UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CASSINO
DOTTORATO DI RICERCA IN
INGEGNERIA INDUSTRIALE
(XV CICLO)
TECNOLOGIE DI LAVORAZIONE DELLE
PIETRE NATURALI
Relatore:
Coordinatore:
Ch.mo Prof. Luigi CARRINO
Ch.mo Prof. Gennaro FIGALLI
Tesi di Dottorato di:
Ing. Sandro TURCHETTA
Anno Accademico 2002-2003
Sentitamente ringrazio il Professor Luigi Carrino per i consigli ricevuti
durante la realizzazione del presente lavoro.
Ringrazio la Professoressa Wilma Polini per la sua continua disponibilità.
Ringrazio: Carlo Longo (Presidente del Consorzio per la Valorizzazione
del Perlato Coreno), Agostino Manni (Direttore del Consorzio per la
Valorizzazione del Perlato Coreno), la Cooperativa Cavatori, la Camera
di Commercio di Frosinone, L’Unione Industriale di Frosinone, il Sindaco
del Comune di Coreno Ausonio, le aziende del comparto lapideo di
Coreno Ausonio.
Un ringraziamento è rivolto agli amici: Luca, Gillo, Giovanna, Nadia,
Nicola, Sabrina, Matteo.
Infine non posso che essere grato ai miei genitori e alla mia compagna,
Cinzia, che mi sono stati vicini durante questi anni.
Introduzione
Nei primi tempi della storia umana i nostri antenati utilizzavano ripari naturali a scopo
abitativo, ma, nonostante la scienza non possa stabilire in che epoca, sappiamo che già nei
più remoti periodi preistorici gli uomini iniziarono a impiegare la pietra per costruire
dimore o edifici religiosi. Stando a quanto ci resta delle più antiche civiltà, anche
l’introduzione di rivestimenti in materiale lapideo risale ad epoche piuttosto remote,
benché successive a quelle delle prime costruzioni. Nella sua monumentale “Naturalis
Historia” Plinio afferma che il più antico caso di edificio ricoperto di lastre tagliate era il
Mausoleo di Alicarnasso, una delle sette meraviglie dell’antichità (purtroppo non giunta a
noi) che possedeva pareti di laterizi rivestite in marmo. Il monumento funerario descritto
dallo scienziato romano, tuttavia, aveva dei precedenti, probabilmente a lui ignoti. Una
delle tre piramidi egizie più famose del mondo, ovvero quella di Chefren a Giza, costruita
nel XXV sec. a. C., venne rivestita di lastre in calcare bianco e granito. Si tratta della più
antica testimonianza rimastaci di un utilizzo della pietra a scopi ornamentali, ma
probabilmente i costruttori delle piramidi non furono i primi nel genere. In Italia, la storia
dell’architettura pubblica e privata è da sempre legata al marmo, sia per il fatto che nel
nostro territorio sono presenti cave in abbondanza, sia perché le qualità del materiale lo
rendevano (e lo rendono) idoneo a diverse applicazioni nel settore edilizio. Nel II secolo
a. C. i romani conquistarono l’intero territorio della Grecia, dove da secoli la pietra
veniva utilizzata per edifici pubblici (si pensi all’Acropoli di Atena, al teatro di Epidauro,
o ai resti di Olimpia), gli architetti dell’Urbe ritennero giunto il momento di dare a Roma
una fisionomia più in linea con il suo ruolo di capitale di uno Stato multinazionale.
Dall’età dell’impero in avanti, l’uso dei rivestimenti in marmo sia all’interno che
all’esterno degli edifici pubblici e privati divenne abituale. Da Augusto in poi, l’antico
borgo italico, ormai divenuta la sede di un impero mediterraneo, si riempì imperatore
dopo imperatore di una lunga serie di grandiosi edifici lapidei che rinnovarono la
fisionomia dell’Urbe: il Colosseo, il Foro, gli archi di trionfo, le diverse basiliche e le
domus imperiali. Una seconda epoca d’oro iniziò con il basso medioevo, quando si
imposero nuovi stili architettonici in cui l’utilizzo della pietra riconquistò un ruolo di
primissimo piano. Se con il romanico il lapideo veniva impiegato prevalentemente nella
realizzazione di singoli elementi decorativi (portali, rosoni, arcate e colonne, ecc.), il
gotico lo utilizzò come l’unico elemento cui affidare non solo l’intera decorazione ma
anche per risolvere i problemi strutturali dei nuovi edifici, prevalentemente religiosi. Oggi
il marmo trova un buon collocamento soprattutto per recuperi e restauri di edifici, in
opere di arredo urbano e per l'interni di edifici pubblici e privati.
L’Italia, culla dell’arte, da sempre è leader nel comporto lapideo. Grazie ad un patrimonio
irripetibile di professionalità e produttività, essa ha raggiunto un primato che le viene
universalmente riconosciuto. Attualmente il settore lapideo costituisce uno dei pilastri del
sistema produttivo ed occupazionale italiano, oltre che uno dei volani del “made in Italy”
nel mondo.
Negli ultimi 40 anni si è assistito ad una crescita pressoché continua nell’impiego e nel
consumo di lapidei, interrotta soltanto da brevi periodi di congiuntura sfavorevole. A
questo incremento di domanda ha corrisposto, nello stesso arco di tempo, un aumento
dell’offerta grazie all’ingresso di numerosi Paesi produttori di grezzo, all’intensificazione
delle escavazioni e alla scoperta di nuovi giacimenti. Dall’inizio degli anni 90, nonostante
abbia avuto inizio una forte offensiva concorrenziale da parte di prodotti alternativi, la
crescita di marmi e pietre non si è fermata, anzi è stata largamente superiore a quella
dell’economia mondiale considerata nel suo complesso; il tasso medio di incremento
della produzione è stato pari al 6,8% e il saggio di sviluppo quantitativo nell’interscambio
ha raggiunto l’8,3%. Il raggiungimento di questo risultato è stato possibile grazie allo
sviluppo tecnologico ma anche grazie ad altri fattori quali la velocizzazione dei trasporti e
la riscoperta di marmi e pietre, alla luce di una grande competitività, da parte di
progettisti e costruttori. Per il futuro si prevedono ulteriori sviluppi suffragati
dall’estrapolazione delle serie storiche, dalla pressione demografica e dalla crescita
costante dell’edilizia.
Il settore lapideo ed il suo indotto, nonostante miriadi di condizionamenti e strozzature,
archiviano un novecento da favola, durante il quale produzione ed impieghi sono cresciuti
di circa sessanta volte, mentre la popolazione mondiale è appena quintuplicata. In
particolare la produzione lapidea mondiale nel 1970 si collocava intorno ai 16 milioni di
tonnellate, mentre oggi ha superato largamente i 100 milioni con un fatturato che si è
attestato su un valore superiore ai 20 miliardi di Euro. A loro volta gli impieghi sono saliti
da 180 a 590 milioni di metri quadrati equivalenti, portando il consumo unitario mondiale
di circa dieci metri quadrati per cento abitanti. Un ruolo decisivo nel comparto lapideo, in
un quadro di globalizzazione, è svolto dall'interscambio che ha oltrepassato il muro dei 20
milioni di tonnellate. Tenuto conto degli apporti di grezzo e lavorato, vi corrispondono
circa 310 milioni di metri quadrati equivalenti; dato che sottolinea come la maggioranza
assoluta dei consumi mondiali si riferisca a materiali estratti in Paesi diversi da quelli di
installazione. Cina, Italia, Spagna, India e Portogallo, rappresentano, da soli, il 53,3%
dell'estrazione mondiale.
La crescente richiesta, sia in campo industriale che urbanistico di arredo, di elementi in
pietra naturale di geometria sempre più complessa rende necessario l’adozione di
macchine sempre più flessibili ed automatiche quali sono i centri di lavoro a controllo
numerico. A fianco a tali macchine si fa sempre crescente l’uso di utensili versatili come
le frese diamantate sinterizzate a codolo. Per queste lavorazioni non sono stati effettuati
studi sull’ottimizzazione del processo di taglio per cui ad oggi ci si accontenta di una
soluzione non sempre ottimale.
L’ottimizzazione del processo di taglio vede coinvolti diversi fattori connessi alle
proprietà dell’utensile, della macchina e del materiale in lavorazione. Ottimizzare in
questo caso significa ridurre i costi della lavorazione e/o i tempi e/o la qualità dei prodotti
ottenuti agendo su diversi fattori, quali le forze di taglio, le proprietà degli utensili, le
temperature di processo e le vibrazioni.
Esistono poi delle tecnologie innovative che stanno acquistando terreno in nicchie di
mercato collegate a particolari applicazioni, quali il taglio curvilineo con getto
idroabrasivo (AWJ) per la realizzazione di pavimenti, intarsi, etc., le lavorazioni
superficiali mediante getto idroabrasivo e le lavorazioni laser. Obiettivo generale del
lavoro di tesi è quello di studiare tre tecnologie: la fresatura diamantata; le lavorazioni
mediante getto d’acqua con abrasivo; le lavorazioni mediante la tecnologia laser.
Nell’ambito della tecnologia diamantata sono stati sviluppati dei modelli per il calcolo
della forza e dell’energia di taglio e dei modelli di usura utensile. Nell’ambito della
tecnologia con getto d’acqua con abrasivo sono stati affrontati studi sulle lavorazioni
superficiali e sul taglio curvilineo. Per quanto riguarda la tecnologia laser è stato
sviluppato un modello di taglio laser delle pietre naturali.
Il lavoro di tesi è suddiviso in sei capitoli.
Nel capitolo 1 sono riportati aspetti generali del settore lapideo, quali le destinazioni
d’uso, l’origine di formazione del materiale, le proprietà fisico meccaniche necessarie per
la caratterizzazione del materiale e, infine, il processo produttivo.
I capitoli 2, 3 e 4 sono relativi alla tecnologia di lavorazione tradizionale mediante
utensili diamantati. Nel capitolo 2 sono riportate le caratteristiche degli utensili
diamantati utilizzati nelle lavorazioni delle pietre naturali ed il relativo ciclo di
produzione. Nel capitolo 3 sono riportati i modelli sviluppati per il calcolo della forza e
dell’energia di taglio mediante utensili diamantati. I modelli proposti sono stati validati
mediante l’utilizzo di un centro di lavoro a controllo numerico opportunamente
strumentato. Tale strumentazione è costituita da un dinamometro piezoelettrico triassiale
modello Kistler 9257BA con unità di controllo Kistler 5233A1 sul quale viene fissato il
pezzo in lavorazione. Il segnale in uscita dal sensore viene inviato ad una scheda di
acquisizione a 16 bit National Instruments PCI-6034E, installata su un personal computer.
Il software per l’acquisizione dei dati è stato sviluppato in ambiente LabVIEW.
Nel capitolo 4 sono riportati gli studi condotti sull’usura dell’utensile diamantato. In
particolare viene riportato il fenomeno di usura dal punto di vista macro-geometrico,
attraverso la variazione delle dimensioni e del peso dell’utensile stesso, e microgeometrico attraverso l’analisi del comportamento della singola particella diamantata. La
completa assenza di riferimenti bibliografici o normative relative alle procedure per
condurre prove di usura su utensili diamantati sinterizzati ha reso obbligatorio la messa a
punto di un protocollo di prova atto a offrire una modalità universalmente valida per
l’esecuzione della prova di usura macro e micro geometrica in modo tale da ottenere
risultati ripetibili e confrontabili. Tale protocollo costituisce uno strumento indispensabile
alla corretta conduzione della prova e alla corretta interpretazione dei risultati.
Nel capitolo 5 si è affrontato lo studio del taglio di profili qualsiasi all’interno di lastre in
materiale lapideo attraverso la tecnologia che utilizza il getto idroabrasivo (A.W.J). In
particolare é stato effettuato il confronto tra la tecnologia AWJ e la tecnologia
tradizionale mediante frese diamantate nell’operazione di contornitura. Nell’ambito delle
lavorazioni non convenzionali mediante getto idroabrasivo si è affrontato lo studio delle
lavorazioni superficiali. In particolare si è determinato un indice energetico che consente
di prevedere il passaggio dal taglio alla lavorazione superficiale.
Nel capitolo 6 sono riportate le lavorazioni mediate la tecnologia laser. In particolare si è
sviluppato un modello per il taglio laser delle pietre naturali. Tale modello consente di
calcolare la geometria del solco di taglio in funzione dei parametri di processo, dei
parametri termofisici del materiale in lavorazione e le caratteristiche del fascio laser.
1
Le pietre naturali
Con il termine pietre naturali, spesso anche riferito alle pietre ornamentali, vengono
indicati tutti i materiali lapidei naturali aventi requisiti tecnici ed estetici che dopo essere
stati estratti e lavorati con specifiche tecnologie vengono impiegati in vari settori quali:
ornamentale, industriale e principalmente in quello edile.
