giunto fino a noi ed è stato pubblicato per la prima volta da Marco Bicci nel 176252. Dall’inventario, redatto in due tempi, risulta che le statue dislocate nel teatro, nel boschetto e nel casino del Belvedere vaticano erano centoquarantasei, registrate dal n. 1 al n. 127 l’11 febbraio 1566 e dal n. 128 al n. 144 il 27 febbraio del medesimo anno (cat. 42). Richiesti e ottenuti dal Consiglio trenta “facchini” per effettuare il trasporto53, il 28 febbraio trenta pezzi furono trasferiti in Campidoglio, come risulta dalla segnalazione dello stesso inventario. Si tratta di molte delle opere che adornavano la scala bramantesca e di tutte quelle collocate nella “stanza della Monizione”54. L’arrivo in Campidoglio di questo primo gruppo di sculture è ricordato da una breve iscrizione destinata a celebrare il dono pontificio: “MAGISTR . POPVLIQ. RO. / PII V. PONT. MAX . / xxx STATVARVM MARM. DONO / ORNATI / PVBLICVM . AETERNVMQ / GRATI . ANIMI / TESTIMO55 NIVM” . I conservatori dell’epoca, tra i quali vi era lo stesso Ridolfi che aveva annunciato al Consiglio la munificenza del papa, fecero collocare le statue in un unico ambiente del palazzo: “SENATVS POPVLVSQ. ROMANVS / STATVAS MARMOREAS / PII V. PONT. MAX . DONO / E VATICANO IN CAPITOLIVM / TRASLATAS CVRANTIBVS / JOANNE FRANCISCO RODVLPHO / PROSPERO MVTO / 56 NICOLAO EVANGELISTA / CONSERVATORIB . / HIC POSVIT” . L’opposizione dei prelati della corte pontificia, che volevano impedire il donativo, riuscì a bloccare temporaneamente il trasferimento delle altre sculture. All’inizio di aprile dello stesso anno il primo conservatore Leonardo Tasca ottenne udienza dal papa per rivolgergli una supplica e ne diede conto al Consiglio con queste parole: Di poi li soggiungessimo delle statue della palazzina donate da Su Santità al Popolo che il Sangalletto no vole lasciarne pigliare se non certe poche Et perche à Sua Santità è piaciuto donarle al Popolo li piacesse in essecutione della Sua Santissima mente ordinare al Sangalletto che non ce le impedisca. Onde Sua Santità li ordinò espressamente che ne le consegnasse tutte, eccetto certe puoche le quali Sua Santità uoleua uedere se il leuarle non deformaua la fabrica.57 La risposta del pontefice in riferimento alla sua preoccupazione per il decoro del complesso architettonico, contraddittoria rispetto alle motivazioni del donativo, sembra nascondere un certo imbarazzo, dovuto forse alle pressanti richieste di cessio- ne di alcune opere antiche giunte nel frattempo. Alcune sculture, infatti, furono sottratte a favore di personaggi coronati e prelati, tra cui il cardinale di Augusta e il cardinale Ippolito d’Este. Non conosciamo l’esito preciso della supplica del magistrato capitolino, ma certamente la munificenza del papa, benché diminuita nel suo valore, non si arrestò e altre statue giunsero successivamente in Campidoglio, alcune probabilmente durante i pontificati successivi di Gregorio XIII Buoncompagni (1572- 1585) e di Sisto V Peretti (1585-1590). Adolf Michaelis ha tentato per primo il riconoscimento delle trenta sculture giunte in un primo momento, individuandone quattordici58, ma lo stesso studioso segnalava altri trentasette pezzi del Museo Capitolino provenienti dal Belvedere vaticano, collocati in parte nel teatro, in parte nella vicina scalea del Bramante, in parte nel casino di Pio IV. Henry Stuart Jones, emendandone alcune, ne aggiungeva delle altre, segnalando per primo la presenza di statue provenienti dal Vaticano sulle balaustre dei tre palazzi capitolini59. Cinque sculture, già nel palazzo dei Conservatori, si trovano attualmente al Pincio, altre due, segnalate nell’inventario del 1627, sono attualmente disperse60. Nuovi riconoscimenti consentono di portare a ottanta il numero delle statue giunte sicuramente in Campidoglio. Delle rimanenti sculture inventariate da Boccapaduli, ventisei statue furono cedute a Francesco de’ Medici, allora erede designato del granduca di Toscana Cosimo I, e inviate a Firenze61. Una si trova al Louvre, una all’ingresso della Biblioteca Apostolica Vaticana e otto, secondo le indicazioni di Stuart Jones, si trovano ancora in Vaticano. Benché, dunque, l’assenza di riferimenti nei verbali del Consiglio indichi che non vi è stato un nuovo donativo, è probabile che un consistente gruppo di statue giunse in Campidoglio in un secondo tempo senza essere stato specificatamente registrato. La scelta dei soggetti da prelevare al Belvedere probabilmente era stata già effettuata da Michelangelo e comunque tutte le variazioni apportate tenevano conto della necessità che le statue avessero un’altezza consona alla loro futura dislocazione sulle balaustre dei palazzi. Per questa ragione alcune sculture provenienti dal Vaticano furono alienate subito dopo in cambio di altre. Le statue sulle balaustre dei palazzi capitolini e la genealogia mitica del Campidoglio secondo Michelangelo Le sculture poste sulle balaustre dei palazzi capitolini62 (figg. 15-16) formano un importante complesso statuario, che può essere considerato il primo programma unitario di recupero dell’antico concepito in epoca moderna. Sebbene non sia stato realizzato interamente secondo le linee guida del progetto iniziale, l’importanza del gruppo di sculture capitolino risiede nel gli anni dal 1534 al 1564 suo valore simbolico complessivo. La collocazione delle statue alla sommità dei palazzi costituì una delle innovazioni più importanti dell’intero progetto di ristrutturazione della piazza e la loro presenza, oltre che funzionale al recupero dell’antico decoro del colle, suggeriva un nuovo orientamento degli assi visivi dell’area capitolina. In particolare, le sculture sul Palazzo Senatorio insieme alla grande scalea michelangiolesca determinavano un radicale e definitivo mutamento di prospettiva: la facciata del Tabularium rivolta verso il Foro Romano, priva del coronamento di statue, divenne il lato posteriore dell’edificio senatorio, mentre l’altra facciata, ricostruita e decorata con statue alla sommità, fu concepita con i due avancorpi laterali come una quinta monumentale della platea capitolina, che una volta spianata era stata trasformata in una terrazza soprae151 14a-b. Stefano Dupérac, Veduta di piazza del Campidoglio, 1569, incisione edita da Antonio Lafrèry. Particolari delle balaustre con statue di divinità: a sinistra, palazzo Nuovo con Ercole e Marte in primo piano; a destra, palazzo dei Conservatori con Giove e Giunone in primo piano levata, aperta verso l’area della città gravitante intorno alla nuova basilica di San Pietro. Fino alla metà del XVI secolo le antichità venivano raccolte in Campidoglio in modo confuso, per lo più sotto il portico del vecchio palazzo dei Conservatori e in parte nel cortile interno. Le due vedute della piazza capitolina dell’Anonimo del Louvre e dell’Anonimo di Braunschweig, databili poco dopo la metà del secolo, documentano la quantità di frammenti raccolti ai piedi del muraglione dell’Aracoeli e davanti al portico del palazzo sul lato opposto. Alla fine degli anni cinquanta del medesimo secolo le sculture antiche, per il loro numero e per lo stato di conservazione spesso frammentario63, non erano sufficienti per far fronte a quanto previsto da Michelangelo nel progetto di rinnovamento della piazza capitolina. È evidente, quindi, che l’artista fiorentino avesse immaginato di collocare delle statue sulla sommità dei palazzi capitolini sapendo di poter disporre delle sculture raccolte nel Belvedere vaticano. È probabile che le trenta statue menzionate nell’iscrizione commemorativa del dono di Pio V64 siano proprio quelle destinate alle balaustre dei palazzi capitolini, dieci per il palazzo dei Conservatori (otto sulla fronte e una su ogni lato), dieci per il Palazzo Senatorio (in un secondo tempo ridotte a otto) e dieci per la scalinata (sei) e il baldacchino (quattro) di quest’ultimo ovvero per il palazzo Nuovo (otto sulla fronte e una su ogni lato). L’arredo figurativo nel suo complesso riproduce il pantheon olimpico secondo le conoscenze dell’epoca e ha il suo fulcro nella figura di Giove, padre di tutti gli dei. Il dio, figura simbolica dell’antico colle capitolino, viene menzionato in una delle epigrafi che Prospero Boccapaduli e Tommaso Cavalieri fecero collocare nel 1568 nei due tabernacoli del vestibolo d’ingresso del palazzo dei Conservatori65, ma nelle vedute di Dupérac non occupa la posizione che nelle parole di Vasari gli avrebbe assegnato Micherlangelo. Non sappiamo se la dislocazione del Giove alla sommità del palazzo dei Conservatori anziché nella nicchia del Palazzo Senatorio sia frutto di un ripensamento dell’artista o di una forzatura successiva alla sua morte, ma certamente la statua alla sua sinistra, collocata al di sopra della parasta nel risvolto laterale della facciata, ha una nesso evidente con il padre degli dei. Essa rappresenta una figura femminile stante sulla gamba sinistra, con la mano sinistra protesa in avanti a tenere un oggetto, forse il velo. Si può proporre l’identificazione con la statua femminile vestita con chitone e peplo collocata sullo scalone del Museo Capitolino66, proveniente dal Belvedere vaticano, denominata “Iuno Lanumuina”67. Sopra le due paraste corrispondenti del palazzo Nuovo vi sono collocate due figure riconoscibili come Ercole e Marte. Il primo riproduce l’eroe con la 152 clava della collezione Farnese che, scoperto nel 1546 nelle terme di Caracalla, aveva suscitato l’ammirazione di Michelangelo. Il secondo, stante sulla gamba destra, è raffigurato nudo e reca sulla testa un elmo con cimiero e sulla mano sinistra protesa in avanti una Vittoria. La statua del dio della guerra è riconoscibile in due stampe dell’epoca, l’una in controparte di Giovanni Battista Cavalieri (cat. 46) e l’altra di Philippe Thomassin (cat. 47), che recano entrambe l’indicazione “Mars in Capitolio”68. La scelta delle due figure si spiega in rapporto al loro legame di parentela con le divinità collocate nella stessa posizione sul palazzo opposto (fig. 17). Si tratta, infatti, dei due rispettivi figli di Giove e di Giunone. Anche la loro posizione relativa nell’incisione più antica di Dupérac69, riflette specularmente quella delle due divinità olimpiche, con Ercole all’esterno. Le quattro sculture rappresentano evidentemente le immagini principali per la comprensione del programma decorativo delle balaustre e si trovano sul lato dei palazzi prospiciente la scalinata di accesso al colle. Le due statue angolari, contrariamente alla situazione attuale, sono rivolte verso la balaustra che chiude la piazza capitolina. Evidentemente si era tenuto conto che l’asse visivo principale fosse quello di chi affrontava l’ascesa verso la nuova terrazza. Alla destra di Giove è raffigurata una figura femminile con corta veste, stante sulla gamba destra, che può essere identificata con la dea Roma in abito amazzonico, dislocata attualmente nella stessa posizione. Seguono altre cinque figure di divinità, tra le quali possiamo riconoscere una statua maschile con pelle ferina e animale ai piedi, identificabile con la scultura denominata “Vortumnus” attualmente collocata sulla stessa balaustra e una statua maschile nuda con clamide allacciata sulla spalla sinistra e con elmo alato sulla testa, che rappresenta Mercurio70. Sul palazzo di fronte, accanto alla statua sull’angolo, vi sono due figure maschili con un lungo mantello e un copricapo a punta, identificabili con i Dioscuri, in mezzo ai quali si trova una Vittoria alata con un ramo di palma sul braccio destro e una corona nella mano sinistra protesa71. Seguono quattro figure, tra le quali sono riconoscibili una statua femminile con lunga veste e apoptygma, che tiene sollevata con la mano destra un’estremità del panneggio72 e una Minerva con lancia e scudo, presente in entrambe le edizioni dell’incisione, ma in posizione diversa. Nella veduta di Dupérac sulla balaustra del Palazzo Senatorio sono indicate dieci sculture, ma le due posizionate sull’angolo interno delle due ali sporgenti, nel punto di incontro con il corpo centrale della facciata, non risulta siano state mai collocate. Alle due estremità vi sono due figure maschili semipanneggiate, con la cornucopia su un braccio e la patera o il simpulum nell’altra mano73. Si tratta verosimilmente del Genio del Senato e 15. Roma, piazza del Campidoglio, facciata del palazzo Nuovo con statue sulla sommità 16. Roma, piazza del Campidoglio, facciata del palazzo dei Conservatori con statue sulla sommità del Genio del Popolo Romano. La statua di sinistra riproduce le fattezza della scultura attualmente collocata sull’angolo del palazzo dei Conservatori. Al centro vi sono due statue quasi identiche panneggiate e con il capo coperto dal manto, identificabili con due figure sacerdotali per la presenza nella mano destra del lituus. Le altre sei sculture, variate nelle due prime edizioni della veduta del Dupérac, rappresentano verosimilmente delle figure divine di carattere simbolico. Tra esse possiamo ipotizzare Pudicitia, Letitia, Salute e probabilmente Venere come dea della Bellezza. Quest’ultima è riconoscibile nell’edizione del 1569 sopra il terzo piedistallo da destra. Si tratta evidentemente della statua attualmente collocata sulla balaustra del Museo Capitolino. Altre sculture sono raffigurate sul parapetto della scalinata e alla sommità del baldacchino. Le quattro figure femminili collocate in quest’ultima posizione rappresentano probabilmente le Ninfe, le Grazie o le Stagioni. Le altre sei statue sono identificabili probabilmente con sei Muse74, secondo le denominazioni delle opere presenti al Belvedere vaticano75. L’allestimento delle statue dopo la morte di Michelangelo Il primo dicembre 1567, tre anni dopo la morte di Michelangelo, risulta terminata la lavorazione dei primi quattro piedistalli della balaustra alla sommità del palazzo dei Conservatori, evidentemente uno sul lato e tre sulla fronte dell’edificio all’estremità dove si era cominciata la costruzione della nuova facciata76. Un documento che riporta la “misura e stima di lavori compiuti dal capomastro muratore Ludovico da Carona” informa che il 29 marzo 1568 erano già state messe in opera quattro statue di marmo “sopra li piedistalli nella facciata di fora”, evidentemente quelle in corrispondenza dei pilastri già completati77. Una stampa attribuita a Dupérac e pubblicata da Faleti con la data 1567, che reca in alto la scritta “Porticus et palatii capitolini aspectus accurate commensuratus studiosorum / bonarum artium commoditati delineatus Romae anno sal. MDLXVIII”78, raffigura l’alzato delle prime tre campate del palazzo dei Conservatori con le sculture al loro posto (fig. 18). Sui primi due piedistalli sono collocate le statue di Giove e della dea Roma in abito amazzonico, secondo quanto previsto da Michelangelo. Il primo marzo 1569 risultano terminati altri due piedistalli79, ma la cronica mancanza di disponibilità finanziarie determinò un rallentamento dei lavori sulla facciata. Nel frattempo si intraprese la sistemazione del cortile interno del palazzo e nel 1574 vengono collocate le statue sulla balaustra della facciata “di dentro”, in corrispondenza della cappella vecchia e dell’anticappella, dal 1571 destinata ad accogliere l’Archivio Capitolino (Scripturarum Publicarum Custodia)80. Il 12 maggio 1583 i Conservatori del tempo Gamezio Quattrocgli anni dal 1534 al 1564 153 17. Roma, palazzo dei Conservatori, balaustra, statua marmorea di Marte, età antonina 18. Stefano Dupérac (attribuito), Alzato delle prime tre campate della facciata del palazzo dei Conservatori con statue di divinità sulla balaustra, 1567, incisione edita da Bartolomeo Faleti chio, Ascanio del Bufalo o Bubalo e Vincenzo Americo, il priore dei Caporioni Alessandro Giovenale e uno dei deputati alla fabbrica Baldassarre Cenci, stipulano, per gli atti del notaio Piroti, un apposito contratto con gli scalpellini Achille de Bianchi e Stefano Marchesi, che promettono di fare e far fare il restante delli balaustri, base, piedistalli et cimase sopra il cornicione del palazzo di detti Ill.mi S.ri Conservatori verso il Palazzo del S.r Senatore, bene et diligentemente, di bon travertino et ben lavorati a paragone delli altri che sonno in opera, da cui per tutto li 20 del mese di giugno proximo a venire senza lcuna excettione, secondo il desegno dato a me notaro in un foglio desegnato, per prezzo cioè li balaustri per giulii diciotto l’uno, le base che corrono sotto detti balaustri simile a quella che è in opera, per prezzo di giulii trentacinque la carrettata, li piedistalli dove posano le figure sì come li altri posti in opera, et anco quello che va fra un piedistallo et l’altro per prezzo de giulii trentacinque la carrettata, la cimasa sopra li balaustri simile alle altre per prezzo de giulii doi e baiocchi 9 il palmo andante, la cimasa che corre sopra li piedistalli et pilastri simile a quella che è in opera per prezzo de tre il palmo, et promettono in solido come di sopra di fare detta opera di tevertino bono di Tivoli senza tasselli, stucchi o defetto alcuno et ben lavorati come quelli che sonno posti in opera ecc.81 Alla metà dell’anno successivo i piedistalli erano terminati. Nel registro dei mandati, infatti, fra il maggio 1583 e il giugno 1584 sono indicate quattro partite contabili per un totale di centosettantacinque scudi e ventidue baiocchi, tutte intestate solamente a mastro Achille e il 23 giugno 1584 indicato un pagamento di diciannove scudi e ventitré baiocchi a favore di Marchionne “per la parte dell’opera di scarpello che lui ha fatto al parapetto de balaustri et cornicione della facciata del palazzo, cioè basamento et un pilastrello”82. Il 2 giugno 1584 il facchino Antonio Greco, a capo di un gruppo o società di colleghi detta la “compagnia del Greco”, viene pagato per aver “tolto dallo statuario di Campidoglio” e messo in opera sulla facciata tre statue mancanti al coronamento, che nel marzo 1584 lo scultore Silla Longhi aveva provveduto a restaurare, imperniare e sprangare. Nel 1586, infine, il muratore Santi tira fuori dallo “statuario” altre due statue e, dopo un nuovo intervento di Longhi, le colloca sulla balaustra dell’edificio, evidentemente sui due ultimi piedistalli della facciata83. Le nove sculture poste a coronamento del palazzo dei Conservatori, otto sulla fronte e una sul risvolto laterale, appaiono per la prima volta raffigurate interamente nella pianta di 154 Antonio Tempesta del 159384. La stessa pianta documenta pure che in tale anno la sommità del Palazzo Senatorio85, era ancora priva della decorazione scultorea prevista da Michelangelo. Nel 1598, allorché venne collocata l’iscrizione murata sopra il nuovo portale dell’aula senatoria86, i lavori erano quasi ultimati. Il completamento della balaustra di coronamento era già avvenuto quando Nicolaus Van Aelst incise la nuova veduta del Campidoglio, edita nel 160087. L’incisione reca l’autorizzazione ufficiale del pontefice, espressa nelle parole “superiorum permissu” aggiunte in basso a sinistra accanto alla data, e raffigura sopra la porta del palazzo del Senatore appena ultimato una tabella con l’iscrizione dedicatoria “Clementi VIII pont. max.”, un testo che riproduce la prima riga dell’epigrafe ancora conservata. È probabile quindi che l’incisione fosse stata preparata per i pellegrini che visitavano Roma in occasione delle celebrazioni dell’Anno Santo di fine secolo. Sulla balaustra dell’edificio furono erette otto statue. Rispetto al progetto originario, documentato dalle varie edizioni dell’incisione di Dupérac88, sono state eliminate le due sculture sui piedistalli posti in corrispondenza del punto di incontro tra ciascuno dei due avancorpi e la porzione centrale della facciata. Questa modifica dimostra che il modello di Van Aelst non fu, come per Dupérac, l’exemplar michelangiolesco conservato da Tommaso Cavalieri e Prospero Boccapaduli, ma un disegno più aggiornato o l’edificio reale, come del resto indica l’iscrizione incisa in lettere capitali lungo il margine superiore della veduta prospettica: CAPITOLII ROMANI VERA IMAGO VT NVNC EST. È probabile che l’incisore, nel delineare le sagome delle statue, non cercasse una corrispondenza dettagliata con le singole figure, ma una visione d’insieme il più fedele possibile alla realgli anni dal 1534 al 1564 tà. Rilevante, infatti, doveva essere l’identificazione simbolica delle sculture. Le otto figure disegnate da Van Aelst appaiono schizzate rapidamente, ma almeno una riproduce certamente nella medesima posizione i tratti principali della statua ivi conservata (n. 5). Le sculture risultano restaurate in maniera frettolosa e talora incongrua, lasciando immaginare un lavoro avvenuto in tempi molto ristretti, evidentemente determinati dall’imminenza di una data prefissata per il completamento della facciata. Ciò spiega anche l’assenza delle specchiature quadrate sulle facce anteriori dei piedistalli della balaustra, delineate da Van Aelst. Anche la mancanza di statue sui pilastrini del parapetto della scalea michelangiolesca, oltre che sul “baldacchino” previsto in origine e mai costruito, testimone di una riduzione della decorazione scultorea, dovuta certamente alla necessità di ultimare la facciata nell’imminenza di un evento celebrativo prestabilito. Il completamento del palazzo Nuovo richiese, invece, tempi più lunghi e di conseguenza anche le sculture potrebbero essere state collocate sulla balaustra in momenti diversi. Con Innocenzo X Pamphilj (1644-1655) i lavori di costruzione del palazzo Nuovo subirono una determinante accelerazione, ma il papa non mise a disposizione le risorse finanziarie necessarie al completamento dell’edificio. La magistratura capitolina, pertanto, fu costretta a sopprimere i salari di diversi uffici, per lo più sinecures, tra i quali vi erano i quattordici maestri di scuola elementare, uno per ogni regione89. Il pontefice fece un sopralluogo al palazzo in costruzione nel 1650 e nel 165490. In occasione della seconda visita fu murata nella sala della Lupa un’iscrizione celebrativa dedicata al pontefice91 e fu coniata una medaglia con la facciata del palazzo completata. Nella veduta capitolina di Nicolaus Van Aelst (1600) ristampata da Giovanni Giacomo Rossi in occasione del Giubileo del 1650 (cat. 34), la costruzione del palazzo Nuovo appare completamente finita, comprese le statue sulla balaustra, ma verosimilmente lo stato di avanzamento dei lavori non coincideva. Un’iscrizione perduta92 ricorda che il completamento dell’edificio va attribuito ad Alessandro VII Ghigi (1655-1667), affermazione ripetuta nel testo della veduta del Campidoglio pubblicata da Giovanni Battista Falda nel 1665 (cat. 38). Un mandato di pagamento93, infine, attesta che i soffitti del palazzo furono completati nel 1660. Nello stesso anno deve essere cominciata la costruzione della balaustra di coronamento della facciata, sulla quale saranno collocate le statue. Quest’ultima fase dei lavori è documentata da un dipinto anonimo conservato al Museo di Roma (cat. 35), databile dopo la metà del XVII secolo, ma non oltre il 1679, anno in cui la statua di Marforio, nel dipinto ancora sulla piazza, era ormai sistemata all’interno del palazzo Nuovo94. 155 Vasari, ed. Milanesi, 1878-1885, vol. VII, p. 222 [ed. 1568]. 2 Parisi Presicce 1994b, p. 135. 3 Forcella 1869, n. 64. 4 Angelicoussis 1984, p. 154, tav. 67.1, con bibliografia precedente; La Rocca 1986, tav. XXXVII. Anche uno dei pannelli dell’arco di Costantino raffigura un arco trionfale coronato da una quadriga di elefanti: Giuliano 1955, tav. 22. 5 De Angelis D’Ossat, Pietrangeli 1965, pp. 106 sgg., fig. 88; Argan, Contardi 1990, p. 261, fig. 364. 6 Parisi Presicce 1994b, pp. 136 sgg. 7 Parisi Presicce 1994a, pp. 155-156. 8 Sulle finalità del trasferimento voluto da Alessandro Farnese, cfr. Harprath 1985, p. 68. 9 Nella letteratura antiquaria il primo a riconoscere i Dioscuri nelle due sculture colossali è stato Perrier 1638, tavv. 22-25. 10 Biblioteca Apostolica Vaticana di Roma (in seguito BAV), cod. Vat. Lat. 8037, p. 1, fol. 72; citato da Künzle 1961, pp. 258 sgg. e riportato da Contardi 1992, p. 9. 11 BAV, cod. Vat. Lat. 12308, Diariorum tom. decimus: “Diarium Blasii de Cesena Mag. Caerem. ab anno 1518 ad annum 1540”, fol. 552; testo originale in latino, citato da Künzle 1961, p. 257 e riportato da Contardi 1992, p. 9. 12 Gronau 1906, Beiheft, p. 9, n. XXI (senza data; databile secondo Künzle 1961, p. 260 in base a riferimenti interni tra il 28 novembre 1537 e il 18 gennaio 1538). 13 Sulla volontà di Paolo III di trasferire in Campidoglio i colossi del Quirinale, da ultimo Parisi Presicce 1994a, pp. 155 sg. 14 ASC, Cred. I, vol. XVII, fol. 58v. Edito per la prima volta da Lanciani 1902-1912, vol. II, p. 69 (ed. integr. 1988-2002, vol. II, p. 77) e subito dopo da Rodocanachi 1904, p. 76, nota 4 (con la data errata del 22 marzo 1538, corretta da Pecchiai 1950, p. 46). 15 Basile 1984, p. 23. 16 A epoca rinascimentale attribuisce queste riparazioni Melucco Vaccaro 1989a, p. 119. 17 Già proposta da D’Onofrio 1973, pp. 184 sgg. in base all’incisione del 1 156 Cock e al disegno dell’Anonimo di Braunschweig è stata ribadita da Mura Sommella 1989 e Mura Sommella 1997; cfr. pure Parisi Presicce 1997a. 18 Nonostante il cavallo sia rappresentato con la posizione delle gambe anteriori invertita, sono delineate le figure dei due Fiumi collocate davanti al palazzo dei Conservatori, la sagoma della statua di Minerva eretta alla fine del 1541 sul fondo del cortile, gli attacchi della mensola che sosteneva la lupa quando si trovava sulla facciata del palazzo, la posizione originaria dei due leoni sui lati della vecchia scala del Palazzo Senatorio, che da un conto conservato tra le carte di Prospero Boccapaduli, datato 12 ottobre 1547, risultano essere stati spostati “suli poggi di tivirtino […] nel angoli de li doi torri”: Archivio Storico Capitolino di Roma (in seguito ASC), Carte Boccapaduli, Armadio II, Mazzo IV, n. 48, fol. 18-19, misura n. 22, edito integralmente da Thies 1982). Cfr. pure Pecchiai 1950, pp. 46 sgg. 19 Per la pianta di Bufalini, Ehrle 1911; Siebenhüner 1954, pp. 55, 62, fig. 31. Per la veduta anonima dello Speculum, Arrigoni, Bertarelli 1939, p. 60, n. 582 (datata prima dell’inizio dei lavori di ristrutturazione al palazzo dei Conservatori). 20 Deswarte 1988-1989. 21 Edito in Tormo 1940, fol. 7v e messo per la prima volta in connessione con la datazione del progetto di Michelangelo in due recensioni al libro di Siebenhüner pubblicate da Ackerman 1956 e da Künzle 1956. Cfr. pure Parisi Presicce 1990, p. 100, fig. 88. 22 La medaglia, della quale non è stato rintracciato alcun esemplare, è stata pubblicata da Buonanni 1706, vol. I, pp. 206-209, n. VIII e riprodotta in disegno da D’Onofrio 1973, fig. 121. Cfr. pure Parisi Presicce 1990, p. 100, fig. 89. 23 Künzle 1961, pp. 255-270; la sua ipotesi che anche uno dei blocchi marmorei perimetrali sia stato sostituito in seguito a una rottura è contraddetta dalla perfetta corrispondenza delle grappe. 24 Ferroni, Sacco 1989, p. 202, figg. 158-159. La ricostruzione è confuta- ta da Contardi 1992, p. 12, che propone una posizione diversa dei perni delle gambe, ricavata dal rilievo fotogrammetrico, che tuttavia risulta nella zona degli zoccoli meno preciso del rilievo diretto. 25 Mura Sommella 1989, pp. 190191. 26 Contardi 1992, p. 17, ritiene la somma troppo bassa rispetto ai 300 scudi pagati a Nicolas Pipe per il basamento della statua di Sisto V, che tuttavia è stato costruito ex novo e circa trenta anni dopo. 27 Parisi Presicce 1990, p. 102, fig. 99 (con bibliografia a p. 114). 28 Baltimora, Walters Art Gallery; Monaco, Bayerisches Nationalmuseum; Vienna, Kunsthistorisches Museum; Ferrara, Civico Museo Schifanoia. Cfr. Parisi Presicce 1997b, pp. 36 sg., nn. 7-10. 29 Da ultimi Morrogh 1994; Contardi 1996, pp. 52 sgg.; Bedon 2008, pp. 57-59. 30 Nicolaus Muffel nel 1452 vide la statua riversa per terra; tra il 1466 e il 1468 il monetiere Cristoforo di Geremia da Mantova eseguì un lungo e complesso intervento di restauro su incarico di papa Paolo II; nel 1473 Sisto IV, in vista dell’Anno Santo 1475, commissiona agli aurifabris Nando Corbolini e Leonardo Guidocci ulteriori rifacimenti e fa realizzare un nuovo basamento. Cfr. Melucco Vaccaro 1989b, pp. 211-252, in part. pp. 213 sgg.; Parisi Presicce 1990, p. 109. 31 Buddensieg 1969, pp. 184 sgg.; Argan, Contardi 1990, p. 258, fig. 361; Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991, p. 86 (Parisi Presicce). 32 Reinach 1902. 33 Fichard (1536) 1815, p. 23 le vede ancora a Montecavallo nel 1536. 34 Marliani 1544 le ricorda già in Campidoglio. 35 Il luogo di rinvenimento delle due statue non è noto, anche se appare probabile che entrambe provenissero da Roma e costituissero un monumento ufficiale e non privato, eretto in un luogo pubblico. Questo dato, però, non giustifica l’affermazione derivante da Maffei che le statue siano state scoperte nel Foro di Cesare. Le sculture sono ricordate tra le ope- re di casa Rufini già da Aldrovandi 1556, p. 165. 36 I disegni di Giovanni Battista Cavalieri e di Giovanni Antonio Dosio, quasi contemporanei alla data di acquisizione, riproducono le statue dopo i restauri: cfr. Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991, pp. 87, 111, 115, figg. 43-45 (Parisi Presicce). Sui restauri, cfr. Stuart Jones 1926, p. 370, addenda a p. 2, nn. 1-2; Albertoni 1993. 37 La quietanza finale nei confronti del vescovo reca la data del 23 luglio 1573, che coincide evidentemente con l’acquisizione formale dei pezzi. Cfr. Lanciani 1988-2002, vol. II, p. 85. 38 Nel 1653, più di cento anni dopo la definizione del progetto originario di Paolo III, le due statue di Costantino il Grande e di suo figlio Costantino II collocate sul terrazzo della scalinata che conduce al convento dell’Aracoeli, sono state trasferite sulla balaustra della piazza. Lo spostamento, tuttavia, è connesso con i lavori di costruzione del palazzo Nuovo, giunti ormai al termine, e non con il progetto di sistemazione iniziale delle due statue. 39 Sui Dioscuri capitolini, cfr. Parisi Presicce 1994a. 40 Cfr. Haskell, Penny 1984, pp. 161169; Bober, Rubinstein 1986, pp. 159-161, n. 125. 41 Giacomo della Porta risulta vincitore del concorso bandito nel 1578 per la nuova sistemazione della piazza: Pecchiai 1950, pp. 25-29, 50 sgg. 42 Tittoni 1985; Tittoni 1991. 43 Pubblicato per la prima volta da Siebenhüner 1954, p. 86, fig. 52; Pietrangeli, De Angelis d’Ossat 1965, p. 82, fig. 55; Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991, p. 86. 44 Pubblicato per la prima volta da Buddensieg 1969, p. 184; Argan, Contardi 1990, p. 258, fig. 361; Parisi Presicce 1994b, fig. 9. 45 Siebenhüner 1954, pp. 85 sgg., figg. 47-48; Pietrangeli, De Angelis d’Ossat 1965, pp. 37 sgg., figg. 24, 27; D’Onofrio 1973, pp. 196 sgg., figg. 132, 134; Argan, Contardi 1990, p. 258, figg. 318, 362; Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991, p. 87, figg. 7-8. 46 Siebenhüner 1954, p. 87, fig. 53; Pietrangeli, De Angelis d’Ossat 1965, p. 89, figg. 28-29; D’Onofrio 1973, pp. 196 sgg., figg. 133, 135; Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991, pp. 89, 110, figg. 9, 11. 47 Sul cortile del Belvedere, cfr. Ackerman 1954; Brummer 1970; Pietrangeli 1985, p. 7; Winner, Andreae, Pietrangeli 1998. 48 Inv. 59; alta 2,12 m. Stuart Jones 1912, pp. 40 sg., n. 41, tav. 6; Lippold 1950, p. 212 (elenco delle repliche). Per tutte le sculture prese in considerazione in questo studio, ci si limiterà a fornire i riferimenti bibliografici essenziali, rinviando ad altra sede l’inquadramento critico con la rassegna bibliografica completa. 49 Vasari, ed. Milanesi, 1878-1885, vol. VII, p. 222 [ed. 1568]. 50 Cavalieri 1585, tav. 76. Si veda l’esemplare della collezione Lanciani: Lanciani 1988-2002, vol. III, p. 86, fig. 44. 51 Lanciani 1988-2002, vol. III, p. 86. 52 Bicci 1762, pp. 114 sgg. Ripubblicato successivamente da Michaelis 1890, pp. 60 sgg. e da Parisi Presicce 1994b, pp. 162-167. 53 ASC, Cred. I, vol. 27, fol. 227. 54 Inv. Boccapaduli 46-47, 49, 55, 59, 61 (quattro pezzi)-62, 71-73, 77, 128-143. 55 Bicci 1762, p. 117 nota; Forcella 1869, n. 62; Rodocanachi 1904, p. 148, nota 1. 56 Forcella 1869, p. 37, n. 62; Rodocanachi 1904, p. 149, nota 1. 57 Lanciani 1988-2002, vol. III, p. 86. 58 Michaelis 1891, p. 37. 59 Stuart Jones 1912, pp. 363-374. 60 Inv. Boccapaduli 140 - Due putti con uccelli e nidi in mano: Facchini 2. 61 Michaelis 1890, pp. 43-44, 65-66; Stuart Jones 1912, pp. 375 sgg., appendix IV, ha identificato le sculture gli anni dal 1534 al 1564 con Inv. Boccapaduli 89-95, 97-98, 104, 107-110, 111 (due pezzi), 115116, 120-127, tutte provenienti dalla “palazzina” (Casino Pio), ma alcune proposte non sembrano accettabili. Alcuni pezzi sono stati identificati con opere conservate nelle gallerie fiorentine. 62 Parisi Presicce 1996, pp. 108-115. Delle dodici sculture collocate sulla balaustra del palazzo dei Conservatori almeno sei provengono con certezza dal Belvedere vaticano (nn. 3, 5, 8, 9, 11, 12) e delle tre sostituite in epoca recente con copie moderne, almeno due probabilmente avevano la stessa origine (nn. 1-2); nove furono messe in opera tra il 1568 e il 1586, le altre dopo la metà del secolo XVII, quando fu ultimato il palazzo Nuovo e i pilastri dei risvolti laterali furono raddoppiati: Parisi Presicce 1994b, pp. 153-158. Parisi Presicce 1997c, pp. 109-113. Delle otto statue collocate sulla balaustra del Palazzo Senatorio alla fine del XVI secolo, sei provengono con certezza dal Belvedere vaticano (nn. 1, 2, 3, 5, 7, 8; la n. 4 è una copia moderna; la statua femminile panneggiata denominata “Ceres”, n. 5, è riconoscibile in un’incisione di Philippe Thomassin che reca l’iscrizione “in Capitolio”, ma non la sua denominazione, incisa sul basamento in epoca moderna, cfr. cat. 48): Parisi Presicce 1994b, pp. 148-153. Parisi Presicce 1995; delle dodici sculture collocate sulla balaustra del palazzo Nuovo (Museo Capitolino) quattro provengono dal Belvedere vaticano (nn. 1, 10, 11, 12), almeno tre sono moderne (nn. 2, 4, 7) e delle altre cinque non è stato possibile finora rintracciare alcuna notizia: Parisi Presicce 1994b, pp. 158-162. Parisi Presicce 1997c, pp. 113-118. La descrizione di Aldrovandi 1556, pp. 269 sgg., risale al 1550. 64 Forcella 1869, n. 62; Parisi Presicce 1994b, p. 140. 65 Pietrangeli, De Angelis d’Ossat 1965, p. 96, figg. 72-73; D’Onofrio 1973, p. 198, figg. 137-138. 66 Inv. 231, alta 2,03 m. Stuart Jones 1912, pp. 84 sg., n. 6, tav. 17; EA, nn. 406-408; Helbig 1966, n. 1173. 67 L’iscrizione è moderna: CIL, VI, n. 3448. 68 Nella scultura manca lo scudo, e il braccio destro, di restauro a partire dal gomito, è atteggiato in modo diverso rispetto alla stampa. La datazione delle incisioni, l’una del 1594 e l’altra probabilmente del 16101622, indica che il Marte non faceva parte del gruppo di sculture sistemate inizialmente sulla balaustra del palazzo dei Conservatori. In un conto del 29 settembre 1572 a favore del muratore Ludovico da Carona (citato da Pecchiai 1950, p. 139) viene registrata la posa di una colonna con la sua base per una statua di Marte, identificabile verosimilmente con la nostra scultura. La collocazione attuale della statua potrebbe risalire a dopo la metà del XVII secolo, dal momento che non compare nella stampa di C. Burette il giovane del 1649, che raffigura la facciata del palazzo dei Conservatori (De Angelis d’Ossat, Pietrangeli 1965, p. 98, fig. 73). 69 Nell’edizione del 1569 le statue sono invertite. 70 Tra l’edizione del 1568 e quella del 1569 compaiono alcune varianti. 71 Le posizioni nella veduta del 1568 sono variate. 72 La presenza nella mano sinistra sollevata di un fiore o di un uccello consente di ipotizzare che si tratti di Flora o di “Dirce con la colomba”. La figura è assente nell’edizione del 1568. 63 Nella veduta del 1568 la statua di destra ha un oggetto diverso. 74 Le due figure collocate sui piedistalli interni del pianerottolo delle due rampe nell’edizione del 1569 sono maschili. 75 Erato, Polimnia, Euterpe, Talia, Memnosine e Urania. 76 Pecchiai 1950, p. 128. 77 ASC, Carte Boccapaduli, arm. II, maz. IV, n. 52; Pecchiai 1950, p. 138. 78 Siebenhüner 1954, p. 85, fig. 49; Pietrangeli, De Angelis d’Ossat 1965, p. 96, fig. 72; D’Onofrio 1973, p. 197, fig. 136. 79 Pecchiai 1950, p. 128. 80 Ivi, p. 142. 81 ASC, prot. N. Piroti, anno 1583, ff. 172v e 25 degli allegati. 82 Pecchiai 1950, pp. 143 sg. I muratori Ludovico e Santi provvidero a mettere in opera i travertini lavorati. 83 ASC, Cred. VI, vol. 24 passim. 84 Schück 1917; Ehrle 1932; De Angelis d’Ossat, Pietrangeli 1965, p. 86, fig. 61; Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991, p. 88, fig. 17. 85 Parisi Presicce 1994b, p. 148. 86 Forcella 1869, n. 42; Pietrangeli 1976, p. 58. 87 Parisi Presicce 1994b, p. 148, nota 74 (bibl. prec.). 88 Ivi, p. 135, note 4 e 5 (bibl. prec.). 89 Essi ricevevano 30 scudi ciascuno all’anno per insegnare gratuitamente ai ragazzi delle famiglie povere: G. Gigli, Diario, Cod. Vat. 8717, pp. 287 sgg., citato da Rodocanachi 1904, p. 126, note 4-7. 90 Gigli, Diario, cit., p. 130. 91 Forcella 1869, n. 152. 92 L’iscrizione è citata in Locatelli 1750, p. 22. 93 ASC, Cred. VI, vol. 4, f. 16. Pubblicato da Rodocanachi 1904, p. 128, nota 4. 94 Forcella 1869, n. 174. 73 157 1. Roma, palazzo Farnese, facciata PALAZZO FARNESE 2. Roma, palazzo Farnese, pianta del piano terra Emanuela Ferretti Il contributo michelangiolesco alla definizione dell’immagine complessiva di palazzo Farnese è uno dei temi portanti della storiografia che si è occupata della grandiosa fabbrica del cardinale Alessandro Farnese e dei suoi successori1. Le indagini documentarie, insieme alle ampie ricognizioni condotte negli ultimi sessant’anni negli archivi e nelle collezioni grafiche di musei e biblioteche italiani ed europei, ci consegnano un quadro ben articolato delle fasi costruttive e dei contributi portati dai quattro architetti che si sono succeduti nella direzione del cantiere: si tratta di un corpus di testimonianze scritte e iconografiche ricco e diversificato che, per i disegni in particolar modo, è accompagnato dal consueto corollario di problemi aperti, relativamente ad autografie e datazioni. Dal 1514 al 1602, Antonio da Sangallo il Giovane, Michelangelo, Jacopo Barozzi da Vignola e Giacomo della Porta, per volontà del cardinale Alessandro Farnese, poi papa col nome di Paolo III (1534-1549), del figlio Pier Luigi (1503-1547), e dei nipoti Ottavio (1523-1586), Ranuccio (1530-1565) e Alessandro di Pier Luigi (1520-1589), hanno realizzato un’opera per molti versi paradigmatica, che va a costituire un nodo significativo nello svolgimento sia del tema dell’architettura palaziale romana2 sia, più in generale, della grande residenza nobiliare italiana ed europea (figg. 1-2). Nonostante alcune lievi divergenze interpretative ancora in essere, la successione delle fasi costruttive e gli apporti delle singole personalità artistiche sono questioni sostanzialmente condivise3. Il cantiere di Antonio il Giovane che si apre nel 1514 viene distinto in due fasi principali, ovvero prima e dopo l’ascesa al soglio pontificio di Alessandro Farnese (1534), 158 con un cambio radicale nelle dimensioni e nella qualità complessiva della fabbrica in relazione alle nuove ambizioni e alle nuove disponibilità economiche della committenza. Dal 1541 all’autunno del 1546 si colloca l’ultimo periodo sangallesco che si conclude con la morte di Antonio (29 settembre 1546)4: la fabbrica ha raggiunto un assetto complessivamente definito in pianta e alzato, crescendo sui quattro lati in modo disomogeneo. Da questo momento in poi si apre la fase michelangiolesca che si protrae fino al 1549: si tratta di un periodo assai significativo che precede le due ultime stagioni di lavori5, quella sotto la guida di Vignola (dal 1550-1573) e quella sotto la direzione di Giacomo della Porta (dal 1573-1602)6. Il contributo di Vignola si pone nel rispetto di quanto precedentemente costruito e si attua soprattutto all’interno e nella definizione di “diverse soluzioni grafiche per l’ala posteriore”7, porzione del palazzo quest’ultima realizzata da Giacomo della Porta, il quale sintetizza e rielabora soluzioni e temi già messi a punto dai suoi predecessori in varie parti della fabbrica8. Dopo la morte di Paolo III e l’impegno sempre più gravoso nel cantiere di San Pietro in Vaticano, nonché a seguito delle richieste del nuovo pontefice Giulio III del Monte (15501555), Michelangelo si allontana dal cantiere della grande fabbrica farnesiana, che appare segnata profondamente dalle sue modifiche caratterizzate da una precipua incisività formale, senza tuttavia arrivare ad apportare quelle demolizioni o quegli stravolgimenti nell’impianto della fabbrica ben note nella vicenda di San Pietro9. A palazzo Farnese, dunque, la committenza e il mantenimento dell’organigramma direttivo del cantiere10 portano a una efficace sintesi e a un positivo confronto fra i due protagonisti della Roma di Paolo III, Sangallo e Michelangelo, molto lontani nella formazione, negli esiti stilistici e nel modus operandi. I nodi critici che hanno segnato il dibattito storiografico ruotano intorno a due temi principali: da una parte, sulla consistenza della fabbrica al momento dell’ingresso di Michelangelo (autunno 1546), sia in facciata sia nei corpi che si affacciano sul cortile, anche in relazione con le preesistenze quattrocentesche11; dall’altra, sulla qualificazione del fronte posteriore verso il giardino. Michelangelo opera infatti in tre parti del complesso: rivisitando la facciata sangallesca con il disegno di un nuovo cornicione e con la modifica del partito plastico-architettonico della finestra centrale del piano nobile; intervenendo nel cortile interno con un nuovo indirizzo di completamento, caratterizzato dalla modifica dei fronti per il piano nobile e per l’ultimo piano, e contraddistinto dalla variazione della spazialità e della geometria delle volte delle gallerie; riprogettando il prospetto verso il secondo cortile-giardino al fine di inserire i precedenti interventi in una più ampia cornice a scala urbana volta ad accentuare l’asse visivo longitudinale del complesso piazza-palazzo-giardino fin oltre il Tevere e in connessione con la necessità di sistemare adeguatamente il gruppo scultoreo del Toro Farnese, scoperto nell’agosto del 154512. La rivisitazione della facciata sangallesca Il racconto vasariano (1568) – che anticipa l’ingresso di Michelangelo nella fabbrica farnesiana in qualità di vincitore di un concorso indetto da Paolo III per il cornicione del palazzo nell’estate del 1546 ad alcuni mesi prima della morte di Antonio il Giovane (29 settembre 1546) – non viene accettato in modo unanime dalla critica che tende a spostarne l’arrivo solo dopo la scomparsa di Antonio da Sangallo13. L’intervento in facciata si manifesta nella realizzazione del nuovo cornicione (figg. 3-5) e nella trasformazione della finestra centrale del piano nobile (figg. 6-7), riprogettata sia nella morfologia complessiva sia nell’articolazione e qualificazione materica degli elementi architettonici che ne definiscono l’apertura. Nell’autunno del 1546 lo stato di completamento del fronte era tanto avanzato che, dopo aver rialzato l’ultimo registro finestrato di circa 6 palmi (pari a circa 140 cm), nel marzo del 1547, Michelangelo metteva in opera alla sommità della facciata nel tratto nord-ovest un grande modello ligneo al vero del nuovo cornicione (di circa 350 cm), come ricorda Vasari, per verificare l’effetto definitivo dell’inserimento: “La facciata di avante è quasi in alto per finita sino alli ultimi finestrati – scrive Prospero Mochi a Pier Luigi Farnese – sol vi manca il cornicione, qual ha da far gronda e finimento, del qual ne è stato messo un pezzo per pruova verso gli anni dal 1534 al 1564 159 3. Roma, palazzo Farnese, facciata, dettaglio del cornicione di Michelangelo 6. Roma, palazzo Farnese, facciata, finestre del secondo piano 4. Alessandro Specchi, Studio di Architettura Civile, Roma 1702, tavola di rilievo del cornicione di Michelangelo in palazzo Farnese 7. Roma, palazzo Farnese, facciata, portale e finestra centrale con stemmi marmorei 5. Roma, palazzo Farnese, facciata, dettaglio del cornicione di Michelangelo il canton di San Gironimo per satisfare Sua Beatitudine”14. Michelangelo ripropone una pratica già sperimentata nei cantieri di San Lorenzo a Firenze alla metà degli anni venti del Cinquecento: qui l’artista aveva utilizzato modelli al vero, apportando anche consistenti modifiche al progetto dopo una attenta osservazione in situ dell’effetto finale. Si tratta, come è stato notato, di una prassi riconducibile all’esperienza dell’architettura effimera e a consuetudini ben radicate nelle botteghe degli scultori toscani15. Proprio la messa in opera del modello suscita le prime proteste dei più stretti collaboratori di Antonio il Giovane a pochi mesi dalla sua scomparsa. Il cantiere farnesiano, al pari di quello della basilica di San Pietro, diviene occasione di scontro fra Michelangelo e i componenti dell’entourage di Sangallo, spregiativamente appellati da Giorgio Vasari coll’espressione di “setta sangallesca”16: il fratello minore di Antonio il Giovane, Giovan Battista da Sangallo detto il Gobbo17, e il suo stretto collaboratore Nanni di Baccio si scagliano contro l’opera michelangiolesca sventolando ora il vessillo del classicismo vitruviano (Giovan Battista da Sangallo), ora l’eccessivo peso del cornicione (Nanni di Baccio), ritenuto la causa delle lesioni che si erano presentate nel fronte, legate tuttavia a dissesti nell’opera di fondazione18. L’operazione di Michelangelo assicura un nuovo slancio alla facciata e una definizione più accentuata dell’intero prospetto (cat. 50), riproponendo un procedimento sperimentato alcuni decenni prima nella fabbrica di palazzo Strozzi dall’architetto fiorentino Simone del Pollaiolo detto il Cronaca, il cui linguaggio è stato riconosciuto anche fra “le citazioni nascoste” della Sagrestia Nuova19. Alla guida del grande cantiere di Filippo Strozzi dal 1490 al 1504, Cronaca introduce significative modifiche alla fabbrica, fra cui il celebre cornicione e il rialzamento del fronte. In 160 entrambi i palazzi l’imposta del cornicione è separata dall’ultimo registro finestrato da una sorta di attico, nel palazzo fiorentino contraddistinto da un paramento lapideo liscio, nel palazzo romano decorato invece da una raffinatissima teoria di gigli Farnese. Forti assonanze sono riscontrabili fra le membrature dei due cornicioni20 che si differenziano principalmente per la presenza di un elemento squadrato21 al di sotto dei modiglioni farnesiani il quale, oltre a conferire ulteriore verticalità alla composizione, rende possibile la visione completa dal basso del modiglione stesso (fig. 5). È noto che il cornicione ideato dal Cronaca per palazzo Strozzi si ispira, pur modificandone le proporzioni, a un prototipo antico riconosciuto da Vasari22 in poi in quello presente nelle rovine presso la cosiddetta Spoglia Christi nel Foro di Traiano23. Si tratta di evidenze archeologiche rilevate nei decenni a cavaliere fra Quattrocento e Cinquecento da molti artisti24, tra i quali Bernardo della Volpaia autore principale dei disegni del Codice Coner, celebre taccuino d’architettura oggi al Sir John Soane’s Museum di Londra25, di cui alcuni disegni furono copiati da Michelangelo nei fogli divisi fra il British Museum e la Casa Buonarroti26. Recentemente è stato inoltre evidenziato che fra le iscrizioni presenti su un gruppo di disegni di antichità romane, conservati nello stesso Sir John Soane’s Museum, è presente anche un esplicito riferimento a misurazioni effettuate dall’artista proprio sulla cornice presso la Spoglia Christi: “Questa cornice era presso a Spoglia Christi misurata con diligenza da Michelangelo sminuvita per metà, quale Michelangelo Bonarota la lodò asai et ne pigliò misura”27. Nella puntuale critica di Giovan Battista da Sangallo al cornicione michelangiolesco28 – affidata a una lettera inviata a Paolo III nella quale si argomenta il totale allontanamento di quest’opera dai principi vitruviani della dispositio, ordinatio, eurythmia, gli anni dal 1534 al 1564 symmetria, decor e distributio – traspare uno spirito che aveva già animato il cosiddetto Memoriale indirizzato da Antonio il Giovane a Leone X poco dopo la morte di Raffaello, nel quale si criticavano sia il coro di Bramante sia il progetto raffaellesco per San Pietro: “redatti a distanza di oltre un quarto di secolo i due memoriali dimostrano con quanta costanza i due fratelli tendessero, nell’attività pratica come nelle ambizioni teoretiche, ad assumere Vitruvio come norma di comportamento”29, oltre che come strumento di razionalizzazione del processo edilizio e mezzo per affermare la propria superiorità culturale e professionale. In questo episodio si può inoltre intravedere la differenza che separa l’approccio all’antico di Michelangelo da quello dei Sangallo, informato da una prassi normativa che delinea l’ambi161 8. Roma, palazzo Farnese, cortile 9. Roma, palazzo Farnese, cortile, dettaglio degli ordini 12. Michelangelo Buonarroti, Studio per cornice di finestra, 1546-1550. Oxford, Ashmolean Museum, WA1846.79 10. Roma, palazzo Farnese, cortile, dettaglio della trabeazione ionica 11. Roma, palazzo Farnese, cortile, dettaglio della finestra e dell’ordine corinzio to in cui si dispiegherà la sistematizzazione dei trattati nei decenni successivi (cat. 16)30. Michelangelo, studioso all’inizio del Cinquecento delle testimonianze artistiche della Romanità come “primo scultore di Roma”31 e più tardi nella Firenze degli anni venti persino attento lettore del testo di Vitruvio32, si interessa alla grammatica piuttosto che alla sintassi del linguaggio classicista, con una sensibilità prossima agli artisti del tardo Quattrocento33. In questo contesto rientra anche il foglio di Casa Buonarroti 90 A recto (cat. 49; Corpus 590 recto), avvicinato in modo assai dubitativo alla fabbrica farnesiana34 e che, più in generale, sembra condividere le riflessioni sul libero assemblaggio dei singoli elementi dell’ordine architettonico, che caratterizza anche la composizione del cornicione del cortile. Più sottile, ma altrettanto incisiva, è la modifica della composizione della finestra centrale del piano nobile: Michelangelo sostituisce l’apertura centinata di Sangallo con un sistema di colonne trabeate, in ciò seguendo il precetto albertiano di collocare archi su pilastri e trabeazioni su colonne, operazione che gli permette di ottenere lo spazio necessario per collocare il monumentale stemma marmoreo con insegne papali (fig. 7). Alla configurazione prevista da Sangallo, l’artista aggiunge inoltre due ulteriori colonne di verde antico, matericamente e cromaticamente distinte dal resto del partito architettonico35, che vanno così a introdurre un ulteriore elemento di stacco rispetto al marmo bardiglio di Carrara della trabeazione, che prosegue idealmente senza soluzione di continuità quella in travertino delle edicole delle finestre36. Una incisione di Nicolas Béatrizet, edita nel 1549 da Antonio Lafrèry (cat. 50)37, e definita “rarissima” da Luigi Passerini alla fine dell’Ottocento38, celebrava le trasformazioni di forte valenza plastica di Michelangelo della facciata farnesiana, architettura che venne elevata a vero e proprio emblema della medaglistica pontificia di Paolo III. Un problema aperto riguardante la facciata è la datazione del completamento del prezioso rivestimento laterizio dell’ultimo registro, datato da Christoph Frommel all’estate del 154939: come già notato in passato40, ma chiaramente emerso nei recenti restauri, l’apparecchio murario è caratterizzato da un particolare tema decorativo basato sulla definizione di triangoli giustapposti, realizzati utilizzando mattoni rossi e gialli disposti alternativamente di testa e di taglio; il decoro della parte sinistra della facciata mostra una composizione molto più ricca e regolare rispetto alla metà destra così da riecheggiare – in modo geometrico e stilizzato – tessiture materiche tipiche dei materiali venati, caratterizzanti i rivestimenti in marmo “a macchia aperta”41. Le analisi condotte nei restauri sui due registri superiori della facciata non mostrano alcuna traccia di scialbatura o intonaco (permangono d’altronde mol162 gli anni dal 1534 al 1564 ti e irrisolti quesiti sul grado di finitura che avrebbe dovuto avere il piano terra), ma questo non vuol dire che non fosse prevista alcun tipo di finitura; infatti, lasciando aperta la questione dell’autografia michelangiolesca riguardo a tale cortina laterizia a facciavista (che avrà una certa fortuna in altre opere romane coeve42, oltre che in palazzo Grifoni a Firenze di Bartolomeo Ammannati43), nel caso vi fosse stata applicata una scialbatura di intonaco semitrasparente, la matrice geometrica del rivestimento laterizio avrebbe creato effetti esplicitamente imitativi simili ai rivestimenti marmorei “a macchia aperta”, come ha notato acutamente Joseph Connors, dall’effetto persino antichizzante, con la conseguenza di un’immagine complessiva della fabbrica certamente meno severa e forse ancora più sontuosa44. 163 13. Roma, palazzo Farnese, facciata verso il giardino L’intervento nel cortile Al momento della morte di Antonio il Giovane, i quattro i corpi dell’edificio rivolti verso il cortile non mostravano lo stesso avanzamento nella costruzione: la storiografia concorda nel ritenere il piano terreno completo su tutti i lati, sia nelle stanze sia nei bracci porticati, a eccezione della parte centrale dell’ala rivolta verso il giardino e del contiguo angolo sud-occidentale, ancora da edificare nell’estate del 1549. La porzione del fronte, come già ricordato, era l’unica a mostrare un avanzato grado di completezza, con i due piani fuori terra conclusi e il terzo in fase di completamento. È stato ipotizzato che la costruzione sia stata realizzata non a porzioni verticali ma procedendo in orizzontale45, così da avere il maggior numero di ambienti abitabili, almeno al pian terreno; la costruzione del blocco della residenza vera e propria era così resa indipendente dall’edificazione del loggiato al piano terra e delle rispettive sovrastanti gallerie. Questo procedimento permise a Michelangelo di cambiare la sezione delle volte degli ambienti del ricetto al piano nobile (la galleria addossata al lato della facciata), passando da una volta a profilo semicircolare a una volta ad arco ribassato, al fine di lasciare, nei due bracci laterali più bassi di quasi tre metri, lo spazio per i mezzanini con le rispettive aperture ricavate fra i piedistalli dei pilastri dell’ultimo registro (fig. 8)46. Nella strutturazione dell’ordine ionico delle facciate sul cortile, Michelangelo porta avanti il progetto sangallesco, mettendo probabilmente in opera quegli elementi architettonici già in gran parte realizzati, a eccezione del fregio a maschere e festoni con gigli farnesiani in travertino, riconosciuto come michelangiolesco insieme ai capitelli in marmo bianco statuario (fig. 9)47. Anche le cornici delle finestre delle arcate dei due bracci laterali del cortile al piano nobile sono as164 14. Giorgio Vasari il Giovane, Pianta del piano terra di palazzo Farnese, 1549. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 4629 A segnate a Michelangelo48: queste ultime cornici sono le uniche cinquecentesche, perché quelle delle finestre poste sui lati del cortile corrispondenti alla facciata e al giardino sono state realizzate contestualmente alla chiusura delle rispettive arcate alla metà dell’Ottocento49. Il fregio dell’ordine ionico appare informato da una tridimensionalità scultorea animata da una grande esuberanza decorativa, dove la lavorazione del travertino simile a quella del marmo è esaltata da Vasari50: il motivo antiquario delle maschere e dei festoni, così trattato, arricchisce e vivacizza l’ordine ionico sangallesco (fig. 10). Nella fase michelangiolesca rientra pienamente la progettazione dell’ultimo piano delle facciate verso il cortile (cat. 51). Paraste corinzie, ribattute in controparaste e innalzate su alto basamento, esemplato sul modello del Colosseo51, sostengono una originale trabeazione che nelle brevi sezioni aggettanti sulla verticale delle paraste richiama i ritmi compositivi degli archi di trionfo (fig. 11). Le paraste inoltre delineano una griglia coerente con la geometria degli ordini dei piani sottostanti in cui si inseriscono articolate finestre, che trovano una preziosa documentazione iconografica nel disegno dell’Ashmolean Museum di Oxford (fig. 12, Corpus 589 recto): tale disegno è stato collegato dalla storiografia più recente al cantiere farnesiano, la quale ha accettato le connessioni con i palazzi capitolini sviluppate da Andrew Morrogh52 e le ha interpretate come una rivisitazione di elaborati concepiti nei decenni precedenti, condotta dall’ormai anziano maestro (tra 1561 e 1563), a costituire un indicativo esempio del processo ideativo di Michelangelo, che a distanza di tempo rivisita e trasforma elaborati grafici concepiti in contesti cronologici anche molto distanti53. La finestra michelangiolesca dell’ultimo ordine del cortile di palazzo Farnese si distingue per l’originalità della composizione, condividendo con le soluzioni elaborate per portali e finestre della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze lo stesso spirito di scardinamento e ricomposizione del linguaggio classicista, portato qui a un ulteriore grado di avanzamento, che traspare dalla modalità con cui si manifesta il montaggio delle parti54. Tre risalti caratterizzano la cornice del timpano curvilineo, il cui interno è arricchito dalla presenza di un bucranio con i canonici festoni. Una singolare trabeazione, articolata in due risalti55, separa il frontone dalla finestra vera e propria, le cui incorniciature in travertino si compongono di una prima mostra che circonda sui quattro lati l’apertura e da una seconda mostra che corre su tre lati: in quest’ultima l’elemento orizzontale superiore piega verso il basso creando lo spazio per la collocazione delle due protomi leonine con anello nelle fauci, motivo che sembra derivato da analoghi esempi presenti nei sarcofagi e nelle vasche romane d’età imperiale56. Sotto le teste leonine si trovano mensole a squame poggianti su allungati triglifi, mentre borchie (o forse piccole patere desunte e decontestualizzate, come i sovrastanti triglifi, dal ricordo di una trabeazione dorica) si osservano nella parte terminale della cornice, con una posizione che ne rievoca e trasfigura la funzionalità quale elemento metallico di fissaggio alla parete. Il prospetto verso il giardino Nel 1560, forse per evitare che il progetto michelangiolesco dell’ala posteriore fosse stravolto o dimenticato57, veniva pubblicata da Antonio Lafrèry una incisione che doveva tramandare lo “stupendo artificio” messo a punto da Michelangelo per il fronte posteriore: l’elaborazione michelangiolesca aveva avuto la definizione finale nel luglio 1549 con il pagamento del modello “delle logge” al legnaiolo Giovanni Pietro, ma la morte del papa nel dicembre dello stesso anno e probabilmente l’onerosità dell’opera ne avevano compromesso la realizzazione58, portata avanti solo nei decenni successivi da Jacopo Vignola e Giacomo della Porta, al quale si deve in particolare la facies definitiva della porzione verso il giardino, conclusa nel 1589 (fig. 13). L’esistenza di una proposta autonoma di Michelangelo per questa porzione della fabbrica ha suscitato un grande interesse nella critica, cui fa riscontro la oggettiva scarsità di elementi disponibili per ricostruire in modo univoco i contenuti e le scelte del progetto michelangiolesco59. In generale, il tema della definizione del prospetto di una residenza urbana o peri-urbana, nella sua connessione con uno spazio aperto retrostante – spesso un vero e proprio giardino – attraversa la cultura architettonica rinascimentale, andando a interessare principalmente fabbriche collocate nelle aree della città dove la maglia dell’edificato si allarga e dove si dispiegano le valenze della panoramicità delle visuali da valorizzare, o dove la topografia crea dislivelli che possono essere regolarizzati attraverso l’architettura; si manifestano così varie proposte, aperte a una feconda sperimentazione di soluzioni diverse, che si muovono intorno al tema delle logge e dei bracci porticati, grazie a proficue contaminazioni sia con l’architettura di villa, sia con le riflessioni teoriche e le sperimentazioni sulla riproposizione della “casa all’antica”. Prima dell’arrivo di Michelangelo nel cantiere farnesiano, la definizione del corpo di fabbrica prospettante verso lo spazio che divide il palazzo da via Giulia, secondo il progetto di Antonio da Sangallo, è nota attraverso il disegno relativo al piano terra conservato al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi 298 A recto e datato agli anni 1540-154160. Il motivo principale è costituito dalla presenza di una loggia centrale incassata a sole tre arcate e preceduta da una sorta di spoglio e corto vestibolo perpendicolare, che ripropone una soluzione gli anni dal 1534 al 1564 ampiamente sperimentata in quegli stessi anni in varie parti della penisola dai protagonisti della nuova architettura rinascimentale61, ma che aveva trovato precoci utilizzazioni nelle opere di Giuliano da Sangallo (come la villa di Poggio a Caiano)62. Nella fase sangallesca di palazzo Farnese risulta inoltre impostato tutto il settore dell’angolo sud-orientale della fabbrica, a costituire un elemento importante per le fasi successive di cantiere63. Che Michelangelo abbia elaborato una propria proposta progettuale in una porzione del palazzo così funzionalmente delicata rispetto alle connessioni fra le varie parti dell’edificio e soprattutto così importante per l’organizzazione delle visuali è noto da tre fonti, variamente utilizzate dalla storiografia: il pagamento del luglio 1549 relativo al “modello delle logge del palazzo verso il giardino”; l’incisione edita da Antonio Lafrè165 ry del 1560; il ricordo vasariano (1568), che amplia e arricchisce l’attestazione del 1548 di Averardo Serristori, ambasciatore fiorentino a Roma, soprattutto riguardo la esplicitazione della funzione della loggia quale filtro e connessione fra le varie parti che articolano il complesso, materializzando il concetto di “permeabilità visiva” fino a una dimensione che supera la scala strettamente architettonica e si proietta nel contesto urbano64. Oltre alle citate tre fonti, si ha poi un gruppo di elaborati planimetrici assai difficile da interpretare perché attestanti una configurazione ritenuta estranea sia alle elaborazioni sangallesche sia a quelle michelangiolesche e che vale la pena riconsiderare65. Si tratta di tre piante, rispettivamente conservate a Firenze, a Berlino e a Vienna, molto probabilmente derivate da un unico originale, di cui la prima porta la data del 12 maggio 1549. A proposito della conformazione della loggia, e più in generale dell’assetto complessivo del fronte posteriore, James Ackerman scrive: Nel progetto corrispondente all’incisione [edita da Lafrèry] il corpo centrale dell’ala posteriore del Sangallo viene ridotto alla profondità di una sola campata, il che permette la costruzione di un diaframma semitrasparente formato da tre logge sovrapposte. […] la facciata verso il giardino può essere schematizzata come una U, in cui la base è formata dalle logge e i lati dai due blocchi sporgenti che seguono – con larghezza leggermente minore – le fondazioni di Sangallo.66 Su questa linea si colloca anche l’ipotesi di Frommel, che propone un grafico ricostruttivo e ragiona sulla possibile conformazione dei due avancorpi verso il giardino, sviluppando un confronto con l’assetto planimetrico della villa Farnesina di Baldassarre Peruzzi, già suggerito da Ackerman e ripreso dalla letteratura successiva67. L’incisione, di mano ignota, edita da Lafrèry nel 1560 e inserita nello Speculum Romanae Magnificentiae non sembra tuttavia esente da ambiguità interpretative (cat. 3). Viene documentata una conformazione al piano terra senza logge, dove si vede un muro con aperture rettangolari fiancheggianti un ampio fornice centrale, diversa rispetto al piano nobile che mostra un interessantissimo assetto “a cannocchiale” (tre fornici aperti verso il cortile e cinque verso il giardino); non sembra inoltre possibile ricavare da questa testimonianza iconografica l’effettiva profondità del corpo centrale rispetto alle due porzioni angolari, non potendosi valutare con esattezza la geometria della volta della loggia del piano nobile (e quindi la sua ampiezza trasversale) che potrebbe presentare anche un profilo ribassato68. Tornando poi alle affini planimetrie di Firenze (fig. 14), Vien166 na e Berlino (datate poco prima del modello michelangiolesco delle logge del 1549)69, esse sono state giudicate lontane sia dal progetto di Sangallo che da quello di Michelangelo70: la parte centrale dell’ala posteriore è occupata da un profondo corridoio, che attraversa tutta la profondità del corpo di fabbrica e che disimpegna gli ambienti degli angoli sud-ovest e sud-est, secondo una conformazione diversa sia da quella documentata nella pianta sangallesca Uffizi 298 A recto sia dall’organizzazione spaziale adombrata nell’incisione. Nel disegno fiorentino si deve comunque sottolineare la particolarità di una didascalia con datazione così puntuale che potrebbe documentare, piuttosto, una scelta diversa o alternativa (ma non totalmente estranea ad analoghe soluzioni rinascimentali) da ciò che avrebbe mostrato, soltanto due mesi dopo, il modello ligneo appositamente commissionato da Michelangelo al legnaiolo Giovanni Pietro: se in queste planimetrie viene rispettato lo schema sangallesco nella configurazione generale (profondità del corpo di fabbrica e distribuzione degli ambienti), non possiamo invece conoscere lo sviluppo del corpo centrale ai piani superiori, trattandosi di elaborati che registrano solo l’assetto del piano terreno71. Nella difficoltà di determinare la qualità e l’articolazione delle logge michelangiolesche aperte sul fronte posteriore di palazzo Farnese, è possibile comunque riconoscerne l’estremo valore concettuale sia a scala architettonica sia a scala urbana. Giorgio Vasari scrive: E perché s’era trovato in quell’anno alle Terme Antoniane un marmo di braccia sette per ogni verso, nel quale era stato dagli antichi intagliato Ercole che sopra un monte teneva il toro per le corna, con un’altra figura in aiuto suo, et intorno a quel monte varie figure di pastori, ninfe et altri animali – opera certo di straordinaria bellezza per vedere sì perfette figure in un sasso sodo e senza pezzi, che fu giudicato servire per una fontana –, Michelagnolo consigliò che si dovessi condurre nel secondo cortile e quivi restaurarlo per fargli nel medesimo modo gettare acque: che tutto piacque. La quale opera è stata fino a oggi da que’ signori Farnesi fatta restaurare con diligenzia per tale effetto. Et allora Michelagnolo ordinò che si dovessi a quella dirittura fare un ponte che attraversassi il fiume del Tevere, acciò si potessi andare da quel palazzo in Trastevere a un altro lor giardino e palazzo, perché, per la dirittura della porta principale che volta in Campo di Fiore, si vedessi a una oc[c]hiata il cortile, la fonte, strada Iulia et il ponte e la bellezza dell’altro giardino, fino all’altra porta che riusciva nella strada di Trastevere: cosa rara e degna di quel Pontefice e della virtù, giudizio e disegno di Michelagnolo.72 L’ambasciatore Averardo Serristori, assiduo frequentatore del palazzo, aveva già riferito questa notizia: “Vive intanto Sua Beatitudine nell’estrinseco molto allegramente et in non lasciare parte del suo Palazzo ch’ella non vogli vedere; v’ha dentro una grande delettatione. Hier mattina andò al suo giardino in Trastevere e perché ebbe a allungar el cammino per ponte Sisto, ha disegnato che si faccia un ponte di legname sopra il Tevere che sarà a linea retta del Palazzo a detto giardino”73. Analizzando tanto il testo vasariano quanto il racconto di Serristori vi si riconoscono due aspetti, complementari ma distinti: la creazione, a livello del pianterreno, di un asse visivo sulla successione piazza-atrio-cortile-giardino con il fulcro visivo nel Toro Farnese e l’apertura di una visuale prospettica che si prolunga fino alle vigne Farnese oltre il Tevere. In questo caso la percezione dell’asse visivo, sulla base della configurazione dell’area74, sarebbe potuta divenire pienamente apprezzabile almeno dal secondo piano, superando così una dimensione altrimenti soltanto ideale. Una sequenza di spazi articolata intorno a episodi scultorei monumentali era già stata sperimentata a Firenze nel secondo Quattrocento in palazzo Medici75, sistemazione aggiornata poi da Antonio da Sangallo il Vecchio fra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento con un progetto, non realizzato, di nuovo allestimento architettonico dei fianchi del giardino del palazzo che includeva la collocazione della copia del Laocoonte di Baccio Bandinelli e una monumentale e utopica statua di Clemente VII, da realizzarsi dallo stesso Michelangelo sulla piazza di San Lorenzo, oltre il giardino e verso la chiesa76. L’intuizione michelangiolesca riguardo a un progetto architettonico a valenza urbana rappresenta un ulteriore passaggio nell’elaborazione di queste tematiche che conosceranno sviluppi e sperimentazioni ulteriori nella seconda metà del secolo, in particolare nei cantieri vignoleschi77. In un interessante gioco di specchi, si può aggiungere che il tema del rapporto di un fronte posteriore di palazzo in relazione a un retrostante giardino, organizzato lungo un asse sottolineato da elementi scultorei monumentali (fontane), si gli anni dal 1534 al 1564 ritrova a Firenze sul finire del quinto decennio del Cinquecento, contrassegnando il dibattito sulla configurazione da assegnare al fronte posteriore di palazzo Pitti verso il giardino di Boboli, prima della definitiva sistemazione ammannatiana78. Le valenze del progetto di Michelangelo verso Trastevere appaiono ancora più significative se si considera che tale concatenazione assiale si trova specularmente ribaltata nella maglia urbana dall’altro lato del palazzo con il sistema piazza Farnese -via del Baullari-via Papale79: in questo caso si tratta di un intervento messo a punto negli anni precedenti, ma con una decisiva accelerazione proprio alla fine del pontificato farnesiano, quando venne data valorizzazione alla piazza anche e soprattutto attraverso un nuovo disegno della pavimentazione, attestato nell’incisione di Béatrizet del 1549 (cat. 50). A tale proposito, Wofgang Lotz ha infatti ipotizzato che tale disegno sia ascrivibile a Michelangelo, come se l’architetto volesse materializzare il reticolo prospettico convergente verso il palazzo, proiettandolo idealmente oltre il fiume80. Pur nella brevità della presenza michelangiolesca nel cantiere farnesiano, i suoi interventi rimangono significativi, esplicitando ancora una volta il suo caratteristico approccio all’architettura, animato da un rapporto dialogico con la scultura e da un particolare e variegato interesse per l’antico, il primo declinato nella profonda conoscenza delle valenze cromatiche e materiche dei diversi materiali da costruzione, il secondo concepito come un inesauribile repertorio cui attingere per dare nuova vita e nuovi significati a un linguaggio che, ai suoi occhi, non è possibile né opportuno ricondurre e limitare a un arido complesso di regole. Si riconosce infine anche in questo episodio la sensibilità di Michelangelo nel superare la dimensione strettamente architettonica nella progettazione, dilatando la razionalizzazione dei processi ideativi e costruttivi alla compagine urbana con la quale si intesse un fecondo dialogo che, coinvolgendo sempre la scultura, raggiunge esiti non lontani dal paradigmatico esempio della progettazione di piazza del Campidoglio. 