GALLERIA BORBONICA Vico del Grottone, 4 - 80132 Napoli Via D. Morelli, 61 - 80121 Napoli Info e prenotazioni Aperto ogni venerdì, sabato, domenica e festivi. Visite guidate ore 10.00-12.00;15.30-17.30; Percorso “Napoli tra le mani” Secondo e quarto venerdì del mese - Ore 10:00 Primo sabato del mese – Ore 10:00 Numero massimo di partecipanti per gruppo: 10. Prenotazione obbligatoria da effettuarsi a mezzo mail almeno 2 giorni prima della visita. Tel.: 0817645808 - 3662484151 www.galleriaborbonica.it La Galleria Borbonica è un percorso sotterraneo della città di Napoli che costituisce il vanto dell’ingegneria civile borbonica, nonché un percorso emozionante e di inestimabile valore che consente di conoscere quanto realizzato nel sottosuolo della città negli ultimi cinquecento anni. Il sito è visitabile al pubblico da ottobre 2010 grazie al lavoro di recupero svolto dall’Associazione culturale Borbonica Sotterranea. Questo, infatti, versava in un stato di totale abbandono e degrado ed era stato utilizzato, nel corso degli ultimi anni, come luogo di sversamento e deposito dei materiali più svariati. Il progetto di recupero è stato avviato nel 2005 dai geologi Gianluca Minin ed Enzo De Luzio (rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione) che, coadiuvati da una serie di giovani volontari, hanno deciso di riportare alla luce il patrimonio nascosto sotto le macerie accumulate. La collaborazione con il Servizio di Ateneo per le Attività degli studenti con Disabilità (SAAD) dell’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa conferma la volontà dell’Associazione Borbonica Sotterranea di rendere il percorso fruibile a tutti. Il percorso, interamente scavato nel tufo, permette l’attraversamento degli ambienti legati ai tratti dell’acquedotto sotterraneo della Bolla1 e favorisce 1 L'acquedotto della Bolla è l'acquedotto realizzato dai Romani che ha alimentato la città di Napoli fino al 1884; i Romani drenarono una falda acquifera poco profonda presente nell'attuale comune di Volla e la convogliarono tramite cunicolo fino al centro della città. Successivamente, con l'espansione urbanistica della città, l'acquedotto si è espando verso occidente arrivando ad alimentare anche la zona di Chiaia. l’incontro sia con le opere civili che caratterizzano la Galleria, sia con la trasformazione più o meno radicale che tali ambienti hanno subito quando, all’inizio delle ostilità della Seconda Guerra Mondiale, sono stati risignificati, attraverso un’imponente opera pubblica, come ricovero antiaereo per i cittadini napoletani. Tutto si svolge in una suggestiva cornice formata dai peculiari oggetti ritrovati: frammenti di statue, auto e moto d’epoca che costituirono il fulcro del deposito giudiziario del Comune di Napoli, realizzato in queste cavità dagli anni Cinquanta. A metà dell’Ottocento, Ferdinando II di Borbone commissionò all’illustre architetto Errico Alvino la progettazione di un viadotto sotterraneo che, passando sotto il monte Echia, congiungesse il Palazzo Reale con Piazza Vittoria, prossima al mare e alle caserme. Tale progetto doveva mirare alla realizzazione di un percorso civile e militare rapido, in difesa della Reggia, per le truppe acquartierate nella caserma di Via Pace (attuale Via Domenico Morelli), in un periodo di grave instabilità politica per il Regno di Napoli. Nell’aprile del 1853 si diede inizio ai lavori, per l’apertura della traccia, per un cunicolo che avrebbe raggiunto in soli due anni 430 metri di lunghezza, congiungendo Via Morelli a Piazza Carolina. Negli anni successivi il progetto fu dichiarato sospeso e, mai completato, non fu mai utilizzato per gli scopi che ne avevano decretato la realizzazione. Gli ambienti sarebbero stati utilizzati soltanto un secolo dopo, quando nel corso della Seconda Guerra Mondiale, diventarono parte integrante del rifugio sotterraneo