DIR. EDITORIALE
ART DIRECTOR
EDITOR
T H E C E N T U RY T R I L O G Y I
KEN
FOLLETT
REDAZIONE
GRAFICO
T H E C E N T U RY T R I L O G Y I
KEN
FOLLETT
ROMANZO
LA CADUTA
DEI GIGANTI
ROMANZO
LA CADUTA
DEI GIGANTI
FOLLETT36.indd 1
CARTA: Cartoncino Integra 190 gr - PROFILO DI STAMPA: Po_Offset_MP7_010409.icc - DIMENSIONE: 105x150
14/07/10 16:31
UFF. TECNICO
DIR. EDITORIALE
ART DIRECTOR
28 SETTEMBRE 2010
IN CONTEMPORANEA MONDIALE
KEN FOLLETT
LA CADUTA DEI GIGANTI
EDITOR
REDAZIONE
GRAFICO
Ken Follett ha fatto sognare milioni di italiani.
I suoi romanzi hanno venduto
13 milioni di copie nel nostro paese
e oltre 120 milioni nel mondo.
I destini di cinque famiglie si intrecciano inesorabilmente
attraverso due continenti sullo sfondo dei drammatici eventi
scatenati dallo scoppio della Prima guerra mondiale e dalla
Rivoluzione russa.
1911. Il giorno dell’incoronazione di Giorgio V nell’abbazia
di Westminster, Billy Williams compie tredici anni e inizia
a lavorare in miniera ad Aberowen, in Galles. Amore e
inimicizia legano la sua famiglia agli aristocratici Fitzherbert,
proprietari della miniera. Lady Maud Fitzherbert, sostenitrice
del diritto di voto alle donne, si innamora dell’affascinante
Walter von Ulrich, spia tedesca all’ambasciata di Londra. Le
loro strade incrociano quella di Gus Dewar, giovane assistente
del presidente americano Wilson. Ed è proprio in America che
due orfani russi, Grigorij e Lev Peškov, progettano di emigrare.
Dalle miniere di carbone ai candelabri scintillanti di palazzi
sontuosi, dai corridoi della politica alle alcove dei potenti, da
Washington a San Pietroburgo, da Londra a Parigi il racconto si
muove tra drammi nascosti e intrighi internazionali. Protagonisti
ricchi aristocratici, poveri ambiziosi, donne coraggiose e sopra tutto e tutti le conseguenze della guerra per chi la fa e chi resta a casa.
Primo grande romanzo di “The Century” – la nuova trilogia di
Ken Follett dedicata al XX secolo – La caduta dei giganti è un’opera
epica, uno straordinario affresco storico che, al pari de I pilastri
della terra e Mondo senza fine, è destinato a diventare un classico.
I pilastri della terra e Mondo senza fine
sono stati ai vertici delle classifiche internazionali,
con più di 20 milioni di copie vendute.
Ken Follett ha pubblicato con Mondadori: Lo scandalo Modigliani, Alta finanza, La cruna dell’Ago, Triplo, Il codice Rebecca,
L’uomo di Pietroburgo, Sulle ali delle aquile, Il pianeta dei bruchi,
Il mistero degli studi Kellerman, Un letto di leoni, I pilastri della terra,
Notte sull’acqua, Una fortuna pericolosa, Un luogo chiamato libertà,
Il terzo gemello, Il Martello dell’Eden, Codice a zero, Le Gazze Ladre,
Il volo del calabrone, Nel bianco e Mondo senza fine.
www.lacadutadeigiganti.it
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CARTA: Cartoncino Integra 190 gr - PROFILO DI STAMPA: Po_Offset_MP7_010409.icc - DIMENSIONE: 105x150
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UFF. TECNICO
Ken Follett
LA CADUTA
DEI GIGANTI
In esclusiva la presentazione
delle principali famiglie
LA FAMIGLIA
WILLIAMS
BILLY
WILLIAMS
Il giorno in cui Giorgio V fu incoronato nell’abbazia di
Westminster a Londra, Billy Williams scese in miniera ad
Aberowen, nel Galles meridionale.
Era il 22 giugno 1911, e Billy compiva tredici anni. Fu
suo padre a svegliarlo con la solita tecnica, efficace ma non
molto delicata: gli diede alcuni schiaffetti decisi e insistenti
sulla guancia. Il ragazzo, immerso in un sonno profondo,
dapprima cercò di ignorarli, ma avvertì un moto di rabbia
quando continuarono implacabili. Poi ricordò che doveva, anzi, voleva alzarsi, così aprì gli occhi e scattò a sedere.
«Sono le quattro» annunciò papà prima di uscire dalla
stanza. I suoi scarponi risuonarono giù per la scala di legno.
Quel giorno Billy avrebbe iniziato la sua vita di apprendista minatore, come quasi tutti i suoi compaesani avevano
fatto alla sua età. Avrebbe voluto sentirsi già un vero minatore, ma era comunque determinato a fare bella figura. David Crampton aveva pianto il primo giorno che era sceso in
miniera, e da allora lo chiamavano “il Frignone”, malgrado avesse venticinque anni e fosse la stella della squadra
di rugby della città.
Era estate, e dalla finestra filtrava già la luce chiara del
mattino. Billy lanciò un’occhiata al nonno, disteso accanto
a lui con gli occhi aperti. Era sempre sveglio quando lui si
alzava: i vecchi non dormono molto, sosteneva.
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ETHEL
WILLIAMS
Ethel aveva diciotto anni, e per Billy era evidente che era bella, con quei riccioli ribelli color mogano e gli occhi scuri che
brillavano di malizia. Forse la mamma era così da giovane.
Ethel indossava la divisa da cameriera – un semplice abito
nero con la cuffia di cotone bianco – che le donava molto.
Billy l’adorava. Oltre che bella, era spiritosa, intelligente
e coraggiosa, al punto che a volte osava addirittura contraddire papà. Parlava a Billy come nessun altro faceva, spiegandogli cose come l’evento mensile che le donne chiamavano “la Maledizione”, e quale colpa avesse spinto il parroco
anglicano a lasciare in fretta e furia la città sollevando il
pubblico scandalo. Era sempre stata la prima della classe,
e il suo saggio “La mia città o il mio villaggio” aveva vinto il primo premio nel concorso istituito dal “South Wales
Echo”. Una copia dell’Atlante mondiale Cassell.