167 Ackerman 1961, vol. I, pp. 75-88, vol. II, pp. 67-82; Bonelli 1964; F. Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 901-909; L. Salerno, scheda, in Salerno, Spezzaferro, Tafuri 1973, pp. 472-488; Frommel 1973, vol. II, pp. 140-144; Frommel 1981; Lotz 1981, pp. 230-236; Spezzaferro 1981; Ackerman 1988, pp. 79-91, 229-248; Di Mauro 1988; Eiche 1989; Argan, Contardi 1990, pp. 239-251; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, pp. 264-271; Frommel 1994c; Bruschi 1996, pp. 40-43, 105-106; Conforti 2001, pp. 26-31; Bruschi 2002c, pp. 196-198; Frommel 2002; Tuttle 2002; Cherubini 2003; Fagiolo 2007, pp. 81-83. 2 Frommel 1994c; Bruschi 1996, pp. 39-53, 102-106; Conforti 2001, pp. 29-30. 3 Ackerman 1961, vol. I, pp. 75-88; Frommel 1981; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, pp. 264-271. 4 Frommel 1994c, p. 6. 5 Uginet 1980; Frommel 1981, pp. 160 sgg; Ackerman 1988, p. 238. 6 Lotz 1981; Tuttle 2002. 7 Tuttle 2002, p. 196. 8 Lotz 1981, pp. 236 sgg.; Conforti 2001, p. 32. 9 Ackerman 1988, p. 83. 10 Frommel 1981, p. 160. 11 Di Mauro 1988; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 264. 12 Prisco 1991. 13 Così Ackerman 1988 e B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990. 14 Lettera di Prospero Mochi a Pier Luigi Farnese, 2 marzo 1547, documento noto alla storiografia tardo ottocentesca e ripubblicato in Frommel 1973, vol. II, p. 110, doc. 55. 15 Mussolin 2006, p. 93. 16 Per i contrasti fra Michelangelo, la “setta sangallesca” e Nanni di Baccio, si veda in particolare Wittkower 1968, ma soprattutto le considerazioni in Conforti 2002, pp. 78-80. 17 Per le notissime lettere di Giovan Battista da Sangallo a Paolo III e di Giovan Francesco Ughi a Michelangelo dove si riferisce delle accuse di Nanni di Baccio, si vedano rispettivamente, Pagliara 1982, pp. 28-29, 1 168 33-34 (con bibliografia precedente), e Gotti 1875, vol. I, p. 310; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 265. 18 B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 265. 19 Tafuri 1991. 20 Bonelli 1964, p. 614; Conforti 2001, p. 27. 21 Bonelli 1964, p. 614. 22 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. IV, p. 444. 23 Pacciani 1998, p. 360, con bibliografia precedente; per la collocazione nella topografia dei Fori delle rovine non più esistenti denominate Spoglia Christi, cfr. Passigli 1989, pp. 323-324 e Viscogliosi 2000, p. 91, l’autore suggerisce che il muro sottostante alle membrature dovesse essere rivestito da marmi colorati. 24 Viscogliosi 2000, p. 148. 25 Per il taccuino, cfr. Ashby 1904; Wilde 1953a, pp. 31-35; Buddensieg 1975 (che per primo ha identificato l’autore dei rilievi dall’antico in Bernardo della Volpaia, collaboratore dei Sangallo); Agosti, Farinella 1987a, pp. 25-27; Nesselrath 1992, speciatim pp. 154-157; Burns 2006, pp. 31-36; l’argomento è stato trattato da Caroline Elam nella conferenza Esecuzione e recezione del Codice Coner. Bernardo della Volpaia, Baccio d’Agnolo e Michelangelo, tenutasi presso il Kunsthistorisches Institut di Firenze il 10 giugno 2008, nella quale è stato proposto di riconoscere in quella di Baccio d’Agnolo la terza mano del codice. 26 La trabeazione indicata come Spoglia Christi è spesso confusa con l’assai simile trabeazione “delle Colonnacce”; la prima è disegnata nel Codice Coner a c. 67v (Ashby 1904, n. 88), ma non appare fra i disegni ricopiati da Michelangelo; la seconda presente nel Codice Coner a c. 68v, (identificata in Ashby 1904, n. 89) è stata ridisegnata da Michelangelo nel solo dettaglio dell’architrave nel foglio del British Museum (inv. n. 1859-6-25-560/2r B; Corpus 511 recto); cfr. Agosti, Farinella 1987a, pp. 98-99, fig. 1, disegno “B”. 27 Fairbairn 1998, vol. I, p. 354, n. 527; C. Brothers, scheda 3, in Elam 2006, p. 165, nota 5. Pagliara 1982. Pagliara 1986, pp. 47, 53-54. 30 Ivi, p. 55. 31 Lettera di Cesare Trivulzio a Pomponio Trivulzio del primo giugno 1506, ricordata in Agosti, Farinella 1987a, p. 23. 32 Ivi, pp. 36-37; Ferretti 2004, p. 457. 33 Bruschi 2000, pp. 37-38. 34 Il foglio è stato riconosciuto come appartenente alle elaborazioni per il cornicione del cortile, in Barocchi 1962-1964, vol. I, p. 194. 35 Gnoli 1988, p. 59. 36 Grande attenzione per i materiali impiegati nella finestra monumentale nel suo complesso è mostrata da Conforti 2001, p. 29. 37 Si veda anche la scheda 45, in Corsi, Ragionieri 2004, p. 59; Fagiolo, Madonna 1985, p. 165. 38 Passerini 1875, p. 285; un commento all’incisione si trova in Ackerman 1961, vol. II, p. 77. 39 Frommel 1981, p. 160. 40 Pagliara 1980, p. 40. 41 Cherubini 2003, p. 63. 42 Tuttle 2002. 43 Ruschi 1995, p. 309; su palazzo Grifoni a Firenze, cfr. il saggio di Claudia Echinger-Maurach in questo stesso catalogo. 44 Connors 2004, p. 199, propone come scelta di Michelangelo una più sobria soluzione con opera laterizia a vista; per la qualità della finitura del registro del piano terra e dei registri superiori, si veda Cherubini 2003, pp. 61-62 (che ricorda la strutturazione del dispositivo murario come composta da un nucleo solido di tufo e materiali di recupero legati con calce e pozzolana, rivestiti di una preziosa “pelle” in laterizio); sull’argomento si vedano anche le considerazioni in Lange 1990. 45 Ackerman 1988, p. 241; si veda anche Eiche 1989. 46 Frommel 1981, pp. 163 sgg.; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 270. 47 Frommel 1981; per l’analisi dei materiali utilizzati, cfr. Cherubini 2003, p. 70. 48 Così Frommel 1981, ma di diversa opinione è Ackerman 1961, che le ritiene di Vignola. 28 29 49 B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 270. 50 Cherubini 2003, p. 70. 51 B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 270. La base della parasta è separata dal piedistallo da una sorta di alto dado. 52 Morrogh 1994; per la complessa fortuna critica del disegno, si veda Joannides 2007, pp. 262-269; lo studioso associa il disegno a palazzo Farnese, ricordando inoltre l’analoga posizione in Elam 2001; si veda anche C. Elam, scheda 21r, in Elam 2006, pp. 202-203. 53 Hedberg 1972, pp. 63-69; Joannides 2007, p. 267. 54 Morolli 1993, pp. 141-142; in particolare, per le similitudini fra i disegni dell’Ashmolean Museum (Parker 1953, n. 332; Corpus 605 recto; Parker 1953, n. 333r; Corpus 589, quest’ultimo sovente avvicinato alla finestra dell’ultimo registro di palazzo Farnese), e i progetti per portali e finestre della Biblioteca Laurenziana, si vedano ora le significative considerazioni in C. Elam, scheda 21r, in Elam 2006, pp. 202-203; inoltre C. Brothers, scheda 141, in Elam 2006, pp. 188-189. 55 La trabeazione del frontone curvilineo è caratterizzata da due blocchi d’appoggio (con singolari terminazioni a guttae) notevolmente disassati rispetto agli stipiti della cornice sottostante; tale soluzione non trova riscontro né nell’incisione edita da Lafrèry – che come si dirà mostra tuttavia molte ambiguità interpretative – né nel disegno di Oxford (Parker 1953, n. 333, Corpus 589), dal momento che incisione e disegno collocano i blocchi d’appoggio in asse con gli stipiti sottostanti; tali documenti grafici, per la loro natura, non possono essere considerati decisivi per determinare che le membrature delle trabeazioni delle finestre siano lontane dalle intenzioni di Michelangelo; si può notare che una tale trabeazione accentua da un lato l’autonomia dell’apertura vera e propria con le sue incorniciature, dall’altro enfatizza la morfologia e la dimensione del frontone nel serrato impaginato della parete; una analisi formale di questa finestra è in Frommel 1981, p. 166. Ambrogi 1995, p. 25. Frommel 1981, p. 161. 58 Ibidem. 59 Ackerman 1961, vol. I, pp. 86-88; Frommel 1981, pp. 161-164; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 271; Conforti 2001, p. 29. 60 Frommel 1981, pp. 156-157; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 264. 61 Frommel 1994a. 62 Pellecchia 1989; Frommel 1994a. 63 Ackerman 1988, p. 246; Frommel 1981, p. 162. 64 Fagiolo 1984, p. 219. 65 Questi tre documenti grafici (rispettivamente: Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi A 4927 A recto; Berlino, Staatliche Museen,Kunstbibliothek, Hzd 4151; Vienna, Albertina, Arch. n. 1073) sono analizzati in Ackerman 1988, pp. 242-243; Frommel 1981, pp. 168-169; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 270. La veduta del cortile dell’anonimo fiammingo di Braunschweig (1554-1560), pubblicata in Frommel 1973, vol. III, p. 59, non sembra fornire elementi importanti per comprendere lo stato della parte posteriore della fabbrica, ribadendo piuttosto l’esistenza al piano terra di un muro con un grande fornice che separa il braccio porticato del cortile dal giardino e che costituisce il fondale per le due statue di Ercole. 66 Ackerman 1988, p. 242; in Ackerman 1961, vol. I, p. 87 si parla esplicitamente di una riproposizione del56 57 gli anni dal 1534 al 1564 lo schema della villa Farnesina di Peruzzi. 67 Frommel 1981, pp. 165-166; Lotz 1981, p. 231; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 264; Conforti 2001, p. 28. 68 Se resta ampiamente condivisibile la proposta ricostruttiva di una configurazione a U, ipotizzando una sezione molto ribassata della volta delle logge del piano nobile, si può immaginare un corpo centrale loggiato di profondità più consistente e quindi con ali laterali meno pronunciate. 69 Il disegno degli Uffizi è di Giorgio Vasari il Giovane, che alla fine del Cinquecento realizza una raccolta di disegni che documentano molte fabbriche, principalmente fiorentine (Olivato 1970; Stefanelli 1970). A palazzo Farnese vengono dedicati altri due disegni, già noti ad Ackerman: una rappresentazione della facciata, con la finestra michelangiolesca, ma senza il cornicione (Uffizi 4939 A), rappresentato in modo approssimativo in un altro foglio (Uffizi 4629 A), Ackerman 1961, vol. II, p. 73; nel volume Porte e Finestre di Firenze e Roma disegnate dal Cavalier Giorgio Vasari degli Uffizi, si trova un disegno della finestra michelangiolesca dell’ultimo registro del cortile: Uffizi 4702 Ar (Olivato 1970, p. 198); nel corpus degli elaborati del nipote dell’Aretino emerge chiaramente la particolarità della datazione del disegno e della didascalia (“Questa è la pianta del Palazzo di Farnese di Roma di mano di messer Antonio da Sangallo con l’aggiunta di Michelangelo Buonarruoti e di quello che vi mancha, fatto oggi questo dì 12 di maggio 1549”), Olivato 1970, p. 228, nota 100; non è da escludere che tale disegno sia derivato da un originale, poi perduto, che Vasari il Giovane ha potuto osservare, circostanza ipotizzata per un altro disegno dello stesso autore (Uffizi A 4686) che rappresenta il fronte della cappella di Leone X in Castel Sant’Angelo, per il quale si rimanda al saggio di Mauro Mussolin in questo catalogo. Una data così puntuale nella didascalia del foglio Uffizi 4927 Ar riguardante palazzo Farnese potrebbe spiegarsi considerando il disegno in connessione con un capitolato, oppure con una lettera o un pagamento, allegato al disegno e registrato da Vasari il Giovane. 70 Ackerman 1988, pp. 243-244. 71 Se si deve dar credito al Memoriale di Guglielmo della Porta del 1574, a tale data i progetti di Michelangelo per quella parte della fabbrica non furono rintracciati, Lotz 1981, p. 233. 72 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 224; per il ritrovamento del Toro Farnese e i restauri compiuti al tempo di Paolo III e, poi, del cardinale Alessandro, si veda Prisco 1991, p. 47. 73 Lettera di Averardo Serristori a Cosimo I da Roma, 21 di luglio 1548, Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 3267, c. 132, citata in Navenne 1914 e ripresa in Frommel 1973, vol. II, p. 111. Frommel 1981, p. 168. Caglioti 2000, vol. I, pp. 101-152, 359-379, vol. II, tav. 18. L’importanza di palazzo Medici nel contesto romano è stata sottolineata, per esempio, nel caso dell’organizzazione della sequenza degli spazi edificati e degli spazi aperti nel bramantesco palazzo Castellesi in Borgo, Bruschi 1989, p. 29. 76 Satzinger 1996; Zampa 2007. Vasari usa parole molto simili per descrivere la concatenazione visiva che caratterizza la sequenza degli spazi in palazzo Medici quando critica la collocazione dell’Orfeo-Apollo di Bandinelli che andava a interrompere, a suo dire, proprio l’asse visivo dal portale d’ingresso fino al giardino retrostante, Vasari, ed. Milanesi 18781885, vol. VI, p. 144. 77 Fagiolo 1984, p. 219. 78 Belli 2006; Ferretti 2006; per i lavori di Ammannati a palazzo Pitti, si veda Belluzzi 2006 con bibliografia precedente. Ammannati nella fabbrica di Pitti combina i due aspetti: da un lato l’ampliamento dell’asse visivo dal piano nobile verso il giardino di Boboli, dall’altro la permeabilità degli spazi al pian terreno nella successione piazza, androne, cortile, secondo una visione organizzata e diretta verso l’ingresso della grotta di Mosè al fondo del cortile stesso. 79 Spezzaferro 1981; Fagiolo, Madonna 1985, pp. 160-161. 80 L’ipotesi di Lotz è ricordata in Ackerman 1961, vol. I, p. 88. 74 75 169 1. Domenico Cresti da Passignano, Michelangelo presenta al papa il modello per il completamento di San Pietro, circa 1618-1619. Firenze, Casa Buonarroti, inv. 225 SAN PIETRO IN VATICANO Alessandro Brodini Michelangelo fu incaricato di occuparsi della nuova basilica di San Pietro in Vaticano quando la sua ricostruzione era già iniziata da quarant’anni. Nella lunga storia di questa impresa colossale, che si concluse solo nel secolo successivo, la fase michelangiolesca può essere valutata come un piccolo frammento, di soli diciassette anni, che però si rivelò sotto molti aspetti decisivo per la configurazione definitiva della chiesa più importante della cristianità. Nonostante i quattro decenni già trascorsi e la schiera di importanti architetti che vi avevano preso parte, la fabbrica era ancora molto lontana dal completamento e per Paolo III (1534-1549) la questione si configurava ormai come un grosso problema: il papa che aveva promosso l’apertura del Concilio di Trento non voleva più ignorare che uno dei motivi della protesta luterana era proprio il finanziamento del nuovo edificio. Per il pontefice San Pietro doveva diventare il simbolo del riconquistato ruolo della Chiesa dopo la scissione. Con l’arrivo di Michelangelo si concluse finalmente la prima fase del cantiere vaticano che, per quanto si possa considerare un eccezionale laboratorio di idee, pareva esser caratterizzato da una duplice anima. Da un lato vi era la vicenda costruttiva dell’edificio vero e proprio che progrediva con velocità e ritmi diversi a seconda dei momenti, dall’altro si dispiegava tutta la lunga serie di progetti e controprogetti che spesso non tenevano conto di quanto già costruito o previsto precedentemente e, in diversi casi, si inoltravano nell’affascinante territorio dell’utopia. Due strade parallele e spesso indipendenti che certamente non favorivano la conclusione della basilica. Data l’importanza dell’edificio, e la sua eccezionalità da vari 170 punti di vista, la storia del San Pietro michelangiolesco può essere delineata con l’aiuto di diverse fonti quali documenti di cantiere, lettere, contratti, disegni di Michelangelo e di altri artisti, vedute, incisioni e rappresentazioni ad affresco, nonché testimonianze di contemporanei come Giorgio Vasari e Ascanio Condivi1. Tuttavia le informazioni che si possono ricavare da questa messe di dati non raramente sono in contraddizione tra loro e vi è dunque una serie di questioni che le fonti non riescono a trarre dall’ombra. Ciò è dovuto in gran parte a Michelangelo stesso: è ben noto quanto egli fosse restio a mostrare ad altri gli esiti del suo pensiero in fieri, tanto che poco prima di morire decise anche di bruciare molti dei disegni che aveva in casa2; ma il motivo principale va ricercato nel fatto che, conformemente al suo modo di operare, Michelangelo non redasse mai un progetto globale e definitivo per San Pietro. La perenne fluidità delle sue concezioni, l’abitudine a procedere per parti – risolvendo i diversi problemi mano a mano che si presentavano – e la necessità di mantenere nella maggior vaghezza possibile vari aspetti progettuali, riservandosi così la possibilità di modificare le proprie idee sino all’ultimo momento, hanno fatto sì che oggi sia difficile avere un’idea precisa di quelle parti della basilica costruite dopo la sua morte. Se a questo si aggiunge che i circa venti disegni autografi riguardano tutti la cupola (tranne uno schizzo in pianta e due schemi per una copertura absidale), è facile giungere alla conclusione che la miglior fonte del San Pietro michelangiolesco è l’edificio stesso, nelle parti costruite entro il 1564. A seguito della morte di Antonio da Sangallo il Giovane, Michelangelo venne contro la sua “voglia con grandissima forza messo nella fabrica”3 negli ultimi mesi del 1546 (ma l’incarico fu ufficialmente ratificato nel gennaio 1547)4. Aveva settantun anni compiuti. Il suo incontro come artista con la basilica di San Pietro – ancora quella costantiniana – si può però far risalire a mezzo secolo prima, quando su incarico del cardinale Jean de Bilhères Lagraulas egli scolpì la Pietà (1498-1499) per la cappella del re di Francia, ovvero l’antica rotonda di Santa Petronilla che sarebbe stata entro pochi anni distrutta per lasciare spazio al braccio meridionale del nuovo transetto. E con sguardo da architetto, o comunque da scultore attento ai rapporti spaziali, Michelangelo osservò anche gli scarni resti della costruzione che papa Niccolò V (1447-1455) aveva fatto iniziare a metà Quattrocento, partendo dalla zona del coro, spinto dal desiderio di rinnovare l’antica basilica. Papa Giulio II (1503-1513), infatti, dopo aver visto il progetto per il proprio monumento sepolcrale commissionato a Michelangelo, mandò l’artista in San Pietro per valutare dove si potesse collocare. Secondo le parole del biografo Ascanio Condivi “parve a Michelagnolo che tal luogo [il coro niccolino] fusse molto a proposito e, tornato dal papa, gli spose il suo parere, aggiungendo che, se così paresse a Sua Santità, era necessario tirar sù la fabrica e coprirla”5. Condivi attribuisce perciò a Michelangelo il merito di aver destato l’interesse del papa per il rinnovamento della basilica vaticana. Giulio II incaricò Donato Bramante di occuparsi del progetto e, nel 1506, venne posta la prima pietra di quella che sarebbe diventata un’impresa secolare. Dopo la stasi del Sacco di Roma del 1527 e la riduzione del cantiere a una sorta di enorme rovina6, solo con Paolo III si ebbe la concreta volontà di riprendere e possibilmente portare a termine i lavori. Il predecessore di Michelangelo, Antonio il Giovane, aveva guidato il cantiere di San Pietro per quasi un trentennio e negli ultimi anni di vita si era dedicato alla realizzazione di un enorme modello ligneo, tutt’oggi esistente, che fissasse in modo definitivo la strada da seguire per completare l’edificio. Al suo ingresso in cantiere, Michelangelo criticò subito ogni aspetto della precedente conduzione sangallesca, proprio a partire da quel modello: la realizzazione del progetto che esso visualizzava avrebbe determinato problemi sia di carattere funzionale che formale. Secondo Vasari, Michelangelo trovava la chiesa “cieca di lumi, e […] di fuori troppi ordini di colonne l’un sopra l’altro, e che con tanti risalti, aguglie, e tritumi di membri, teneva molto più dell’opera todesca, che del buon mondo antico, o della vaga e bella maniera moderna”7. L’aspetto disordinato che la sovrapposizione di ordini e la proliferazione di modanature conferivano al progetto avrebbe avvicinato l’edificio all’architettura gotica e l’esplicito riferimento al mondo tedesco non era forse privo di malizia da parte di Michelangelo, se si ricorda gli anni dal 1534 al 1564 da dove giungevano le critiche e buona parte dei guai che Paolo III stava affrontando. Ma anche la mancanza di illuminazione denunciata da Michelangelo gli offriva la possibilità di tracciare una sapida e poco raccomandabile prospettiva, poiché l’oscurità e l’articolazione dei molti ambienti secondari avrebbero fornito l’occasione di creare “tanti nascondigli fra di sopra e di socto, scuri, che fanno comodità grande a ’nfinite ribalderie, come tener segretamente sbanditi, far monete false, impregniar monache e altre ribalderie”8. La seconda mossa di questa strategia di attacco riguardava l’amministrazione dei lavori e la gestione del cantiere. Nella lunga fase sangallesca si era consolidata una prassi di governo che appariva agli occhi di Michelangelo totalmente inaccettabile: le assegnazioni degli appalti, le determinazioni dei prezzi e le forniture dei materiali da costruzione erano condotte in 171 2. Ricostruzione degli interventi di Michelangelo in San Pietro in relazione a quelli dei predecessori 4. Anonimo, Veduta di San Pietro da sud-est, circa 1556. Berlino, Staatliche Museen Kupferstichkabinett, 79D2a, c. 60v (addizione al taccuino Heemskerck) 3. Città del Vaticano, San Pietro, esterno modo poco onesto. Il gruppo di collaboratori di Sangallo, quello che Vasari sprezzantemente chiamava la “setta sangallesca”, aveva sperato di poter continuare nello stesso modo suggerendo a uno scandalizzato Michelangelo la possibilità di sfruttare l’occasione e gestirla come “un prato che non vi mancherebbe mai da pascere”9. L’architetto era invece ben intenzionato a fare in modo che questi “inganni et robbarie”10 avessero fine e, per tutta risposta, estromise le persone che erano state legate a Sangallo, collocando nuovi collaboratori di sua totale fiducia, come lo spagnolo Juan Bautista de Alfonsiis, che assunse la carica di secondo architetto11. Infine Michelangelo assestò un duro colpo anche ai più alti responsabili del cantiere, i deputati alla Fabbrica di San Pietro, cioè l’istituzione che doveva guidare l’impresa dal punto di vista amministrativo e finanziario. Si trattava di personalità molto in vista (il vicario del papa Filippo Archinto, il canonico di San Pietro Giovanni Arberino e Antonio Massimo, esponente di una delle famiglie romane emergenti) che avevano il compito di prendere decisioni e coordinare le complesse manovre necessarie alla prosecuzione dei lavori, nonché rendere conto direttamente al pontefice del loro operato. Essi dovevano pure svolgere la funzione di mediatori con il papa, ma Michelangelo non volle assolutamente che questi si frapponessero tra lui e Paolo III. Già attivi nella fase sangallesca, tali deputati non avevano grande interesse ad appoggiare Michelangelo, poiché l’approvazione della nuova gestione sarebbe stata letta come un’implicita denuncia del loro precedente operato. Anche se non era per loro possibile andare contro la volontà papale, i deputati cercarono molte volte di estromettere Michelangelo e ridimensionare il suo enorme potere, per esempio facendo talvolta leva sulla sua considerevole età; e se non vi riuscirono mai, furono comunque in grado di rendergli la vita difficile, anche quando Paolo III lo aveva decretato sovrano assoluto con un motu proprio (1549) che non aveva precedenti nella storia delle commissioni artistiche12. Tuttavia Michelangelo pose al papa una condizione: per il suo incarico in San Pietro non voleva che gli fosse erogato alcuno stipendio, perché intendeva lavorare solo per la gloria di Dio. In realtà è stato dimostrato che nel periodo in cui egli era occupato nella basilica continuò a percepire delle entrate mensili – tranne durante il papato di Paolo IV (1555-1559)13. Ma non si trattava affatto di un compenso erogato dalla Fabbrica – che quindi per lui non spese effettivamente nulla –, bensì di emolumenti che gli venivano dalla concessione del passo del Po presso Piacenza e in seguito dalla Cancelleria di Rimini14. Conformemente allo status che sentiva come proprio, e al fatto che non si considerava un artista comune, Michelangelo non voleva un salario ma una rendita. Eliminato così l’interesse economico, l’architetto si 172 era procurato un’altra arma da poter sfoderare contro le proteste dei deputati: le sue scelte in merito alla costruzione non erano infatti dettate dalla ricerca del profitto personale, ma unicamente guidate dall’amore per Dio. I deputati iniziarono così a prendere atto che le scelte progettuali erano ormai a loro precluse e si videro declassati al rango di semplici “pagatori”. Un episodio collocato da Vasari nel 1551 illustra con chiarezza questa nuova situazione e getta anche luce sul modo di lavorare di Michelangelo, a cui si è precedentemente accennato. L’architetto venne infatti convocato alla presenza del papa per dare conto di alcune accuse mossegli dai deputati i quali, non essendo a conoscenza del progetto, lamentavano che la costruzione del catino absidale meridionale avrebbe determinato una scarsa illuminazione (di nuovo la mancanza di luce come movente per le critiche). Dopo una rapidissima e sdegnata spiegazione di Michelangelo in merito alla realizzazione di altre finestre, i deputati gli risposero: “Voi non ce l’avete mai detto”15. La riluttanza a comunicare il suo pensiero per chiarire le proprie idee su parti dell’edificio non ancora compiute lasciava, ancora una volta, aperta la strada a modifiche e variazioni dell’ultimo minuto. Dal punto di vista più operativo per concretizzare le proprie idee, oltre al disegno, Michelangelo si serviva preferibilmente di modelli in scala, realizzati sia in creta sia in legno16. E proprio sul terreno dei modelli era partito il suo attacco ad Antonio da Sangallo: mentre questi aveva impiegato sette anni e una quantità enorme di denaro per realizzare il mastodontico modello in legno, Michelangelo appena giunto in cantiere realizzò in due settimane un primo modello in argilla, costato solo venticinque scudi17. In un breve arco di tempo (entro il 1547), per rendere più intelligibile il progetto, Michelangelo realizzò un modello in legno, ma ancora parziale e incompleto, le cui fattezze furono probabilmente rappresentate nell’incisione pubblicata da Vincenzo Luchino (cat. 58) e, con alcune modifiche successive, nel dipinto di Domenico Cresti da Passignano (fig. 1). Nel corso di diciassette anni Michelangelo produsse altri modelli di particolari costruttivi o decorativi, come quello per un tabernacolo, o per una cornice interna, o per la volta absidale del transetto meridionale (cat. 59)18, fino ad arrivare al grande modello ligneo per la cupola (15581561), preceduto da uno studio in argilla realizzato nel 1556. I modelli però, per quanto dettagliati potessero essere, non garantivano affatto l’intangibilità del progetto michelangiolesco. Era proprio la storia della fabbrica a insegnare che ogni architetto poteva distruggere molto di quanto era stato fatto dai predecessori19; e del resto Michelangelo stesso, nonostante l’enorme e definitivo modello che aveva trovato, iniziò con lo smantellamento di quanto costruito da Sangallo. Michelangelo sapeva gli anni dal 1534 al 1564 bene che non avrebbe visto la basilica finita; era quindi necessario prendere provvedimenti affinché le sue scelte venissero rispettate nel futuro e in diverse occasioni aveva affermato che era sua intenzione condurre la fabbrica “in tal termine, che la non potessi esser mutata con altro disegno fuor dell’ordine mio”20. Ma come riuscì a ottenere questo risultato? È Vasari che lo spiega con chiarezza: “Con ogni accuratezza [Michelangelo] si messe a far lavorare per tutti que’ luoghi dove la fabrica si aveva a mutare d’ordine, a cagione ch’ella si fermassi stabilissima, di maniera che ella non potessi esser mutata mai più da altri: provedimento di savio e prudente ingegno, perché non basta il far bene, se non si assicura ancora”21. In modo apparentemente irrazionale, Michelangelo avviò la realizzazione di settori scollegati della basilica, aprendo contemporaneamente diversi cantieri finalizzati alla definizione di singole parti della costruzione: era l’edificio stesso a diventare modello in pietra a cui i successori si sarebbero dovuti attenere22. Partendo dall’abside del transetto meridionale, condotta a compimento fino all’attico compreso, Michelangelo determinò automaticamente anche l’aspetto delle altre due absidi (quella settentrionale fu comunque realizzata mentre era ancora in vita); costruendo il tamburo della cupola ne assicurò l’immutabilità, mentre con il modello ligneo fissò l’aspetto che avrebbe dovuto assumere la calotta; infine, avviando le fondazioni delle due cappelle angolari verso nord, definì il perimetro globale della basilica. Certo, rimanevano in sospeso molte altre questioni, ma nelle parti essenziali l’edificio era ormai impostato. Come si svolsero, dunque, questi lavori? Grazie ai numerosi documenti di cantiere è possibile seguirne in modo abbastanza puntuale l’andamento23, ma per comprendere esattamente la portata delle innovazioni di Michelangelo è opportuno consi173 5. Michelangelo Buonarroti, Disegno per la calotta absidale meridionale di San Pietro, lettera a Giorgio Vasari, 1 luglio 1557. Arezzo, Casa Vasari, cod. 12, c. 22v derare cosa era stato costruito entro la fine del 1546, quando egli assunse l’incarico24. Non dovrebbe sfuggire infatti che, per quanto rivoluzionario fosse, anche il suo intervento seguiva quel flusso già consolidato nel cantiere: come era accaduto agli architetti che lo avevano preceduto, anche Michelangelo doveva accettare alcuni vincoli, dati da quelle parti della costruzione non più modificabili (fig. 2). Tra questi, i più significativi erano certamente i piloni bramanteschi della cupola (e gli archi di raccordo tra essi) che, con la loro dimensione e collocazione non solo determinavano il diametro della cupola principale, ma vincolavano anche il rapporto tra questa e le cupole minori. Anche la grande volta a botte del braccio meridionale del transetto era conclusa, così come quelle delle navi piccole tutte intorno alla crociera; verso ovest, infine, il coro di Bramante era fornito di copertura. Invece la connessione all’antica basilica costantiniana non era stata affrontata, mentre si conservavano ancora in sito l’obelisco vaticano e la rotonda peleocristiana di 174 6. Anonimo, Sezione e prospetto frontale di San Pietro, circa 1565. Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. XII, D 74, c. 22v Sant’Andrea, come mostra una veduta di Giovanni Antonio Dosio (cat. 52). Ma soprattutto il deambulatorio meridionale era in costruzione. La prima operazione intrapresa da Michelangelo riguardava proprio quest’ultima parte: decise di demolirla. I deputati sbigottiti cercarono di evitare questa costosa distruzione, ma Michelangelo ebbe la meglio facendo intendere che la demolizione era necessaria per ridurre “San Pietro a minor forma, ma sì bene a maggior grandezza”25; la nuova basilica sarebbe stata cioè dimensionalmente più piccola di quella di Sangallo, ma molto più grandiosa. Se a prima vista il deambulatorio di Sangallo non sembra essere stato un vincolo così determinante, in realtà la sua configurazione fu decisiva per Michelangelo, perché il suo muro interno venne trasformato in muro perimetrale della basilica, definendo così la forma e la dimensione dell’abside. I tre passaggi che in origine consentivano il collegamento tra questa e il deambulatorio vennero chiusi da Michelangelo e trasformati in cappellette. Mentre era in atto lo smantellamento del deambulatorio meridionale, veniva portata avanti anche la costruzione delle pareti del transetto settentrionale, che poteva così essere voltato a botte, uniformemente ai bracci orientale e meridionale. Intorno alla metà del 1549 infatti si eresse la centinatura per la volta, che si può immaginare simile a quella riprodotta nell’incisione di Jacobus Bos (1561) e inserita nello Speculum Romanae Magnificentiae (cat. 63). Nell’iscrizione l’incisore afferma che Michelangelo avrebbe ripreso questa complessa opera di carpenteria da Antonio da Sangallo e avrebbe poi continuato a utilizzarla26. L’eliminazione del deambulatorio determinò anche la possibilità di rinforzare i contropilastri della cupola, cioè quelle enormi strutture murarie che attualmente corrispondono agli “smussi” diagonali che fiancheggiano le absidi e si percepiscono chiaramente all’esterno (fig. 3). Sangallo li aveva scavati perché proprio in quei punti si sarebbero collocati gli accessi al deambulatorio; Michelangelo invece ne approfittò per inserirvi i cilindri delle rampe a chiocciola attraverso cui era possibile portare in alto i materiali da costruzione (cat. 52; cat. 56). Intanto cominciava a prendere forma anche la parete dell’abside meridionale (cat. 55) e le prime fasi di questa realizzazione sono restituite da una veduta del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi 4345 A (cat. 53) dove, tra l’enorme antenna per il sollevamento dei materiali sulla sinistra e quella più piccola a destra, si scorge la cornice a timpano triangolare retto da mensole di una nicchia del primo livello. La rappresentazione va datata a dopo il 1552 (probabilmente 1553-1554) perché si scorge lo zoccolo sopra il cornicione del tamburo (iniziato nel 1549), che era stato ultimato proprio nel febbraio 1552, come assicurano le spese sostenute per “l’allegrezza”, ovvero il pranzo offerto dalla Fabbrica agli operai che festeggiarono l’evento27. A partire dal 1554 si iniziarono a predisporre le colonne binate che costituiscono gli speroni esterni del tamburo della cupola maggiore e, nell’anno successivo, cominciarono anche i pagamenti per i capitelli delle paraste interne. Nel corso del 1556 i lavori subirono un rallentamento perché, nel quadro dei tesissimi rapporti tra Paolo IV e la Spagna, si era profilato il pericolo di un nuovo Sacco, tanto che lo stesso Michelangelo era fuggito a Spoleto. Un’altra veduta fotografa la situazione proprio intorno al 1556 (fig. 4), quando la parete dell’abside meridionale era ormai completata fino al livello dei capitelli, mentre le nicchie del primo ordine e le finestre del secondo avevano già le cornici in opera. Tutto era pronto per la realizzazione della calotta absidale, iniziata nel 1557. Ma a questo punto si verificò un problema molto grave nella copertura, tanto che tutto ciò che era stato costruito fino a quel momento dovette esser demolito e nuovamente ricostruito. La vicenda fece dire a Michelangelo: “se si potessi morire di verg[og]nia e dolore, io non sarei vivo”28. Cosa era successo? Michelangelo voleva che il travertino venisse utilizzato in modo che dal basso la calotta si percepisse come se fosse stata scolpita in un unico blocco: era quindi necessario che i singoli conci di pietra venissero tagliati e accostati perfettamente. Ma a questa difficoltà si aggiunse il fatto che la calotta era composta da tre gusci la cui curvatura non era costante, ma variava a ogni corso. Nonostante Michelangelo avesse realizzato un modello in scala 1:30 (cat. 54)29, le istruzioni non furono sufficientemente chiare per il capomastro, che utilizzò una sola centina per ciascun guscio, così si verificò il problema che, mano a mano che la costruzione saliva, i gusci non combaciavano più con i costoloni e la chiusura verso la chiave diventava impossibile. Michelangelo diede conto dell’avvenimento in due lettere a Vasari, corredate anche di disegni, dove tentò di spiegare in cosa fosse consistito l’errore (fig. 5), a cui venne posto rimedio nel 1558. In questo stesso periodo proseguiva anche la costruzione dell’emiciclo nord e del tamburo, mentre tra il 1558 e il 1561 Michelangelo fece realizzare il grande modello ligneo della cupola, successivamente modificato, ma che si conserva tutt’oggi. Infine, tra la fine del 1560 e la primavera dell’anno successivo si iniziarono gli scavi per le fondazioni delle cappelle angolari rivolte verso nord: si cominciò da quella poi detta di San Michele (nord-ovest) e, nell’aprile 1562, si lavorava al “fondamento novo che si fa verso palazzo”30 per la futura cappella Gregoriana (nord-est). Il confronto tra lo stato dei lavori alla morte di Michelangelo31 e la situazione attuale evidenzia che la strategia dell’architetto era andata tutto sommato a buon fine e le parti dell’edificio da lui “vincolate” non subirono, nei degli anni dal 1534 al 1564 cenni successivi, cambiamenti troppo significativi. L’unico settore che fu sottoposto a uno stravolgimento totale era proprio quello che Michelangelo non aveva seriamente preso in considerazione, cioè il braccio orientale con la facciata della basilica. Una tale mole di lavori, così impegnativi sia dal punto di vista della quantità sia da quello della complessità, richiedeva una perfetta organizzazione del cantiere. Come riuscì Michelangelo a gestire la situazione? S’è visto che, al suo arrivo, l’architetto operò una rivoluzione che coinvolgeva il personale impiegato e il suo rapporto con i deputati. La parola d’ordine che caratterizzò il suo operato, e che si ripete in molte delle sue lettere, è autorità; attraverso questa egli poteva esercitare l’assoluta indipendenza decisionale, a ogni livello. La totale autonomia gli consentiva, per esempio, di scegliere i collaboratori tra le persone di sua assoluta fiducia; arrivava anche a esporsi presso i deputati, ai quali chiedeva denaro affinché i suoi aiutanti venissero pagati regolarmente. La necessità di avere persone su cui fare affidamento era legata anche alla condizione di Michelangelo, che andava sempre più invecchiando e non poteva essere fisicamente presente in cantiere. Egli stesso aveva riconosciuto, per esempio, che l’errore nella copertura del catino absidale (1557) era avvenuto anche per la sua impossibilità di seguirne direttamente i lavori; per questo motivo si serviva di soprastanti che abitavano presso di lui, così che questi potessero “raguagliare la sera quello si farà il giorno”32. Quello di Michelangelo era quindi un governo a distanza ed egli richiedeva, alle persone su cui faceva affidamento, una totale 175 7. Città del Vaticano, San Pietro, veduta interna del transetto meridionale onestà e trasparenza, esortandole a verificare attentamente la qualità dei materiali da costruzione e a non accettare “cosa nessuna che non sia al proposito, se ben la venissi dal cielo”33. Con questo sistema di connessioni, Michelangelo era riuscito a organizzare una macchina che lo avrebbe condotto alla realizzazione del “suo” San Pietro. Per comprendere le caratteristiche del progetto di Michelangelo è utile, ancora una volta, fare riferimento alle sue parole. In una famosa lettera indirizzata a un certo Bartolomeo, Michelangelo affermava che chi si era allontanato dalle idee di Bramante, come Sangallo, si era “discostato dalla verità”34. La sua intenzione era quella di tornare a una pianta “non piena di confusione ma chiara e schietta, luminosa e isolata a torno”35, di mettersi quindi nell’alveo tracciato dal primo architetto che aveva rifondato San Pietro. È molto interessante notare il fatto che, sebbene stesse per creare un organismo completamente nuovo, Michelangelo si sentiva un esecutore delle idee bramantesche36. In realtà l’elemento che suscitava la più aspra critica di Michelangelo al progetto sangallesco doveva farsi risalire proprio a Bramante: i deambulatori, infatti, erano un’inven176 8. Michelangelo Buonarroti, Schizzo per l’atrio di San Pietro in relazione alla cappella Paolina, circa 1550. Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3211, c. 92 zione di quest’ultimo, così come il sistema di vani secondari i quali avrebbero dato origine al caratteristico policentrismo dell’edificio e alla sua gerarchica organizzazione spaziale, eliminati da Michelangelo in nome della chiarezza compositiva37. Egli dunque non conosceva nei dettagli il progetto di Bramante, ma solo ciò che di esso era stato realizzato, ovvero i piloni della cupola e, soprattutto, il coro38. Questo sì era chiaro, luminoso e isolato tutt’intorno (fig. 4) e poteva essere preso come modello ideale per l’opera di ‘riduzione’ che Michelangelo si accingeva a realizzare. Si può avere un’idea approssimativa delle intenzioni dell’architetto osservando le famose incisioni, raffiguranti la pianta, la sezione longitudinale e il prospetto meridionale della basilica, realizzate dal francese Stefano Dupérac qualche anno dopo la morte di Michelangelo (cat. 60; cat. 61; cat. 62)39. La pianta mostra con chiarezza il ritorno a un organismo centralizzato a quincunx, con cupola maggiore e quattro cappelle angolari; dal perimetro quadrato emergono solo le absidi lungo tre lati, mentre il quarto presenta un portico d’ingresso colonnato. Elemento di raccordo tra le absidi e le pareti rettilinee sono quei tratti di muro posti in diagonale, gli smussi, che contengono le chiocciole e funzionano come contropilastri per la cupola centrale. Con una pianta meno estesa rispetto a quella sangallesca, si riusciva a evitare anche la distruzione di alcuni settori del Palazzo Apostolico, così paventata da Michelangelo40; ma questo lasciava irrisolti diversi problemi di carattere pratico, poiché eliminare i vani secondari, di cui il progetto di Sangallo era ricco, significava sottrarre spazi per funzioni specifiche della basilica (per esempio di sagrestia, coro e battistero). In particolare, la soppressione di tutta la serie di cappelle secondarie, che costituivano una consistente fonte di guadagno, incontrò la disapprovazione del clero vaticano il quale, negli anni successivi alla morte di Michelangelo, avanzava anche l’obiezione che il progetto ridotto avrebbe lasciato scoperto un consistente tratto dell’area consacrata occupata dalla precedente basilica costantiniana, come si evince dalla Incisione dell’antica basilica di San Pietro realizzata da Tiberio Alfarano nel 1590 circa, dove la pianta della precedente costruzione paleocristiana è sovrapposta a quella michelangiolesca (cat. 59). Per l’interno è possibile osservare le già citate incisioni di Dupérac, un disegno anonimo della Biblioteca Nazionale di Napoli (fig. 6)41, ma soprattutto l’edificio stesso, nelle parti realizzate da Michelangelo a meno delle decorazioni settecentesche (fig. 7). Qui l’architetto si dovette confrontare con gli elementi dell’alzato che erano già stati irrevocabilmente fissati in precedenza, come le dimensioni dell’ordine maggiore e le altezze delle volte. La parete interna dell’abside meridionale è scandita in tre campate mediante paraste corinzie giganti; il primo livello è costituito dalle nicchie che ospitano gli altari (erano i passaggi verso il deambulatorio, chiusi da Michelangelo), mentre il secondo livello è reso molto luminoso da tre finestre rettangolari che occupano quasi tutto il campo a disposizione. In tale parete Michelangelo mette in scena un gioco di piani sovrapposti e schiacciati uno sull’altro: la parasta si appoggia a un pilastro leggermente più largo, dietro il quale, ulteriormente arretrato, si trova il piano della parete con le finestre. La cornice di queste è caratterizzata da un timpano spezzato che cozza contro l’architrave della trabeazione maggiore, come se la verticalità e l’orizzontalità contrastassero tra loro. Il rapporto tra l’interno e l’esterno dell’edificio evidenzia un altro aspetto in cui la concezione michelangiolesca si allontana da quella di Bramante e Antonio il Giovane, ovvero quello della corrispondenza dell’ordine architettonico tra interno ed esterno. L’edificio concepito da Bramante, con le sue gerarchie di volumi e di altezze, rispecchiava anche all’esterno la scelta di connotare lo spazio principale con ordine maggiore e quelli secondari con ordine minore, ma nel momento in cui Michelangelo decise di cingere tutto il perimetro dell’edificio con un ordine gigante, non fu più possibile denunciare all’esterno la struttura dell’interno (per esempio l’ordine minore delle cappelle angolari non poteva esser riproposto anche all’esterno)42. Questo sfalsamento degli ordini “in verticale” viene ribadito anche “in orizzontale” nella curva absidale, dove è reciso il legame tra interno ed esterno nel momento in cui a ciascuna delle tre paraste singole che articolano la parete interna corrispondono coppie di paraste che definiscono la superficie esterna43. Ma proprio all’esterno (cat. 95; fig. 3) è forse meglio percepibile il tentativo di Michelangelo di “citare” l’architettura bramantesca e interpretarne il senso. Tutto il perimetro è scandito da un sistema di paraste accoppiate che determinano campate alternativamente larghe e strette: le une ospitano nicchie al primo livello e finestre al secondo, le altre presentano più piccole nicchie sovrapposte che richiamano da vicino sia la sovrapposizione di nicchie nelle campate strette dell’esterno del coro bramantesco sia l’articolazione dei piloni dei bracci della croce. Il taglio diagonale di questi ultimi viene ripreso specularmente negli smussi esterni che collegano le absidi con gli angoli dell’edificio. Infine, pure nell’attico ad arconi ritratto dall’incisione di Luchino (cat. 58) è possibile vedere un richiamo alla superficie liscia che costituiva l’attico del coro bramantesco al tempo di Michelangelo44. L’esterno di San Pietro è stato spesso paragonato a un organismo, un corpo plastico in cui la tensione dinamica che caratterizza le masse si manifesta come in una scultura45; tuttavia è prevalentemente all’esterno che si concentrano i nodi determinati da quei dubbi e quegli interrogativi ancora aperti sul gli anni dal 1534 al 1564 progetto di Michelangelo: come avrebbero dovuto essere realizzati la facciata, le cupole minori e l’attico? L’unica testimonianza grafica del pensiero michelangiolesco in relazione alla facciata è un disegno della Biblioteca Apostolica Vaticana (fig. 8; Corpus 592 recto), databile al 1550 circa46. Non si tratta di un progetto, bensì di una vista globale, quasi un appunto topografico, che relaziona la basilica con gli altri ambienti del Palazzo Apostolico. L’impianto centrale dell’edificio è preceduto da un portico che ha la stessa ampiezza del braccio di croce; il fatto che tale portico sia costituito da cinque colonne – quella centrale sarebbe caduta esattamente in corrispondenza con l’apertura del portale principale – è stato spiegato come un errore dovuto all’estemporaneità dello schizzo. In ogni caso, il disegno mostrerebbe che, almeno nelle fasi iniziali della progettazione, Michelangelo non pensava tanto a una vera e propria facciata, quanto piuttosto a un pronao colonnato tipo Pantheon; e questa è anche l’idea che sia le stampe di Dupérac sia il disegno di Napoli vorrebbero suggerire. Ma è molto probabile che Michelangelo, dopo questo primo pensiero, non sia ritornato sulla questione; era certamente più interessato a definire le parti che andavano urgentemente realizzate, mentre la facciata presupponeva di affrontare anche la demolizione della vecchia basilica: un problema ancora molto lontano. 177 Lo stesso discorso vale per le cupole minori, delle quali si costruirono soltanto le due verso la piazza (edificate però successivamente, nel periodo in cui Giacomo della Porta era l’architetto della Fabbrica). Si tratta più esattamente di padiglioni aperti, senza una precisa funzione strutturale, che segnalano esternamente la presenza delle sottostanti cappelle angolari. La scelta di utilizzare l’ordine gigante esteso su tutta la superficie esterna determina l’impossibilità, per le cupole reali delle cappelle, di svettare dal livello del tetto, immerse come sono nel corpo perimetrale della basilica47. Non è possibile stabilire con certezza se Michelangelo intendesse proporre un classico sistema a quincunx, seppure con cupole “finte”, oppure se immaginasse la grande cupola a dominare incontrastata sull’edificio; nemmeno le incisioni di Dupérac possono aiutare, perché è stato convincentemente dimostrato che la concezione di quelle cupole minori si deve a Jacopo Barozzi da Vignola, successore di Michelangelo insieme a Pirro Ligorio48. Nel caso dell’attico la questione è complicata dal fatto che esistono due gruppi di testimonianze grafiche contemporanee tra loro contrastanti. Immagini come la stampa del 1564 di Luchino (cat. 58) o la veduta di Giovanni Antonio Dosio (cat. 178 52) mostrano l’attico sull’abside meridionale caratterizzato da tre profonde e strombate aperture ad arco, corrispondenti all’ampiezza delle campate maggiori; quindi una semplice superficie liscia che contrasta con le tensioni del sottostante corpo e della cupola. Ma già nel 1565 fu edita una stampa (Mostra della giostra fatta nel teatro di Palazzo, del monogrammista ICB) in cui l’attico sull’abside nord presenta l’aspetto attuale, così alcuni studiosi sostengono che l’attico originario fosse quello rappresentato da Luchino e l’odierno sarebbe una modifica di Pirro Ligorio, mentre altri ritengono – anche con l’appoggio di uno schizzo autografo – che l’attico come appare oggi sarebbe quello voluto da Michelangelo49. Un quesito che non sembra risolvibile. Le speranze che Paolo III aveva nell’anziano Michelangelo non erano state mal riposte: nei diciassette anni della sua conduzione l’architetto era stato in grado di portare avanti la costruzione in modo che, sebbene con alcune incognite ancora aperte, la sua conclusione non era più un miraggio irraggiungibile. Era riuscito a realizzare una chiesa per la nuova Chiesa, un edificio “con più maestà e grandezza, e facilità, e maggior disegno di ordine, bellezza e comodità”50. 1 La bibliografia su San Pietro è sterminata ed è qui possibile ricordare soltanto i contributi più aggiornati: Frommel 1994; C.L. Frommel et al., schede 277-410, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 599-673; Spagnesi 1997; Pinelli 2000; Satzinger, Schütze 2008; anche la fase michelangiolesca è stata oggetto di molti studi, di cui si indicano solo i principali: Frey 1909; Frey 1911; Frey 1913; Frey 1916; Ackerman 1961, vol. I, pp. 89-102, vol. II, pp. 83-112; Ackerman 1986, pp. 192-220, 317324; Ackerman 1988, pp. 92-104, 249-287; Vasari, ed. Barocchi 1962, pp. 83 sgg. [ed. 1568]; F. Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 910-931; Thoenes 1968 [1998]; Millon, Smyth 1969; Saalman 1975; Keller 1976; Millon, Smyth 1976; Bardeschi Ciulich 1977; Saalman 1978; Corpus, vol. IV, pp. 91-100; De Maio 1981, pp. 293-298, 309333; Bardeschi Ciulich 1983; Millon, Smyth 1988b; B. Contardi, scheda 20, in Argan, Contardi 1990, pp. 322-335; Burns 1995; Condivi, ed. Nencioni 1998, pp. 25, 59; Thoenes 2008. Per la bibliografia specifica sulla cupola, si rimanda al saggio di Vitale Zanchettin in questo stesso catalogo. 2 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 117 [ed. 1568]; secondo l’inventario notarile redatto il giorno successivo alla morte di Michelangelo, tra i disegni superstiti (ma oggi dispersi) ve ne erano tre relativi a San Pietro: una pianta, un dettaglio per una finestra e la pianta del modello di Sangallo, ivi, vol. IV, p. 1850. 3 Carteggio, vol. V, pp. 105-106, n. MCCLVII (22? mag. 1557), lettera a Giorgio Vasari. Recentemente Bellini ha suggerito che la riluttanza di Michelangelo fosse solo una posa, cfr. Bellini 2006, p. 81. 4 Frey 1909, p. 171. 5 Condivi, ed. Nencioni 1998, p. 25. 6 Su San Pietro come rovina moderna, cfr. Thoenes [1986] 1998. 7 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 83 [ed. 1568]. 8 Carteggio, vol. IV, p. 251, n. MLXXI (fine 1546 o primi del 1547), lettera indirizzata a un certo Bartolomeo, nel Carteggio identifi- gli anni dal 1534 al 1564 cato come Bartolomeo Ferratino, che però era già morto nel 1534. 9 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 83 [ed. 1568]; sull’arrivo di Michelangelo in cantiere, cfr. Bardeschi Ciulich 1977, Saalman 1978, De Maio 1981, pp. 309-321; sui rapporti con la “setta sangallesca”, cfr. Wittkower 1968. 10 Bardeschi Ciulich 1977, p. 258, doc. VIII, secondo una lettera del 26 febbraio 1547 dei deputati Arborino e Massimo ad Archinto, Michelangelo aveva detto: “et non voglio che si gli habbino da fare nella fabrica tanti inganni et robbarie, che intendo che il medesimo che è venditore di tevertine [travertino], è quello che fa il patto; et non voglio che si muri con altra calcia, petre e puzolana che quella che mi piacie a me”. 11 Vicuña 1966; Giner Guerri 1975. 12 La completa libertà decisionale in merito a ogni questione riguardante la basilica fu confermata anche dai successori di Paolo III, cfr. Bredekamp 2008. 13 Frey 1909, pp. 159, 161; Hatfield 2002, pp. 159-167. 14 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 84 [ed. 1568]. 15 Ivi, p. 92 [ed. 1568]. 16 Sui modelli di Michelangelo per San Pietro, cfr. Ackerman 1988, pp. 267 sgg.; Saalman 1975; B. Contardi, scheda 20, in Argan, Contardi 1990, pp. 324 sgg.; Mussolin 2006, pp. 102-104. 17 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 83 [ed. 1568]. 18 Si veda infra. 19 Sul principio della distruzione produttiva nel cantiere di San Pietro, cfr. Bredekamp 2005, su Michelangelo in part. pp. 80 sgg. 20 Lettera di Michelangelo al nipote Leonardo, Carteggio, vol. V, p. 84, n. MCCXLIV (13 feb. 1557). 21 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 85 [ed. 1568]. 22 Burns 1995; Bredekamp 2005, p. 106-107. 23 I documenti sono custoditi presso l’Archivio della Fabbrica di San Pietro e sono stati parzialmente pubblicati da Karl Frey; per l’andamento dei lavori, cfr. in particolare Ackerman 1988, pp. 256-264; B. Contardi, scheda 20, in Argan, Contardi 1990, pp. 322-333; per una sintesi di quanto è stato fatto nel periodo michelangiolesco, cfr. Thoenes 2000; Bellini 2001; Millon 2005. 24 Diverse immagini restituiscono l’aspetto del cantiere prima dell’arrivo di Michelangelo, fra queste l’affresco con La fabbrica di San Pietro di Giorgio Vasari nella Sala dei Cento Giorni in palazzo della Cancelleria a Roma (1546). 25 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 84 [ed. 1568]; sull’entità delle demolizioni cfr. Bardeschi Ciulich 1983. 26 Antonio da Sangallo aveva iniziato la sua attività in San Pietro in qualità di carpentiere; una struttura analoga a quella dell’incisione di Bos è rappresentata nel foglio, di ambito bramantesco, del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi 226 A; cfr. C.L. Frommel, scheda 297, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, p. 610. 27 Frey 1916, p. 71. 28 Lettera a Giorgio Vasari, Carteggio, vol. V, pp. 113-114, n. MCCLXI (1 lug. 1557); su questa vicenda, cfr. Millon, Smyth 1976; Brodini 2006. 29 Questo modello ligneo fu probabilmente realizzato per valutare l’effetto delle modifiche michelangiolesche all’interno del modello di Antonio da Sangallo; cfr. A.H. Millon, C.H. Smyth, scheda 378, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 654655. Sulla possibilità che il modello ligneo del 1547 sia stato rappresentato nel disegno del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi 95 A (cat. 57) e sul rapporto tra quest’ultimo e l’edificio costruito, cfr. V. Zanchettin, scheda 93, in Beltramini, Burns 2008, p. 182; ringrazio Vitale Zanchettin per aver richiamato la mia attenzione su tale questione. 30 Archivio della Fabbrica di San Pietro, Armadio 1, C, 30, c. 263. 31 Per una sintesi, cfr. Ackerman 1988, p. 264. 32 Carteggio, vol. V, p. 272, n. MCCCLXVII (post 4 nov. 1561); per la gestione del cantiere negli ultimi anni, cfr. Brodini in c.d.s. (a). 33 Carteggio, vol. IV, p. 360, n. MCLIX (1550-1553?). 34 Ivi, p. 251, n. MLXXI (fine 1546 o primi del 1547). Ibidem. Thoenes 2008, p. 64. 37 Bruschi 1997, p. 188. 38 Thoenes 2001. 39 Di queste tre incisioni di Dupérac, solo la pianta è datata 1569; queste immagini tuttavia non rappresentano il progetto di Michelangelo, in realtà mai esistito, ma un edificio con molte aggiunte e completamenti necessari a colmare le lacune progettuali lasciate dall’artista; sulle incisioni, cfr. Bedon 1995; Bellini 2002; Bedon 2008, pp. 198-199. 40 Per realizzare la basilica secondo il modello di Antonio il Giovane, Michelangelo asseriva che “saria forza mandare in terra la cappella di Paolo [con gli affreschi dello stesso Michelangelo], le stanze del Piombo, la Ruota e molte altre: né lla cappella di Sisto [con i celebri affreschi], credo, n’uscirebbe necta”, cfr. Carteggio, vol. IV, p. 252, n. MLXXI (fine 1546 o primi del 1547). 41 Queste raffigurazioni mostrano alcune differenze sia tra loro sia con l’edificio realizzato, al riguardo cfr. Keller 1976; Bellini 2002. 42 Bruschi 1997, p. 189. 43 Su tale mancata corrispondenza, cfr. anche Thoenes 2008, pp. 68-69. 44 Per i riferimenti michelangioleschi a Bramante, cfr. Ackerman 1988, p. 97; Bruschi 1997, p. 189; Bredekamp 2005, p. 97; Millon 2005, p. 94. 45 Argan, Contardi 1990, p. 280; per il ruolo delle sculture all’esterno di San Pietro, cfr. Satzinger 1997. 46 Sul problema della facciata, cfr. in part. Thoenes 1968 [1998]; Thoenes 2008, pp. 80-81. 47 Sul problema delle cupole minori, cfr. Brodini c.d.s. (b). 48 Coolidge 1942. 49 La questione è riassunta in B. Contardi, scheda 20, in Argan, Contardi 1990, pp. 327-329; la prima ipotesi sull’attico è in Millon, Smyth 1969, la seconda in Hirst 1974; lo schizzo che quest’ultimo riferisce all’attico di San Pietro è un dettaglio a matita del foglio 93-94 recto del Cabinet des Dessins del Palais des Beaux-Arts di Lille (Corpus 595 recto), cfr. scheda 27 in Millon, Smyth 1988a, pp. 142-147. 50 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 83 [ed. 1568]. 