antiaereo di Monte di Dio. Successivamente al periodo bellico, gran parte degli ambienti della Galleria furono utilizzati come deposito giudiziario del Comune di Napoli. Nel deposito venivano ospitati i veicoli sequestrati perché modificati o utilizzati in modo improprio e i veicoli abbandonati dai tedeschi e dagli americani. Il deposito terminò la sua attività all’inizio degli anni Settanta e i tanti automezzi che rimangono in loco costituiscono oggi parte integrante della visita, oltre che una testimonianza viva di un passato che, così come la totalità della Galleria Borbonica, rischiava di essere tralasciato e dimenticato per sempre a causa dell’incuria umana. Monumento funebre a Aurelio Padovani, C. Veroli, G. Roherssen 1934. Durante i lavori di scavo nella Galleria Borbonica, sotto i detriti sversati in decenni di abbandono, è emerso il piede di una statua. Dopo un sopralluogo congiunto con la Soprintendenza ai Beni Archeologici di Napoli, si è convenuto che le dimensioni della statua, cui il piede doveva appartenere, potessero essere ragguardevoli. L’Associazione Borbonica Sotterranea si è fatta quindi carico di rimuovere i detriti e con l’aiuto di volontari è riuscita a disseppellire il resto della statua. L’insieme delle varie parti rappresenta quello che poi si è scoperto essere un grande monumento funerario, alto circa 4 metri e composto da diverse figure. Un monumento dedicato alla memoria di Aurelio Padovani, fondatore del fascio napoletano (4 agosto 1920) e capitano dei bersaglieri. Il capitano Padovani morì a Napoli in Via Generale Orsini, in seguito al crollo della balaustra di un balcone. Era il pomeriggio del 16 giugno del 1926 e Padovani, per rispondere alla folla lì raccoltasi per omaggiarlo nel giorno del suo onomastico, corse al balcone del suo appartamento insieme ad altre otto persone a lui più vicine: il balcone ebbe un cedimento improvviso e nell’incidente persero la vita il capitano e le altre otto persone con lui. Il monumento fu inaugurato a Napoli e collocato nella piazza Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone nel 1934. Fu progettato da Marcello Canino e scolpito da Carlo Veroli con la collaborazione di Guglielmo Roherssen e in quel momento la piazza cambiò nome, assumendo quello del comandante fascista, nome che mantenne insieme anche al monumento per una decina di anni. Nel dopoguerra la voglia di cancellare i simboli del regime fascista, così come avviene alla fine di ogni regime o guerra, non risparmiò il monumento di Padovani che fu smembrato ed abbandonato nel fossato del Maschio Angioino. Per un lungo periodo se ne persero le tracce fino al ritrovamento nel 2010 da parte dell’Associazione Borbonica sotterranea all’interno del Tunnel. Posto all’inizio del percorso è dunque il busto dello stesso Padovani. Il comandante è rappresentato come un giovane forte e possente, fisicamente vigoroso e maestoso, in un aspetto aulico, con fattezze fisiche non proprio corrispondenti alla realtà. Effettivamente, al momento della morte, Aurelio Padovani era non proprio giovanissimo ed era alquanto smagrito e fragile nel fisico. La volontà di rappresentarlo forte, bello, proporzionato in tutte le sue componenti fisiche, in realtà si allineava perfettamente a quello che all’epoca era la concezione artistica del regime, dove la bellezza e la prestanza fisica volevano rappresentare anche la bellezza intellettuale, dove il vigore e l’aspetto aulico erano null’altro che la celebrazione del regime stesso. Un’arte che in questo senso recupera tratti, quali gli schemi compositivi e l’idea del bello con proporzioni armoniche, tipici dell’arte classica romana, con la chiara volontà di paragonare il regime ai fasti dell’antica Roma Imperiale. Manovella per accensione auto Bianchi S5 Lungo il percorso si incontra un ambiente compreso tra due archi a contrapposizione