Il mondo commerciale riconduce, da sempre, il grandissimo numero di materiali lapidei
esistenti in tre categorie: marmi, graniti, pietre. Questa suddivisione si riferisce alla
terminologia adottata dall’Ente Nazionale di Unificazione (UNI) nella norma 8458
(Terminologia e classificazione in generale), dove oltre alle tre categorie poc’anzi
accennate viene menzionata una quarta denominata travertini. Oggi i travertini non
vengono più distinti come categoria ma bensì accorpati a quella dei marmi.
Il termine marmi include quei materiali, di qualsivoglia genesi, eventualmente anche
silicati, con minerali la cui durezza non supera i valori di 4 ÷5 nella scala Mohs. Nel
settore delle pietre naturali si distinguono i marmi cristallini e marmi calcari. I primi
corrispondono ai marmi metamorfici in campo geologico e sono riconosciuti, nella
pratica per il loro aspetto visibilmente cristallino; nei secondi la cristallinità e quasi
impercettibile ad occhio nudo. Un’altra distinzione viene fatta in base al cromatismo,
distinguendo marmi bianchi e marmi colorati. Tutti materiali appartenenti a questa
categoria, dunque, indipendentemente dalle possibili corrispondenze e differenti genesi,
sono accomunati dall’essere compatti e lucidabili.
I graniti, geologicamente corrispondenti anch’essi ad un tipo petrografico ben definito,
sono contraddistinte da una struttura cristallina e da uno stato di aggregazione delle
particelle che conferisce loro proprietà complessivamente diverse da quelle dei marmi.
Nei graniti, i minerali costituenti hanno durezza mediamente sempre superiore a quella
dei marmi, 6÷7 ed anche oltre nella scala Mohs. L’uso della scala Mohs come
riferimento, per quanto consueto, non è adeguato: essa infatti fa riferimento ai singoli
minerali e non può rendere conto del fatto che molte caratteristiche di un materiale come
la lavorabilità, la segabilità, la perforabilità, etc. risultano in realtà influenzate da più
fattori, non solamente dalla durezza.
All’atto pratico le differenze tra marmi e graniti sono così marcate che la tecnologia ha
dovuto sviluppare due percorsi completamente diversi per ogni fase del ciclo produttivo:
tecniche ed attrezzature di cava, metodi e macchine per la lavorazione ed il trattamento
superficiale, costi, tempi, modalità di applicazione ed installazione dei manufatti
mostrano pertanto significative differenze quando si tratti di marmo o granito. Il termine
pietre ha, infine, un’accezione meno definita; la consuetudine vuole che esso indichi
soprattutto quelle rocce le cui caratteristiche tecniche sono complessivamente diverse da
quelle dei due gruppi precedenti; esse sono generalmente mal lucidabili oppure non sono
in grado di conservare un trattamento di lucidatura, non sempre sono estraibili in blocchi,
e non necessariamente privilegiano il valore decorativo; diversi sono anche le
destinazioni d’uso ed i contesti di valorizzazione (es.: ambiti rurali, rustici, elementi
architettonici, impiego strutturale, blocchetti, etc.).
Sussistono tuttavia delle difficoltà a comprendere in pieno l’accezione del termine pietra
e le sue differenze dai marmi e dai graniti, in considerazione anche del fatto che la
bibliografia su questo tema specifico è lacunosa.
In ambito internazionale queste tre categorie si arricchiscono di altre tre divisioni:
limestone, sandstone e slate.
Quest’ultima nomenclatura viene principalmente usata in paesi di cultura anglosassone
per differenziare ulteriormente le classi di marmi graniti e pietre.
I limestones altro non sono che calcari di vario tipo e quindi spesso ricadenti nella
categoria marmi, almeno quando sono lucidabili.
Le sandstones comprendono tutte le molteplici varietà di arenarie, talora anche quarziti,
spesso impiegate nei contesti urbani, raramente (e difficilmente) lucidate, vengono
utilizzate anche in forma di blocchetti ed elementi di piccola pezzatura.
Slate, infine, è il termine riservato alle rocce silicatiche sfaldabili in lastre anche molto
sottili, a grana molto fine, e di prevalente impiego come copertura.
1.1 Destinazioni d’uso delle pietre naturali
I principali campi di impiego delle pietre naturali possono essere ricondotti ai seguenti:
•
edilizia
•
artigianato e design
•
opere d’arte ed arte sacra
•
altre applicazioni
•
sottoprodotti (granulati, polveri)
1.1.1 Edilizia
Rappresenta di gran lunga il campo di applicazione più consistente delle pietre naturali, di
cui assorbe circa il 70%-75% dell’intera produzione mondiale. Per le molteplici opere di
edilizia industriale, commerciale e residenziale, la pietra naturale si propone per
soddisfare le esigenze di utilità, di bellezza e funzionalità che da sempre
contraddistinguono molte realizzazioni edili. La gamma di impieghi è vastissima:
lastricati, pavimenti, rivestimenti, coperture, gradini fino ad elementi costruttivi più
strettamente architettonici (mensole, cornici, listelli, balaustre) che costituiscono
componenti ordinari di aeroporti, centri commerciali, hotels, scuole, chiese, stazioni,
complessi turistici, ospedali, banche, etc.
Le applicazioni maggiori vanno attribuite ai pavimenti ed ai rivestimenti esterni ed interni,dove il limite di utilizzo è costituito solo dalla fantasia del progettista.
Le tipologie di manufatti di cui l’edilizia fa grande uso sono sia quelle seriali e ripetitive
quali marmette, marmettoni, soglie, davanzali, sia quelle un po’ più specifiche come
mensole, cornici, elementi architettonici.
In materia di pavimentazioni, il granito si distingue in tutte quelle applicazioni industriali
e commerciali dove esigenze di durevolezza e di uniformità di aspetto ne rendono
necessaria la scelta.
Nei rivestimenti esterni si devono tener conto di fattori come il clima, l’ambiente, il tipo
di ancoraggio e del fattore durabilità, tutti elementi questi che inducono l’utilizzo del
granito.
I rivestimenti interni possono giovarsi maggiormente delle peculiarità dei marmi
(cromatismi, venature, disegno delle brecce, etc.), ai quali va spesso la preferenza.
Rientra nel campo edile il restauro di patrimoni edilizi già esistenti, deteriorati, degradati
dal tempo e dalle aggressioni atmosferiche. Il degrado di opere in pietra naturale è un
fenomeno molto diffuso (formazione di croste e patine, distacchi, esfoliazione dovuta a
sbalzi termici).
1.1.2 Artigianato e design
In tale campo rientra il mercato dei cosiddetti complementi di arredo, dell’oggettistica di
lusso e delle produzioni personalizzate. Sotto la voce complementi di arredo rientrano i
piani per cucina, i tavoli, le greche, i caminetti, i bagni e/o parti di essi.
È tale campo di applicazione che ha contribuito a diffondere la conoscenza e l’uso della
pietra naturale, oltre ad avere ridimensionato il concetto che vedeva il materiale lapideo
come un elemento di arredo esclusivamente di pregio e/o di lusso.
La tipologia degli arredi proposti prevalentemente di tipo artigianale ricade su lavorazioni
speciali e, proprio grazie alle moderne tecnologie, è oggi possibile riprodurre qualsiasi
forma, realizzare oggetti in pietra naturale, prima assolutamente inesistenti, e a
soddisfare ogni tipo di richiesta.
È infatti il regno delle superfici curve, dei profili particolari, delle sagome a richiesta del
cliente, delle combinazioni inusuali.
La cosiddetta oggettistica comprende invece tutte quelle realizzazioni, non sempre a
carattere artigianale, che includono sia oggetti per uso quotidiano (posacenere, orologi)
sia oggetti normalmente decorativi come vasi, calici, targhe, piatti, soprammobili,
scacchiere, etc.
1.1.3 Opere d’arte ed arte sacra
Rientrano in tale campo le sculture con realizzazioni di busti, mezzibusti, statue
commemorative di famiglia, riproduzioni di opere d’arte famose, motivi personalizzati,
l’architettura con opere talora immense, sia come dimensioni che come impiego di
materiali diversi e spesso riproponendo la pietra naturale nella sua originaria funzione di
materiale strutturale. La gamma di materiali di cui si fa uso nelle opere d’arte è in stretta
relazione al tipo di opere ed alla loro collocazione, soprattutto se pubbliche: quando si
tratta di scultura, sono preferiti marmi finemente cristallini, travertini, subordinatamente
graniti, limestones e sandstones. Le colorazioni sono quelle classiche: bianco, grigio,
marrone-beige. Nell’architettura strutturale la gamma di materiali è analoga, ma con
requisiti meno rigidi; le grane dei marmi possono anche essere un po’ più grossolane, i
limestones sono molto presenti, le sandstones sono decisamente più rappresentate, ed
entrano in gioco anche le slates.
Anche l’arte sacra costituisce da sempre un sicuro campo di applicazione per le pietre
naturali. Infatti per tradizione storica la pietra naturale rappresenta il mezzo espressivo
usato dalle religioni per coniugare eternità, simbolismo e dignità.
L’arte funeraria è un campo di applicazione caratterizzato da una rimarchevole continuità,
dettata da ovvi motivi, e che rende conto di circa il 15% del mercato internazionale; le
richieste sono orientate verso semi-lavorati specifici come gli spessori e i masselli, da cui
estrarre una tipologia estremamente vasta di realizzazioni, talora molto scarne e semplici,
talora estremamente complesse. Si tratta di tombe complete, lapidi, cappelle, cippi
funerari, fino all’erezione di grandi sepolcri ed importanti monumenti di
commemorazione.
Per l’arte funeraria si richiede spesso un allestimento particolare delle segherielaboratorio e fruiscono grandemente delle nuove tecnologie di taglio e sagomatura, grazie
alle quali vengono confezionati prodotti su richiesta, unici, elaborati, ai quali, ordinariamente, si accompagnano scritte, targhe, incisioni.
1.1.4 Altre applicazioni
Ricadono sotto questa voce prodotti e manufatti talora analoghi per forma e dimensioni a
quelli di prevalente uso edilizio, ma con destinazioni d’uso particolare.
Alcuni di essi costituiscono, tra l’altro, i nuovi orizzonti per la pietra naturale, alla ricerca
di nuove applicazioni. Tra gli usi delle pietre naturali che la consuetudine definisce come
meno nobili, si possono ricordare le ordinarie murature, come i muri di contenimento o di
recinzione, le opere idrauliche come le scogliere, gli argini ed i letti di fiumi. Sono
impiegati, in questo caso, blocchi e blocchetti grezzi di pietra naturale di tipo qualsiasi.
Un’altra applicazione sfrutta per alcuni marmi a tenue cromatismo la traslucenza
ottenibile con elementi a spessore sottile (da 1,5 cm fino a 0,7 cm); il fenomeno, assicura,
sia per trasmissione di luce naturale che artificiale, risultati in opera di indubbio interesse
e valore estetico. Data la tipologia del prodotto, i materiali che possono soddisfare questa
categoria sono relativamente pochi e devono possedere ottime qualità meccaniche, dato
che la traslucenza decade rapidamente all’aumentare dello spessore degli elementi.
Vengono preferiti per queste applicazioni marmi cristallini bianchi, biancastri o a
colorazione tenue (giallini, rosa).
Infine, grazie proprio all’ottenimento di spessori sottili, si aprono nuovi campi di
applicazione che hanno come priorità il contenimento del peso e che, contemporaneamente, possono sfruttare il valore estetico di cui la pietra naturale è capace. Ne sono
tipici esempi i rivestimenti interni di ascensori, le coperture sottili per tavoli e contorni di
specchi, i rivestimenti e gli arredi interni di navi. Anche in questo caso la gamma di
materiali adatta a questo tipo di impiego non è molto grande, poiché sono richieste
caratteristiche tecniche di assoluta eccellenza; privilegiati i graniti, seguiti dai marmi
cristallini a grana molto fine.
1.1.5 Sottoprodotti (granulati, polveri)
È utile poi accennare a tutti quei sottoprodotti e scarti provenienti dall’estrazione e dalla
lavorazione delle pietre naturali. Con una sempre maggiore sensibilizzazione sui problemi
ambientali, il riciclo ed il riutilizzo degli scarti di produzione è diventato un problema di
primaria importanza. Cave ed impianti producono ingenti quantità di scarti (pezzi di
blocchi, pezzi di lastre, sfridi e fanghi di lavorazione) la cui rielaborazione ed impiego
sono stati resi possibili, soprattutto negli ultimi anni, grazie ad una migliorata
economicità dei processi per una loro conversione.
Il sottoprodotto lapideo trova numerose applicazioni:
•
•
•
Sotto forma di polvere, anche micronizzata, o come granulato, il marmo è
impiegato nelle industrie della carta, plastica, gomma, vernici, intonaci, vetro,
ceramica, calcestruzzo, mangimi, concimi, cemento.