Ethel baciò Billy sulla guancia. «Ho detto a Mrs Jevons,
la governante, che eravamo a corto di lucido da scarpe e facevo meglio ad andarlo a prendere in città.» Lei viveva e lavorava a Ty Gwyn, la maestosa residenza del conte Fitzherbert, un chilometro e mezzo su, verso la montagna. Ethel
porse a Billy qualcosa avvolto in una salvietta pulita. «Ho
rubato un pezzo di torta per te.»
«Oh, grazie, Eth!» Billy adorava le torte.
«Lo mettiamo nella tua gavetta?» propose la mamma.
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LA CADUTA DEI GIGANTI
«Sì, grazie.»
La mamma sistemò la torta in un contenitore di latta
preso dalla credenza. Tagliò altri due pezzi di pane, li cosparse col grasso d’arrosto, li salò e infilò anche quelli nel
contenitore. Tutti i minatori avevano una “gavetta” di latta perché, se avessero avvolto il cibo in un tovagliolo, i topi
glielo avrebbero mangiato prima della pausa di metà mattina. «Quando mi porterai a casa la paga» gli disse la mamma «ti metterò nella gavetta una fetta di pancetta lessata.»
All’inizio il suo salario sarebbe stato modesto, ma avrebbe comunque aiutato la famiglia. Si chiese quanto gli avrebbe lasciato la mamma per le piccole spese, e se sarebbe mai
riuscito a risparmiare abbastanza per una bicicletta, che desiderava più di ogni altra cosa al mondo.
«Come va a palazzo?» chiese papà a Ethel.
«Tutto tranquillo. Il conte e la principessa sono a Londra
per l’incoronazione.» Ethel guardò l’orologio sulla mensola del camino. «Tra poco si alzeranno perché devono arrivare per tempo all’Abbazia. A lei non farà piacere perché
non è abituata alle levatacce, ma quando c’è di mezzo il re
non si può certo arrivare in ritardo.» La moglie del conte,
Bea, era una principessa russa assai altezzosa.
«Vorranno prendere posto nelle prime file per godersi lo
spettacolo» osservò papà.
«Oh, no, non ci si può sedere dove si vuole» spiegò Ethel.
«Per l’occasione hanno fatto fare seimila sedie di mogano
con il nome degli invitati scritto in oro sullo schienale.»
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Ken Follett
«Santo cielo, che spreco!» esclamò il nonno. «E dopo
cosa ne fanno?»
«Non ne ho idea. Magari se le portano a casa per ricordo.»
«Dovesse avanzarne una, di’ che la mandino a noi» commentò papà con sarcasmo. «Qui siamo solo in cinque, eppure tua madre deve stare in piedi.»
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LA FAMIGLIA
FITZHERBERT
EARL
FITZHERBERT
Il conte Fitzherbert, ventotto anni, noto a parenti e amici
come Fitz, era il nono uomo più ricco della Gran Bretagna.
Non aveva fatto nulla per guadagnarsi quell’enorme patrimonio: aveva semplicemente ereditato migliaia di ettari
di terra in Galles e nello Yorkshire. Le fattorie producevano poco reddito, ma nel sottosuolo c’era il carbone e, con
la concessione dei diritti di estrazione, il nonno di Fitz aveva accumulato una vera e propria fortuna.
Chiaramente Dio aveva riservato ai Fitzherbert un ruolo
preminente rispetto alla gente comune e un tenore di vita
consono, ma Fitz sentiva di non avere fatto molto per giustificare la fiducia che Dio aveva riposto in lui.
Suo padre, il precedente conte, era diverso. Ufficiale di
marina, promosso ammiraglio dopo il bombardamento di
Alessandria del 1882, era poi divenuto ambasciatore britannico a San Pietroburgo, e infine ministro nel governo guidato da Lord Salisbury. I conservatori avevano perso le elezioni politiche del 1906, e il padre di Fitz era morto poche
settimane dopo. Fitz era convinto che la sua fine fosse stata accelerata dalla notizia che liberali irresponsabili come
David Lloyd George e Winston Churchill stavano per assumere ruoli chiave nel governo di sua maestà.
Fitz gli era subentrato alla Camera dei Lord, la camera
alta del parlamento britannico, come pari conservatore. Par8
LA CADUTA DEI GIGANTI
lava bene il francese e se la cavava con il russo, e un giorno gli sarebbe piaciuto diventare segretario di Stato per gli
Affari esteri. Purtroppo i liberali avevano continuato a vincere le elezioni, per cui gli era stata preclusa la possibilità
di diventare ministro.
La sua carriera militare era stata altrettanto modesta.
Aveva frequentato l’accademia per ufficiali a Sandhurst
e trascorso tre anni nel reggimento dei Fucilieri del Galles, da cui era uscito con il grado di capitano. Dopo il matrimonio, aveva rinunciato al servizio attivo per diventare colonnello onorario della milizia territoriale del Galles
meridionale. Purtroppo un colonnello onorario non conquista mai medaglie.
Comunque aveva qualcosa di cui andare fiero, pensò mentre il treno attraversava tra sbuffi di vapore le valli del Galles meridionale: nel giro di due settimane il re gli avrebbe
fatto visita. Da giovani, re Giorgio V e il padre di Fitz erano stati imbarcati sulla stessa nave e di recente il sovrano
aveva espresso il desiderio di conoscere le idee delle nuove
leve. Per dare modo a sua maestà di incontrare alcuni personaggi di rilievo, Fitz si era dunque attivato per organizzare un ricevimento riservato.
Fitz era molto legato alle tradizioni. Nulla di quanto noto
agli esseri umani era superiore al rassicurante ordine di
monarchia, aristocrazia, commercianti e contadini. In quel
momento, però, guardando fuori dal finestrino del treno,
vide una minaccia allo stile di vita britannico, una minaccia ben più grave di qualsiasi altra fronteggiata dal paese
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Ken Follett
negli ultimi cento anni. I fianchi delle colline, un tempo
verdeggianti, erano coperti dalle case a schiera dei minatori, simili a una ruggine nerastra sulle foglie di un rododendro. In quelle tetre catapecchie si parlava di repubblica, ateismo e rivolta. Era passato poco più di un secolo da
quando la nobiltà francese era stata trascinata verso la ghigliottina sui carri, e lo stesso sarebbe accaduto lì se qualcuno di quei muscolosi minatori con la faccia nera fosse riuscito a far passare le sue idee.