35 36 179 1. Città del Vaticano, cupola della basilica di San Pietro (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) IL TAMBURO DELLA CUPOLA DI SAN PIETRO Vitale Zanchettin 2. Città del Vaticano, tamburo della cupola della basilica di San Pietro (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) Da lungo tempo gli storici dell’architettura, e non solo, continuano a chiedersi con che forme e per mezzo di quali soluzioni architettoniche Michelangelo avrebbe concluso la basilica vaticana, se la sua vita fosse stata ancor più lunga da permettergli di farlo (fig. 1)1. A chi non si occupi attivamente della storia dell’edificio tale domanda potrà sembrare a prima vista un’oziosa ricerca destinata a costruire ipotesi impossibili da verificare. Eppure, dopo la morte di Michelangelo, per i contemporanei tale interrogativo era generato dall’esigenza concreta di poter continuare a costruire speditamente secondo i suoi progetti2. Restavano allora certamente grandi interrogativi aperti, come la definizione della curvatura da assegnare alla sezione della cupola e il disegno della nuova facciata, in evidente contrasto con i resti della navata costantiniana. Tali domande alimentarono una vasta produzione in serie di rappresentazioni dell’edificio secondo un presunto progetto finale, senza tuttavia che nessun documento autografo permettesse di sostenere l’esistenza di tale piano generale riguardante l’intero edificio. Furono realizzate alcune tavole, talvolta di grande qualità, come i due preziosi disegni anonimi della Collezione Santarelli del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi che rappresentano l’edificio in pianta e sezione (cat. 65, 66)3. Si stamparono incisioni, che avviarono fortunate operazioni editoriali, tra cui la più importante fu quella di Stefano Dupérac, che permise di fissare nell’immaginario dei contemporanei l’idea di un disegno complessivo dell’artista che, nell’arco di pochi anni, fu diffusa e accettata4. Persino Tiberio Alfarano, nel realizzare la pianta che avrebbe dovuto affiancare il manoscritto della sua informatissima storia di San Pietro, disegnò la planimetria della vecchia basilica costan180 tiniana sopra l’incisione della pianta di San Pietro di Stefano Dupérac (cat. 60) che così venne utilizzata per realizzare il rame preparatorio all’incisione pubblicata nel 1590 (cat. 59)5. Tutte queste rappresentazioni non nacquero dalla necessità di realizzare l’opera, ma come risposta a una sorta di inquietudine causata dall’incompletezza connessa al modo in cui Michelangelo pensava l’architettura. Per questa ragione, la ricerca di un progetto “finale” non si esaurì con il compimento dell’edificio nel primo Seicento e tale bisogno continuò a presentarsi in forme diverse, portando a nuove ipotesi e ricostruzioni. Storici, architetti, cronisti e viaggiatori, concentrandosi di volta in volta su singoli problemi, iniziarono allora a chiedersi quali parti dell’edificio costruito fossero veramente di Michelangelo e quali derivassero invece da interpretazioni postume delle sue presunte volontà. Tali studi assumono, nella sconfinata letteratura su San Pietro, le dimensioni di un campo di ricerca autonomo, la cui fecondità non trova spiegazione nell’esigenza concreta di edificare, ma rispecchia piuttosto una sorta di ansia – del tutto peculiare del modo di intendere progetto e costruzione nel mondo moderno – determinata dall’assenza di un disegno complessivo in grado di pianificare in tutte le sue parti un edificio di tali dimensioni e importanza6. Di fronte a tali domande ne esiste tuttavia una il cui peso appare del tutto evidente a chi si occupi anche superficialmente della storia del nuovo San Pietro: come ha potuto un uomo, varcate le soglie dei settant’anni di età, assumersi il carico di guidare la costruzione della Fabbrica e riuscire a imporre un progetto destinato a vincolare più di ogni altro la facies dell’edificio che noi oggi vediamo? Tamburo e cupola, tenute insieme da una congiunzione che separa il mondo delle certezze da quello delle ipotesi, sono l’immagine più eloquente di questa condizione imprescindibile degli studi su Michelangelo architetto. Il tamburo, opera integralmente autografa tra i capolavori assoluti nella storia del costruire, è stato oggetto di pochi studi in genere basati su documenti in gran parte pubblicati all’inizio del secolo scorso; la cupola, realizzata quando tutti i protagonisti del cantiere michelangiolesco erano scomparsi, è forse la parte dell’edificio sulla quale si sono concentrate maggiormente le indagini sull’autografia delle singole scelte. Questo saggio si limita a quanto fu posto in opera durante la vita di Michelangelo e con particolare riguardo alla storia del tamburo, lasciando aperte le incertezze su quanto non vide la luce sotto la sua diretta supervisione (fig. 2). I diciassette anni in cui Michelangelo governò la costruzione di San Pietro si distinguono dai decenni precedenti per una vigorosa ripresa della crescita dell’edificio verso l’alto. Nell’arco di un quarto di secolo, Antonio da Sangallo aveva cercato di definire soprattutto l’impostazione planimetrica dell’insieme e aveva voltato alcune parti fondamentali dell’edificio, ma nessun architetto aveva aggiunto pietra sopra i quattro grandi archi della crociera innalzati da Bramante entro il 1511 (cat. 64)7. Nei primi mesi del 1547, quando Michelangelo iniziò a dirigere i lavori, era stata da poco tempo realizzata la volta del braccio meridionale del transetto: un’opera grandiosa, giustamente vissuta come un memorabile successo dai funzionari che affiancavano Sangallo nella direzione del cantiere, i quali nell’estate dell’anno precedente potevano scrivere: “le cose in san pietro passano benissimo. La volta sono molti giorni che fu messa al sicuro et è già pronta”8. Pochi mesi dopo, le prime attività di Michelangelo in San Pietro furono accompagnate dalle ben note polemiche descritte da Giorgio Vasari per la sua manifesta volontà di non adottare il progetto di Sangallo9. Dopo una serie di scontri con i funzionari della Fabbrica risulta che Buonarroti aveva temporaneamente accettato di costruire verso le stalle del Palazzo Apostolico (lato nord) senza cambiare “cosa alcuna alla scorsa di fuora”10. Ufficialmente i lavori potevano così proseguire secondo i piani stabiliti prima della morte di Sangallo, mentre le decisioni sul futuro assetto esterno della basilica, per il quale ben poco si era fatto nei decenni passati, furono per breve tempo rinviati11. Si proseguì quindi speditamente con la costruzione finalizzata a chiudere la volta grande del braccio nord, il cui completamento fu festeggiato nel novembre del 154912. Con la conclusione di questa parte, tutti e quattro gli arconi della crociera risultavano affiancati da grandi volte che contribuivano alla stabilità dell’insieme, cosicché sarebbe stato possibile pensare di proseguire la costrugli anni dal 1534 al 1564 181 3. Città del Vaticano, cupola della basilica di San Pietro, particolare del profilo di travertino del tamburo (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) zione verso l’anello del tamburo. Pochi giorni dopo citati i festeggiamenti per la volta nord morì Paolo III e l’artista perse il sostegno del papa che con determinazione lo aveva voluto alla guida della Fabbrica13. Il destino del suo progetto era appeso a un filo e se fosse mancato un appoggio in quel momento delicato certamente l’attuale basilica avrebbe un aspetto alquanto diverso e meno “michelangiolesco” di quello che oggi possiamo vedere. Passarono quattro mesi prima che Giulio III Del Monte (1550-1555), da poco eletto, restituisse all’architetto l’autorità che da più parti era duramente contestata e da quel momento, cruciale per la costruzione, Michelangelo poté godere nuovamente della fiducia del papa14. Così dalla primavera del 1550 i lavori ripartirono in tre cantieri distinti: nelle due terminazioni nord e sud e sopra la crociera. Diversi indizi aiutano a comprendere la strategia adottata dall’architetto per imporre il proprio progetto, agendo su questi tre fronti. Dal punto di vista dell’ideazione, nelle due absidi alle testate del transetto, in tutto eguali, furono ripetute le stesse soluzioni: l’abside sud dovette funzionare da prototipo per le omologhe parti a nord. Tamburo e cupola divennero quindi un problema a sé stante, forse il più importante, per l’affermazione del nuovo disegno sull’intero edificio, e la progressione della costruzione sopra la tomba dell’Apostolo nei pochi anni di pontificato di Giulio III dimostra chiaramente l’interesse a portare avanti la fabbrica in questa direzione. Il 22 dicembre 1550, un anno dopo la conclusione della volta grande del transetto nord, Michelangelo poteva nuovamente festeggiare con i suoi operai il completamento del “cornicione grande della Cupola”15 (fig. 3). Non è possibile stabilire con certezza se il documento si riferisca alla trabeazione interna o alla prima cornice esterna, tuttavia le due modanature anulari si trovano a una quota molto simile e non è escluso che i festeggiamenti celebrassero il completamento di entrambe. Finalmente nel cantiere iniziavano a emergere nuovi corpi di fabbrica sopra l’estradosso delle volte delle navate maggiori. Dietro leggere impalcature e grandi antenne per il sollevamento delle pietre, il primo anello doveva essere allora visibile da tutto il territorio circostante, come ci mostrano molte vedute coeve di Roma. Era il primo corpo di fabbrica a essere realizzato sopra i grandi arconi costruiti da Bramante in rapida successione quarant’anni prima. Il completamento del primo anello conferiva ordine e forma compiuta a quella parte del cantiere che da decenni rendeva la basilica più simile a un edificio in rovina che a una moderna costruzione16. Michelangelo volle festeggiare l’evento con il dono di trenta berretti a chi aveva lavorato sotto il sole di Roma nelle impalcature più alte della basilica. Non era un dono esteso a tutti gli operai quotidianamente impegnati in 182 4. Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro, modello ligneo michelangiolesco della cupola di San Pietro, veduta dell’esterno (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) 5. Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro, modello ligneo michelangiolesco della cupola di San Pietro, veduta dell’interno(per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) San Pietro, ma un gesto di mirata solidarietà verso chi era stato responsabile di quello che l’architetto doveva considerare come un passo determinante per l’affermazione del proprio progetto e del suo dominio nel cantiere17. Durante l’anno successivo egli dovette impegnarsi intensamente per la continuazione dell’anello su cui si sarebbe impostato il tamburo; nel febbraio del 1552, quattordici mesi dopo la festa per il primo cornicione, fu festeggiato il completamento del “regolone di sopra della cupola grande”18. Ancora una volta, molto probabilmente, furono coinvolte solo le persone impegnate nel completamento di questo raffinato profilo di travertino posto a oltre cinquanta metri da terra (fig. 3). Fino a questo punto le parti costruite sopra i pennacchi potevano apparire come una semplice prosecuzione conforme all’impostazione bramantesca. Ma la volontà di rendere coincidenti le quote dei profili dell’intradosso e dell’estradosso è il primo frutto della visione autonoma di Michelangelo sul progetto del tamburo. Tale caratteristica, oggi facilmente leggibile nel modello ligneo (figg. 4-5), implica il rifiuto della scelta di Sangallo di impostare l’ordine interno del tamburo a una quota inferiore rispetto a quella del colonnato esterno (fig. 6). Per Sangallo tale impostazione derivava dalla necessità di risolvere problemi geometrici elementari adottando una soluzione che, notata nella cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, fu applicata a un organismo le cui membrature all’antica nell’intradosso e nell’estradosso sarebbero state del tutto indipendenti19 (fig. 7). Michelangelo pensò di progredire mantenendo una sostanziale coincidenza nelle quote alle quali si impostavano gli ordini esterno e interno, rendendo certamente più semplice la costruzione e affidando a massicci anelli il compito di sostenere e distribuire il peso del tamburo e della cupola. La sovrapposizione e il concatenamento di ordini di misure differenti, che rappresenta una delle caratteristiche più evidenti dell’architettura di Sangallo, era rigettata da Michelangelo in gli anni dal 1534 al 1564 183 6. Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro, modello ligneo michelangiolesco della cupola di San Pietro, particolare della sezione (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) certamente fu presentata a Giulio III, molto probabilmente attraverso qualche disegno o per mezzo di un modello parziale. Sull’aspetto di tale modello potremo avanzare soltanto qualche ipotesi dopo aver vagliato i documenti. È comunque evidente come, dopo la conclusione degli anelli inferiori sopra i pennacchi nel febbraio del 1552, la decisione definitiva sulla forma del tamburo diventasse inderogabile e che per compiere qualsiasi passo sarebbe stato necessario sottoporre tale decisione al giudizio del papa. Non sappiamo in che modo fu presentato il progetto, ma non è escluso che, al fine di ottenere il placet da parte del pontefice per una fase di lavori cruciale, ma onerosa, esso fosse definito anche nei dettagli22. Di fronte alle dimensioni e all’importanza del tamburo di San Pietro i pochi disegni superstiti e le grandi incertezze che li accompagnano appaiono come un panorama desolante. Se riflettiamo tuttavia sull’intera opera architettonica di Michelangelo in San Pietro dobbiamo concludere che, per le terminazioni absidali del transetto, non disponiamo di nemmeno un disegno autografo di ideazione23. Prima di analizzare il materiale grafico disponibile è necessario seguire la costruzione sulla base di un gruppo di documenti fino a oggi poco studiati, che furono prodotti per le forniture di travertino da costruzione. favore di una elementare sovrapposizione di corpi di fabbrica cilindrici: una scelta che possiamo leggere come un’applicazione concreta dell’enunciato riportato nella sua famosa lettera di critica al progetto sangallesco in favore di un’architettura “chiara e schietta”20. La progressione in verticale era una risposta a quanti avevano dubitato delle sue abilità di costruttore, affermata con un segno architettonico che già in queste prime fasi aveva un chiaro impatto a scala territoriale e soprattutto era chiaramente visibile dal Palazzo Apostolico. Oggi possiamo soltanto immaginare l’entusiasmo suscitato nei funzionari di curia e nel pontefice da questo rapido sviluppo dei lavori, conquistato anche attraverso interventi poco evidenti e oggi difficili da ricostruire su base documentaria per il consolidamento delle fondazioni dei piloni21. Fu in questo tempo che Michelangelo fissò definitivamente la sua idea per l’articolazione del tamburo a speroni radiali che 184 Il tamburo, come tutte le parti esposte all’esterno della costruzione michelangiolesca, fu realizzato in travertino strutturale a vista, un materiale che richiede una contabilità analitica quantitativa delle forniture, che in alcuni casi risulta corredata di dati qualitativi riguardanti dimensioni, forme e collocazione di elementi in pietra. Sulla base di tale contabilità è oggi possibile distinguere alcune fasi della costruzione e gettare i fondamenti per alcune nuove ipotesi. Il caso del tamburo da questo punto di vista è particolarmente fortunato poiché fu integralmente realizzato con travertino proveniente da Fiano Romano. Non è noto il motivo per cui sin dal 1547 la Fabbrica iniziò utilizzare questa località di estrazione insieme a quella più tradizionale rappresentata da Tivoli, che rimase comunque per tutta la stagione michelangiolesca la fonte di approvvigionamento principale24. Sta di fatto che il reperimento di blocchi presupponeva l’esistenza di un disegno attendibile delle parti da realizzare. Un contratto per l’estrazione di pietra del gennaio del 1554 fornisce il terminus ante quem per l’elaborazione di un progetto di massima del tamburo. Si tratta del primo contratto esplicitamente destinato a stabilire i patti per chi avrebbe dovuto fornire pietre abbozzate esclusivamente per questa parte della costruzione25. I cavatori si impegnavano a procurare, nell’arco di un anno, travertini per un valore di almeno 1000 scudi, 200 dei quali erano anticipati dalla Fabbrica. Le pietre destinate alle “colonne della tribuna grande”, es- sendo sbozzate in cava, avevano un prezzo pari a 17 giuli definito in partenza, e maggiore rispetto ai 12 giuli e mezzo degli altri blocchi. Sulla base di tale maggiorazione nelle forniture della pietra da Fiano è possibile distinguere i singoli blocchi destinati alle colonne e stimare la progressione dei lavori26. Il citato contratto di fornitura di travertino per almeno 1000 scudi, in termini di volume è stimabile in circa 588 carrettate di pietra, pari a circa 194 metri cubi27. Si trattava di un limite di minima e i pagamenti realmente effettuati dimostrano che i cavatori di Fiano riuscirono a fornire molto più di quanto previsto nei dodici mesi successivi. La natura di questi accordi bilaterali tra Fabbrica e cavatori permette di percepire quale fosse il futuro della costruzione agli occhi di Michelangelo e anche quali fossero i suoi timori. I contratti vincolavano infatti entrambe le parti: i cavatori a fornire pietra “senza intermissione” e la fabbrica ad anticipare parte del denaro e a saldare progressivamente le partite di pietra28. La fornitura richiesta era consistente, ma non spropositata se confrontata con i contratti per 2500 carrettate annue stipulati negli stessi anni con i cavatori di Tivoli29. L’esborso di denaro era comunque considerevole e il consistente anticipo di 200 scudi dato alle imprese di fatto vincolava tanto la Fabbrica quanto i fornitori. In ultima analisi, sulla semplice base di queste valutazioni quantitative, possiamo percepire la volontà di fornire un impulso in grado di garantire continuità alla costruzione per mezzo dell’accumulo di materiale. Michelangelo aveva potuto sperimentare di persona i tempi di lavorazione della pietra e sapeva anche che il futuro del suo progetto dipendeva da una congiuntura favorevole determinata dalla volontà di un papa disposto a finanziare con continuità la costruzione. Come aveva fatto ai tempi di Giulio II, quando aveva occupato le strade da San Pietro a Castel Sant’Angelo con i blocchi di marmo destinati al monumento funebre del pontefice30, così tra il 1554 e il 1555 raccolse a piè d’opera 1800 carrettate di pietra abbozzata31. La morte di Giulio III nel marzo del 1555, la sede vacante, il breve pontificato di Marcello II Cervini (10 aprile - 1 maggio 1555) e infine l’elezione di Paolo IV Carafa (23 maggio) non arrestarono la macchina ormai avviata. Nel settembre del 1555 furono stipulati nuovi patti per una fornitura di 2000 scudi di travertino da Fiano per il tamburo, il doppio rispetto all’anno precedente, mentre da Tivoli si prevedeva ancora una volta la fornitura di 2500 carrettate di travertino per il resto della fabbrica32. Questi semplici dati permettono di comprendere che l’impegno economico previsto dalla Fabbrica dopo la morte di Giulio III fu considerevole. Il pontificato di Paolo IV è stato talvolta considerato come un periodo di rallentamento dell’attività edilizia in San Pietro e gli effetti di tale congiuntura sono stati per questo messi in regli anni dal 1534 al 1564 lazione con un presunto arresto dei lavori per il tamburo. Tale ipotesi è suggerita da alcuni fatti. Il 28 aprile 1555, durante il breve pontificato di Marcello II, furono stipulati alcuni contratti in serie per la realizzazione di 28 dei 32 capitelli delle paraste interne del tamburo33. Si trattava ovviamente di una preoccupazione prematura, dato che soltanto da un anno si era iniziato a reperire la pietra per la costruzione di questo corpo di fabbrica e i suoi speroni radiali dovevano essere appena percepibili sopra la modanatura anulare d’imposta esterna. Michelangelo voleva certamente procedere speditamente con la costruzione e forse voleva collaudare preventivamente dal basso l’effetto di queste parti, per le quali comunque doveva disporre già di modelli provvisori. Di questi 28 capitelli appaltati solo una dozzina fu portata a termine con alcuni mesi di anticipo rispetto ai vincoli contrattuali, quelli restanti furono intagliati solo a partire dal settembre del 1561 e gli ultimi tre furono saldati il giorno della morte di Michelangelo, il 18 febbraio 156434. Il tempo trascorso tra l’intaglio del primo gruppo di capitelli delle paraste interne e la ripresa degli appalti sette anni dopo è forse il principale motivo che ha fatto pensare a un arresto dei lavori nel tamburo nella seconda metà degli anni cinquanta. L’interruzione dei lavori è stata inoltre sostenuta da Wittkower sulla base del computo delle tirate di corda per l’innalzamento dei blocchi e le forniture di perni metallici per i rocchi delle colonne35. Si tratta di spese minute per le quali non risultano stipulati appalti, ma che furono pagate sulla base di prezzi convenzionati. Per questo motivo non è possibile sostenere che il materiale archivistico giunto fino a noi sia completo, mentre per il travertino la contabilità analitica di appalti e pagamenti permette di sostenere che tutte le forniture sono ancora oggi documentate in modo esaustivo. Vi sono inoltre le parole di Michelangelo che in alcune lettere del 1556 accennò a rallentamenti nella costruzione36. Le parole dell’artista non documentano l’andamento del cantiere nel lungo periodo, ma sono da mettere in relazione con precise contingenze temporali, talvolta legate alla guerra, altre volte a considerazioni emotive o strumentali per giustificare la sua permanenza a Roma37. Le forniture di pietra da Fiano per il tamburo impongono di riconsiderare tale rallentamento. In realtà l’esborso di denaro destinato a queste cave vide una graduale flessione dopo la morte di Giulio III e nel biennio 15581559 risulta pressoché azzerato, ma tale flessione appare del tutto prevedibile e fisiologica viste le consistenti provviste di travertino negli anni precedenti (figg. 24-25). Inoltre non è documentata alcuna ripresa repentina delle forniture alla fine degli anni cinquanta tale da poter sostenere una rapida accelerazione dei lavori per il corpo principale del tamburo. L’andamento delle forniture sembra quindi suggerire che una enor185 7. Antonio da Sangallo il Giovane, Studio di sezione del tamburo della cupola di San Pietro per la costruzione del modello ligneo, dettaglio. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 88 A 9. Michelangelo Buonarroti, Studio per la sezione e per l’alzato della cupola di San Pietro. Lille, Palais des Beaux-Arts, Cabinet des Dessins, Collection Wicar 93-94 10. Confronto tra il disegno di Michelangelo (Dettaglio planimetrico del tamburo della cupola di San Pietro, Firenze, Casa Buonarroti, 31 A) e quello di Giovanni Antonio Dosio (Rilievo del modello ligneo della cupola di San Pietro. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2032 A) me quantità di pietra fosse presente a piè d’opera pronta per essere lavorata e che quindi la volontà di dotare il cantiere di un’inerzia propria per mezzo del reperimento di materiali sia stata la scelta che garantì la continuità del lavoro. Rimane così aperta una domanda fondamentale: visto che disponiamo di contratti soltanto per i capitelli interni chi lavorò le enormi masse di pietra restante? Dalla contabilità del travertino per il tamburo emerge chiaramente il doppio binario del cantiere michelangiolesco: le estremità del processo di lavorazione, vale a dire l’escavazione e l’intaglio dei capitelli, erano appaltate, mentre la costruzione ordinaria dei corpi di fabbrica, ovvero l’intaglio delle finestre e delle cornici principali, era affidata a personale della Fabbrica pagato a giornata, la cui opera è documentata in modo molto meno sistematico e risulta difficile da ricostruire. Le ragioni di tale suddivisione del lavoro per il momento si possono soltanto ipotizzare. Svolgendosi lontano da Roma, l’escavazione era un processo in cui l’effettiva attività delle maestranze sarebbe stata difficile da controllare e per questo doveva apparire inopportuno affidarla a lavoranti pagati a giornata. L’intaglio dei capitelli invece, pur essendo fatto a piè d’opera sulla base di modelli da riprodurre in serie, si collocava nel labile confine che divideva il lavoro dello scultore da quello dello scalpellino. In San Pietro alcuni capitelli, come quelli dell’ordine composito in marmo dell’ordine minore interno sull’asse mediano delle absidi del transetto, costituiscono veri capolavori nel loro genere e già nel cantiere sangallesco furono affidati a intagliatori di prim’ordine come Francesco da Sangallo38. È quindi probabile che lo status di intagliatore-appaltatore derivasse dal riconoscimento di una particolare qualità del lavoro, i cui tempi di realizzazione sarebbero stati difficilmente controllabili se questo fosse stato affidato a maestranze assoldate a giornata. Tali maestranze dovevano essere di prima qualità e risultano responsabili dell’esecuzione di molte elaborate parti in pietra. A prescindere dalle motivazioni che determinarono tale divisione del lavoro possiamo comunque concludere che gli appalti documentano soltanto una minima frazione dell’edificio. La costruzione dell’intero corpo del tamburo, avviata nel 1554 con le prime forniture di pietre da Fiano, doveva essere pressoché conclusa nell’estate del 1561 quando si appaltarono i rimanenti capitelli interni non realizzati con il primo appalto del 1555 e quelli esterni delle colonne e delle mezze paraste degli speroni radiali definiti in gergo “imposte di capitelli”39. In quest’arco di tempo Michelangelo poté mutare le proprie idee a proposito di molti punti, ma dovette rimanere sempre fedele all’idea, fissata entro il 1554, di definire il perimetro per mezzo di sedici pilastri radiali sporgenti rispetto al cilindro principale del tamburo il cui spessore complessivo era limitato dalla larghez186 za dell’anello inferiore d’imposta. Con l’arrivo delle prime consistenti forniture di rocchi e pietre squadrate, sin dai primi mesi del 1554, anche il diametro delle colonne doveva essere fissato e il progetto poteva subire solo modifiche minime nella sua impostazione planimetrica generale. Rimaneva ancora un certo margine di variazione nel disegno delle finestre e nelle altezze dell’intero corpo di fabbrica. A partire da queste prime valutazioni legate alla costruzione è possibile considerare brevemente la datazione dei due disegni di Michelangelo più significativi che documentano le prime fasi di progettazione del tamburo. Il primo tra questi, conservato al Palais des Beaux-Arts di Lille, rappresenta un famoso alzato parziale del tamburo con una sintetica sezione della calotta superiore (fig. 9)40. Nel suo complesso il disegno testimonia un’idea abbastanza chiara della conformazione degli speroni radiali del tamburo, tracciati anche in un significativo schizzo di pianta (cat. 69). Appare del tutto improbabile che Michelangelo abbia eseguito questo disegno dopo l’avvio delle forniture di pietra per il tamburo in quanto esso presupporrebbe un cambiamento radicale della forma delle basi degli speroni radiali41. La pianta dei pilastri doveva essere infatti decisa prima dell’avvio delle forniture dei blocchi abbozzati nei primi mesi del 1554 o al più tardi entro l’aprile del 1555 quando furono computate “certe base”, da identificare con le basi attiche delle colonne e delle semi-paraste del tamburo42. Come già sostenuto da Howard Saalman, il foglio va molto probabilmente datato agli anni di pontificato di Giulio III, quando l’artista mise a fuoco più concretamente il progetto per il tamburo43. Una rappresentazione più vicina a quanto costruito è riportata dal disegno sul foglio 31 A di Casa Buonarroti nel quale troviamo un esplicito riferimento agli oculi presenti anche nel disegno di Lille, poi eliminati in favore delle finestre rettangolari (cat. 67)44. A differenza del disegno di Lille, questo elaborato non fu realizzato per visualizzare un’idea generale, ma per comunicare ai falegnami le dimensioni reali di uno sperone radiale del tamburo per un modello di legno45. Ciò significa che la soluzione del tamburo con finestre rotonde non fu soltanto vagamente immaginata in qualche veduta d’insieme, ma che l’architetto pensò anche di verificarne l’effetto in tre dimensioni. Il disegno è alla stessa scala del modello attualmente conservato presso la Fabbrica di San Pietro, ma confrontando quel disegno con un altro foglio attribuito a Giovanni Antonio Dosio che mostra un rilievo attendibile del modello esistente, appare chiaramente come il 31 A preveda murature del tamburo di spessore maggiore. Dalle misure pubblicate da Wittkower possiamo inoltre dedurre che le misure del modello esistente riportate in scala coincidono con quelle dell’edificio costruito diverse da quelle sul foglio 31 A (fig. 10)46. Il 31 A dovette quindi precedere la costruzione dei primi pilastri del tamburo, databile sulla base delle prime forniture di pietra al 1554-1555. Fu allora che gli spessori murari e i passaggi tra gli speroni radiali vennero fissati definitivamente. Al più tardi entro la fine del 1556, l’articolazione di base del tamburo dovette essere posta in opera, come dimostrano due vedute aggiunte al taccuino di Maarten van Heemskerck, che possiamo datare a prima del 1557, le quali dimostrano come alcuni pilastri avessero raggiunto la quota degli archetti di collegamento nei setti dei pilastri (figg. 11-12)47. gli anni dal 1534 al 1564 Il foglio 31 A di Casa Buonarroti documenta quindi uno stadio della progettazione che precede la costruzione delle basi dei pilastri radiali. Fu allora che, forse per ragioni pratiche legate al movimento di materiali sull’anello inferiore del tamburo, si decise di allargare i varchi nei pilastri. Esso precede quindi di alcuni anni anche la costruzione del modello esistente, documentata dopo il 1557-1558, e potrebbe quindi essere una traccia di un modello non più esistente, realizzato a ridosso della prima fase di costruzione del tamburo. Rispetto a tale modello, la modifica più evidente riguardò il passaggio dagli 187 11. Anonimo, Veduta di San Pietro da sud-est, circa 1556. Berlino, Staatliche Museen - Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, 79D2a, c. 60r (addizione al taccuino di Maarten van Heemskerck) 13. Giovanni Antonio Dosio, Rilievo della sezione del modello della cupola di San Pietro con dettaglio di una colonna. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, f. 2033 A 14. Città del Vaticano, cupola della basilica di San Pietro, dettaglio della finestra esterna del tamburo (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) la costruzione poteva proseguire senza che fosse necessario affrontare direttamente il problema della forma delle aperture del tamburo, oculi o finestre che fossero, ma a una data che rimane imprecisata egli mise mano al problema, decidendo di determinare l’aspetto delle aperture che noi oggi vediamo. Michelangelo tracciò il disegno della finestra ricostruita da Joannides a partire da un dato: la larghezza netta degli stipiti interni, pari a 16,5 cm, segnata con due linee verticali di costruzione equidistanti dall’asse mediano51. Poi stabilì l’altezza pari a circa il doppio della larghezza e rappresentò sia i profili in piano, con l’ombra formata dalle due cornici accostate, sia il timpano curvo completo con la modanatura sommitale a guscia semplice. Se misuriamo il disegno con la scala grafica indicata sul foglio 31 A, che corrisponde a quella del modello conservato presso la Fabbrica di San Pietro, la larghezza della finestra risulta pari a palmi 11 e 1/4. La larghezza netta delle finestre interne effettivamente realizzate nel tamburo è pari a 252 cm ovvero palmi 11,3 con una differenza del tutto compatibile con la tolleranza concessa da un disegno non quotato come quello considerato52. La rappresentazione risulta quindi realizzata alla stessa scala del modello esistente. Un consistente gruppo di pagamenti e la testimonianza diretta di Michelangelo indicano che tale modello fu realizzato a partire dalla se- conda metà del 155753. Nell’estate di quell’anno infatti vi sono notizie di un modello in argilla della cupola, certamente di piccole dimensioni e molto probabilmente relativo alla sola calotta54. Le colonne del modello esistente furono invece pagate nel maggio del 1559 e così molte altre parti del modello che “di presente si fa”55. Tra il 1554 e la fine del 1558 erano state fornite circa 4100 carrettate di travertino abbozzato, destinato esclusivamente alla costruzione del tamburo. La pietra dovette giungere a Roma secondo piani di taglio ben organizzati, sulla base di un progetto generale governato, almeno in parte, dallo stesso Michelangelo e, prima del 1559, certamente decisa la forma generale delle finestre del tamburo. Tutto ciò induce a pensare che il disegno per la finestra debba precedere la costruzione del modello esistente, che anche Vasari indica essere stato costruito quando le finestre erano ormai poste in opera56. Il foglio 31 A di Casa Buonarroti potrebbe essere una traccia del citato modello realizzato prima di quello esistente, che in una prima fase avrebbe avuto oculi rotondi come indicano le iscrizioni su questo stesso foglio e come mostra il disegno di Lille. Forse proprio nel rivedere le forme di questo precedente modello Michelangelo disegnò, sempre in scala 1:15, la finestra nel foglio poi riutilizzato per la pianta di San Giovanni dei Fiorentini. Questa coincidenza di scala poteva permettere 12. Anonimo, Veduta di San Pietro da sud-est, circa 1556. Berlino, Staatliche Museen - Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, 79D2a, c. 60v (addizione al taccuino di Maarten van Heemskerck) oculi circolari alle finestre trabeate. Non possiamo datare con certezza tale cambiamento, ma dobbiamo supporre che sia avvenuto prima che l’anello del tamburo raggiungesse la quota delle cornici inferiori delle mostre interne poste a un livello inferiore rispetto a quelle esterne. Le finestre del tamburo di San Pietro, capolavoro assoluto per la raffinatezza degli intagli, costituiscono una soluzione architettonica straordinaria anche dal punto di vista funzionale. È sufficiente avvicinarsi per comprendere fino a che punto l’artista ne abbia disegnato gli eleganti profili di travertino, la cui articolazione va collegata all’esigenza concreta di fornire la massima illuminazione all’interno della costruzione. Possiamo facilmente comprenderne la configurazione limitandoci ad alcune osservazioni generali sulla base di una sezione attribuita a Dosio tratta dal modello conservato, dove appare chiaramente la differenza tra la quota di imposta delle finestre esterne e interne (fig. 13)48. 188 Una delle peculiarità più evidenti del tamburo di San Pietro consiste nella coincidenza tra i livelli di tutte le parti principali degli ordini all’interno e all’esterno; lo scarto di quota tra le mostre delle finestre del tamburo è frutto quindi di una scelta meditata determinata dalla volontà di ostacolare il meno possibile l’accesso della luce assecondando la direzione prevalente dei raggi solari provenienti dall’alto. Fu forse questa la ragione per cui Michelangelo, nel definire i profili delle mostre interne ed esterne, dovette preoccuparsi di limitare gli aggetti di travertino senza compromettere la leggibilità dei profili da grandi distanze. Si spiegano in questo modo le cornici dai profili incassati uno nell’altro in modo da segnare una profonda ombra e le mostre esterne che, anziché sporgere, sono inserite in profonde rientranze della muratura in travertino. Nonostante la distanza dagli occhi dell’osservatore tutti i profili presentano un accurato disegno di dettaglio che, come gran parte del lavoro di Michelangelo in San Pietro, non è documentato da elaborati grafici (figg. 14-15). Dobbiamo supporre che gran parte dei disegni sia stata fatta in cantiere, forse direttamente sul travertino, insieme ai tagliapietra, per decidere di volta in volta le forme finali dei modani. Un solo disegno testimonia un passo verso la definizione delle finestre interne del tamburo. Esso è giunto sino a noi grazie al fatto che Michelangelo riciclò un foglio di carta per tracciare la più evoluta tra le famose piante di progetto per San Giovanni dei Fiorentini proposte al granduca di Toscana nel 1559. Si tratta del 124 A verso di Casa Buonarroti (cat. 78; Corpus 612 verso), su cui è presente la parte superiore di una finestra che Paul Joannides ha per primo collegato a un secondo foglio, il 103 A recto di Casa Buonarroti (cat. 83; Corpus 613 recto), sul quale è rappresentata la parte inferiore della stessa finestra che lo studioso ha ricondotto a un progetto per le mostre interne delle finestre del tamburo di San Pietro (fig. 16)49. Si tratta di un documento unico per comprendere la progettazione e più in generale l’utilizzo degli strumenti grafici con cui l’artista ideò le proprie architetture attraverso il disegno50. Michelangelo dovette realizzare moltissimi elaborati analoghi per definire, di volta in volta, i dettagli delle sue architetture. A fronte di un lavoro durato diciassette anni, per San Pietro sono noti circa 20 fogli con disegni autografi. Tra essi, solamente questo foglio originario, oggi diviso in due parti, documenta il lavoro di invenzione di singolo dettaglio. Resta fondamentale stabilire a quale fase della progettazione appartiene questo elaborato. Il disegno di Lille e il 31 A (fig. 9, cat. 67), per l’esplicito riferimento agli oculi previsti tra le campate del tamburo, vanno datati anteriormente alle consistenti forniture di pietra avvenute tra il 1554 e il 1555, allorché il progetto doveva essere fissato, nelle sue forme generali, almeno in pianta. Durante i primi anni, gli anni dal 1534 al 1564 189 15. Città del Vaticano, cupola della basilica di San Pietro, dettaglio della finestra interna del tamburo (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) confronti diretti tra foglio e modello, nonché fornire una base per la realizzazione di disegni in pulito come il 31 A. Trattandosi di un modello di lavoro, sarebbe stato sufficiente realizzarne una sola campata, come lo stesso Michelangelo aveva fatto per il tamburo di Santa Maria del Fiore, definito da superfici piane e non curve come in San Pietro57. Da tale esperienza fiorentina, egli potrebbe aver ereditato anche la soluzione di rappresentare in piano nel foglio 31 A un settore del tamburo di San Pietro58. L’esistenza di tale modello intermedio, necessariamente colmo di ripensamenti, aggiunte e modifiche, spiegherebbe bene anche l’esigenza di realizzarne uno più decoroso, per presentare il nuovo progetto della cupola con le soluzioni più aggiornate per quanto rimaneva ancora incerto del tamburo in costruzione. Il monumentale modello conservato sino a oggi infatti, caso singolare nella carriera di Michelangelo, rappresenta solo nella parte superiore il progetto da realizzare, mentre per la zona del tamburo esso restituisce quanto già costruito. La presenza di timpani curvi al posto di quelli alternati, principale differenza tra quest’ultimo modello e la costruzione reale, indica la quota della costruzione raggiunta intorno al 1558-1559, quando almeno parte delle finestre era completata, seppur senza i timpani come mostrato dai disegni sui fogli 95 A verso e 96 A verso del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi59. Questa considerazione sembrerebbe confermare la datazione dell’elaborato sui fogli 103 A e 124 A a prima della costruzione del modello esistente realizzato a partire dalla seconda metà del 1557. Tuttavia si potrebbe anche ritenere che esso sia stato elaborato per la definizione dei timpani, poi realizzati con minime variazioni. Secondo quest’ultima ipotesi il disegno della finestra sarebbe stato tracciato intorno al 1557-1558 per realizzare il modello oggi esistente; una volta utilizzato il foglio, Michelangelo lo avrebbe riutilizzato per ideare la spettacolare pianta di San Giovanni dei Fiorentini (cat. 78). In questo modo si spiegherebbe l’assenza di pentimenti nella parte inferiore del disegno della finestra. Indipendentemente dalla datazione, al momento il disegno rappresenta l’unico documento conosciuto in grado di fornire indicazioni su come Michelangelo progettasse in corso d’opera gli elementi architettonici per il cantiere di San Pietro. Dovettero essere prevalentemente disegni come questo quelli che l’artista volle distruggere dandoli alle fiamme alla fine della propria vita per non “apparire se non perfetto”, secondo la famosa affermazione di Vasari60. Eppure oggi disegni simili aiuterebbero a comprendere la sua progettazione in “tempo reale”. Il grande modello ligneo che possiamo vedere ancora oggi non fu quindi uno strumento finalizzato soltanto a presentare un progetto prima dell’esecuzione, ma divenne una straordinaria 190 16. Ricostruzione del disegno di finestra sulla base dei fogli di Casa Buonarroti 103 A verso e 124 A verso 17. Michelangelo Buonarroti, Studi per la cupola di San Pietro, post 1561. Firenze, Casa Buonarroti, 35 A verso opera bivalente che rappresentava il tamburo in fase avanzata di costruzione insieme alla proposta per la forma della doppia calotta. Per la concezione di quest’ultima Michelangelo dovette spendere notevoli energie. Tra i pochi disegni superstiti, un piccolo ritaglio di foglio con una profilo a penna di autore anonimo mostra una sintetica sezione ripresa dal modello (cat. 68, fig. 17). Si tratta probabilmente di una sorta di promemoria realizzato da un aiutante per fissare alcuni dati del modello che metteno in evidenza le differenze di quota tra l’imposta esterna e quella interna delle due calotte e quella tra gli oculi posti sotto la lanterna. L’intero disegno è quotato con misure reali, soltanto il diametro della cupola sembra riferibile a una misura dal modello (palmi 12 e 3/4 in scala 1:15 pari a circa 184 palmi reali). Il disegno fu tracciato su un ritaglio di carta in un momento prossimo alla concezione della cupola, come mostrano alcune tracce poco leggibili sul verso, forse di mano dello stesso Michelangelo, che rappresentano i gradini sulla sommità della calotta interna in prossimità della lanterna. Il foglio non aggiunge molto a quanto rappresentato nel modello ligneo, ma permette di comprendere con quale impegno l’architetto abbia lavorato alla creazione della cupola anche per parti poco visibili come l’intercapedine tra le calotte, pur sapendo che non sarebbe toccato a lui governare la costruzione fino a quel punto. Mentre il modello era in fase avanzata di esecuzione, buona parte del colonnato esterno del tamburo dovette essere quasi ultimato e furono stipulati gli appalti per l’intaglio della fascia superiore comprendente i capitelli. Verso la fine dell’estate del 1561, furono affidati simultaneamente i lavori per la costruzione dei capitelli delle paraste interne, abbandonati dal 1555, e delle cosiddette “imposte di capitelli” per l’esterno, costituite dai due capitelli delle colonne e dai quattro mezzi capitelli sopra le semiparaste esterne (fig. 18)61. Tali lavori procedettero di pari passo e si conclusero nel 1564. La sommità degli speroni esterni del tamburo presentava un complicato lavoro di intaglio per un sistema di blocchi composto da molte parti. Nella stipula dei contratti per la loro realizzazione fu inserito un riferimento esplicito alle possibilità di variazione che l’architetto manteneva sul disegno definitivo di tali parti da farsi “iuxta formam modelli desuper facti ut aliter ad voluntatem et arbitrium seu potius designum seu modellum sibi per magistrum dominum michaelem Angelum Bonarotam datum vel dandum”62. Con la formula “desuper facti” è determinato un luogo, non un riferimento a una parte precedente dell’atto notarile di appalto. Esisteva quindi un modello che Michelangelo pretendeva di poter modificare senza che gli scalpellini richiedessero di variare il prezzo di 350 scudi fissato per ogni imposta. Forse si trattava del modello esistente o più probabilmente di un modello parziale, meno appariscente ma definito nei dettagli, verosimilmente in scala 1:1. Non sappiamo con quale materiale sia stato realizzato tale modello, è possibile gli anni dal 1534 al 1564 191 18. Città del Vaticano, cupola della basilica di San Pietro, particolare di uno sperone radiale (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) 19. Grafico ricostruttivo della sezione planimetrica rappresentata nel disegno di Michelangelo dell’Archivio della Fabbrica di San Pietro, Arm. 7, B, 427, f. 497 (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) 20. Veduta assonometrica e proiezione ortogonale di un pilastro radiale della cupola di San Pietro (elaborazione di Simone Baldissini) 21. Ricostruzione grafica di un pilastro radiale del tamburo della cupola e collocazione della parte dell’architrave rappresentata in AFSP, Arm. 7, B, 427, f. 492 (elaborazione di Simone Baldissini) che almeno in parte fosse in travertino, probabilmente parti di esso furono poi inserite nei capitelli realizzati, dato che alcune “imposte” furono pagate 300 scudi63. Non si trattava di un problema esclusivamente formale poiché su questo anello doveva poggiare la cupola e la ricerca di solidità si traduceva nella tendenza generale a realizzare le parti in blocchi di travertino di grandi dimensioni, più scomodi da trasportare e da innalzare, ma più stabili una volta posti in opera. Le tracce di questo lavoro di pianificazione della composizione dei blocchi sono riconoscibili in molti luoghi della basilica. Nel caso del tamburo sono molte le parti in cui possiamo individuare una composizione delle pietre ordinata secondo criteri di semplicità e simmetria (fig. 18). Dobbiamo supporre che tali sistemi di intaglio fossero determinati dalla necessità di semplificare anche le operazioni di abbozzo in cava, poiché, una volta decise le dimensioni dei monoliti per una campata, sarebbe stato sufficiente richiedere la fornitura dei blocchi, ripetendo in modo seriale sempre le medesime misure. Nella primavera del 1563, quando le prime due imposte di capitelli risultano poste in opera, si mise mano alla realizzazione della prima campata della trabeazione64. Le sue cornici dovevano sovrapporsi al sistema di sostegno dei pilastri radiali formato da due colonne libere per tre quarti di circonferenza e da quattro mezze paraste. Non furono stipulati appalti ma fortunatamente si è conservato un gruppo di conti consuntivi destinati a stabilire le misure, e quindi i costi, di uno dei sedici intervalli, costituito dal fregio sopra un pilone e su un tratto curvilineo del tamburo65. L’intera costruzione fu realizzata da per- sonale della Fabbrica e l’esperto Giovanni Battista Casnedo, che da sedici anni seguiva i lavori di Michelangelo in San Pietro, redasse questo breve calcolo di materiali e tempi di realizzazione66. Fu in questa contingenza che si fissarono forme e misure dei blocchi da sbozzare per la trabeazione del tamburo. Sulla base di tali misure si dovevano predisporre le richieste di pietra alle cave di Fiano. Per chi come Michelangelo aveva trascorso mesi nelle cave di pietra, la composizione dei blocchi doveva costituire parte integrante del progetto. Soprattutto dopo il fallimento nella costruzione del catino dell’abside sud l’artista doveva essere particolarmente sensibile al problema67. Certamente egli non si fermò alle forme esteriori, ma entrò nel merito delle tecniche con cui si doveva realizzare la sua opera. Pochissime tracce scritte parlano di tale lavoro di definizione preventiva degli elementi architettonici in San Pietro, mentre per altri cantieri disponiamo di moltissimi disegni di blocchi di marmo68. Certamente si trattò di questioni affrontate di volta in volta per mezzo di incontri informali con i soprastanti e i capomastri inviati alle cave. Una traccia di tale lavoro è giunta sino a noi in un ritaglio di una pianta realizzata per definire la composizione dei blocchi di cui si sarebbe dovuto comporre l’architrave del tamburo. Si tratta di un disegno a matita rossa che rappresenta in proiezione piana l’architrave di uno sperone radiale del tamburo. Il disegno è giunto sino a noi grazie a un provvidenziale riutilizzo della carta avvenuto un anno dopo la morte di Michelangelo, quando un funzionario della Fabbrica utilizzò questo ritaglio per scrivere la minuta di una patente per consentire il transito di alcuni carri con alcune pietre 192 gli anni dal 1534 al 1564 193 22. Michelangelo Buonarroti, Studio per la sezione e per l’alzato della cupola di San Pietro, particolare della pianta. Lille, Palais des Beaux-Arts, Cabinet des Dessins, Collection Wicar 93-94 bloccati sulle campagne di Fiano. Nella sua condizione di frammento, il disegno sembra finalizzato a definire le dimensioni dei blocchi di architrave da porre sopra le semiparaste verso l’interno di un pilone e l’effettiva composizione dei blocchi nell’opera costruita appare confermarlo (figg. 19-21). Le convenzioni adottate nella rappresentazione, il medium e le poche cifre tracciate sul foglio, facilmente riconducibili all’opera grafica di Michelangelo permettono di sostenere l’autografia del disegno che mostra sorprendenti analogie con il piccolo schizzo posto sul famoso foglio di Lille (fig. 22)69. Si tratta di uno dei numerosissimi disegni di lavoro realizzati dall’architetto. Il suo carattere poco attraente è legato alle necessità pratiche per cui fu tracciato lo schizzo finalizzato alla visualizzazione del singolo problema. Questioni simili furono argomento quotidiano da quando, nel 1546-1547, Michelangelo aveva deciso di realizzare l’edificio in travertino a vista. Il disegno apre quindi una porta nel mondo ancora poco esplorato della progettazione dell’architettura lapidea di San Pietro70. La trabeazione del tamburo rappresentava certamente un importante traguardo agli occhi di Michelangelo, ma nessun documento di appalto indica esplicitamente che tale parte della costruzione sia stata affrontata prima della sua morte e soltanto le poche note di Casnedo parlano dell’intaglio di alcuni blocchi del fregio. Quasi un anno dopo la morte di Michelangelo vennero stipulati i contratti per la costruzione delle prime campate della trabeazione, i quali indicavano esplicitamente come i travertini fossero lavorati nel “medemo modo et con quella politezza che sono quelli che hoggi sono in opera”71. Pirro Ligorio e Iacopo Barozzi da Vignola erano allora gli archi194 23. Città del Vaticano, cupola della basilica di San Pietro, dettaglio del tamburo tetti della Fabbrica, assunti pochi mesi prima con l’impegno di proseguire senza modifiche il progetto di Michelangelo72. Negli atti ufficiali d’appalto il latino notarile lasciava spazio al volgare per negare ai continuatori di Michelangelo il diritto che questi si era riservato per modificare il suo progetto fino all’ultimo momento. Queste poche parole, insieme alle note di Casnedo che documentano le lavorazioni del fregio di una delle “imposte” nel 1563, forniscono la certezza che l’artista nell’ultima sua primavera aveva seguito la costruzione di una campata della trabeazione del tamburo, fissando definitivamente le sagome della parte più alta di questo suo capolavoro scolpito sul travertino (fig. 23). La trabeazione fu realizzata in pochi anni soltanto nella metà rivolta a sud e rimase incompleta fino a quando Giacomo Della Porta, più di vent’anni dopo, la portò a compimento. Negli anni che seguirono la morte di Michelangelo l’attività nel cantiere di San Pietro dovette essere considerata dai pontefici come una priorità anche dal punto di vista dell’immagine, tanto che molte vedute di cerimonie papali rappresentarono la fabbrica talvolta correggendo ciò che poteva sembrare sconveniente. Nella veduta anonima della giostra in Belvedere del 1565 l’attività del cantiere del tamburo è ostentata falsando la direzione in modo da mettere in vista la trabeazione verso nord, mentre in realtà questa fu realizzata nella parte opposta73 (cat. 70). Analogamente altre vedute celebrative, come quella della benedizione di Pio V stampata da Antonio Lafrèry nel 1571 e la raffigurazione panoramica dei giardini di Belvedere del 1579, nascondono l’incompletezza della trabeazione prima del suo completamento (cat. 71, 72). Con un atteggiamento simile la veduta di Natale Bonifacio del 1587 anticipa la conclusione dei lavori inaugurati da Sisto V e rappresenta il tempio isolato con la cupola completata e la facciata secondo un progetto dalle forme vagamente michelangiolesche (cat. 73). La proliferazione di vedute dopo il 1564 è un fenomeno che potrebbe essere considerato autonomamente come effetto dell’opera di Michelangelo in San Pietro. Da allora si diffuse l’usanza di raffigurare l’edificio in situazioni realistiche, immaginandone la mole dell’edificio come se questa fosse completato: dopo i diciassette anni in cui l’architetto aveva guidato il cantiere la speranza di vedere San Pietro realizzato non rappresentava più un sogno, ma un obiettivo realisticamente perseguibile. Parallelamente i limiti dell’opera considerata autografa di Michelangelo divennero sempre meno definiti. Oggi sappiamo che tali limiti corrono lungo la linea che segue il profilo dentellato dell’ultimo modano della trabeazione del tamburo, sopra il quale ogni creazione va considerata come frutto di paternità condivisa. La spinta della costruzione verso l’alto, iniziata nei primi mesi del suo incarico, si concluse con il modello della trabeazione più alta al quale tutti i successori si sarebbero dovuti adeguare. Solo la morte avrebbe potuto arrestare tale spinta inaugurando la stagione della ricerca dei suoi pensieri autentici per le parti dell’edificio non ancora poste in opera. Elevata sopra il tamburo, la cupola, efficace realizzazione di auto- gli anni dal 1534 al 1564 grafia parziale, raccoglie in sé tutte le incertezze che accompagneranno tale campo di indagine. Nella consapevolezza che sino alla realizzazione ogni progetto era per Michelangelo modificabile “ad voluntatem et arbitrium seu potius designum seu modellum” essa rimane quale enigmatico oggetto per una ricerca insolubile: macchina perfetta sopra la sua ultima cornice. 195 24. Grafico ricostruttivo dei flussi di blocchi di travertino destinati alla costruzione del tamburo della cupola di San Pietro con indicazione dei tempi di realizzazione dei capitelli interni e dei gruppi di capitelli esterni degli speroni radiali (elaborazione grafica di Simone Baldissini) 25. Appalti e lavorazioni per capitelli e imposti; flusso di travertini. Anni 1554-1564 Questo studio è stato realizzato grazie al sostegno della Bibliotheca Hertziana di Roma. Sono grato ad Anna Bedon per l’aiuto alla comprensione delle problematiche legate all’autografia nell’opera architettonica di Michelangelo, a Christof Thoenes per la discussione approfondita di molti temi connessi a questa ricerca, a Georg Satzinger per il costante sostegno nell’affrontare i problemi relativi alla costruzione in pietra, a Claudia Echinger-Maurach per l’analisi dei disegni relativi all’ultima attività architettonica di Michelangelo 1 196 ad Alessandro Brodini per le osservazioni sul testo finale. Ho condiviso ogni passo di questo studio con Maddalena Scimemi, senza il suo aiuto non avrei potuto affrontare questo lavoro. 2 La volontà dei funzionari della Fabbrica di San Pietro di non modificare il progetto di Michelangelo si manifestò immediatamente dopo la morte dell’artista. Ne troviamo traccia in un documento ufficiale, in cui si impone a Pirro Ligorio l’obbligo di seguire quanto realizzato dal suo predecessore allorquando fu designato primo ar- chitetto della Fabbrica nel 1564; cfr. infra. 3 I due accurati disegni anonimi conservati presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Collezione Santarelli U 174, U 175 rappresentano soltanto un esempio tra i disegni esistenti del presunto progetto michelangiolesco per San Pietro. Essi generalmente differiscono tra loro per le soluzioni di facciata e per la curvatura della calotta della cupola, che anche in questi fogli mostra due soluzioni alternative. Si tratta probabilmente di copie da disegni contemporanei o di poco successivi alle incisioni di Stefano Dupérac. Non è possibile tracciare in questa sede una storia esaustiva di tali rappresentazioni del progetto michelangiolesco. Per le problematiche sollevate a questo proposito è fondamentale il foglio conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (MS. XII. D. 74, f. 22 v) sul quale si veda Keller 1976. Una estesa rassegna finalizzata allo studio dei progetti di facciata si trova in Alker 1921. Cfr. anche Thoenes 1968, pp. 38-40, tavv. 16-18. 4 Nel 1564 fu stampata una prima ve- duta che ritraeva un fianco della basilica nelle condizioni reali a nome dello stampatore Vincenzo Luchino. Cinque anni più tardi furono pubblicate tre incisioni di Dupérac rappresentanti il presunto progetto complessivo michelangiolesco a pianta centrale per San Pietro, comprensivo di cupola e facciata con pronao colonnato. Sulle vedute di Dupérac, cfr. Thoenes 2000. 5 Il testo di Alfarano fu pubblicato soltanto nel 1914, cfr. Alfarano 1914. Sull’utilizzo della pianta di Dupérac da parte di Alfarano per realizzare il disegno oggi conservato presso l’Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro (in seguito AFSP), si veda Bentivoglio 1997. 6 Le questioni che hanno animato maggiormente gli studi dell’ultimo secolo su Michelangelo architetto in San Pietro gravitano intorno alla concezione planimetrica e ai pensieri per la facciata recentemente affrontati in Thoenes 2008a e Satzinger 2008, all’autografia dell’attico e delle cupole minori (si vedano rispettivamente: Millon, Smyth 1969; Brodini in c.d.s.[b]) e soprattutto la cupola. A proposito di quest’ultima, gli interrogativi più importanti legati alla curvatura delle calotte e alla fedeltà della costruzione rispetto ai disegni noti e al modello esistente sono stati affrontati attraverso un confronto sistematico delle fonti da Rudolf Wittkower nel 1933, che ha sintetizzato anche le questioni dominanti del dibattito scientifico sul tema; cfr. Wittkower 1933; Wittkower 1964; Wittkower 1992. Attualmente è annunciata la pubblicazione di uno studio complessivo su questo tema di Federico Bellini che estenderà quanto esposto già in Bellini 2008. A quest’ultimo si rimanda anche per la bibliografia selezionata. 7 Frommel 1976, pp. 67 sgg. Sulla storia della costruzione della nuova San Pietro, cfr. Frommel 1984; Frommel 1994d. Lo stato del cantiere alla morte di Sangallo è analizzato in Millon, Smyth 1976, pp. 141 sgg. 8 AFSP, Armadio 53, B, 128, ff. 114. 9 Vasari fornisce una versione articolata degli scontri tra Michelangelo e i suoi aiutanti contro la cosiddetta “set- gli anni dal 1534 al 1564 ta sangallesca”. A tale versione dei fatti si aggiungono i documenti in AFSP pubblicati quasi integralmente da Howard Saalman, oltre ad alcune lettere di Michelangelo; cfr. Saalman 1978; Carteggio, vol. IV, pp. 251-252, n. MLXXI (fine 1446 o primi del 1547), pp. 267-268, n. MLXXXIII (14 mag. 1547). 10 L’impegno di non mutare il progetto sangallesco fu preso durante un incontro tra Michelangelo e i deputati, come indica una lettera a monsignor Giovanni Arberino del 26 febbraio 1547; AFSP, Armadio 53, B, 133, f. 38; cfr. Saalman 1978, p. 491. 11 Prima dell’arrivo di Michelangelo, l’intervento più vincolante per il futuro assetto esterno riguardò la concezione del deambulatorio dell’abside sud impostato sotto la direzione di Raffaello. Lavori in questa parte della fabbrica sono documentati verso la metà degli anni quaranta sotto la direzione di Antonio il Giovane. Tali lavori non dovettero comunque influire in modo determinante sull’assetto generale di questa parte dell’edificio, ma sulla definizione interna del deambulatorio e il suo innesto sul contropilastro. Si veda in proposito l’accurato conto dei lavori di mano di Giovanni scultore e Jacomo Balducci del 4 agosto 1544 in AFSP, Armadio 25, A, 27, ff. 3-4. 12 La conclusione dei lavori per la volta fu festeggiata tra l’1 e il 2 novembre 1549, come indicano le “spese fatte per l’allegrezza della volta grande verso la stalla de palazzo” ammontanti in tutto a 4032 scudi. Dovevano essere presenti circa 150 persone, per le quali furono utilizzati 150 bicchieri e 800 piatti. AFSP, Armadio 1, G, 57, f. 717; Armadio 25, A, 42 f. 74v e 44, f. 97. (da schedario Cipriani ad vocem Benfinita); cfr. Frey 1916, p. 68. La volta completata rimase con le impalcature ancora montate per circa tre anni e solo nel gennaio 1553 fu festeggiato il disarmo con il dono di dodici cappelli agli operai; cfr. Frey 1916, p. 71, nota 618; Francia 1977, p. 89, nota 3. Sui festeggiamenti per il completamento di parti della basilica, cfr. Francia 1993. 13 L’atteggiamento favorevole di Paolo III nei confronti di Michelangelo, ol- tre che nella libertà di azione concessa per la costruzione, traspare dalle lettere dei deputati a monsignor Archinto in Trento, pubblicate in Saalman 1978, in part. pp. 491-492. Paolo III morì il 10 novembre 1549. Un mese prima aveva dato un breve per garantire la stabilità della posizione di Michelangelo. Tale atto ufficiale arrivò quindi dopo due anni di attività di Michelangelo in San Pietro. Sul breve papale datato 11 ottobre 1549, cfr. Steinmann, Pogatscher 1906, p. 400; Bredekamp 2008. 14 Il 13 marzo 1550, Giulio III impose che fossero restituite all’artista le chiavi del cantiere che gli erano state tolte dopo la morte di Paolo III. Cfr. il memoriale per il cardinale Marcello Cervini in AFSP, Armadio 53, E, 180, f. 117r; Francia 1977, p. 85; Saalman 1978, p. 493. 15 In occasione della festa per la messa in opera del cornicione grande della cupola, Michelangelo fece regalare trenta berretti del valore di 0.27 scudi l’uno per un totale di 1745 scudi. AFSP, Armadio, 25, A, 42, f. 190; 44 f. 112; ivi, B, 45, f. 74v (segnature da schedario Cipriani ad vocem Benfinita). Doveva trattarsi di un riconoscimento usuale per le maestranze poiché altri cappelli risultano donati per festeggiare il disarmo della volta verso il Palazzo Apostolico nel gennaio 1553. 16 I grandi pennacchi sferici di San Pietro, costruiti solo in parte, rimasero sospesi nel vuoto per decenni e rappresentarono una delle immagini più suggestive nelle vedute della basilica risalenti alla prima metà del Cinquecento. Furono ideati ai tempi di Bramante come dimostrano disegni attribuiti ad Antonio del Pellegrino e realizzati secondo una geometria leggermente differente dai disegni oggi noti, cfr. Metternich, Thoenes 1987, pp. 164-169. I grandi oculi realizzati solo in parte furono probabilmente ciò che più conferì l’immagine di rovina all’edificio riconosciuta da Christof Thoenes, cfr. Thoenes 1986. 17 Il numero dei lavoranti a giornata in San Pietro era variabile, ma sulla base dei partecipanti ai festeggiamenti per il completamento della volta del transetto nord possiamo supporre fossero attive all’incirca 150 persone (cfr. supra). Queste dovevano essere suddivise in modo elastico in tre cantieri che procedevano simultaneamente. Dobbiamo considerare quindi che il dono di berretti fosse destinato soltanto alle trenta persone impegnate con continuità sopra la crociera. 18 La festa per “l’allegrezza del cornicione finito et serrato il regolone di sopra” il 24 o 26 febbraio 1552 dovette essere più pacata di quella fatta due anni prima per la chiusura della volta grande, lo si deduce dall’onere di 14,96 scudi spesi dalla Fabbrica contro i 40,52 spesi in quell’occasione, cfr. Frey 1916, p. 71. AFSP, Armadio 1, H, 61, f. 67; Armadio 25, A, 44, f. 135v; ivi, B, 50 f. 73 (da schedario Cipriani ad vocem Benfinita). 19 Nei rilievi parziali della volta fiorentina disegnati da Sangallo nei fogli degli Uffizi 1130 A e 1164 A, certamente realizzati per la progettazione della cupola di San Pietro e per il modello ligneo, vi è il chiaro riferimento alla differenza di quota tra le imposte interna ed esterna. Nel foglio Uffizi 1164 A Sangallo annotò “La cornicie di fora è più alta D 38 che quella di dentro”. Sulla base di tale osservazione egli pensò di diversificare notevolmente le quote degli ordini anche in San Pietro. Sul progetto sangallesco della cupola vaticana, cfr. Benedetti 1986; Kraus, Thoenes 1996. Le critiche implicite alla volta fiorentina nell’opera di Michelangelo sono affrontate in Bellini 2008, in part. pp. 180 sgg. 20 In una famosa lettera databile per via ipotetica intorno al 1546-1547 Michelangelo aveva definito la pianta di Bramante “chiara schietta luminosa e isolata a torno” in opposizione alle complicazioni dell’architettura sangallesca, cfr. Carteggio, vol. IV, pp. 251-252, n. MLXXI (fine 1546 o primi del 1547). 21 Ennio Francia riassume i lavori di consolidamento delle fondazioni sulla base di documenti che non ho potuto verificare direttamente, che dimostrerebbero interventi in tutti i piloni, cfr. Francia 1977, pp. 89-90, dati ripresi poi in Schiavo 1990, vol. II, p. 752. 22 Ennio Francia cita il premio dato da 197 Giulio III al falegname che aveva realizzato un modello ligneo, cfr. Francia 1977, p. 90. Si tratta tuttavia del modello che Millon ha ricondotto al progetto di Michelangelo per un palazzo presso il mausoleo di Augusto, cfr. Millon 1979. 23 Nessun disegno autografo documenta le fasi di ideazione delle absidi sud e nord e i due disegni allegati alle lettere a Vasari pubblicati in Corpus, vol. IV, pp. 593-594 sono soltanto schemi esplicativi estranei alla fase di ideazione. 24 Le cave di Fiano di proprietà della contessa Livia Orsini erano attive già prima dell’arrivo di Michelangelo, come risulta da un documento del 1546; cfr. Frey 1916, p. 93. Una sintesi delle problematiche legate all’estrazione di travertino presso Fiano sono trattate in Zanchettin 2008a, pp. 14-19, cfr. in part. nota 11. 