I fanghi di lavorazione, mediante trattamento con specifici prodotti di sintesi, si
convertono in aggregati cementizi artificiali che possono essere impiegati nel
recupero di aree dismesse, riempimenti di cave abbandonate, mattoni ed altri
prodotti edilizi. Gli aspetti economici non sono per il momento incoraggianti.
Sotto forma di granulato, di pezzature varie, marmo e granito trovano
applicazione per la confezione di mattonelle, e per la realizzazione di agglomerati
in marmo-resina e marmo-cemento, con i quali si possono ricostruire tanto lastre
che blocchi di dimensione analoga a quelli delle rocce naturali. Da non
dimenticare la realizzazione di pavimenti che fanno uso di frammenti di marmo
di varie dimensioni.
1.2 Origine di formazione delle rocce
La litogenesi è il processo che porta alla formazione delle rocce e si distinguono tre
diversi tipi:
a) magmatico; b) sedimentario; c) metamorfico.
Fig. 1.1 - Distribuzione percentuale dei tipi di roccia presente sulla crosta terrestre
1.2.1 Rocce magmatiche
Le rocce magmatiche, dette anche eruttive o ignee, prendono il loro nome dal magma da
cui sono state generate. Per magma si intende quella massa fusa (750 °C – 1300 °C)
proveniente dall’interno della terra, più precisamente dal mantello, zona compresa fra i 30
ed i 2900 Km. di profondità, di composizione essenzialmente silicatica.
La genesi delle rocce magmatiche ha luogo con il raffreddamento del magma, fenomeno
che influenza drasticamente sulla struttura della roccia tanto da proporre una seconda
classificazione:
•
Rocce intrusive o plutoniche: Derivano da magmi solidificatisi negli strati più
profondi e, quindi con un lento raffreddamento ed in condizioni di elevata
pressione dovuta alle rocce soprastanti. Nel magma si trovano in grande quantità
delle sostanze aeriformi disciolte nei fusi, quali il vapore acqueo, l’acido
solfidrico, l’anidride solforica, l’acido cloridrico, l’acido borico, l’ammoniaca;
questi gas rendono il magma più fluido e, facilitando i movimenti delle molecole,
favoriscono i meccanismi di cristallizzazione dei minerali. La solidificazione dei
magmi avviene a temperature superiori ai 600÷700 °C ed in tempi molto lunghi,
per cui i cristalli che si formano sono di grandi dimensioni con aspetto di granuli.
Il magma fluido tende, inoltre, ad insinuarsi in cavità di altre rocce o di roccia da
poco solidificatasi ove si solidifica esso stesso formando dei filoni o delle tasche.
Le rocce intrusive possono venire alla superficie a causa dei movimenti della
crosta terrestre e degli effetti demolitivi degli agenti meteorici sulle rocce
soprastanti.
•
Rocce effusive: Il magma fuoriesce dalla crosta terrestre attraverso condotti o
fenditura e, rapidamente, solidifica con un brusco passaggio da temperature di
circa 1000÷1300 °C alla temperatura ambientale, con l’abbassamento di
pressione di alcune migliaia di atmosfere e la dispersione delle sostanze gassose
nell’aria. Pertanto la cristallizzazione in elementi di dimensioni visibili
(fenocristalli) avviene solo in piccola parte in profondità e durante il passaggio
attraverso la crosta, mentre la maggior parte dei fusi solidifica alla superficie in
cristalli molto minuti o, in alcuni casi, in massa amorfa ( vetro ).
Una ulteriore classificazione delle rocce magmatiche è basata sul carattere acido o basico
di queste. In tabella 1.1 vengono riportate alcune di queste.
Tipo di roccia
magmatica
Rocce intrusive
Rocce effusive
Rocce sialiche o acide
SiO2 > 65 %
Graniti
Granodioriti
Lipariti o Rioliti
Porfido quarzifero
Ossidiane
Pomice
Rocce femiche o basiche
SiO2 < 52 %
Gabbri
Basalti
Leucititi
Rocce neutre
SiO2 52 - 65 %
Dioriti
Sieniti
Monzoniti
Andesiti
Trachiti
Rocce ultrabasiche
SiO2 < 45 %
Peridotiti
Tabella 1.1 - Classificazione delle rocce magmatiche in base alla percentuale di SiO2 presente.
1.2.2 Rocce sedimentarie
Questo tipo di roccia si forma a seguito di un accumulo di sedimenti ed a successiva
diagenesi (compattazione - cementazione). I sedimenti hanno origine nei seguenti modi:
ƒ
ƒ
Sedimenti di origine clastica. Formatisi a seguito di smantellamento (erosione) di
rocce preesistenti ad opera di: agenti atmosferici, erosione marina o fluviale,
alterazione chimica, con conseguente accumulo (sedimentazione) in aree e condizioni
idonee (bacino di sedimentazione). Possibile la presenza di fossili mischiatisi ai
granuli clastici durante la sedimentazione.
Sedimenti di origine chimica. La sedimentazione avviene a seguito di una
variazione di concentrazione della soluzione salina all’interno di un bacino (marino o
continentale). La precipitazione dei sali (sedimenti), generalmente sotto forma di
cristalli, avviene a seguito di saturazione della soluzione. In questo tipo di rocce si
osserva l’assenza di fossili in quanto le acque in cui e’ avvenuta la precipitazione
presentava una salinità e quindi delle condizioni inadatte alla vita animale o vegetale.
ƒ
Sedimenti di origine organogena. In un ambiente particolarmente idoneo si è
verificato un rigoglioso sviluppo animale e/o vegetale. Con la successiva morte degli
organismi si è verificato un accumulo di resti organogeni (sedimenti) ed in seguito
una parziale o totale dissoluzione dei gusci e/o scheletri fino a formare un ‘‘fango’’.
Questi sedimenti incoerenti, formati cioè da singole particelle, possono subire un
processo chimico-fisico molto lento, chiamato diagenesi.
La diagenesi comporta dapprima una compattazione dei materiali dovuta alla
sovrapposizione degli stessi, fino alla riduzione degli spazi interstiziali e, quindi, alla
cementazione, processo per cui sostanze in soluzione acquosa precipitano negli interstizi,
riempiendoli e cementando le particelle sedimentarie. I cementi sono, in genere, costituiti
da calcite, silice ed ossidi di ferro
Il processo diagenetico che trasforma i sedimenti in roccia si può schematizzare in quattro
fasi:
1. Aumento della pressione a seguito di compressione esercitata dal carico dei sedimenti
sovrastanti;
2. Apporto di nuove sostanze cementanti;
3. Perdita per dissoluzione di varie sostanze primarie;
4. Trasformazioni chimiche operate dalle acque circolanti.
Le pietre ornamentali appartenenti a tale categoria sono i travertini, alabastri, i limestons,
sandstones, brecce colorate.
1.2.3 Rocce metamorfiche
Quando le condizioni di trasformazione diagenetiche si spingono a superare determinati
valori di temperatura e pressione si ha una ricostruzione della compagine e delle
associazioni mineralogiche. In questo caso si parla di rocce metamorfiche.
Le reazioni metamorfiche possono essere considerate delle ‘‘ cristallizzazioni ‘‘ di nuovi
minerali in luogo di quelli originari o delle ‘‘ ricristallizzazioni ‘‘ degli stessi. I
movimenti di materia avvengono attraverso lente diffusioni ioniche, mentre la
composizione chimica complessiva delle rocce viene mantenuta. Il processo può essere di
tipo dinamico o statico.
È di tipo dinamico quando in conseguenza di movimenti della crosta terrestre questi
ammassi sedimentari vengono sottoposti a forti pressioni e temperature.
Mentre è di tipo statico quando l’aumento di temperatura avviene ad opera di un contatto
diretto con il magma.
Appartengono a questa categoria pietre ornamentali come i marmi, graniti venati e
orientati scuri
1.3 Composizione chimica delle pietre naturali
Le pietre naturali rientrano in una famiglia di materiali molto vasta che va sotto il nome
di rocce.
La composizione chimica di una roccia è, in prima approssimazione, individuata dal contenuto di elementi maggiori quali SiO2, TiO2, Al2O3, Fe2O3, Cr2O3, FeO, MnO, MgO,
CaO, Na2O, K2O, P205, e H2O, espressi in peso percentuale e da elementi in traccia come
Ba, Co, Ni, Rb, S, Sc, Sr, Th, U, V, Y, Zr) o in elementi delle terre rare (lantanidi)
espressi in parti per milione (ppm).
I silicati sono i minerali più abbondanti e diffusi nelle rocce della litosfera.
Nella crosta terrestre il Silicio non si trova mai allo stato elementare, ma combinato sotto
forma di silice e di silicati, presenti nella composizione di un enorme numero di rocce. Il
diossido di silicio, SiO2, o Silice, è un solido incolore, poco solubile in acqua a
temperatura ambiente, che può presentarsi in varie modificazioni cristalline amorfe,
alcune di queste (quarzo) presenti in natura in notevole quantità. A pressione atmosferica
e temperatura ambiente la forma cristallina di silice, termodinamicamente stabile, è il
quarzo, mentre al di sopra dei 1025 °C la forma termodinamicamente stabile è la
cristobalite.
Data la grande tendenza del Silicio alla coordinazione tetraedrica, la maggiore parte delle
forme di silice è costituita da un atomo di Silicio circondato da quattro atomi di ossigeno,
essendo ciascuno di essi legato a due atomi di Silicio. Il legame Si-O è un legame forte, di
tipo covalente notevolmente polarizzato verso l’ossigeno, ciò si riflette sulla notevole
durezza, rigidità e stabilità termica della silice.
L’utilizzo dei raggi X in cristallografia ha permesso di determinare che la struttura dei
silicati ha come unità fondamentale il gruppo SiO4 costituito da un tetraedro al centro del
quale si trova un ione silicio e al vertice quattro ioni ossigeno. I tetraedri possono essere
isolati, oppure dato che ciascuno dei quattro ioni ossigeno può essere legato a uno o due
ioni silicio, vanno a costituire strutture più o meno complesse. Pertanto i silicati vengono
classificati in 5 gruppi a seconda del diverso modo di aggregazione dei tetraedri:
1)
2)
3)
4)
5)
in gruppi isolati SiO4 (neosilicati = olivina, granato ecc.);
in gruppi isolati Si2O7, Si6O18 ecc. (sorosilicciti = thortveitite, berillo ecc.);
in catene sviluppate in una sola direzione (inosilicati = antiboli e pirosseni);
in raggruppamenti nel piano (fillosilicati = miche argille, talco, clorite);
in raggruppamenti tridimensionali (tectosilicati = feldspati).
Il meccanismo del raggruppamento da origine a un rapporto caratteristico Si/O per ogni
silicato. Nei silicati in genere esiste un largo campo di sostituibilità fra atomi di uguale
dimensione, occupanti posizioni equivalenti.
Le dimensioni ioniche del magnesio, del ferro bivalente e trivalente e dell’alluminio sono
abbastanza simili da permettere che essi si sostituiscano l’un l’altro nel reticolo. Anche il
sodio e il calcio possono sostituirsi e similmente si comportano gli OH, ossigeno e fluoro.
Possono inoltre verificarsi limitate sostituzioni di atomi di silicio da parte di atomi di
alluminio, il che viene ad estendere ancor più la variabilità di composizione dei silicati.
Tali elementi costituiscono composti mineralogici la cui nomenclatura è di seguito
riportata.
Silicati
ƒ Quarzo: di formula SiO2, cristallizzazione romboedrica, ha forma di bipiramide
esagonale. E’ un componente molto frequente di rocce magmatiche. Puro e’
incolore, ma può assumere diverse colorazioni a seconda dei minerali presenti
sotto forma di inclusioni.
ƒ Feldspati: alluminosilicati di potassio, sodio e calcio con presenza di altri
elementi. Sono minerali molto frequenti in diverse classi di rocce.
Strutturalmente sono dei tectosilicati con un reticolo tridimensionale costituito da
tetraedri di [(Si,Al)O4]. I due termini più importanti sono: Ortoclasio: feldspato
potassico [K(AlSi3O8)] a cristallizzazione monoclina. E’ componente
fondamentale delle rocce eruttive acide e negli scisti cristallini. E’ anche presente
in molte rocce sedimentarie. Di norma ha colore bianco-grigiastro. Plagioclasi:
feldspati costituiti da miscele isomorfe variabili di albite [Na(AlSi3O8)] ed
anortite [Ca(Al2Si2O8)]. Cristallizzano nel sistema triclino e si presentano
sempre geminati.
ƒ Miche: fillosilicati di alluminio e metalli alcalini, a volte contenenti fluoro,
gruppi ossidrili (OH), ferro, calcio, magnesio. Hanno cristallizzazione monoclina
in sottili fogli scarsamente coerenti l’uno con l’altro. Sono divise in due gruppi:
gruppo della muscovite (miche bianche, fillosilicati di potassio, alluminio con
ossidrili e fluoro. Gruppo della biotite ( miche scure, fillosilicati di potassio,
ferro, manganese, magnesio con ossidrili e fluoro
ƒ Pirosseni: inoslilicati a catene semplici tetraedriche. Si distinguono pirosseni
alluminiferi, pirosseni non alluminiferi e pirosseni alcalini. Possono cristallizzare
sia nel sistema rombico che in quello monoclino.