che creano una sorta di vano per contenere le auto del deposito giudiziario, utilizzato dal Comune di Napoli a partire dal 1950. Il deposito termina la sua attività agli inizi degli anni Settanta, ma tanti automezzi rimangono in loco perché mai dissequestrati per i motivi più vari, talvolta ad esempio perché era antieconomico farlo, talvolta perché non si risaliva al reale proprietario. I veicoli che sono presenti all’interno del deposito giudiziario erano sequestrati dalle autorità comunali per vari motivi: potevano essere utilizzati per attività illecite come per esempio il contrabbando di sigarette, potevano essere stati modificati e quindi non erano più omologati o semplicemente essere stati abbandonati dagli eserciti stranieri in città. All’interno del vano creato dagli archi contrapposti sono situati, in maniera speculare, un autocarro, utilizzato per il contrabbando di sigarette, e una Bianchi S5. La Bianchi S5 è un’auto realizzata nel 1936 dalla Eduardo Bianchi, casa automobilistica che si è poi specializzata nella costruzione di telai per le bici che fecero conquistare due mondiali a Gianni Bugno nel 1991 e 1992. La Bianchi produceva delle elegantissime auto Torpedo con ruote a raggi. Questa auto era nascosta da tonnellate di terreno e pietre, ma miracolosamente conserva ancora alcuni tratti distintivi e particolari. Dalla posizione del manubrio si evince che l’auto conservava la guida a destra: in Italia, fino al 1925, si circolava a sinistra, ma chi non voleva cambiare abitudine continuava a chiedere la guida a destra, di conseguenza molte auto, tra cui la Bianchi S5, hanno continuato ad essere prodotte col volante a destra. Nel corso del lavoro di recupero, i volontari dell’Associazione Borbonica Sotterranea hanno trovato, gelosamente custodita nel portabagagli dell’auto, la manovella di accensione. Anche se l’auto aveva, infatti, già tutti i componenti elettrici che hanno le auto di oggi, la batteria spesso non aveva lo spunto necessario e quindi era necessario avviarla manualmente con la manovella. Quest’oggetto era una sorta di chiave dell’epoca e si inseriva all’interno di un foro che i meccanici napoletani chiamavano “maruzziello” che in italiano significa “lumaca di mare”, poiché aveva un forma elicoidale. Una volta inserita all’interno del foro, la manovella si doveva far girare finché il motore non si riavviava. Poteva capitare talvolta che se il motore non era messo a punto, la partenza del veicolo causava qualche contraccolpo che si ripercuoteva sul polso dell’autista, determinando la lesione del radio, soprannominata, pertanto, “frattura da manovella”. Mummarelle Mummarella La mummarella è una tipica anfora di creta utilizzata nella città di Napoli per conservare l’acqua prelevata attraverso i pozzi dagli acquedotti sotterranei. La tipica forma, con imboccatura molto stretta e parte centrale molto ampia, permetteva di evitare la dispersione dei liquidi. L’insieme delle cisterne sotterranee costituivano l’antica rete acquedottistica, completamente scavata a mano nel tufo. Il tufo è un materiale da costruzione molto diffuso a Napoli, prodotto dall’eruzione della caldera dei Campi Flegrei più di 15.000 anni fa. L'acqua che alimentava l'acquedotto, in antichità proveniva dalla piana di Volla, a circa 7 km da Napoli, e non a caso l'acquedotto più antico, greco-romano, si chiamava Acquedotto della Bolla. Quando la rete idrica della Bolla risultò insufficiente a soddisfare i bisogni della città di Napoli in espansione, questa fu estesa tramite l'acquedotto del Carmignano, realizzato tra il 1627 e il 1629, che trasportava l'acqua da Sant'Agata dei Goti, in provincia di Benevento, a Napoli. Nel 1855, con l’entrata in funzione dell'acquedotto del Serino in seguito all'esproprio delle sorgenti Urciuoli in provincia di Avellino, dotato di tubi a pressione, la rete acquedottistica