Fitz pensò che avrebbe rinunciato volentieri ai proventi del carbone a patto che la Gran Bretagna potesse tornare a un’epoca di maggiore semplicità. La famiglia reale costituiva un forte baluardo contro l’insurrezione, ma quella
visita, che pure lo inorgogliva, lo preoccupava molto. Erano tante le cose che potevano andare storte: con i reali una
banale svista poteva essere interpretata come un segno di
negligenza e, quindi, come una mancanza di rispetto. Ogni
dettaglio del fine settimana sarebbe stato riportato dai domestici degli ospiti ad altri domestici, e da loro ai datori di lavoro, così che ogni signora dell’alta società londinese avrebbe saputo ben presto se al re erano stati dati un
cuscino troppo duro, una patata scadente o la marca sbagliata di champagne.
La sua Rolls-Royce Silver Ghost lo aspettava alla stazione
di Aberowen. Con la moglie Bea al suo fianco, fu condotto a Ty Gwyn, la residenza di campagna, a un chilometro
e mezzo di distanza. Scendeva una pioggerella leggera ma
insistente, cosa assai frequente in Galles.
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LA CADUTA DEI GIGANTI
In gallese “Ty Gwyn” significava “casa bianca”, ma il
nome era diventato motivo di ironia. Come qualsiasi altra
cosa in quella parte del mondo, l’edificio era coperto da uno
strato di polvere di carbone, e i blocchi di pietra un tempo candidi adesso erano di un grigio scuro e sporcavano
gli abiti delle signore che distrattamente sfioravano i muri.
Tuttavia era un edificio grandioso, e Fitz avvertì un moto
d’orgoglio mentre l’auto risaliva silenziosa il viale d’ingresso. Ty Gwyn, la più grande dimora privata del Galles, aveva duecento stanze. Una volta, da bambino, insieme alla
sorella Maud si era messo a contare le finestre: ne avevano
individuate cinquecentoventitré. Era stata costruita da suo
nonno, e la struttura a tre piani risultava assai armoniosa.
LADY MAUD
FITZHERBERT
L’incanto fu spezzato dal rumore di ruote sul viale d’ingresso, seguito da una voce familiare. «Peel! Che gioia rivederla!»
Fitz guardò dalla finestra e assunse un’espressione comica. «Oh, no! Mia sorella!»
«Bentornata, Lady Maud» l’accolse Peel. «Anche se non
l’aspettavamo.»
«Il conte ha dimenticato di invitarmi, ma io sono venuta lo stesso.»
Ethel represse un sorriso. Fitz voleva molto bene alla sua
esuberante sorella, ma la trovava una persona difficile da
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Ken Follett
gestire a causa delle sue opinioni pericolosamente liberali:
era una suffragetta, un’attivista del movimento per il voto
alle donne. Ethel la trovava meravigliosa, proprio il genere
di donna indipendente che avrebbe voluto essere.
Fitz uscì a lunghi passi dalla stanza ed Ethel lo seguì
nell’atrio, una maestosa sala decorata nello stile neogotico tanto amato dai vittoriani come il padre di Fitz: boiserie
scura, tappezzeria dai motivi marcati, sedie di quercia intagliate come troni medievali. Maud entrò proprio in quel
momento. «Fitz, caro, come stai?» disse.
Era alta come il fratello, e gli assomigliava, ma i tratti
scolpiti che facevano sembrare il conte la statua di una divinità non risultavano altrettanto armoniosi su una donna,
per cui Maud appariva più vistosa che bella. In contrasto
con la sciatteria che si riteneva tipica delle femministe, era
vestita alla moda: gonna lunga e aderente, stivaletti con i
bottoncini, cappotto blu con una cintura enorme e i polsini a banda alta, cappello con una lunga piuma appuntata
sul davanti come una bandiera di reggimento.
Era accompagnata da zia Herm. Lady Hermia era l’altra zia di Fitz. A differenza della sorella, moglie di un ricco duca, Herm aveva sposato un barone spendaccione che
era morto giovane e squattrinato. Dieci anni prima, quando i genitori di Fitz e Maud erano morti a distanza di pochi mesi, zia Herm si era stabilita in casa loro per fare da
madre a Maud, allora tredicenne, e continuava a farle da
chaperon, per quanto con scarsa efficacia.
«Che cosa ci fai qui?» chiese Fitz alla sorella.
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LA CADUTA DEI GIGANTI
«Te l’avevo detto che non gli avrebbe fatto piacere» mormorò zia Herm.
«Non potevo non essere presente quando il re viene in visita. Sarebbe stata una mancanza di rispetto» rispose Maud.
Fitz replicò in un tono affettuoso, ma esasperato. «Guardati bene dal parlare al re dei diritti delle donne.»
Ethel pensò che non avrebbe dovuto preoccuparsi. Malgrado le idee politiche radicali, Maud sapeva lusingare i
potenti e civettare con loro, e riusciva a piacere anche agli
amici conservatori di Fitz.
«Morrison, prendi il mio cappotto» disse Maud. Lo sbottonò e si voltò in modo che il valletto potesse sfilarglielo.
«Ciao, Williams, come va?» chiese a Ethel.
«Benvenuta a casa, milady» la salutò lei. «Le va bene la
suite Gardenia?»
«Certo, adoro la vista da quella camera.»
«Vuole mangiare qualcosa intanto che gliela preparo?»
«Sì, grazie, sto morendo di fame.»
«Oggi serviamo in stile club perché gli ospiti arrivano in
momenti diversi.» “In stile club” significava che gli ospiti
venivano serviti a mano a mano che entravano in sala, come
in un club privato o in un ristorante anziché tutti contemporaneamente. Il pranzo quel giorno era sobrio: zuppa al
curry, carni fredde e pesce affumicato, trota ripiena, cotolette d’agnello, dolci e formaggi vari.
Ethel tenne la porta aperta, poi seguì Maud e Herm
nell’ampia sala da pranzo, dove erano già seduti i cugini
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Ken Follett
von Ulrich. Walter, il più giovane, era bello e affascinante,
e sembrava felicissimo di essere a Ty Gwyn.
PRINCIPESSA
BEA
Nello spogliatoio Fitz si tolse gli indumenti da viaggio per
indossare un morbido abito di tweed marrone, quindi aprì
la porta comunicante con le stanze della moglie.
La cameriera russa, Nina, stava togliendo gli spilloni
dall’elaborato cappello indossato da Bea per il viaggio. Fitz
scorse il viso della moglie nello specchio della toeletta, e il
cuore gli si fermò per un secondo. Fu riportato indietro di
quattro anni, nella sala da ballo di San Pietroburgo dove
per la prima volta aveva visto quel viso incantevole incorniciato da riccioli biondi impossibili da domare. Già allora
Bea esibiva quell’espressione imbronciata che lui trovava
particolarmente irresistibile. In un attimo aveva deciso che,
fra tante donne, era lei quella che voleva sposare.