ƒ Anfiboli: inosilicati simili ai pirosseni; presentano nel reticolo cristallino catene
doppie di tetraedri SiO4. Nella struttura, che può avere cristallizzazione
monoclina od ortorombica, sono presenti gruppi ossidrilici (OH ) e ioni fluoro.
ƒ Olivina: detta anche peridoto, è un nesosilicato di magnesio e ferro II
[(Mg,Fe)2(SiO4)], cristallizzato nel sistema ortorombico. Ha colore verdastro e
rappresenta un minerale presente in rocce con scarsa silice.
Carbonati
ƒ
Calcite: fase α del carbonato di calcio, cristallizzazione trigonale.
ƒ
ƒ
Altri
ƒ
Dolomite: carbonato doppio di Ca e Mg, CaMg(CO3)2, cristallizzazione.
trigonale.
Aragonite: fase β del carbonato di calcio, cristallizzazione rombica.
Rientrano in tale categoria gli ossidi come la magnetite,l’ematite ed altri elemti in
percentuale molto piccola
1.4 Proprietà fisico meccaniche delle pietre naturali
le rocce ad uso ornamentale devono possedere, oltre ai requisiti estetico-qualitativi, dei
requisiti tecnici onde poter soddisfare le diverse condizioni di applicazione, con
particolare riferimento all’impiego in edilizia. La pietra lavorata e posta in opera è
soggetta a numerosi agenti perturbanti: di tipo meccanico (carichi permanenti, attriti,
usura, etc.), di tipo fisico (insolazione, dilatazioni, gelo, salsedine), di tipo chimico e
fisico-chimico (ossidazione, azione dell’acqua, inquinamento atmosferico, etc.) e di tipo
biologico (muschi, licheni, piante superiori, etc.).
Queste azioni possono arrecare danni più o meno gravi, permanenti ed irreversibili,
compromettendo così non solamente la struttura della pietra stessa, ma l’integrità e la
funzione del manufatto cui sono applicate, con rischio talvolta per la pubblica incolumità.
Ciò spiega perché ogni materiale lapideo deve soddisfare a certi requisiti a seconda del
tipo di applicazione.
Di seguito vengono riportate le propriètà fisico meccaniche di maggiore interesse per la
qualificazione delle pietre naturali.
1.4.1 Massa volumica apparente
È il rapporto, espresso in kg/m3, tra la massa ed il volume apparente, cioè il volume
delimitato dalla superficie esterna, di provini con una forma geometrica. La massa
volumica apparente è collegata con il peso specifico dei componenti minerali di una
roccia, tenendo conto delle proporzioni in cui entrano a costituirla. Essa fornisce una
indicazione di massima della compattezza ed è un elemento di notevole importanza
quando si devono calcolare i carichi dei manufatti (soprattutto strutture, pannelli), quando
si debbano progettare muraglie e scogliere di protezione marittima o fluviale, nel calcolo
dei costi per gli acquisti di lapidei a peso (es. alabastro gessoso), nel calcolo dei costi di
trasporto, etc..
la massa volumica apparente viene determinata su due provini cubici di 7,1 cm di lato e
rappresenta il rapporto tra il peso del provino essiccato a 110° C, fino a peso costante, ed
il suo volume. Il risultato è espresso in Kg/m3 o in Tonn/m3. Si considera il valore medio
delle due determinazioni.
1.4.2 Coefficiente di imbibizione
L’imbibizione nei materiali rocciosi è quel fenomeno per cui tutti i materiali, anche quelli
all’apparenza più compatti, immersi nell’acqua, ne possono assumere in quantità
variabile, raggiungendo talvolta la saturazione. Il coefficiente di imbibizione è la quantità
massima di acqua assorbita da un lapideo quando è sottoposto ad immersione in acqua
deionizzata a pressione e temperatura ambiente. Fornisce indicazioni sulla compattezza e
sulla durevolezza in condizioni ambientali normali e, in particolare, nei casi di contatto
prolungato con acque meteoriche o terreni umidi. L’introduzione di acqua in una
compagine rocciosa (in concomitanza poi con tutti i fenomeni cui l’acqua e le sostanze in
essa disciolte vanno soggetti) è infatti uno dei meccanismi maggiormente responsabili del
degrado dei materiali. Il test, tuttavia, non risulta probante del comportamento in opera di
molti materiali i quali soffrono estesamente l’azione combinata dell’acqua e sostanze
aggressive anche laddove i valori del coefficiente sembrerebbero ininfluenti.
Il test viene determinato su cinque provini del peso di almeno 200 gr. ciascuno; il
coefficiente risulta dall’aumento percentuale del peso di un campione dopo prolungata
immersione in acqua, rispetto al peso del medesimo campione allo stato secco. Si
considera il valore medio dei cinque saggi. Poiché, per la maggior parte delle rocce, il
coefficiente di imbibizione è molto basso, il risultato è generalmente espresso in %o (per
mille) del peso iniziale.
1.4.3 Carico di rottura a compressione semplice
La resistenza alla compressione di una roccia è la resistenza opposta alle sollecitazioni
che tendono a frantumarla per schiacciamento; essa rappresenta il carico unitario
necessario per produrre la rottura di provini di materiale lapideo. Il carico di rottura a
compressione semplice è una delle prove più utilizzate in ambito internazionale e, anche
se oggi il lapideo è impiegato più con funzione di rivestimento che non strutturale, questo
test resta a buon diritto un parametro della massima rilevanza in tutte quelle situazioni di
sollecitazione con notevoli carichi permanenti. Tra i molteplici fattori che influenzano la
resistenza a compressione (struttura, tessitura, stato di alterazione, durata di applicazione
dei carichi, etc.) assume particolare importanza la struttura della roccia: dalla struttura
dipende la coesione della roccia stessa, e, poiché la coesione si manifesta al contatto tra le
superfici esterne dei cristalli, sarà generalmente maggiore nelle rocce aventi estese
superfici individuali per unità di volume, cioè nelle rocce a grana fine e/o finissima. Nelle
rocce clastiche (le sandstones, ad esempio e molte pietre) la coesione si realizza
attraverso le superfici di contatto granuli-cemento. Detta coesione, indipendentemente dai
meccanismi che la generano, è grandemente responsabile dei valori di rottura dei diversi
materiali poiché la rottura avviene anche per il superamento di tale coesione. Ciò, in linea
generale, ben si accorda con le maggiori resistenze offerte, ad esempio, dai graniti a grana
molto fine rispetto a quelli a grana grossa, dai limestones compatti rispetto a molti marmi
cristallini, dalle sandstones rispetto alle brecce. I materiali stratificati e/o comunque
orientati hanno generalmente una direzione preferenziale lungo la quale mostrano minor
resistenza. La resistenza a compressione in questi materiali assume valori molto differenti
se misurata secondo direzioni diverse: massimi nella direzione normale al verso, minimi
nella direzione ad esso parallela. Ciò è molto importante poiché un materiale spesso viene
tagliato secondo le direzioni che meglio valorizzano l’ornamentazione, le quali, tuttavia,
non necessariamente coincidono con le direzioni che offrono i migliori valori di
resistenza. La prova consiste nel sottoporre il campione ad un carico che aumenta di 2
MPa al secondo, generato da una pressa idraulica con blocco automatico alla rottura del
provino. La determinazione viene effettuata su quattro provini cubici di 7,1 cm di lato (o
su cilindri con diametro compreso tra 4 ed 8 cm e rapporto tra altezza e diametro pari a 2)
allo stato asciutto (asciugati a 30° fino a peso costante). Il carico viene normalmente
applicato in direzione perpendicolare ai piani di divisibilità preferenziale della roccia; in
caso di richiesta specifica, la prova viene anche eseguita con carico agente in direzione
parallela ai suddetti piani di divisibilità. Il risultato viene espresso in MPa.
1.4.4 Carico di rottura a compressione semplice dopo cicli di gelività
Si dicono gelive quelle rocce che offrono scarsa resistenza al gelo, in particolar modo alle
escursioni di temperatura tra valori sotto zero e valori sopra zero. Appare chiaro con
questo tipo di prova quanto siano intimamente legati i parametri della porosità, della
permeabilità, del coefficiente di imbibizione di una roccia, e quanto devastanti possano
essere gli effetti combinati di questi (e numerosi altri) parametri sul valore del test. La
prova, da valutare congiuntamente ad altre, è di fondamentale importanza per scegliere
materiali e soluzioni tecniche per esterni in grado di sopportare situazioni climatiche
difficili. Tuttavia, la gelività, probabilmente, è il test che, più di ogni altro, ha evidenziato
la sua inadeguatezza a quelle che sono poi le reali condizioni di esercizio; molti materiali
considerabili non gelivi in base a questo test, risultano poi in realtà molto vulnerabili, per
l’azione profonda che l’acqua esercita su di essi. Sono pertanto allo studio modifiche per
rendere il test veramente significativo delle sollecitazioni subite dai materiali una volta
installati e il più idoneo possibile alla previsione del comportamento in opera.
La prova consiste nel determinare la resistenza alla compressione semplice secondo
procedure analoghe alla prova precedente su campioni previamente sottoposti per venti
volte a variazioni cicliche di temperatura da un minimo di -10° C ad un massimo di +35°
C. Durante ogni ciclo, detto di "gelività", il campione rimane immerso per tre ore in
acqua a +35° C e quindi viene posto per lo stesso periodo in una cella frigorifera, all’aria,
a -10° C. La roccia si considera scarsamente geliva o non geliva se, dopo tale trattamento
termico, mostra una riduzione del carico di rottura a compressione inferiore e non oltre il
25% rispetto all’analogo valore misurato su campioni non trattati ed allo stato secco. Il
valore, in MPa risulta dalla media di quattro prove.
1.4.5 Carico di rottura a flessione
Un esempio tipico di sollecitazione a flessione è costituito dalle spinte prodotte dal
esercitate su lastre di rivestimenti parietali. Queste provocano sollecitazioni flessionali e
di taglio in corrispondenza dei vincoli delle lastre tali da raggiungere talvolta il carico di
rottura, con la pericolosa conseguenza del distacco di pezzi di lastra dalla parete. L’azione
del vento è tra le più pericolose poiché ha carattere affaticante; questo rende la sua
valutazione uno dei problemi cardine nella posa in opera di rivestimenti esterni,
soprattutto quando si ha a che fare con bassi spessori del lapideo. Particolare attenzione
deve quindi essere rivolta alla realizzazione di edifici di grande altezza (aree
metropolitane, grattacieli) e a quei paesi interessati da venti costanti e/o da periodici
tifoni; il vento rappresenta il maggior pericolo per la sicurezza statica degli elementi di
rivestimento, fatta ovviamente eccezione per le azioni telluriche.
Sollecitazioni a flessione si riscontrano anche nella realizzazione di scale nei manufatti
con funzione di copertura (ad esempio i tetti), in pavimenti sopraelevati, e in elementi
architettonici come mensole, architravi, balconi, etc. Da un punto di vista numerico, si
può grossolanamente dire che i valori medi registrati per un materiale corrispondono al
5% della sua resistenza alla compressione. Analogamente alla compressione, anche in
questo caso, dal test scaturiscono valori molto diversi su materiali orientati a seconda che
esso sia eseguito parallelamente oppure ortogonalmente ai piani di orientazione.
La resistenza a flessione viene determinata su cinque provini di cm 12x3x2, appoggiate a
due coltelli a spigolo arrotondato, caricate in mezzeria da un altro coltello anch’esso a
spigolo arrotondato. La prova viene normalmente eseguita con il carico agente in
direzione perpendicolare ai piani di divisibilità preferenziale della roccia; in caso di
richiesta specifica, viene anche eseguita con carico agente in direzione parallela a tali
piani. Il risultato è espresso in MPa, come valore medio dei cinque saggi.
1.4.6 Modulo di elasticità normale
È il rapporto tra il valore della compressione (MPa) esercitata su un corpo roccioso ed il
valore della diminuzione di lunghezza che il corpo stesso subisce. Si tratta di una
proprietà che permette di eseguire determinati controlli di stabilità e di sicurezza statica
su elementi sottoposti a sollecitazione meccanica. Il modulo definisce il grado di elasticità
di una roccia e viene calcolato soprattutto sui materiali utilizzati per rivestimenti e, talora,
per il calcolo delle strutture. Il modulo mette poi in risalto eventuali alterazioni o
microfratturazioni che abbassano sensibilmente il valore rispetto a quello dello stesso
materiale sano.