25 Contratto con Bassano da Lodi e Sante da Civita del 16 gennaio 1554. AFSP, Armadio 28, E, 758, ff. 88r-v. 26 Le registrazioni dei pagamenti furono realizzate con un metodo simile alla moderna partita doppia, segnando i movimenti di denaro in pagine contrapposte nel registro di “denari a buon conto”, AFSP, Armadio 25, B, 48. In questo grosso tomo, redatto quasi integralmente da Giovanni Battista Casnedo, il fornitore è indicato come debitore nel momento in cui riceveva denaro anticipato “deve dar” e come creditore quando forniva materiale “deve haver”. Le partite di cassa si azzerano esattamente in ogni doppia pagina o rimandano altrove qualora rimangano debiti o crediti in sospeso. La sistematicità e l’attendibilità di questo sistema contabile permette di ritenere che, con buona approssimazione, siano registrati tutti i materiali utilizzati per il tamburo, anche se qualche passaggio di materiale da altri cantieri non è da escludere. 27 La stima è fatta per difetto, ipotizzando che i 1000 scudi di pietra richiesti fossero tutti destinati ai rocchi delle colonne a 17 giuli la carretta, in realtà i fornitori si impegnarono a fornire anche pietre squadrate a 12 giuli e mezzo. La cubatura si basa sull’approssimazione di 1 carrettata (pari a 198 30 palmi cubici) a circa 1/3 di metro cubo. Nel costo del travertino la componente dominante era rappresentata dal trasporto. Il costo del materiale in cava a Tivoli era in genere di 3 giuli e mezzo la carrettata, mentre per il trasporto da Tivoli a San Pietro erano computati 8-10 giuli. Il travertino da Fiano per i rocchi delle colonne a 17 giuli prevedeva la consegna al porto di Castel Sant’Angelo. I costi complessivi per la fornitura a piè d’opera erano quindi di difficile valutazione perché i tragitti erano differenti, un bilancio dei costi per il 1561 di mano di Giovan Battista Casnedo indica che nel complesso il travertino di Fiano costava 16 giuli la carrettata contro i 17 1/3 di quello di Tivoli. AFSP, Armadio 7, B, 427, ff. 407-09 r-v: pubblicato in Zanchettin 2008a, pp. 46-47. 28 Il contratto prevedeva la fornitura di travertino e scaglia “et che essi tevertini et scaglia habbino a essere recipienti al giudicio delli soprastanti della fabrica et continuare a sollecitare senza intermissione […] in modo che in capo delli detti due anni habbino consignato almeno per scudi mille”, cfr. AFSP, Armadio 28, E, 758, f. 88v. 29 Al solo fine di fornire un termine di paragone si riporta l’entità di due contratti per l’estrazione di travertino da Tivoli stipulati il 17 e il 19 novembre 1554 per l’estrazione da effettuarsi nel 1555. Il primo con Pellegrino del Gualdo da Nocera per 800 carrettate, il secondo con Luca di Lorenzo e Benedetto Schella per 1700 carrettate, cfr. AFSP, Armadio 28, E, 758, ff. 96r-v. 30 Vasari, basandosi su testimonianze posteriori, afferma che i marmi per la tomba di Giulio II giunti a Roma “empierono la metà della piazza di San Pietro a Santa Caterina, e fra la chiesa e ’l corridore che va a Castello”. Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 28 [ed. 1568]. 31 Il dato è desunto dalla somma approssimata per difetto del travertino pagato, e quindi certamente fornito, negli anni considerati. Gli acconti pagati dalla fabbrica e i travertini ricevuti presso il porto di Castel Sant’Angelo sono documentati in modo analitico in AFSP, Armadio 25, B, 48, per gli anni in esame si vedano in part. ff. 41v, 42r, 61v, 62r, 62v, 63r, 66v, 67r, 69r, 70r. 32 Il 14 settembre 1555 fu stipulato un contratto con Matteo di Chimenti di Bartolomeo e Giommaria di Raphael di Battinello da Settignano per la fornitura di 2000 scudi di travertino per “le colonne della tribuna grande”, cfr. AFSP, Armadio 28, E, 578, ff. 103v-104r. Gli appalti di travertino proveniente da Tivoli furono stipulati l’11 novembre 1555 con Pellegrino da Gualdo di Nocera (800 carrettate), Luca di Lorenzo da Fiesole (500 carrettate), Benedetto Schella (1200 carrettate), cfr. AFSP, ivi, ff. 105r-v. 33 I contratti stipulati tra il 29 aprile e l’8 maggio 1555 sono raccolti in AFSP, ivi, ff. 101r sgg. 34 L’effettiva lavorazione dei capitelli è deducibile sulla base dei pagamenti contenuti in AFSP, Armadio 25, B, 48 e ivi, B, 66. L’ultimo capitello fu saldato il 18 febbraio 1564 a Giulio e Alessandro Cioli. AFSP, ivi, B, 66, f. ff. 33v-34v. 35 Sulla base dell’assenza di pagamenti per tirate di corda e dell’acquisto di perni metallici per i rocchi delle colonne Wittkower ha sostenuto che nel 1556 vi sia stato un arresto dei lavori, ripresi soltanto cinque anni dopo, cfr. Wittkower 1964, pp. 95-96. Ipotesi condivisa nella sostanza, ma confrontata con altre fonti in Millon, Smyth 1968, p. 495 e poi ripresa in Millon, Smyth 1988a, p. 94. 36 In due lettere del 1556 Michelangelo accenna al fatto che nella fabbrica i lavori erano rallentati, cfr. Carteggio, vol. V, pp. 74-75, n. MCCXXXVI (31 ott. 1556), pp. 105-106, n. MCCLVII (22? mag. 1577). Nel maggio del 1567 egli scriveva a Vasari: “Circa l’esser serrata la fabrica, questo non è vero, perché come si vede, ci lavora pure ancora sessanta uomini fra scarpellini, muratori e manovali, e con speranza di seguitare”, cfr. ivi, pp. 8485, n. MCCXLIV (13 feb. 1557). 37 Sulla base di fonti diverse da quelle da me utilizzate, Federico Bellini ha sostenuto la continuità degli esborsi di denaro da parte della Fabbrica negli anni in esame. Un dato che sembra favorire l’idea di una sostanziale conti- nuità dei lavori, cfr. Bellini 2008, p. 177, nota 17. 38 Giuseppe Guerriggi, archivista di San Pietro all’inizio del XIX secolo, documenta l’intaglio di un capitello composito a Francesco da Sangallo il 29 marzo 1544. Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio del Capitolo di San Pietro, Manoscritti vari, t. 35, rimanda a AFSP, Armadio 3, d. 19, p. 21. 39 Sui capitelli interni si veda supra. Per la fase di costruzione delle “imposte di capitelli” si veda infra. 40 Prescindendo dalle questioni legate alla forma del profilo della cupola, oggetto di molte delle trattazioni dedicate al foglio, il disegno presenta differenze significative rispetto al modello conservato e all’edificio costruito per la presenza dei grandi oculi circolari, per l’ordine tuscanico anziché corinzio e per la conformazione degli speroni radiali privi di semiparaste che affiancano le colonne. L’autografia del disegno è stata oggetto di ampia discussione sintetizzata in Maurer 2004, p. 126, nota 408. La sua datazione è stata altrettanto dibattuta. Wittkower, contrariamente alle datazioni più tarde proposte in precedenza, ha fissato lo schizzo al 15461547, cfr. Thode 1908-1913, p. 161; Wittkower 1933, pp. 357-58; Wittkower 1964, pp. 45-46. Alla luce dei dati qui esposti a proposito della costruzione possiamo fissare come terminus ante quem il 1554 e proporre come datazione più probabile il biennio 1552-54 proposto in Saalman, 1975, pp. 397 sgg. Per la bibliografia e un’analisi generale del disegno, cfr. Millon, Smyth 1988a pp. 142-147. Per un’analisi del processo grafico e dei disegni presenti nel foglio, cfr. Hirst 1974; Hirst 1988b, pp. 13839; Hirst 1993. Per lo studio della planimetria che questo disegno presuppone, cfr. Maurer 2004, pp. 126131. 41 Per una datazione alla fine degli anni cinquanta del XVI secolo, cfr. Joannides 1981 p. 621. Joannides ha sostenuti ciò sulla base dei diametri delle colonne ritenuti uguali a quelli realizzati. La differenza sostanziale tuttavia riguarda la presenza degli alti plinti presenti nel foglio di Lille e l’ar- ticolazione degli speroni radiali realizzati, che presentano mezze paraste all’interno, che dovette essere decisa prima di avviare le attività di abbozzo di pietra a Fiano. 42 AFSP, Armadio 25, B, 48, f. 42r. 43 Saalman 1975, pp. 397 sgg. 44 L’autografia e la datazione del disegno di Casa Buonarroti 31 A è stata discussa ampiamente in relazione alle tecniche di raffigurazione e alle finalità del disegno considerato unanimemente come un elaborato operativo per la costruzione del modello ligneo. Per le considerazioni di base sul foglio e per la bibliografia, cfr. Millon, Smyth 1988a, pp. 148-149; Corpus, vol. IV, pp. 97-98, 600. 45 Il disegno è in scala 1:15 come il modello attualmente conservato presso la Fabbrica di San Pietro. In esso è riportata una scala grafica indicante “el palmo”, mentre è omessa la curvatura del tamburo, una semplificazione che si spiega con le difficoltà che avrebbe imposto tracciare una curva così ampia e con l’inutilità di fornire tale dato ai falegnami. A tale proposito, cfr. Bellini 2008, p. 179, nota 28. 46 Il disegno di Casa Buonarroti 31 A prevederebbe passaggi tra i contrafforti di palmi 4 1/3 contro i 5 1/12 rilevati da Dosio dal modello che risulta peraltro molto simile alla realtà (1,13 contro 1,16 metri). Per il confronto tra le misure, cfr. Wittkower 1964, p. 111, in tabella riga 27. 47 I due fogli si possono datare entro la fine del 1556 per la condizione del catino dell’abside sud, al quale si iniziò a lavorare speditamente e a montare le armature nei primi mesi del 1557; cfr. Millon, Smyth 1969, p. 487, nota 2; Brodini 2006, pp. 116-117. 48 Per un’analisi delle differenze anche in rapporto a quanto costruito, cfr. Millon, Smyth 1988a, pp. 168-170, a cui si rimanda anche per la bibliografia. 49 Joannides 1978, p. 176. 50 Su questo specifico foglio, e più in generale sui disegni architettonici tardi di Michelangelo si veda EchingerMaurach in c.d.s. 51 La misura è tratta da Corpus 613. 52 La quota è tratta dalla pianta pubblicata in Bettini 1964, p. 593, fig. 639. gli anni dal 1534 al 1564 Due lettere di Michelangelo del 13 febbraio e del 22 maggio 1557 testimoniano la volontà di costruire un modello della cupola su sollecitazione in particolare dal cardinale Rodolfo Pio da Carpi, cfr. Carteggio, vol. V, pp. 84-85, n. MCCXLIV (13 feb. 1557), pp. 102-103, n. MCCLV (avanti il 22 mag. 1557), ma anche p. 78, n. MCCXXXIX (fine 1556 o primi del 1557?). Per i documenti sulla costruzione del modello, si veda Frey 1916, pp. 81 sgg. 54 Frey 1916, p. 81. 55 Ivi, pp. 82 sgg. 56 Vasari scriveva che Michelangelo fu indotto a realizzare il modello “avendo già tirato innanzi gran parte del fregio delle finestre di dentro, e delle colonne doppie di fuora, che girano sopra il cornicione tondo”, cfr. Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 103 [ed. 1568]. 57 Nel caso di Santa Maria del Fiore i fianchi del tamburo erano piani, ma per una rappresentazione parziale Michelangelo avrebbe potuto comunque adottare un modello semplificato per poi fissare le curvature sui blocchi a scala reale durante la costruzione, cfr. Saalman 1975; Maurer 2003. 58 L’assenza di curvatura sul disegno non è una prova definitiva in favore di un modello piano. Per il modello a una sola campata ciò appare alquanto plausibile. 59 Federico Bellini ha notato l’assenza dei timpani in tali disegni pubblicati in Millon 1969, pp. 486, 499. Cfr. Bellini 2008, p. 179, nota 29. Il disegno degli Uffizi 95 Av è probabilmente la traccia di un progetto che precede la realizzazione del modello finale poiché la quota della cornice sommitale delle finestre coincide con il collarino dell’ordine corinzio interno mentre, nella realtà, tale collarino risulta collocato a un’altezza sensibilmente più alta. 60 Vasari, ed. Barocchi 1962‚ vol. VII, p. 270. Alcune lettere redatte immediatamente dopo la morte di Michelangelo documentano almeno due distruzioni di fogli, cfr. Frey 19231940, vol. II, p. 82. In una lettera del 19 febbraio 1564, Averardo Serristori riferiva al granduca di Toscana che “quanto a disegni dicono che gia ab53 bruciò cio che havea”, Frey 19231940, vol. II, p. 901. A proposito della sopravvivenza dei disegni di Michelangelo si vedano Hirst 1993; Wright 1988. Sui disegni rimasti nella sua casa romana dopo la morte, cfr. Corbo 1965, in part. p. 129. 61 Gli appalti per i capitelli interni erano già stati stipulati nell’aprile del 1555, ma solo 12 dei 28 capitelli erano stati portati a termine. Tali appalti furono superati da nuove stipule a partire dal settembre 1561. Sono documentati pagamenti per 31 capitelli e 1/2, probabilmente questo mezzo capitello fu quello utilizzato come modello. Le imposte di capitelli furono appaltate a partire dalla fine di agosto dello stesso anno e furono completate nell’agosto del 1564. I dati sono dedotti dall’analisi dei documenti in AFSP, Armadio 28, E, 578; Armadio 25, B, 48 e Armadio 25, B, 66. Cfr. tabella in figg. 24-25. 62 AFSP, Armadio 28, E, 578, f. 141v sgg. 63 Il prezzo di ogni imposta di capitello era fissato a 350 scudi. Alcune imposte furono pagate 300 scudi, probabilmente perché all’atto della stipula dei contratti esistevano parti già realizzate. Si veda a esempio l’appalto a Bernardino da Siena del 12 luglio 1562 in AFSP, Armadio 28, E, 578, f. 152r e i rispettivi pagamenti in AFSP, Armadio 25, B, .48, ff. 164v-165r e ivi, B, 66, f. 16. 64 Il lavoro d’intaglio delle imposte di capitelli si concludeva con la posa in opera, per la quale era previsto l’intervento degli scalpellini. Il saldo delle somme pattuite nel contratto era subordinato a tali lavorazioni, per le quali spesso una minima somma di denaro veniva saldata alla fine per l’assistenza fornita ai muratori durante la posa in opera delle pietre. Pertanto alla data di ogni saldo possiamo ritenere che le imposte non fossero soltanto intagliate, ma si trovassero assemblate nella posizione definitiva. 65 Si tratta di uno “scandaglio” ovvero una stima del costo di un’opera realizzata da maestranze della Fabbrica, finalizzata a stabilire il prezzo da fissare per appaltare in seguito i lavori per opere analoghe. Il conto si trova in AFSP, Armadio 2, B, 79, f. 124r. Sul documento, cfr. Zanchettin 2008a, p. 26 e doc. 7.13. 66 Giovanni Battista Casnedo, di origini lombarde, fu assunto da Michelangelo pochi mesi dopo aver ricevuto l’incarico di dirigere la costruzione. Viveva presso la basilica e fu responsabile della gestione economica del cantiere fino alla morte avvenuta nel 1580. Risulta a diretto contatto con Michelangelo, per il quale talvolta scrisse testi poi controfirmati dall’artista; per un suo profilo professionale, cfr. Zanchettin 2008a, p. 15, n. 15. 67 Per una storia dell’errata realizzazione della volta in travertino del catino dell’abside sud, cfr. Brodini 2006. 68 Si veda il saggio di Claudia Echinger-Maurach dedicato al monumento funebre per Giulio II presente in questo catalogo. 69 Sulle vicende vissute dal foglio, i caratteri del disegno, la sua funzione e le ragioni dell’attribuzione, cfr. Zanchettin 2008a. 70 Su tale argomento si veda Zanchettin 2008b. 71 AFSP, Armadio 16, A, 158a, ff. 9v. Sui caratteri e le funzioni di tale contratto, cfr. Zanchettin 2008a, in part. p. 27 e doc. 5.1. 72 Ligorio prese servizio nell’agosto del 1564 in seguito a un decreto della Congregazione del 27 luglio, cfr. AFSP, Armadio 25, B, 62, f. 221r. Un breve memoriale del 19 luglio 1564 riassume i suoi obblighi, tra i quali vi era prescritto tra l’altro “Che si seguiti il modello di messer michelangelo in tutto e per tutto”, cfr. AFSP, Armadio 2, F 10 f. 191r-v, minuta in AFSP, Armadio 7, B, 429, s.n., s.d. Sul documento si vedano Bardeschi Ciulich 1983; Millon Smyth 1988b, pp. 233236, 257, nota 119; Bellini 2006, p. 102. Vignola prese servizio come secondo architetto il primo ottobre 1564, cfr. AFSP, Armadio 25, B, 62, f. 12v; ivi, C, 67, f. 13v. 73 Lo stato della basilica intorno al 1572, ritratto nella veduta dell’anonimo Fabriczy, mostra che la trabeazione del tamburo fu realizzata inizialmente sul lato sud. La veduta è conservata a Stoccarda presso la Staatsgalerie, Graphische Sammlung, n. 5811. 199 1. Michelangelo Buonarroti, Schizzo planimetrico per un palazzo con cortile porticato, circa 1525-1532, matita nera, matita rossa, 225 × 352 mm. Firenze, Casa Buonarroti, 119 A recto PROGETTI PER EDIFICI RESIDENZIALI ESEGUITI A ROMA INTORNO AL 1550-1560 Claudia Echinger-Maurach Gli studi di Michelangelo in rapporto ai coevi progetti di architettura residenziale costituiscono un argomento ancora poco sondato e meritevole di ulteriori approfondimenti. I ben noti casi relativi al completamento di palazzo Farnese, all’esecuzione del modello per la facciata del palazzo di Giulio III, alla progettazione di villa Giulia ricordata da Giorgio Vasari, sono solo alcuni tra i più eclatanti esempi del coinvolgimento di Michelangelo in progetti di architettura residenziale, consuetudine che tuttavia annovera altre testimonianze, meno spettacolari ma altrettanto significative1. Minore attenzione hanno infatti ricevuto le committenze per progetti di palazzi urbani e suburbani, tra i quali possono essere ricordati alcuni notevoli episodi, tra cui la richiesta relativa a “uno poco di disegnio” richiesto nel 1525 per la facciata del palazzo romano del datario Lorenzo Pucci, cardinale titolare dei Santi Quattro Coronati, da realizzare “in bozi insino al primo finestrato, o come stessi più meglio”, a somiglianza di palazzo Caprini di Bramante2; il secondo inerente la trasformazione, all’inizio del 1532, del medievale palazzo del luogotenente mediceo Bartolomeo Valori, detto Baccio, (poi palazzo Galli-Tassi) in via Pandolfini a Firenze3, per il quale Howard Burns ha cautamente associato la planimetria del foglio 119 A di Casa Buonarroti (fig. 1; Corpus 588 recto)4. Si tratta di una pianta per un palazzo con monumentale cortile rettangolare a portici, al quale si accennerà a breve5. I restanti studi planimetrici per case di piccola dimensione prive di cortile monumentale sono contenuti in altri quattro fogli di Casa Buonarroti. Invero poco convincentemente, Charles de Tolnay ha ritenuto fossero progetti di Michelangelo destinati all’abitazione da costruirsi sulle proprietà contigue di via Ghibellina, dove poi sa200 rebbe sorta Casa Buonarroti6. I primi due fogli mostrano planimetrie assai schematiche: essi sono il 33 A (Corpus 585 recto)7 e quello proveniente dal volume XI, f. 722v dell’Archivio Buonarroti (Corpus 584 verso)8; i restanti due, insieme a vari schizzi a matita nera e penna, contengono alcuni schizzi planimetrici ben dettagliati e con numerose annotazioni. Questi ultimi due disegni certamente affini, rispettivamente tracciati nel 117 A (cat. 74; Corpus 586 recto) e nel 118 A (cat. 75; Corpus 587 recto)9, secondo Paul Joannides fecero originariamente parte di un unico foglio10 e sono generalmente assimilati ai progetti per il cosiddetto palazzo per monsignore d’Altopascio, ovvero quell’Ugolino Grifoni a cui spettava dal 1541 il titolo di “spedalingo”, ovvero di maestro generale dello Spedale di San Iacopo d’Altopascio presso Lucca11. La pianta del 117 A (cat. 74) è sovrapposta alla traccia fortemente rielaborata di una cornice trabeata di finestra a orecchie, condotta con matita nera e biacca e ad altri schizzi di cornici. Disegnata la cornice, l’artista ha riutilizzato il foglio ruotandolo in senso orario e tracciando la planimetria di una casa a matita nera, non sul campo libero a sinistra, ma verso destra, in modo da utilizzare le linee della cornice come fossero assi di riferimento. Poi, più centralmente, ha disegnato un’altra casa speculare alla prima, come a immaginare una sorta di casa doppia, nella quale ciascuna unità è dotata di propria scala, cortile e pozzo chiaramente riconoscibili e il cui asse centrale corre poco più a destra della scritta “pozzo”. In seguito, con penna e inchiostro l’artista ha nuovamente ristretto le dimensioni della casa già tracciata a matita in un nuovo disegno a penna, marcando più chiaramente a destra il limite della nuova pianta. Questo nuovo schizzo mostra due botteghe aperte verso la strada, come il citato modello di palazzo Caprini; alle botteghe corrispondono, su ciascun lato, verso l’interno, due “camere”, una rampa di scale, una “cucina” e un’altra “camera”. La “porta” di ingresso, posta in corrispondenza dell’asse centrale, dà accesso a un “androne” e conduce poi al “pozzo”, passando attraverso più piccoli ambienti. Non c’è dubbio che questa fuga centrale di vani, ancora del tutto disordinata, necessitasse di maggiore definizione planimetrica, così il piccolo schizzo all’estremo margine sinistro del foglio, in cui la scala appare spostata in avanti, allude già al successivo cambiamento. Gli altri ambienti di questo secondo disegno, con le loro proporzioni modificate, inducono a pensare che si tratti del piano nobile. Alcune linee proseguono i contorni della scala verso destra, rivelando come Michelangelo pensi già al modo di risolvere il passaggio dalle scale agli ambienti posti di fronte. Nel disegno a penna si vede già un cenno riconducibile a un arco poggiante su due colonne che sembrerebbe relativo al secondo piano. Un terzo schizzo a penna molto piccolo è posto sulla destra e mostra lo sviluppo delle scale, dove indicativamente sette gradini conducono a un pianerottolo, proseguendo poi in lieve pendenza fino al piano nobile. Anche il foglio 118 A recto (cat. 75) mostra una planimetria disegnata a penna12. L’interesse principale di Michelangelo è qui concentrato sull’asse centrale della casa. Rispetto al foglio precedente, l’artista rinuncia alla seconda scala a destra, spostando la scala sinistra poco più avanti. Nel disegno i due principali livelli, pian terreno e piano nobile, appaiono sovrapposti; le annotazioni manoscritte dimostrano come Michelangelo abbia concepito in modo unitario questi due piani nei quali gli ambienti superiori sono in stretto rapporto con quelli sottostanti: alle “botteghe disocto” corrispondono le “camere di sopra”. Lungo l’asse centrale si trovano così annotati tre ambienti l’uno consecutivo all’altro, posti nel seguente rapporto: al “rececto” segue il “salocto”13 e a quest’ultimo il giardino con pozzo. Ricetto e salotto sono divisi da una parete dotata di ampia apertura, salotto e giardino sono separati da una fila di colonne. Da esperto anatomista, Michelangelo crea una dorsale a cui fanno riscontro ambienti affacciati simmetricamente su ambo i lati14. Non sono finora stati considerati i doppi tratti di muro relativi agli ambienti verso la strada: ritengo che essi mostrino la “sala di sopra”, rapportata nella sua grandezza alle botteghe laterali “disocto”. Analogamente la pianta prevede anche un “andito” posto al di sotto del “salocto”. Balza dunque all’occhio come l’artista disegni con economia di segni, efficacia e capacità di controllo, i due piani uno sull’altro, ponendoli nella loro estensione spaziale in reciproca correlazione. Che cosa rende dunque così singolare questo progetto a prima vista tanto semplice? Per quale motivo queste planimetrie sono gli anni dal 1534 al 1564 caratterizzate da una consapevole rinuncia alla soluzione di un cortile centrale porticato? Osserviamo la sequenza progettuale che ha determinato la pianta proposta nel foglio 118 A recto. Nel primo disegno di casa doppia tracciato a matita del 117 A, il punto di partenza era stato la netta separazione dei due nuclei abitativi, ciascuno dei quali, dotato di propria scala, mostrava non solo una propria cucina, ma anche un proprio pozzo. Nella redazione finale del 118 A recto invece si è scelto di collegare simmetricamente le botteghe e le corrispondenti “camere di sopra” rispetto a un’asse centrale, secondo uno sviluppo di vani in reciproca relazione di proporzionalità. In particolare balza agli occhi la forma del vano d’ingresso chiamato “androne” in 117 A e “ricetto” in 118 A recto, che in quest’ultima pianta possiede la stessa larghezza del seguente “salotto” al piano inferiore. Vale a dire che Michelangelo scarta immediatamente la tradizionale sequenza di corridoio stretto e buio con successivo cortile ampio e luminoso. Va aggiunto che ciascuna bottega ha una porta verso l’androne e ciò costituisce un’ulteriore insolita soluzione. Anche il cambiamento di denominazione da “androne” a “rececto” rivela che a quest’ultimo – al pari del ricetto della Biblioteca Laurenziana – si voleva assegnare una pianta quadrata, circostanza che lascia immaginare una più complessa articolazione architettonica rispetto ai più tradizionali corridoi, per esempio mediante l’aggiunta di colonne, lesene o anche sedili15. Michelangelo dunque trasformò l’elemento del corridoio in un vero e proprio vestibolo architettonicamente qualificato. Che non si tratti di un caso eccezionale nell’opera architettonica dell’artista è provato dalla pianta tracciata a matita rossa e nera sul citato foglio 119 A recto (fig. 1; Corpus 588 recto). Questa pianta, finora piuttosto trascurata, è stata datata tra il secondo e gli inizi del terzo decennio del Cinquecento16. Rispecchiando il carattere di varietà tipico delle architetture di Michelangelo, nel foglio 119 A recto intorno 201 2. Incisore del XVI secolo, Palazzo Caprini, 1549, bulino, 390 × 490 mm. Firenze, Casa Buonarroti, A.458a.R.G.F., n. 33 allo schiacciato cortile rettangolare porticato è disposta una sequenza di vani quadrati e rettangolari, mentre all’ingresso si trova un ricetto quadrato. L’intercolunnio del cortile mostra inoltre una caratteristica sorprendente: gli interassi dei sostegni verticali dei lati minori del portico sono raccorciati rispetto a quelli dei lati maggiori. Per questo motivo è possibile che le basi quadrilatere possano riferirsi più facilmente a pilastri piuttosto che a colonne. Possiamo pertanto immaginare che gli intervalli più ampi fossero sormontati da archi ribassati, come quelli che l’artista progettò, con nuova e sorprendente invenzione, per le volte con sesti “in forma di mezzo ovato” per il ricetto nel piano nobile di palazzo Farnese17. Alla luce di queste considerazioni è possibile dunque rispondere alla domanda sul perché nella sequenza di 202 3. Incisore del XVI secolo, Palazzo Alberini, s.d., bulino, 395 × 505 mm. Firenze, Casa Buonarroti, A.458a.R.G.F., n. 73 progetti per le case di Ugolino Grifoni, l’artista abbia rinunciato alla presenza del cortile: per la semplice mancanza di spazio nel lotto a disposizione. Un motivo assai interessante del foglio 118 A, sicuramente derivato da coevi esempi di palazzi romani, è la presenza del “salocto” quadrato dal quale si dipartono lateralmente le scale e chiuso verso il giardino da file di colonne. Esso ricorda la loggia della parete d’ingresso che precede i cortili con pareti laterali chiuse, caratteristiche del cosiddetto tipo architettonico indicato da Christoph Frommel come Palazzetto-Höfe18. Particolarmente controverso appare il tentativo di datazione dei disegni planimetrici contenuti nei fogli 117 A e 118 A recto, poiché essi sono stati riferiti sia a un’epoca giovanile, intor- no agli anni 1518-152019, sia a una più tarda, tra 1546 e 154720, se non addirittura intorno al 156021. Tuttavia è possibile tentare di precisare questa datazione anche attraverso il ductus della mano e lo stile dei segni grafici. Un lampante esempio della scrittura intorno agli anni 1518-1520 sono le note appuntate sul foglio 32 A di Casa Buonarroti (Corpus 331 recto) relative allo schizzo planimetrico di un terreno acquistato a Firenze da Michelangelo dal Capitolo di Santa Maria del Fiore il 14 luglio 1518. Tipici di questi anni fiorentini sono i tratti allungati delle aste superiori e inferiori, frequentemente assai slanciati. Al contrario la scrittura nei due fogli in esame è assai più contenuta e mostra lettere collegate tra loro con maggiore fluidità. Le stesse caratteristiche di fluidità si riscontrano nelle gli anni dal 1534 al 1564 glosse esplicative destinate a Giorgio Vasari apposte nel 1557 da Michelangelo in margine a due disegni del catino absidale per il braccio meridionale del transetto della basilica di San Pietro, oggi conservate in Casa Vasari ad Arezzo (Corpus 593 recto e 594 recto)22. Ho recentemente cercato di dimostrare come in età tarda Michelangelo tendesse a distinguere i muri perimetrali delle sue piante con un colore molto scuro. Il disegno nel foglio di Casa Buonarroti 120 A recto (cat. 77; Corpus 610 recto), raffigurante una delle soluzioni planimetriche per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, non solo mostra la scrittura fluida dell’età matura, ma anche il modo di tracciare i contorni del progetto con tratti di penna più volti ripetuti, caratteristica quest’ultima evidente tanto nelle due esedre laterali prossime 203 all’ingresso della chiesa23, quanto nelle pareti perimetrali delle piante in oggetto. Le considerazioni sul ductus e sullo stile dei disegni portano dunque a spostare la datazione di queste case verso la fine degli anni cinquanta del Cinquecento. Una volta che il progetto di abitazione residenziale, documentato dai fogli 117 A e 118 A recto e verso, è stato inquadrato cronologicamente sulla base dello stile e del ductus, resta da verificare la motivazione della scritta “laltopascio” apposta nel margine superiore sinistro del foglio. Senz’altro da respingere la relazione con gli infondati progetti per le proprietà di via Ghibellina, regge bene il nesso tra l’appellativo “laltopascio” e il nome di Ugolino Grifoni, segretario personale di Cosimo I, dal 1541 spedalingo dello Spedale di Altopascio24. Non a caso tale appellativo ricorre sia in un disegno di Francesco da Sangallo per un casale presso Lucca25, sia su diversi fogli di Bartolomeo Ammannati, sui quali sono disegnate mostre di porte e di finestre “per l’Altopascio”, ovvero per il palazzo Grifoni in via dei Servi a Firenze26. Nel 1549 i tre fratelli Grifoni avevano acquistato dalla famiglia Ricci la proprietà dove sarebbe stato costruito il futuro palazzo, ma solo nel 1557, con l’acquisto di un’ulteriore adiacente lotto dalla stessa famiglia, fu dato avvio ai lavori27. Nelle planimetrie di Michelangelo la presenza di botteghe verso la strada spinge a ritenere che si tratti di un progetto per questo palazzo fiorentino, dato che le precedenti proprietà presentavano al pian terreno due analoghe destinazioni d’uso, assoggettate nel febbraio 1558 al pagamento della tassa imposta a questo tipo di attività commerciali28. Nel caso in cui si sia stato Ugolino Grifoni a rivolgersi direttamente allo scultore, tali progetti potrebbero essere datati al 1557 o poco prima29. Tuttavia, grazie alla fiducia accordata da Michelangelo a Bartolomeo Ammannati già dal 1550, non è da escludere la possibilità di una consulenza offerta dal maestro al discepolo, il quale si trovò a dirigere la costruzione del palazzo dall’inizio dei lavori, come testimonia il coevo disegno Uffizi 3452 A dello stesso Ammannati30. Marco Calafati ha recentemente sostenuto che le planimetrie di Michelangelo siano da assegnare ai progetti per un palazzetto che Ugolino Grifoni avrebbe voluto costruire a Roma31. A sostegno di questa ipotesi bisognerebbe indagare sulla durata dei soggiorni romani di Grifoni. Secondo Stefano Calonaci “fino al 204 1560 il Grifoni risiedette tra Pisa e Lucca sui possedimenti dell’ospedale, per spostarsi nei mesi invernali a Firenze”32. Solo nel marzo 1560, in qualità di supervisore della famiglia cardinalizia seguì il neoeletto cardinale Giovanni de’ Medici a Roma; nell’Urbe si trattenne, anche se sporadicamente, fino alla morte del suo protettore nel 156233. Grifoni disponeva senz’altro delle risorse finanziarie per far costruire un palazzo anche a Roma, ma le piante di Michelangelo, con la loro duplice struttura, fanno concludere che il palazzo era pensato per più nuclei abitativi, come ad esempio il citato palazzo Caprini (fig. 2)34, costruito dai due fratelli Adriano e Aurelio Caprini, oppure Palazzo Alberini (fig. 3), che Giulio Alberini aveva affittato a due banchieri fiorentini35. Trarre vantaggio economico attraverso l’affitto delle botteghe al pianoterra era parimenti consuetudine diffusa36. A immagine delle antiche tabernae, le botteghe dei palazzi romani del Cinquecento si distinguono per le loro ridotte dimensioni e si caratterizzano per la presenza di un mezzanino soprastante spesso destinato ad abitazione. A differenza di queste, i due disegni ipoteticamente associabili a Ugolino Grifoni mostrano tre grandi aperture in facciata: una porta d’ingresso e due ampie finestre adatte ad accogliere spaziose botteghe. Al di sopra di tali aperture bisogna poi immaginare, su ciascun asse verticale, le corrispondenti aperture del piano nobile, con larghezze di dimensione variata. Tutto ciò fa pensare che, nel suo complesso, l’edificio non dovesse essere molto grande, sollevando al tempo stesso il problema riguardo alla composizione della facciata, se essa dovesse essere articolata con ampi intervalli tra le finestre a dare il senso di una travata ritmica. Problema che si ripresenta sulla facciata laterale sinistra dello schizzo del 118 A, dove allo stesso modo erano previste solo tre aperture. Si può ragionevolmente concludere che le planimetrie dei foglio 117 A e 118 A recto disegnate da Michelangelo non possono essere facilmente assegnate ad alcun progetto noto, anche se non può essere escluso che siano state disegnate come prime idee per il palazzo dei fratelli Grifoni a Firenze alla fine degli anni cinquanta. Da parte di Michelangelo resta assai interessante la ripresa e la modificazione di un tipo architettonico di palazzetto – monumentale, ma in piccola scala – destinato a importanti personaggi di curia, al cui grande successo in quegli anni aveva per primo contribuito Donato Bramante37. Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, pp. 228, 233; Millon 1979, pp. 770-777; sul progetto di Michelangelo per palazzo Farnese si veda il saggio di Emanuela Ferretti in questo stesso catalogo. 2 Carteggio, vol. III, p. 130, n. DCLXXXVI (28 gen. 1525); ivi, p. 133, n. DCLXXXIX (8 feb. 1525); ivi, p. 138, n. DCXCIII (16 mar. 1525); ivi, pp. 205-206, n. DCCXXXVIII (4 feb. 1526); Frommel 1973, vol. I, pp. 147-148, nota 7. 3 Carteggio, vol. III, pp. 386-387, n. DCCCLVI (primi di apr. 1532); Ginori Lisci 1972, vol. II, pp. 559-560. 4 Burns 2006, pp. 27-29, ha attribuito a Michelangelo le eleganti finestre inginocchiate presenti nella facciata di questo palazzo; per un ampio inquadramento sul tema delle finestre inginocchiate, cfr. H. Burns, scheda 9, in Elam 2006, pp. 178-181 e Belluzzi 2004. 5 Una rapida bibliografia al disegno è in B. Contardi, scheda 10, in Argan, Contardi 1990, p. 174. 6 Tolnay 1966. 7 Il rapido schizzo a penna occupa l’intero frammento del foglio al cui verso sono solo brevi annotazioni autografe di conti. 8 Per questo rapido schizzo planimetrico a lapis rosso Michelangelo ha usato il verso di una lettera indirizzata a Domenico Terranova, cfr. Carteggio, vol. I, p. 350, n. CCLXXVIII (27 apr. 1518). 9 L’edicola e le cornici disegnate nei fogli 117 A e 118 A verso, databili alla seconda metà degli anni cinquanta del Cinquecento, possono essere messe in relazione con le finestre interne del tamburo della cupola di San Pietro, per tale confronto si veda Echinger-Maurach in c.d.s. e il saggio di Vitale Zanchettin in questo stesso catalogo; va aggiun1 gli anni dal 1534 al 1564 to che i fogli 117 A verso e 118 A recto, una volta affiancati e opportunamente orientati, mostrano due cerchi concentrici che sono stati posti in relazione con svariati studi: con la cupola e la lanterna di San Pietro (Corpus, vol. IV, pp. 87-88); con la pianta per la lanterna della cupola di San Pietro (Carpiceci 1991, p. 62); con la pianta della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini (Joannides 2007, p. 259); con la pianta per la lanterna di San Giovanni dei Fiorentini (Fara 1997, pp. 34-59). 10 Joannides 1981, p. 686. 11 Su questa commissione, cfr. F. Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 846-847; Ackerman 1986, p. 296; Ackerman 1988, pp. 166-167; B. Contardi, scheda 10, in Argan, Contardi 1990, pp. 173174; Carpiceci 1991, pp. 54-55, 62-64; Fara 1997, pp. 34-59; Echinger-Maurach 2006, p. 108; Joannides 2007, p. 259. Intorno a questi due fogli si è recentemente discusso con vivo interesse nelle due relazioni di Claudia EchingerMaurach, Il riutilizzo dei disegni architettonici di Michelangelo: un fenomeno del suo stile tardo? e di Marco Calafati, Michelangelo e il Palazzo Grifoni a San Miniato al Tedesco, presentate al convegno internazionale Michelangelo e il linguaggio del disegno d’architettura (Firenze, Kunsthistorisches Institut, 29-31 gennaio 2009), a cura di A. Nova e G. Maurer, i cui atti sono in corso di stampa. 12 Il foglio 118 A recto contiene un disegno planimetrico a matita che sembra preparatorio alla planimetria disegnata a penna e inchiostro; altro simile schizzo benché assai più approssimativo è nel verso dello stesso foglio, cfr. scheda 26, in Millon, Smyth 1988b, pp. 139-141. Sulla forma e funzione di questa tipologia di ambiente, cfr. Frommel 1973, vol. I, p. 71, alla voce “saletta”. 14 Riguardo ai concetti di simmetria e assialità nell’opera di Michelangelo, cfr. Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp. 2, 92. 15 Frommel 1973, vol. I, pp. 54-56. Sulle austere decorazioni degli androni dei palazzi fiorentini, cfr. Lingohr 1997, pp. 76-77. 16 Sulla combinazione di matita rossa e nera nei disegni di Michelangelo degli anni trenta, cfr. Echinger-Maurach 2006, pp. 99-102; per il rapporto di Michelangelo con Baccio Valori e la scultura dell’Apollo, oggi al Museo Nazionale del Bargello di Firenze, eseguita per Valori negli anni 1530-1532, cfr. Echinger-Maurach 2000. 17 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 224. 18 Frommel 1973, vol. I, p. 57. 19 Ackerman 1988, pp. 166-167; B. Contardi, scheda 10, in Argan, Contardi 1990, pp. 173-174. 20 Corpus 586 recto. 21 Joannides 1981, p. 686. 22 Su questo argomento, cfr. il saggio di Alessandro Brodini in questo catalogo. 23 Echinger-Maurach 2006, p. 108. 24 Su questo personaggio, cfr. Calonaci 2002. 25 Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi 1680 A recto; Joannides 2007, p. 274, suppone che i disegni 117 A e 118 A di Michelangelo si riferiscano a progetti per Ugolino Grifoni a Lucca. 26 Fossi 1970, pp. 327-328, f. 39v; ivi, pp. 325-326 con la leggenda di f. 38r. 27 Su questo palazzo, cfr. Thode, 1908-1913, vol. II, p. 140; vol. III, n. 167; Vodoz 1942, pp. 58-79, nello specifico pp. 63-64; Fossi 1970, pp. 13 61-67; Ginori Lisci 1972, vol. I, pp. 451-456, nello specifico pp. 451454; Kiene 1995, pp. 74-88; Pozzana 1995, pp. 155-160; Giovannini, Primi, Presciutti 1995, pp. 297-303; Ruschi 1995, pp. 305-320. 28 Vodoz 1942, p. 62. 29 A partire dal 1551, Ugolino Grifoni fece anche costruire un palazzo a San Miniato al Tedesco da Giuliano di Baccio d’Agnolo; cfr. StegmannGeymüller 1885, vol. VII, p. 4: la fig. 7 mostra che il palazzo di San Miniato non possiede botteghe e si apre sulla campagna lungo un fianco, ciò esclude che i citati progetti di Michelangelo possano essergli associati, sull’argomento cfr. Stiaffini, Macchi 2007, pp. 24, 27. 30 Vodoz 1942, p. 62; Fossi 1970, p. 212, n. LXXXII; Kiene 1995, p. 77. 31 Si tratta della citata relazione di Marco Calafati presentata al convegno Kunsthistorisches Institut di Firenze lo scorso gennaio, si veda supra. 32 Calonaci 2002, p. 412. 33 Grifoni tornò pressoché stabilmente a Roma dal 1569, quando Michelangelo era ormai morto, per accompagnare il secondo figlio di Cosimo, Ferdinando de’ Medici, quando anche questi fu nominato cardinale; in questo periodo Grifoni dovette accontentarsi di una modesta stanza, piuttosto rumorosa, a palazzo Cardelli, detto “Palazzo di Firenze”, cfr. Calonaci 2002, pp. 412414. 34 Su palazzo Caprini, cfr. Frommel 1973, vol. I, pp. 93-96; sull’incisione, cfr. scheda 39, in Corsi, Ragionieri 2004, p. 53. 35 Frommel 1973, vol. I, pp. 108109, 154. Sull’incisione di palazzo Alberini, cfr. scheda 40, in Corsi, Ragionieri 2004, p. 54. 36 Frommel 1973, vol. I, pp. 90-91. 37 Ackerman 1988, pp. 166-167. 205 1. Roma, San Giovanni dei Fiorentini visto da Trastevere in una foto d’epoca SAN GIOVANNI DEI FIORENTINI Mauro Mussolin La nazione fiorentina perse per quella chiesa una bellissima occasione, che Dio sa quando la racquisterà già mai; et a me ne dolse infinitamente. Non ho voluto mancare di fare questa breve memoria, perché si vegga che questo uomo [Michelangelo] cercò di giovare sempre alla nazione sua et agli amici suoi et all’arte. Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo1 Celeberrimi per annoverare tra le più straordinarie soluzioni a pianta centrale del Cinquecento, i progetti per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini rappresentarono uno dei più importanti banchi di prova su cui si misurarono, fianco a fianco o nel tempo, i migliori architetti dell’epoca. Il primo tentativo di ricostruire una nuova chiesa-oratorio per la comunità dei fiorentini a Roma data al 1508, quando il vecchio edificio del 1484 fu atterrato in previsione del grande piano di sistemazione urbana di via Giulia e del palazzo dei Tribunali intrapreso da Donato Bramante su commissione di Giulio II (15031513) e per il quale lo stesso architetto fornì un disegno di pianta a cui tuttavia non fu data esecuzione2. Il successivo pontificato di Leone X de’ Medici (1513-1521), subito caratterizzato da una politica filotoscana, assicurò una solida stabilità giuridica e finanziaria alla comunità dei fiorentini in Roma. Il 12 agosto 1513 fu nominata la commissione che avrebbe dovuto ricercare l’area sulla quale costruire la chiesa e nel 1515 fu ufficialmente istituito il consolato della Nazione fiorentina. Il luogo era un plesso urbano di fondamentale importanza economica e strategica, il cosiddetto “piccolo tridente”, un trivio di strade convergente su piazza di ponte Sant’Ange- 206 lo, popolato da banchieri, mercanti e funzionari dell’amministrazione pontificia, per lo più di origine toscana. Lì, al termine dell’asse orientale del trivio, sopra le sponde del Tevere sarebbe stata innalzata la piattaforma di fondazione della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini (fig. 1). Tre disegni a pianta centrale di mano di Giuliano da Sangallo sono stati riconosciuti come progetti per la realizzanda chiesa e la loro datazione può verosimilmente farsi risalire a questi primi anni di pontificato leonino, tra 1513 e 15163. Giorgio Vasari colloca al 1517 la data del famoso “concorso” per il progetto della chiesa voluta dal papa, la cui regia, assai probabilmente affidata a Raffaello, ebbe modo di valersi di protagonisti del calibro di Giulio Romano, Baldassarre Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane e Jacopo Sansovino4. La varietà di proposte planimetriche di cui si correda la storia edilizia della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini documenta in maniera esemplare quella che, con felice formulazione, è stata definita la “tendenza linguistica medicea” presente nell’architettura del primo Rinascimento romano, caratterizzata proprio da una molteplicità di “diverse maniere”, individuate da grafie autonome e personali, ma accomunate dalla volontà di definire uno stile di ambizione universale, veicolo di un linguaggio antiquario, elegante e curiale, specchio della politica artistica del pontificato leonino5. Il 10 gennaio 1519 il papa autorizzava l’erezione della chiesa e il successivo 29 gennaio, con la bolla Intenta iugiter, elevava la chiesa a parrocchia dei fiorentini a Roma, con fonte battesimale, campanile e cimitero, garantendole privilegi e indulgenze. Il 31 ottobre dello stesso anno, il cardinale Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII), in qualità di arcive- scovo di Firenze, benediceva la posa della prima pietra. Nonostante le ingenti donazioni, gli sforzi per dare compimento alla chiesa costituiscono lo specchio dei progressi e delle difficoltà incontrate dalla comunità tosco-fiorentina nella Roma dei papi. Resta tuttavia fondamentale comprendere come le attese del pontefice fossero quelle di fare della chiesa di San Giovanni il luogo in cui avrebbero dovuto “essere registrate le scansioni sacramentali della vita di tutti i Fiorentini residenti a Roma”, ai cui consoli e operai venne demandata ogni questione riguardante la fabbrica6. Il continuo riferimento di questi progetti a una planimetria centralizzante e la loro continua citazione di elementi tratti dal battistero fiorentino non furono soltanto una indicazione di tipo formale di ideale fratellanza fra le due città, ma furono mossi e giustificati da una motivazione liturgica e identitaria: l’ecclesia florentinorum, edificio simbolo della comunità, elevato in posizione ben visibile a sbalzo sull’ansa del fiume e in diretto confronto visivo con un altro erigendo edificio, l’ecclesia universalis di San Pietro7. Tra 1518 e 1521, ai citati artisti coinvolti nel concorso può essere attribuita la serie omogenea di progetti a pianta centrale, con dimensioni simili pari a circa 220 palmi (poco meno di cinquanta metri), caratterizzati dalla fusione tra il tema spaziale del Pantheon e quello del battistero di San Giovanni a Firenze, secondo un connubio probabilmente dettato dallo stesso pontefice il quale fu sempre animato dall’idea del sodalizio fra Roma e Firenze e del gemellaggio tra Tevere e Arno8. L’assegnazione dell’incarico fu vinta da Sansovino il quale formulò una proposta planimetrica ancora assai discussa dalla critica, ipoteticamente identificabile, sulla base del contraddittorio racconto vasariano, con una pianta centrale avente “su’ quattro canti di quella chiesa per ciascuno una tribuna, e nel mezzo una maggiore tribuna”9. Nonostante i dubbi che permangono sull’aspetto di tale progetto, la planimetria sembra derivare soprattutto dalle sperimentazioni bramantesche derivate dal tema del quincunx, ovvero una pianta quadrata con cappelle angolari cupolate e cupola centrale. All’inizio del 1521 va registrato l’allontanamento dal cantiere di Sansovino al cui posto subentrò Antonio da Sangallo il Giovane; a quest’ultimo si deve la variazione del precedente schema a pianta centrale per uno longitudinale di tipo basilicale10, sulla base del quale si diede inizio alle costosissime e assai problematiche fondazioni sul letto del fiume che tanta ammirazione, ma anche tanto biasimo, suscitarono nei contemporanei, come pungentemente riferito da Vasari nella Vita di Antonio il Giovane: Avendo intanto la Nazione fiorentina col disegno di Iacopo Sansovino cominciata in strada Giulia, dietro a Banchi, la chiesa loro, si era nel porla messa troppo dentro nel fiume: perché, essendo a ciò stretti dalla necessità, spesono dodici gli anni dal 1534 al 1564 mila scudi in un fondamento in acqua, […]. perché non dovevano mai permettere che gli architetti fondassono una chiesa sì grande in un fiume tanto terribile, per acquistare venti braccia di lunghezza, e gittare in un fondamento tante migliaia di scudi, per avere a combattere con quel fiume in eterno: potendo massimamente far venire sopra terra quella chiesa col tirarsi innanzi e col darle un’altra forma; e, che è più, potendo quasi con la medesima spesa darle fine: e se confidarono nelle ricchezze de’ mercanti di quella Nazione, si è poi veduto col tempo quanto fusse cotal speranza fallace: perché in tanti anni che tennero il papato Leone e Clemente de’ Medici e Giulio terzo e Marcello, ancor che vivesse pochissimo; i quali furono del dominio fiorentino; con la grandezza di tanti cardinali e con le ricchezze di tanti mercatanti, si è rimaso e si sta ora nel medesimo termine che dal nostro Sangallo fu lasciato.11 Scrivendo nel 1568, Vasari ricordava bene come, tra enormi costi e immani difficoltà tecniche, ancora a quella data la piattaforma sangallesca e alcuni tratti del perimetro murario della chiesa costituivano le uniche parti della costruzione a essere state condotte12. In due ulteriori passi tratti dalla Vita di Michelangelo, lo stesso Vasari fornisce le importanti informazioni che riguardano il doppio coinvolgimento di Buonarroti nella vicenda. Il primo risale al 1550, sotto il papato del toscano Giulio III Ciocchi del Monte (1550-1555): Era messer Bindo Altoviti, allora consolo della nazione fiorentina, molto amico del Vasari, che in su questa occasione gli disse che sarebbe bene far condurre questa opera nella 207 2. Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini, 1559. Firenze, Casa Buonarroti, 121 A 3. Tiberio Calcagni (?), Planimetria del progetto finale di Michelangelo per San Giovanni dei Fiorentini, circa 1560. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 3185 A 4. Valérian Regnard, Ichnographia Templi Sancti Ioannis Baptistae Nationis Florentinorum in Urbe Michaele Angelo Bonaroto Architecto in Lucem Edita a Valeriano Regnartio, 1683, acquaforte, in Valerianus Regnartius, Praecipua Urbis Romanae Templa, Insignium Romae templorum, Io. Iacobo de Rubeis editore, Roma 1684, tav. 49 chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, e che ne aveva già parlato con Michelagnolo, il quale favorirebbe la cosa, e sarebbe questo cagione di dar fine a quella chiesa. Piacque questo a messer Bindo, ed essendo molto famigliare del papa, gliene ragionò caldamente; mostrando che sarebbe stato bene che le sepolture e la cappella, che Sua Santità faceva fare in Montorio [si tratta della cappella del Monte in San Pietro in Montorio], l’avesse fatte nella chiesa di San Giovanni de’ Fiorentini ed aggiugnendo, che ciò sarebbe cagione che, con questa occasione e sprone, la nazione farebbe spesa tale che la chiesa arebbe la sua fine; e se Sua Santità facesse la cappella maggiore, gli altri mercanti farebbono sei cappelle, e poi di mano in mano il restante.13 Michelangelo fu effettivamenete coinvolto dal papa, come testimonia una lettera autografa del Maestro indirizzata il primo 208 agosto 1550 allo stesso Vasari e da questi pubblicata nella Vita: “iermactina, sendo il Papa andato a decto Montorio, mandò per me. […] Ebbi lungo ragionamento seco circa le sepolture allogatevi, e all’ultimo mi disse che era resoluto non volere mecter decte sepolture in su quel monte ma nella chiesa de’ Fiorentini, e richiesemi di parere e di disegnio, e io ne lo confortai assai, stimando che per questo mezzo decta chiesa s’abbi a finire”14. La trascrizione della lettera da parte di Vasari serviva a sottolineare, sia il fatto che le sepolture dei famigliari del papa avrebbero indotto la nazione fiorentina a innescare la richiesta di patronati sulle cappelle della chiesa, sia soprattutto che la fama e la virtù morale di Michelangelo avrebbero agito come stimolo per il completamento della chiesa e per la conduzione esemplare del cantiere15. Nonostante gli interessamenti del Maestro a questa vicenda, il progetto cadde in un nulla di fatto e questi, in una successiva lettera a Vasari parimenti riportata dal biografo, ebbe a scrivere una sagace nota contro l’intrigante e faccendone personaggio della corte pontificia, Pier Giovanni Aliotti vescovo di Forlì, spregiativamente chiamato “monsignor Tantecose”, che si era frapposto nella vicenda: “Io, per non combactere con chi dà le mosse a’ venti, mi son tirato a dietro, perché, sendo uomo leggieri, non vorrei essere trasportato in qualche machia. Basta, che nella chiesa de’ Fiorentini non mi par s’abbi più a pensare”16. Christoph Frommel, sulla base delle ipotesi di Klaus Schwager17, ha recentemente precisato come i tre progetti simili per una chiesa a pianta ellittica, già attribuiti a Giovanni Antonio Dosio, ad Antonio Labacco e persino a Tiberio Calcagni (fortemente derivati dal primo progetto di Antonio da Sangallo a pianta circolare per la chiesa dei Fiorentini pubblicato da Labacco nel 1552)18, rappresentino invece le proposte progettuali di Jacopo Barozzi da Vignola per lo stesso edificio19. Databili intorno al 1550, cioè in contemporanea con il primo coinvolgimento di Michelangelo nella vicenda, secondo lo studioso tali disegni daterebbero all’estate del 1550, coincidente con l’arrivo di Vignola a Roma da Bologna, appena prima della commissione papale di villa Giulia. Il secondo coinvolgimento di Michelangelo nel completamento della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini data al 1559. In quest’anno la Nazione fiorentina riprese l’idea di assegnare l’incarico all’ottantaquattrenne Maestro. L’iniziale riluttanza dell’artista a condurre l’opera, documentata dalla lettera di Michelangelo al nipote Leonardo del 15 luglio 155920, fu sciolta solo con il coinvolgimento del duca Cosimo I de’ Medici quale finanziatore dell’impresa, approvata il succesivo 10 agosto. Il biografo Ascanio Condivi ricorda tra le righe che solo a prezzo di un continuo “ricusare”, ovvero negarsi e farsi desiderare, fu possibile a Michelangelo costringere i committenti e persino i papi a riconoscergli, attraverso privilegi e mo- tupropri, uno status di autonomia artistica, responsabilità gestionale e controllo finanziario che non ebbe precedenti21. Il 26 ottobre, il duca scriveva a Michelangelo che l’idea di un suo progetto gli era “piaciuta infinitamente” e affidava al “suo miglior giudizio” ogni decisione sulla fabbrica22. A sua volta Michelangelo cominicava al duca di aver “facti di già più disegni convenienti al sito che m’ànno dato per tale opera i sopra decti deputati. Loro come uomini di grande ingegnio e di g[i]udicio, n’ànno electo uno, el quale in verità m’è parso el più onorevole; el quale si farà ritrare e disegniare più nectamente ch’io non ò potuto per la vechieza, e manderassi alla inlustrissima Vostra Signoria: e quello si seguirà che a quella parrà”23. Le vicende del fitto carteggio tra Michelangelo, Cosimo e i deputati della Nazione fiorentina sono ben compendiate dal racconto vasariano che vale la pena trascrivere: Fu risoluto che dessi ordine sopra i fondamenti vecchi a qualche cosa di nuovo; e finalmente creorono tre sopra questa cura di questa fabbrica, che fu Francesco Bandini, Uberto Unbaldini e Tommaso de’ Bardi, e’ quali richiesono Michelagnolo di disegno, raccomandandosegli sì perché era vergogna della nazione avere gettato via tanti danari, né aver mai profittato niente, che, se la virtù sua non gli giovava a finarla, non avevono ricorso alcuno. Promesse loro con tanta amorevolezza di farlo, quanto cosa e’ facessi mai prima, perché volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio, poi per l’amor della nazione, qual sempre amò. […] Michelagnolo dunque, per le cose d’architettura, non possendo disegnare più per la vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo di Tiberio [Calcagni] perché era molto gentile e discreto. Perciò desiderando servirsi di quello in tale impresa, gl’impose che e’ levassi la pianta del sito della detta chiesa; la quale levata e portata subito a Michelagnolo, in questo tempo che non si pensava che facessi niente, fece intendere per Tiberio che gli serviti, e finalmente mostrò loro cinque piante di tempii bellissimi; che viste da loro, si meravigliorono; e disse loro che scegliessino una a modo loro: e’ quali non volendo farlo, riportandosene al suo giudizio, volse che si risolvessino pure a modo loro. Onde tutti d’uno stesso volere ne presono una più ricca alla quale risolutosi, disse loro Michelagnolo che, se conducevano a fine quel disegno, che né Romani né Greci mai ne’ tempi loro feciono una cosa tale: parole, che né prima né poi usciron mai di bocca a Michelagnolo perché era modestissimo.24 Il passo vasariano continua descrivendo con grande efficacia i progressi del progetto, che dai disegni, approda all’elaboraziogli anni dal 1534 al 1564 209 5. Jacques Le Mercier, Incisione del modello michelangiolesco per San Giovanni dei Fiorentini, 1607 ne di un primo modello in creta e poi alla realizzazione finale del modello ligneo attraverso istruzioni precise date al fidato Tiberio Calcagni, poiché “non possendo disegnare più per la vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo di Tiberio perché era molto gentile e discreto”25. L’apprezzamento del progetto finale inviato da Michelangelo al duca tramite Tiberio nel marzo del 1560 è documentato nella risposta del 30 aprile: “il disegno vostro per la chiesa della Natione ci ha innamorato sì, che ci dispiace di non vederlo in opera perfetta, et per ornamento et fama della città nostra, et anco per vostra eterna memoria, che ben la meritate”26. Una volta tornato a Roma, a Tiberio fu affidato il compito di sovrintendente della fabbrica di San Giovanni fino al 1562, quando venne sostituito da maestro Guido, sicuramente quel Guidetto Guidetti operante nel cantiere della facciata di palazzo dei Conservatori in Campidoglio. Da questo anno, dopo aver speso i 5000 scudi in opere di fondazioni, poco o nulla si sarebbe realizzato del progetto michelagiolesco, così la fabbrica venne nuovamente abbandonata fino al 1583, quando il cantiere fu affidato a Giacomo della Porta che riprese i progetti a schema basilicale di Sangallo dando avvio alle navate della chiesa, il cui transetto, coro e cupola sarebbero stati innalzati da Carlo Maderno a partire dal 1608, mentre la facciata sarebbe stata terminata addirittura nel 1736 con un progetto di Alessandro Galilei27. Con le “cinque piante di tempii bellissimi” citate da Vasari, Michelangelo segnava il ritorno allo schema centrico che aveva caratterizzato i primi progetti per la chiesa. Sulla base della prima identificazione di Dagobert Frey28, la critica ritiene concordemente che tre di queste originarie proposte corrispondano ai fogli di Casa Buonarroti 120 A recto (cat. 77; Corpus 610r), 121 A recto (fig. 2; Corpus 609r), 124 A recto (cat. 78; Corpus 612r). A essi possono essere aggiunti i fogli della stessa collezione 123 A recto (cat. 76; Corpus 608r) e 36 A recto (cat. 79; Corpus 611r). Michael Hirst ha suggerito saggiamente di resistere alla tentazione di volere allineare in stretta successione cronologica questi tre progetti, dal momento che essi furono mostrati insieme ai deputati della Fabbrica della chiesa e pertanto considerati varianti ugualmente plausibili: essi appartengono infatti a un preciso genere di disegni di architettura, quelli dimostrativi, eseguiti per facilitare la comprensione delle convenzioni grafiche di rappresentazione ortogonale29. Sviluppando la tesi di Hirst, si può addirittura suggerire che le cinque varianti iniziali di Michelangelo possano essere state sviluppate pressoché insieme, secondo ipotesi planimetriche differenti (restano oggi quelle relative al cerchio, all’ottagono e al quadrato), le quali potrebbero essere state via via perfezionate, senza un ordine preciso, con la speranza di potere indirizzare la committenza verso la soluzione ritenuta migliore, 210 l’ultima della serie corrispondente al foglio 124 A recto (cat. 78). In effetti il primo dei tre disegni, il 121 A recto (fig. 2), basato su una pianta circolare con deambulatorio interrotto dai vestiboli di ingresso in corrispondenza degli assi ortogonali, mostra un progetto molto acerbo che tuttavia trova la sua ragione d’essere proprio nell’enfasi posta sulla figura del cerchio: è la prima e più ovvia proposta fatta ai committenti, basata sul più semplice schema circolare derivato dal Pantheon, sul quale si erano affaticati Raffaello, Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane intorno al 1518, a cui Michelangelo risponde con un modello spazialmente più complesso derivato piuttosto da architetture paleocristiane romane, quali Santa Costanza e Santo Stefano Rotondo: la struttura al centro della pianta è stata correttamente individuata da Michael Hirst come un fonte battesimale sormontato da un baldacchino, perfettamente congruo con le funzioni liturgiche della chiesa. La seconda variante proposta dal foglio 120 A recto (cat. 77), basato su uno schema a ottagono irregolare con deambulatorio ed esedre semicircolari in corrispondenza degli assi diagonali, sembra invece evocare il senso dell’identità nazionale dei committenti, alludendo alle forme del Battistero fiorentino, che avrebbero verosimilmente implicato una cupola ottagonale a spicchi di matrice fortemente quattrocentesca: le linee diagonali che tanto hanno fatto pensare alle architetture di Francesco Borromini sono un efficace, ma impreciso espediente empirico adottato dal vecchio maestro per costruire velocemente un ottagono il più possibile simmetrico (questa considerazione fa cadere definitivamente ogni ipotesi precedentemente fatta riguardo a una volta a costoloni incrociati). Il terzo foglio 124 A recto (cat. 78) infine, basato su un impianto circolare con deambulatorio racchiuso in un quadrato con cappelle diagonali e vestiboli di ingresso, rappresenta delle tre proposte certamente quella più matura. In questo caso si tratta di una elaborazione del michelangiolesco schema centrale di San Pietro “ruotato su un asse diagonale, e con gli angoli mozzati”30, che fu ovviamente preferito dai deputati della Fabbrica. Inoltre va aggiunto che il foglio 123 A recto (cat. 76) rappresenta un disegno parziale di una pianta centrale a quincunx, certamente memore del progetto di Sansovino sul cui vano centrale si interseca una struttura con colonne, forse un fonte con baldacchino, successivamente coperto da biacca. Mentre il 36 A recto (cat. 79) rappresenta uno studio in dettaglio di una sezione del deambulatorio corrispondente al tratto fra le cappelle laterali derivato dal 124 A recto31. Notando come Michelangelo fosse stato già coinvolto nel progetto della chiesa nel 1550, Amelio Fara ha sottolineato che a ciò si deve la velocità con cui l’artista fornì i suoi cinque progetti. Una serie di altri fogli perduti dovette documentare la rapida definizione del progetto finale che può essere così brevemente riassunta: una prima fase ideativa in cui vennero tracciate le “cinque piante”, tra 10 agosto e primo novembre; una seconda fase esecutiva per realizzare il progetto planimetrico presentato al duca il 2 dicembre e da questi approvato il 22 dello stesso mese; una terza fase di perfezionamento condotta fino al 5 marzo 1560, quando, tramite Tiberio, al duca vennero presentate non soltanto la pianta, ma verosimilmente disegni di alzato e sezione, definitivamente approvati dal committente il 30 aprile 1560. A quest’ultima fase corrispose l’esecuzione del modello ligneo esecutivo della chiesa: E così dato la pianta a Tiberio, che la riducessi netta e disegnata giusta, gli ordinò i profili di fuori e di dentro, e che ne facessi un modello di terra, insegnandogli il modo di condurlo che stessi in piedi. In dieci giornio condusse Tiberio il modello di otto palmi; del quale, piaciuto assai a tutta la nazione, ne feciono poi fare un modello in legno, che è oggi nel consolato di detta nazione: cosa tanto rara, quanto tempio nessuno che si sia mai visto, sì per bellezza, ricchezza, e gran varietà sua.32 La pianta nel foglio 3185 A del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (fig. 3) è stata a lungo ritenuta il disegno in pulito gli anni dal 1534 al 1564 condotto da Tiberio per preparare il modello, mentre probabilmente costituisce una delle numerose derivazioni. I documenti attestano la presenza del modello in chiesa fino al 1720, quando venne distrutto. Il suo aspetto è noto attraverso numerose rappresentazioni, tra cui l’incisione in prospettiva di Jacques Le Mercier (fig. 5) pubblicata nel 1607, illustrante molto realisticamente il plastico sezionato sopra un piano sostenuto da cavalletti, e le due incisioni in proiezione ortogonale della pianta e del prospetto-sezione eseguite da Valérian Regnard (cat. 80; fig. 4) e presto divenute celebri33. I fogli di Casa Buonarroti relativi a San Giovanni dei Fiorentini rappresentano, insieme ai progetti per porta Pia, i più superbi esempi di disegno di architettura della fase matura del Maestro. Non è difficile ammettere che nessuno, fra gli architetti del Rinascimento, sia riuscito al pari di Michelangelo a condensare su un unico foglio riflessioni grafiche d’intensità, fantasia e lungimiranza così profonde. Lo svolgersi di queste idee si rivela prima di tutto come uno straordinario universo di relazioni: studio tipologico, considerazione dei rapporti volumetrici e di scala, elaborazione delle parti con il tutto, ricerca della coerenza internoesterno, controllo degli effetti di luce e ombra, dialogo fra i materiali, attenzione per i dettagli e gli arredi ecclesiastici. Questi disegni, testimonianza di una instancabile ricerca, danno anche prova della fiducia che l’artista ebbe nei mezzi del disegno. Ales- 211 sandro Nova ha scritto in modo esemplare come una delle principali caratteristiche della pratica architettonica michelangiolesca fu “quel mantenere il progetto in uno stato di perenne fluidità in cui sia lo schema generale sia i particolari decorativi vengono continuamente rimessi in discussione. In altre parole, l’architettura di Michelangelo, almeno nella sua fase progettuale, vive, cresce e si trasforma come un essere organico. Nulla viene fissato a priori, ma l’idea si sviluppa seguendo il pensiero inquieto e non sempre razionale dell’artista, il che non è segno di incertezza, bensì di ricerca approfondita”34. Nel progettare, Buonarroti abbandonava assai di rado quelle soluzioni che durante il percorso compositivo lo avevano per qualche ragione soddisfatto. Da ciò deriva quella faticosissima reductio ad unum delle varie soluzioni così evidente dall’osservazione dei disegni michelangioleschi, particolarmente evidente nei fogli per San Giovanni dei Fiorentini: una idea dapprima prende vita in un foglio quasi all’improvviso e vi rimane lì in sordina, poi riappare con grande forza in un altro disegno e in quello lentamente scompare sotto i segni di nuove invenzioni, a loro volta riverberate dall’idea di partenza; improvvisamente poi, quella fluidità prima descritta si fissa nella forma di una nuova soluzione lasciando vedere in trasparenza, come un’agata o un opale, la ricchezza di cui si compone quella materia. In questi casi, l’intero processo di elaborazione sembra depositarsi e precipitare su uno stesso medesimo foglio: questi disegni eccezionali sembrano plasmati su carta quasi fossero bozzetti di terra e mostrano, con fortissima tensione estetica, come la soluzione finale abbia accettato la sovrapposizione di idee alternative e l’assimilazione di tracce derivate da idee scartate. Eppure ciascuno mantiene una sua individualità, persino i numerosi ritocchi a biacca eseguiti per nascondere alcune correzioni testimoniano l’interesse a mantenere ciascun disegno il più possibile presentabile e comprensibile. Condotti con tratti rapidi e disinvolti, i fogli contengono una stratificazione di tecniche disegnative e di soluzioni architettoniche che li rendono dei veri e propri palinsesti. Si guardi al procedimento di costruzione di ciascun disegno. Michelangelo preparò inizialmente il foglio costruendo con uno stilo un telaio di linee di riferimento a stecca e di grandi cerchi concentrici a punta di compasso. Ciò si vede bene illuminando i fogli a luce radente. Ma queste costruzioni sono ben lungi dall’essere regolari. Su queste tracce di base furono disegnate varie planimetrie della chiesa, prevalentemente a matita nera e pochi tratti di penna, strumento spesso fatale per la riuscita di un disegno se condotto dalla mano tremolante di un ottantenne disegnatore. Gli spessori murari furono invece campiti con ampie lavature di inchiostro. A punta sottile di pennello sono eseguite anche numerose linee. Non tutte le acquerellature indicano spessori murari pieni, dal momento che diluizioni differenti sono state usate per dettagli quali altari, 212 banconi di sagrestia, volte a botte. Queste diverse tonalità di inchiostro, che il tempo ha ulteriormente differenziato, danno al disegno una profondità di spessore davvero sorprendente, che risulta anche maggiore a causa delle ampie raschiature della carta e delle numerose cancellature a biacca. La stratificazione di pentimenti e abrasioni costituisce un esempio evidente di questo effetto. In questo senso, l’appagamento visivo procurato dall’immagine disegnata sfida intellettualmente l’osservatore interessato a compredere l’articolazione tridimensionale di questa planimetria, che per noi non può che rimanere materia di congetture35. Sembra davvero che l’alto grado di imprecisione lasciato al disegno non faccia che esaltare la potenza dell’invenzione. Similmente a quanto ipotizzato per i disegni per porta Pia, la sopravvivenza dei progetti per San Giovanni dei Fiorentini si deve probabilmente al fatto che essi rimasero nelle mani dei deputati della Fabbrica, invece di essere distrutti, come ampiamente noto, dallo stesso Buonarroti pochi giorni prima della morte. Oltre questi fogli, le testimonianze in nostro possesso documentano con sicurezza solo l’aspetto finale dell’architettura progettata da Michelangelo attraverso le immagini tratte dal modello, la cui derivazione può riconoscersi nel foglio 124 A recto36. L’opera finale è quindi il prodotto di un processo continuo che manipola e trasforma gli elementi compositivi originari. Questo andamento carsico delle invenzioni costituisce la trama più articolata e significativa del processo ideativo michelangiolesco, possibile a prezzo di fatica, disciplina, esercizio. È questa una esperienza che si costruisce come un “lavoro dentro le cose”, la cui attualità riporta a quanto oggi Peter Zumthor, con parole semplici e bellissime, scrive sulla costruzione del progetto di architettura37. Con sensibilità e occhio da scultore, Michelangelo dominò la materia conflittuale del progetto d’architettura, fondata sul fragile equilibrio tra precisione funzionale, rigore della forma ed espressione poetica. Con termini più semplici si può spiegare questa lettura critica osservando come la composizione architettonica di Michelangelo abbia costantemente affrontato il tentativo di risolvere il conflitto tra masse piene e spazi vuoti e abbia dato risolutiva risposta al problema dell’attacco dei vari elementi plastici tra loro, approfondendo sempre più lucidamente le relazioni fondamentali stabilite tra muro, pilastro, colonna e nicchia, anche in rapporto ai diversi sistemi di copertura previsti. Negli anni, con il progredire dell’esperienza, fu inevitabile che i suoi edifici mostrassero quel livello di complessità meravigliosamente risolta che ancora oggi lascia stupiti. Il progetto finale di San Giovanni dei Fiorentini testimoniato dal modello, sul quale la critica è stata sempre poco lusinghiera, mostra infatti una soluzione in cui tutti i riferimenti precedenti sembrano sublimarsi in una soluzione spaziale mai vista prima, come a mantenere la promessa di un’archi- tettura “che né Romani né Greci mai ne’ tempi loro feciono”38: un nuovo Pantheon affatto diverso dal prototipo, con ordine esterno di paraste tuscaniche, a cui corrispondono all’interno colonne libere anch’esse tuscaniche addossate a parete con ritmo alternato39; su quest’ultimo, all’altezza del tamburo, si trova un altro ordine più breve di colonne ioniche, posto a inquadrare gli archi delle cappelle; la cupola infine, a semplice calotta estradossata con sezione a tutto sesto, è esternamente liscia, ma internamente si articola secondo i ritmi verticali dei sostegni nel disegno della cassattonatura. Come ha magistralmente scritto Christof Thoenes nel saggio di apertura a questo catalogo, una simile architettura non era mai esistita prima: semplificata all’esterno nell’asciutta concatenazione di volumi semplici, ma dalla complessità tutta rivolta all’interno, risolta nella pacata ritmicità di uno spazio variato, ma unitario al tempo stesso, dal respiro grandioso e ispirato da immensa intensità spirituale, come a ribadire che il Maestro assai “volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio”40. 