Nina, di mezza età, non aveva la mano ferma – anche
perché Bea spesso faceva innervosire la servitù – e inavvertitamente le graffiò la testa. Bea lanciò un urlo.
Nina impallidì. «Mi scusi, sua altezza, sono desolata»
disse in russo.
Bea prese al volo uno spillone dal ripiano della toeletta e colpì il braccio della cameriera. «Vediamo che impressione ti fa!» gridò.
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LA CADUTA DEI GIGANTI
Nina scoppiò in lacrime e uscì di corsa dalla stanza.
«Lascia che ti aiuti io» disse Fitz alla moglie.
«Faccio da sola.»
Fitz andò alla finestra. Una decina di giardinieri era impegnata a potare siepi, aggiustare le bordure dei prati e rastrellare la ghiaia. Parecchie piante erano in fiore: il viburno
rosa, il gelsomino invernale giallo, l’amamelide e il caprifoglio profumato. Oltre il giardino si stagliava il dolce profilo della montagna.
«Perché non ti riposi?» le propose. «Io parlo con Peel e
Mrs Jevons per vedere come vanno i preparativi.» Peel era
il maggiordomo e Mrs Jevons la governante. Spettava a Bea
gestire il personale, ma Fitz era talmente in ansia per la visita del re che trovava ogni possibile scusa per intromettersi. «Verrò a riferirti più tardi, quando ti sarai ripresa.»
Estrasse il portasigari.
«Non fumare qui dentro.»
Fitz lo prese per un sì e si avviò verso la porta. Sulla soglia indugiò un attimo. «Senti, non è che lo farai davanti ai
reali, vero? Alzare le mani sulla servitù, intendo.»
«Non ho alzato le mani! L’ho punta con lo spillone per
darle una lezione.»
I russi erano abituati a comportamenti del genere. Quando il padre di Fitz si era lamentato della pigrizia dei camerieri dell’ambasciata britannica di San Pietroburgo, gli amici russi gli avevano detto che non li picchiava abbastanza.
«Imbarazzerebbe il re assistere a una cosa del genere» fece
presente lui. «Come ti ho già detto, in Inghilterra non si usa.»
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Ken Follett
«Da bambina mi fecero assistere all’impiccagione di tre
contadini. Mia madre non voleva, ma il nonno insistette. “È
per insegnarti a punire i servi” mi disse. “Se non li schiaffeggi e non li frusti per le piccole mancanze come la sbadataggine e la pigrizia, commetteranno peccati peggiori e
finiranno sulla forca.” Mi ha insegnato che l’indulgenza
verso le classi inferiori alla lunga si rivela una crudeltà.»
Fitz cominciava a irritarsi. Bea aveva trascorso l’infanzia tra agi e ricchezze, circondata da un esercito di servitori e migliaia di docili contadini, vedendo esaudito ogni suo
desiderio. Se il suo spietato e abile nonno non fosse morto, quella vita sarebbe continuata, ma la fortuna di famiglia era stata sperperata dal padre di Bea, un ubriacone, e
dal fratello Andrej, un debole capace solo di vendere il legname senza ripiantare gli alberi. «I tempi sono cambiati»
disse. «Ti chiedo, anzi ti ordino, di non mettermi in imbarazzo davanti al mio re. Spero di essere stato chiaro.» Uscì
e si chiuse la porta alle spalle.
Percorse l’ampio corridoio. Un valletto alto, chino a pulire il pomolo di una porta, scattò sull’attenti con le spalle
al muro e gli occhi abbassati, come i domestici di Ty Gwyn
erano addestrati a fare al passaggio del conte. In altre grandi dimore il personale doveva rivolgere il viso al muro, ma
Fitz la trovava una pratica feudale. Riconobbe l’uomo, che
aveva visto giocare a cricket in una partita in cui si erano
sfidati la servitù di Ty Gwyn e i minatori di Aberowen. Era
un bravo battitore mancino, e ne ricordava il nome. «Mor16
LA CADUTA DEI GIGANTI
rison» lo apostrofò «di’ a Peel e a Mrs Jevons di venire in
biblioteca.»
«Subito, milord.»
Fitz scese l’imponente scalinata. Aveva sposato Bea perché ne era rimasto incantato, ma c’era stata anche una motivazione razionale. Sognava di fondare una grande dinastia anglorussa in grado di governare vasti territori, come
la dinastia asburgica governava da secoli mezza Europa.
Tuttavia gli serviva un erede. L’umore di Bea indicava
che non l’avrebbe accolto nel suo letto quella sera. Poteva
insistere, cosa che certo non gli faceva piacere. Ma erano
passate almeno due settimane dall’ultima volta. Non desiderava certo una moglie volgarmente smaniosa, d’altronde due settimane erano molte.
A ventitré anni, sua sorella Maud era ancora nubile e comunque, se avesse avuto un figlio, probabilmente lo avrebbe fatto diventare un fanatico socialista pronto a sperperare
la fortuna di famiglia nella stampa di trattati rivoluzionari.
Fitz era sposato da tre anni e cominciava a preoccuparsi. Bea era rimasta incinta una sola volta, l’anno precedente, ma aveva perso il bambino al terzo mese di gravidanza.
Era accaduto subito dopo un litigio: Fitz aveva cancellato
un viaggio già programmato a San Pietroburgo e Bea si era
agitata terribilmente, mettendosi a urlare che voleva andare a casa. Lui si era intestardito – dopotutto un uomo non
può permettere di farsi comandare a bacchetta dalla moglie – ma poi, quando lei aveva abortito, si era sentito in
colpa e responsabile dell’incidente. Se solo fosse rimasta di
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Ken Follett
nuovo incinta, avrebbe fatto di tutto per garantirle la massima tranquillità fino alla nascita del bambino.
Accantonando quei pensieri, entrò in biblioteca e si sedette alla scrivania con il piano in cuoio per stilare un elenco.
Un paio di minuti dopo entrò Peel accompagnato da una
cameriera. Il maggiordomo era il figlio minore di un fattore e, con il viso lentigginoso e i capelli sale e pepe, aveva l’aspetto sano di chi vive all’aria aperta, malgrado avesse sempre prestato servizio a Ty Gwyn. «Mrs Jevons c’ha
male, milord.» Fitz aveva da un pezzo rinunciato a correggere gli errori grammaticali dei servitori gallesi. «La pancia» aggiunse Peel in tono lugubre.