Il test viene determinato su due provini aventi forma di parallelepipedo a base quadrata
20x5x5 cm, (oppure cilindrici con diametro di almeno 5 cm e rapporto tra altezza e
diametro pari a 3). I provini sono sottoposti a sforzo normale di compressione lungo il
loro asse longitudinale, misurando per una serie di almeno 10 valori del carico le
corrispondenti deformazioni longitudinali, allo scopo di ricavare la curva sforzideformazioni. Il modulo elastico viene quindi definito come il rapporto tra variazione di
tensione longitudinale e la deformazione unitaria in direzione longitudinale prodotta dalla
variazione di tensione e viene espresso in MPa o in GPa. Analogamente ad altre prove
viene normalmente eseguita con il carico agente in direzione perpendicolare ai piani di
divisibilità preferenziale della roccia; in caso di richiesta specifica, viene anche eseguita
con carico agente in direzione parallela a tali piani di divisibilità.
1.4.7 Resistenza all’urto
Tale proprietà definisce la tenacità o la fragilità di un materiale all’urto, cioè la resistenza
maggiore o minore alla rottura per il colpo di un corpo contundente. Consente di valutare
il comportamento dei materiali lapidei quando siano impiegati in pavimenti industriali, in
basamenti, in gradinate esterne, e in generale, in tutte quelle situazioni in cui possa
presentarsi l’eventualità di colpi istantanei (caduta di oggetti pesanti).
Il test viene determinata su quattro lastre di cm 20x20x3, appoggiate su un letto di sabbia
di 10 cm. di spessore. Il risultato è espresso dall’altezza minima di caduta, in cm, di una
sfera di acciaio del peso di Kg. 1 che, colpendo la lastra nel centro, la spezzi. Si considera
il valore medio dei quattro saggi.
1.4.8 Coefficiente di dilatazione lineare termica
Nelle rocce si può distinguere una dilatabilità termica lineare, evidenziata da variazioni di
lunghezza, ed una dilatabilità termica di volume, evidenziata da variazioni, appunto, di
volume. In quella lineare il coefficiente visualizza le variazioni in lunghezza cui possono
andare soggetti gli elementi lapidei, una volta posti in opera, per effetto di aumenti di
temperatura. Il test risulta particolarmente efficace per tutte le situazioni di applicazione
in contesti climatici con notevoli escursioni termiche, sia giornaliere che annue. I valori
dei coefficienti di dilatazione nelle rocce sono da considerarsi trascurabili quando ad esse
sia data la possibilità di dilatarsi; tuttavia, quando la dilatazione è impedita, si creano
all’interno della roccia tensioni che possono spingersi oltre il valore sopportabile di
resistenza alla compressione o che, in altri casi, provocano la flessione e l’incurvamento
dei manufatti. Nelle pavimentazioni (o nei pavimenti esposti) e nei rivestimenti esterni
deve sempre essere previsto un sistema di giunti di dilatazione, la cui larghezza deve
essere proporzionale alle dimensioni delle lastre. A titolo di esempio, una colonna
monolitica di granito alta 5 m, con una variazione di temperatura pari a 50° C si allunga
di 2 mm, mentre un pilastro di calcestruzzo, alle stesse condizioni, raddoppia
l’allungamento (4 mm). Il test viene determinato su due provini cilindrici del diametro di
3 cm e della lunghezza di 20 cm. collocati in un dilatometro in vetro di silice e sottoposti
a sbalzi termici tra 0° C e 60° C. Le variazioni di lunghezza vengono rilevate mediante
comparatore millesimale. Il risultato è espresso in 10-6 /°C, come valore medio dei due
saggi. Talora si suole esprimere il risultato anche in mm/m/°C.
1.4.9 Usura per attrito radente
Consente di valutare il comportamento di un materiale collocato in zone soggette a
sfregamento, calpestio e transito di persone, veicoli o cose. I materiali usati nelle
pavimentazioni e nelle scale sono soggetti ad usura e a logoramento assai intensi,
soprattutto nelle sedi stradali; si tratta di usura per attrito radente che, in un tempo più o
meno lungo, determina dei cambiamenti nelle caratteristiche della superficie originaria
del materiale. Tipiche le concavità formatesi al centro dei gradini di edifici molto antichi
dovute ad un uso secolare.
La prova viene determinata con un tribometro tipo Amsler su due provini di cm
7,1x7,1x2,5 premuti con un carico unitario di 0,03 MPa contro una pista rotante coperta
di un abrasivo costituito da graniglia di carborundum di granulometria inferiore a 0,15
mm ed umettata con olio minerale fluido. Una pista rotante analoga effettua, in
contemporaneità, la medesima prova su un materiale noto (granito di San Fedelino), cui si
riferiscono ogni volta, i valori della roccia che si vuole esaminare. Il risultato viene
espresso come coefficiente relativo di abrasione, cioè come rapporto tra le altezze degli
strati abrasi nel materiale di riferimento (il granito di S. Fedelino) e nel materiale in
prova. Le rocce che risultano più resistenti del granito di San Fedelino danno un risultato
maggiore di 1, mentre quelle meno resistenti di esso danno un risultato minore di 1.
È un test per il quale si stanno sperimentando nuove procedure e sul quale c’è scarsa
omogeneità di dati tra i materiali attualmente in commercio.
1.4.10 Microdurezza Knoop
Il saggio Knoop è una prova di microdurezza ottenute mediante un penetratore di
diamante. Poiché la prova interessa zone submillimetriche il valore della durezza con tale
prova non può essere espressa tramite una sola prova ne tanto meno dalla media dei
risultati di più prove; questo in quanto il materiale a tale scala risulta essere non
omogeneo e la durezza di una roccia è una proprietà che risulta notevolmente variabile da
punto a punto.
Per sopperire a tale variabilità di comportamento del punto su cui si fa la prova, vengono
eseguite più prove su lo stesso provino ed i valori ottenuti sono rappresentati
graficamente attraverso una curva di frequenza cumulativa.
Tecnicamente la prova è basata sulla determinazione della misura di una serie di 20
impronte o 40 secondo il tipo materiale costituente il provino (materiali uniformi = grana
fine; materiali disuniformi = grana più grossa), distanti 1 mm l’una dall’altra e prodotte
da un penetratore di diamante premuto con un determinato carico sulla superficie,
lucidata o levigata, di un campione del materiale da esaminare.
I valori (in MPa) vengono riportati in ordine crescente e diagrammati: sugli assi cartesiani
figurano i numeri d’ordine, ed i valori corrispondenti della microdurezza; si ottiene un
grafico il cui andamento corrisponde a quello del diagramma cumulativo di frequenza dei
valori di microdurezza della roccia. Per leggere il grafico in termini di abbondanza
percentuale di componenti aventi durezza maggiore o minore di un valore prestabilito, o
anche compresa tra due limiti, basta sostituire la graduazione da 0 a 20 sulle ascisse con
una graduazione da 0 a 100.
1.5 Il ciclo produttivo delle pietre naturali
Il ciclo di produzione dei materiali lapidei inizia con il processo estrattivo in cava con la
realizzazione di blocchi commerciali soddisfacenti a determinati requisiti volumetrici,
dimensionali ed estetici. La cubatura dei blocchi in genere è dell’ordine dei 2,5 m3 fino 9
m3 con dimensioni che variano dai 3 x 1,75 x 1,75 m ai 1,80 x 1,20 x 1,20.
Il blocco può essere ricavato sia da grosse porzioni di roccia, chiamata bancata, avente la
forma di un grosso parallelepipedo più o meno allungato ed un volume dell’ordine delle
centinaia o migliaia di metri cubi, sia direttamente dal fronte di cava.
L’una o l’altra scelta è dettata da fattori di praticità e di costi, ricordando che il costo
unitario di taglio è funzione del materiale abbattuto.
1.5.1 Macchine per l’estrazione in cava
Il processo estrattivo in cava oggi viene effettuato con i seguenti macchinari:
ƒ Tagliatrice a filo diamantato;
ƒ Tagliatrice a catena;
ƒ Flame-jet ( lancia termica o fiamma);
ƒ Esplosivo.
Tagliatrice a filo diamantato. Il principio generale di funzionamento delle tagliatrici a
filo diamantato è quello di incidere una roccia trascinando un dispositivo dinamico ad
azione abrasiva. L’elemento tagliante di una tagliatrice è, coerentemente alla
denominazione, un filo diamantato, che viene disposto secondo un circuito chiuso attorno
alla sezione da tagliare ed irrorato con acqua per il raffreddamento durante il taglio.
Il cuore del sistema è il filo diamantato costituito da due elementi distinti; il cavo e le
boccole diamantate. Il cavo in acciaio inossidabile (con eventuali trattamenti superficiali)
del diametro di 5 mm, ha il compito di assorbire le sollecitazioni statiche e dinamiche e di
sostenere le perline diamantate. Le boccole diamantate o perline, elementi di forma
cilindrica cava, dal diametro esterno Ø=10 mm (talora Ø =11 mm) ed interno Ø=5 mm,
sono inserite sul filo d’acciaio e distanziate tramite molle; il compito di tali elementi è
quello di assorbire le forti variazioni di sollecitazioni a causa del cambiamento repentino
delle condizioni di attrito tra perlina e pietra. Le perline sono di due tipi: elettrodepositate
e sinterizzate.
In figura 1.2 vengono schematizzati i principali modi di taglio con filo diamantato in cava
mentre l’immagine di figura 1.3 mostra il taglio con filo diamantato di una bancata.
Fig 1.2 - Principali modi di esecuzione di taglio con filo diamantato in cava.
Fig. 1.3 - Taglio in una cava di marmo con filo diamantato con istallazione nella parte superiore
della bancata.
Tagliatrice a catena. La tagliatrice a catena è una macchina a motore elettrico costituita
da un braccio mobile sulla cui periferia scorre una catena. L’agente abrasivo è costituito
da utensili taglienti, disposti perimetralmente sulla catena, questi possono essere di widia,
ovvero di diamante policristallino, con forma e disposizioni varie in funzione delle
caratteristiche dei materiali da tagliare. Il taglio si consegue facendo penetrare e traslare
nella roccia detto braccio secondo un piano prescelto; la catena, scorrendo, permette agli
utensili di abradere ed asportare la roccia. L’intera macchina può scorrere su binari e,
grazie alla mobilità del braccio, permette tagli in tutte le direzioni. Il sistema,
normalmente, necessita della presenza di acqua per la refrigerazione e l’allontanamento
dei detriti prodotti; è prevista tuttavia la possibilità di operare ‘‘ a. secco ‘‘ con l’utilizzo
di uno scambiatore di calore ad aria. In figura 1.4 vengono illustrati le possibili posizioni
di lavoro con una tagliatrice a catena.
Fig. 1.4 - Schema delle posizioni possibili di lavoro di una tagliatrice a catena.
b = braccio; c =catena disposta lungo il perimetro del braccio
1.
2.
3.
4.
taglio orizzontale ,braccio in basso;
taglio orizzontale, braccio in alto;
taglio verticale, alla stessa altezza della macchina;
taglio verticale, braccio in basso;
5. taglio obliquo rispetto all’orizzontale;
La figura 1.5 rappresenta l’esecuzione di taglio con una tagliatrice a catena.
Fig 1.5 - Tagliatrice a catena nell’esecuzione di un taglio orizzontale in una cava.
Flame-jet (lancia termica o fiamma). Il principio di funzionamento del taglio con
flame-jet o lancia termica si basa sullo shock termico indotto sul materiale prodotto da
una fiamma ad alta temperatura e proiettata a velocità supersonica su una prefissata linea
di taglio. Il metodo sfrutta la differente dilatazione termica dei vari minerali costituenti la
pietra naturale.
Quando il getto del flame-jet incontra la pietra naturale si produce uno sgretolamento
della compagine per uno spessore di circa 8÷10 cm, con suddivisione della roccia lungo il
piano di taglio. Ciò determina, tra l’altro, profonde trasformazioni nella struttura della
roccia stessa, la quale subisce una ‘‘ vetrificazione ‘‘ con perdita localizzata delle
caratteristiche chimico-fisiche ed ornamentali.
Il sistema comprende un cannello costituito da tubi concentrici per l’afflusso del
combustibile e del comburente, da una pompa per iniettare il combustibile ad alta
pressione e da un compressore per l’aria da immettere come comburente.
Le condizioni che normalmente può raggiungere la fiamma di un flame-jet è una velocità
di 1330 m/sec ed una temperatura massima superiore a 2000 °C in funzione del
combustibile.
Di seguito, figura 1.6, è riportato lo schema di funzionamento della lancia termica mentre
in figura 1.7 l’immagine dell’impiego del flame-jet nel taglio di una bancata.
Fig 1.6 - Posizione di lavoro di un flame-jet.
Fig 1.7 - Utilizzo del flame-jet nel taglio verticale
di una bancata in una cava di granito
Esplosivo. Il taglio con esplosivo noto come ‘‘ splitting dinamico’’ si avvale fortemente
dell’ausilio della perforazione.