1 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, pp. 231-232. 2 Della assai vasta letteratura sulla chiesa di San Giovanni dei Fiorentini si ricordano i principali studi: Ackerman 1961, vol. I, pp. 103-113, 117124; Gioseffi 1964; L. Puppi, F. Barbieri, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 948-953; M. Tafuri, scheda San Giovanni dei Fiorentini (architettura), in Salerno, Spezzaferro, Tafuri 1973, pp. 201-230; Ackerman 1988, pp. 105114, 295-301; B. Contardi, in Argan, Contardi 1990, pp. 342-347; H. Günther, schede 69-74, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 472474; Günther 1994; aggiornamenti, ipotesi e ulteriori aquisizioni documentarie e iconografiche sull’argomento sono in Polverini Fosi 1989; Vicioso 1992; Kersting 1994; Polverini Fosi 1994; Fara 1997; Morresi 2000, pp. 28-44; Günther 2001; Niebaum 2007; Thoenes 2008b; per una puntuale storia dei finanziamenti alla chiesa da parte della comunità fiorentina, con nuovi contributi documentari e importanti precisazioni, si veda Guidi Bruscoli 2006; ai citati saggi si rinvia per la bibliografia precedente. 3 Bentivoglio 1975 e, da ultimo, Fara 1997, pp. 35-36. 4 La partecipazione di Andrea Sansovino (ipotizzata in H. Günther, schede 204-205, in Günther 1994, p. 559) è discussa in Morresi 2000, pp. 34 sgg. 5 Le due formulazione sono prese rispettivamente in prestito da Bruschi 1983 e da Fiore 2002b, in part. pp. 142-146. sta bibliografica in L. Puppi, F. Barbieri, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 951-953. 19 Frommel 2002b, pp. 244-247; sull’argomento si vedano anche H. Günther, scheda 68, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, p. 472; H. Günther, scheda 208, in Günther 1994, pp. 560-561. 20 Carteggio, vol. V, pp. 175-176, n. MCCXCIX (15 lug. 1559). 21 Condivi, ed. Nencioni 1998, p. 59. 22 Carteggio, vol. V, p. 181, n. MCCCIII (26 ott. 1559). 23 Carteggio, vol. V, p. 183, n. MCCCV (1 nov. 1559); si vedano anche i documenti pubblicati in Gaye 1839-1840, vol. III, pp. 17 sgg. 24 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, pp. 261-263. 25 Ivi, p. 263. 26 Carteggio, vol. V, p. 224, n. MCCCXXXII (30 apr. 1560). 27 Morresi 2000, pp. 41 sgg. 28 Frey 1920, pp. 57-69. 29 Hirst 1993, pp. 117-120, in part. 119. 30 Brothers 2006, p. 201. 31 L’attribuzione del foglio di Casa Buonarroti 103 A recto come monumento tombale per San Giovanni dei Fiorentini, ipotizzata in Corpus, vol. IV, p.108, è stata smentita nel saggio di Georg Satzinger presente in questo catalogo. Il verso dello stesso 103 A, già unito al verso del 124 A come evidenziato per prima da Joannides 1978, p. 176, mostra il disegno per la finestra interna del tamburo della cupola di San Pietro, analizzato nel gli anni dal 1534 al 1564 6 Polverini Fosi 1994, pp. 400-401. Tafuri 1973, p. 209. 8 Tafuri 1992, pp. 159-189, in part. 160-161. 9 Dalla Vita di Iacopo Sansovino, cfr. Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 498. 10 Sul progetto a pianta basilicale di Antonio il Giovane, cfr. Bedon, Beltramini, Burns 1995, pp. 61-71. 11 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. V, pp. 454-455. 12 L’ipotesi di una avanzata costruzione sangallesca condotta fino al 1546, affermata in H. Günther, scheda 206, in Günther 1994, pp. 559-560, è stata opportunamente ridimensionata in Morresi 2000, p. 41. 13 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 229. 14 Ivi, p. 230; Carteggio, vol. IV, p. 346, n. MCXLVIII (1 ago. 1550). 15 I tentativi (avviati da Popp 1927, pp. 389, 409 sgg., ripresi in Battisti 1961) di riconoscere in alcuni disegni i progetti del 1550 di Michelangelo, generalmente rifiutati dalla critica a partire dalla serrata analisi in Ackerman 1968, p. 255, sono stati riconsiderati con nuovi argomenti in Fara 1997, pp. 34 sgg. 16 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 231; Carteggio, vol. IV, p. 355, n. MCLV (13 ott. 1550); su monsignor Aliotti, cfr. Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, n. 648, pp. 1580-1581. 17 Schwager 1975a. 18 Sulle varie attribuzioni di questi disegni, si vedano i commenti alla li7 saggio di Vitale Zanchettin in questo catalogo. 32 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 263. 33 L’aspetto del modello è registrato, con alcune variazioni, in un interessante serie di disegni, cfr. Ackerman 1988, pp. 299-301; H. Günther, schede 73-75, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 474-475; H. Günther, schede 209-211, in Günther 1994, pp. 561-562. 34 Nova 1984, p. 16. 35 Sulla congetturale forma delle coperture nei progetti per San Giovanni dei Fiorentini si è misurato Fara 1997, pp. 38 sgg. 36 Numerosi tentativi sono stati fatti per riconoscere nei dettagli sparpagliati nei vari fogli del corpus michelagiolesco alcuni dettagli della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, al riguardo si vedano le ipotesi di Fara 1997, pp. 43 sgg., sulla lanterna della chiesa. 37 Zumthor 2003, pp. 8-9. 38 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 263. 39 L’ordine inferiore del progetto finale della chiesa è analizzato in Morolli 1998. 40 Ivi, p. 262. In chiusura di queste pagine, desidero esprimere la mia più sincera gratitudine ad Anna Bedon, Howard Burns e Caroline Elam per quanto ricevuto sotto forma di insegnamento, sostegno e amicizia in ormai tre lunghi lustri. 213 CAPPELLA SFORZA IN SANTA MARIA MAGGIORE 1. Roma, Santa Maria Maggiore, cappella Sforza, interno verso l’altare Georg Satzinger Durante la stesura dei Due Dialogi di M. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, pubblicati nel 1564, anno della morte di Michelangelo, la cappella Sforza risultava in costruzione (figg. 14)1. Ulteriori informazioni – le uniche note fino a pochi anni fa – sono fornite dalle Vite di Giorgio Vasari e da due perdute iscrizioni originariamente poste sulla facciata della cappella, smantellata nel 1748 per la ristrutturazione interna dell’arcibasilica di Santa Maria Maggiore a opera di Ferdinando Fuga2. La prima iscrizione riferiva che il cardinale Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, arciprete della basilica, aveva fondato la cappella e in punto di morte, nel 1564, aveva affidato ai suoi eredi il compito di ultimarla3; la seconda riportava che il cardinale Alessandro Sforza, anche lui arciprete della basilica, aveva completato la cappella nel 15734. Nella seconda edizione delle biografie vasariane si evince che Michelangelo “fece allogare a Tiberio [Calcagni] con suo ordine a Santa Maria Maggiore una cappella cominciata per il Cardinale di Santa Fiore, restata imperfetta per la morte di quel cardinale e di Michelangelo e di Tiberio, che fu di quel giovane grandissimo danno”5. I tre protagonisti infatti erano deceduti l’uno dopo l’altro in brevissimo tempo: l’artista nel febbraio 1564, il cardinale nell’ottobre 1564, l’allievo nel dicembre 1565, poco più di un anno dopo6. Queste scarne informazioni e alcune incongruenze rilevate nella forma dell’edificio condussero ben presto a dubitare se, e fino a che punto, gli intenti di Michelangelo fossero stati pienamente realizzati: Francesco Borromini, che studiò con attenzione la cappella, riteneva che nell’esecuzione delle volte Calcagni si fosse allontanato dalla “bizzarria” del maestro7. Se le belle incisioni di Giovanni Giacomo de Rossi affermarono 214 che Michelangelo fu l’autore della cappella (cat. 88), nel Settecento si rafforzarono le voci che misero in dubbio quella paternità8. Nella sua edizione vasariana del 1759-1760, Giovanni Gaetano Bottari asserì che l’edificio era stato completato secondo un progetto modificato da Giacomo della Porta9. Da allora, gli studiosi si sono più o meno associati a Bottari: James Ackerman ha interpretato la data 1564 apposta sull’iscrizione come quella relativa all’anno d’inizio della costruzione e pertanto ha valutato come minimo il contributo di Michelangelo10; Howard Hibbard si è spinto fino a non considerare affatto la cappella nell’œuvre architettonica dell’artista11; Charles de Tolnay ha ipotizzato alcune incisive modifiche concettuali al progetto iniziale, secondo le quali, il presbiterio rettangolare, di inconsueta profondità, sarebbe da attribuire a della Porta, mentre Michelangelo avrebbe previsto una soluzione ideale in sé simmetrica e cioè un edificio rigorosamente a pianta centrale12; altri studiosi hanno creduto che persino il linguaggio dell’ordine architettonico della cappella, così spiccatamente classicheggiante, non avesse niente a che fare con le concezioni architettoniche di Michelangelo13; infine è stata decisamente messa in dubbio persino la struttura delle volte e delle relative finestre14. Lo scetticismo degli studiosi è stato puntualmente riepilogato da Giulio Carlo Argan nel seguente giudizio “l’esecuzione fu poco accurata forse approssimativa: così com’è, la cappella è la copia di un originale perduto, che conserva i tratti, ma solo i tratti, d’una lampeggiante invenzione”15. Con l’aiuto dei documenti recentemente scoperti e alla luce di una più ampia riconsiderazione dell’architettura della cappella, si vedrà come tale giudizio dovrà essere ampiamente riveduto. Guido Ascanio Sforza16 (1518-1564) e il più giovane fratello Alessandro17 (1534-1581) appartenevano a uno dei cinque rami della famiglia allora attivi, quello di Santa Fiora18. Di particolare importanza per la carriera dei due fratelli si rivelò il fatto che la loro madre Costanza era figlia di Alessandro Farnese, futuro papa Paolo III. Non appena questi fu eletto al soglio pontificio nel 1534, volle immediatamente concedere la porpora al giovanissimo Guido Ascanio; due anni più tardi il papa affidò al nipote la legazione di Bologna e della Romagna e nell’anno successivo gli conferì la nomina di camerlengo. Nel 1543 poi, Guido Ascanio succedette al cugino, il cardinale Alessandro Farnese, nella carica di arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore, dopo che questi aveva assunto quella di arciprete in San Pietro in Vaticano19. Guido Ascanio si contraddistinse come uno dei cardinali più influenti del pontificato di Paolo III, seppur in vistosa contrapposizione con il mecenatismo dei cardinali Alessandro Farnese e Federico Cesi20. Nel gli anni dal 1534 al 1564 1556, sollecitato da Paolo IV Carafa (1555-1559), Guido Ascanio assolse al suo mandato di arciprete promuovendo alcuni primi lavori di ristrutturazione nella basilica, quali il completamento delle volte delle navate laterali già iniziate nel Quattrocento21. Lo stesso può dirsi per il più giovane fratello Alessandro, che ricevette la porpora nel 1565, dopo la morte di Guido Ascanio, e che subentrò al celebre Carlo Borromeo nel 1572 nella medesima carica di arciprete della basilica liberiana22. Resta da chiedersi come mai Guido Ascanio Sforza fu in grado di assicurarsi un progetto di Michelangelo, sebbene il vecchio artista, come noto, accettasse di impegnarsi in nuove commissioni assai poco volentieri23. Durante il pontificato di Paolo IV, cioè fino al 1559, sembra che Guido Ascanio non avesse ancora avviato alcun progetto edilizio relativo alla propria cappella; nel 1558, i canonici avevano infatti ceduto alla famiglia Patrizi il diritto di sepoltura 215 2. Roma, Santa Maria Maggiore, cappella Sforza, interno verso la tomba di Guido Ascanio Sforza 3. Roma, Santa Maria Maggiore, cappella Sforza, volta della crociera 4. Roma, Santa Maria Maggiore, cappella Sforza, colonne e capitelli nella cappella di San Silvestro, posta presso il luogo dove poi sarebbe sorta la cappella Sforza. Nel maggio del 1563, quando la costruzione promossa dallo Sforza era già stata avviata, i Patrizi ottennero in sostituzione il patronato della cappella di Sant’Agata collocata nelle vicinanze dell’altare maggiore della basilica24. Sotto Pio IV Medici (1559-1565), eletto papa nel Natale del 1559 con il forte appoggio dello Sforza25, fu subito avviata un’intensa attività di rinnovamento della Chiesa nello spirito della Riforma cattolica, che impegnò notevolmente i cardinali nella manutenzione degli edifici ecclesiastici di cui erano titolari26. Il papa nominò visitatori delle chiese che risultavano sedi di titoli cardinalizi i porporati Cesi, Farnese, Savelli, Morone, Navagero e Sforza27. Ciò dovette suscitare anche l’interesse di Guido Ascanio. Idee riformatrici e provvedimenti edilizi si presentano dunque strettamente intrecciati anche in Santa Maria Maggiore: alla fine del 1561 il papa volle che fossero riorganizzati i servizi corali nell’arcibasilica28; così, 216 nel luglio 1562, lo Sforza pose mano alle ristrutturazioni per adeguare il presbiterio alle nuove direttive, la cui responsabilità artistica fu affidata al giovane Giacomo della Porta29. Fu in questo momento che Guido Ascanio diede avvio all’erezione della propria cappella, come rivela un codicillo del testamento datato 20 agosto 156230. Stabilendo di voler essere tumulato nella cappella sepolcrale già progettata in Santa Maria Maggiore, il testatore precisava che, nel caso in cui fosse morto anzi tempo, l’edificio avrebbe dovuto essere completato entro tre anni conformemente al modello realizzato: “p[er]ficiat si no[n] fuerit tempore obitus ipsius R[everendissi]mi d[omin]i Card[ina]lis p[er]fecta capella co[n]cepta in basilica s[anc]te marie maioris / de vrbe in loco ia[m] designato sub Invocatione S[anc]te catharine et iuxta modellu[m] desup[er] factu[m] itaq[ue] in totu[m] sit finita et completa Infra trienniu[m] a die obitus ipsius R[everendissi]mi d[omi]ni card[ina]lis codicillantis”31. La coincidenza cronologica tra il rinnovamento architettonico del coro della basilica liberiana, iniziato dal papa per motivi liturgici, e l’edificazione della cappella Sforza non fu dovuta al caso. Da una serie di indizi si può dedurre infatti che essa dovesse servire non solo come luogo sepolcrale dello Sforza, bensì assumere anche la funzione di cappella sacramentale della basilica, privilegio senza dubbio assai particolare32. La citata ristrutturazione del coro della basilica aveva causato la dismissione del vecchio tabernacolo eucaristico collocato sulla parete a fianco dell’altare maggiore33. Il trasferimento del repositorio sacramentale nella cappella Sforza tuttavia non venne realizzato con la prematura scomparsa dell’arciprete34, in quanto Carlo Borromeo, subentrato a Guido Ascanio, preferì porre il Sacramento sull’altare maggiore, dove fu provvisoriamente collocato nel 1570 dopo lunghe e faticose discussioni con il capitolo35. Ciò evidenzia che in sede capitolare si erano affermate ben altre volontà, come attesta il successivo Ceremoniale Episcoporum dell’anno 1600, che continuò a sconsigliare la collocazione del Sacramento sull’altare maggiore36. Non sorprende osservare che, dopo le dimissioni di Borromeo il 28 dicembre 157237, passarono solo sei settimane perché i canonici e il nuovo arciprete Alessandro Sforza decidessero finalmente di trasferire il tabernacolo eucaristico nella cappella Sforza (14 febbraio 1573), azione messa in pratica la settimana successiva (21 febbraio 1573)38. Che ciò corrispondesse a una soluzione permanente lo fa capire la disposizione dei gradini della cappella davanti al presbiterio39. Tutti i documenti grafici, che vanno dai primi anni del XVII secolo fino ai primi del XIX, mostrano dei gradini con andamento semicircolare (cat. 88), caratteristica invero insolita per quest’epoca, ma che tuttavia si riscontra contemporaneamente in altri due altari destinati alla custodia del Sacramento: nell’altare maggiore della cattedrale di Orvieto40 e nell’altare fatto eseguire da Gregorio XIII (1572-1585) in San Giovanni in Laterano per l’Anno Santo del 157541. L’ipotesi che la cappella Sforza debba essere vista nel contesto del riordinamento liturgico della basilica liberiana promosso dal papa acquista ancora più valore se si osserva la posizione della cappella Sforza in relazione a quella dell’adiacente cappella del cardinale Cesi, destinata a svolgere l’importante funzione di coro invernale del capitolo42. Le due cappelle vennero edificate l’una accanto all’altra in una specie di cortile rettangolare, il quale – secondo la pianta stilata da Ottaviano Mascherino intorno al 1585 (cat. 84) – si apriva tra la chiesa, il palazzo pontificio al lato opposto43 e l’ala di collegamento che ospitava la sagrestia della basilica, come si vede anche nella stampa pubblicata da Paolo de Angeli nel 1621 che mostra il fianco esterno della chiesa (cat. 86). Per realizzare entrambe le cappelle furono smantellati alcuni resti architettonici precedenti44. Per far spazio alla cappella Sforza fu necessario demolire l’abitazione del sagrestano; fu poi mantenuta una minima distanza dalla sagrestia sia per assicurare un passaggio verso il palazzo papale sia soprattutto per potere illuminare l’erigenda fabbrica da ogni lato45. Fino a che punto le donazioni delle due cappelle fossero intrecciate, lo si evince non solo dalla loro collocazione ma anche dal loro patrocinio. Il citato codicillo testamentario del 1562 mostra che Guido Ascanio contasse per la propria cappella sul patrocinio di santa Caterina d’Alessandria, poi ceduto al cardinale Cesi per la particolare predilezione di questi per quella santa46. Lo Sforza pertanto rilevò il titolo dell’Assunta che figurava tra i più prestigiosi culti tributati nella basilica, ma che era temporaneamente senza altare, perché distrutto dalla costruzione del nuovo coro47. Queste circostanze avvalorano l’ipotesi che nel quadro degli ampi sforzi riformistici di Pio IV, questi avesse obbligato entrambi i cardinali ad associare i propri interessi familiari a quelli più generali della basilica. L’impegno del papa e l’importante funzione eucaristica assegnata alla cappella, secondo la volontà originaria del committente, potrebbero aver consentito a Guido Ascanio il raro privilegio di ottenere il consenso di Michelangelo di fornire il progetto architettonico: Pio IV era stato infatti colui il quale, sin dal momento della sua ascesa al soglio pontificio, aveva più di ogni altro occupato con commissioni di architettura l’ormai ottantacinquenne artista. Dal suddetto codicillo testamentario di Guido Ascanio emerge altresì chiaramente come esistesse già dall’estate del 1562, e cioè almeno un anno e mezzo prima della morte di Michelangelo, un modello esecutivo in tutto vincolante, in base al quale avrebbe dovuto essere condotta la costruzione della cappella. Evidentemente anche in questa circostanza, come già era accagli anni dal 1534 al 1564 217 6. Anonimo, Alzato della facciata della cappella Sforza, circa 1748. New York, Cooper-Hewitt Museum, inv. 1901-39-2140 duto nella progettazione della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, Michelangelo aveva affidato a Tiberio Calcagni il compito di convertire i propri progetti in un modello esecutivo. Il breve lasso di tempo entro il quale la cappella fu realizzata (dall’estate del 1562 alla morte del cardinale nel 1564, o poco oltre, fino alla scomparsa di Calcagni nel novembre 1565) fa cadere le precedenti congetture secondo le quali il modello architettonico sarebbe stato eseguito in modo sostanzialmente differente dalle intenzioni di Michelangelo. Nel maggio 1563 la cappella era dunque certamente in costruzione48 e, alla morte di Calcagni, essa era stata terminata quantomeno nelle murature: lo conferma la presenza della pala d’altare. Già contrassegnata da Giovanni Baglione come opera di Girolamo Siciolante da Sermoneta e correntemente datata “circa 1570-73”49, la pala nella recente pulitura ha rivelato l’iscrizione con la data di esecuzione del 156550. Se quindi alla scomparsa di Calcagni, questa pala d’altare era già finita, è lecito pensare che il completamento dell’architettura fosse stato pertanto realizzato sotto gli occhi del giovane aiutante di Michelangelo51. Alla luce di queste circostanze, l’informazione fornita da Vasari, secondo cui Calcagni non riuscì a completare l’edifico, sarebbe piuttosto da riferire alla facciata della cappella, innalzata sulla navata laterale della chiesa, e all’insieme dei suoi arredi interni. Resta pertanto ancora da esaminare se Calcagni avesse o meno rispettato il modello esecutivo della cappella senza effettivi fraintendimenti. D’altro canto, la presunta partecipazione di Giacomo della Porta andrebbe allora cercata non tanto nella struttura architettonica della cappella stessa, quanto piuttosto nella facciata e negli arredi. Un atto notarile elenca una serie di lavori edilizi esegui218 7. Rilievo planimetrico della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore a Roma (elaborazione dell’autore) ti su committenza del cardinale Alessandro Sforza, terminati entro il novembre 1573 e tra cui figura anche la cappella52. Tali incarichi, che concordano con quest’ultima data indicata anche nella citata iscrizione, furono eseguiti sotto la direzione di Giovanni Fontana, architetto di Alessandro Sforza53. Relativamente alla cappella Sforza, questi lavori dovrebbero corrispondere alla realizzazione della facciata verso la basilica54, la cui forma è tramandata da alcuni documenti grafici, tra cui la stampa con lo spaccato dell’interno della basilica nel volume di Paolo de Angeli e il disegno di un collaboratore di Ferdinando Fuga (cat. 87, 85), oltre al disegno di anonimo conservato a New York, presso il Cooper-Hewitt Museum, inv. 1901-39-2140 (fig. 6). Questo progetto è tuttavia troppo ambizioso per essere attribuito a un tecnico edile quale fu Giovanni Fontana, né tanto meno può essere seriamente considerata l’ipotesi di un progetto lasciato da Tiberio Calcagni, del tutto inesperto per concepire una tale invenzione, come tradiscono i suoi disegni agli Uffizi o la facciata da lui realizzata per la chiesa di San Michele Arcangelo ai Corridori di Borgo a Roma55. In base a motivi stilistici, è assai più probabile che Giacomo della Porta ne sia stato l’autore. La particolare sensibilità per il delicato rilievo architettonico e la disposizione molto sofisticata di riquadri, festoni e stemmi presenti nelle campate laterali sono segni caratteristici della sua grafia artistica, non distante dall’impronta data alle facciate delle due chiese romane del Gesù (dal 1571) e della Madonna dei Monti (dal 1580)56. Dal 1562, come ricordato, Giacomo della Porta era stato alle dipendenze di Guido Ascanio nei lavori in Santa Maria Maggiore, rimanendo in stretto contatto anche con Alessandro Farnese, menzionato esecutore testamentario di Guido Ascanio, attraverso i coevi interventi al Gesù di patrocinio farnesiano57. Al più tardi, nel 1573, dovettero essere realizzati sia l’edicola dell’altare sia il monumento sepolcrale dello Sforza58. Dal testamento di Alessandro Sforza emerge che nel luglio 1580 il suo monumento sepolcrale non esisteva ancora e la cappella era ancora priva di decorazioni59. Questi morì nel 1581 e l’anno successivo i suoi eredi entrarono in trattative con il pittore Cesare Nebbia, forse tramite lo stesso della Porta60. Tali trattative condussero alla realizzazione degli stucchi e degli affreschi sulla parete dell’altare61 e intorno all’edicola di marmo nel frattempo realizzata (cat. 88). Se quindi l’arredo della cappella fu completato più di vent’anni dopo l’inizio dei lavori, resta ancora da chiedersi in che modo Michelangelo avesse immaginato l’altare e i monumenti sepolcrali. La cappella Sforza subì ben presto una serie di danni notevoli. A partire dal 1605, con la costruzione della cappella Paolina, tutte le fonti di luce del lato destro furono occluse (cat. 86). Nel 1748, la demolizione della facciata62 lamentata da Bottari, con la forte riduzione dell’ampiezza del portale, ridusse la vista della cappella dalle navate della basilica (cat. 87); l’interno venne poi seriamente danneggiato nel 1762 a causa del trasferimento in questa sede del coro invernale originariamente posto nella cappella Cesi; trasferimento autorizzato dal conte Sforza Cesarini su esplicita richiesta del capitolo63. Per dare più luce al coro nuovamente collocato, furono sacrificati i quattro affreschi di Cesare Nebbia disposti intorno all’altare al cui posto furono aperte quattro corrispondenti finestre, mentre le finestre trapezoidali disposte sulle lunette e sulle volte vennero prolungate verso il basso fino alla cornice sottostante; dal presbiterio sparirono poi sia le finestre laterali, nel frattempo murate, sia i vigorosi timpani delle porte. La struttura architettonica La struttura architettonica della cappella è impostata su un innovativo impianto cruciforme. Il braccio longitudinale è occupato da uno spazio rettangolare suddiviso in tre campate: una corta campata di ingresso voltata a botte; una campata centrale – la crociera – voltata a vela; un profondo presbiterio anch’esso voltato a botte, la cui insolita spaziosità può spiegarsi con la destinazione a cappella sacramentale. La crociera si caratterizza per la sua struttura a baldacchino, vero motivo dominante dell’intero spazio. Vistosamente caratterizzato dalla posizione diagonale delle sue colonne libere di ordine composito, il baldacchino oltrepassa in altezza il cubo costruito sulla sua base e, assieme alla posizione diagonale dei sostegni, fa sì l’insieme abbia uno spettacolare effetto culminante. I due vani laterali – in contrasto con lo sviluppo longitudinale della cappella – sono delimitati da pareti ad arco di circonferenza, i cui raggi in pianta sembrano partire dal centro della crociera (fig. 7). Nei risvolti tra i vani laterali e lo spazio centrale vi sono delle colonne che si combinano con le adiacenti colonne del baldacchino in modo da dare l’impressione di un nodo plastico simmetrico costituito da una coppia di colonne separate da tratti di muro opportunamente sagomati, il cui asse di simmetria intercetta il punto mediano della parete curva di ciascun vano laterale. Queste colonne si aprono verso uno spazio che sembra compresso dalle pareti curve che delimitano i due vani laterali, riservati ai monumenti sepolcrali. La lunghezza del braccio trasversale corrisponde a quello longitudinale e di nuovo è pari all’altezza massima della cappella misurata sulla crociera, di modo che la composizione della struttura spaziale resta perfettamente bilanciata su i tre assi. Tuttavia, la crociera con il baldacchino non si trova al centro degli assi ortogonali, ma piuttosto è spostata verso la parete d’ingresso; pertanto chi vi entra (e soprattutto chi si trovò a sostare davanti alla grata dell’enorme portale originario) avverte subito la presenza dogli anni dal 1534 al 1564 minante del baldacchino. Nel contempo la dilatazione trasversale è bloccata dalla spazialità dei vani laterali le cui pareti curve definiscono un effetto centralizzante dovuto al fatto di appartenere alla medesima circonferenza. Rispetto a tale complessità, è evidente il contrasto con lo spazio profondo del presbiterio di estrema semplicità e linearità. Il basamento continuo della partitura architettonica della cappella, alto più di un uomo, accentua nettamente la stereometria dell’ambiente e lega tra loro spazi eterogenei, alla stessa stregua della trabeazione la quale, con il suo cornicione rigorosamente continuo e fortemente aggettato, risalta solo in corrispondenza delle colonne. Infine anche le finestre poste al livello delle pareti sono solidamente incastrate agli elementi orizzontali tramite le loro cornici superiori, comprese tra la trabeazione e i collarini delle colonne, questi ultimi condotti tutt’intorno come un listello continuo64. L’illuminazione originaria della cappella doveva essere di grande e straordinario effetto65. Dalle volte penetrava una luce chiara verso ciascuno dei quattro i lati. Le finestre laterali del presbiterio rendevano il luogo dell’altare il punto meglio illuminato della cappella, mentre le finestre nelle pareti curve lasciavano entrare una luce più attenuata per via delle adiacenti costruzioni, la cappella Cesi a sinistra e la sagrestia a destra; tale luce modellava le colonne e nel contempo sottolineava la relativa autonomia degli spazi laterali. Attraverso queste fonti di luce disposte tutt’attorno in sottile graduazio219 8. Michelangelo Buonarroti, Schizzo preparatorio per la cappella Sforza, 1562. Londra, The British Museum, inv. 1946-7-13-33a ne, si accentuava la complessa unità spaziale della cappella, ribadendone la doppia funzione di cappella sepolcrale e sacramentale. Se l’analisi rivela già una concezione compositiva assai sofisticata, la struttura metrico-proporzionale consente di riconoscere l’unitarietà del progetto. La pianta si sviluppa su una chiara struttura geometrica originata da un incrocio centrale, mentre la posizione di ciascun elemento è sottilmente stabilita attraverso minimi aggiustamenti. Dall’analisi del rilievo planimetrico tutto ciò è ben evidente: slittamenti rispetto al reticolo proporzionale, posizionamento delle colonne con piccoli disassamenti, modifica dei tratti curvi tenendo fissi i punti estremi (accorgimento quest’ultimo ben evidente osservando i raggi di curvatura delle pareti laterali i cui centri cadono fuori rispetto al principale asse longitudinale della cappella)66. Tale metodo di progettazione è continuamente osservabile nei disegni autografi di Michelangelo, da quelli per palazzo Farnese a quelli per il tamburo della cupola di San Pietro, da San Giovanni dei Fiorentini a porta Pia67. L’analisi di questi disegni rileva la coerenza del sistema di proporzionamento dell’architettura da parte di Michelangelo, sempre sottoposto ad aggiustamenti ed enfatizzato attraverso consapevoli divergenze dal 220 9. Disegnatore della cerchia di Stefano Dupérac, Sezione longitudinale della cappella Sforza dal modello ligneo, post 1562. New York, The Metropolitan Museum of Art, Gift of Janos Scholz and Anne Bigelow Scholz, in memory of Flying Officer Walter Bigelow Rosen, n. 49.92.23 recto reticolo secondo il “giudizio dell’occhio”68. Ciò vale anche nel disegno dell’alzato della cappella Sforza dove lunghezza, larghezza e altezza, apparentemente così eterogenee, coincidono significativamente a meno di piccoli ritocchi e sottili aggiustamenti richiesti da esigenze visive69. Del percorso progettuale che condusse Michelangelo alla soluzione finale restano alcuni disegni nei quali è sempre indicata la struttura basilare di una cappella cruciforme con vani laterali e soluzione a baldacchino su colonne in posizione più o meno centrale: si tratta di un foglio del British Museum, inv. 1946-7-13-33a (fig. 8; Corpus 623) e di due fogli di Casa Buonarroti, il 104 A (cat. 81; Corpus 624 recto) e il 109 A (cat. 82; Corpus 625 recto)70. Una delle varianti disegnate è quella con spazio presbiteriale coronato da baldacchino la quale, similmente alla scarsella del battistero fiorentino, potrebbe essere stata motivata dal desiderio di contraddistinguere il luogo destinato al Sacramento. Ben evidenziata in questi schizzi appare già la forte dilatazione laterale delle campate d’ingresso; inoltre si vede anche una prima idea riguardante le colonne collocate nei risvolti dei vani laterali (figg. 1, 7), soluzione presente anche nello schizzo del tutto regolare con quattro vani absidati (fig. 8). Il nesso tra questi schizzi e lo spazio effettivamente costruito della cappella Sforza, talmente bilanciato e ricco di tensione, appare così lontano da rimanere piuttosto ipotetico. In ogni caso, gli schizzi non tengono conto dello spazio limitato in cui la cappella sarebbe sorta, viceversa problema genialmente risolto nella soluzione finale. Come già osservato, le volte della cappella Sforza hanno fatto sorgere il dubbio riguardo alla loro autografia michelangiolesca. Francesco Borromini fu del parere che Tiberio Calcagni avesse interpretato male le indicazioni del modello. In effetti ci sono parecchi indizi che rendono fondati tali dubbi: la mancanza di precisione esecutiva nella realizzazione delle calotte dei vani laterali absidati; i dettagli scultorei delle finestre nelle volte lontani dalla finezza degli analoghi elementi presenti nella basilica di San Pietro o in porta Pia, scolpiti ancora sotto la sorveglianza di Michelangelo71. Le basi di appoggio della volta a vela del baldacchino, dei veri e propri piedi al di sopra della trabeazione delle colonne, sono realizzati in travertino – fattore assai rilevante – e mostrano come questa fosse originariamente prevista in forma di calotta compatta e stereometrica, vale a dire senza quei profili stranamente rialzati a scarpa e quei raccordi spigolosi, i quali, non essendo altro che un contrassegno ornamentale lavorato a intonaco, relativizzano la sua stereometria. Anche le volte di connessione tra la vela centrale e gli ambienti laterali presentano una forma, dovuta al fatto di poggiare sui risvolti, percorsa da superfici curve a tromba e archi dai profili spigolosi. Tale soluzione rappresenta il tentativo, solo apparentemente logico, di articolare queste volte di connessione con la medesima tripartizione degli pseudo-pilastri posti tra le coppie di colonne, come se questo elemento architettonico presente in ciascun risvolto fosse un pilastro ripiegato due volte al quale fare corrispondere un fascio di archi di conforme articolazione. Viceversa, l’intenzione di Michelangelo sembrerebbe essere stata quella di definire le volte con una semplice sfaccettatura solo fino a una certa altezza sopra la trabeazione continua, unificando poi la superficie senza ricorrere ad archi dai profili spigolosi72. Tali superfici curve caratterizzate da passaggi netti erano senz’altro in uso nelle volte del tardo Cinquecento, si pensi solo al sistema di volte continue della chiesa del Redentore di Andrea Palladio a Venezia (dal 1577). La volta della cappella Sforza si sarebbe presentata come un sistema articolato di grande semplicità e di grande effetto scultoreo, al pari di una calotta pluriarticolata e continua a sottolineare la compattezza architettonica della cappella. Sia nella basilica di San Pietro che in San Giovanni dei Fiorentini, Michelangelo propose tali sistemi voltati dalla forma decisamente scultorea e dall’effetto pesante, come a schiacciare la complessa architettura quasi fosse un coperchio omogeneo e gravoso. Va tratta la conclusione che Calcagni deviò consapevolmente dal modello o per semplice incapacità, oppure perché – in fase di realizzazione – non fu in grado di sorvegliare adeguatamente l’esecuzione del sistema di coperture. Per valutare quanti equivoci potevano nascere persino in presenza di un modello esecutivo, basta ricordare come, in una simile circostanza, Michelangelo avesse dovuto osservare impotente la cattiva esecuzione della volta dell’abside meridionale di San Pietro. Come detto, il modello della cappella Sforza figura già realizzato nel 1562. Due fogli, con tre disegni, appartenenti al cosiddetto Scholz Scrapbook del Metropolitan Museum of Art di New York (un taccuino di rilievi accuratamente quotati eseguito all’interno della cerchia di Stefano Dupérac poco dopo la metà del Cinquecento) documentano lo stato di molti edifici realizzati da Michelangelo e specialmente di alcuni suoi modelli (fig. 8)73. I disegni relativi alla cappella si corredano di note eseguite dalla stessa mano delle copie in pulito del modello ligneo della cupola di San Pietro74. Gli schizzi a mano libera hanno proporzioni spesso imprecise, mentre le misure si rivelano ampiamente esatte; tuttavia vi sono anche marcate differenze: i profili della cornice della finestra rettangolare rappresentata e la sua posizione nella parete divergono da quanto effettivamente costruito75, inoltre mancano le paraste della controfacciata. Appare pertanto ovvio poter concludere come il disegnatore non abbia riprodotto l’edificio realizzato, ma un modello ligneo di grande formato e in scala, presumibilmente il gli anni dal 1534 al 1564 modello esecutivo citato nel codicillo del 1562. Le volte poi non sono disegnate nella loro completezza, ma si evince chiaramente che il passaggio tra la volta a vela del baldacchino e le volte a botte appare realizzato con passaggi netti. La sobrietà della cappella Sforza dovuta all’uso di travertino e intonaco, in modo del tutto conforme alla principale tendenza dell’architettura ecclesiastica romana dell’epoca76, sottolinea l’effetto spaziale come fosse una unità scultorea. La parte esterna della costruzione non avrebbe dovuto essere visibile e pertanto rimase del tutto disadorna (cat. 86)77. Nelle sue dimensioni, paragonabili a una vera e propria chiesa, ma soprattutto nell’estrema complessità volumetrica, la cappella supera tutto ciò che era stato fino ad allora intrapreso nell’ambito della progettazione delle cappelle gentilizie e forse addirittura nell’ambito più generale dell’architettura sacra. Non a caso, poco più tardi, gli iniziali tentativi di Domenico Fontana e di Ottaviano Mascherino di riallacciarsi alle idee elitarie della cappella Sforza nella progettazione della cappella di Sisto V (1585-1590) nella stessa basilica liberiana78, verranno poi abbandonati a favore di una soluzione architettonicamente più semplice che, attraverso l’esempio della cappella Gregoriana nella basilica di San Pietro risaliva già alla cappella Chigi di Raffaello in Santa Maria del Popolo. Il principale tema architettonico della cappella Sforza, ovvero il baldacchino su quattro colonne, sotto l’aspetto iconografico è spiegabile, forse persino troppo facilmente, con la tradizione dei mausolei funerari. Basti pensare ad esempio al famoso sepolcro dei Cerceni sulla via Appia, reso noto attraverso le incisioni di Sebastiano Serlio e altri79. Il tema aveva poi trovato diffusione nell’Alto Medioevo attraverso l’esempio della cappella di San Zenone in Santa Prassede, dove le quattro colonne angolari, a differenza del modello antico, hanno tratti di tra221 10. Sezione longitudinale della cappella Sforza con ricostruzione del progetto di Michelangelo per il monumento Sforza secondo il disegno Casa Buonarroti 103 A recto (elaborazione dell’autore) beazione orientati diagonalmente80. Nel Quattrocento il vano a baldacchino aveva destato l’interesse di Francesco di Giorgio Martini, come testimoniato dalla chiesa mausoleo di San Bernardino presso Urbino. A Michelangelo doveva essere certamente nota la cappella Nerli in San Salvatore al Monte a Firenze81. Questa cappella associa alla tendenza centralizzante di un baldacchino con volta a crociera con lo sviluppo spiccatamente longitudinale dovuto alla profonda campata d’ingresso e all’altrettanto profondo presbiterio, con arcate cieche sulle pareti laterali che accennano alla forma di una croce. La valenza prospettica della cappella Sforza è resa palese dalla posizione del baldacchino spostato verso l’ingresso e dunque, non solo meglio visibile dalla navata della basilica, ma anche capace di lasciar vedere i vani laterali, permettendo così di raggiungere le valenze prospettiche e spaziali degli esempi appena citati ed esemplificare la sua doppia destinazione, cappella sepolcrale e sacramentale. Proprio questo carattere assicurò alla cappella Sforza, per tutto il periodo barocco, una notorietà che tramite le incisioni di Giovanni Giacomo de Rossi (cat. 88) arriverà fino a Balthasar Neumann82. Ammiratori come Benedetto Mellini83 o Francesco Borromini la caratterizzarono con i termini chiave di “capricciosa” o “bizzarra”84. Questa architettura di Michelangelo tende ad amalgamare in forma estremamente libera tipologie e figurazioni architettoniche diverse: corpo longitudinale rettangolare voltato a botte; baldacchino su quattro colonne voltato a vela; articolazione centralizzante cruciforme sormontata da cupola e persino spazio centralizzante circolare come una ro222 tonda. Tenendo insieme tale varietà di modelli, lo spazio della cappella sfugge a ogni definizione architettonico-iconografica, il che non significa affatto aver tradito la sua destinazione di mausoleo e di repositorio del Sacramento, chiaramente evidenziata dalla sua architettura. La “bizzarra” fusione dei prototipi più noti, ma allo stesso tempo più apprezzati, secondo una spiccata configurazione unitaria caratterizza anche il progetto per San Giovanni dei Fiorentini, dove un simile processo progettuale è particolarmente evidente e corrisponde alla chiara consapevolezza che la sua architettura fosse persino superiore a quella degli antichi85. Intorno al 1628, Francesco Borromini, che aveva accuratamente studiato i capitelli della cappella Sforza, ritenne che essi superassero in bellezza ogni esempio antico e moderno e li scelse pertanto a modello86. Alcuni studiosi tuttavia hanno dubitato che essi siano di disegno michelangiolesco87. Eppure non c’è ragione per tale sospetto, dal momento che in Michelangelo l’ordine maggiore è sempre concepito in modo canonico: nella facciata di San Lorenzo, nella Sagrestia Nuova, in San Pietro, nel palazzo dei Conservatori e persino nelle colonne del tamburo della cupola di San Pietro e in San Giovanni dei Fiorentini, precedente diretto della cappella Sforza. Influenzata dal passo vasariano sul libero uso che Michelangelo fece del fantasioso ordine “composto” presente nei monumenti sepolcrali dei duchi nella cappella Medici di San Lorenzo, la moderna interpretazione del pensiero architettonico di Michelangelo si era concentrata forse troppo unilateralmente sull’allontanamento dal canone antico, non riconoscendo all’artista la possibilità di un consapevole uso canonico dell’ordine architettonico88. Quell’ordine “composto”, per quanto storicamente ricco di conseguenze, rimane in Michelangelo principalmente legato alle partiture interne, quali finestre (come quelle della cappella Sforza), portali, edicole e monumenti sepolcrali. Solo in casi eccezionali, come nella progettazione di biblioteche o porte di città, meno rigorosamente sottoposte alle regole del decoro di quanto non fossero gli edifici sacri o i palazzi comunali, Michelangelo considerò l’ordine “composto” non solo nelle partiture interne, bensì in tutto l’edificio89. Nella progettazione degli edifici religiosi, come la cappella Sforza o San Giovanni dei Fiorentini, l’equivalente dell’ordine “composto” risiede soprattutto nella libertà combinatoria delle composizioni spaziali e in secondo luogo nella disposizione non convenzionale degli apparati di sostegno e del sistema di illuminazione, riuscendovi peraltro ampiamente senza fare ricorso a elementi decorativi. Ad eccezione degli apotropaici demonietti posti sui frontoni delle finestre, l’architettura di Michelangelo si esprime, come nella basilica di San Pietro, proprio attraverso la sobrietà decorativa. Come insegna la storia della progettazione della Sagrestia Nuova a Firenze, la cappella Sforza – quale opera d’arte architettonico-scultorea – potrebbe considerarsi completata solo contestualmente agli elementi di arredo che incidono decisamente sullo spazio, ovvero i monumenti sepolcrali e l’altare90. Le attuali edicole di marmi policromi, piatte, slanciate e dai pregiati dettagli, con i loro sarcofaghi in miniatura e con i busti dipinti dei defunti sormontati da angeli in stucco che al suono di trombe annunciano il Giudizio universale, sono sì creazioni assai notevoli, forse di Giacomo della Porta, ma restano inseriti nelle pareti concave senza stabilire un dialogo con lo spazio della cappella e pertanto sono fondamentalmente lontani dal pensiero di Michelangelo. Non sorprende che il foglio 103 A recto conservato a Casa Buonarroti (cat. 83; Corpus 613 recto) presenti una soluzione per i monumenti sepolcrali del tutto diversa da quella realizzata. Il foglio era stato riferito ai sepolcri Sforza già da Dagobert Frey e poi, per un certo tempo anche da James Ackerman91. Nel 1978 Paul Joannides92 ha riconosciuto sul verso di questo foglio la traccia inferiore di una cornice di finestra, la cui controparte superiore è disegnata sul verso del foglio 124 A di Casa Buonarroti (cat. 78; Corpus 612 recto-verso); che mostra una delle piante per San Giovanni dei Fiorentini. Questa circostanza ha indotto a credere che anche il progetto del monumento sepolcrale lì disegnato fosse destinato a quella chiesa93. Sorprende che, nel frattempo, gli studiosi abbiano dimenticato che i progetti del 1559-1560, ai quali appartengono anche questi fogli, non prevedessero alcun sepolcro. La cronologia dei progetti tracciati sul foglio è di facile interpretazione e permette di ricostruire chiaramente la vicenda: come primo studio Michelangelo disegnò su un foglio grande (oggi corrispondente ai due versi), la traccia per le cornici delle finestra da eseguire nel tamburo del modello ligneo della cupola di San Pietro, compito portato a termine già nel 1558. L’anno successivo, nella faccia ancora libera dell’originario foglio, Michelangelo disegnò la pianta di San Giovanni dei Fiorentini: all’epoca il foglio non era stato ancora diviso, come mostrano le macchie di seppia sulla pagina in cui sarebbe stato successivamente disegnato il monumento sepolcrale. Superata la fase progettuale relativa a San Giovanni, il foglio venne nuovamente utilizzato dopo il 1560 e, a quel punto diviso: sulla rimanente parte libera fu eseguito lo schizzo relativo ai sepolcri Sforza94. La soluzione ci avvicina al concetto originario di Michelangelo, caratterizzato da un monumentale sarcofago, sicuramente appoggiato sul pavimento e situato visibilmente al di sotto di una fascia orizzontale, compatibile con l’alto basamento presente nella cappella Sforza (fig. 9). Al di sopra del sarcofago, sulla parete è posta un’edicola con volute laterali e timpano centinato inquadrata da articolate specchiature; nella nicchia è vagamente gli anni dal 1534 al 1564 schizzata una figura, facilmente ipotizzabile come statua del defunto. Questa variazione sul tema delle tombe medicee, lascia presumere un aggetto del sarcofago con risalto energico e plastico tanto da invadere lo stretto vano della cappella laterale e inserirsi così nello stesso sistema di riferimenti ortogonali come le adiacenti colonne nei risvolti dei vani laterali. Alla luce di questo disegno, diventa più evidente il significato delle colonne: esse incorniciano il luogo di sepoltura e nel contempo conciliano a una raffigurazione maestosa, chiaramente e puntualmente espressa dal baldacchino centrale. Resta da descrivere la forma dell’altare eucaristico. La collocazione di tabernacoli eucaristici al posto delle pale d’altare, architettonicamente autonomi e realizzati con materiali preziosi, divenne sempre più frequente a partire dagli anni quaranta del XVI secolo. Sicuramente è da immaginare un tabernacolo di forte carattere plastico e scultoreo come quello realizzato dopo la morte del maestro dai discepoli Jacopo del Duca e Giacomo Rocchetti sull’altare maggiore di Santa Maria degli Angeli a Roma95. Oggi non è più possibile chiarire, se quest’altare sia da immaginarsi libero come nei progetti per San Giovanni dei Fiorentini e per Santa Maria degli Angeli96 oppure addossato al muro di fondo97. È certo comunque che con i monumenti sepolcrali e l’edicola marmorea dell’altare progettati sicuramente da Giacomo della Porta, il gusto dei committenti si spostò verso un arredo più aggiornato, policromo e con immagini didattiche dai contenuti semplici e univoci, come poi sarebbe accaduto all’inizio degli anni ottanta, con le pitture di Cesare Nebbia: nulla di più estraneo al pensiero architettonico dell’anziano Michelangelo. 223 Ringrazio vivamente Elisabetta Pastore, Colette Bouverat, Mauro Mussolin e Clara Altavista per la versione italiana del mio testo. 1 Gilio 1564, p. 122: “la capella […] che fabrica hora”; per il testo integrale, Satzinger 2003-2004, p. 402, doc. B3. 2 Bellini 1995; la demolizione avvenne nel luglio del 1748, Satzinger 2003-2004, p. 405, doc. B19. 3 Satzinger 2003-2004, p. 400, doc. A1. 4 Ivi, p. 400, doc. A2. 5 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 113 [ed. 1568]; vol. IV, pp. 18131819. 6 Sulla figura di Tiberio Calcagni, cfr. Pisani 1997. 7 Si veda al riguardo il commento di Francesco Borromini contenuto nel manoscritto di Fioravante Martinelli, Roma ornata dall’Architettura, Pittura e Scoltura, circa 1660-1663: “La volta dopo la morte del Buonarota [fu fatta] da Tiberio Calcagno suo giovane, ma non fu intesa e si vede non corrispondere alla bizzaria del resto”, cfr. Satzinger 2003-2004, p. 404, doc. B16. 8 Sulla fortuna critica della cappella, cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 329333, 393. 9 Vasari, ed. Bottari 1759-1760, vol. III, p. 301, note 1-2: “alcuni revocano in dubbio, se questa cappella sia disegno del Bonarroti, benché dimostri la maniera del suo fare”, e ancora, “È finita, ma diversamente affatto col disegno di Giacomo della Porta”. 10 Ackerman 1986, p. 328. 11 Hibbard 1975. 12 Corpus, vol. IV, p. 117; hanno valutato come minima la partecipazione di Michelangelo nella cappella Sforza sia Burckhardt 1855, p. 315, sia Thode 1908-1913, vol. II, pp. 185-187. 13 Fasolo 1923-1924, p. 444; Portoghesi 1964, p. 688. 14 Portoghesi 1964, p. 688, rivendicano come appartenenti a Giacomo della Porta la volta e la finestra. 15 Argan, Contardi 1990, p. 300; si veda anche la scheda di B. Contardi in ivi, pp. 348-349; inoltre Conforti 2001, p. 56. 16 Ratti 1794-1795, vol. I, pp. 233252; Pastor 1955-1961, vol. VII (1957), pp. 103 sgg.; per l’iscrizione 224 sulla tomba cfr. Satzinger 2003-2004, p. 400, doc. A3. 17 Ratti 1794-1995, vol. I, pp. 290299; Pastor 1955-1961, vol. IX (1958), pp. 769 sgg.; per l’iscrizione sulla tomba cfr. Satzinger 2003-2004, p. 400, doc. A4. 18 Gli Sforza di Santa Fiora portavano nel loro stemma un leone rampante con mela cotogna allusiva al luogo di nascita del capostipite dell’intero casato, cioè Cotignola presso Ravenna, cfr. Ratti 1794-1795, vol. I, pp. 3, 114, tav. I, 363, tav. V. 19 Schwager 1983, p. 286, n. 222. 20 Satzinger 2003-2004, pp. 333-337. 21 Schwager 1983, p. 285, n. 220. 22 Eletto cardinale il 12 marzo 1565, nella quarta tornata di nomine del pontificato di Pio IV, divenne arciprete il 28 dicembre 1572, Schwager 1983, p. 289; sul raro mecenatismo di Alessandro Sforza, cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 337340. 23 Nel 1553, Annibal Caro scriveva su Michelangelo: “E, quanto a obligarlo a qualch’opera di sua mano, egli è tanto scottato dagli oblighi passati e tanto ombroso di questo promettere, per esser poco pratico di convenir con gli uomini, e assai destituito de le forze del corpo, che mal volentieri si lascierà ridurre a questo atto”, cfr. Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, p. 1880. 24 Schwager 1983, p. 262, n. 113; cfr. Minozzi 2000, pp. 34-37: “Et quoniam dicta cappella [Sancti Silvestri] ut sit tradita et consignata, per Illustrissimum et Reverendissimum d.d. Guidonem Ascanium Sfortia Sanctae Romanae Ecclesie Camerarium et dicte ecclesie Archipresbiterum deruta fuit ad hoc ut in ea construi faceret nove fecit quandam eius cappellam magnam”. Archivio di Stato di Roma (in seguito ASR), Trenta Notai Capitolini, Notaio Julianus Corbinus, vol. 635, f. 564r-v (22 mag. 1563), Satzinger 2003-2004, p. 402, doc. B2. 25 Pastor 1955-1961, vol. VII (1957), p. 51. 26 Ivi, p. 606; Fumagalli 2001, p. 102. 27 Il 28 giugno 1561, cfr. Jedin 1975, parte I, pp. 79, 311, n. 6. 28 Schwager 1983, p. 286, n. 222. 29 Ivi, pp. 286-289; de Blaauw 1994, vol. I, pp. 372-377. ASR, Archivio Sforza Cesarini, parte I, etichetta rettangolare 622, numero 55 (20 ago. 1562); Satzinger 20032004, pp. 400-402, doc. B1. 31 Come esecutore testamentario fu nominato il cardinale Alessandro Farnese. 32 Satzinger 2003-2004, pp. 343-348. 33 Schwager 1983, pp. 286-289; de Blaauw 1994, vol. I, pp. 371 sgg.; il vecchio tabernacolo e l’altare sacramentale, precedente donazione del cardinale Guillaume d’Estouteville, erano collocati sulla parete interna del pilastro meridionale dell’arco trionfale, di fronte al quale si trovava l’altare dedicato all’Assunzione di Maria. 34 Guido Ascanio Sforza morì infatti il 7 ottobre 1564 presso Cremona. 35 Schwager 1983, pp. 289, 292, n. 255. 36 Mayer-Himmelheber 1984, pp. 111-114, 317, n. 481; cfr. Nussbaum 1979, pp. 433, 447. 37 Schwager 1983, p. 289. 38 Ibidem; sulle posteriori collocazioni del tabernacolo sacramentale, cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 343-348. 39 Satzinger 2003-2004, pp. 407 sgg., docc. C11, C25, C29. 40 Cambareri 1990-1992. 41 Freiberg 1991. 42 La cappella Cesi fu terminata nel 1564; all’inizio del 1565, data della morte del cardinale, mancavano ancora la pala d’altare e il monumento sepolcrale, cfr. Hunter 1996, pp. 174178; il coro invernale venne costruito, al più tardi, a partire dal 1568; Schwager 1983, p. 268, n. 146. Il precedente coro invernale si trovava nella cappella di San Michele, fondata dal cardinale d’Estouteville dopo il 1450, Schwager 1983, p. 261, n. 208; Satzinger 2003-2004, pp. 346 sgg. 43 Sul palazzo papale di Santa Maria Maggiore, Schwager 1983, p. 264, n. 126; più recentemente Schelbert 2004. 44 Satzinger 2003-2004, p. 402, doc. B4. 45 Ciò emerge confrontando de Angeli 1621, tavv. 56 e 94, con la pianta risalente agli anni 1580-1590 di Ottaviano Mascherino, che riproduce, oltre al Palazzo Apostolico e alla sagrestia, anche il profilo curvo del fianco destro della “cappella de’ Sigg. Sforza”, Ro30 ma, Accademia Nazionale di San Luca, Fondo O. Mascarino, inv. 2427; Satzinger 2003-2004, pp. 351, fig. 23; 406, doc. C3. 46 Borromeo 1980. 47 Satzinger 2003-2004, p. 348, n. 87. 48 Ivi, p. 402, doc. B2. 49 Baglione 1639, p. 172; Hunter 1996, pp. 178-181. 50 Debbo tale informazione alla cortesia di Arnold Nesselrath. 51 La realizzazione tecnica della pala d’altare (153 × 229 cm), in particolare la preparazione del supporto, è mal condotta e indica una certa fretta nell’esecuzione, specialmente se confrontata alla quasi contemporanea pala d’altare della cappella Cesi (153 × 259 cm), accuratamente realizzata tra il 1565 e il 1566 su lastra di ardesia, cfr. Hunter 1996, pp. 174-181. Due motivi possono spiegare tale approssimazione esecutiva: l’inattesa morte del fondatore, avvenuta nell’ottobre 1564, che potrebbe aver affrettato la necessità di utilizzare la cappella come luogo di sepoltura; la commissione del dipinto solo dopo la scomparsa dello Sforza, quando al tempo di Borromeo, alla cappella fu sottratto il privilegio di ospitare il Sacramento e quindi il relativo tabernacolo sull’altare. Alcuni profondi buchi visibili nelle radiografie, tutt’attorno al supporto ligneo, fanno pensare che vi sia stata una cornice provvisoria apposta alla tavola, ma dal momento che questi buchi non servono oggi al fissaggio del supporto, l’interpretazione più plausibile resta considerarli come tracce di una cornice provvisoria: la tavola non è rifilata e tali buchi non possono essere riferiti nemmeno all’edicola di marmo, cosa che confermerebbe di conseguenza la collocazione del quadro prima della costruzione dell’edicola; ringrazio Arnold Nesselrath per le informazioni circa gli esiti del restauro. 52 ASR, Collegio dei Notai Capitolini, Notaio Curtius Saccocius de Sanctis, vol. 1541, f. 352v (21 apr. 1574), su amichevole segnalazione di Klaus Schwager; Satzinger 2003-2004, pp. 402 sgg., doc. B7. 53 Satzinger 2003-2004, p. 352, n. 97. 54 Ivi, pp. 406-408, docc. C2c, C13, C15, C17, C27. Satzinger 2003-2004, p. 353, n. 100; Souza Lima 2005. 56 Schwager 1975b, pp. 109-141. 57 Satzinger 2003-2004, pp. 400-402, doc. B1. 58 L’attribuzione a Giacomo della Porta di questi elementi è in Portoghesi, 1964, p. 687. 59 ASR, Collegio dei Notai Capitolini, Notaio Prospero Campanus, B 464, fol. 589v-598v (11 lug. 1580), su amichevole segnalazione di Klaus Schwager; Satzinger 2003-2004, p. 403, doc. B9. 60 Satzinger 2003-2004, pp. 355-359 e p. 403, doc. B10. 61 La parete dell’altare è riprodotta in un disegno inedito dello studio di Ferdinando Fuga, sul quale sono già proiettate le finestre realizzate nel 1762, cfr. New York, Cooper-Hewitt Museum, inv. 1938-88-3894; Satzinger 2003-2004, p. 360, fig. 34; p. 407, doc. C16. 62 La facciata fu smantellata nel giugno 1748 per essere acquistata – stando a una informazione dell’epoca fornita da Pier Filippo Strozzi e recentemente pubblicata da Alessandra Anselmi – dal cardinale Alessandro Albani che la fece trasformare in portale, destinandolo alla sua villa presso porta Salaria (non mi è stato possibile verificare questa informazione), cfr. Anselmi 1990; Satzinger 2003-2004, p. 405, doc. B20 e p. 407, doc. C13. 63 ASR, Archivio Sforza Cesarini, parte I, etichetta rettangolare 608, pp. 5254 (23 feb. 1762); Satzinger 20032004, pp. 405 sgg., doc. B22; il fianco occidentale della basilica venne rive55 gli anni dal 1534 al 1564 stito tra il 1721 e il 1743, Schwager 1983, p. 308. 64 Cfr. l’analisi di Wolfgang Lotz in Heydenreich, Lotz 1974, pp. 258 sgg. 65 Portoghesi 1964, pp. 688 sgg. 66 Per una dettagliata analisi planimetrica e proporzionale in palmi romani, cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 369375. 67 Sui disegni relativi a questi argomenti si rimanda ai diversi saggi specifici in questo catalogo. 68 Sul “giudizio dell’occhio” si veda Summers 1981, pp. 368-378. 69 Ringrazio vivamente Elisabeth Kieven per aver reso possibile la misurazione della cappella con tachimetro a laser realizzata da Hermann Schlimme; monsignore Michal Jagosz con grande gentilezza ha sostenuto questo lavoro nella basilica. 70 Sui fogli del British Museum 19467-13-33a e di Casa Buonarroti 104 A e 109 A, cfr. Frey 1920, pp. 65 sgg.; Wilde 1953a, n. 84; Portoghesi 1964, pp. 683-686; Ackerman 1986 pp. 328-329; B. Contardi, scheda 29, in Argan, Contardi 1990, pp. 348-349; M. Mussolin, scheda 22, in Elam 2006, pp. 205 sgg. 71 Schwager 1973, figg. 13, 20. 72 Satzinger 2003-2004, p. 380 fig. 61. 73 New York, The Metropolitan Museum of Art, Gift of Janos Scholz and Anne Bigelow Scholz, in memory of Flying Officer Walter Bigelow Rosen, n. 49.92.19verso e n. 49.92.23 rectoverso; per l’analisi di questi fogli, cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 378 sgg., figg. 57-59 e p. 406, doc. C1; sullo Scholz Scrapbook, cfr. Tolnay 1967; d’Orgeix 2001; sui disegni per San Pietro si rinvia al saggio di Alessandro Brodini in questo catalogo. 74 New York, The Metropolitan Museum of Art, Gift of Janos Scholz and Anne Bigelow Scholz, in memory of Flying Officer Walter Bigelow Rosen, n. 49.92.92recto-verso e n. 44.92.20 verso, cfr. Millon, Smyth 1988a, pp. 104-111; d’Orgeix 2001, p. 200. 75 Le finestre non appaiono ancora appese alla trabeazione come nell’edificio realizzato, ma libere e a breve distanza al di sotto di essa, come quelle già progettate da Michelangelo per San Giovanni dei Fiorentini. 76 Kummer 1987, pp. 3-5. 77 Questa situazione cambiò successivamente con l’apertura della strada voluta da Sisto V. 78 Schwager 1961, pp. 339-342. 