sotterranea cadde in disuso. Le cisterne della vecchia rete acquedottistica della città di Napoli hanno dimensioni molto varie e, in prossimità della Galleria Borbonica, si sviluppano tra quota 3 m e quota 21 m sul livello del mare; rispetto al piano campagna, coincidente con la parte alta di via Monte di Dio, il fondo di alcune cisterne si rinviene a 40 m di profondità. L’ampiezza degli ambienti non si giustifica solo con la necessità di conservare l’acqua nel sottosuolo a beneficio dei napoletani ma anche con la necessità di realizzare uno scavo sotterraneo che spesso aveva come scopo primario l’estrazione in profondità dei materiali tufacei utili nell’edificazione dei palazzi napoletani. Lo scavo proseguiva anche dopo che la cava aveva soddisfatto le necessità di materiale da estrarre, poiché il secondo obiettivo era la trasformazione della cava in cisterna acquedottistica. Si arrivava quindi alla quota della rete di cunicoli dell'acquedotto, successivamente collegati alla cisterna appena realizzata che veniva pertanto impermeabilizzata con la malta idraulica per evitare la dispersione dell’acqua all’interno delle porose pareti in tufo. Primo ponte Nel settore centrale della Galleria si rinviene una grossa cisterna all'interno della quale sono espresse tre delle epoche storiche che caratterizzano il percorso: il periodo acquedottistico, rappresentato da una cisterna del XVII secolo; il periodo borbonico, contraddistinto da un ponte costruito nel XIX secolo; i bagni dalla Seconda Guerra Mondiale. Emerge in questo punto la principale problematica tecnica incontrata dall’architetto Errico Alvino nella realizzazione della Galleria Borbonica, ossia la compresenza del suo percorso sotterraneo con la rete acquedottistica napoletana, a quell’epoca in perfetto utilizzo. L’architetto ebbe quindi la necessità di oltrepassare la cisterna incontrata in questo ambiente e di non togliere l’acqua alla popolazione. Costruì pertanto un ponte, per oltrepassare l’ambiente, e due muri che da un lato servivano a blindare la cisterna per ragioni di sicurezza, dall’altro la dividevano di fatto in due parti, in modo da consentire il passaggio del re da un lato e il permanere dell’acqua dall’altro lato. Si tratta di muri di splendida fattura realizzati con la tecnica dell’alternanza di mattoni in cotto e tufo, che resero gloria all’architetto in occasione della visita ufficiale di Ferdinando II avvenuta il 25 maggio del 1855 quando la Galleria venne decorata e illuminata sfarzosamente con fiaccole e lanterne rimanendo aperta al pubblico per 3 giorni. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nella volontà di trasformare la Galleria in un rifugio antiaereo per i cittadini napoletani, uno dei parapetti del ponte fu distrutto, per realizzare una serie di bagni. Bagni, divisi da muri spessi, che ancora oggi posseggono i servizi igienici in ceramica, e che un tempo erano dotati di porte in legno di colore verde, poi consumate dall’umidità, e di due vani laterali, rispettivamente per le docce e per i lavandini, dei quali tuttavia non è sopravvissuta traccia. In questa parte del percorso, i volontari dell’Associazione Borbonica Sotterranea hanno ricostruito due effetti originari del periodo bellico, così da rivivere o quanto meno immaginare quegli attimi drammatici: la sirena di allarme e il sistema elettrico di emergenza. La sirena di allarme, che suonava in tutti i quartieri della città, indicava che i napoletani avevano circa 10 minuti di tempo per giungere ai ricoveri più vicini, perché di lì a poco sarebbero iniziati i bombardamenti; il sistema elettrico di emergenza era di 12 volt, praticamente pari alla luce emanata da una candela. Il tremolio di questa luce fungeva anche da segnale, perché il suo cessare indicava che i bombardamenti erano terminati e la popolazione finalmente poteva ritornare in città.