Con questa tecnica si procede, inizialmente, alla perforazione della roccia, eseguendo dei
fori allineati e ad una certa distanza l’uno dall’altro, successivamente delle cariche
esplosive (in genere miccia detonante), poste nei fori, vengono fatte brillare.
Il rapido aumento di volume che si realizza nell’istante dell’esplosione, ha per
conseguenza il superamento della resistenza a trazione della roccia, con rottura definitiva
lungo la linea delle perforazioni.
1.5.2 Macchine utilizzate nella lavorazione post-estrattiva delle pietre
naturali
I prodotti di cava vengono ulteriormente trasformati in semilavorati e lavorati in
laboratori industriali o artigianali, in generale esterni all’area di cava, per essere destinati
all’impiego definitivo nei vari campi di applicazione.
Il complesso delle operazioni da eseguire sui prodotti di cava per ottenere semilavorati e
lavorati possono essere ricondotte a due tipi principali.
Trattamenti sul volume, consistenti nella segagione di blocchi regolari ed informi e nella
loro riduzione ad elementi di dimensioni minori; trattamenti sulla superficie, consistenti
nella lavorazione delle superfici lapidee allo scopo di conferire loro un particolare aspetto
estetico. Le principali tecnologie impiegate per la segagione dei blocchi sono costituite da
macchine a telaio monolama e multilama, macchine a disco diamantato, tagliablocchi e
segatrici a disco gigante.
Impianto monolama. L’impianto monolama, mostrato in figura 1.8, consiste di una
struttura metallica che fa da guida ad una lama che esegue un movimento rettilineo
traslatorio sul blocco. La lama, dotata di concrezioni diamantate sulla sua parte inferiore,
incide il blocco sotto costante irrorazione di acqua e procede verso il basso ad una
velocità di avanzamento (fino a 100 cm/ora). Equipaggiato con più lame, sempre
comunque in numero limitato, questo impianto può essere utilizzato, oltre per la
riquadratura, anche per ottenere lastre di grande spessore. Il monolama rappresenta una
macchina un po’ datata, che trova applicazione solamente per la segagione dei marmi,
travertini e rocce assimilate non essendo possibile la segagione del granito con lame
diamantate. Il suo impiego si sta progressivamente riducendo in favore dell’impianto
stazionario a filo diamantato.
L’impianto stazionario a filo diamantato. L’impianto stazionario a filo diamantato
svolge le stesse funzioni del monolama ma consente anche il taglio dei graniti. Trattasi di
una struttura aperta (figura 1.9) sotto alla quale il blocco può essere posizionato nel modo
più opportuno mentre il filo diamantato che opera su circuito chiuso, viene fatto scorrere
e penetrare nel blocco. Anche in questo caso l’operazione viene condotta in presenza di
acqua.
Fig 1.8 - Riquadratura di un blocco con impianto monolama.
Fig 1.9 - Riquadratura di un blocco con stazionario a filo diamantato.
Telaio multilama. Il telaio multilama, (Figura 1.10), rappresenta la tecnologia più
tradizionale e di maggior diffusione. All’interno di una grossa armatura, appunto il telaio,
un insieme di lame, aventi caratteristiche diverse a seconda del materiale in lavorazione
(marmo granito ) ed opportunamente distanziate e tensionate, penetra e scorre nel blocco
per tutta la sua altezza con un movimento rettilineo alternato e con una velocità di discesa
progrommata.
La differenza tra un telaio multilama per granito ed uno per marmo, oltre nella
caratteristica delle lame utilizzate, risiede anche nella cinematica di movimentazione di
queste.
Il telaio multilama adatto al taglio dei blocchi di granito, fa impiego di lame in acciaio e
presenta una cinematica pendolare durante l’azione di taglio. La segagione si realizza
come conseguenza dell’azione combinata delle lame e di un apporto fluido-viscoso, al
quale si da il nome di torbida abrasiva, costituito da acqua, calce e graniglia di ghisa (o
acciaio), che vengono immesse con continuità dall’alto tra le lame ed il blocco per mezzo
di un impianto di pompaggio.
La torbida viene costantemente mantenuta efficace con sostituzioni periodiche.
Il moto pendolare fa sì che, nella loro azione di taglio, le lame operino sul blocco non
solo una azione di strisciamento ma anche un violento urto, il cui contributo al taglio è
sicuramente rilevante. Con una simile cinematica non si rende possibile l’adozione del
diamante sulle lame poiché queste non reggerebbero l’urto ed il granito viene così ancora
segato utilizzando lame in acciaio.
Fig. 1.10 - Schema di un telaio multilama.
Nel caso di telai multi lama per il taglio dei marmi le lame hanno, sul loro bordo
inferiore, dei segmenti diamantati i quali, durante la corsa delle lame stesse, abradono il
blocco asportando la roccia. Durante la loro azione le lame vengono irrorate con
abbondante acqua allo scopo di refrigerare l’utensile e di asportare i detriti del taglio.
Taglia blocchi. La taglia blocchi nata con lo scopo di rendere proficuo anche il taglio di
blocchi difettosi, irregolari e sottomisura, costituisce oggi la macchina di testa delle linee
per la produzione seriale di marmette e rappresenta una soluzione tecnologica alla
segagione a mezzo telaio.
Con la taglia blocchi, se i materiali lo consentono, sono agevolmente eseguibili tagli di
spessore uguale od inferiore al centimetro. Il taglio dei blocchi viene ottenuto grazie
all’azione di dischi diamantati verticali (talora un solo disco) in unione ad un disco
orizzontale di diametro inferiore.
I dischi verticali affondano nel blocco per una certa profondità e, percorrendone tutta la
lunghezza, lo suddividono in tante strisce cui viene dato il nome di filagne. Un disco
orizzontale provvede successivamente a tagliare alla base la serie di filagne create dai
dischi verticali.
Anche con l’impiego di questa tecnologia si rendono evidenti le profonde differenze che
ci sono tra il marmo ed il granito e, specificamente, il fatto che, mentre un marmo può
essere sezionato con una passata unica dei dischi, questo non è possibile per il granito.
Le tagliablocchi, configurate per granito, montano oggi fino a cento dischi, compensando
così, con un maggior numero di tagli, il maggior tempo richiesto per taglio dovuto alla
durezza del materiale; quelle configurate per marmo, traendo vantaggio dalla maggior
morbidezza di quest’ultimo, montano un numero più limitato di dischi (volendo, uno
solamente).
Segatrici a disco gigante. Una terza macchina, di diffusione più limitata, che trova
impiego per la segagione dei blocchi è la segatrice a disco gigante. Essa consiste in un
robusto telaio sul quale è fissato un trave longitudinale sostenente un disco diamantato di
diametro molto grande (fino a 4.000 mm). La segatrice a disco gigante, contrariamente al
telaio, che è una macchina per tagli multipli simultanei, è una macchina per tagli singoli
di lastre di altezza pari a quella del blocco stesso. In figura 1.11 è mostrato il taglio di una
segatrice a dico gigante.
Fig. 1.11 - Segatrice a dico gigante
Centri di lavoro CNC. Sulle esperienze, peraltro poche, dei dischi diamantati si stanno
sviluppando una vasta gamma di utensili a base di super abrasivi dotati di caratteristiche
come efficacia e versatilità adottate nei centri di lavoro a controllo numerico nella
lavorazione delle pietre naturali.
Uno di questi sono le frese diamantate sinterizzate costituite da una grana abrasiva di
diamante disperse in una matrice metallica dura. Il loro utilizzo molto più versatile dei
dischi permette di effettuare oltre operazioni di taglio anche lavorazioni tipo sagomare,
profilare, levigare, lucidare, ribassare, forare, scrivere con un tempo di realizzazione
molto inferiore rispetto alle tecnologie tradizionali.
Il loro impiego relativamente recente non permette di sfruttare a fondo le potenzialità
delle macchine a controllo numerico data la scarsa conoscenza sul comportamento di tali
utensili. In figura 1.12 viene mostrato un centro di lavoro che esegue un foro di alloggio
per un lavabo da cucina con una fresa diamantata sinterizzata.
Fig. - 1.12 - Realizzazione di un piano di cucina con una contornatrice automatica
1.5.3 Tecnologie innovative
Rientrano in questa categoria tutte quelle macchine per la lavorazione dei materiali
lapidei che utilizzano recenti o innovative tecnologie di taglio.
Analogamente ad altri settori industriali, lo sviluppo dell’elettronica e dell’informatica, ha
portato nel settore della pietra naturale possibilità di applicazioni e lavorazioni
impensabili fino a pochi anni or sono.
L’utilizzo di macchine a controllo numerico nel settore della pietra naturale consente di
realizzare lavorazioni complesse ed di gestire in automatico tutte quelle operazioni
necessarie al buon conseguimento della lavorazione.
Ciò senza dubbio si ripercuote non solo sulla qualità delle lavorazioni, ma anche dal
punto di vista economico di produzione con tempi di realizzazione ridotti.
Strettamente collegate allo sviluppo di queste macchine nel settore lapideo ci sono le
tecnologie di taglio utilizzate da tali macchine. A volte sono proprio queste a rendere una
macchina vincente rispetto ad un’altra pur avendo grado di automazione simile.
Tra le varie tecnologie innovative si riporta:
Water-jet. La tecnologia water-jet consente di forare e tagliare la roccia attraverso un
getto d’acqua ad altissima pressione (acqua + sabbia fino a 400 MPa, ed oltre). Il sistema
è costituito da un centro di lavoro composto sostanzialmente da una pompa di
alimentazione più un gruppo filtraggio acqua, un gruppo pompa ad alta pressione,
un’unità robotizzata con la testa di taglio, sotto alla quale vengono collocati i pezzi in
lavorazione, e un quadro comandi. L’acqua viene compressa tramite la pompa ad alta
pressione ed inviata, all’interno della testa di taglio, ad un ugello di zaffiro, con foro
calibrato, che serve ad aumentare la velocità dell’acqua fino a valori ipersonici; prima di
essere espulsa attraverso l’ugello di taglio, l’acqua viene miscelata con una quantità
prestabilita di polvere abrasiva. Il sistema a getto d’acqua con abrasivo viene utilizzato
nel settore delle pietre naturali per il taglio lineare e curvilineo. Tale sistema è
particolarmente indicato nel taglio in sagoma per la realizzazione di intarsi per pavimenti
o oggettistica, in figura 1.13 e 1.14 sono riportati due esempi di lavorazioni eseguite con
getto d’acqua.
Fig. - 1.13 – testa di taglio di un impianto AWJ
Laser. La tecnologia laser rappresenta una tecnologia del tutto innovativa in campo
lapideo che consente tanto il taglio quanto il trattamento superficiale dei materiali;
attualmente essa è ad un avanzato stadio di sperimentazione e sono già disponibili
risultati di una certa rilevanza, in massima parte relativi a marmi. Per quanto concerne il
taglio, il metodo sfrutta la capacità di un raggio laser, a sufficiente energia, di portare a
fusione il materiale con cui entra in contatto. Un fascio laser della potenza minima di
circa 500 W (500÷2.500 W) ed una densità di energia dell’ordine di 105 W/mm2 è capace
di fondere un materiale lapideo nel punto di contatto; una iniezione di un getto di gas
coassiale al fascio opera la rimozione del materiale fuso, permettendo così la separazione
delle due parti; il materiale, a sua volta, viene progressivamente spostato per consentire
l’avanzamento del taglio.
Fig. - 1.14 – Pavimento realizzato mediante la tecnologia AWJ
1.6 Trattamenti superficiali delle pietre naturali
Si intende per trattamento superficiale l’insieme delle lavorazioni cui viene sottoposta la
superficie di una pietra naturale al fine di conferire alla stessa un determinato aspetto. La
finitura superficiale è una lavorazione fondamentale per lo sfruttamento delle possibilità
espressive di un prodotto lapideo: il colore, la tessitura, la scabrezza, la rugosità, il
disegno e tutti i possibili attributi estetici naturali di una roccia possono essere valorizzati,
modificati o minimizzati, mediante opportuni trattamenti. Non di rado alcuni di essi
portano, come conseguenza della loro applicazione, ad un miglioramento di alcune
proprietà tecniche del materiale, come ad esempio la resistenza agli agenti atmosferici o
l’assorbimento. Tuttavia la scelta della finitura di una superficie risulta sempre dalla
somma di una serie di fattori, tra i quali assumono però importanza preponderante il
risultato cromatico finale e, ovviamente, il costo.
Storicamente, i trattamenti preferiti sono stati quelli ad urto, come la bocciardatura e la
spuntatura, eseguite mediante punte e scalpelli di vario tipo, e quelli per rasamento, come
la lucidatura, ottenuta grazie all’impiego di prodotti abrasivi e, a suo tempo,
all’insostituibile olio di gomito.
Oggi la gamma dei trattamenti possibili sulla pietra naturale si è grandemente ampliata.