«Risparmiami i dettagli.» Fitz guardò la cameriera, una
bella ragazza sulla ventina. Il suo viso gli risultava vagamente familiare. «Questa chi è?»
Fu la ragazza stessa a presentarsi. «Ethel Williams, milord. Sono l’aiutante di Mrs Jevons.» Aveva la cadenza melodiosa delle valli del Galles meridionale.
«Be’, Williams, sembri troppo giovane per l’incarico di
governante.»
«Con il permesso di sua signoria, Mrs Jevons ha detto che
lei probabilmente farà venire la governante di Mayfair, ma
spera che nel frattempo io possa essere di sua soddisfazione.»
C’era un luccichio nei suoi occhi mentre parlava di soddisfarlo? Si esprimeva con la dovuta deferenza, eppure la
sua espressione era insolente. «Molto bene» disse Fitz.
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LA FAMIGLIA
VON ULRICH
WALTER
VON ULRICH
I due uomini si alzarono in piedi all’ingresso delle signore. Maud andò subito verso Walter. «Lei è sempre identico
a quando aveva diciott’anni!» gli disse. «Si ricorda di me?»
Walter si illuminò in viso. «Certamente, anche se lei invece è cambiata eccome, da quando ne aveva tredici.»
Si strinsero la mano, poi Maud lo baciò sulle guance, come
se fosse un parente. «A quell’età avevo una straziante cotta
adolescenziale per lei» confessò con sbalorditivo candore.
Walter sorrise. «Anche lei mi piaceva.»
«Ma se mi trattava come una peste terribile!»
«Dovevo nascondere i miei sentimenti a Fitz, che la proteggeva come un cane da guardia.»
Zia Herm tossì per indicare la propria disapprovazione
per quell’intimità inopportuna. «Zia» disse Maud «questo
è Herr Walter von Ulrich, un vecchio compagno di scuola
di Fitz, che spesso veniva qui durante le vacanze. Ora è un
diplomatico presso l’ambasciata tedesca a Londra.»
«Con il vostro permesso, vi presento mio cugino, Graf
Robert von Ulrich.» Ethel sapeva che “Graf” significava
“conte” in tedesco. «È attaché militare presso l’ambasciata
austriaca.»
In realtà erano cugini di secondo grado, come Peel aveva
spiegato con tono grave a Ethel: i loro nonni erano fratelli;
il più giovane dei due aveva sposato un’ereditiera tedesca
20
LA CADUTA DEI GIGANTI
e aveva lasciato Vienna per Berlino, il che spiegava come
mai Walter fosse tedesco mentre Robert era austriaco. Peel
amava molto fare chiarezza su quel genere di cose.
Tutti presero posto. Ethel scostò la sedia per Lady Hermia. «Gradisce un po’ di zuppa al curry, Lady Hermia?»
«Sì, grazie, Williams.»
Ethel fece cenno a un valletto, che si diresse verso il buffet
dove la zuppa era tenuta su uno scaldavivande. Accertatasi
che le nuove arrivate fossero a loro agio, Ethel sgusciò via
per far sistemare le loro stanze. Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, udì Walter von Ulrich dire: «Ricordo la
sua passione per la musica, Lady Maud. Stavamo appunto parlando dei Balletti russi. Che ne pensa di Djagilev?».
Non erano molti gli uomini che chiedevano a una donna la sua opinione: a Maud doveva fare senz’altro piacere.
Mentre si affrettava giù per la scala a chiamare un paio di
cameriere per rifare le stanze, Ethel pensò che quel tedesco
ci sapeva davvero fare.
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LA FAMIGLIA
PEŠKOV
GRIGORIJ
PEŠKOV
Grigorij Peškov osservò il fratello minore Lev, mentre spillava denaro all’americano alto. Il suo bel viso era attraversato da un’espressione di impazienza adolescenziale, come
se lo scopo principale fosse sfoggiare la propria abilità. Grigorij provò una familiare fitta d’ansia. Un giorno, temeva,
il fascino di Lev non sarebbe stato sufficiente a tenerlo lontano dai guai.
«Questo è un test di memoria» disse Lev in inglese. Aveva imparato qualche frase fatta. «Prenda una carta qualsiasi.» Nella fabbrica c’era un gran baccano e dovette alzare
la voce al di sopra del rumore stridente dei pesanti macchinari, del sibilo del vapore, della gente che urlava istruzioni e domande.
Il visitatore, Gus Dewar, indossava giacca, pantaloni e
panciotto tutti dello stesso fine tessuto di lana grigia. Grigorij era particolarmente interessato a lui perché veniva
da Buffalo.
Dewar era un giovanotto cortese. Si strinse nelle spalle,
prese una carta dal mazzo di Lev e la guardò.
«La metta giù coperta» disse Lev.
Dewar posò la carta sul banco da lavoro di legno grezzo.
Lev prese dalla tasca una banconota da un rublo e la mise
sulla carta. «Ora ci metta un dollaro.» Questo lo si poteva
fare solo con i visitatori ricchi.
23
Ken Follett
Grigorij sapeva che Lev aveva già sostituito la carta da
gioco. Nella mano, nascosta dalla banconota da un rublo,
teneva un’altra carta. L’abilità – Lev si era esercitato per
ore – stava nel prendere la prima carta e nasconderla nel
palmo della mano immediatamente dopo aver posato la
banconota con la nuova carta.
«È sicuro di potersi permettere di perdere un dollaro,
Mr Dewar?»
Dewar sorrise, come facevano a quel punto tutte le vittime designate. «Credo di sì.»
«Ricorda la sua carta?» Lev in realtà non conosceva l’inglese: sapeva dire quelle stesse frasi in tedesco, francese e
anche in italiano.
«Cinque di picche.»
«Sbagliato.»
«Sono sicurissimo.»
«La giri.»
Dewar voltò la carta. Regina di fiori.
Lev prese il dollaro e il suo rublo.
Grigorij trattenne il fiato. Quello era il momento più pericoloso: l’americano lo avrebbe accusato di averlo derubato? Lo avrebbe denunciato?
Dewar parve divertito. «Me l’ha fatta.»
«So un altro gioco» disse Lev.