79 Windfeld-Hansen 1969, pp. 74-77; Günther 1988, pp. 97, 366, 371; Della Torre, Schofield 1994, pp. 294302; Bettini, 2003, pp. 33-35. 80 Krautheimer 1980, fig. 101. 81 La cappella Nerli appare completata nel 1496, cfr. Markschies 2001, pp. 33 sgg., 71 sgg., 152-157. 82 Satzinger 1992, pp. 425 sgg. 83 “La […] Capella della famiglia Sforza. Capricciosa architettura di Michelangelo”; Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 11905, f. 357 v; si veda Satzinger 2003-2004, pp. 393; 404, doc. B17; Benedetto Mellini (morto nel 1667), fu bibliotecario di Cristina di Svezia. 84 Sul giudizio espresso da Borromini, si veda supra. 85 Secondo Vasari, Michelangelo avrebbe detto che se la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini fosse stata costruita, avrebbe superato persino l’architettura dei Greci e dei Romani; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 113 [ed. 1568]. 86 Satzinger 2003-2004, pp. 389-393, fig. 75. 87 Si esprime a favore di una autografia di Calcagni anche Portoghesi 1964, pp. 687 sgg.; cfr. anche Ackerman 1986, p. 328. 88 Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. I, pp. 135-137. 89 Sulle possibili licenze nel decoro delle porte di città, Schwager 1973, pp. 67 sgg. 90 Satzinger 2003-2004, pp. 394-400. 91 Frey 1920, pp. 65 sgg.; Ackerman 1961, vol. II, p. 123. 92 Joannides 1978 p. 176. 93 Corpus, vol. IV, p. 108. 94 Il disegno è eseguito in modo molto sottile con matita e frequente ausilio di righello; si notano inoltre numerosi pentimenti, specialmente nella zona destra del sarcofago, dove le linee sono assai tremolanti. 95 Montagu 1996, pp. 199 sgg.; Satzinger 2003-2004, pp. 394-397. 96 Su Santa Maria degli Angeli si veda il saggio di Alessandro Brodini in questo catalogo. 97 La nicchia nell’odierna edicola d’altare non era originariamente prevista nel muro della parete della cappella. Quando nel novembre 2001 venne scoperta la nicchia e tolto l’intonaco, vi erano visibili su tutti i lati tracce chiare e profonde di rimozione, che consentivano d’interpretare la nicchia come un intervento secondario nel muro. Purtroppo la nicchia venne subito allargata per inserirvi un meccanismo di sostegno per la pala d’altare restaurata. 225 1. Luigi Ricciardelli, Veduta di Porta Pia, acquaforte, da Luigi Ricciardelli, Vedute delle Porte e Mura di Roma, Roma 1832 PORTA PIA Golo Maurer 2. Giovanni Maria Cassini, Porta Pia vista da fuori le mura, incisione, da Giovanni Maria Cassini, Nuova raccolta delle megliori vedute antiche e moderne di Roma, Roma 1779 3. Roma, porta Pia, veduta del prospetto verso via Nomentana agli inizi del XX secolo Una porta sulla campagna. Roma città aperta Porta Pia è una delle prime porte urbane monumentali dell’era moderna il cui fronte interno, cioè quello rivolto verso la città, sia stato oggetto di un intervento di qualificazione architettonica1. Questa affermazione sottolinea già una delle principali peculiarità di quest’opera: ciò che è riconducibile all’intervento di Michelangelo riguarda infatti unicamente il prospetto interno alle mura (cat. 96, 97; figg. 1-2). Fino ad allora questi fronti erano generalmente contraddistinti da apparati difensivi privi di ornamentazione architettonica. Giunti alle mura, coloro che varcavano le porte della città erano tutt’al più accolti all’ingresso, o congedati all’uscita, da immagini di santi che impartivano benedizioni. Incomparabilmente più importante comunque restava il modo in cui, dall’esterno, la città si presentava ai viaggiatori. Insieme alla silhouette di torri e cupole ben visibile da lontano, rivestiva un ruolo fondamentale l’assetto esterno di ciascuna porta, che contribuiva, in qualche modo, a definire la complessità del carattere urbano. L’apparato architettonico e scultoreo, al pari del corredo di stemmi e di iscrizioni, presentava per così dire la città al forestiero in arrivo, mentre al cittadino sulla via di casa esprimeva identità e appartenenza2. Tale forma di rappresentatività rivolta verso l’esterno è talvolta contraddetta dalla tradizionale denominazione delle porte urbane, i cui nomi rispecchiano generalmente il punto di vista degli abitanti della città e fungono sovente – dall’antichità fino al periodo moderno – da indicatore di direzione, ponendo la città in relazione con il territorio: attraverso porta Romana a Firenze si va a Roma, così come a Gerusalemme dalla porta di Damasco si giunge all’omonima città e lo 226 stesso vale per porta St. Denis a Parigi o per Hallesches Tor di Berlino rivolte rispettivamente verso le vicine località. Nel caso di Roma poi è frequente che le porte venissero denominate analogamente alle vicine chiese poste fuori le mura, quali per esempio porta San Sebastiano e porta Sant’Agnese. Per quanto concerne porta Pia, la novità risiede non solo nel portare una denominazione che riconduce a fatti interni all’urbs, ovvero quel caratterizzarsi attraverso il nome del proprio committente, Pio IV Medici (1559-1565), ma consiste anche, come detto, nel rivolgere il suo prospetto architettonico verso lo spazio interno della città. Ciò non può essere un caso: contro ogni tradizione e su probabile disposizione del pontefice, Michelangelo iniziò la progettazione di porta Pia partendo dalla fronte “interna” senza lasciare, a quanto pare, alcun disegno per quella “esterna”3. Dopo la morte di Michelangelo infatti i papi successivi attesero circa tre secoli prima di disporre la realizzazione di un apparato architettonico rivolto verso la campagna (fig. 3). Per secoli dunque, ciò che venne intenzionalmente messo in scena fu, non tanto l’entrata in città, quanto l’uscita dall’Urbe, attraverso una porta mutata in ingresso alla campagna romana. Resta da capire come debba essere inteso questo anticonvenzionale ribaltamento di significato e come vadano considerate le circostanze che determinarono la creazione del monumento. A differenza delle altre più importanti porte urbane di Roma, porta Pia fu costruita ex novo nel XVI secolo, andando a sostituire la porta Nomentana, detta anche porta Sant’Agnese, posta leggermente a nord-ovest sullo stesso tratto di mura. Questo nuovo varco si era reso necessario in funzione del moderno tracciato voluto da Pio IV, la via Pia oggi via XX Settembre, che andava a sostituire l’antica strada Alta Semita. L’obiettivo di rettificare e livellare il corso irregolare della strada antica aveva causato lo spostamento della porta originaria la quale, risultando fuori tracciato, dovette essere ricostruita poco oltre (fig. 4). Il cantiere di porta Pia, come riportato in una relazione dell’inviato mantovano Francesco Tonina, funzionava già a pieno ritmo all’inizio del 15614. Un motu proprio del 13 agosto dello stesso anno informa sia del raddrizzamento dell’antica Alta Semita, da Monte Cavallo fino alle mura, sia del suo ampliamento, oltreché dell’apertura della nuova porta “a ornamento e per comodità” della città5. Strada e porta vengono qui descritte come parti costitutive e complementari di un grandioso progetto di ampliamento urbano, anch’esso promosso da Pio IV, il quale aveva favorito l’urbanizzazione complessiva dell’area intorno alle terme di Diocleziano, fino ad allora occupata da giardini, vigne e ville. La nuova strada costituiva non solo un importante miglioramento del sistema di comunicazioni interne, ma anche – e soprattutto – diveniva un imponente asse visivo nei cui due opposti punti focali si trovavano, da un lato, le due antiche statue dei Dioscuri di Monte Cavallo, dall’altro, la porta michelangiolesca. Via Pia non venne tuttavia delimitata da edifici rappresentativi quanto piuttosto dai muri di recinzione di orti e giardini, nei quali si aprirono portali monumentali talvolta ispirati alla stessa porta Pia. Nell’entrare in città, nonostante il carattere suburbano, la strada papale rappresentava un percorso di ingresso trionfale che, senza soluzione di continuità – né ottica, né funzionale – si spingeva fin nel cuore cittadino, arrestandosi sul colle del Quirinale ai piedi delle statue di Castore e Polluce e della residenza papale che vi sarebbe stata realizzata. Nel percorso contrario, porta Pia, visibile assai da lontano, marcava il punto di egresso dalla cinta muraria verso l’aperta campagna, l’Agro romano: il territorio papale per eccellenza si mostrava alla vista fin dal Quirinale, manifestando allo stesso tempo la sua appartenenza alla capitale. Se fino allora il passaggio da città a campagna era stato caratterizzato più che altro da chiusura e compartimentazione – come, d’altra parte, per esigenze difensive era stata limitata al minimo indispensabile l’apertura di varchi nelle cortine murarie – adesso la traiettoria verso la campagna sembra essere addirittura ostentata o, se non altro, suggerita come mostra un affresco di Cesare Nebbia nel Palazzo Apostolico Lateranense (fig. 5). I controlli doganali e le limitazioni a persone e merci in entrata e in uscita da porta Pia erano stati tutt’altro che aboliti, tuttavia l’infrastruttura daziaria e militare a essa collegata era inglobata e nascosta all’interno di una corte rettangolare delimitata da alte mura, inserita fra la porta michelangiolesca e la cinta muraria vera e gli anni dal 1534 al 1564 227 4. Ricostruzione di Günter Urban dell’area fra Monte Cavallo e Castra Praetoria con il confronto fra porte urbane e tracciati viari antichi e moderni (da Lugli, Gismondi 1949) 6. Giovanni Domenico Navone, Schizzo planimetrico della corte rettangolare posta fra la porta michelangiolesca e la cinta muraria, 1755 7. Sebastiano Serlio, Porta rustica, da Extraordinario libro di architettura, Lione 1551, tav. 12 5. Cesare Nebbia, Via e porta Pia, 1588, affresco. Roma, Palazzo Apostolico Lateranense, Sala della Conciliazione propria (fig. 6). Per un osservatore proveniente dalla città, la vista di un portale sempre aperto sulla campagna non veniva intralciata da caselli, garitte o guardiole. Il funzionamento di questo sistema era anche favorito dal fatto che attraverso le porte urbane della cerchia aureliana la libera visuale dello spazio esterno non era impedita, come in altre città, dalla presenza di strutture bastionate. Attraverso le porte di Roma si riusciva effettivamente a spingere lo sguardo al di fuori delle mura sull’aperta campagna, con una visibilità che la monumentale edicola michelangiolesca di porta Pia metteva bene in scena, relativizzando persino la categorica separazione fino allora vigente fra città e campagna6. Porta Pia di Michelangelo è quindi anche un’architettura illusionistica: essa suggerisce infatti una condizione di liberalità di accessi per i tempi invero impossibile, prefigurando così quello che sarebbe divenuto l’obiettivo concreto di una successiva epoca storica, la città aperta. È proprio alla facilità di transito che Michelangelo si riferisce esplicitamente nei progetti per questa porta. Diversamente da quanto talvolta sostenuto7, infatti, né per la funzione, né per l’iconografia architettonica porta Pia può essere equiparata al portale di un giardino o di una villa. Le somiglianze con i progetti di porte pubblicati da Sebastiano Serlio nel suo Extraordinario libro di architettura del 1551 sono assai generiche (fig. 7). Invano cercheremo in porta Pia tracce di quegli elementi costitutivi dell’architettura dei giardini quali l’opus rusticum. Ma soprattutto, il carattere gaio dei capricci di Serlio è tradotto da Michelangelo in un tono severo, serio, quasi tetro, che differenzia sostanzialmente – e coerentemente – porta Pia da tutti gli altri portali dei giardini sulla omonima strada; poiché essa infatti conduce non in un ridente giardino, in un locus amoenus, bensì nelle piane desolate della campagna romana e negli aspri monti d’Abruzzo, non nel regno di Pomona, ma in quello di Vertumno. Da lì, peraltro, provenivano tutti i prodotti dell’allevamento e dell’agricoltura da cui dipendeva l’approvvigionamento della città. Così, porta Pia può essere interpretata anche come trionfale porta d’ingresso per tutti i prodotti agricoli che dalla campagna circostante, come dai più lontani granai delle Marche, venivano portati a Roma lungo la via Nomentana per essere immagazzinati nei depositi intorno alle terme di Diocleziano: un simbolo del buon governo papale ben leggibile dall’interno della città. Problemi di autografia Porta Pia è, accanto alla cappella Sforza, l’ultima opera architettonica di Michelangelo. Certamente ascrivibile alla sua mano è la serie di progetti per il portale centrale, come confermato da alcune fonti, tra cui gli statuti della relativa fabbrica8 e il resoconto di Giorgio Vasari. Questi, nella Vita del 1568, 228 scrive: “Ricercato a questo tempo Michelangelo dal papa per Porta Pia d’un disegno, ne fece tre, tutti stravaganti e bellissimi, che ’l Papa elesse per porre in opera quello di minore spesa, come si vede oggi murata con molta sua lode. E visto l’umor del Papa perché dovessi restaurare le altre porte di Roma, gli fece molti altri disegni”9. Dopo la morte di Michelangelo, il 18 febbraio 1564, i lavori vengono portati avanti fino alla scomparsa del committente, occorsa il 9 dicembre 1565. Il coronamento della facciata viene lasciato incompiuto, venendo terminato solo intorno al 186010. La fase dei lavori seguita alla morte di Michelangelo supera quindi di un terzo l’intera durata del cantiere ed è tutt’altro che certo che egli avesse lasciato piani dettagliati per il completamento dell’opera. Soprattutto ciò che è posto ai fianchi del portale, dove si trovano le finestre, presenta una serie di problemi. Se alle cornici delle finestrelle cieche superiori (fig. 8) si possono avvicinare alcuni studi preparatori presenti sul foglio di Casa Buonarroti 106 A verso (fig. 9; Corpus 619 verso), al disegno delle edicole inferiori non corrisponde alcuna documentazione autografa (fig. 10). Non è chiaro infatti se il piccolo schizzo sul foglio di Casa Buonarroti 85 A (cat. 89; Corpus 620)11 sia collegabile ai progetti per le finestre inferiori di porta Pia. L’incisione di Bartolomeo Faleti del 1568 (fig. 11), che dichiara di rappresentare fedelmente il progetto di Michelangelo12, non mostra altro che lo stadio dell’opera al dicembre 1565, con una serie di aggiunte introdotte dallo stesso Faleti sulla base di informazioni a noi non pervenute, similmente a quanto è documentabile per i presunti progetti michelangioleschi mostrati nelle incisioni di Stefano Dupérac per la basilica di San Pietro e per la piazza del Campidoglio. Persino la medaglia di fondazione, eseguita da Giovan Federico Bonzagni nel 1561 (fig. 12), non rivela altro che un progetto assai vago. Né l’incisione di Faleti, né il minuscolo rilievo sulla medaglia possono pertanto essere considerati fonti attendibili per il progetto di Michelangelo e d’altronde non è neppure certo che nella mente dell’artista esistesse un vero e proprio progetto complessivo: ancor meno possiamo presumere che esso fosse stato fissato sulla carta. Da altri cantieri meglio documentati, come quelli di San Pietro e della Biblioteca Laurenziana a Firenze, sappiamo altresì che Michelangelo concretizzava le sue idee progettuali parallelamente – e non preventivamente – allo svolgersi dei lavori. Nelle finestre laterali di porta Pia l’esistenza di evidenti giunture nel paramento murario (visibili anche in seguito ai recenti restauri) potrebbe invece indicare che il progetto venne modificato in corso d’opera, non sappiamo se dallo stesso Michelangelo o dopo la sua morte (fig. 10). Sembra quasi che il muro già costruito sia stato volutamente spaccato in un secondo momento per inserirgli anni dal 1534 al 1564 229 8. Roma, porta Pia, prospetto verso via Pia, dettaglio della finestra cieca laterale superiore 9. Michelangelo Buonarroti, Schizzi di cornici per le finestre cieche di porta Pia (?), circa 1561. Firenze, Casa Buonarroti, 106 A verso, particolare 11. Bartolomeo Faleti, Prospetto di Porta Pia, incisione, 1568 12. Giovan Federico Bonzagni, Medaglia di Porta Pia, 1561 10. Roma, porta Pia, prospetto verso via Pia, dettaglio della finestra laterale inferiore tano, andando a definire un possente organismo estremamente compatto (fig. 16). Fortuna critica Porta Pia fu per molto tempo l’opera architettonica meno popolare di Michelangelo e ancora oggi gli studiosi si avvicinano a essa non senza qualche perplessità. Vasari, che probabilmente non la vide mai, la menziona solo brevemente, come anche gli altri suoi contemporanei. Nel XVIII e XIX secolo divenne persino oggetto di sprezzanti critiche, soprattutto riguardo all’arbitrarietà del suo linguaggio architettonico che, ritenuto eccessivo anche in rapporto alle altre opere dello stesso Michelangelo, sembrava addirittura negare l’esistenza di regole condivise. Ne erano disturbati soprattutto sia i rappresentanti dell’accademismo francese, come Joseph de Lalande, sia quelli del classicismo inglese, fra cui Charles H. Wilson. Fra i critici italiani è certamente da annoverare Francesco Milizia, che di porta Pia non risparmiò nulla: vi le finestre. Non è quindi certo che l’ensemble di portale con finestre laterali, nella forma in cui lo vediamo oggi, sia opera della mente di Michelangelo13. L’autografia del portale è al contrario documentata dettagliatamente dai disegni superstiti. In questi progetti Michelangelo combina motivi del suo repertorio, in qualche caso già presenti da decenni, con nuove invenzioni formali. Fra queste ultime, la soluzione più notevole è forse la forma del varco del portale. In luogo di un arco (a tutto sesto o ribassato) o di un architrave, Michelangelo concepisce una terminazione a piattabanda formata da conci incuneati e piegata sui lati in una maniera fino allora inedita. La caratteristica apertura che ne risulta è il vero e proprio “marchio di fabbrica” di porta Pia, imitato e infinitamente variato nella successiva produzione architettonica (figg. 13-14). L’arco a tutto sesto, con cui Michelangelo aveva dato inizio alle sue riflessioni su questo tema nel disegno di Casa Buonarroti 73 A bis (cat. 90; Corpus 615)14, è approdato all’opera realizzata quale semplice traccia di finestra termale cieca. Anche il timpano centinato ribassato, spezzato e ridotto a due tronconi laterali, è il primo di questo genere nella casistica architettonica. Altri motivi invece, come le terminazioni avvolte a spirale congiunte da ghirlanda, provengo230 no da precedenti soluzioni sperimentate nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo (fig. 15)15. Tutti gli elementi architettonici che compongono porta Pia sono ingranditi fino a proporzioni colossali. Questa caratteristica – congiunta al taglio netto, quasi a spigoli vivi, dei blocchi lapidei e alla presenza di profonde zone d’ombra – facilita la lettura dell’architettura anche da distanze notevoli. Quelle componenti che da vicino si presentano quasi come un insieme incoerente, quali la ghirlanda, i diversi timpani, le cornici, i profili e soprattutto l’enorme blocco con l’iscrizione16, funzionano assai bene se viste da lon- Archivolto centinato. Pilastri proietti per sostener un frontespizio de’ più spropositati. Se il finale nel mezzo fosse terminato, comparirebbe stremamente alto. Finestre con mensole: non mensole, ma travi di travertini per reggere altri frontespizi mastini. Altre finestre incorniciate a centina, e frontespiziate doppiamente a volute e a tenaglie. E che cosa sono que’ piattoni ornati di que’ bandoni che finiscono non si sa se in gocce o in fiocchi? Si hanno per satira contro quel buon papa che ordinò questa porta. E il mascarone nella chiave ha forse qualche relazione coll’architetto di essa porta? Bagatelle … In architettura questo toscano divino è stato d’un perfetto contrasenso. Talentone sfrenato, fecondo d’idee grandi e di tutti i capricci. Roma deve tenerlo per un reo di lesa architettura, e tanto più reo che questa arte, rinascente allora e debole, in cambio di ricever più vigore da un ingegno così elevato, non s’ebbe che strapazzi e peggioramento. […] Senza numero furon i suoi seguaci: niente di più comodo che scapricciarsi. E tuttavia il volgo, se ha da pappagallare qualche cosa creduta bella, la dice invenzione di Michelangelo.17 Il primo che, a dispetto delle obiezioni generali, riconobbe l’importanza di quest’opera fu Jacob Burckhardt nel Cicerone del 1855: È una costruzione malfamata, apparentemente il prodotto di un puro capriccio; ma una legge intrinseca che il maestro crea per se stesso, vive nelle proporzioni e nell’effetto specifico dei particolari, i quali per conto loro sono affatto argli anni dal 1534 al 1564 231 13. Roma, porta Pia, dettaglio del portale verso via Pia 14. Sir Basil Spence, portale d’ingresso degli uffici dell’Ambasciata Britannica a Roma inaugurata nel 1971 15. Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova, dettaglio di una edicola cieca 16. Roma, porta Pia, prospetto verso via Pia bitrari. Queste finestre, questo timpano a forte sporgenza al di sopra della porta ecc., formano, insieme con le linee principali, un complesso, di cui, come fin dal primo sguardo si comprende, soltanto un artista grandissimo benché traviato è capace. Entro l’arbitrio domina una risolutezza che sembra quasi necessità.18 Preparata in tal modo da Burckhardt e fatalmente attratta dall’iconografia apparentemente arcana della porta, fu soprattutto la storiografia di lingua tedesca del XX secolo a vedere in porta Pia un’opera chiave per comprendere l’architettura di Michelangelo, superiore persino alle altre sue opere per “dimensioni e possanza del linguaggio formale” (Henry Thode)19. Hans Mackowsky la definì addirittura una “architettura profetica”, mentre per Klaus Schwager porta Pia restava “enigmatica”20. Il giovane Karl Tolnai (Charles de Tolnay) vi vedeva poi “una specie di simbolo 232 della ineluttabile disfatta della forza vitale: un ‘memento mori’ che si drizza enorme, innanzi al passante”, ricordando immediatamente dopo il passo dantesco “Per me si va nella città dolente”21. Infine, porta Pia, “con le sue forme fredde come il ghiaccio, come tagliate nel metallo”, rappresentava per Hans Sedlmayr il “massimo avvicinamento possibile al manierismo” attraverso il quale Michelangelo avrebbe anticipato un’intera epoca della storia dell’architettura22. In contrasto con tali complesse letture, James Ackerman interpretava finalmente porta Pia come un apparato squisitamente scenografico e come un brioso capriccio con cui Michelangelo rispondeva all’opera rustica di Sebastiano Serlio23. Per Christof Thoenes, che invece ne ha sottolineato la distanza programmatica dall’architettura “naturalistica” di Serlio, porta Pia resta un “corpo estraneo nel quadro urbano di Roma, non recepibile e infatti non recepita neppure dai seguaci barocchi di Michelangelo”24. I disegni Forse nessun altro progetto di Michelangelo è così ben documentato come quello riguardante il telaio architettonico del portale di porta Pia, che può essere seguito fase per fase grazie a una serie di disegni autografi contenuti in alcuni fogli rappresentanti diversi stadi della composizione, in massima parte conservati a Casa Buonarroti. Accanto ai tre schizzi di piccolo formato contenuti nei fogli di Casa Buonarroti 84 A (cat. 91; Corpus 614), 99 A (cat. 92; Corpus 617) e forse 97 A (cat. 93), che riportano ancora soluzioni piuttosto schematiche, sono soprattutto da menzionare i due celebri fogli di grande formato di Casa Buonarroti 102 A (cat. 95; Corpus 618) e 106 A recto (cat. 94; Corpus 619 recto), sui quali sono registrati con massima precisione anche dettagli minori; a questi due ultimi gruppi va incluso un altro disegno di Casa Buonarroti, il 73 A bis (cat. 90; Corpus 615), nonostante più volte escluso dalla critica come non pertinente alla serie. Per completezza, non va tralasciato di ricordare altri fogli spesso avvicinati dalla critica alla progettazione di porta Pia, quali lo schizzo difficilmente leggibile, ma sicuramente da riferire a quest’opera, conservato alla Royal Library di Windsor Castle in Inghilterra (fig. 17) e più dubitativamente sia il foglio di Casa Buonarroti 85 A (cat. 89; Corpus 620) sia il piccolo disegno del Teylers Museum di Haarlem, inv. A 29 bis (fig. 18; Corpus 621). Benché nessuno dei disegni giunti a noi mostri porta Pia così come è stata realizzata, essi riuniscono d’altra parte tutti gli elementi presenti nella versione definitiva25. Ad esempio, il portale con angoli tagliati obliquamente compare in sette degli otto progetti (tranne che nel 73 A bis), compreso lo schizzo di Windsor Castle (fig. 17). L’imponente lapide compare in 73 A bis e 106 A recto, il motivo della finestra termale in 97 A e 102 A, il timpano triangolare spezzato in 106 A recto, la ghirlanda in 102 A. Il motivo della piattabanda piegata è anche chiaramente visibile in uno schizzo del foglio di Casa Buonarroti 19 F verso, generalmente interpretato come progetto per il sarcofago della tomba di Cecchino Bracci (fig. 19; cat. 23b; Corpus 368 verso). Ma dai punti in cui dovrebbero trovarsi i piedi del sarcofago partono alcune linee parallele, interrotte dal taglio del bordo inferiore del foglio. Tali linee verticali, insieme al motivo della piattabanda piegata obliquamente sugli angoli, formano una composizione assai simile al portale realizzato. È possibile che si tratti di uno schizzo originariamente dedicato a porta Pia, successivamente rielaborato dallo stesso Michelangelo e mutato in sarcofago, convertendo in coperchio il timpano spezzato. In tal modo Michelangelo avrebbe prima trasformato in un portale un motivo da lui già sviluppato quasi quarant’anni prima per le tombe della Sagrestia Nuova (fig. 20), per poi ritornare dal portale al sarcofago. gli anni dal 1534 al 1564 233 17. Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di porta Pia e altri schizzi architettonici, circa 1561. Windsor Castle, Royal Library, inv. 12769 verso 18. Michelangelo Buonarroti, Studio per l’alzato di porta Pia (?), 1561(?). Haarlem, Teylers Museum, n. A 29 bis Una particolarità dei disegni di grande formato è costituita dal fatto che Michelangelo vi ha sovrapposto differenti idee e versioni del progetto secondo una stratigrafia di difficile decifrazione. Nonostante i numerosi tentativi intrapresi, non è stato fino a oggi possibile ricostruire convincentemente l’esatta sequenza dei singoli “strati” progettuali. Ciò anche perché, in questo caso, non è propriamente possibile parlare di un tradizionale sviluppo progettuale, nel quale una successiva versione si sostituisce alla precedente. Michelangelo sembra piuttosto inserire singole idee in una griglia di linee orizzontali e verticali le quali definiscono gli elementi di base della costruzione architettonica. Nel corso del lavoro progettuale ogni idea viene a sua volta arricchita da sempre nuovi motivi. In questo processo le soluzioni più recenti non vanno a sostituire le vecchie, bensì si aggiungono a esse come possibili alternative. Procedendo nel disegno, Michelangelo copre con biacca le parti obsolete, mentre evidenzia con ombreggiature acquerellate gli elementi in quel momento ritenuti validi. Questa tecnica serve probabilmente non tanto a evocare un carattere “pittoresco” dell’architettura, come sostenuto da James Ackerman, quanto piuttosto a migliorare la leggibilità dei disegni che diventano sempre più densi e articolati26. In più di un caso è documentabile come Michelangelo sembri recuperare idee precedentemente marcate come obsolete. Il processo progettuale si manifesta come un procedimento accumulativo, nel corso del quale Michelangelo sembra rinunziare malvolentieri a invenzioni precedentemente sviluppate. Al contrario, attraverso lo spostamento, il riordinamento e la progressiva concentrazione delle componenti del disegno, egli studia soluzioni che gli permettano di integrare e combinare fra loro in un’unica composizione quanti più motivi possibile: una fatica disegnativa sempre portata avanti con caparbietà. Il risultato, visibile nell’opera realizzata, incarna per 234 20. Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova, dettaglio del sarcofago dal monumento di Giuliano de’ Medici 19. Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di porta Pia (?) poi rielaborato in sarcofago, circa 1561. Casa Buonarroti, 19 F verso, particolare così dire il maggior accumulo possibile di motivi architettonici e plastici e quindi ribadisce il principio compositivo di base del progetto stesso. Le soluzioni condensate in uno solo dei progetti per il portale sarebbero bastate per disegnarne almeno tre e, tuttavia, a confronto con i disegni, la porta realizzata si presenta come un compromesso quasi doloroso, dal momento che quella sovrapposizione di soluzioni in strati permeabili, che rende i disegni così suggestivi, non è realizzabile nel costruito. Una interessante affinità tecnica che caratterizza il gruppo di disegni per porta Pia – comune peraltro alla maggior parte dei disegni della tarda età di Michelangelo – consiste nell’uso della riga, impiegata quasi senza eccezione per tracciare anche i più minuti dettagli. Questo modus operandi si comprende ricordando che per il vecchio Michelangelo disegnare diveniva sempre più faticoso a causa del progressivo abbassamento della vista e del tremore alle mani, anch’esso in continuo peggioramento. Questa spiegazione è avvalorata dal fatto che evidentemente neanche l’ausilio della riga permetteva al maestro di tracciare linee esattamente parallele o perpendicolari fra loro, si vedano in particolare i fogli 97 A, 84 A e 106 A recto27. L’evidente irregolarità delle linee preparatorie, visibile in tutti questi disegni, suggerisce di dover respingere una tesi più volte proposta, secondo la quale Michelangelo avrebbe fatto tracciare le griglie di base e le strutture architettoniche da aiuti, per poi inserirvi le sue correzioni. Tutti i disegni qui discussi devono essere viceversa considerati in ogni loro parte autografi di Michelangelo. Qui di seguito verranno presentati i più importanti temi e i punti salienti del lavoro progettuale di Michelangelo nei disegni per porta Pia. Grazie a tali osservazioni sarà possibile, da una parte, collocare i singoli disegni secondo una sequenza cronologica non consecutiva, dall’altra osservare come questi fogli sembrino talvolta essere stati eseguiti parallelamente o in suc- cessione alternata. Infatti, questi disegni hanno spesso rivestito gli uni per gli altri la funzione di modelli e di miniere di idee, e questo non solo nell’ambito dei progetti per porta Pia, bensì anche per altri impegni di natura architettonica ai quali Michelangelo attendeva in quel periodo, come quelli per la basilica di San Pietro e per il palazzo dei Conservatori in Campidoglio. Spunti per questi due ultimi progetti si trovano in 97 A e 84 A. Questi fogli, su cui i segni si sono depositati strato su strato, costituivano una singola unità di lavoro contemporaneamente in uso sul tavolo da disegno di Michelangelo e pertanto è come gruppo che devono essere intesi, piuttosto che come successione di progetti individuali. Tra l’altro, con questo sistema Michelangelo riusciva anche a mantenere in vita soluzioni sviluppate in fogli che sembrano invece appartenere a fasi concluse della progettazione: a quanto pare anche per Michelangelo nulla era peggio di un foglio di carta bianca. Se, dunque, da un lato si può affermare che non esiste alcun disegno che documenti il progetto finale con la chiarezza e la precisione necessarie per l’esecuzione, dall’altro bisogna ammettere che disegni esecutivi in scala devono essere stati prodotti, poiché altrimenti la trasposizione del progetto di Michelangelo nella pietra non sarebbe stata minimamente possibile. Non sorprende certo che disegni di questo tipo siano andati perduti, poiché essi con tutta probabilità furono utilizzati in cantiere e quindi letteralmente consumati. Paradossalmente sembrerebbe che i disegni rimasti si siano conservati proprio perché rappresentavano fasi intermedie della progettazione e come tali furono a un certo punto accantonati. Essi comunque non si trovavano in casa del maestro, altrimenti avrebbero fatto parte di quel numero imprecisato di disegni che Michelangelo diede alle fiamme pochi giorni prima di morire. È invece probabile che i disegni fossero conservati presso la fabbrica di porta Pia oppure presso una delle persone di fiducia di Michelangelo nel cantiere, come Pietro Urbano o Tiberio Calcagni28. Casa Buonarroti 73 A bis (cat. 90) L’appartenenza di questo studio preliminare al complesso dei progetti per porta Pia, più volte messa in discussione, resta tuttavia l’interpretazione più probabile, anche a causa della mancanza di alternative credibili. L’indicazione di Vasari secondo cui Michelangelo avrebbe prodotto progetti anche per altre porte urbane è troppo vaga per essere applicata a questo disegno. La connessione con porta Pia potrebbe essere avvalorata paradossalmente proprio dalle palesi divergenze rispetto ai progetti più tardi: a differenza di questi infatti il varco d’ingresso è qui voltato con un arco a tutto sesto (tracciato a penna in alto) e uno ribassato (a matita più in basso); ma resta pur vero che questa è la soluzione più ovvia per definire una porta gli anni dal 1534 al 1564 urbana. Come ogni altro architetto, Michelangelo avrà inizialmente immaginato per questa commissione una sorta di arco di trionfo con portale ad arco. D’altra parte, nel disegno si trovano già alcune delle soluzioni centrali della progettazione successiva, come la combinazione di timpani spezzati di diverse forme, la sottolineatura del concio in chiave di volta, la lapide monumentale. Anche la scala, fissata dalle linee ausiliarie principali, è pressoché identica a quella dei disegni 102 A e 106 A recto nonché 108 A (fig. 21). Il più importante procedimento progettuale fissato in questo disegno potrebbe essere descritto come segue: dopo avere completato la prima redazione con un timpano triangolare, Michelangelo inserisce sotto di esso un timpano centinato ribassato (probabilmente spezzato), con la conseguenza di dover traslare verso il basso il blocco della lapide e, con esso, abbassare l’arco sotto cui si apre la porta. Per evitare tuttavia di modificarne l’altezza di imposta, Michelangelo trasforma l’arco, inizialmente a tutto sesto, in un arco ribassato, che occupa in altezza uno spazio molto inferiore. È possibile che questa forma di risparmio in termini di spazio sia stata all’origine della soluzione definitiva a piattabanda. Inoltre, per accogliere il timpano centinato ribassato, Michelangelo estende attraverso passaggi successivi l’ampiezza del timpano triangolare (come è visibile sulla destra). Le conseguenze di queste modifiche, soprattutto per l’altezza dell’ordine architettonico retto dalle colonne laterali, sembrano essere state di così complessa soluzione da interrompere la continuazione di questo schizzo. Casa Buonarroti 84 A (cat. 91) Questo piccolo disegno, senza dubbio appartenente alla serie di progetti per porta Pia, può essere tuttavia inserito solo a fa235 21. Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di porta Pia, circa 1561. Firenze, Casa Buonarroti, 108 A 22. Roma, palazzo dei Conservatori, finestra del piano nobile è chiaro come Michelangelo avesse pensato la connessione fra il piccolo timpano triangolare e l’arco della porta che, come già notato nel 73 A bis, appare assai ribassato se non addirittura rettilineo. Va notato come il disegno per la porta si sovrapponga a una sezione di cupola gradonata a doppia calotta, probabilmente per San Pietro. tica nella sequenza cronologica, rafforzando l’idea che alcuni dei disegni che documentano i passaggi intermedi dell’iter progettuale siano andati perduti. La più probabile derivazione di questo progetto va ricercata nel foglio 73 A bis e nelle soluzioni lì accumulate. Testimonianza ne è il motivo della compenetrazione dei due timpani di forme diverse: quello superiore di forma circolare, inquadrato lateralmente da un ordine di sostegni, è spostato verso l’alto per accogliere il blocco della lapide che si fa spazio spezzando la trabeazione. Quello inferiore, più piccolo e di forma triangolare (forse sorretto da un proprio ordine) è posto più in basso in una zona indefinita e si sovrappone all’ordine laterale che sorregge il timpano maggiore. Non 236 Casa Buonarroti 108 A (fig. 21) Nel foglio 73 A bis Michelangelo sembra valutare l’opportunità di ottenere quanto più spazio possibile nella zona del timpano al fine di potervi inserire ulteriori invenzioni. La conseguenza più logica di tale volontà è rappresentata dalla sostituzione dell’arco a tutto sesto del portale con una piattabanda. Questa premessa sembra costituire il punto di partenza per il presente disegno, che Michelangelo – in analogia con i fogli 73 A bis, 102 A e 106 A recto – inizia a costruire tracciando, oltre alla linea di base e all’asse di simmetria, anche la griglia delle altre principali linee di delimitazione orizzontali e verticali. Il varco del portale è qui inizialmente indicato come una piattabanda, i cui estremi vengono tuttavia piegati obliquamente verso il basso in un secondo momento. Gli angoli precedentemente disegnati risultano cancellati o raschiati con una lama. In tal modo prende forma la soluzione poi mantenuta da Michelangelo in tutti i progetti successivi. Il disegno è stato tagliato a sinistra e nella parte alta, cosicché il resto del progetto resta oscuro. Nell’angolo in alto a destra è rimasto visibile solo il frammento della terminazione a spirale di un timpano (centinato ribassato), analogo a quello presente nel foglio 106 A recto. Di difficile interpretazione resta il disegno di due nicchie poste negli intradossi del portale, rappresentate in scorcio prospettico, tecnica assai inusuale per Michelangelo29. Forse anche questo dettaglio è da mettere in connessione con gli intradossi ben visibili nel progetto del foglio 106 A recto. In ogni caso questi due fogli sembrano strettamente legati, anche per quanto riguarda la struttura del reticolo di linee costruttive. Il progetto resta interessante per il fatto di essere stato evidentemente interrotto a uno stadio precoce e pertanto le tracce preparatorie sottostanti possono essere studiate con maggior facilità. Fra esse si nota bene l’impiego di moduli tracciati con riga e compasso per impostare l’ordine. Anche a causa delle ampie porzioni tagliate è difficile stabilire il motivo dell’interruzione del disegno. L’autografia di questo foglio, stranamente assai impopolare e pressoché ignorato dalla critica, resta però fuori discussione. Casa Buonarroti 99 A (cat. 92) Il motivo centrale sviluppato nel foglio Casa Buonarroti 108 A (fig. 21), consistente in una apertura sormontata da piattaban- da piegata obliquamente ai lati, già osservato in 84 A, viene ulteriormente elaborato in questo piccolo studio. Qui Michelangelo ripete in scala minore lo schema del foglio 108 A; il tracciamento impreciso delle linee e la loro diversa lunghezza fanno pensare a un processo grafico faticoso, ma che deve comunque considerarsi autografo. Il disegno sembra voler studiare in primo luogo una possibile connessione fra il nuovo motivo della piattabanda, il timpano sovrastante e l’ordine architettonico inquadrante, dove la piattabanda funge contemporaneamente anche da architrave dell’ordine. Questa soluzione implicava tuttavia tali difficoltà, soprattutto derivate dagli angoli tagliati obliquamente, da lasciare, anche in questo caso, il disegno in sospeso. Casa Buonarroti 97 A (cat. 93) L’impostazione di questo disegno si avvicina molto al precedente progetto del foglio 99 A, con la differenza che qui è più chiaramente risolta la connessione tra apertura del portale e proporzione dell’ordine inquadrante. Inoltre il motivo degli angoli tagliati obliquamente viene sottolineato con tale evidenza che della piattabanda rimane soltanto il possente concio centrale. L’ordine inquadrante, come avverrà nell’opera realizzata, si eleva ora al di sopra del varco del portale per sostenere una propria trabeazione che separa chiaramente il portale dalla zona del timpano. D’altra parte, questo coronamento, che si limita a un timpano ad arco ribassato inserito in una sorta di attico, secondo una soluzione simile a quella presente nel minimo progetto di portale del Teylers Museum, ha fatto sorgere alcuni dubbi sull’appartenenza di questo progetto alla serie di disegni per porta Pia, dubbi che non è possibile rimuovere completamente. Che accanto ai progetti per porta Pia Michelangelo potesse anche aver disegnato altri portali d’ingresso per ville o giardini resta argomento di pura speculazione, mentre bisognerebbe piuttosto chiedersi se l’anziano e occupatissimo maestro avesse mai avuto tempo e agio di dedicarsi a questo genere di commissioni private. Gli altri disegni di cornici per finestre presenti sullo stesso foglio sembrano appartenere alla progettazione del palazzo dei Conservatori. Casa Buonarroti 106 A recto (cat. 94) Lo straordinario progetto contenuto nel celeberrimo foglio Casa Buonarroti 106 A recto riunisce le soluzioni presenti nei precedenti disegni in una sintesi che si avvicina in diversi punti all’opera realizzata. La piattabanda del portale, con angoli tagliati obliquamente, è formata da conci incuneati; l’apertura è poi inquadrata da paraste di notevole aggetto che sostengono una trabeazione fortemente risaltata, sulla quale poggiano le estremità di un timpano completamente spezzato: una forma gli anni dal 1534 al 1564 che sembra mutare nel momento stesso in cui Michelangelo sembra disegnarla. Tra i frammenti laterali del timpano è inserito il possente blocco dell’iscrizione, coronato da una sorta di conchiglia, elemento che scompare nei successivi progetti per porta Pia, ma che viene invece recuperato in palazzo dei Conservatori come dettaglio ornamentale posto dentro i timpani delle finestre del piano nobile (fig. 22). In questo progetto è 237 messa da parte l’idea più volte formulata della compenetrazione fra timpani di due diverse forme, benché essa sembri comunque potersi intravedere come traccia depositata negli strati più profondi del disegno. È proprio da questa ripetuta stratificazione di livelli che scaturisce il fascino del foglio, dalla cui natura derivano anche notevoli difficoltà interpretative. Così, per esempio, è difficile comprendere se la cornice rettangolare inserita da Michelangelo all’interno del varco del portale sia da intendersi quale alternativa alla forma dell’apertura stessa, o piuttosto debba essere letta quale seconda apertura collocata su un piano arretrato, per esempio il retrostante varco aperto nelle mura antiche. In ogni caso, Michelangelo sembra aver voluto ricoprire con biacca queste parti, mentre il varco del portale è messo nettamente in risalto da forti ombreggiature. Sul verso di questo foglio si trovano alcuni schizzi già avvicinati alle menzionate finestrelle cieche superiori dei fianchi del portale. Casa Buonarroti 102 A (cat. 95) Insieme al precedente 106 A recto il progetto contenuto nel foglio di Casa Buonarroti 102 A è da annoverare tra i più famosi e bei disegni architettonici di Michelangelo. Causa ne è l’effetto suggestivo prodotto dalla sovrapposizione di più varianti progettuali nello stesso disegno. Come in una immagine radiografica, la permeabilità dei diversi strati sovrapposti trasforma una complessa sequenza di idee in una potente impressione d’insieme. Il processo creativo e con esso il pensiero dell’artista sembrano così palesarsi in maniera assai più diretta che nell’opera realizzata, nella quale Michelangelo dovette necessariamente decidersi per una sola soluzione, mentre qui molteplici idee restano in gioco parallelamente le une alle altre. Tale è la funzione di questo tipo di disegni: piuttosto che iniziare a disegnare su un nuovo foglio, ogni volta che una precedente soluzione veniva abbandonata, Michelangelo tracciava semplicemente la nuova idea sopra la vecchia, con la conseguenza di ricoprire continuamente ciò che si andava disegnando, ma che restava tuttavia visibile quale punto d’orientamento o traccia per ulteriori variazioni. Così, ad esempio, Michelangelo poté confrontare sullo stesso foglio l’effetto di aperture più o meno larghe, ovvero altezze più o meno elevate del portale, sottolineando alla fine con tratti più marcati o con ombreggiature la linea o la variante che meglio corrispondeva all’ideale ricercato. D’altra parte tale sistema compositivo non permette di identificare con chiarezza quale, tra le molte soluzioni sovrapposte, fosse quella considerata da Michelangelo la 238 più convincente al momento in cui il disegno era stato interrotto. Conformemente alla natura accumulativa di un tale processo ideativo, l’artista considerava il disegno stesso come un accostamento di soluzioni diverse, a partire dalle quali sarebbe scaturita la soluzione definitiva solo in una successiva fase di elaborazione. Analogamente a quanto osservato nel 106 A recto, anche qui appare evidente come Michelangelo avesse inizialmente preso in considerazione la compenetrazione di timpani di forme diverse, per poi tuttavia rinunziarvi. La ragione potrebbe trovarsi nel fatto che due timpani richiederebbero due differenti ordini architettonici di sostegno, problema a cui Michelangelo non aveva ancora trovato alcuna soluzione convincente, né in questo studio, né nei precedenti disegni per porta Pia. È possibile invece che avesse avuto in mente le sperimentazioni di trent’anni prima sul portale interno della sala di lettura della Biblioteca Laurenziana30. Ancora un lungo percorso separa il presente progetto dalla versione realizzata, nella quale Michelangelo fa poggiare il timpano interno sull’ordine di paraste, quello esterno su sottili strati parietali che riprendono l’articolazione dei piedritti del portale. Pressoché identica all’opera realizzata è invece, nel disegno, l’alta fascia compresa a mo’ di fregio fra il cornicione e l’architrave, fortemente risaltata in corrispondenza delle colonne (forse semicolonne) e occupata nella parte centrale dal tema della finestra termale. Quest’ultimo motivo, in sé difficile da spiegare, diventa comprensibile se lo si interpreta quale “resto” formale dell’apertura originaria, inizialmente pensata a tutto sesto, visibile in 73 A bis e 84 A. In uno stadio assai avanzato del processo progettuale Michelangelo avrebbe così ripreso un’idea ormai scomparsa dai disegni immediatamente precedenti, originata sì dalla “materia prima” dei più convenzionali motivi architettonici, ma poi trasformata in una nuova forma dal carattere più plastico che tettonico. In conclusione è necessario ritornare al piccolo disegno di Haarlem, che presenta una composizione simile al foglio in esame, ma che a causa dei gradini visibili in basso è stato per lo più interpretato come progetto per il portale di un giardino. La questione ruota intorno all’interpretazione di queste linee orizzontali, se debbano veramente essere interpretate come gradini o piuttosto indicare che i tre elementi principali della struttura architettonica – l’ordine architettonico, la finestra termale e il varco del portale – vadano letti come strati collocati uno di seguito all’altro su piani paralleli posti in profondità, proprio come nella versione realizzata di porta Pia. Nel presente saggio le indicazioni bibliografiche sui disegni per porta Pia sono limitate ai più importanti contributi; per riferimenti bibliografici più completi così come per una trattazione in extenso di tutti gli aspetti che saranno in seguito menzionati, si veda Maurer 2006. Ringrazio Costanza Caraffa per l’assistenza nella redazione italiana del presente testo. 2 Sulla funzione rappresentativa delle porte urbane del rinascimento italiano, cfr. Schweizer 2002; Israëls 2008. 3 Una lettera di Tiberio Calcagni a Leonardo Buonarroti del 29 agosto 1561 suggerisce che Michelangelo stesse lavorando anche al progetto per la fronte esterna (“è apresso a disegni per la Porta Pia dalla parte di fuori che non lo haveva fatto”, Schwager 1973, p. 48). Tuttavia di questo lavoro non si è conservata alcuna traccia. In ogni caso, il fatto che l’anziano maestro avesse iniziato progettando la fronte interna mostra chiaramente quale fosse la priorità sua e del committente. 4 Pastor 1957, p. 638, doc. 16: “andò agli horti del già Reverendissimo Bellai per vedere una strada nominata dal suo nome, Pia, la quale fa fare giettando a terra case et guastando vigne, et comincia a Monte Cavallo, et finirà alle mura della città, tra porta Sellara et porta S. Agnese, 1 gli anni dal 1534 al 1564 fra le quali due porte si fabricarà all’iscontro di quella strada una nuova porta, che si chiamerà porta Pia”. 5 Schwager 1973, nota 45: “Cum nos inter alia pro Almae Urbis nostrae ornatu, et commoditate viam, quae antiquitus Alta Semita dicebatur, a loco ubi nunc vulgariter dicitur Montecavallo usque ad moenis Urbis dirigi, et ampliari, in illis fine in moenis Urbis portam aperiri, cum magno etiam nostro sumptu, curaverimus”. 6 Argan, Contardi 1990, p. 301. 7 Per esempio, cfr. Ackerman 1961, vol. I, p. 115; Argan, Contardi 1990, p. 301; Frommel 2007, p. 182. 8 Gotti 1875, vol. II, p. 161: “Di più, che finita l’opera, se parrà a maestro Michelangnilo [sic] donare a detti maestri sino alla somma di quaranta o cinquanta scudi, la Cammera se obliga pagarglieli”; si vedano, inoltre, Podestà 1875, p. 137; Ackerman 1961, vol. II, pp. 125 sgg.; Pontani, Tramutola 1989, p. 70; Maurer 2006, p. 132. 9 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 111 [ed. 1568]; nel supplemento di Girolamo Ticciati alla vita di Michelangelo del Condivi si legge una informazione che sembra a sua volta ripresa da Vasari: “Co’ suoi disegni fu fatta la Porta Pia”, Ticciati 1823, p. 90; cfr. Maurer 2006, pp. 132 sgg. 10 Gotti 1875, vol. II, p. 162; Berto- lotti 1875, p. 77; Pontani, Tramutola 1989, p. 70; cfr. riassuntivamente Maurer 2006, pp. 132-136. 11 Si veda infra. 12 L’iscrizione nella stampa recita: PORTAM PIAM A MICHAELIS ANGELI / BONAROTI EXEMPLARI ACCVRATISSIME / DELINEATAM ROMÆ MDLXVIII. 13 Maurer 2006, pp. 136-140. 14 Si veda infra. 15 Cfr. C. Brothers, scheda 23, in Elam 2006, pp. 207-209; Frommel 2007, p. 182. 16 Il testo dell’iscrizione è PIVS IIII PONT. MAX . / PORTAM PIAM SVBLATA NOMENTANA EXTRVXIT / VIAM PIAM / AEQVATA ALTA SEMITA DVXIT. 17 Milizia 1787, p. 159. 18 Burckhardt 1952, pp. 361 sgg. 19 Thode 1902-1913, vol. VI, p. 661 (traduzione dell’autore). 20 Mackowsky 1925, pp. 335 sgg.; Schwager 1973, pp. 35 sgg. 21 Tolnay 1930, p. 45; la citazione è tratta da Tolnay 1951, p. 209. 22 Sedlmayr 1940, pp. 24 sgg. (traduzione dell’autore). 23 Ackerman 1961, vol. I, pp. 115122. 24 Thoenes 2007, p. 376 (traduzione dell’autore). 25 I più importanti contributi sui disegni di Michelangelo per porta Pia si trovano in: Gotti 1875, pp. 183185; Thode 1902-1913, vol. V, pp. 126, 208 sgg., vol. VI, nr. 68, 70, 130, 147, 152, 154, 157, 264; Frey 1909-1911, n. 207, 211c, 211d, 237, 326; Tolnay 1930, pp. 42-45; Tolnay 1951, pp. 207 sgg., 300; Dussler 1959, nr. 119, 128, 129, 134, 296, 470, 473, 476, 477; Ackerman 1961, vol. II, pp. 128-130; Mc Dougall 1960, p. 100-104; Barocchi 1962-64, vol. I, pp. 205-211; F. Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 965-970; Schwager 1973, pp. 33-35; Tolnay 1976-80, n. 615-622; Ackerman 1986, pp. 243-259, 329-331; Ackerman 1988, pp. 115-122, 306-314; B. Contardi, scheda 30, in Argan, Contardi 1990, pp. 350-353; H.A. Millon, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 475-477; C. Brothers, scheda 23, in Elam 2006, pp. 207209; Maurer 2006, pp. 148-155; si rimanda inoltre allo studio di Pietro Ruschi in c.d.s. 26 Ackerman 1961, vol. I, pp. 118 sgg. 27 Sulla tecnica grafica di Michelangelo, cfr. Maurer 2004, pp. 38-47. 28 Sulle vicende storiche dei disegni pervenutici di Michelangelo, cfr. riassuntivamente Maurer 2004, pp. 34-37 29 Sul significato della prospettiva nei disegni di architettura michelangioleschi, cfr. Maurer 2004, pp. 102-147. 30 Cfr. Elam 2006a, p. 60; C. Brothers, scheda 23, in Elam 2006, pp. 207-209; Frommel 2007, p. 182. 239 1. Stefano Dupérac, Pianta di Roma, 1577, particolare con il complesso delle terme di Diocleziano SANTA MARIA DEGLI ANGELI Alessandro Brodini Abbiamo cominciato con una visita, forse la ventesima, alla chiesa di Santa Maria degli Angeli, e con un omaggio a Michelangelo Stendhal, Passeggiate romane1 Ciò che Stendhal ammirò in una delle sue numerose visite alla basilica di Santa Maria degli Angeli, sotto la data del 18 aprile 1828, non era molto diverso da quanto si possa ancora oggi osservare. Ma cosa doveva aspettarsi di trovare, lo scrittore francese, dell’intervento michelangiolesco? Ben poco, come egli stesso chiarisce alcune pagine dopo, quando afferma che con il restauro della metà del XVIII secolo “Vanvitelli sconvolse tutto”2. Stendhal stava naturalmente traendo le informazioni da quelle descrizioni e guide che, sulla scia del giudizio del critico d’arte monsignor Giovanni Gaetano Bottari, imputavano a Luigi Vanvitelli tutte le storpiature e le “mostruosità”3 che affliggevano l’edificio. Sebbene oggi sappiamo che le deviazioni dalla concezione originaria non siano state esclusivamente il frutto dell’intervento dell’architetto napoletano, il quale invece ereditò una situazione già fortemente compromessa dalle trasformazioni incorse nei decenni precedenti al suo incarico, il progetto di Michelangelo mantiene per molti aspetti dei contorni ancora sfocati. A differenza delle altre grandi opere romane (San Pietro, il Campidoglio e porta Pia) per le quali, entro i cinque anni successivi alla morte di Michelangelo, vennero realizzate incisioni che ne mostravano il presunto aspetto definitivo4, di Santa Maria degli Angeli non rimane alcuna fonte grafica nata direttamente nell’ambito della cerchia michelangiolesca. Nemme240 no tra gli autografi di Michelangelo è possibile rintracciare un disegno che, con certezza, si riferisca a questo progetto5; inoltre il compito di ricostruire il suo apporto è ulteriormente ostacolato dall’esiguità dei documenti relativi alla vicenda costruttiva6. Sebbene per Michelangelo fosse usuale intervenire come progettista in edifici preesistenti, la particolarità dell’incarico che egli ebbe da papa Pio IV (1559-1565) consiste nel fatto che l’architetto si dovette confrontare con un organismo di dimensioni enormi: i resti delle terme di Diocleziano (fig. 1). Costruite tra il 298 e il 305-306 d.C.7, esse rappresentavano il più grande impianto termale di Roma antica, ma dopo la caduta dell’impero vennero abbandonate e in seguito utilizzate prevalentemente come cava di marmi e materiali da costruzione, nonché come luogo di svago per la nobiltà romana che vi praticava l’equitazione8. Per tutto il Quattrocento, la collocazione al di là dei margini del nucleo abitato faceva del complesso delle terme un luogo piuttosto malfamato; una reputazione che durava ancora nel secolo successivo se nel 1560, poco prima della trasformazione in chiesa, vennero giustiziati “due monetari che hanno fatto nelle terme di Diocleziano assai monete false”9. Nonostante il tempo trascorso e l’uso improprio degli spazi, una parte delle strutture termali si presentava in buono stato di conservazione ancora nel 1450, quando Giovanni Rucellai poteva descriverle come “grandissima muraglia dove ancora si vede belle colonne di marmo et graniti et architravi et sono in piè molti volti”10. In un’epoca in cui l’attenzione per l’antico andava assumendo sempre maggiore importanza, la grandezza delle terme e la consistenza dei loro resti era motivo di interesse anche per i molti architetti e artisti che le disegnarono, tra la fine del XV e soprattutto nel XVI secolo (cat. 98, 99, 100)11. Ma le terme di Diocleziano suscitavano grande attenzione anche nella Chiesa della Controriforma. Secondo la tradizione infatti la loro costruzione avvenne a opera di 40.000 cristiani12, costretti ai lavori forzati a causa della loro fede: la consacrazione e la risignificazione di uno spazio pagano, per di più nato dagli stenti e dai soprusi patiti dai cristiani, era un’occasione da non perdere per propagandare una nuova immagine di Chiesa vincitrice. Nel corso del Cinquecento l’idea di collocare un edificio religioso entro le terme di Diocleziano non appariva nuova; la proposta era già stata avanzata dal sacerdote siciliano Antonio del Duca (1491-1564), devoto al culto dei “Sette Angeli”, del quale è nota la storia grazie a un manoscritto del suo amico e collega Matteo Catalani13. A seguito di una prima visione mistica avuta nel 1541, del Duca si rivolse – senza successo – a Paolo III (1534-1549) per chiedere che una parte delle terme venisse consacrata al culto a cui egli era legato. Perseverando nei suoi intenti e anche con l’appoggio del celebre Filippo Neri, nel 1550 egli ottenne da Giulio III (1550-1555) che il vano centrale del grande complesso fosse trasformato in chiesa. Si trattava però di una chiesa più in senso liturgico che non architettonico: i semplici altari e i nomi degli angeli scritti sulle colonne non bastarono infatti a fermare le scorribande degli abituali frequentatori delle terme, i quali estromisero il sacerdote. Nonostante un’altra visione, nei successivi dieci anni Antonio del Duca continuò a ricevere rifiuti dai due pontefici Marcello II (1555) e Paolo IV (1555-1559)14. Ma come mai proprio Pio IV decise di assecondare le idee del sacerdote visionario e devoto a un culto che tutto sommato non sembrava completamente ortodosso?15 Se la dedicazione di una chiesa alla “Gloriosa Regina del cielo”, prima che agli angeli, poteva apparire come un utile rimedio “in questi tempi calamitosi di tante heresie”16, in realtà la scelta del pontefice deve essere inquadrata in un più ampio e complesso disegno in cui le motivazioni devozionali si intrecciano alle strategie di politica urbana e di promozione familiare. Certamente i valori religiosi venivano posti dal papa in primo piano: Pio IV intendeva che fossero chiari i motivi per cui egli fondava la nuova basilica proprio in un luogo di origini pagane, come si evince dall’iscrizione che fece porre nel presbiterio: “Quod fuit Idolum, nunc Templum est Virginis - Auctor est Pius ipse Pater, Daemones aufugite”17. Egli era inoltre affiancato dal nipote, il cardinale Carlo Borromeo, il quale deve aver giocato un ruolo non secondario nella decisione papale di consacrare le terme di Diocleziano. Sebbene il cardinale fosse diffidente verso i culti insoliti come quello proposto dal sacergli anni dal 1534 al 1564 dote siciliano18, l’idea di trasformare le terme lo interessava certamente. Accanto al tema della “riconquista” per scopi religiosi di un tipo di edificio antico giudicato dalla letteratura cristiana come un luogo di peccato, le terme di Diocleziano assumevano agli occhi dei riformati un significato rilevante, che doveva essere apprezzato nella cerchia di Borromeo: già Conrad Braun, nel De Caeremoniis libri sex (1548) aveva erroneamente scritto che Costantino – il primo imperatore cristiano – e i padri del Concilio di Nicea si sarebbero radunati in un sinodo proprio nel complesso di Diocleziano, sancendone così l’importanza religiosa19. La funzione primaria di Borromeo nell’impresa delle terme venne presto sottolineata anche dai suoi agiografi, come per esempio Giovanni Pietro Giussano, il quale spiegava che Carlo “procurò in oltre che il Sommo Pontefice suo zio, facesse ridurre le Therme Diocleziane in forma di chiesa”20. L’erezione di un edificio sacro entro le terme doveva inoltre essere intesa come parte di un più generale programma di riassetto dei luoghi di culto che Pio IV aveva promosso, in particolare presso i cardinali, ai quali richiese che ponessero cura al restauro delle loro chiese titolari21. Ma i resti delle terme erano un’opportunità anche da un altro punto di vista, quello legato al piano urbano promosso da Pio IV22. Nell’ambito della sistemazione dell’assetto viario all’interno delle mura e della creazione di altri rettilinei verso il territorio circostante, l’area tra il Quirinale e la porta Nomentana rivestiva un particolare interesse per questo pontefice. Si trattava di una zona ancora piuttosto disabitata, ma con alcune vigne e residenze prestigiose di nobili e cardinali, a vario titolo 241 2. Pianta del progetto di Michelangelo per Santa Maria degli Angeli secondo l’ipotesi di Herbert Siebenhüner (da Siebenhüner 1955, p. 192, fig. 19) legati al papa23, che avrebbero tratto vantaggi dalla valorizzazione dell’area grazie a una viabilità moderna, funzionale e scenografica: la via Pia. Sostituendo il percorso irregolare dell’antica via Alta Semita che lambiva il recinto delle terme, il papa fece realizzare un rettilineo (attuali via del Quirinale – via XX Settembre) che presso le mura Aureliane attraversava porta Pia, l’altra importante iniziativa di Pio IV, per spingersi poi fino a Sant’Agnese fuori le mura. La contemporaneità di queste fondazioni – via Pia, porta Pia e chiesa di Santa Maria degli Angeli – e la scelta di affidarne l’esecuzione a Michelangelo24 non lasciano molti dubbi sulla concezione unitaria che sta alla base di questa triplice iniziativa del papa, il quale ricordava la via e la porta proprio in un atto relativo alla nuova chiesa25. Vi è, infine, nelle intenzioni del pontefice una precisa strategia familiare connessa alla fondazione di Santa Maria degli Angeli. Accanto a un probabile gesto di autocelebrazione che si può ravvisare nell’onomastica – il nome di battesimo di Pio IV era Giovan Angelo26 – assume maggior rilievo il fatto che il papa intendesse trasformare la basilica in proprio mausoleo: secondo le volontà testamentarie il suo corpo fu trasportato nella nuova chiesa (1583) e deposto sotto il pavimento del presbiterio27. Non venne realizzato un vero e proprio monumento, ma nel 1582 era stata commissionata al lapicida settignanese Alessandro Cioli una memoria funebre in forma di lapide parietale, che tutt’ora si può vedere nel presbiterio28. Tuttavia sembra abbastanza difficile che la modestia di questa soluzione possa rispecchiare le intenzioni del papa e recentemente è stata avanzata l’ipotesi che la grande rotonda di accesso alla chiesa (l’antico tepidarium) potesse essere destinata a cappella sepolcrale del pontefice29. 