All’interno dell’elenco che segue compaiono denominazioni che non indicano
propriamente un “trattamento” ma un “tipo” di superficie. Ne sono esempi “superficie a
piano di cava” o “superficie a spacco”, che indicano uno stato naturale della pietra che,
in molti casi, può essere lo stato definitivo di finitura con cui il manufatto viene
commercializzato e posto in opera. Tuttavia è opportuno ricondurre ai trattamenti di
superficie anche i casi di superfici “naturali” alle quali, di fatto non è stata apportata
modifica alcuna.
Andiamo ad analizzare sinteticamente i principali tipi di lavorazione cui più
frequentemente si ricorre per il trattamento superficiale dei marmi, graniti e pietre (UNI
8458):
1.6.1
Trattamenti ottenibili mediante disgiunzione naturale ed
artificiale della roccia
Le seguenti superfici vengono ottenute mediante disgiunzione della roccia, operazione
che può essere naturale o artificiale:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Superficie a piano di cava
Superficie a “spacco”
Superficie a piano-sega da telaio
Superficie a taglio-sega da tagliablocchi
Superficie a taglio-sega da filo diamantato
Superficie da lavorazioni ad urto(meccaniche)
Superficie per trattamento termico
Superficie da lavorazioni a rasamento
Superficie trattata con prodotti chimici
Superficie “anticata”
Superficie ottenuta con tecnologie innovative(waterjet e laser)
Superficie a piano di cava, superficie “a spacco”
Queste due prime tipologie di aspetto vengono analizzate congiuntamente per le analogie
che mostrano; il limite tra le due è infatti così sfumato, eppur esistente, che una loro
descrizione separata risulterebbe molto più laboriosa.
Si intende la superficie grezza naturale presentata da un materiale, la quale viene
mantenuta del tutto immutata nella posa in opera del materiale stesso. La dizione
“superficie naturale” di un materiale può non essere univoca: “naturale” va riferito
all’aspetto che ogni materiale intrinsecamente ha, senza che si operino sulla sua
superficie tagli, rasature o altre trasformazioni meccaniche o termiche.
Costituisce eccezione l’operazione di spacco, la quale, pur inducendo una rottura
meccanica del materiale, continua a mostrarne l’aspetto naturale. Quando un materiale
viene spaccato, per sua intrinseca facilità alla fenditura, o per spacco meccanico forzato
secondo certe direzioni, esso si rompe, mostrando quindi alla vista una superficie
naturale, ancorché latente, poiché non espressa se non attraverso la rottura che l’ha resa
visibile. In natura esistono diversi livelli di spaccabilità e di suddivisibilità dei materiali;
possono esistere materiali che, in cava, si presentano già lastrificati (es. La Pietra di
Barge, il Porfido atesino), materiali sufficientemente compatti da poter produrre blocchi
per segagione a telaio, ma al tempo stesso sfaldabili fino ad uno spessore millimetrico,
per semplice percussione (es. l’Ardesia ligure, la Pietra del Cardoso) e materiali di
notevole compattezza che forniscono sia blocchi segabili a telaio, sia, per percussione,
lastre di vario spessore (es. la Pietra di Lucerna, le Beole).
Sotto la dizione superficie a piano di cava si vogliono far ricadere, convenzionalmente,
tutti quei materiali che si presentano già naturalmente lastrificati in cava e la cui
produzione in blocchi è resa pressoché impossibile da questa caratteristica. Le superfici
naturali delle lastre con cui questi materiali si presentano sono a piano di cava,
corrispondono, cioè, a ciò che si può ottenere direttamente dal giacimento, e restano
immutate fino alla posa in opera.
Sotto la dizione superficie a spacco ricadono invece quei materiali la cui superficie
naturale è stata indotta da uno spacco, più o meno facile da produrre, e con attrezzi di
vario tipo.
Una naturale lastrificazione si deve a molte cause: tra esse, la stratificazione,
l’orientazione preferenziale degli elementi costituenti, l’esistenza di una disgiunzione
meccanica all’interno della compagine rocciosa; in questi casi, il prodotto di cava è il
lastrame, di estensione più o meno grande, ma di spessore sempre limitato tra qualche
centimetro ed alcuni decimetri. Le superfici che si possono ottenere non sono mai uguali,
sono ora in maggiore o minore rilievo, ora scabre, ora ossidate, ora incredibilmente
planari.
I piano-cava più frequenti si registrano in ciò che il settore chiama comunemente pietre.
Nelle applicazioni, le superfici a piano-cava generano rilievi più o meno marcati che
vengono sapientemente combinati in varie situazioni di impiego; nei materiali granitoidi e
nelle quarziti, esse offrono generalmente una buona rugosità ed una certa scabrezza, una
notevole resistenza all’usura, e, complessivamente, ottime proprietà meccaniche. Queste
caratteristiche rendono questi materiali privilegiati per le pavimentazioni esterne.
Passando alle superfici a spacco, conviene operare una distinzione tra spacco manuale e
spacco da macchina; l’adozione dell’uno o dell’altro è generalmente da mettere in
relazione alle caratteristiche del materiale; l’effetto finale può anche essere lo stesso, e la
scelta, oltre che da evidenti motivi economici, può essere dettata dall’entità delle
produzioni richieste, o dall’uniformità dei risultati, peraltro relativamente prevedibili su
certi materiali.
In alcuni materiali, lo spacco è manuale, a mezzo scalpelli; le superfici a cui si perviene
sono contraddistinte da un rilievo grossolano, con evidenti differenze di spessore tra un
punto ed un altro del manufatto.
Superficie a piano-sega da telaio
È quella superficie artificiale che si ottiene per mezzo di telai multilame. In funzione
dell’abrasivo impiegato (graniglie, diamante), l’aspetto a fine lavorazione può essere più
o meno regolare: si avranno superfici con sensibili irregolarità se trattasi di graniti, per i
quali si fa uso di graniglie metalliche, superfici quasi levigate se trattasi di marmi,
travertini e materiali assimilabili, con i quali si fa uso di lame diamantate. Va sottolineato
che, nel caso dei graniti, proprio a causa della tecnica usata, si possono registrare
inconvenienti dovuti a cattiva lavorazione (difetti di planarità, rigature, scalini, solchi,
ecc.) cui dover sopperire con i successivi trattamenti per rasamento (calibratura,
levigatura). Questo tipo di superficie può essere impiegato tale e quale nell’applicazione
finale: Nel caso del granito le imperfezioni create con la lavorazione sono tali da
mascherare quasi completamente l’aspetto della roccia e renderlo inadeguato anche
quando gli attributi estetici non sarebbero di primaria importanza. Nel caso di marmi e
travertini l’aspetto semi-levigato assunto dal materiale lo rende idoneo all’applicazione
finale, soprattutto in tutte quelle situazioni di impiego che non richiedono strette
tolleranze geometriche e dimensionali.
Superficie a piano-sega da tagliablocchi
È quella superficie artificiale ottenuta con l’azione dei dischi diamantati delle
tagliablocchi, e pertanto semi-levigata. Gli inconvenienti dovuti ad irregolarità, rigature,
ecc, sono qui ridotti al minimo. Questo tipo di superficie, soprattutto per i marmi e i
travertini, può essere molto dissimile da quella ottenuta con altri metodi di segagione
come ad esempio quelli a monogama, o la cinghia diamantata in installazione fissa; si
registrano cioè scarsa rugosità, buona planarità ed un aspetto finale del materiale
abbastanza regolare. Grande è la differenza per i graniti cui il telaio, come abbiamo visto,
lascia molte irregolarità e nei quali una superficie priva da imperfezioni, solchi e rigature
è altrimenti ottenibile solo con l’azione del disco e del filo diamantato. Va da sé che la
provenienza da tagliablocchi implica un limite alla dimensione degli elementi ottenibili,
i quali, per quanto detto sopra, possono essere impiegati in tutte quelle situazioni dove è
tollerato un certo scostamento da spessori e dimensioni estremamente precise, come nelle
zoccolature, in alcune pavimentazioni esterne, in elementi architettonici di rivestimento,
ecc.
Superficie a piano-sega da filo diamantato
È la superficie artificiale creata dalla segagione operata a mezzo macchine a filo
diamantato. Si tratta di una superficie a scarsissime irregolarità, semi-levigata che
costituisce una ottima base di partenza per le successive eventuali trasformazioni del
materiale; impensabile fino a pochi anni fa, con il granito, essa ripropone, per i materiali
più teneri, la buona finitura tipica dei monolama o dei telai diamantati, con, in più,
l’opportunità di poter ottenere non solo superfici planari, ma anche una infinita quantità
di superfici concave e convesse, nonché a generatrice cilindrica, conica, elicoidale.
Anche il piano sega da filo diamantato può essere applicato, tale e quale, in tutti quei
frangenti che non prevedono il rispetto di rigorose tolleranze, ovvero nelle molteplici
situazioni di elementi edilizi di copertura senza particolari pretese estetiche.
1.6.2 Superfici ottenibili mediante lavorazioni meccaniche per urto
La superficie da lavorazioni ad urto è la superficie artificiale ottenuta mediante
lavorazioni eseguite con utensili a percussione. Queste lavorazioni sono di vario tipo e
numerosi sono gli utensili che vengono impiegati per il loro ottenimento, come scalpelli,
bocciarde, martelline, penne, raschini, gradine, ecc. altrettanto numerosi sono i nomi cui
si può far riferimento per definire il processo: spuntatura, rigatura, bocciardatura,
martellinatura, puntinatura, graffiatura, rullatura, scalpellatura, gradinatura, molti dei
quali derivati dal nome dell’utensile impiegato e strettamente legati a quello che era il
processo di finitura dei manufatti nell’antichità.
Esamineremo i trattamenti ad urto la cui applicazione è di gran lunga più frequente degli
altri:
•
Bocciardatura/spuntatura
•
Rigatura/gradinatura
•
Sabbiatura
Bocciardatura
È una delle più antiche forme di trattamento rustico della superficie dei materiali, adottata
soprattutto nei materiali collocati in esterno, come sculture, scale, elementi per
pavimentazione; conferisce alla superficie un particolare aspetto scolpito, scabra ed in
rilievo, ed agisce, prima che sul colore di un materiale, sulla sua tessitura.
Adattabile ad ogni tipo di roccia, anche se storicamente presente quasi solo nei marmi, la
bocciardatura trova impiego sia per la caratterizzazione della superficie in sé, sia per
ridurre la scivolosità di zone soggette a calpestio, sia per disporre comunque di un
aspetto superficiale da affiancare ad altri tipi di lavorazione per ottenere determinati
aspetti estetici (Fig.1.15). Si ricorre alla bocciardatura anche per minimizzare difformità
e variazioni cromatiche che penalizzerebbero un materiale se impiegato lucido.
a)
b)
Fig.1.15 - a) Superficie in marmo bocciardato; b) Superficie in granito bocciardato
L’effetto bocciardato si ottiene con la bocciarda, un martello a fitte punte piramidali. Alla
bocciardatura di un tempo, effettuata con percussione manuale, è subentrata la
bocciardatura a macchina, la quale può ancora essere suddivisa in manuale e automatica.
Nel primo caso si opera sulla superficie dei lapidei a mezzo utensili pneumatici, di
dimensione variabile, coprendo, per spostamento manuale, tutta la superficie del
manufatto da trattare. Questa soluzione è la preferita quando si devono trattare superfici
non grandi, quando i valori di produttività non sono elevati e, in generale ogniqualvolta i
materiali da trattare hanno una geometria complessa. Il trattamento automatico si avvale
invece di macchine con struttura simile alle frese a ponte, dotate di uno o più martelli che,
scorrendo appunto lungo un ponte, colpiscono la superficie di lastre collocate in
posizione sottostante; la scelta degli utensili è amplissima, in funzione del risultato che si
vuole ottenere; alcuni modelli operano una rotopercussione, combinando la percussione
con un movimento di rotazione delle teste.
La bocciardatura, sia manuale che automatica, presenta un problema di lavorabilità degli
spigoli, dovuto proprio al fatto che essa è una lavorazione meccanica per urto che
sottopone la parte in lavorazione a delle forti sollecitazioni che ne provocano la rottura in
corrispondenza degli spigoli.
I manufatti bocciardati presentano infatti un piccolo “bordo”, delle dimensioni di circa 1
cm, generalmente lucidato, come mostrato in figura 1.16.
Fig.1.16 - Cordolo bocciardato
La spuntatura è il più antico dei trattamenti superficiali della pietra e veniva realizzato
con punta e mazzuolo da abili operatori manuali. Si tratta di una percussione della pietra
mediante scalpelli di varie dimensioni che determinano sulla superficie un’alternanza di
zone depresse e zone in rilievo; il risultato finale dipende sostanzialmente dal grado di
spuntatura richiesto, da scegliersi tra spuntato “fine”, spuntato “medio” e spuntato
“grosso” ove l’effetto dei rilievi va gradualmente crescendo.