Basta: Lev stava rischiando troppo. Anche se aveva
vent’anni, Grigorij doveva ancora proteggerlo. «Non giochi
contro mio fratello» avvertì il visitatore in russo. «Vince
sempre.»
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LA CADUTA DEI GIGANTI
L’americano sorrise e rispose incerto nella stessa lingua.
«Grazie del consiglio.»
Dewar faceva parte di un gruppo di persone in visita alle
Officine Meccaniche Putilov, la fabbrica più grande di San
Pietroburgo che dava lavoro a trentamila uomini, donne e
bambini. Il compito di Grigorij era mostrare agli ospiti il suo
piccolo ma importante reparto. Lo stabilimento produceva
locomotive e altri grandi manufatti in acciaio. Grigorij era
a capo del reparto dove si fabbricavano le ruote dei treni.
Non vedeva l’ora di chiedere a Dewar di Buffalo, ma prima che gli potesse rivolgere una domanda arrivò Kanin, il
supervisore del reparto fonderia, un ingegnere specializzato alto, magro, con calvizie incipiente.
Insieme a lui c’era un secondo visitatore. Dall’abito, Grigorij capì che doveva essere il signore britannico. Vestiva
in tight e cilindro, come un aristocratico russo. Forse quello era l’abbigliamento della classe dirigente in ogni parte
del mondo.
L’uomo, gli avevano detto, era il conte Fitzherbert. Non
aveva mai visto qualcuno di più bello, con i capelli neri e gli
occhi di un verde intenso. Le donne del reparto ruote lo fissavano come se fosse un dio.
Kanin si rivolgeva a Fitzherbert in russo. «Ora qui produciamo due locomotive alla settimana» spiegò orgoglioso.
«Incredibile» commentò il lord inglese.
Grigorij sapeva perché quegli stranieri fossero tanto interessati. Leggeva i giornali e frequentava conferenze e
gruppi di discussione organizzati dal comitato bolscevico
25
Ken Follett
di San Pietroburgo. Le locomotive che si producevano in
quel luogo erano essenziali per le capacità difensive della
Russia. I visitatori, mentre fingevano un vago interesse, in
realtà raccoglievano segreti militari.
Kanin presentò Grigorij al lord inglese. «Il nostro Peškov
è il campione di scacchi della fabbrica.» Benché fosse un dirigente, Kanin era una brava persona.
Fitzherbert era affascinante. Si rivolse a Varja, una donna
di circa cinquant’anni con i capelli grigi raccolti in un fazzoletto. «È molto gentile a mostrarci il luogo dove lavora»
disse allegro. Parlava correntemente il russo, benché con
un forte accento inglese.
Varja, un donnone imponente, muscoloso e pettoruto, si
mise a ridacchiare come una scolaretta.
Tutto era pronto per la dimostrazione. Grigorij aveva
messo le barre d’acciaio nel crogiolo e acceso il forno; ora
il metallo era fuso. Ma doveva arrivare un altro visitatore,
la moglie del conte. Dicevano che era russa; ecco perché lui
conosceva la lingua, cosa piuttosto rara per uno straniero.
Grigorij voleva chiedere a Dewar di Buffalo, ma non fece
in tempo perché la moglie del conte entrò nel reparto. La
sua gonna lunga era come una scopa che spingeva davanti a lei una riga di sporcizia e di sfrido. Sul vestito indossava una giacca; era seguita da un servitore che reggeva il
suo mantello di pelliccia, da una cameriera con una borsa e da uno dei direttori della fabbrica, il conte Maklakov,
un giovanotto vestito come Fitzherbert. Maklakov era ovviamente molto preso dalla sua ospite: sorrideva, parlava
26
LA CADUTA DEI GIGANTI
a bassa voce e le reggeva il braccio senza che ve ne fosse
bisogno. Lei era di una bellezza straordinaria, con riccioli
biondi e un’inclinazione civettuola della testa.
Grigorij la riconobbe immediatamente. Era la principessa Bea.
Avvertì un tuffo al cuore e un senso di nausea. Scacciò
con rabbia il ricordo terribile che riaffiorava da un passato lontano. Poi, come in tutte le situazioni d’emergenza, si
preoccupò del fratello: si sarebbe ricordato? Aveva solo sei
anni, allora. Lev guardava la principessa in modo strano,
come se cercasse di collocarla. Poi, sotto gli occhi di Grigorij, cambiò espressione. Divenne pallido e parve sentirsi
male, poi all’improvviso avvampò di collera.
27
LA FAMIGLIA
DEWAR
GUS
DEWAR
Walter era un diplomatico alle prime armi, ma suo padre
era uno dei più vecchi amici del Kaiser. Anche Robert vantava conoscenze altolocate: era amico dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austroungarico.
Un altro ospite che frequentava una cerchia di personaggi eminenti era il giovane americano alto che in quel momento stava parlando con la duchessa. Si chiamava Gus
Dewar, e suo padre, senatore, era stretto collaboratore del
presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. Fitz sentiva
di aver scelto bene quel gruppo di giovani uomini, la futura classe dirigente. Sperava che il re ne fosse soddisfatto.
Gus Dewar era amabile ma impacciato. Camminava
curvo come se volesse sembrare più basso e farsi notare di
meno. Pareva insicuro, ma era piacevolmente affabile con
tutti. «Gli americani sono interessati agli affari interni più
che alla politica estera» stava dicendo alla duchessa. «Ma
il presidente Wilson è un liberale e, in quanto tale, simpatizzerà certamente per paesi democratici quali la Francia e
la Gran Bretagna piuttosto che per le monarchie autoritarie di Austria e Germania.»
A quel punto la porta a due battenti si aprì, calò il silenzio ed entrarono il re e la regina. La principessa Bea fece la
riverenza, Fitz l’inchino, e tutti li imitarono. Seguì qualche
attimo di silenzio vagamente imbarazzato, perché a nessuno
29
Ken Follett
era permesso parlare finché uno dei due sovrani non diceva qualcosa. Finalmente il re si rivolse a Bea. «Sono stato in
questa casa vent’anni fa, sa?» Tutti cominciarono a rilassarsi.
Il re era un uomo molto curato, rifletté Fitz mentre insieme alla moglie parlava del più e del meno con la coppia
reale. Baffi e barba erano rifilati con cura; i capelli, anche
se radi, erano sufficienti da poterli pettinare con la scriminatura dritta come un righello. Il frac attillato si adattava
perfettamente alla sua figura snella: diversamente dal padre Edoardo VII, re Giorgio non era goloso. Si rilassava con
passatempi che richiedevano precisione: gli piaceva collezionare francobolli e incollarli meticolosamente sugli album,
suscitando l’ironia degli irrispettosi intellettuali londinesi.