242 3. Roma, Santa Maria degli Angeli, veduta dell’aula principale I disegni del papa si chiariscono ulteriormente se si osserva la seconda memoria funebre, collocata di fronte a quella di Pio IV: si tratta del monumento di Giovanni Antonio Serbelloni, nipote del pontefice e da questi nominato nel 1565 primo cardinale titolare di Santa Maria degli Angeli30. Costui era già in qualche modo legato al sito delle terme, avendo ricevuto proprio dal papa nel 1565 i famosi Horti Bellajani, villa con giardino e importante collezione di sculture che il cardinale francese Du Bellay aveva creato presso l’esedra delle terme di Diocleziano. Quello a Serbelloni era stato un passaggio “in famiglia”: alla morte di Du Bellay (1560) gli Horti erano già stati affittati e poi comprati da Carlo Borromeo, il quale a sua volta li aveva ceduti allo zio papa31. Il ritorno in scena di Borromeo sottolinea che, oltre al già citato impulso religioso, questo cardinale aveva interessi diretti proprio nel sito delle terme, che veniva così a configurarsi almeno per un breve periodo come una sorta di “proprietà di famiglia”, con residenza cardinalizia, chiesa e mausoleo32. Il programma di Pio IV e del nipote, però, doveva tenere conto di un altro protagonista: il Popolo Romano. I rappresentanti del governo cittadino avevano, per lunga tradizione, il diritto-dovere alla salvaguardia delle antichità, ponendosi così simbolicamente come eredi del passato imperiale. Sebbene il papa avesse dichiarato che le terme “ad nos et Cameram Apostolicam pertinent”33, non poteva ignorare che era necessario il consenso del Popolo prima di intraprendere qualsiasi impresa e quindi si presentava spinto da intenti devozionali, ma anche preoccupato per la conservazione delle strutture antiche. Egli era disposto a sostenere la spesa per la costruzione della chiesa in un sito che sapeva “andare ogni giorno in rovina”, in modo che “non solo ne restarà conservato l’anticho, ma anche ristaurato et molto ampliato et abbellito”34. La cerimonia della posa della prima pietra, svolta in gran pompa il 5 agosto 1561 alla presenza del papa con ben diciannove cardinali (tra cui Borromeo), di gran parte delle magistrature e della nobiltà romana doveva dimostrare che il dissidio tra Pio IV e il Popolo era stato ricomposto35. La costruzione di una chiesa di tali dimensioni implicava anche la scelta di un ordine religioso che potesse sostenere le spese di gestione. Rifiutando la proposta di Antonio del Duca di assegnarla a una congregazione di preti poveri, il papa scelse i certosini di Santa Croce in Gerusalemme, i quali però, almeno all’inizio, non sembrarono gradire la designazione, anche perché si sarebbero dovuti sobbarcare le spese per la costruzione del monastero36, sebbene successivamente essi ottennero donazioni e privilegi37. Incaricato direttamente dal papa e non, come sembra far intendere Vasari, coinvolto a seguito di un concorso38, Michelangelo doveva con questo progetto contemperare le esigenze di diversi attori, tra i quali si può annoverare lo stesso antico edificio, la cui preservazione si imponeva come richiesta primaria. Infatti “servendosi di tutte l’ossature di quelle terme”39 Michelangelo concentrò la sua attenzione sulla parte meglio conservata dell’impianto, la grande aula centrale che anticamente svolgeva la funzione di frigidarium. Per assicurarne l’integrità strutturale e bloccare il processo di degrado, l’architetto si occupò immediatamente dello strato più esterno e “coprì le volte principali de tevoloni”40. Questo enorme spazio presenta otto colonne libere in granito rosa che reggono un tratto di trabeazione e tre volte a crociera, di cui la centrale più ampia è quadrata mentre le due laterali sono rettangolari e di dimensioni leggermente ridotte (fig. 2). Per eliminare tutta la serie degli spazi-satellite che circondavano questa sala e che si presentavano in uno stato di conservazione più precario (dunque più dispendioso ne sarebbe risultato il restauro), Michelangelo eresse alcune semplici pareti che isolarono l’area centrale, permettendo di individuare con chiarezza, nello spazio ormai labirintico delle terme, la zona più circoscritta della chiesa41. Nel ridefinire la relazione tra la sala centrale e quelle minori, l’architetto incluse anche i quattro vani rettangolari (A, B, C, D nella fig. 2), pensando di destinarli a cappelle minori. Ma la considerevole grandezza di ciascuno di essi avrebbe comportato una spesa altissima di sistemazione e decorazione che negli anni successivi nessuno si sentì di affrontare; così nella prima metà del XVIII secolo vennero costruite delle pareti (per ospitare le grandi tele trasferite dalla basilica di San Pietro) che ridussero il vano centrale nello stato attuale (fig. 3). L’eliminazione degli spazi laterali ha certamente modificato la qualità dell’architettura di Michelangelo, articolata sulla fluidità dei rapporti spaziali ma anche sul contrasto tra le dimensioni della sala principale e quelle laterali e tra la forte luminosità della prima e la penombra delle seconde. È comunque possibile avere un’idea di come si presentasse l’interno della chiesa osservando un’incisione realizzata nel 1703, prima delle consistenti modifiche (fig. 4). La rappresentazione mostra uno dei quattro vani-cappelle minori (quello con l’arco a tutto sesto al centro) ancora completamente aperto, a meno di due fasce rientranti ai fianchi del muro – residui del sistema trabeato che diaframmava in antico questo spazio (cat. 100) – e un basso muretto con una porta. Ma l’immagine è interessante anche per altri aspetti, per esempio per le finestre decorate con ampie cornici a voluta, le quali non risalgono all’intervento originario, come assicura il confronto con un’altra incisione pubblicata da Girolamo Franzini nel 1588 (cat. 102), dove è evidente come Michelangelo avesse soltanto predisposto due montanti a suddividere l’area di ciascuna finestra, che risultava così tripartita. L’applicazione di queste cornici ha parzialmente ridotgli anni dal 1534 al 1564 to la luminosità, che doveva comunque esser favorita dal colore bianco delle tre crociere: una delle prime operazioni volute da Michelangelo fu infatti quella di “far dare il bianco dentro alle volte”42. Dall’incisione del 1703 è evidente anche un altro carattere ora non più percepibile, cioè l’inclusione (o se si vuole l’esclusione) dei due vani E e F che dovevano funzionare come vestiboli della grande sala. Più bassi di questa, i due spazi erano ad essa connessi tramite una grande apertura ad arco ribassato. Sulla parete opposta, verso l’esterno, gli ingressi erano connotati da due enormi portali con cornice e timpano; quello verso sud-est (ora verso Termini) venne rappresentato in alcuni disegni e incisioni del tardo Cinquecento. Il sistema di aperture era completato da un terzo ingresso, l’unico attualmente esistente su piazza Repubblica. Attraverso la parete concava dei resti del calidarium, il fedele veniva introdotto nella rotonda, l’antico tepidarium, fornita di un lanternino, come mostra la pianta di Stefano Dupérac (fig. 1). La singolarità di tale soluzione fece considerare questa “entrata fuor della openione di tutti gli architetti”43 e suggerisce l’idea che la proposta di Michelangelo mirasse a riaggregare i vari ambienti delle terme, i quali presentavano caratteri molto diversi che l’incuria e il tempo avevano contribuito ad accentuare. Ma l’organizzazione degli ingressi mette in campo un altro problema, ovvero l’orientamento della chiesa. A differenza di quanto desiderato da Antonio del Duca, che aveva suggerito un più tradizionale impianto longitudinale con ingresso da nord-ovest (ora via Cernaia), altare a sud-est (verso Termini) e sagrestia nel tepidarium, Michelangelo decise di collocare l’altare maggiore a nord-est, dove tutt’ora si trova, in asse con la rotonda, così che 243 4. Veduta del coro e del vestibolo sud-est di Santa Maria degli Angeli, da Francesco Bianchini, De Kalendario et cyclo Caesaris ac de Pascali canone S. Hippolyti martyris dissertationes duae, Romae 1703 5. S. Maria de gli Angeli, da Fioravante Martinelli, Roma ricercata nel suo sito, con tutte le curiosità, che in essa si ritruovano tanto Antiche, che Moderne […] Di nuovo corretta e accresciuta, Roma 1693. Si noti la veduta del coro la grande aula diventasse una sorta di transetto. Sebbene i contemporanei leggessero questa scelta come il tentativo di realizzare un impianto a croce greca44, la cui percezione (data l’eterogeneità degli spazi) risulta in realtà possibile solo in pianta, è probabilmente improprio cercare similitudini con edifici tradizionali e parlare di transetto e navata; sembra invece più sensato pensare a uno spazio centralizzato preceduto da tre vestiboli, senza che l’importanza di un asse rispetto all’altro fosse particolarmente ricercata45. Infine Michelangelo “fece da fondamenti la cappella maggiore con la tribuna”46, collocandola nell’area dell’antica natatio. Il 244 nodo del coro-presbiterio costituisce tutt’oggi un problema non completamente risolto, anche perché qui entrarono in gioco più direttamente le esigenze cultuali dei certosini e il collegamento con il retrostante monastero47, oltre ai rimaneggiamenti del Settecento e del tardo Ottocento. Alcune rappresentazioni possono però aiutare a chiarire parzialmente la situazione, a partire da quella pubblicata da Bernardo Gamucci nel 1565 (cat. 101). In essa si nota sulla sinistra l’altare – ligneo, secondo Matteo Catalani – collocato sotto il grande arco che metteva in comunicazione l’aula principale con il presbiterio. Questo era schermato da due colonne (disegnate solo in pianta) di cui si ha memoria anche nell’incisione di Franzini (cat. 102) e che servivano a isolare almeno parzialmente la zona riservata ai monaci da quella destinata ai fedeli. Ma questa schermatura probabilmente non fu sufficiente e l’altare rimase in quella posizione solo fino al 159648, quando venne spostato verso il fondo del presbiterio, come si nota anche in entrambe le versioni dell’incisione presente nelle edizioni della Roma ricercata di Fioravante Martinelli (cat. 103; fig. 5). Queste mostrano che il presbiterio era costituito da un primo tratto di parete liscia con piccole finestrelle e forse gli stalli del coro a ribalta, e dall’abside vera e propria di forma apparentemente circolare. Si è per lungo tempo ritenuto che Michelangelo avesse realizzato un presbiterio più piccolo con terminazione circolare e che l’attuale fosse il frutto dei restauri di Vanvitelli (cat. 104), ma studi recenti dimostrerebbero che in realtà già con Michelangelo il presbiterio aveva un profilo poligonale e le stesse dimensioni di oggi49. Una volta rimosso il diaframma del presbiterio, il coro dei monaci dovette esser spostato e già entro il 1628 era stato collocato nell’attuale cappella dell’Epifania per isolare completamente i certosini dai fedeli50. Nonostante l’incarico a Michelangelo risalisse al 1561, sembra che i lavori avessero inizio solo nell’aprile del 1563 e furono conclusi nel giugno di tre anni dopo51, quando ormai Michelangelo era già morto. Essi riguardarono principalmente il cornicione e i capitelli in travertino per il coro, coperto con una volta in getto, alcune cornici per finestre e per un portale grande, sempre in travertino, e la sostituzione di uno degli otto grandi capitelli delle colonne in granito. L’esiguità della spesa (circa 17.500 scudi) fa supporre che le trasformazioni progettate da Michelangelo fossero veramente limitate a pochi e puntuali interventi. Se si è ultimamente voluto vedere in questo atteggiamento un “minimalismo” che l’architetto avrebbe concepito come efficace soluzione conservativa per le terme52, non si deve comunque dimenticare che per Michelangelo lasciare i ruderi quasi come li aveva trovati non va necessariamente inteso come un segnale di venerazione per il passato53. Stendhal, ed. Colesanti 2004, p. 235. 2 Ivi, p. 370. 3 Bottari 1754, p. 45. 4 Bedon 2008, pp. 194-198. 5 In Corpus, vol. IV, p. 115 si suggerisce di riferire al progetto per Santa Maria degli Angeli un disegno del British Museum (inv. 1947-7-13-33a; Corpus 623); l’ipotesi non è condivisa in B. Contardi, scheda 29, in Argan, Contardi 1990, p. 349. 6 In particolare, sull’intervento michelangiolesco, cfr. Pasquinelli 1925; Tolnay 1930, pp. 18-22; Schiavo 1953, pp. 224-242; Siebenhüner 1955; Ackerman 1961, vol. I, pp. 123-128, vol. II, pp. 132-137; Zevi 1964, pp. 761-812; F. Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 959-964; Ackerman 1986, pp. 331334; Ackerman 1988, pp. 314-320; B. Contardi, scheda 31, in Argan, Contardi 1990, pp. 354-357; Pacciani 1990; Cangemi 1995; Cangemi 2002. 7 Candilio 1999. 8 Matthiae 1982, pp. 10, 16. 9 Citato in Pastor 1944-1963, vol. VII, p. 575. Il problema della destinazione d’uso non sembra immediatamente risolto con la fondazione della chiesa, perché un Avviso del 6 agosto 1561 ricorda che il papa aveva proibito “che in detto luoco vi si vada a giocar, né con cocchi né cavalli”, ivi, p. 576. 10 Citato in Marcotti 1881, p. 576. 11 Non è qui possibile fornire un elenco esaustivo dei disegnatori, basti ricordare almeno Giuliano da Sangallo, Baldassarre Peruzzi, Andrea Palladio, Stefano Dupérac, Hieronymus Cock e Hendrik van Cleef; per il disegno di Giovanni Antonio Dosio presente in mostra, con la sezione prospettica dell’interno delle terme di Diocleziano, cfr. nota infra; per il rapporto degli architetti con l’antico, Fancelli 1985. 12 Meliu 1950, pp. 13-16. 13 Matteo Catalani, Historia della erettione della Chiesa di S. Maria degli Angeli alle Terme di Diocleziano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 8735; su del Duca, cfr. anche Bernardi Salvetti 1965. 14 La vicenda è più dettagliatamente 1 gli anni dal 1534 al 1564 raccontata in Schiavo 1953, pp. 225228. 15 Solo tre dei “Sette Angeli” nominati nel culto figurano come canonici (cioè Michele, Gabriele e Raffaele), mentre gli altri appaiono biblicamente apocrifi; cfr. De Maio 1981, p. 329. 16 Archivio di Stato di Roma (in seguito ASR), Segretari e Cancellieri della Reverenda Camera Apostolica, vol. 74, Atto di consenso del Popolo Romano (14 ago. 1561), cfr. la trascrizione in Schiavo 1953, pp. 282-283. 17 Meliu 1950, p. 101. 18 De Maio 1986, p. 56. 19 Ringrazio Richard Schofield per avermi gentilmente segnalato l’informazione relativa all’opera di Conrad Braun, posseduta anche dal cardinale Borromeo. 20 Giussano 1613, p. 21. 21 Pastor 1944-1963, vol. VII, p. 574; l’ambasciatore ferrarese Gerolamo Casale ricorda che nella congregazione del 2 luglio 1561 il papa si era “difuso col commandar alli Cardinali che debbino rifar li titoli delle lor chiese che rovinano”, cfr. la trascrizione in Pacciani 1990, p. 126. 22 Sulle scelte politiche a scala urbana di Pio IV; cfr. Fagiolo, Madonna 1972; Fagiolo, Madon00000000na 1973; Gamrath 1976. 23 Tra i proprietari figuravano il cardinale Ippolito d’Este, il patriarca di Aquileia Marino Grimani, il cardinale Rodolfo Pio da Carpi, il vescovo di Vercelli Pierfrancesco Ferreri e il cardinale Jean du Bellay; cfr. Fagiolo, Madonna 1973, pp. 201-202; Cangemi 2002, pp. 36-37. 24 Ackerman 1988, pp. 99-100 ipotizza un coinvolgimento di Michelangelo anche nell’impresa di via Pia. 25 Pio IV “viam per dorsum Quirinalis ad portam Quirinalem tendentem, angustam prius et tortuosam ampliari, dirigi et muniri portamque ipsam a fundamentis in magnificentiorem formam restitutam ad publicam omnium utilitatem curavit”; ASR, Segretari e Cancellieri della Reverenda Camera Apostolica, vol. 74, Atto di cessione delle terme ai certosini (5 ago. 1561), trascrizione in Schiavo 1953, p. 278. 26 Meliu 1950, p. 32; Fagiolo, Madonna 1972, p. 387. Schiavo 1953, p. 233; la lastra pavimentale è ancora esistente. 28 Ivi, p. 296, con trascrizione del documento di commissione. 29 Raspe 2007, pp. 248-249. 30 Pastor 1944-1963, vol. VII (1950), p. 577. 31 Lanciani 1988-2002, vol. III, pp. 149-153. 32 Per il rapporto tra i Borromeo e Santa Maria degli Angeli, cfr. Bernardi Salvetti 1970; anche il cardinale Francesco Alciati, maestro di Carlo Borromeo, venne sepolto nella basilica. 33 ASR, Segretari e Cancellieri della Reverenda Camera Apostolica, vol. 74, Atto di concessione delle terme (5 ago. 1561), cfr. trascrizione in Schiavo 1953, p. 278. 34 Atto di consenso del Popolo Romano (14 ago. 1561), cfr. ivi, pp. 282-283. 35 Siebenhüner 1955, p. 190, sulle cerimonie a Roma come strumento di risoluzione simbolica di conflitti di natura sociale e politica, cfr. Ingersoll 1985, p. 23. 36 Sul rapporto tra il papa e i certosini, cfr. in part. Pacciani 1990; l’idea di installare una certosa presso l’antica chiesa di San Ciriaco alle Terme risalirebbe addirittura all’epoca di san Bruno, fondatore dell’ordine (fine XI secolo); altre proposte, nuovamente fallite, si ebbero nel XIV secolo; cfr. Righetti Tosti-Croce 1993, p. 625; Meliu 1950, pp. 18-19. 37 Matteo Catalani racconta che il cardinal Simonetta promise 2000 scudi al mese mentre il cardinale Alessandro Farnese donò alcuni terreni; Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 8735, c. 85r; inoltre il papa mantenne i privilegi che i certosini avevano in Santa Croce; essi ricevettero anche i proventi delle tasse che l’ordine impose alle altre certose; Hogg 1984, p. 7. 38 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 111 [ed. 1568]: “E prevalse un suo disegno che fece, a molti altri fatti da eccellenti architetti”; è molto più verosimile, vista la fama goduta da Michelangelo, che egli fosse stato prescelto direttamente dal papa, come racconta Matteo Catalani, cfr. Schiavo 1953, p. 228. 39 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 111 [ed. 1568]. 27 Il testo di Catalani è citato in Schiavo 1953, p. 231. 41 Per Catalani, Michelangelo progettò di “restringerla [la chiesa] e levar le cappelle basse, sfondate di tetto, e così veniva a stare la parte più alta intiera”, citato in Schiavo 1953, p. 228. 42 La fonte è sempre Catalani, in Schiavo 1953, p. 231. 43 Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 111 [ed. 1568]. 44 Da Catalani in Schiavo 1953, p. 228: “Li parve disegnarla in croce”; sull’impianto a croce greca si sofferma anche Ackerman 1988, p. 126. 45 Siebenhüner 1955, p. 194; negli anni settanta del Cinquecento fu accentuata l’importanza dell’asse rotondapresbiterio mediante l’apertura di alcune cappelle laterali; la chiusura settecentesca dei due vestiboli laterali e la loro trasformazione in cappelle ha fatto pensare che Michelangelo allestisse originariamente un impianto longitudinale e che Vanvitelli avesse poi ruotato l’orientamento di 90 gradi; l’infondatezza di tale supposizione è stata dimostrata per primo da Pasquinelli 1925. 46 Catalani in Schiavo 1953, p. 231. 47 Il cosiddetto “chiostro di Michelangelo” fu iniziato solo nel 1565; non può escludersi che l’architetto abbia lasciato qualche consiglio riguardante l’impostazione generale degli altri ambienti del monastero, ma finora non è emerso alcun elemento che permetta di sostenere di tale ipotesi; sul chiostro, cfr. Magnani Cianetti 2000. 48 Catalani in Schiavo 1953, p. 231. 49 Cangemi 1995, pp. 67, 77-88; l’autrice ha potuto osservare il cantiere di restauro della copertura del presbiterio. 50 Tale osservazione si può desumere dalla visita apostolica dell’anno 1628; Cangemi 2002, p. 52. 51 Lo si ricava dai documenti citati da Lanciani 1988-2002, vol. III, p. 149 e parzialmente trascritti in Cangemi 2002, pp. 119-123. 52 Karmon 2008. 53 Ackerman 1988, p. 127. 40 245 CATALOGO 1. Marcello Venusti (attribuito) Ritratto di Michelangelo post 1535, olio su tela, 36 × 27 cm Firenze, Casa Buonarroti, 188 248 2. Daniele da Volterra Testa di Michelangelo (su busto di marmo bigio successivo) 1564-1566, bronzo (testa), altezza 31 cm Roma, Musei Capitolini, inv. MC 1165/S 3. Michelangelo Buonarroti Sonetto autografo con autoritratto nell’atto di dipingere la volta della cappella Sistina 1508-1512, penna e inchiostro, 283 × 200 mm Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, 111 gli anni dal 1505 al 1516 249 4. Michelangelo Buonarroti Studi di nudi e di un cornicione per la volta della cappella Sistina post 1508, matita nera, penna e inchiostro, 271 × 414 mm Firenze, Casa Buonarroti, 75 F 5. Anonimo artista (da Michelangelo Buonarroti) Riproduzione della volta della cappella Sistina secondo quarto del secolo XIX cromolitografia inserita sul piano di un tavolo coevo di manifattura toscana, 119 × 60,6 × 96,5 cm Firenze, Casa Buonarroti, inv. 544 250 gli anni dal 1505 al 1516 251 6. Giorgio Vasari il Giovane Finestra a edicola della cappella dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo, fine XVI secolo penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, 390 × 270 mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 4686 A 252 7. Progetto di ricostruzione del monumento dei Fasti Consolari (da Michelangelo Buonarroti) xilografia, 147 × 197 mm (doppia pagina) in Bartolomeo Marliani, Consulum, dictatorum censorumque romanorum series una cum ipsorum triumphis quae marmoribus scalpta in foro reperta est atque in Capitolium translata [Valerio e Luigi Dorico], Romae 1549, pp. 8-9 Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. 5.11.550 gli anni dal 1505 al 1516 253 8a. Michelangelo Buonarroti Rilievi di basi, capitelli e mensole (copie dal Codice Coner) circa 1516, matita rossa, 285 × 425 mm Firenze, Casa Buonarroti, 1 A recto 9a. Michelangelo Buonarroti Studi assonometrici di trabeazioni (copie dal Codice Coner) circa 1516, matita rossa, 289 × 430 mm Firenze, Casa Buonarroti, 2 A recto 8b. Michelangelo Buonarroti Studi di cornici, colonne, piedistalli e capitelli (copie dal Codice Coner) circa 1516, matita rossa, 285 × 425 mm Firenze, Casa Buonarroti, 1 A verso 9b. Michelangelo Buonarroti Studi di cornici, basi, trabeazioni e schizzo del prospetto del mausoleo dei Plauzi con relativi dettagli (copie dal Codice Coner) circa 1516, matita rossa, 289 × 430 mm Firenze, Casa Buonarroti, 2 A verso 254 gli anni dal 1505 al 1516 255 10a. Michelangelo Buonarroti Studi assonometrici di cornici, trabeazioni e di un capitello (copie dal Codice Coner) circa 1516, matita rossa, 248 × 431 mm Firenze, Casa Buonarroti, 3 A recto 11a. Michelangelo Buonarroti Studi assonometrici di cornici, trabeazioni e di una base (copie dal Codice Coner) circa 1516, matita rossa, 280 × 433 mm Firenze, Casa Buonarroti, 4 A recto 10b. Michelangelo Buonarroti Studi assonometrici di cornici e trabeazioni (copie dal Codice Coner) circa 1516, matita rossa, 284 × 431 mm Firenze, Casa Buonarroti, 3 A verso 11b. Michelangelo Buonarroti Studi assonometrici di capitello, base e trabeazioni (copie dal Codice Coner) circa 1516, matita rossa, 280 × 433 mm Firenze, Casa Buonarroti, 4 A verso 256 gli anni dal 1505 al 1516 257 12. Michelangelo Buonarroti Studi del portale e della finestra del cosiddetto tempio della Sibilla a Tivoli, alzato dell’arco di Costantino con dettagli dell’arco di Settimio Severo, basi dell’arco di Tito (copie dal Codice Coner) circa 1516, matita rossa, 290 × 429 mm Firenze, Casa Buonarroti, 8 A 13. Michelangelo Buonarroti Studi di capitelli e cornici circa 1516, punta di metallo, penna e inchiostro, 285 × 433 mm Firenze, Casa Buonarroti, 5 A recto 258 14. Anonimo incisore Antonio Lafrèry editore Lupa Capitolina 1552, bulino, 255 × 338 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca A.458a.R.G.F., n. 9 15. Enea Vico disegnatore e incisore Antonio Lafrèry editore Colonna di Marco Aurelio e obelisco dal mausoleo di Augusto con veduta di Roma 1543-1546, bulino, 465 × 330 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca A.458a.R.G.F., n. 48 gli anni dal 1534 al 1564 259 16. Giovan Battista da Sangallo detto il Gobbo Note e restituzioni grafiche a margine di pagina circa 1535-1545, penna e inchiostro, 322 × 220 mm in Vitruvio, De Architectura libri decem, editio princeps curata da Sulpicio da Veruli, [s.n.t.], [circa 1486-1487], cc. 130-131 Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana 50 F.1 17. Giorgio Vasari Vita di Michelangelo (pagina iniziale) impressione a stampa, 217 × 137 mm in Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti Architetti, Pittori et Scultori Italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, tomo II, p. 947 Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, B.2898.1.R. 260 gli anni dal 1534 al 1564 18. Sebastiano Serlio Frontespizio xilografia, 236 × 180 mm in Sebastiano Serlio, Extraordinario libro di architettura di Sebastiano Serlio, architetto del Re christianissimo. Nel quale si dimostrano trenta porte di opera rustica mista con diuersi ordini: & uenti di opera dilicata di diuerse specie, con la scrittura dauanti, che narra il tutto, Giouambattista Marchio Sessa & fratelli, Venetia 1566 Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, B.2783.R. 261 19. Michelangelo Buonarroti Studio per la statua di Giulio II defunto sorretta da due angeli circa 1516-1517, penna e inchiostro, 212 × 144 mm Firenze, Casa Buonarroti, 43 A verso 20. Michelangelo Buonarroti Ricordo del 21 gennaio 1517; prospetto laterale del registro superiore del monumento funebre di Giulio II, 1517 e 1518 penna e inchiostro, 223 × 317 mm Firenze, Casa Buonarroti, 69 A 262 gli anni dal 1534 al 1564 263 21. Anonimo disegnatore Veduta di Roma con lo sfondo della chiesa di San Giovanni in Laterano, schizzo del registro inferiore del monumento funebre di Giulio II in costruzione, due dettagli architettonici e uno schizzo di ornato circa 1534-1542, carboncino, penna e inchiostro, 230 × 341 mm Collezione privata 264 22. Anonimo incisore Antonio Salamanca editore Monumento funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli 1554, bulino, 480 × 390 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 66 gli anni dal 1534 al 1564 265 23a. Michelangelo Buonarroti Studi per la tomba di Cecchino Bracci, schizzi di scale, studi di figura 1544, matita nera, 192 × 199 mm Firenze, Casa Buonarroti, 19 F recto 23b. Michelangelo Buonarroti Studi per la tomba di Cecchino Bracci, schizzi di scale, studi di figura 1544, matita nera, 192 × 199 mm Firenze, Casa Buonarroti, 19 F verso 266 gli anni dal 1534 al 1564 267 24. Michelangelo Buonarroti Quattro epitaffi in onore di Cecchino Bracci inviati a Luigi del Riccio 1544, penna e inchiostro, 216 × 230 mm Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, 33 268 25. Anonimo disegnatore Tomba di Cecchino Bracci seconda metà del XVI secolo, matita nera, penna e inchiostro, 292 × 200 mm Firenze, Casa Buonarroti, inv. 533 26. Anonimo incisore Antonio Lafrèry editore Veduta di piazza del Campidoglio (Capitolii et adiacientium…) circa 1560, bulino, 405 × 530 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 67 gli anni dal 1534 al 1564 269 27. Nicolas Béatrizet disegnatore Cornelis Bos incisore Statua equestre di Marco Aurelio sul basamento di Michelangelo post 1548, bulino, 405 × 393 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 79 28. Anonimo incisore, Campidoglio 1562-1563, xilografia, 81 × 112 mm foglio sciolto tratto da Bernardo Gamucci, [Libri Quattro] Dell’Antichità Della Città Di Roma, Giovanni Varisco, Venetia 1565 Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2231 29. Anonimo (da Stefano Dupérac) Veduta di piazza del Campidoglio (rappresentata in controparte) post 1568, matita, penna e inchiostro, 163 × 175 mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2702 A 270 gli anni dal 1534 al 1564 271 30. Stefano Dupérac disegnatore e incisore Antonio Lafrèry editore Veduta di piazza del Campidoglio (Capitolii sciographia…) 1569, acquaforte, bulino, 501 × 647 mm Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe inv. MR 18308 31. Matthaeus Merian il Vecchio disegnatore e incisore Capitolium, post 1613 - ante 1640 acquaforte, 332 × 360 mm foglio sciolto tratto da Martin Zeiller [Martino Zilieri], Itinerarium Italiae nov-antiquae, Merian, Frankfurt am Mayn 1640 Collezione privata 272 gli anni dal 1534 al 1564 273 32 a-b. Francesco Villamena Sezione e fianco del capitello ionico di Michelangelo Buonarotti in Campidoglio Pianta e alzato del capitello ionico di Michelangelo Buonarotti in Campidoglio 1619, bulino, 394 × 255 mm in Alcune opere d’architettura di Iacomo Barotio da Vignola. Raccolte et poste in luce da Francesco Villamena l’anno 1617 […], [s.n.], Roma [1619], tavv. n.n., pubblicato con Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura di m. Iacomo Barozzio da Vignola. Libro primo, et originale, [s.n.], Roma 1617 Vicenza, Biblioteca del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, Collezione Guglielmo Cappelletti, CAP D XVII 2 33. Anonimo incisore Capitolii Novi Descriptio 1620, bulino, 202 × 297 mm foglio sciolto tratto da Giacomo Lauro, Antiquae Urbis Splendor Giacomo Lauro, Roma 1620 Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 9738 274 gli anni dal 1534 al 1564 275 34. Nicolaus van Aelst disegnatore e incisore con aggiornamenti di Giovan Giacomo de’ Rossi editore Capitolii Romani vera imago ut nunc est 1650, acquaforte, bulino, 378 × 552 mm Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2146 35. Anonimo artista Veduta di piazza del Campidoglio 1650, olio su tela, 73 × 99 cm Roma, Museo di Roma, inv. Dep. 75, PV 3011 276 gli anni dal 1534 al 1564 277 36. Gabriel Perelle disegnatore e incisore Piazza del Campidoglio, circa 1650 acquaforte, 194 × 274 mm Collezione privata 37. Giuseppe Tiburzio Vergelli disegnatore e incisore Le Capitole, 1688 acquaforte, 235 × 389 mm foglio sciolto tratto da Giuseppe Tiburzio Vergelli Nuovo Splendore di Roma moderna, Roma 1688 Collezione privata 278 gli anni dal 1534 al 1564 279 38. Giovanni Battista Falda disegnatore e incisore Altra veduta del Campidoglio 1665-1667, acquaforte, 260 × 393 mm foglio sciolto tratto da Giovanni Battista Falda, Il nuovo teatro delle fabbriche ed edifici in prospettiva di Roma moderna sotto il felice pontificato di N. S. Papa Alessandro 7, Giovan Giacomo de Rossi, Roma s.d. [1665-1667] Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2353 39. Lievin Cruyl disegnatore e incisore Pieter Sluyter editore Prospectus Capitolii Romani et Templi Aræ Cæli Conventus Fratrum Minorum 1697, acquaforte, 384 × 493 mm foglio sciolto tratto da Johannes Georgius Graevius, Thesaurus Antiquitatum Romanarum, Utrecht-Leida 1697, vol. IV Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 9923 280 gli anni dal 1534 al 1564 281 40. Anonimo incisore Facciata del Palazzo Senatorio (Le Palais du Capitole) 1706, acquaforte, 137 × 191 mm foglio sciolto tratto da De Rogissart, Les Delices d’Italie ou Description exacte de ce Pays, De ses principales Villes et De toutes les raretez, qu’il contient chez Pierre Van der Aa, Leide 1706, vol. II, p. 259 Collezione privata 282 41. Anonimo incisore Facciata del Palazzo dei Conservatori (Le Maison des Magistrats nommés Conservateurs) 1706, acquaforte, 137 × 173 mm foglio sciolto tratto da De Rogissart, Les Delices d’Italie ou Description exacte de ce Pays, De ses principales Villes et De toutes les raretez, qu’il contient chez Pierre Van der Aa, Leide 1706, vol. II, p. 262 Collezione privata 42. Prospero Boccapaduli Inventario delle figure donate da N.S. Pio V al Po[polo] Ro[mano] fatto questo dì XI de feb[braio] 1566 11 e 27 febbraio 1566, fascicolo manoscritto, 280 × 105 mm (fascicolo chiuso), 280 × 205 (fascicolo aperto) Roma, Archivio Storico Capitolino, Fondo Boccapaduli Armadio II, Mazzo IV, fascicolo n. 35 gli anni dal 1534 al 1564 283 43. Anonimo scultore romano Statua di Giove II secolo d.C., marmo pario, altezza 212 cm Roma, Musei Capitolini, in deposito dal 1956 a Palazzo Braschi (Museo di Roma), inv. MC 59 284 44. Lorenzo Vaccari editore Iouis in Capitolii fastigio statis marmorea statua incisione, 256 × 192 mm in Lorenzo Vaccari, Antiquarum Statuarum Urbis Romae quae in publicis privatisque locis visuntur icones, Lorenzo Vaccari, Roma 1584, tav. n.n. Roma, Biblioteca Hertziana - Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte, Ze 1145-1840 raro 45. Giovanni Battista Cavalieri disegnatore e incisore Iouis signum marmoreum Romae in Capitolio incisione, 276 × 205 mm in Giovanni Battista Cavalieri, Antiquarum Statuarum Urbis Romae primus et secundus liber [s.n.], Roma 1585, tav. 76 Roma, Biblioteca Hertziana - Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte, Ze 1145-1700 raro gli anni dal 1534 al 1564 46. Giovanni Battista Cavalieri disegnatore e incisore Mars in Capitolio [in controparte] incisione, 221 × 135 mm in Giovanni Battista Cavalieri Antiquarum Statuarum Urbis Romae liber tertius et quartius, [s.n.], Roma 1594, tav. 32 Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.4.E.35.1 bis 285 47. Philippe Thomassin disegnatore e incisore Mars in Capitolio incisione, 415 × 265 mm in Philippe Thomassin, Antiquarum statuarum Urbis Romae liber primus, Iacomo Rossi, Roma s.d. [circa 1608-1615], tav. 32 Roma, Musei Capitolini, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte, inv. 15259 286 48. Philippe Thomassin disegnatore e incisore [Pudicitia] in Capitolio incisione, 415 × 265 mm in Philippe Thomassin, Antiquarum statuarum Urbis Romae liber primus, Iacomo Rossi, Roma s.d. [circa 1608-1615], tav. 49 Roma, Musei Capitolini, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte, inv. 15259 49. Michelangelo Buonarroti Studio di cornice data incerta, matita rossa, 93 × 106 mm Firenze, Casa Buonarroti, 90 A gli anni dal 1534 al 1564 287 50. Nicolas Béatrizet disegnatore e incisore Antonio Lafrèry editore Prospetto di palazzo Farnese 1549, bulino, 400 × 570 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 69 51. Anonimo disegnatore e incisore Antonio Lafrèry editore Cortile di palazzo Farnese 1560, bulino, 400 × 515 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 70 288 gli anni dal 1534 al 1564 289 52. Giovanni Antonio Dosio Vista del fianco meridionale di San Pietro ante 1565, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, 272 × 221 mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2536 A 53. Anonimo disegnatore Veduta di San Pietro da sud-est 1553-1554, penna e inchiostro, 184 × 206 mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 4345 A 290 gli anni dal 1534 al 1564 291 54. Assistenti di Michelangelo Buonarroti Modello ligneo dell’abside di San Pietro (già inserito nella calotta absidale del modello di Antonio da Sangallo il Giovane) 1556-1557, legno di tiglio e altre essenze larghezza 90,5 cm, altezza 50 cm, lunghezza 54 cm (misure esterne) Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro (per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano) 55. Anonimo disegnatore Pianta dell’emiciclo di San Pietro 1556-1564 (?), tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, 77 × 250 mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 93 A 292 gli anni dal 1534 al 1564 56. Anonimo disegnatore Pianta dell’emiciclo di San Pietro 1556-1564 (?), tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, 300 × 441mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 96 A 293 57. Anonimo disegnatore Alzato dell’emiciclo di San Pietro 1547-1555 (?), tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, 352 × 296 mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 95 A 58. Anonimo incisore (da Tiberio Calcagni?) Vincenzo Luchino editore Prospetto dell’abside meridionale di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco 1564, bulino, 395 × 560 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 40 294 gli anni dal 1534 al 1564 295 59. Tiberio Alfarano disegnatore e editore Natale Bonifacio incisore Almae Vrbis Divi Petri Veteris Noviqve Templi Descriptio […] 1823 [ed. orig. 1590], acquaforte, 567 × 439 mm tratta da Martino Ferrabosco, Architettura della Basilica di S. Pietro in Vaticano: opera di Bramante Lazzari, Michel Angelo Bonaroti ed altri celebri architetti espressa in XXXII tavole Nella Stamperia De Romanis, Roma 1812 (III ed., ed. orig. Roma 1620) Città del Vaticano, Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro 60. Stefano Dupérac disegnatore e incisore Antonio Lafrèry editore Pianta di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco 1569, acquaforte, 431 × 316 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 41 296 gli anni dal 1534 al 1564 297 61. Stefano Dupérac disegnatore e incisore Antonio Lafrèry editore Prospetto laterale di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco s.d., acquaforte, 405 × 534 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 30 62. Stefano Dupérac disegnatore e incisore Antonio Lafrèry editore Sezione di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco s.d., acquaforte, 405 × 510 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 83 298 gli anni dal 1534 al 1564 299 63. Jacob Bos incisore Antonio Lafrèry editore Centina di Antonio da Sangallo per gli archi delle volte di San Pietro riutilizzata da Michelangelo 1561, bulino, 400 × 505 mm in Speculum Romanae Magnificentiae Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 39 64. P. van Tienen disegnatore Hieronymus Cock incisore ed editore Aedis D. Petri Romane deformatio circa 1547, acquaforte, 240 × 330 mm Anzio, Biblioteca Clementina 300 gli anni dal 1534 al 1564 301 65. Anonimo disegnatore Planimetria di San Pietro con il progetto di facciata di Michelangelo circa 1565-1570, tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, 211 × 221 mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Collezione Santarelli 174 66. Anonimo disegnatore Planimetria di San Pietro con il progetto di facciata di Michelangelo circa 1565-1570, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, 180 × 255 mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Collezione Santarelli 175 302 gli anni dal 1534 al 1564 303 67. Michelangelo Buonarroti Dettaglio planimetrico del tamburo della cupola di San Pietro ante 1555, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, 555 × 338 mm Firenze, Casa Buonarroti, 31 A 68. Assistente di Michelangelo Buonarroti (dal modello della cupola di San Pietro) Studio della sezione della cupola di San Pietro post 1561, matita nera, penna e inchiostro, 159 × 162 mm Firenze, Casa Buonarroti, 35 A 304 gli anni dal 1534 al 1564 69. Michelangelo Buonarroti Schizzo a matita rossa della cupola di San Pietro primavera 1563, matita rossa, penna e inchiostro, 110 × 220 mm Città del Vaticano, Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro Armadio 7, B, 427, foglio 497 verso 305 70. Monogrammista I.C.B. incisore Antonio Lafrèry editore Monstra della Giostra fatta nel Teatro del Palazzo ridotto in questa forma dalla Sta di N. S. Pio 4° 1565, acquaforte e bulino, 435 × 575 mm Anzio, Biblioteca Clementina 71. Stefano Dupérac disegnatore e incisore Antonio Lafrèry editore La benedizione papale in piazza San Pietro 1571-1572, acquaforte, 385 × 540 mm Anzio, Biblioteca Clementina 306 gli anni dal 1534 al 1564 307 73. Giovanni Guerra disegnatore e Natale Bonifacio incisore Bartolomeo Grassi editore Disegno nel quale si rappresentano le Cerimonie d’ordine di N.S. adi 26 di Settembre 1586 in venerdì nella consacratione della Croce che s’haveva da porre sopra la Guglia già drizzata 1587, acquaforte e bulino, 500 × 365 mm Anzio, Biblioteca Clementina 72. Ambrogio Brambilla disegnatore e incisore Giovanni G. Orlandi editore Vero dissegno deli stupendi edefitii giardini boschi fontane et cose maravegliose di Belvedere in Roma 1602, bulino, 355 × 490 mm Anzio, Biblioteca Clementina 308 gli anni dal 1534 al 1564 309 74. Michelangelo Buonarroti Studio per cornice trabeata di finestra e studio planimetrico per un palazzo circa 1557-1559, matita nera, penna e inchiostro, 271 × 402 mm Firenze, Casa Buonarroti, 117 A 310 75. Michelangelo Buonarroti Studio planimetrico per un palazzo circa 1557-1559, matita nera, penna e inchiostro, 253 × 354 mm Firenze, Casa Buonarroti, 118 A gli anni dal 1534 al 1564 311 76. Michelangelo Buonarroti Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini 1559, stilo, compasso, matita nera, inchiostro acquerellato, biacca, 173 × 278 mm Firenze, Casa Buonarroti, 123 A 312 77. Michelangelo Buonarroti Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini 1559, stilo, compasso, matita rossa, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, 425 × 297 mm Firenze, Casa Buonarroti, 120 A gli anni dal 1534 al 1564 313 78. Michelangelo Buonarroti Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini 1559, stilo, compasso, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, 417 × 376 mm Firenze, Casa Buonarroti, 124 A 79. Michelangelo Buonarroti Schizzi planimetrici e di alzato per San Giovanni dei Fiorentini 1559, matita nera, 146 × 172 mm Firenze, Casa Buonarroti, 36 A 314 gli anni dal 1534 al 1564 315 80. Monogrammista RD disegnatore Valérian Regnard incisore Prospetto e sezione del modello di San Giovanni dei Fiorentini 1683, acquaforte, 366 × 498 mm tavola tratta da Valerianus Regnartius, Praecipua Urbis Romanae Templa, Insignium Romae templorum, Io. Iacobo de Rubeis editore Roma 1684, tav. 48 Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte 81. Michelangelo Buonarroti Schizzi architettonici e studio planimetrico per la cappella Sforza 1562, matita nera, 185 × 273 mm Firenze, Casa Buonarroti, 104 A 316 gli anni dal 1534 al 1564 317 82. Michelangelo Buonarroti Schizzi architettonici e studi per la cappella Sforza 1562, matita nera, 179 × 227 mm Firenze, Casa Buonarroti, 109 A 318 83. Michelangelo Buonarroti Schizzi planimetrici e studio di tomba parietale per la cappella Sforza circa 1562, matita nera, tracce di penna e inchiostro, 350 × 200 mm Firenze, Casa Buonarroti, 103 A gli anni dal 1534 al 1564 319 84. Ottaviano Mascherino Pianta del palazzo papale di Santa Maria Maggiore con l’antica sagrestia e la cappella Sforza circa 1585, penna e inchiostro, pastello, inchiostro acquerellato, 440 × 580 mm Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Archivio storico Fondo Ottaviano Mascarino, inv. 2427 320 85. Collaboratore di Ferdinando Fuga Pianta di Santa Maria Maggiore con progetto per la risistemazione degli ingressi delle cappelle Cesi e Sforza metà del XVIII secolo, preparazione a matita, penna e inchiostro, inchiostri acquerellati di diverso colore, 780 × 528 mm Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia Collezione Lanciani, Roma 46.XI.II.4, 31809 gli anni dal 1534 al 1564 321 86. Anonimo incisore Esterno di Santa Maria Maggiore con le cappelle Sforza e Cesi incisione, 404 × 542 mm in Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I usque ad Paulum V Pont. Max. descriptio et delineatio, Bartolomeo Zannetti, Roma 1621, tav. 69 Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.3.F.30 322 87. Anonimo incisore Spaccato di Santa Maria Maggiore con la facciata della cappella Sforza bulino, 385 × 252 mm in Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I usque ad Paulum V Pont. Max. descriptio et delineatio Bartolomeo Zannetti, Roma 1621, tav. 99 Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.2.F.15 gli anni dal 1534 al 1564 323 89. Michelangelo Buonarroti Schizzo di mostra di finestra 1561 (?), matita nera, 125 × 71 mm Firenze, Casa Buonarroti, 85 A 88. Anonimo incisore Pianta e sezione trasversale della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore in Roma bulino, 494 × 375 mm in Giovanni Giacomo de Rossi, Disegni di vari altari e cappelle delle chiese di Roma con le loro facciate, fianchi, piante e misure de’ più celebri architetti, Roma 1713, tav. 13 Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Rari Roma V.630 324 gli anni dal 1534 al 1564 325 90. Michelangelo Buonarroti Studio per il prospetto di porta Pia circa 1561, matita nera, inchiostro acquerellato, biacca, 399 × 269 mm Firenze, Casa Buonarroti, 73 A bis 326 91. Michelangelo Buonarroti Studio per il prospetto di porta Pia circa 1561, matita nera, traccia di penna e inchiostro, 111 × 80 mm Firenze, Casa Buonarroti, 84 A gli anni dal 1534 al 1564 327 92. Michelangelo Buonarroti Studio per il prospetto di porta Pia circa 1561, matita nera, 166 × 124 mm Firenze, Casa Buonarroti, 99 A 328 93. Michelangelo Buonarroti Studio per un portale e altri studi per modanature e cornici matita nera, 283 × 255 mm Firenze, Casa Buonarroti, 97 A gli anni dal 1534 al 1564 329 94. Michelangelo Buonarroti Studio per il prospetto di porta Pia circa 1561, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, 442 × 282 mm Firenze, Casa Buonarroti, 106 A 330 95. Michelangelo Buonarroti Studio per il prospetto di porta Pia circa 1561, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, 470 × 280 mm Firenze, Casa Buonarroti, 102 A gli anni dal 1534 al 1564 331 96. Giovanni Battista Montano disegnatore Prospetto e sezione di porta Pia a Roma 1635, bulino, 396 × 260 mm in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXI pubblicato con Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola Pietro Marchetti, Siena 1635 Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. I-148 97. Luigi Rossini Veduta di porta Pia incisione, 525 × 748 mm in Luigi Rossini, Le porte antiche e moderne del recinto di Roma: con le mura, prospetti e piante geometriche; con un breve cenno istorico antiquario, Scudellari, Roma 1829 Roma, Biblioteca Hertziana - Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte, Dr 335-4290 grgr raro 332 gli anni dal 1534 al 1564 333 98. Ambrogio Brambilla incisore (da Pirro Ligorio) Claudio Duchet editore Thermae Deocletianae et Maximianae inter Quirinalem et Viminalem 1582, bulino, 307 × 536 mm Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 19100 99. Giovanni Antonio Dosio disegnatore Giovanni Battista Cavalieri editore e incisore Pars anterior Diocletiani Imp. Thermarum quae solis meridiae respicit 1563, bulino, 192 × 257 mm in Giovanni Battista Cavalieri, Cosmo Medici Duci Florentinor et Senens. Vrbis Romae aedificiorum illustriumquae supersunt reliquiae […], [Firenze?] 1569 Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 18493 334 gli anni dal 1534 al 1564 335 100. Giovanni Antonio Dosio Sezione prospettica dell’interno delle terme di Diocleziano ante 1561, matita rossa, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato di diverso colore, 167 × 232 mm Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2545 A 101. Giovanni Antonio Dosio disegnatore Parte di dentro delle terme di Diocletiano 1565, xilografia, 83 × 127 mm foglio sciolto tratto da Bernardo Gamucci, [Libri Quattro] Dell’Antichità Della Città Di Roma, Giovanni Varisco, Venetia 1565 Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 19285 336 gli anni dal 1534 al 1564 337 102. Girolamo Franzini La Chiesa di S. Maria de gl’Angioli. Tem[plum] S. Mariae Angelorum 1588, xilografia, 77 × 62 mm foglio sciolto tratto da Girolamo Franzini, Le Cose Maravigliose Dell’Alma Città Di Roma, Anfiteatro Del Mondo: Con Le Chiese, Et Antichità rapresentate in disegno da Girolamo Francino, Girolamo Franzini, Roma 1588 Collezione privata 338 103. Anonimo incisore S. Maria de gli Angeli 1703, xilografia, 144 × 85 mm foglio sciolto tratto da Fioravante Martinelli, Roma di nuovo esattamente ricercata nel suo sito, con tutto ciò di curioso che in esso si ritrova sì antico che moderno […], Luigi Neri, Roma 1703 Collezione privata 104. Giovanni Battista Piranesi Veduta interna della chiesa della Madonna degli Angioli detta della Certosa [foglio sciolto tratto dalla serie Vedute di Roma, rovine antiche e fontane romane] 1776, acquaforte, 564 × 826 mm Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 40677 gli anni dal 1534 al 1564 339 BIBLIOGRAFIA Abbreviazioni Corpus Charles de Tolnay, Corpus dei disegni di Michelangelo, 4 voll., Novara 1975-1980. Carteggio Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma di Giovanni Poggi, a cura di Paola Barocchi, Renzo Ristori, 5 voll., Firenze 1965-1983. Carteggio indiretto Il carteggio indiretto di Michelangelo, a cura di Paola Barocchi, Kathleen Loach Bramanti, Renzo Ristori, 2 voll., Firenze 1988-1995. Contratti I contratti di Michelangelo, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich, Firenze 2005. Ricordi I ricordi di Michelangelo, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich, Paola Barocchi, Firenze 1970. Rime Michelangiolo Buonarroti, Rime, a cura di Enzo Noè Girardi, Bari 1960. Ackerman 1951 James S. Ackerman, The Belvedere as a Classical Villa, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XIV, 1951, pp. 60-91. Ackerman 1954 James S. Ackerman, The Cortile del Belvedere, Città del Vaticano 1954. Ackerman 1956 James S. Ackerman, recensione di Herbert Siebenhüner, Das Kapitol in Rom, in “Art Bulletin”, XXXVIII, 1956, pp. 53-57. Ackerman 1961 James S. Ackerman, The Architecture of Michelangelo, 2 voll., London 1961. Ackerman 1966 James S. Ackerman, The Architecture of Michelangelo, 2 voll., London 1966. Ackerman 1968 James S. Ackerman, L’architettura di Michelangelo, Torino 1968. Ackerman 1986 James S. Ackerman, The Architecture of Michelangelo, with a catalogue of Michelangelo’s works by James S. Ackerman and John Newman, ChicagoHarmondsworth 1986. Ackerman 1988 James S. Ackerman, L’architettura di Michelangelo, Torino 1988. Ackerman 2008 James S. Ackerman, Il libro e il mecenate: la Biblioteca Medicea Laurenziana di Michelangelo, in “FMR”, nuova serie, 26, 2008, pp. 45-67. Adinolfi 1859 Pasquale Adinolfi, La Portica di San Pietro ossia Borgo nell’età di mezzo: nuovo saggio topografico dato sopra pubblici e privati documenti, Roma 1859. Agosti, Farinella 1987a Giovanni Agosti, Vincenzo Farinella (a cura di), Michelangelo, Studi di antichità dal Codice Coner, Torino 1987. Agosti, Farinella 1987b Michelangelo e l’arte classica, a cura di Giovanni Agosti, Vincenzo Farinella, catalogo della mostra (Firenze, 15 aprile - 15 ottobre), Firenze 1987. Alberti, ed. Bartoli 1550 L’architettura di Leonbatista Alberti tradotta in lingua fiorentina da Cosimo Bartoli gentil’huomo & accademi- 342 co fiorentino. Con la aggiunta de disegni, Firenze 1550. Alberti, ed. Orlandi 1966 Leon Battista Alberti, L’architettura (De Re Aedificatoria), testo latino e traduzione a cura di Giovanni Orlandi, introduzione e note di Paolo Portoghesi, 2 voll., Milano 1966. Albertoni 1993 Margherita Albertoni, Le statue di Giulio Cesare e del Navarca, in “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, XCV, 1993, pp. 175-183. Aldovrandi 1556 Ulisse Aldrovandi, Delle Statue Antiche, che per tutta Roma, in diversi luoghi, e case si veggono, in Mauro 1556. Alfarano 1914 Tiberio Alfarano, De Basilicae Vaticanae antiquissima et nova structura, a cura di Michele Cerrati, Roma 1914. Alker 1921 Hermann Reinhard Alker, Die Portalfassade von St. Peter in Rom nach dem Michelangeloentwurf, im zusammenhang mit der Gesamtarchitektur des Domes, Diss. Technischen Hochschule Karlzruhe, 1921. Allegri, Cecchi 1980 Ettore Allegri, Alessandro Cecchi, Palazzo Vecchio e i Medici, Firenze 1980. Almagià 1916 Roberto Almagià, La cartografia del Lazio nel Cinquecento, in “Rivista geografica italiana”, XXIII, 1, 1916, pp. 25-44. Almagià 1952 Roberto Almagià (a cura di), Pitture murali della Galleria della Carte geografiche, Città del Vaticano 1952. Ambrogi 1995 Annarena Ambrogi, Vasche di età romana in marmi bianchi e colorati, Roma 1995. reliefs of Marcus Aurelius, in “Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instuts. Römische Abteilung”, XCI, 1984, pp. 141-205. Anselmi 1990 Alessandra Anselmi, La decorazione scultorea della facciata di S. Maria Maggiore a Roma. Un inedito manoscritto con memoria del programma iconografico settecentesco, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 40, 1990, pp. 61-80. Antinori 2002 Aloisio Antinori, Caravaggio nel conflitto tra Onorio Longhi e Stefano Longhi, Caravaggio nel IV centenario della cappella Contarelli, a cura di Caterina Volpi, atti del convegno internazionale di studi (Roma, 24-26 maggio 2001), Città di Castello 2002, pp. 97-104. Apollonj Ghetti 1968 Fabrizio M. Apollonj Ghetti, Le case di Michelangelo in Via dei Fornari a Roma, in “L’Urbe”, XXXI, 1, 1968, pp. 13-26. Argan 1964 Giulio Carlo Argan, La tomba di Giulio II, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 61-74. Argan 1990 Giulio Carlo Argan, Palazzo Farnese, in Argan, Contardi 1990, pp. 239251. Argan, Contardi 1990 Giulio Carlo Argan, Bruno Contardi, Michelangelo architetto, Milano 1990. Armellini 1891 Mariano Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma 1891. Arndt, Lippold 1893-1947 Paul Arndt, Georg Lippold (a cura di), Photographische Einzelaufnahmen antiker Sculpturen [EA], München 1893-1947. Arrigoni, Bertarelli 1939 Paolo Arrigoni, Achille Bertarelli, Piante e vedute di Roma e del Lazio conservate nella Raccolta delle stampe e dei disegni del Castello Sforzesco, Milano 1939. Androsov, Baldini 2000 L’Adolescente dell’Ermitage e la Sagrestia Nuova di Michelangelo, a cura di Sergej Androsov, Umberto Baldini, catalogo della mostra (Firenze, 9 maggio - 10 luglio; San Pietroburgo, 12 settembre - 12 novembre 2000), Siena 2000. Ashby 1904 Thomas Ashby, Sixteenth Century Drawings of Roman Buildings Attributed to Andreas Coner, in “Papers of the British School at Rome”, 2 voll., 1904, vol. II, pp. 1-96 (con tavole). Angelicoussis 1984 Elizabeth Angelicoussis, The panel Ashby 1914 La Campagna romana al tempo di Paolo III: mappa della Campagna romana del 1547 di Eufrosino Della Volpaia riprodotta dall’unico esemplare esistente nella Biblioteca Vaticana, a cura della Biblioteca Vaticana e con introduzione di Thomas Ashby, Roma 1914. ti e degli Uffizi, 3 voll., Firenze 19621964. Aurigemma 2004 M. Giulia Aurigemma, Residenze cardinalizie tra inizio e fine del ’400, in Simoncini 2004, vol. II, pp. 117158. Barocchi 1989 Le due Cleopatre e le “teste divine” di Michelangelo, a cura di Paola Barocchi, catalogo della mostra (Firenze, 9 marzo - 10 aprile 1989), Firenze 1989. Baglione 1639 Giovanni Baglione, Le nove chiese di Roma, Roma 1639. Baldacci 1955 Luigi Baldacci, Lineamenti della poesia di Michelangelo, in “Paragone”, 72, 1955, pp. 27-45. Baldinucci, ed. Ranalli 1845-1847 Filippo Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua, a cura di Ferdinando Ranalli, 5 voll., Firenze 1845-1847. Barbieri, Puppi 1964 Franco Barbieri, Lionello Puppi (a cura di), Tutta l’architettura di Michelangelo, Milano 1964. Bardeschi Ciulich 1977 Lucilla Bardeschi Ciulich, Documenti inediti su Michelangelo e l’incarico di San Pietro, in “Rinascimento”, XVII, 1977, pp. 235-275. Bardeschi Ciulich 1983 Lucilla Bardeschi Ciulich, Documenti inediti su Michelangelo architetto maggiore di San Pietro, in “Rinascimento”, XXIII, 1983, pp. 173-186. Bardeschi Ciulich 1989 Costanza ed evoluzione nella scrittura di Michelangelo, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich, catalogo della mostra (Firenze, 29 luglio - 30 ottobre 1989), Firenze 1989. Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2000 Michelangelo. Grafia e biografia, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich, Pina Ragionieri, catalogo della mostra (Milano, 15 marzo - 18 giugno 2000), Milano 2000. Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2001 Vita di Michelangelo, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich, Pina Ragionieri, catalogo della mostra (Firenze, 18 luglio 2001 - 7 gennaio 2002), Firenze 2001. Barocchi 1962-1964 Paola Barocchi, Michelangelo e la sua scuola. I disegni della Casa Buonarro- bibliografia Barocchi 1971-1977 Scritti d’Arte del Cinquecento, a cura di Paola Barocchi, 3 voll., Milano 1971-1977. Bartolozzi, Zandri 1999 Gabriele Bartolozzi Casti, Giuliana Zandri, San Pietro in Vincoli, Roma 1999. Basile 1984 Giuseppe Basile, Appunti di storia conservativa: gli interventi cinquecenteschi, in Marco Aurelio. Mostra di cantiere, Roma 1984. Battisti 1961 Eugenio Battisti, Disegni cinquecenteschi per San Giovanni dei Fiorentini, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, 31-48, 1961, pp. 185-194. Bedon 1995 Anna Bedon, Le incisioni di Du Pérac per S. Pietro, in “Il disegno di architettura”, 12, 1995, pp. 5-11. Bedon 1999 Anna Bedon, Giovan Battista Montano, in Il giovane Borromini. Dagli esordi a San Carlo alle Quattro Fontane, a cura di Manuela Kahn-Rossi, Marco Franciolli, catalogo della mostra (Lugano, 5 settembre - 14 novembre 1999), Milano 1999, pp. 300-303. Bedon 2008 Anna Bedon, Il Campidoglio: storia di un monumento civile nella Roma papale, Milano 2008. Bedon, Burns, Beltramini 1995 Anna Bedon, Guido Beltramini, Howard Burns (a cura di), Questo: disegni e studi di Manfredo Tafuri per la ricostruzione di edifici e contesti urbani rinascimentali, Vicenza 1995. Bell 2000 Brian Bell, The Pressures of Paradox: Michelangelo and the Sforza Chapel, in Conventions of Architectural Drawings: Representation and Misrepresentation, a cura di Wolfgang Jung, James S. Ackerman, atti del congresso (Cambridge Mass. 1997), Cambridge (Mass.) 2000, pp. 67-89. Belli 2006 Gianluca Belli, “Pulchriora Latent”: una nuova fonte iconografica per la storia di Palazzo Pitti, in “Opus Incertum”, I, 1, 2006, pp. 91-97. Bellini 1995 Federico Bellini, L’interno della basilica Liberiana nel rifacimento di Ferdinando Fuga, in “Palladio”, 8, 1995, pp. 49-62. Bellini 2001 Federico Bellini, I grandi cantieri: Campidoglio, San Pietro, Studium Urbis, in Conforti, Tuttle 2001, pp. 66-93. Bellini 2002 Federico Bellini, La basilica di San Pietro in Vaticano, in Tuttle et al. 2002, pp. 300-306. Bellini 2006 Federico Bellini, Da Michelangelo a Giacomo Della Porta, in Petros eni. Pietro è qui, a cura di Maria Cristina Carlo-Stella et al., catalogo della mostra (Città del Vaticano, 11 ottobre 2006 - 8 marzo 2007), Roma 2006, pp. 81-85. Bellini 2008 Federico Bellini, La cupola di San Pietro da Michelangelo a Della Porta, in Satzinger, Schütze 2008, pp. 175194. Belluzzi 1598 Giovan Battista Belluzzi, Nuova inventione di fabricar fortezze, Venezia 1598. Belluzzi 2004 Amedeo Belluzzi, Il tema delle finestre inginocchiate nell’architettura di Bartolomeo Ammannati, in Deanna Lenzi (a cura di), Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci, Bologna 2004, pp. 137-144. Pietro Vaticano di Antonio da Sangallo il Giovane, in Antonio da Sangallo il Giovane - La vita e l’opera. Atti del Congresso di Storia dell’Architettura. Roma 19-21 febbraio 1986, Roma 1986, pp. 157-174. Benedetti 2001 Sandro Benedetti, Il Palazzo Nuovo nella Piazza del Campidoglio dalla sua edificazione alla trasformazione in museo, Roma 2001. Bentivoglio 1975 Enzo Bentivoglio, Disegni nel “libro” di Giuliano da Sangallo, collegabili a progetti per il San Giovanni dei Fiorentini a Roma, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 19, 2, 1975, pp. 251-260. Bentivoglio 1997 Enzo Bentivoglio, Tiberio Alfarano: le piante del vecchio S. Pietro sulla pianta del nuovo edita dal Dupérac, in Spagnesi 1997, pp. 247-254. Benzi 1990 Fabio Benzi, Sisto IV Renovator Urbis. Architettura a Roma 1471-1484, Roma 1990. Bernardi Salvetti 1965 Caterina Bernardi Salvetti, S. Maria degli Angeli alle Terme e Antonio Lo Duca, Roma 1965. Bernardi Salvetti 1970 Caternina Bernardi Salvetti, La basilica di S. Maria degli Angeli e i cardinali Borromeo successori ed emuli di S. Carlo Borromeo, in “L’Urbe”, 6, 1970, pp. 14-21. Bertarelli 1925 Luigi Vittorio Bertarelli, Guida d’Italia del Touring Club Italiano, Italia Centrale, Roma e dintorni, Milano 1925. Belluzzi 2006 Amedeo Belluzzi, Gli interventi di Bartolomeo Ammanati a Palazzo Pitti, in “Opus Incertum”, II, 3, 2006, pp. 56-74. Berti 1985 Luciano Berti, Michelangelo. I disegni di Casa Buonarroti, schede critiche di Alessandro Cecchi e Antonio Natali, Firenze 1985. Beltramini, Burns 2008 Palladio, a cura di Guido Beltramini, Howard Burns, catalogo della mostra (Vicenza, 20 settembre 2008 - 6 gennaio 2009; Londra, 31 gennaio - 13 aprile 2009), Venezia 2008. Bertolotti 1875a Antonino Bertolotti, Documenti intorno a Michelangelo Buonarroti trovati ed esistenti in Roma, in “Archivio Storico Artistico, archeologico e letterario della città e della provincia di Roma”, I, 1, 1875, pp. 13-22. Benedetti 1973 Sandro Benedetti, Giacomo Del Duca e l’architettura del Cinquecento, Roma 1973. Benedetti 1986 Sandro Benedetti, Il modello per il S. Bertolotti 1875b Antonino Bertolotti, Documenti intorno a Michelangelo Buonarroti trovati ed esistenti in Roma (Continuazione), in “Archivio Storico Artistico, archeologico e letterario della città e 343 della provincia di Roma”, I, 2, 1875, pp. 69-77. Bertolotti 1875c Antonino Bertolotti, Documenti intorno a Michelangelo Buonarroti trovati ed esistenti in Roma (Continuazione e fine), in “Archivio Storico Artistico, archeologico e letterario della città e della provincia di Roma”, I, 3, 1875, pp. 161-166. Bertolotti 1881 Antonino Bertolotti, Artisti Lombardi a Roma nei secoli XV, XVI, XVII, 2 voll., Milano 1881. Bertucci 1986 Rita Bertucci, S. Maria di Loreto al Foro Traiano. Un confronto tra edificio realizzato e progetti in relazione agli interessi ed all’attività di Antonio il Giovane intorno al 1520, in Spagnesi 1986, pp. 265-276. Bessone Aureli 1953 I dialoghi michelangioleschi di Francisco d’Olanda, a cura di Maria Antonietta Bessone Aureli, Roma 1953. Betti 1820 Salvatore Betti, Due scritti inediti intorno il sepolcro di papa Giulio II, in “Giornale Arcadico di Scienze, Lettere ed Arti”, VI, 1820, pp. 390-398. Bettini 1964 Sergio Bettini, La fabbrica di San Pietro, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 497-509. Bevilacqua 1998 Mario Bevilacqua, Mecenatismo architettonico del cardinal Querini: Nolli, De Marchis e Fuga a S. Alessio all’Aventino, in “Palladio”, nuova serie, XI, 21, 1998, pp. 103-120. Bianchi 2001 Lorenzo Bianchi, L’antico bastione sul Gianicolo di Antonio da Sangallo il Giovane: mura contese ma poi dimenticate, in “Lazio ieri e oggi”, 37, 2001, pp. 84-86. Bianchini 1703 Francesco Bianchini, De Kalendario et cyclo Caesaris ac de Pascali canone S. Hippolyti martyris dissertationes duae, Romae 1703. Bicci 1762 Marco U. Bicci, Notizia della famiglia Boccapaduli, Roma 1762. Biondo 1544 Biondo Flavio, Roma Trionfante di Biondo da Forlì, tradotta pur hora per Lucio Fauno di latino in buona lingua volgare, Venetia 1544. 