La regina era più imponente, con i riccioli grigi e la linea
severa della bocca. Aveva un petto prosperoso, messo in risalto in tutto il suo splendore dalla profonda scollatura de
rigueur a quei tempi. Era figlia di un principe tedesco. Inizialmente era stata fidanzata al fratello maggiore di Giorgio, Alberto, che però era morto di polmonite prima del
matrimonio. Quando Giorgio era diventato erede al trono,
insieme al titolo aveva acquisito anche la fidanzata del fratello, una soluzione considerata da alcuni un po’ medievale.
Bea era nel suo elemento. Era seducente nell’abito di seta
rosa, con i riccioli biondi sapientemente acconciati in modo
da apparire un po’ scarmigliati, come se si fosse staccata
all’improvviso da un bacio furtivo. Parlava animatamente
con il re. Aveva intuito che non si poteva incantare Giorgio V
30
LA CADUTA DEI GIGANTI
con chiacchiere futili, e gli stava raccontando come Pietro il
Grande avesse creato la flotta russa. Lui annuiva interessato.
Peel apparve sulla soglia della sala da pranzo con un’e­
spressione di attesa sul volto lentigginoso. Colse lo sguardo di Fitz e rispose con un cenno del capo. Allora Fitz disse
alla regina: «Desidera accomodarsi per il pranzo, maestà?».
Lei gli porse il braccio. Dietro di loro c’era il re, sottobraccio a Bea, poi gli altri invitati, che si misero in fila per due,
come concordato in precedenza. Quando furono tutti pronti, entrarono in processione in sala da pranzo.
«Che splendore» mormorò la regina alla vista della tavola.
«Grazie» rispose Fitz tirando un silenzioso sospiro di sollievo. Bea aveva fatto un ottimo lavoro. I bicchieri di cristallo riflettevano la luce diffusa da tre lampadari sopra la
tavola. Le posate erano d’oro, come pure le saliere, le pepiere e le piccole scatole di fiammiferi per i fumatori. La tovaglia bianca era disseminata di rose di serra e, ultimo tocco a effetto di Bea, dai lampadari scendevano delicate felci
sopra piramidi d’uva su vassoi d’oro.
Tutti presero posto, il vescovo recitò la preghiera di ringraziamento e Fitz si rilassò. Un ricevimento iniziato bene
quasi sempre continuava con successo. Il vino e il cibo rendevano le persone meno inclini a trovare difetti.
Il menu si apriva con hors-d’œuvres russes, un richiamo al
paese natale di Bea: piccole tartine di caviale e panna e di
pesce affumicato, gallette con aringa in salamoia, il tutto accompagnato da Perrier-Jouët del 1892, pieno e squisito come
promesso da Peel. Fitz non perdeva d’occhio il maggiordo31
Ken Follett
mo, e questi osservava il re. Non appena sua maestà abbassava le posate, Peel gli toglieva il piatto, e quello era il segnale
per i servitori in livrea di fare lo stesso con tutti: se per caso
un ospite non aveva ancora finito, doveva rinunciarvi per
deferenza. Seguì un pot-au-feu, una minestra servita con un
fine sherry secco oloroso di Sanlúcar de Barrameda. Come
pesce fu servita sogliola, accompagnata da un maturo Meursault Charmes che pareva oro liquido. Per i medaglioni di
agnello del Galles, Fitz aveva scelto uno Château Lafite del
1875; quello del 1870 non era ancora pronto da bere. Il vino
rosso fu abbinato anche al parfait di fegato d’oca e all’ultima portata di carne: quaglie con uva in crosta.
Nessuno mangiò tutte le pietanze. Gli uomini presero ciò
che li attirava e ignorarono il resto. Le signore assaggiarono
uno o due piatti. Molte portate tornarono in cucina intatte.
Seguirono insalata, dessert, dolcetti speziati, frutta e petits fours. Infine, la principessa Bea guardò la regina sollevando discretamente un sopracciglio, e lei rispose con un
cenno del capo quasi impercettibile. Si alzarono entrambe,
tutti le imitarono, e le signore uscirono dalla sala.
Gli uomini tornarono a sedersi, i valletti portarono scatole di sigari e Peel posò alla destra del re una bottiglia di
cristallo con un Ferreira del 1847. Fitz, soddisfatto, si accese un sigaro: era andato tutto bene. Il re, noto per la sua misantropia, si trovava a suo agio solo con i vecchi compagni
di bordo dei giorni felici in marina, ma quella sera era stato delizioso, e ogni cosa aveva funzionato al meglio. Erano
arrivate persino le arance.
32
LA CADUTA DEI GIGANTI
Fitz aveva parlato in precedenza con Sir Alan Tite, lo scudiero del re, un ufficiale dell’esercito in pensione con favoriti vecchio stile. Avevano concordato che l’indomani il
re avrebbe passato un’ora circa da solo con ciascuno degli
uomini seduti a tavola, poiché tutti avevano conoscenza diretta di un qualche governo. Quella sera Fitz aveva il compito di rompere il ghiaccio introducendo un argomento di
politica generale. Si schiarì la voce e si rivolse a Walter von
Ulrich. «Walter, tu e io siamo amici da quindici anni; eravamo insieme a Eton.» Poi guardò Robert. «E conosco tuo
cugino da quando noi tre, da studenti, dividevamo l’appartamento a Vienna.» Robert sorrise e annuì. A Fitz piacevano entrambi: Robert era un tradizionalista come lui; Walter,
pur non essendo altrettanto conservatore, era molto intelligente. «Ora tutti parlano di guerra tra i nostri paesi» continuò. «Esiste davvero la possibilità di una simile tragedia?»
Fu Walter a rispondere. «Il fatto che se ne parli fa pensare di sì, e infatti ci stiamo tutti preparando. Ma c’è una ragione reale? Io non la vedo.»
Gus Dewar alzò esitante la mano. A Fitz Gus piaceva, malgrado le sue posizioni liberali. Dagli americani ci si aspettava spavalderia, invece lui era educato e un po’ timido, oltre
che sorprendentemente ben informato. «Gran Bretagna e
Germania» disse Gus «hanno parecchi motivi di contrasto.»
Walter si girò verso di lui. «Può farmi un esempio?»
Gus espirò il fumo del sigaro. «Rivalità navale.»
Walter annuì. «Il mio Kaiser ritiene che nessuna legge
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Ken Follett
divina stabilisca che la flotta tedesca debba rimanere per
sempre inferiore a quella britannica.»
Fitz lanciò un’occhiata nervosa al re. Lui adorava la Royal Navy, e avrebbe potuto risentirsi. D’altro canto il Kaiser
Guglielmo era suo cugino. Il padre di Giorgio e la madre di
Guglielmo erano fratello e sorella, entrambi figli della regina Vittoria. Fitz fu sollevato nel vedere sua maestà aprirsi
in un sorriso indulgente.
Walter continuò. «Questo ha causato frizioni in passato, ma da due anni abbiamo un accordo informale sulle dimensioni delle rispettive flotte.»
«E riguardo alle rivalità economiche?» chiese Dewar.
«È vero che la Germania sta diventando ogni giorno più
prospera, e presto raggiungerà la Gran Bretagna e gli Stati
Uniti nella produzione economica. Ma perché dovrebbe essere un problema? Siamo uno dei migliori clienti della Gran
Bretagna. Più abbiamo da spendere, più compriamo. La nostra forza economica è un bene per l’industria britannica!»
Dewar insistette. «Si dice che la Germania aspiri ad au­
mentare il numero delle proprie colonie.»
Fitz guardò nuovamente il re chiedendosi se la conversazione dominata da quei due potesse infastidirlo, ma sua
maestà appariva affascinato.
«Ci sono state guerre per le colonie, in particolare nel suo
paese, Mr Dewar» replicò Walter. «Ma oggigiorno siamo capaci di risolvere dispute del genere senza sparare un colpo. Tre anni fa Germania, Gran Bretagna e Francia si contendevano il Marocco, ma il contrasto si è appianato senza
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LA CADUTA DEI GIGANTI
sfociare in una guerra. Più di recente, Gran Bretagna e Germania hanno raggiunto un accordo sul tema spinoso della
ferrovia di Baghdad. Se continuiamo di questo passo, non
ci sarà alcuna guerra.»
«Mi lascerebbe passare l’espressione “militarismo tedesco”?» domandò Dewar.
Era andato un po’ sul pesante, e Fitz sobbalzò. Walter arrossì, ma mantenne un tono pacato. «Apprezzo la sua franchezza. L’impero tedesco è dominato dai prussiani, di cui
io faccio parte. Ricopriamo un ruolo simile a quello degli
inglesi nel Regno Unito di sua maestà.»
Era azzardato paragonare la Gran Bretagna alla Germania e l’Inghilterra alla Prussia. Walter era al limite di quanto
consentito in una conversazione civile, pensò Fitz a disagio.
«Noi prussiani» proseguì Walter «abbiamo una forte tradizione militare, ma non andiamo in guerra senza ragione.»
«Quindi la Germania non è aggressiva» osservò Dewar
scettico.
«Per niente. Le posso assicurare che la Germania è l’unica grande potenza dell’Europa continentale a non essere
aggressiva.»
Attorno al tavolo serpeggiò un mormorio di sorpresa, e
Fitz vide il re sollevare le sopracciglia.
I modi impeccabili e il tono affabile di Walter smorzarono le sue parole.
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Traduzione di Adriana Colombo, Paola Frezza Pavese,
Nicoletta Lamberti e Roberta Scarabelli
Copyright © 2010 by Ken Follett
© 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
Fall of Giants
I edizione settembre 2010
DIR. EDITORIALE
ART DIRECTOR
28 SETTEMBRE 2010
IN CONTEMPORANEA MONDIALE
KEN FOLLETT
LA CADUTA DEI GIGANTI
EDITOR
REDAZIONE
GRAFICO
Ken Follett ha fatto sognare milioni di italiani.
I suoi romanzi hanno venduto
13 milioni di copie nel nostro paese
e oltre 120 milioni nel mondo.
I destini di cinque famiglie si intrecciano inesorabilmente
attraverso due continenti sullo sfondo dei drammatici eventi
scatenati dallo scoppio della Prima guerra mondiale e dalla
Rivoluzione russa.
1911. Il giorno dell’incoronazione di Giorgio V nell’abbazia
di Westminster, Billy Williams compie tredici anni e inizia
a lavorare in miniera ad Aberowen, in Galles. Amore e
inimicizia legano la sua famiglia agli aristocratici Fitzherbert,
proprietari della miniera. Lady Maud Fitzherbert, sostenitrice
del diritto di voto alle donne, si innamora dell’affascinante
Walter von Ulrich, spia tedesca all’ambasciata di Londra. Le
loro strade incrociano quella di Gus Dewar, giovane assistente
del presidente americano Wilson. Ed è proprio in America che
due orfani russi, Grigorij e Lev Peškov, progettano di emigrare.
Dalle miniere di carbone ai candelabri scintillanti di palazzi
sontuosi, dai corridoi della politica alle alcove dei potenti, da
Washington a San Pietroburgo, da Londra a Parigi il racconto si
muove tra drammi nascosti e intrighi internazionali. Protagonisti
ricchi aristocratici, poveri ambiziosi, donne coraggiose e sopra tutto e tutti le conseguenze della guerra per chi la fa e chi resta a casa.
Primo grande romanzo di “The Century” – la nuova trilogia di
Ken Follett dedicata al XX secolo – La caduta dei giganti è un’opera
epica, uno straordinario affresco storico che, al pari de I pilastri
della terra e Mondo senza fine, è destinato a diventare un classico.
I pilastri della terra e Mondo senza fine
sono stati ai vertici delle classifiche internazionali,
con più di 20 milioni di copie vendute.
Ken Follett ha pubblicato con Mondadori: Lo scandalo Modigliani, Alta finanza, La cruna dell’Ago, Triplo, Il codice Rebecca,
L’uomo di Pietroburgo, Sulle ali delle aquile, Il pianeta dei bruchi,
Il mistero degli studi Kellerman, Un letto di leoni, I pilastri della terra,
Notte sull’acqua, Una fortuna pericolosa, Un luogo chiamato libertà,
Il terzo gemello, Il Martello dell’Eden, Codice a zero, Le Gazze Ladre,
Il volo del calabrone, Nel bianco e Mondo senza fine.
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DIR. EDITORIALE
ART DIRECTOR
EDITOR
T H E C E N T U RY T R I L O G Y I
KEN
FOLLETT
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GRAFICO
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ROMANZO
LA CADUTA
DEI GIGANTI
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