344 Birkedal Hartmann 1967 Jörgen Birkedal Hartmann, La vicenda di una dimora principesca romana. Thorvaldsen, Pietro Galli e il demolito palazzo Torlonia a Roma, Roma 1967. Bober, Rubinstein, 1986 Phyllis Pray Bober, Ruth Rubinstein, Renaissance Artists and Antique Sculpture, Oxford 1986. Bonaccorso 1996 Giuseppe Bonaccorso, I veneziani a Roma da Paolo II alla caduta della Serenissima: l’ambasciata, le fabbriche, il quartiere, in Donatella Calabi, Paola Lanaro (a cura di), La città italiana e i luoghi degli stranieri XIV-XVIII, Roma-Bari 1996, pp. 192-205. complesso dell’Aracoeli sul Colle Capitolino (IX-XIX secolo), Roma 2000. Brancia di Apricena 2002 Marianna Brancia di Apricena, Il quartiere di San Marco a Roma sulla base della documentazione otto-novecentesca: un’ipotesi ricostruttiva, in “Bollettino d’Arte”, nuova serie, VI, LXXXVII, 120, 2002, pp. 21-48. Brancia di Apricena 2007 Marianna Brancia di Apricena, La casa di Giulio Romano, “Macel de’ Corvi” e la genesi del quartiere di San Marco tra le preesistenze romane, in “Bollettino d’Arte”, nuova serie, VI, XCII, 142, 2007, pp. 103-146. Bonelli 1964a Renato Bonelli, Palazzo Farnese, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 609-650. Bredekamp 1995 Horst Bredekamp, Michelangelos Modellkritik, in Evers 1995, pp. 116123. Bonelli 1964b Renato Bonelli, La piazza capitolina, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 425446. Bredekamp 2005 Horst Bredekamp, La fabbrica di San Pietro. Il principio della distruzione produttiva, Torino 2005. Borgatti 1890a Mariano Borgatti, Castel Sant’Angelo in Roma: storia e descrizione, Roma 1890. Bredekamp 2008 Horst Bredekamp, Zwei Souveräne: Paul III und Michelangelo. Das “Motuproprio” vom Oktober 1549, in Satzinger, Schütze 2008, pp. 147157. Borgatti 1890b Mariano Borgatti, Le mura di Roma, Roma 1890. Borgatti 1931 Mariano Borgatti, Castel Sant’Angelo in Roma, Roma 1931. Borromeo 1980 A. Borromeo, voce Cesi, Federico, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXIV, Roma 1980, pp. 253-256. Borsellino 1988 Enzo Borsellino, Palazzo Corsini alla Lungara. Storia di un cantiere, Fasano di Puglia 1988. Breve Guida di Roma 1875 Breve Guida di Roma fatta compilare dalla Camera di Commercio di Roma, Roma 1875. Brodini 2006 Alessandro Brodini, Michelangelo e la volta della cappella del re di Francia in San Pietro, in “Annali di Architettura”, 17, 2005 [2006], pp. 115126. Bösel 1985 Richard Bösel, Jesuitenarchitektur in Italien (1540-1773), Wien 1985. Brodini in c.d.s. (a) Alessandro Brodini, “Carico d’anni e di pecati pieno”: Michelangelo nel cantiere della basilica di San Pietro, in Porre un limite all’infinito errore. Studi in onore di Christof Thoenes, in c.d.s. Bottari 1754 Giovanni Gaetano Bottari, Dialoghi sopra le tre arti del disegno, Lucca 1754. Brodini in c.d.s. (b) Alessandro Brodini, Michelangelo a San Pietro. Progetto, cantiere e funzione delle cupole minori, in c.d.s. Brancia di Apricena 1997-1998 Marianna Brancia di Apricena, La committenza edilizia di Paolo III Farnese sul Campidoglio, in “Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte”, 32, 1997-1998, pp. 409-478. Brothers 2002a Cammy Brothers, Architecture, History, Archeology: Drawing Ancient Rome in the Letter to Leo X and in Sixteenth-Century Practice, in Lars Jones, Louisa Matthew (a cura di), Coming About… A Festschrift for John Shearman, Cambridge (Mass.) 2002, pp. 135-140. Brancia di Apricena 2000 Marianna Brancia di Apricena, Il Brothers 2002b Cammy Brothers, Reconstruction as Design: Giuliano da Sangallo and the “palazzo de mecenate” on the Quirinal Hill, in “Annali di Architettura”, 14, 2002, pp. 55-72. Brothers 2006 Cammy Brothers, Figura e architettura nei disegni di Michelangelo, in Elam 2006, pp. 81-93. Brothers 2008 Cammy Brothers, Michelangelo, Drawing, and the Invention of Architecture, London-New Haven 2008. Brummer 1970 Hans Henrik Brummer, The Statue Court in the Vatican Belvedere, Stockholm 1970. Brunetti 2006 Oronzo Brunetti, L’ingegno delle mura. L’Atlante Lemos della Bibliothèque Nationale de France, Firenze 2006. Bruschi 1979 Arnaldo Bruschi, Michelangelo in Campidoglio e l’«invenzione» dell’ordine gigante, in “Storia dell’architettura”, IV, 1, 1979, pp. 7-28. Bruschi 1983 Arnaldo Bruschi, Una tendenza linguistica “medicea” nell’architettura del Rinascimento, in Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del ’500, a cura di Giancarlo Carfagnini, atti del convegno internazionale di studi (Firenze, 9-14 giugno 1980), Firenze 1983. Bruschi 1989 Arnaldo Bruschi, Edifici privati di Bramante a Roma: palazzo Castellesi e Palazzo Caprini, in “Palladio”, II, 4, 1989, pp. 5-44. Bruschi 1990 Arnaldo Bruschi, Bramante, Bari 1990. Bruschi 1996 Arnaldo Bruschi, L’architettura dei palazzi romani della prima metà del Cinquecento, in Gianfranco Spagnesi (a cura di), Palazzo Mattei di Paganica e l’Enciclopedia Italiana, Roma 1996, pp. 3-109. Bruschi 1997 Arnaldo Bruschi, S. Pietro: spazi, strutture, ordini. Da Bramante ad Antonio da Sangallo il Giovane a Michelangelo, in Spagnesi 1997, pp. 177194. Bruschi 2000 Arnaldo Bruschi, Oltre il Rinasci- mento: architettura, città, territorio nel secondo Cinquecento, Milano 2000. Bruschi 2002 Arnaldo Bruschi (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il primo Cinquecento, Milano 2002. Bruschi 2002a Arnaldo Bruschi, L’architettura a Roma negli ultimi anni del pontificato di Alessandro VI Borgia (1492-1503) e l’edilizia del primo Rinascimento, in Bruschi 2002, pp. 34-75. Bruschi 2002b Arnaldo Bruschi, Introduzione, in Tuttle et al. 2002, pp. 9-23. Bruschi 2002c Arnaldo Bruschi, Roma, dal Sacco al tempo di Paolo III (1527-50), in Bruschi 2002, pp. 160-207. Bruschi 2006 Arnaldo Bruschi, Filippo Brunelleschi, Milano 2006. Bucci 2009 Carlo Alberto Bucci, Palazzo Valentini un affresco racconta le case di Michelangelo, in “la Repubblica - Roma”, 24 giugno 2009, p. 1. Buddensieg 1969 Tilmann Buddensieg, Zum Statuenprogram in Kapitolsplan Paulus III., in “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, XXXII, 1969, pp. 177228. Buddensieg 1975 Tilmann Buddensieg, Bernardo della Volpaia und Giovanni Francesco da Sangallo: der Autor des Codex Coner, und seine Stellung im SangalloKries, in “Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte”, 15, 1975, pp. 89-108. Buonanni 1699 Filippo Buonanni, Numismata Pontificum Romanorum, Roma 1699. Buonanni 1706 Filippo Buonanni, Numismata Pontificum Romanorum, Romae 1706. Burns 1984 Howard Burns, Raffaello e “quell’antiqua architectura”, in Frommel, Ray, Tafuri 1984, pp. 437-450. Burns 1988 Howard Burns, Baldassarre Peruzzi and Sixteenth Century Architectural Theory, in Jean Guillaume (a cura di), Les Traités d’architecture de la Renaissance, Paris 1988, pp. 207-226. Burns 1995 Howard Burns, Building against Time: Renaissance strategies to secure large churches against changes to their design, in L’église dans l’architecture de la Renaissance, a cura di Jean Guillaume, atti del colloquio internazionale (Tours, 28-31 maggio 1990), Paris 1995, pp. 107-131. Burns 1998 Howard Burns, Leon Battista Alberti, in Francesco Paolo Fiore (a cura di), Storia dell’Architettura italiana. Il Quattrocento, Milano 1998, pp. 114165. Burns 2006 Howard Burns, Michelangelo e il disegno di architettura, in Elam 2006, pp. 19-41. Caglioti 2000 Francesco Caglioti, Donatello e i Medici, 2 voll., Firenze 2000. Calafati in c.d.s. Marco Calafati, Michelangelo e il Palazzo Grifoni a San Miniato al Tedesco, in Michelangelo e il linguaggio del disegno d’architettura, a cura di Alessandro Nova, Golo Maurer, atti del convegno internazionale (Firenze, 29-31 gennaio 2009), in c.d.s. Callari 1932 Luigi Callari, I palazzi di Roma e le case di importanza storica e artistica, Roma 1932. Calonaci 2002 Stefano Calonaci, voce Grifoni Ugolino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LIX, Roma 2002, pp. 410415. Burckhardt 1952 Jacob Burckhardt, Il Cicerone. Guida al godimento delle opere d’arte in Italia, tradotto da Paolino Mingazzini e Federico Pfister, Firenze 1952. Cambareri 1990-1992 Marietta Cambareri, A Study in the 16th Century Renovation of Orvieto Cathedral: the Sacramental Tabernacle for the High Altar, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, 15-20, 1990-1992, pp. 617-622. Burckhardt 1978 Jacob Burckhardt, Der Cicerone, Neudruck der Urausgabe, Stuttgart 1978 [Basel 1855]. Campbell 2004 Ian Campbell (a cura di), Ancient Roman Topography and Architecture, 3 voll., London 2004. bibliografia Candilio 1999 Daniela Candilio, voce Thermae Diocletiani, in Lexicon Topographicum Urbis Romae, vol. V, Roma 1999, pp. 53-58. cal and Technical Perspectives. Part 1: Aspects of Historical Usage, in Walter Strauss, Tracie Felker (a cura di), Drawings Defined, New York 1987, pp. 165-70. Cangemi 1995 Lidia Cangemi, La basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri alle Terme diocleziane in Roma: trasformazioni e restauri, tesi di dottorato, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (VII ciclo), 1995. Collareta 1992 Marco Collareta, Intorno ai disegni murali della Sagrestia Nuova, in Craig H. Smyth (a cura di), Michelangelo Drawings, Washington 1992, pp. 163-177. Cangemi 2002 Lidia Cangemi, La certosa di Roma, Salzburg 2002. Canova 1998 Lorenzo Canova, La celebrazione delle arti del pontificato di Paolo III Farnese come nuova età dell’oro, in “Storia dell’Arte”, 1998, 93-94, pp. 217234. Carpiceci 1991 Alberto C. Carpiceci, Progetti di Michelangiolo per la Basilica Vaticana, in “Bollettino d’arte”, nuova serie, VI, LIIVI, 68-69, 1991, pp. 93-106. Condivi 1553, ed. Davies 2009 Ascanio Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, a cura di Charles Davies, Heidelberg 2009. Condivi 1553, ed. Nencioni 1998 Ascanio Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, a cura di Giovanni Nencioni, con saggi di Michael Hirst e Caroline Elam, Firenze 1998. Conforti 2001 Claudia Conforti, Roma: architettura e città, in Conforti, Tuttle 2001, pp. 26-65. Cassini 1779 Giovanni Maria Cassini, Nuova raccolta delle megliori vedute antiche e moderne di Roma, Roma 1779. Conforti 2002 Claudia Conforti, Il cantiere di Michelangelo al ponte Santa Maria a Roma (1548-49), in Donatella Calabi, Claudia Conforti (a cura di), I ponti delle capitali europee, Milano 2002, pp. 74-87. Catitti 2007 Silvia Catitti, Michelangelo e la monumentalità del ricetto: progetto, esecuzione, interpretazione, in Ruschi 2007, pp. 91-103. Conforti, Tuttle 2001 Claudia Conforti, Richard J. Tuttle (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il secondo Cinquecento, Milano 2001. Cavalieri 1585 Giovanni Battista [de] Cavalieri, Antiquarum Statuarum Urbis Romae primus et secundus liber, Roma, ed. I, n.d., ed. II, 1585, in Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), Berolini 1862. Connors 2004 Joseph Connors, Recensione a Charles Burroughs, The Italian Renaissance palace facade: structures of authority, Cambridge 2002, in “Renaissance Quarterly”, LVII, 1, 2004, pp. 196-199. Cellini, ed. Milanesi 1857 Benvenuto Cellini, I trattati dell’oreficeria e della scultura, edizione a cura di Carlo Milanesi, Firenze 1857. Chapman 2006 Hugo Chapman, Michelangelo: Closer to the Master, London 2006. Cherubini 2003 Laura Caterina Cherubini, Restauri in Palazzo Farnese a Roma, in Vignola e i Farnese, a cura di Christoph L. Frommel, Maurizio Ricci, Richard J. Tuttle, atti del convegno (Piacenza 18-20 aprile 2002), Milano 2003, pp. 60-72. Cohn 1987 Mariorje B. Cohn, Red Chalk: Histori- Connors, Rice 1991 Joseph Connors, Louise Rice (a cura di), Specchio di Roma barocca. Una guida inedita del XVII secolo. Insieme alle vedute romane di Lievin Cruyl, Roma 1991. Contardi 1991 Bruno Contardi, Raffaello da Montelupo a Castel Sant’Angelo. In margine al restauro dell’Angelo in marmo, in “Studi su Castel Sant’Angelo” [Archivum Arcis 3], a cura di Liliana Pittarello, Roma 1991, pp. 167-187. Contardi 1992 Bruno Contardi, Michelangelo, 1538, in Maria Elisa Tittoni Monti, Bruno 345 Contardi, Marina Pennini Alessandri, Il restauro del basamento di Michelangelo per Marco Aurelio, in “Bollettino dei Musei Comunali di Roma”, nuova serie, VI, 1992, pp. 7-27. Contardi 1996 Bruno Contardi, Il progetto di Michelangelo, in Il Palazzo dei Conservatori e il Palazzo Nuovo in Campidoglio. Momenti di storia urbana di Roma, Ospedaletto (Pisa) 1996, pp. 51-61. Contini 1974 Gianfranco Contini, Una lettura su Michelangelo, in Gianfranco Contini, Esercizi di lettura: sopra autori contemporanei, con un’appendice su testi non contemporanei, Torino 1974, pp. 242-258. Coolidge 1942 John P. Coolidge, Vignola and the little domes of St. Peter’s, in “Marsyas”, 2, 1942, pp. 63-123. Coolidge 1945-1947 John P. Coolidge, The arched Loggie on the Campidoglio, in “Marsyas”, 4, 1945-1947, pp. 69-81. Cundari 1994 Cesare Cundari (a cura di), Rilievo degli appartamenti papali in Castel Sant’Angelo, Roma 1994. D’Onofrio 1970 Cesare D’Onofrio, Il Tevere e Roma, Roma 1970. D’Onofrio 1971 Cesare D’Onofrio, Castel Sant’Angelo, Roma 1971. D’Onofrio 1973 Cesare D’Onofrio, Renovatio Romæ, Roma 1973. D’Onofrio 1980 Cesare D’Onofrio, Il Tevere. L’isola tiberina, le inondazioni, i molini, i porti, le rive, i muraglioni, i ponti di Roma, Roma 1980. D’Orgeix 2001 Émilie D’Orgeix, The Goldschmidt and Scholz Scrapbooks in the Metropolitan Museum of Art: A Study of Renaissance Architectural Drawings, in “Metropolitan Museum Journal”, 36, 2001, pp. 169-206. Cooper 1994 Tracy E. Cooper, I modani, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 494498. Dal Poggetto 1978 Paolo Dal Poggetto, I disegni murali di Michelangelo e della scuola nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo, Firenze 1978. Corbo 1965 Anna Maria Corbo, Documenti romani su Michelangelo, in “Commentari. Rivista di critica e di storia dell’arte”, XVI, 1-2, 1965, pp. 98-151. de Angeli 1621 Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I. usque ad Paulum V. Pont. Max descriptio et delineatio, Roma 1621. Corradini 1993 Sandro Corradini, Caravaggio. Materiali per un processo, con la presentazione di Maurizio Marini, Roma 1993. De Angelis d’Ossat 1964 Guglielmo De Angelis d’Ossat, Michelangelo a Roma, in Strenna dei Romanisti, Roma 1964, pp. 193-204. Corsi, Ragionieri 2004 Speculum Romanae Magnificentiae. Roma nell’incisione del Cinquecento, a cura di Stefano Corsi e Pina Ragionieri, catalogo della mostra (Firenze, 23 ottobre 2004 - 2 maggio 2005), Firenze 2004. Corti et al. 1981 Giorgio Vasari. Principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, a cura di Laura Corti et al., catalogo della mostra (Arezzo, 26 settembre - 29 novembre 1981), Firenze 1981. Croce 1933 Benedetto Croce, Poesia popolare e poesia d’arte: studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Roma-Bari 1933. 346 De Angelis d’Ossat 1965 Guglielmo De Angelis d’Ossat, L’opera michelangiolesca, in Guglielmo De Angelis d’Ossat, Carlo Pietraneli (a cura di), Il Campidoglio di Michelangelo, Milano 1965, pp. 23-112. De Maio 1973 Romeo de Maio, Michelangelo e la Controriforma, Roma-Bari 1973. le della Magliana, in “L’arte”, IV, 1516, 1971, pp. 111-173. De Maio 1981 Romeo De Maio, Michelangelo e la Controriforma, Roma-Bari 1981. Di Benedetti 2005 Patrizia Di Benedetti, Stefano Longhi e il pulpito del Gesù, in Bruno Toscano (a cura di), Arte e immagine del papato Borghese (1605-1621), con la collaborazione di Beatrice Cirulli e Federica Papi, San Casciano Val di Pesa 2005, pp. 77-87. De Maio 1986 Romeo De Maio, Michelangelo e San Carlo, in “Prospettiva”, 43, 1986, pp. 56-60. Di Mauro 1988 Leonardo Di Mauro, “Domus Farnesia amplificata est atque exornata”, in “Palladio”, I, 1, 1988, pp. 27-44. de Rossi 1713 Gio. Giacomo de Rossi, Disegni di vari altari e cappelle nelle chiese di Roma con le loro facciate fianchi, piante e misure de piu celebri architetti, Roma 1713 [Roma 1689]. Discorsi militari 1583 Discorsi militari dell’eccellentissimo sig. Francesco Maria I della Rovere duca d’Urbino, Ferrara 1583. De Maio 1978 Romeo De Maio, Michelangelo e la Controriforma, Bari 1978. De Seta, Le Goff 1989 Cesare De Seta, Jacques Le Goff (a cura di), La città e le mura, Roma-Bari 1989. Della Torre, Schofield 1994 Stefano Della Torre, Richard Schofield, Pellegrino Tibaldi architetto e il S. Fedele di Milano. Invenzione e costruzione di una chiesa esemplare, Como 1994. Deswarte-Rosa 1988-1989 Sylvie Deswarte-Rosa, “Opus Micaelis Angeli”. Le dessin de Michel-Ange de la collection de Francisco de Hollanda, in “Prospettiva”, I, 53-56, 1988-1989, pp. 388-398. Deswarte-Rosa 1991 Sylvie Deswarte-Rosa, “Idea” et le Temple de la Peinture. I. Michelangelo Buonarroti et Francisco de Holanda, in “Revue de l’Art”, 92, 1991, pp. 20-41. de Blaauw Sible de Blaauw, Cultus et decor. Liturgia e architettura nella Roma tardoantica e medievale, 2 voll., Città del Vaticano 1994. Deswarte-Rosa 1997 Vittoria Colonna und Michelangelo in San Silvestro al Quirinale nach den “Gesprächen” des Francisco de Holanda, in Vittoria Colonna. Dichterin und Muse Michelangelos, a cura di Sylvia Ferino-Pagden, catalogo della mostra (Vienna, 25 febbraio - 25 maggio 1997), Milano 1998 pp. 349-373. De Carlo, Quattrini 1995 Laura De Carlo, Paola Quattrini, Le mura di Roma tra realtà e immagine, Roma 1995. Deswarte-Rosa 2004 Sylvie Deswarte-Rosa (a cura di), Sebastiano Serlio à Lyon: architecture et imprimerie, 4 voll., Lyon 2004. De Falco 2005 Alessandro De Falco (a cura di), Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Incontro di storie, Roma 2005. Dezzi Bardeschi 1971 Marco Dezzi Bardeschi, L’opera di Giuliano da Sangallo e di Donato Bramante nella fabbrica della villa papa- Donati 1942 Ugo Donati, Artisti ticinesi a Roma, Bellinzona 1942. Dussler 1959 Luitpold Dussler, Die Zeichnungen des Michelangelo, Berlin 1959. Echinger-Maurach 1991 Claudia Echinger-Maurach, Studien zu Michelangelos Juliusgrabmal, 2 voll., Hildesheim-New York-Zurig 1991. Echinger-Maurach 2000 Claudia Echinger-Maurach, Michelangelos Statuen des “Apollo Pubes” und Raffaels “Apollo Citharoedus” in der Schule von Athen, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 43, 1999 [2000], pp. 421-470. Echinger-Maurach 2006 Claudia Echinger-Maurach, Michelangelos späte Grabmalskonzeptionen und ihre Nachfolge, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 50, 2006, pp. 49-92. Echinger-Maurach 2008 Claudia Echinger-Maurach, «Stravaganti e bellissimi». Zu Stil und Technik einiger Architekturzeichnungen Michelangelos in Florenz und Rom, in “Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana”, 37, 2006 [2008], pp. 85-121. Echinger-Maurach 2009 Claudia Echinger-Maurach, Michelangelos Grabmal für Papst Julius II., München 2009. Echinger-Maurach in c.d.s. Claudia Echinger-Maurach, Il riutilizzo dei disegni architettonici di Michelangelo: un fenomeno del suo stile tardo?, in Michelangelo e il linguaggio del disegno d’architettura, a cura di Alessandro Nova, Golo Maurer, atti del convegno internazionale (Firenze, 29-31 gennaio 2009), in c.d.s. Ehrle 1911 Francesco Ehrle, La pianta di Roma di Leonardo Bufalini del 1551: Roma al tempo di Giulio III, Roma 1911. Eichberg, Eleuteri 1999 Margherita Eichberg, Francesco Eleuteri, Il bastione ardeatino, in “Palladio”, 24, 1999, pp. 5-22. Eiche 1989 Sabine Eiche, July 1547 in Palazzo Farnese, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, XXXIII, 2-3, 1989, pp. 395-401. Elam 1981 Caroline Elam, The Mural Drawings in Michelangelo’s New Sacristy, in “The Burlington Magazine”, CXXIII, 1981, pp. 593-602. Elam 2001 Caroline Elam, Design into Architecture, Oxford 2001. Elam 2002 Caroline Elam, Firenze 1500-1550, in Bruschi 2002, pp. 208-239. Elam 2005 Caroline Elam, “Tuscan Dispositions”: Michelangelo’s Florentine Architectural Vocabulary and Its Reception, in “Renaissance Studies”, 19, 2005, pp. 46-82. Elam 2006 Michelangelo e il disegno di architettura, a cura di Caroline Elam, catalogo della mostra (Vicenza, 17 settembre - 10 dicembre 2006; Firenze, 15 dicembre - 19 marzo 2007), Vicenza 2006. Elam 2006a Caroline Elam, Funzione, tipo, e ricezione dei disegni di architettura di Michelangelo, in Elam 2006, pp. 43-74. Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991 Serena Ensoli Vittozzi, Claudio Parisi Presicce, Il reimpiego dell’antico sul colle capitolino sotto il pontificato di Sisto V, in Spezzaferro, Tittoni 1991, pp. 85-115. Evers 1995 Bernd Evers (a cura di), Architekturmodelle der Renaissance, Die Harmonie des Bauens von Alberti bis Michelangelo, München-New York 1995. Fagiolo 1984 Marcello Fagiolo, Idea degli Horti bibliografia farnesiani: «Roma quadrata» e il «foro della Pace», in Roberto Luciani (a cura di), Giardino. Storia e conservazione, Roma 1984, pp. 217-226. Fasolo 1923-1924 Vincenzo Fasolo, La Cappella Sforza di Michelangelo, in “Architettura e arti decorative”, 3, 1923-1924, pp. 433-454. al tempo di Paolo III, in Luciano Patetta, Paolo Carpeggiani (a cura di), Il disegno di architettura, atti del convegno (Milano, 15-18 febbraio 1988), Milano 1989, pp. 175-180. Fagiolo 1985 Marcello Fagiolo (a cura di), Roma e l’antico nell’arte e nella cultura del Cinquecento, Roma 1985. Ferrabosco 1684 Martino Ferrabosco, Architettura della Basilica di S. Pietro in Vaticano, Roma 1684. Fagiolo 2007 Marcello Fagiolo, Vignola: l’architettura dei principi, Roma 2007. Fagiolo, Madonna 1972 Marcello Fagiolo, Maria Luisa Madonna, La Roma di Pio IV: la «Civitas Pia», la «Salus Medica», la «Custodia Angelica», in “Arte illustrata”, 51, 1972, pp. 383-402. Ferretti 2004 Emanuela Ferretti, Tra Bindo Altoviti e Cosimo I: Averardo Serristori, ambasciatore mediceo a Roma, in Ritratto di un banchiere del Rinascimento: Bindo Altoviti tra Raffaello e Cellini, a cura di Alan Chong, Donatella Pegazzano, Dimitrios Zikos, catalogo della mostra (Firenze-Boston, 20032004), Milano 2004, pp. 456-461. Fiore 1996 Francesco Paolo Fiore, Le porte doriche di Antonio da Sangallo il Giovane per le fortificazioni di Roma, in Cecil L. Striker et al. (a cura di), Architectural studies in memory of Richard Krautheimer, Mainz 1996, pp. 7175. Fagiolo, Madonna 1973 Marcello Fagiolo, Maria Luisa Madonna, La Roma di Pio IV: il sistema dei centri direzionali e la rifondazione della città, in “Arte illustrata”, 54, 1973, pp. 186-212. Ferretti 2006 Emanuela Ferretti, Palazzo Pitti 1550-1560: precisazioni e nuove acquisizioni sui lavori di Eleonora di Toledo, in “Opus Incertum”, I, 1, 2006, pp. 45-56. Fagiolo, Madonna 1985 Roma 1300-1875. La città degli anni santi. Atlante, a cura di Marcello Fagiolo, Maria Luisa Madonna, catalogo della mostra (Roma, marzo - aprile 1985), Milano 1985. Ferri, Jacobsen 1904 Pasquale Nerino Ferri, Emile Jacobsen, Nuovi disegni sconosciuti di Michelangelo, in “Rivista d’Arte”, II, 2, 1904, pp. 25-37. Fairbairn 1998 Lynda Fairbairn (a cura di), Italian Renaissance Drawings from the Collection of Sir John Soane’s Museum, 2 voll., London 1998. Falda 1665-1669 Giovanni Battista Falda, Il Nuovo Teatro delle fabbriche et edifici fatte fare in Roma e fuori, 4 voll., Giovanni Giacomo Rossi, Roma 16651699. Fancelli 1985 Paolo Fancelli, Demolizioni e ‘restauri’ di antichità nel Cinquecento, in Fagiolo 1985, pp. 357-403. Fanucci 1601 Camillo Fanucci, Trattato di tutte l’opere pie dell’alma città di Roma, Roma 1601. Fara 1997 Amelio Fara, La chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Roma nell’architettura di Michelangelo, in “Dialoghi di storia dell’arte”, 4-5, 1997, pp. 34-59. Farina 1996 Gennaro Farina (a cura di), Palazzo Valentini, presentazione di Giulio Carlo Argan, Roma 1996. Ferri, Jacobsen 1905 Pasquale Nerino Ferri, Emile Jacobsen, Dessins inconnus de Michel-Ange récemment découverts aux Offices de Florence, Leipzig 1905. Ferroni, Sacco 1989 Angela Maria Ferroni, Francesco Sacco, Il basamento di Marco Aurelio. Una lettura archeologica, in Melucco Vaccaro, Sommella 1989, pp. 195204. Ferrucci 1588 Andrea Fulvio, Le antichità di Roma, a cura di Girolamo Ferrucci, Francini, Venezia 1588. Fichard 1815 Johannes Fichard, Italia: observationes antiquitatum et aliarum rerum memorabilium quae Romae videntur collectae per me Johannem Fichardum J. C. in eadem urbe Mense VIIbri et VIIIbri Anno MDXXXVI, a cura di Baur von Eyseneck, in “Frankfürtisches Archiv für ältere Deutsche Literatur und Geschichte”, III, 1815, pp. 3-130. Fiore 1989 Francesco Paolo Fiore, Rilievo topografico e architettura a grande scala nei disegni di Antonio da Sangallo il Giovane per le fortificazioni di Roma Fiore 2001 Francesco Paolo Fiore, Introduzione, in Sebastiano Serlio, L’Architettura: i libri 1.-7 e Extraordinario nelle prime edizioni, a cura di Francesco Paolo Fiore, 2 voll., Milano 2001, vol. I, pp. 11-54. Fiore 2002a Francesco Paolo Fiore, L’architettura come baluardo, in Walter Barberis (a cura di), Guerra e pace, “Storia d’Italia”, Annali vol. 18, Torino 2002, pp. 123-165. Fiore 2002b Francesco Paolo Fiore, Roma, le diverse maniere, in Bruschi 2002, pp. 132-159. Fiore 2005 Francesco Paolo Fiore, Leon Battista Alberti a Roma, in La Roma di Leon Battista Alberti: umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell’antico nella città del Quattrocento, a cura di Francesco Paolo Fiore, Arnold Nesselrath, catalogo della mostra (Roma, 24 giugno - 16 ottobre 2005), Milano 2005. Fontana 1694 Carlo Fontana, Templum Vaticanum et ipsius origo, Roma 1694. Fontana 1838 Giacomo Fontana, Raccolta degli migliori chiese di Roma, Roma 1838. Forcella 1869-1884 Vincenzo Forcella, Iscrizioni delle chiese e d’altri edifici di Roma dal secolo XI fino ai giorni nostri, Roma 1869-1884. Forcellino (Maria) 2002 Maria Forcellino, Il restauro della tomba di Giulio II a S. Pietro in Vincoli: una nuova lettura del monumento e del Mosè, in “Incontri”, 17, 2002, pp. 43-60. Forcellino 2002 Antonio Forcellino, Michelangelo Buonarroti. Storia di una passione eretica, Torino 2002. 347 Forcellino 2003 Antonio Forcellino, Le statue della tomba di Giulio II, in “Monumenti di Roma”, 1, 2003, pp. 145-149. Forcellino 2005 Antonio Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta, Roma-Bari 2005. Forlani Tempesti 1984 Raffaello e Michelangelo, a cura di Anna Forlani Tempesti, catalogo della mostra (Firenze, 21 gennaio - 30 aprile 1984), Firenze 1984. Forssman 1988 Erik Forssman, Dorico Ionico Corinzio nell’architettura del Rinascimento, Roma-Bari 1988. Förster 1956 Otto Förster, Bramante, Wien-München 1956. Foscolo, ed. Orlandini, Mayer 1940 Saggi di critica storico-letteraria, raccolti e ordinati da F. S. Orlandini, E. Mayer, in Opere edite e postume di Ugo Foscolo, 12 voll., Firenze 1940, vol. X, pp. 333-344. Fossi 1967 Mazzino Fossi, Bartolomeo Ammannati architetto, Napoli 1967. Fossi 1970 Bartolomeo Ammannati, La Città. Appunti per un trattato, a cura di Mazzino Fossi, Roma 1970. Franchetti Pardo 1994 Vittorio Franchetti Pardo, Storia dell’urbanistica. Dal Trecento al Quattrocento, Roma-Bari 1994. Francia 1977 Ennio Francia, 1506-1606 Storia della costruzione del nuovo San Pietro, Roma 1977. Francia 1993 Ennio Francia, Le «Benfinite» di Michelangelo, in Strenna dei Romanisti, MMDCCXLVI, 1993, pp. 145-148. Franzini 1588 Girolamo Franzini, Le Cose Meravigliose Dell’Alma Città di Roma, Anfiteatro Del Mondo: Con Le Chiese, Et Antichità rapresentate in disegno da Girolamo Francino, Roma 1588. Fratarcangeli 1999 Margherita Fratarcangeli, Il trasferimento a Roma degli architetti di Viggiù: Martino e Onorio Longhi, Flaminio Ponzio, in Il giovane Borromini. Dagli esordi a San Carlo alle Quattro Fontane, a cura di Manuela KahnRossi, Marco Franciolli, catalogo del- 348 la mostra (Lugano, 5 settembre - 14 novembre 1999), Milano 1999, pp. 259-272. Fratarcangeli 2000 Margherita Fratarcangeli, Presenze “lombarde” a Roma (1555-1620). Committenti e maestranze dalla “regione dei laghi”, tesi di dottorato, Università degli Studi di Roma Tre (XI ciclo), 2000. Fratarcangeli 2003 Margherita Fratarcangeli, Le maestranze d’arte provenienti dalla ‘regione dei laghi’: presenze a Roma tra Cinquecento e Seicento, in “Arte Lombarda”, 137, 1, 2003, pp. 90107. Fratarcangeli 2006 Margherita Fratarcangeli, “In Rione Monti, apud via Alessandrina…”: mestieri, case e botteghe (secc. XVI-XVII), in Toscano 2006, pp. 153-172. Freiberg 1991 Jack Freiberg, The Lateran Patronage of Gregory XIII and the Holy Year 1575, in “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, 54, 1991, pp. 66-87. Frey 1899 Karl Frey (a cura di), Sammlung Ausgewählter Briefe an Michelagniolo Buonarroti. Nach den Originalen des Archivio Buonarroti, Berlin 1899. Frey 1907 Karl Frey, Die Briefe des Michelagniolo Buonarroti, Berlin 1907. Frey 1909 Karl Frey, Studien zu Michelangiolo Buonarroti und Kunst seiner Zeit. Die Fabbrica di San Pietro, in “Jahrbuch der Königlich Preußischen Kunstsammlungen”, 30, 1909, pp. 103180. Frey 1909-1911 Karl Frey, Die Handzeichnungen Michelagniolos Buonarroti, 3 voll., Berlin 1909-1911. Frey 1911 Karl Frey, Zur Baugeschichte des St. Peter. Mitteilungen aus der Reverendissima Fabbrica di S. Pietro, in “Jahrbuch der Königlich Preußischen Kunstsammlungen”, 31, 1911, pp. 1-95. Frey 1913 Karl Frey, Zur Baugeschichte des St. Peter. Mitteilungen aus der Reverendissima Fabbrica di S. Pietro, in “Jahrbuch der Königlich Preußischen Kunstsammlungen”, 33, 1913. Frey 1916 Karl Frey, Zur Baugeschichte des St. Peter. Mitteilungen aus der Reverendissima Fabbrica di S. Pietro, in “Jahrbuch der Königlich Preußischen Kunstsammlungen”, supplemento al n. XXXVII, 1916, pp. 22-136. Frey 1920 Dagobert Frey, Michelangelo-Studien, Vienna 1920. Frey 1923-1940 Karl Frey, Giorgio Vasari Der Literarische Nachlass, 3 voll., München 1923-1940. Freyberger 1990 Klaus S. Freyberger, Stadtrömische Kapitelle aus der Zeit von Domitian bis Alexander Severus. Zur Arbeitsweise und Organisation stadtrömischer Werkstätten der Kaiserzeit, Maiz 1990. Frommel 1962 Christoph L. Frommel, S. Caterina alle Cavallerotte. Un possibile contributo alla tarda attività romana di Giuliano da Sangallo, in “Palladio”, XII, 1-4, 1962, pp. 18-25. Frommel 1964 Christoph L. Frommel, Antonio da Sangallos Cappella Paolina. Ein Beitrag zur Baugeschichte des Vatikanischen Palastes, in “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, 27, 1964, pp. 142. Frommel 1973 Christoph L. Frommel, Der Römische Palastbau der Hocrenaissance, 3 voll., Tübingen 1973. Frommel 1994a Christoph L. Frommel, Abitare all’antica: il palazzo e la villa da Brunelleschi a Palladio, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 183-204. Frommel 1994b Christoph L. Frommel, Michelangelo e il sistema architettonico della volta della Cappella Sistina, in Michelangelo. La Cappella Sistina: documentazione e interpretazioni, a cura di Kathleen Weil, Garris Brandt, atti del convegno internazionale di studi (Città del Vaticano, marzo 1990), 3 voll., Novara 1994, vol. III, pp. 135139. Frommel 1994c Christoph L. Frommel, Palazzo Farnese a Roma: l’architetto e il suo committente, Vicenza 1994. Frommel 1994d Christoph L. Frommel, San Pietro, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 399-423. Frommel 1997a Christoph L. Frommel, Michelangelos Treppe im Cortile del Belvedere, in G. Erath, M. Lehner, G. Schwarz (a cura di), KOSMOS - Festschrift für Thuri Lorenz zum 65. Geburtstag, Wien 1997, pp. 249-261. Frommel 1997b Christoph L. Frommel, Il palazzo dei Conservatori: forma e struttura, in Tittoni 1997, pp. 21-30. Frommel 2002a Christoph L. Frommel, La città come opera d’arte: Bramante e Raffaello (1500-20), in Bruschi 2002, pp. 76131. Frommel 1974 Christoph L. Frommel, Il Palazzo dei Tribunali in Via Giulia, in Studi Bramanteschi, Roma 1974, pp. 523534. Frommel 2002b Christoph L. Frommel, Giovanni dei Fiorentini, in Tuttle et al. 2002, pp. 244-247. Frommel 1976 Christoph L. Frommel, Die Peterskirche unter Papst Julius II. im Licht neuer Dokumente, in “Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte”, 16, 1976, pp. 57-137. Frommel 2006 Christoph L. Frommel, Raffaele Riario, committente della Cancelleria, in Christoph L. Frommel, Architettura a committenza da Alberti a Bramante, Firenze 2006, pp. 395-426. Frommel 1981 Christoph L. Frommel, Sangallo et Michel-Ange (1513-1550), in Le palais Farnèse, 3 voll., Roma 1981, vol. I, pp. 127-224. Frommel 2007 Christoph L. Frommel, The architecture of the Italian Renaissance, London 2007. Frommel 1984 Christoph L. Frommel, San Pietro. Storia della sua costruzione, in Frommel, Ray, Tafuri 1984, pp. 241-310. Frommel, Adams 1994 Christoph L. Frommel, Nicholas Adams (a cura di), The Architectural Drawings of Antonio da Sangallo the Younger and His Circle, Fortifications, Machines, and Festival Architecture, vol. I, Cambridge (Mass.)-London 1994. Frommel, Adams 2000 Christoph L. Frommel, Nicholas Adams (a cura di), The Architectural Drawings of Antonio da Sangallo the Younger and His Circle, Churches, Villas, the Pantheon, tombs, and ancient Inscriptions, vol. II, Cambridge (Mass.)-London 2000. Frommel, Ray, Tafuri 1984 Christoph L. Frommel, Stefano Ray, Manfredo Tafuri, Raffaello architetto, la sezione Raffaello e l’antico è curata da Howard Burns e Arnold Nesselrath, Milano 1984. Frutaz 1962 Amato P. Frutaz (a cura di), Le piante di Roma, 3 voll., Roma 1962. Fumagalli 2001 Elena Fumagalli, La committenza cardinalizia a Roma, in Conforti, Tuttle 2001, pp. 94-107. chelagnolo Buonarroti (Continuazione e fine), in “Il Buonarroti”, X, 1866, pp. 204-207. Gaudioso 1976 Michelangelo e l’edicola di Leone X, a cura di Eraldo Gaudioso, catalogo della mostra (Roma, 1975-1976), Roma 1976. Gaye 1839-1840 Johannes W. Gaye, Carteggio inedito d‘artisti dei secoli XIV, XV, XVI, Pubblicato ed illustrato con documenti inediti, 3 voll., Firenze 1839-1840. Gere, Pouncey 1983 John A. Gere, Philip Pouncey, Italian drawings in the Department of Prints and Drawings in the British Museum, Artists working in Rome, c. 1550 to c. 1640, with the assistance of Rosalind Wood, 2 voll., London 1983. re Ugolino, in Bartolomeo Ammannati Scultore e Architetto 1511-1592, a cura di Niccolò Rosselli Del Turco, Federica Salvi, atti del convegno di studi (Firenze-Lucca 17-19 marzo 1994), Firenze 1995, pp. 297-303. Giovannoni 1959 Gustavo Giovannoni, Antonio da Sangallo il Giovane, 2 voll., Roma 1959. Girardi 1974 Enzo Noè Girardi, Studi su Michelangiolo scrittore, Firenze 1974. Giuliano 1955 Antonio Giuliano (a cura di), Arco di Costantino, Milano 1955. Giussano 1613 Giovanni Pietro Giussano, Vita di San Carlo Borromeo, Venezia 1613. Giustozzi 2003 Nunzio Giustozzi (a cura di), Guida di Castel Sant’Angelo, Milano 2003. Geymüller 1885 Heinrich Geymüller, Documents inédits sur les manuscrits et les œuvres d’architecture de la famille des San Gallo ainsi que sur plusieurs monuments de l’Italie, Paris 1885. Gnoli 1991 Raniero Gnoli, Marmora Romana, Roma 1991. Gamrath 1976 Helge Gamrath, Pio IV e l’Urbanistica di Roma intorno al 1560, in Studia Romana in Honorem Petri Krarup septuagenarii, Odense 1976, pp. 190-203. Ghisetti Giavarina 1990 Adriano Ghisetti Giavarina, Aristotile da Sangallo: architettura, scenografia e pittura tra Roma e Firenze nella prima metà del Cinquecento. Ipotesi di attribuzione dei disegni raccolti agli Uffizi, Roma 1990. Gori 1875 Fabio Gori, Aneddoti e lavori di Michelangelo Buonarroti ignoti ai biografi, in “Archivio Storico Artistico, archeologico e letterario della città e della provincia di Roma”, I, 1, 1875, pp. 5-12. Gamucci 1565 Bernardo Gamucci, [Libri Quattro] Dell’Antichità Della Città Di Roma, Venetia 1565. Giess 1994 Hildegard Giess, Castro and Nepi, in Frommel, Adams 1994, vol. I., pp. 75-80. Gorni et al. 2001 Poeti del Cinquecento. I. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di Guglielmo Gorni et al., MilanoNapoli 2001. Gasparoni 1865a Benvenuto Gasparoni, Documento inedito sopra la casa di Michelangelo Buonarroti, in “Arti e Lettere”, II, 42, 1865, pp. 265-269. Gilio 1986 Giovanni Andrea Gilio, Due dialogi, Firenze 1986 [Camerino 1564]. Fusco 1982 Laurie Fusco, The Use of Sculptural Models by Painters in Fifteenth Century Italy, in “Art Bulletin”, 64, 1982, pp. 175-194. Gasparoni 1865b Benvenuto Gasparoni, Notizie della casa di Michelagnolo Buonarroti, in “Arti e Lettere”, II, 43, 1865, pp. 282-285. Gasparoni 1866a Benvenuto Gasparoni, La casa di Michelagnolo Buonarroti, in “Il Buonarroti”, VIII, 1866, pp. 158-164. Gasparoni 1866b Benvenuto Gasparoni, La casa di Michelagnolo Buonarroti (Continuazione), in “Il Buonarroti”, IX, 1866, pp. 177-180. Gasparoni 1866c Benvenuto Gasparoni, La casa di Mi- bibliografia Giner Guerri 1975 Severino Giner Guerri, Juan Bautista de Toledo y Miguel Angel en el Vaticano, in “Goya”, 126, 1975, pp. 351359. Gioseffi 1964a Decio Gioseffi, Porta Pia, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 725-736. Gioseffi 1964b Decio Gioseffi, San Giovanni dei Fiorentini, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 651-669. Giovannini, Primi, Presciutti 1995 Prisca Giovannini, Carolina Primi, Cristina Presciutti, Bartolomeo Ammannati nella fabbrica di Palazzo Grifoni a Firenze: una ricognizione nel libro dei debitori e creditori di Monsigno- gen der Herzöge von Urbino: II, Michelangelo, in “Jahrbuch der K. Preußischen Kunstsammlungen”, XXVII, 1906, pp. 12-44. Gronau 1918 Gerog Gronau, Über zwei Skizzenbücher des Guglielmo Della Porta in der Düsseldorfer Kunstakademie, in “Jahrbuch der Königlich Preuszischen Kunstsammlungen”, 39, 1918, pp. 171-200. Grossi, Residori 2005 Michelangelo: poeta e artista, a cura di Paolo Grossi, Matteo Residori, atti della giornata di studi (Parigi, 21 gennaio 2005), Paris 2005. Guasti 1863 Cesare Guasti, Le rime di Michelangelo Buonarroti, pittore, scultore e architetto, Firenze 1863. Guerrieri 1988 Francesco Gurrieri, L’architettura, in Francesco Guerrieri, Luciano Berti, Claudio Leonardi (a cura di), La basilica di San Miniato al Monte a Firenze, Firenze 1988, pp. 13-127. Guglielmotti 1880 Alberto Guglielmotti, Storia delle fortificazioni nella spiaggia romana: risarcite e accresciute dal 1560 al 1570, Roma 1880. Guglielmotti 1887 Alberto Guglielmotti, Storia delle fortificazioni nella spiaggia romana: risarcite e accresciute dal 1560 al 1570, Roma 1887. Gorni, Danzi, Longhi 2001 Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, in Gugliemo Gorni, Massimo Danzi, Silvia Longhi (a cura di), Poeti del Cinquecento, Milano 2001. Guidi Bruscoli 2006 Francesco Guidi Bruscoli, San Giovanni dei Fiorentini a Roma. Due secoli di finanziamenti tra pontefici e granduchi, prelati e mercatanti, in “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, 86, 2006, pp. 294-320. Gotti 1876 Aurelio Gotti, Vita di Michelangelo Buonarroti narrata con l’aiuto di nuovi documenti, 2 voll., Firenze 1876. Günther 1988 Hubertus Günther, Das Studium der antiken Architektur in den Zeichnungen der Hochrenaissance, Tübingen 1988. Grimaldi 1972 Giacomo Grimaldi, Descrizione della Basilica antica di San Pietro in Vaticano, Cod. Barb. lat. 2733, a cura di Reto Niggl, Città del Vaticano 1972. Günther 1990 Hubertus Günther, Ein Entwurf Baldassarre Peruzzis für ein Architekturtraktact, in “Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana”, 26, 1990, pp. 135-170. Grimm 1901 Herman Grimm, Leben Michelangelos, 2 voll., Berlin-Stuttgard 1901. Gronau 1906 Georg Gronau, Die Kunstbestrebun- Günther 1994 Hubertus Günther, Storia della costruzione di San Giovanni dei Fiorentini, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 552-562. 349 Günther 2001 Hubertus Günther, Die Planung von S. Giovanni dei Fiorentini im Wettstreit zwischen fürstlichen Mäzenen und bürgerlichen Auftraggebern, in Klaus Bergdolt, Giorgio Bonsanti (a cura di), Opere e giorni. Studi su mille anni di arte europea dedicati a Max Seidel, Venezia 2001, pp. 451464. Günther 2002 Hubertus Günther, Gli studi antiquari per l’“Accademia della Virtù”, in Tuttle et al. 2002, pp. 126-128. Günther 2006 Hubertus Günther, Michelangelo’s works in the eyes of his contemporaries, in Thomas Frangenberg, Robert J. Williams (a cura di), The beholder: the experience of art in early modern Europe, Aldershot 2006, pp. 53-85. Güthlein 1985 Klaus Güthlein, Der ‘Palazzo Nuovo’ des Kapitols, in “Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte”, 22, 1985, pp. 83-190. Hager 2003 Hellmut Hager, Carlo Fontana, in Aurora Scotti Tosini (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, Milano 2003, pp. 238-261. Hale 1968 John Rigby Hale, The End of Florentine Liberty: The Fortezza da Basso, in Nicolai Rubinstein (a cura di), Florentine Studies: politics and society in Renaissance Florence, London 1968, pp. 501-532. Harprath 1985 Richard Harprath, La formazione umanistica di papa Paolo III e le sue conseguenze nell’arte romana della metà del Cinquecento, in Fagiolo 1985, pp. 63-85. Helbig 1966 Wolfgang Helbig, Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom, edizione a cura di Hermine von Speier, 2 voll., Tübingen 1966. Hemsoll 2003 David Hemsoll, The Laurentian Library and Michelangelo’s Architectural Method, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, LXVI, 2003, pp. 29-62. Hess 1961 Jacob Hess, Die päpstliche Villa bei Araceli, in “Miscellanea Bibliothecae Hertzianae zu Ehren von Leo Bruhns, Franz Graf, Wolff Metternich, Ludwig Schudt”, 16, 1961, pp. 239-254. Heydenreich, Lotz 1974 Ludwig H. Heydenreich, Wolfgang Lotz, Architecture in Italy 14001600, Harmondsworth 1974. Hibbard 1975 Howard Hibbard, Michelangelo, London 1975. Hibbard 1985 Howard Hibbard, Michelangelo, New York 1985. Hirst 1963 Michael Hirst, Michelangelo drawings in Florence, in “The Burlington Magazine”, CV, 1963, pp. 166-171. Hirst 1974 Michael Hirst, A Note on Michelangelo and the Attic of St. Peter’s, in “The Burlington Magazine”, CXVI, 1974, pp. 662-665. Hirst 1988a Michelangelo Draftsman, a cura di Michael Hirst, catalogo della mostra (Washington, 9 ottobre - 12 dicembre), Milano 1988. Haskell, Penny 1981 Francis Haskell, Nicholas Penny, Taste and the Antique, New HavenLondon 1981. Hirst 1988b Michael Hirst, Michelangelo and His Drawings, New Haven-London 1988. Haskell, Penny 1984 Francis Haskell, Nicholas Penny, L’antico nella storia del gusto, Torino 1984. Hirst 1993 Michael Hirst, Michelangelo, i disegni, Torino 1993. Hatfield 2002 Rab Hatfield, The wealth of Michelangelo, Roma 2002. Hogg 1984 James Hogg, The Charterhouse of Rome, Salzburg 1984. Hedberg 1972 Gregory Hedberg, The Farnese courtyard windows and the Porta Pia: Michelangelo’s creative process, in “Marsyas”, 15, 1970-1972 (1972), pp. 63-72. Hübner 1912 Paul Gustav Hübner, Le statue di Roma, Leipzig 1912. 350 Huelsen 1910 Cristiano Huelsen, Il libro di Giuliano da Sangallo. Codice Barberiniano Latino 4424, 2 voll., Leipzig 1910. 1980, in “The Art Bulletin”, 63, 1981, p. 686. Hülsen 1927 Christian Hülsen, Le chiese di Roma nel Medioevo, Firenze 1927. Joannides 1981b Paul Joannides, recensioni a Rudolf Wittkower, Idea and Image. Studies in the Italian Renaissance e a Johannes Wilde, Michelangelo. Six Lectures, in “The Burlington Magazine”, CXXIII, 943,1981, pp. 620-622. Hunter 1996 John Hunter, Girolamo Siciolante pittore da Sermoneta (1521-1575), Roma 1996. Huppert 2008 Anne Clare Huppert, Mapping ancient Rome in Bufalini’splan and in sixteenth-century drawings, in “Memories of American Academy in Rome”, LIII, 2008, pp. 79-98. Huppert 2009 Anne Clare Huppert, Envisioning New St. Peter’s: Perspectival Drawings and the Process of Design, in “Journal of the Society of Architectural Historians”, LXVIII, 2, 2009, pp. 158-177. Ingersoll 1985 Richard Joseph Ingersoll, The Ritual Use of Public Space in Reinassance Rome, tesi di dottorato, Berkeley University of California, 1985. Insolera 1985 Italo Insolera, Le città nella storia d’Italia. Roma, Roma-Bari 1985. Ippoliti 1999 Alessandro Ippoliti, Il Complesso di San Pietro in Vincoli e la committenza della Rovere (1467-1520), in “Arte e storia”, 6, 1999, pp. 12-16. Israëls 2008 Machtelt Israëls, Al cospetto della città. Sodoma a Porta Pispini e la tradizione pittorica delle porte urbiche di Siena, in L’ultimo secolo della Repubblica di Siena. Arti, cultura e società, a cura di Mario Ascheri, Gianni Mazzoni, Fabrizio Nevola, atti del convegno internazionale (Siena, 28-30 settembre 2003; 16-18 settembre 2004), Siena 2008, pp. 367-384. Jedin 1949-1975 Hubert Jedin, Geschichte des Konzils von Trient, 4 voll., Freiburg, Basel, Wien 1949-1975. Joannides 1978 Paul Joannides, recensione a Charles de Tolnay, Disegni di Michelangelo nelle collezioni italiane, in “The Art Bulletin”, 60, 1978, pp. 174-177. Joannides 1981a Paul Joannides, recensione a Charles de Tolnay, Corpus dei Disegni di Michelangelo, 4 voll., Novara 1975- Joannides 2003 Paul Joannides, Dessins italiens du Musée du Louvre. Michel-Ange. Élèves et copistes, Paris 2003. Joannides 2007 Paul Joannides, The Drawings of Michelangelo and His Followers in the Ashmolean Museum, CambridgeNew York 2007. Jobst 1986 Christoph Jobst, S. Maria di Loreto a Roma, opera di Antonio da Sangallo il Giovane. L’origine e lo sviluppo del “tipo di pianta centrica in un perimetro quadrato”, in Spagnesi 1986, pp. 277-285. Kaiser 1979 Joachim Kaiser, Beethovens 32 Klaviersonaten, Frankfurt 1979. Karmon 2008 David Karmon, Michelangelo’s “Minimalism” in the Design of Santa Maria degli Angeli, in “Annali di architettura”, 20, 2008, pp. 141-152 Keller 1976 Fritz E. Keller, Zur Plannung am Bau der römischen Peterskirche im Jahre 1564-1565, in “Jahrbuch der Berliner Museen”, XVIII, 1976, pp. 2456. Kersting 1994 Markus Kersting, San Giovanni dei Fiorentini in Rom und die Zentralbauideen des Cinquecento, Worms 1994. Kiene 1995 Michael Kiene, Bartolomeo Ammannati, Milano 1995. Krautheimer 1980 Richard Krautheimer, Rome. Profile of a City 312-1308, Princeton 1980. Krieg 2003 Stefan W. Krieg, Das Architekturdetail bei Michelangelo: Studien zu seiner Entwicklung bis 1534, in “Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte”, 33, 1999-2000 [2003], pp. 101-258. Kummer 1987 Stefan Kummer, Anfänge und Au- sbreitung der Stuckdekoration im römischen Kirchenraum (1500-1600), Tübingen 1987. Kuntz 2003 Margaret Kuntz, Designed for Ceremony: The Cappella Paolina at the Vatican Palace, in “Journal of the Society of Architectural Historians”, 62, 2003, pp. 228-255. Künzle 1956 Paul Künzle, recensione di Herbert Siebenhüner, Das Kapitol in Rom, in “Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung”, LXI, 1956, pp. 349-351. Künzle 1961 Paul Künzle, Die Aufstellung des Reiters vom Lateran durch Michelangelo, in “Miscellanea Bibliothecae Hertzianae zu Ehren von Leo Bruhns, Franz Graf, Wolff Metternich, Ludwig Schudt”, 16, 1961, pp. 255-270. Künzle 1961 Paul Künzle, Die Aufstellung des Reiters von Lateran durch Michelangelo, in “Römische Forschungen der Bibliotheca Hertziana”, XVI,1961, pp. 255-270. Labacco 1552 Libro d’Antonio Labacco appartenente a l’architettura nel qual si figurano alcune notabili antiquita di Roma, Roma 1552. La Cava 1925 Francesco La Cava, Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio finale. Un dramma psicologico in un ritratto simbolico, Bologna 1925. Lanciani 1906 Rodolfo Lanciani, The golden days of the Renaissance Rome. From the Pontificate of Julius II to that of Paul II, Boston-New York 1906. Überlieferung in der Kunst des Abendlandes, a cura di Florens Deuchler, atti del XXI congresso di storia dell’arte (Bonn, 14-19 settembre 1964), 3 voll., Berlin 1967, II vol., pp. 1219. Lanciani 1988-2002 Rodolfo Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, a cura di Paola Pellegrino, 7 voll., Roma 19882002. Lotz 1981 Wolfgan Lotz, Vignole et Giacomo della Porta (1550-1589), in Le palais Farnèse, 3 voll., Roma 1981, vol. I, pp. 225-241. Lange 1990 Bente Lange, La facciata di Palazzo Farnese incompiuta?, in “Analecta Romana Instituti Danici”, XIX, 1990, pp. 253-261. Lugli, Gismondi 1949 Giuseppe Lugli, Italo Gismondi, Forma Urbis Romae imperatorum aetate. Delineaverunt Josephus Lugli et Italus Gismondi, Novara 1949. Lecchini Giovannoni 1991 Simona Lecchini Giovannoni, Alessandro Allori, Torino 1991. Lynch 2006 Kevin Lynch, L’immagine della città, Venezia 2006. Lemerle 1997 Frédérique Lemerle, Livre de dessins de Michel-Ang, in Barbara Brejon de Lavergnée (a cura di), Catalogue des dessins italiens: collections du Palais des Beaux-Arts de Lille, Paris 1997, pp. 283-289. Mackowsky 1925 Hans Mackowsky, Michelangelo, Berlin 1925. Lerza 2002 Gianluigi Lerza, L’architettura di Martino Longhi il Vecchio, Roma 2002. Letarouilly 1840-1857 Paul M. Letarouilly, Edifices de Rome Moderne, ou Recueil des palais, maisons, églises, couvents, et autres monuments publics et particulières les plus remarquables de la ville de Rome, 4 voll., Parigi 1840-1857. Maggi, Castriotto 1583 Girolamo Maggi, Jacomo Castriotto, Della fortificatione delle città, Venezia 1583. Magnani Cianetti 2000 Marina Magnani Cianetti, Il chiostro michelangiolesco dell’ex certosa di Santa Maria degli Angeli a Roma, in “Bollettino d’arte”, 114, 2000, pp. 131-152. Magnuson 1954 Torgil Magnuson, The project of Nicholas V for rebuilding the Borgo Leonino in Rome, in “Art Bulletin”, 36, 1954, pp. 89-115. La Rocca 1986 Eugenio La Rocca (a cura di), Rilievi storici capitolini, Roma 1986. Ligorio 1553 Pirro Ligorio, Libro di Pyrrho Ligori Napolitano, delle antichità di Roma, nel quale si tratta de’ circi, theatri, & anfitheatri, Venetia 1553. Manetti 1980 Renzo Manetti, Michelangiolo: le fortificazioni per l’assedio di Firenze, Firenze 1980. Lamberti, Riopelle 1996 Michelangelo e l’Ottocento: Rodin e Michelangelo, a cura di Maria Mimita Lamberti e Christopher Riopelle, catalogo della mostra (Firenze, 11 giugno - 16 settembre), Milano 1996. Lingohr 1997 Michael Lingohr, Der Florentiner Palastbau der Hochrenaissance. Der Palazzo Bartolini Salimbeni in seinem historischen und architekturgeschichtlichen Kontext, Worms 1997. Marani 1984 Disegni di fortificazioni da Leonardo a Michelangelo, a cura di Pietro C. Marani, catalogo della mostra (Firenze, 27 ottobre 1984 - 28 febbraio 1985), Firenze 1984. Lanciani 1883 Rodolfo Lanciani, Il Codice barberiniano XXX, 89, contenente frammenti di una descrizione di Roma del secolo XVI, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, VI, 1883, pp. 223-240, 445-496. Locatelli 1750 Giampietro Locatelli, Museo Capitolino, o sia Descrizione delle statue, busti, bassirilievi, urne sepolcrali, iscrizioni ed altre ammirabili ed erudite antichita, che si custodiscono nel Palazzo alla destra del Senatorio vicino alla chiesa d’Araceli in Campidoglio, Roma 1750. Marani 1985 Pietro C. Marani, Gli ultimi disegni di fortificazioni di Michelangelo, in Renaissance studies in honor of Craig Hugh Smyth, 2 voll., Firenze 1985, vol. II, pp. 597-603. Lanciani 1902-1912 Rodolfo Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità (1550-1565), 4 voll., Roma 1902-1912. bibliografia Lotz 1967 Wolfgang Lotz, Zu Michelangelos Kopien nach Codex Coner, in Stil und Marconi 1966 Paolo Marconi, Contributo alla storia delle fortificazioni di Roma nel Cinquecento e nel Seicento, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, XIII, 73-78, 1966, pp. 109-130. Marconi, Cipriani, Valeriani 1974 Paolo Marconi, Angela Cipriani, Enrico Valeriani, I disegni di architettura dell’Archivio storico dell’Accademia di San Luca, Roma 1974. Marcotti 1881 Giuseppe Marcotti, Il Giubileo dell’anno 1450 in una relazione di G. Rucellai, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, IV, 1881, pp. 563-580 Marigliani 2007 Le piante di Roma delle collezioni private dal XV al XX secolo, a cura di, Clemente Marigliani, catalogo della mostra (Roma, 22 giugno - 22 luglio 2007), Roma 2007. Markschies 2001 Alexander Markschies, Gebaute Armut: San Salvatore e San Francesco al Monte in Florenz (1418-1504), München-Bonn 2001. Marliani 1544 Bartolomeo Marliani, Urbis Romae Topographia, Romæ 1544. Martinelli 1644 Fioravante Martinelli, Roma ricercata nel suo sito, e nella scuola di tutti gli antiquarij, Roma 1644. Martinelli 1693 Fioravante Martinelli, Roma ricercata nel suo sito, con tutte le curiosità, che in essa si ritruovano tanto Antiche, che Moderne … [ed.] Di nuovo corretta e accresciuta, Roma 1693. Matthiae 1982 Guglielmo Matthiae, S. Maria degli Angeli, Roma 1982. Maurer 2003 Golo Maurer, Michelangelos Projekt für den Tambour von Santa Maria del Fiore, in “Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana”, XXXIII, 1999-2000 [2003], pp. 85-100. Maurer 2004 Golo Maurer, Michelangelo - Die Architekturzeichnungen. Entwurfsprozeß und Planungspraxis, Regensburg 2004. Maurer 2008 Golo Maurer, Überlegungen zu Michelangelos Porta Pia, in “Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana”, XXXVII, 2006 [2008], pp. 123-162. Mauro 1556 Lucio Mauro, Le antichità de la città di Roma: brevissimamente raccolte da chiunque ne ha scritto, ò antico ò moderno per Lucio Mauro, che ha voluto 351 particularmente tutti questi luoghi vedere: onde ha corretti di molti errori, che ne gli altri scrittori di queste antichità si leggono. Et insieme ancho di tutte le statue antiche, che per tutta Roma in diversi luoghi, e case particolari si veggono, raccolte e descritte, per Ulisse Aldroandi, opera non fatta più mai da scrittore alcuno, Venetia 1556. Mayer-Himmelheber 1984 Susanne Mayer-Himmelheber, Bischöfliche Kunstpolitik nach dem Tridentinum. Der secunda-Roma-Anspruch Carlo Borromeos und die mailändischen Verordnungen zu Bau und Ausstattung von Kirchen, München 1984. Mazio 1872 Luigi Mazio, La casa abitata in Roma da Michelangelo, in Studi storici letterari e filosofici, Roma 1872, pp. 290297. Mazzucato 1985 Otto Mazzucato, I pavimenti pontifici di Castel San’Angelo XV-XVI sec., Roma 1985. Meliu 1950 Angelo Meliu, S. Maria degli Angeli alle terme di Diocleziano, Roma 1950. Melucco Vaccaro 1989a Alessandra Melucco Vaccaro, Archeologia e restauro: tradizione e attualità, Milano 1989. Melucco Vaccaro 1989b Alessandra Melucco Vaccaro, Il monumento equestre di Marco Aurelio: restauro e riuso, in Melucco Vaccaro, Sommella 1989, pp. 211-252. Melucco Vaccaro, Sommella 1989 Alessandra Melucco Vaccaro, Anna Mura Sommella (a cura di), Marco Aurelio, storia di un monumento e del suo restauro, Cinisello Balsamo (Milano) 1989. Metternich, Thoenes 1987 Franz G. von Metternich, Christof Thoenes, Die frühen St.-Peter-Entwürfe 1505-1514, Tübingen 1987. Michaelis 1890 Adolf Michaelis, Geschichte des Statuenhofes im Belvedere, in “Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instuts”, V, 1890. Michaelis 1891 Adolf Michaelis, Storia della collezione capitolina di antichità fino all’inaugurazione del museo (1734), in “Mitteilungen des Deutschen Ar- 352 chäologischen Instituts. Römische Abteilung”, VI, 1891, pp. 3-66. Micheli 1982 Maria Elisa Micheli, Giovanni Colonna da Tivoli: 1554, Roma 1982. Milanesi 1875 Le lettere di Michelangelo Buonarroti. Pubblicate coi ricordi ed i contratti artistici, a cura di Gaetano Milanesi, Firenze 1875. Milizia 1787 Francesco Milizia, Roma delle belle arti del disegno. Parte Prima – Dell’architettura civile, Bassano 1787. Millon 1979 Henry A. Millon, A Note on Michelangelo’s Facade for a Palace for Julius III in Rome: new documents for the model, in “The Burlington Magazine”, CXXI, 921,1979, pp. 770-777. Millon 2005 Henry A. Millon, Michelangelo to Marchionni, 1546-1784, in William Tronzo (a cura di), St. Peter’s in the Vatican, Cambridge 2005, pp. 93-110. Millon, Magnago Lampugnani 1994 Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell‘architettura, a cura di Henry Millon, Vittorio Magnago Lampugnani, catalogo della mostra (Venezia, 31 marzo - 6 novembre 1994), Milano 1994 Millon, Smyth 1969 Henry A. Millon, Craig H. Smyth, Michelangelo and St Peter’s-I: Notes on a Plan of the Attic as Originally Built on the South Hemicycle, in “The Burlington Magazine”, CXI, 797, 1969, pp. 484-501. Millon, Smyth 1976 Henry A. Millon, Craig H. Smyth, Michelangelo and St Peter’s: observations on the interior of the apses, a model of the apse vault, and related drawings, in “Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte”, XVI, 1976, pp. 137-206. Millon, Smyth 1988a Henry A. Millon, Craig H. Smyth, Michelangelo Architetto. La facciata di San Lorenzo e la cupola di San Pietro, Milano 1988. Millon, Smyth 1988b Henry A. Millon, Craig H. Smyth, Pirro Ligorio, Michelangelo and St Peter’s, in Robert W. Gaston (a cura di), Pirro Ligorio artist and antiquarian, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pp. 216-286. Minozzi 2000 Marina Minozzi, La famiglia Patrizi a Roma, in Anna Maria Pedrocchi (a cura di), Le Stanze del Tesoriere. La Quadreria Patrizi: cultura senese nella storia del collezionismo romano del Seicento, Milano 2000, pp. 11-38. Montagnani Mirabili, 1804 Pietro Paolo Montagnani Mirabili, Raccolta di statue, Roma 1804. Montagu 1996 Jennifer Montagu, Gold, silver and bronze: metal sculpture of the Roman Baroque, New Haven 1996. Moreni 1816-1817 Domenico Moreni, Continuazione delle Memorie istoriche dell’Ambrosiana imperial Basilica di S. Lorenzo di Firenze dalla erezione della chiesa presente a tutto il regno mediceo, 2 voll., Firenze 1816-1817. Moretti 1966 Luigi Moretti, Le strutture ideali della architettura di Michelangelo, in Atti del convegno di studi michelangioleschi, atti del convegno di studi michelangioleschi (Firenze-Roma 1964), Roma 1966, pp. 444-454. Morolli 1993 Gabriele Morolli, Michelangelo alle porte, in San Lorenzo 393-1993. L’architettura, le vicende della fabbrica, a cura di Gabrielle Morolli, Pietro Ruschi, catalogo della mostra (Firenze, 25 settembre - 12 dicembre 1993), Firenze 1993, pp. 141-143. Morolli 1994 Gabriele Morolli, L’ordine, il tempio, la basilica, in Gabriele Morolli, Marco Guzzon, Leon Battista Alberti: i nomi e le figure, Firenze 1994, pp. 17-189. Morolli 1998 Gabriele Morolli, Un Tuscanico di gloria: Michelangelo e l’ordine architettonico di San Giovanni dei Fiorentini a Roma, in “Bollettino della Società di Studi Fiorentini”, 3, 1998, pp. 9-29. Morozzo della Rocca 1981 Donatella Morozzo della Rocca, P.M. Létarouilly: “Les edifices de Rome Moderne”, storia e critica di un’opera propedeutica alla composizione, Roma 1981. Venise chez Francesco de’ Franceschi, in Deswarte-Rosa 2004, vol. I, pp. 250-253. Morrogh 1994 Andrew Morrogh, The Palace of the Roman People: Michelangelo at the Palazzo dei Conservatori, in “Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana”, XXIX, 1994, pp. 129-186. Mura Sommella 1989 Anna Mura Sommella, Il monumento di Marco Aurelio in Campidoglio e la trasformazione del Palazzo Senatorio alla metà del Cinquecento, in Melucco Vaccaro, Sommella 1989, pp. 177194. Mura Sommella 1997 Anna Mura Sommella, Nuove osservazioni sul basamento del Marco Aurelio, in Mura Sommella, Parisi Presicce 1997, pp. 64-69. Mura Sommella, Parisi Presicce 1997 Anna Mura Sommella, Claudio Parisi Presicce (a cura di), Il Marco Aurelio e la sua copia, Roma 1997. Mussolin 2005 Mauro Mussolin, “Cathedralis effecta est”: il Duomo di Pienza e il rinascimento cristiano di Pio II, in A. Angelini (a cura di), Pio II e le arti. La riscoperta dell’antico da Federighi a Michelangelo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005, pp. 215-249. Mussolin 2006 Mauro Mussolin, Forme in fieri. I modelli architettonici nella progettazione di Michelangelo, in Elam 2006, pp. 95-111. Mussolin 2007 Mauro Mussolin, La Tribuna delle Reliquie di Michelangelo e la controfacciata di San Lorenzo a Firenze, in Ruschi 2007, pp. 183-199. Mussolin 2009 Mauro Mussolin, Teoria, prassi, antico: la trasmissione dei saperi architettonici a Siena nel Rinascimento, in Architetti a Siena tra XV e XVII secolo. Documenti dalla Biblioteca Comunale degli Intronati, a cura di Daniele Danesi, catalogo della mostra (Siena novembre 2009 - aprile 2010), Cinisello Balsamo (Milano) 2009. Morresi 2000 Manuela Morresi, Jacopo Sansovino, Milano 2000. Mussolin in c.d.s. Mauro Mussolin, Michelangelo e la Tribuna delle Reliquie di Clemente VII in San Lorenzo, Firenze in c.d.s. Morresi 2004 Manuela Morresi, La réédition des Livres I à V et de l’Extraordinario Libro à Nava Cellini 1936 Antonia Nava Cellini, La storia della chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini nei documenti del suo archivio, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, LIX, 1936, pp. 343 sgg., 349, 355. liane (da Sangallo a Michelangelo), in Carmelo Occhipinti, Pirro Ligorio e la storia cristiana di Roma da Costantino all’Umanesimo, Pisa 2007. Navenne 1914 Ferdinand de Navenne, Rome: le Palais Farnèse et les Farnèse. Ouvrage accompagné d’un portrait inédit du Pape Paul III, Paris 1914. Olivato 1970 Loredana Olivato, Profilo di Giorgio Vasari il Giovane, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte”, 17, 1970, pp. 181232. Nelson 2005 Jonathan Nelson, Pietro Vannucci detto il Perugino, in Da Allegretto Nuzi a Pietro Perugino, a cura di Fabrizio Moretti, Gabriele Caioni, catalogo della mostra (Firenze, 30 settembre 29 ottobre 2005), Firenze 2005, pp. 150-159. Nesselrath 1983 Arnold Nesselrath, Das Liller “Michelangelo-Skizzenbuch”, in “Kunstchronik”, 36,1983, pp. 46-47. Nesselrath 1986 Arnold Nesselrath, I libri di disegni di antichità: tentativo di una tipologia, in Salvatore Settis (a cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana, 3 voll., Torino 1984-1986, vol. III (1986), Dalla tradizione all’archeologia, pp. 87-147. Nesselrath 1992 Arnold Nesselrath, Codex Coner-85 years on, in Jennifer Montagu (a cura di), Cassiano Dal Pozzo’s Paper Museum, 2 voll., Milano 1992, vol. II, pp. 145-167. Nesselrath 1993 Arnold Nesselrath, Das Fossombroner Skizzenbuch, in “Studies of the Warburg Institute”, XLII, 248, [106], 1993. Niebaum 2007 Jens Niebaum, San Giovanni dei Fiorentini, in Christina Strunck (a cura di), Meisterwerke der Baukunst von der Antike bis heute. Festgabe für Elisabeth Kieven, Petersberg 2007, pp. 232-237. Nova 1984 Alessandro Nova, Michelangelo architetto, Milano 1984. Nuovo, Coppens 2005 Angela Nuovo, Christian Coppens, I Giolito e la stampa, Genève 2005. Nussbaum 1979 Otto Nussbaum, Die Aufbewahrung der Eucharistie, Bonn 1979. Occhipinti 2007 Carmelo Occhipinti, Procopio e i Goti (da Raffaello a Ligorio). Le mura aure- bibliografia Pacciani 1990 Riccardo Pacciani, Michelangelo, Pio IV e i certosini a S. Maria degli Angeli, in Certose e certosini in Europa, atti del convegno (Padula, 22-24 settembre 1988), Civita 1990, pp. 109126. Pacciani 1998 Riccardo Pacciani, Firenze nella seconda metà del secolo, in Francesco Paolo Fiore (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, Milano 1998, pp. 330-373. Pagliara 1972 Pier Nicola Pagliara, Palazzo Niccolini in Banchi: problemi di attribuzione, in “Controspazio”, luglio 1972, pp. 5255. Pagliara 1980 Pier Nicola Pagliara, Note su murature e intonaci a Roma tra Quattrocento e Cinquecento, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 11, 1980, pp. 35-44. Pagliara 1982 Pier Nicola Pagliara, Alcune minute autografe di G. Battista da Sangallo: parti della traduzione di Vitruvio e la lettera a Paolo III contro il cornicione michelangiolesco di Palazzo Farnese, in “Architettura: archivi, fonti e storia”, I, 1982, pp. 25-50. Pagliara 1986 Pier Nicola Pagliara, Vitruvio da testo a canone, in Memoria dell’antico nell’arte italiana. III. Dalla tradizione all’archeologia, Torino 1986, pp. 5-85. O.P. Allen Duston, The Fifteenth Century Frescoes in the Sistine Chapel, Recent Restorations of the Vatican Museums, 4 voll., Città del Vaticano 2003, pp. 77-86. Pagliucchi 1906-1909 Pio Pagliucchi, I castellani del Castel S. Angelo di Roma con documenti inediti relativi alla storia della Mole Adriana tolti dall’archivio segreto vaticano e da altri archivi, 2 voll., Roma 1906-1909. Pagliucchi 1973 Pio Pagliucchi, I castellani del Castel S. Angelo di Roma con documenti inediti relativi alla storia della Mole Adriana, Roma 1973. Palladio, ed. Faciotto 1600 Andrea Palladio, L’antichità dell’alma città di Roma, Guglielmo Faciotto, Roma 1600. Pancotto 1995 Pier Paolo Pancotto, Palazzo Bolognetti ai SS. XII Apostoli, in Elisa Debenedetti (a cura di), Roma borghese. Case e palazzetti d’affitto, 2 voll., Roma 1995, vol. II, pp. 165-169. Pane 1964 Roberto Pane, L’architettura della volta Sistina, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 95-120. Paoletti 2000 John T. Paoletti, The Rondanini “Pietà”: Ambiguity Maintained Through the Palimpsest, in “Artibus et historiae”, 42, 2000, pp. 60-63. Papillo 2003 Giuseppe Papillo, Il rilievo come contributo critico per la lettura del monumento funebre di Papa Giulio II, in “Monumenti di Roma”, 1, 2003, pp. 19-27. Papini 1949 Giovanni Papini, Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo, Milano 1949. Pagliara 1989 Pier Nicola Pagliara, voce Della Volpaia, Bernardo [Bernardino], in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXXVII, Roma 1989, pp. 795-797. Papini 1962 Giovanni Papini, La casa di Michelangelo, in “Bollettino delle Assicurazioni Generali”, 1, 1962, pp. 40-42. Pagliara 1997 Pier Nicola Pagliara, Le tecniche di costruzione del XVI secolo, in Tittoni 1997, pp. 59-66. Parisi Presicce 1990 Claudio Parisi Presicce, Il Marco Aurelio in Campidoglio, Cinisello Balsamo (Milano) 1990. Pagliara 2003 Pier Nicola Pagliara, The Sistine Chapel: Its Medieval Precedents and Reconstruction, in Francesco Buranelli, Parisi Presicce 1994a Claudio Parisi Presicce, I Dioscuri Capitolini e l’iconografia dei gemelli divini in età romana, in Leila Nista (a cu- ra di), Castores. L’immagine dei Dioscuri a Roma, Roma 1994, pp. 152191, tavv. I-XVI. Parisi Presicce 1994b Claudio Parisi Presicce, Le statue sulle balaustre dei Palazzi Capitolini. Il progetto di Michelangelo, la donazione di Pio V e la sistemazione attuale, in Tittoni 1994, pp. 135-174. Parisi Presicce 1995 Claudio Parisi Presicce, Le statue sulla balaustra del Palazzo Senatorio: tipologia, cronologia e restauri, in Tittoni 1995, pp. 105-132. Parisi Presicce 1996 Claudio Parisi Presicce, Il Campidoglio come memoria. Dall’exemplar di Michelangelo alla creazione del Museo, in Il Palazzo dei Conservatori e il Palazzo Nuovo in Campidoglio. Momenti di storia urbana di Roma, Ospedaletto (Pisa) 1996, pp. 99120. Parisi Presicce 1997a Claudio Parisi Presicce, Il basamento michelangiolesco del Marco Aurelio, in Mura Sommella, Parisi Presicce 1997, pp. 46-63. Parisi Presicce 1997b Claudio Parisi Presicce, L’immagine del cavaliere. Riproduzioni, copie e raffigurazioni del Marco Aurelio, in Mura Sommella, Parisi Presicce 1997, pp. 26-45. Parisi Presicce 1997c Claudio Parisi Presicce, Le statue sulle balaustre del Palazzo dei Conservatori e del Palazzo Nuovo: tipologia, cronologia e restauri, in Tittoni 1997, pp. 109-118. Parker 1956 Karl Theodor Parker, Catalogue of the collection of drawings in the Ashmolean Museum, Oxford 1956. Pasquinelli 1925 Antonio Pasquinelli, Ricerche edilizie su S. Maria degli Angeli, in “Roma: rivista di studi e di vita romana”, 3, 1925, pp. 349-356. Passerini 1875 Luigi Passerini, La bibliografia di Michelangelo Buonarroti e gli incisori delle sue opere, Firenze 1875. Passigli 1989 Stefania Passigli, Urbanizzazione e topografia a Roma nell’area dei fori Imperiali tra XIV e XVI secolo, in “Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen âge”, CI, 1, 1989, pp. 273-325. 353 Pastor 1944-1963 Ludwig Freiherr von Pastor, Geschichte der Päpste im Zeitalter der katholischen Reformation und Restauration, 17 voll., Freiburg-Roma 19441963. Pastor 1944-1963 Ludwig von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del medio evo, 17 voll., Roma 1944-1963. Patetta 1982 Luciano Patetta (a cura di), I Longhi, una famiglia di architetti tra Manierismo e Barocco, nota introduttiva di Giulio Carlo Argan, Milano 1982. Pauwels 1989 Yves Pauwels, Les origines de l’ordre composite, in “Annali di architettura”, 1, 1989, pp. 29-46. Pecchiai 1950 Pio Pecchiai, Il Campidoglio nel Cinquecento sulla scorta dei documenti, Roma 1959. Pellecchia 1989 Linda Pellecchia, The patron’s role in the production of architecture: Bartolomeo Scala and the Scala Palace, in “Renaissance Quarterly”, XLII, 1989, pp. 258-291. Pellegrini 1869 Angelo Pellegrini, Itinerario o guida monumentale di Roma antica e moderna e suoi dintorni, Roma 1869. Pepper 1976 Simon Pepper, Planning vs Fortification: Sangallo’s plan for the defense of Rome, in “Architectural Review”, 159, 1976, pp. 162-129. Pepper, Adams 1994 Simon Pepper, Nicholas Adams, Signification drawing, in Frommel, Adams 1994, pp. 61-74. Pernier 1942 Adolfo Pernier, Notizie inedite sulla casa detta di Michelangelo alle pendici occidentali del Campidoglio, in “Capitolium”, XVII, 3-4, 1942, pp. 85-102. Perrier 1638 François Perrier, Segmenta nobilium signorum et statuarum que temporis dentem invidium evase, Roma 1638. Pessolano 1998 Maria Raffaela Pessolano, Napoli nel Cinquecento: le fortificzioni “alla moderna” e la città degli spagnoli, in “Restauro. Quaderni di restauro dei monumenti e di urbanistica dei centri 354 minori”, XXVII, 146, 1998, pp. 56118. Petrioli Tofani 1991 Annamaria Petrioli Tofani, I materiali e le tecniche, in Annamaria Petrioli Tofani, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Gianni Carlo Sciolla, Il disegno: forme, tecniche, significati, Torino 1991, pp. 187-251. Petrucci 1998 Giulia Petrucci, La via Sistina da Porta del Popolo al Vaticano ed il programma urbanistico di Sisto IV per Borgo (1471-1484), in “Storia dell’urbanistica”, 4, 1998, pp. 35-46. Piantoni 1980 Roma 1911, a cura di Gianna Piantoni, catalogo della mostra (Roma, 4 giugno - 15 luglio 1980), Roma 1980. Pietrangeli 1957 Carlo Pietrangeli, Campane e orologi sul Campidoglio, in “Capitolium”, XXXII, 4, 1957, pp. 1-8. Pietrangeli 1985 Carlo Pietrangeli, I Musei Vaticani. Cinque secoli di storia, Roma 1985. Pinelli 2000 Antonio Pinelli (a cura di), La Basilica di San Pietro in Vaticano, 4 voll., Modena 2000. Pirri 1941 Pietro Pirri, La Topografia del Gesù di Roma e le vertenze tra Muzio Muti e S. Ignazio secondo nuovi documenti, in “Archivum Historicum Societatis Iesu”, X, II, 1941, pp. 177-217. Pisani 1997 F. Pisani, voce Calcagni, Tiberio, in Allgemeines Künstlerlexikon, vol. II, München-Leipzig 1997, pp. 555557. Podestà 1875 Bartolomeo Podestà, Documenti inediti relativi a Michelangelo Buonarroti, in “Il Buonarroti”, 10, 1875, pp. 128-137. Pollak 1915 Oskar Pollak, Ausgewählte Akten zur Geschichte der Römischen Peterskirche (1535-1621), in “Jahrbuch der Königlich Preußischen Kunstsammlungen”, Beiheft, 36, 1915, pp. 21-117. Polverini Fosi 1989 Irene Polverini Fosi, Il Consolato Fiorentino a Roma e il progetto per la Chiesa Nazionale, in “Studi romani”, 37, 1989, pp. 50-70. Polverini Fosi 1994 Irene Polverini Fosi, I Fiorentini a Roma nel Cinquecento: storia di una presenza, in Giorgio Gensini (a cura di), Roma capitale 1447-1527, Ospedaletto (Pisa) 1994, pp. 389-414. Pontan