In materia di bocciardatura e spuntatura è opportuno soffermarsi su un aspetto tecnico, da
più parti sottovalutato: le caratteristiche di struttura, tessitura e porosità dei diversi
materiali, li mettono in condizione di sopportare più o meno bene i trattamenti per urto
che, notoriamente, costituiscono uno stress di una certa rilevanza. Normalmente, in caso
di impiego di materiale bocciardato, è richiesto agli elementi un aumento di spessore
onde poter sopperire alle sollecitazioni dei colpi inferti dalla lavorazione alla superficie.
Tuttavia, detto aumento, spesso, può non apportare alcun vantaggio poiché ciò che viene
sottovalutato è l’indebolimento a scala sub-millimetrica della struttura intima della roccia,
la quale reagisce alla lavorazione con apertura di porosità secondarie, altrimenti non
presenti, e creazione di una accessibilità delle porosità già esistenti, altrimenti non
accessibili. Questo meccanismo è deleterio, e, sicuramente, responsabile della diminuita
resistenza meccanica e fisica in molti materiali che gli usuali test in laboratorio non
evidenziano.
Nell’ambito della bocciardatura e della spuntatura è doveroso accennare alla
martellinatura, una delle operazioni di sbozzatura e finitura che, storicamente, veniva
applicata ai blocchi appena estratti in cava. Su detti blocchi infatti, appena operata la
lavorazione “alla punta grossa” e “alla punta fina”, seguiva il trattamento con la
martellina, a denti grossi e a denti fini. Ciò permetteva di ottenere l’anathyrosis
(conosciuta dagli scalpellini come “cordellina”), per il combaciamento dei massi tra di
loro ed avere quindi un buon grado di finitura finale, nella posa in opera.
I materiali più idonei a ricevere la spuntatura e la bocciardatura sono i materiali a grana
fine , medio fine, anche se sono molte le eccezioni.
Un altro trattamento, la fiammatura, non possibile sulle rocce calcare, attraverso il quale,
si può pervenire ad effetti finali, per certi versi, analoghi.
Rigatura
È una forma di finitura superficiale che si presta per manufatti grezzi, levigati, lucidi o
anche precedentemente bocciardati. Storicamente realizzata a mano con mazzuolo e
scalpello consiste nell’incisione di rigature più o meno larghe (8-15mm), più o meno
profonde(2-5mm) e distanziate con interasse 8-15 mm (Fig.1.17).
a)
b)
Fig.1.17 - a) Superficie con rigatura orizzontale; b) Superficie rigata a 45°
Può essere ottenuta , con aspetto di maggiore o minore irregolarità, mediante l’impiego di
dischi diamantati o tramite una ampia gamma di utensili a profilo variabile ( martelli
rigatori singoli o multipli). La lavorazione viene eseguita sia a umido sia a secco, facendo
impiego di speciali dischi a concrezioni sintetizzate. Gli effetti finali sono piuttosto
diversificati poiché la risposta alla luce, soprattutto quella molto radente, e l’efficacia in
certe applicazioni (pavimentazioni esterne), dipende molto dalla lavorazione specifica.
Nella rigatura la maggior parte di quello che è l’aspetto finale dipende fortemente dalla
profondità dei solchi, dalla “nettezza”, se cosi si può definire, con cui questi solchi sono
eseguiti e dalla uniformità di aspetto presentata dal materiale.
Molti graniti, pur nella loro grande uniformità, sono relativamente valorizzati dalla
rigatura, la quale crea una interruzione visiva su una trama costituita da un intreccio di
cristalli, talora di dimensioni anche centimetriche. Anche i contorni tra i singoli cristalli,
siano essi lineari o lobati, costituiscono un ulteriore motivo che limita l’immediatezza e
la precisa identificazione di un tipo di lavorazione qual è la rigatura.
Non cosi invece per tutti quei materiali ove l’uniformità è data contemporaneamente
dalla costanza di colore, dalla finezza della grana, e dalla impercettibilità delle linee di
contatto tra i costituenti.
La gradinatura è una variante di rigatura il cui risultato estetico è una superficie striata
in modo più fitto e più irregolare rispetto alla rigatura. Storicamente la “gradina” è un
utensile da taglio, formato da una barra di 15-25 cm, a sezione rotonda od ottagonale con
l’estremità di taglio cosparsa di denti di varie dimensioni. Il numero di denti con i quali
viene incisa la superficie lapidea ad un certo angolo, varia, generalmente da due a
quattordici. Oggi la gradinatura viene condotta con un utensile a forma di rullo.
Nell’ambito dei trattamenti ad urto ora esaminati, è possibile, se pur sempre meno
frequentemente, rinvenire anche una terminologia che suddivide le lavorazioni in grandi
gruppi, denominati “ a pelle rustica “, “a pelle mezzana” e “a pelle fine” in rapporto al
grado di finitura progressivamente meno grossolana ottenuto sulla superficie trattata.
Sabbiatura
Consiste nel proiettare ad alta pressione e velocità una miscela abrasiva composta da aria
e sabbia, o corindone, o carborundum, o altro materiale duro. La superficie sabbiata
assume un aspetto ruvido ma non tagliente, molto spesso morbida e priva di grosse
asperità (Fig.1.18). La sabbiatura è un trattamento piuttosto aggressivo, dato l’elevato
potere di asportazione degli abrasivi impiegati; è, da tempo, molto diffuso per la pulitura
ed il ripristino cromatico delle superfici lapidee annerite e degradate dagli agenti
atmosferici. Mentre questo sistema, impiegato come restauro conservativo, ha riscosso,
più di una volta, qualche critica, per l’eccessiva pulitura che è in grado di operare,
attenuando, talvolta, le originarie intensità cromatiche (es. il Duomo di Firenze), come
trattamento di finitura è invece molto apprezzato, essendo in grado di conferire un aspetto
molto piacevole a numerosi materiali.
Analogamente agli altri trattamenti, la sabbiatura può essere su scala ridotta o estesa.
Laddove è richiesta una elevata produttività, si fa uso di macchine la cui struttura è
analoga a quella delle bocciardatrici, ovvero di macchine concepite e realizzate con la
doppia funzione di bocciardatura e sabbiatura. La sabbiatura ha frequenti impieghi, oltre
che per il trattamento di estese superfici a vista, nella esecuzione di scritte e disegni,
particolarmente diffusi nell’arte funeraria e in tutti quei manufatti dove sono presenti
delle scritte. Per qualunque altra applicazione, costituisce uno dei molteplici trattamenti
cui si ricorre per conferire alla pietra, aspetti, colori e tonalità uniche.
Fig.1.18 - Marmo sabbiato
1.6.3 Superfici ottenibili mediante trattamento termico
La superficie ottenuta per trattamento termico, più comunemente nota come fiammatura,
è una superficie artificiale ottenuta mediante la proiezione di una fiamma ad elevata
temperatura, prodotta da cannelli singoli o multipli. Attraverso la fiammatura il materiale
lapideo viene investito da un getto termico la cui temperatura può raggiungere i 2500 C°;
il metodo utilizza un cannello che funziona normalmente con ossigeno come comburente
e propano e traetene come combustibile , anche se sono note altre combinazioni, ognuna
delle quali ad efficacia variabile.
La superficie da trattare subisce un violento shock termico, in conseguenza del quale
vetrifica e “scoppia” producendo una scabrezza ed un rilievo del tutto caratteristici.
La fiammatura, similmente alle lavorazioni ad urto, non agisce tanto sul colore ma sulla
tessitura superficiale dei materiali, conferendo loro una certa morbidezza ed un
cromatismo attenuato (Fig.1.19).
Fig.1.19 - Granito fiammato
La fiammatura è applicata, con la massima resa, solamente ai graniti, mentre scarsi, se
non nulli, sono i risultati che si ottengono con le altre categorie dei lapidei.
Il motivo per cui la fiammatura risulta molto più efficace con le rocce granitoidi è da
ricercare nella composizione polimineralica di queste rocce. Notoriamente, qualsiasi
roccia sottoposta a calore, subisce una dilatazione termica, dal momento che i suoi
costituenti sono caratterizzati da un proprio coefficiente di dilatazione termica. I graniti
sono aggregati polimineralici, e sono pertanto contraddistinti da un insieme di diversi
coefficienti di dilatazione, l’apporto di ognuno di questi contribuisce all’effetto finale.
Cristalli di specie diversa reagiscono, secondo meccanismi che non sono ancora ben
chiari, in modo complesso, in relazione, primariamente, a detto coefficiente di
dilatazione, ma anche in relazione alla struttura di ogni materiale. Questo determina, ogni
volta, azioni diverse, a tutt’oggi difficilmente prevedibili. La dilatazione indotta dalla
fiamma è quindi una dilatazione differenziale, e provoca disgiunzioni, sollevamenti e
distacchi di cristalli in punti diversi della superficie trattata.
Materiali come i marmi, invece, caratterizzati da una schiacciante preponderanza di un
unico minerale, il Carbonato di Calcio, non sono contraddistinti da coefficienti di
dilatazione termica diversi da punto a punto e non arrivano a consentire alla fiammatura
un soddisfacente modo di espletarsi. È pur vero che molti tra i marmi, tra le brecce e tra le
pietre verdi contengono svariati minerali, ognuno con diversi coefficienti di dilatazione,
ma non si arriva mai ad ottenere un effetto cosi penetrativo, ed esteticamente
soddisfacente, come nel caso del granito.
Le macchine utilizzate per il processo di fiammatura hanno un principio di
funzionamento del tutto analogo a quello delle bocciardatrici, tanto è vero che, spesso,
uno stesso impianto è predisposto per ambedue i tipi di trattamenti, per sostituzione della
testa operante, o semplicemente affiancamento di entrambe.
Frequenti impieghi della fiammatura si hanno nei rivestimenti esterni ove è richiesta
grande resistenza agli agenti atmosferici ed in tutti quei casi in cui si vuole preferire il
tipico aspetto che questo trattamento produce, magari valorizzando materiali con difetti
che una lucidatura metterebbe in eccessiva evidenza. Comune anche l’impiego ove è
previsto un elevato livello di calpestio, mentre molto accattivanti possono talora essere le
realizzazioni ove uno stesso materiale viene applicato in alternanza di elementi lucidati e
fiammati.
1.6.4 Superfici ottenibili mediante trattamenti meccanici con azione da rasamento
La superficie ottenuta con azioni da rasamento è una superficie artificiale ottenuta
rasando un materiale con utensili abrasivi come mole, piatti, rulli, ecc. normalmente si fa
riferimento a tre principali operazioni, la calibratura, la levigatura e la lucidatura vera
e propria.
Questa successione di operazioni evidenzia aspetti differenti a seconda che sia applicata
su semilavorati di tipo standardizzato (marmette) o su lastre di grandi dimensioni. Molti
sono infatti i parametri diversi nei due casi, ai quali è necessario adeguarsi per una buona
riuscita del processo.
Calibratura
Lo scopo della calibratura è il contenimento della planarità e dello spessore del manufatto
entro valori di tolleranza ammessi; si tratta di spianare una superficie lapidea asportando
le eccedenze di materiale e minimizzando tutte quelle irregolarità prodottesi in fase di
segagione. La costanza dello spessore e la regolarità della superficie sono fattori
fondamentali per il rispetto delle tolleranze dimensionali del manufatto, per una corretta
posa in opera e per la perfetta riuscita delle successive fasi di levigatura e lucidatura.
Levigatura e Lucidatura
La levigatura e la lucidatura sono le operazioni attraverso le quali si porta una superficie
agli stati, rispettivamente, liscio e lucido. Il processo di lucidatura si esplica con modalità
differenti a seconda che si tratti di marmo o granito.
Nel marmo la lucidatura avviene per un processo chimico; essa viene ottenuta con utensili
lucidanti a base di acido ossalico ed acetosella, impiegati nella fase finale del processo.
Operando una deliberata riduzione dell’apporto di acqua nella fase finale del trattamento
abrasivo, si provoca un surriscaldamento del materiale, sulla superficie del quale si forma
una patina, risultato della interazione delle sostanze su menzionate con i costituenti del
materiale stesso.
Per i graniti, invece, la lucidatura è essenzialmente un fenomeno meccanico. Infatti , pur
se nella fase finale del processo viene fatto impiego di feltri con ossido di Piombo e di
Stagno, quella che viene chiamata in gergo la “chiusura” del materiale si ottiene grazie
ad una specifica applicazione di abrasivi a grana progressivamente più fine.
La lucidatura permette di ottenere superfici ove si ha la massima esaltazione delle
qualità decorative ed estetiche di una pietra. Ha il suo maggior tallone d’Achille, se cosi
può essere chiamato nella scivolosità soprattutto in presenza di acqua.
Il parco macchine impiegato alla scopo è quanto mai variegato; da ricordare le molteplici
caratteristiche che consentono alle macchine odierne di raggiungere prestazioni
semplicemente impensabili con le macchine di pochi anni fa: dall’assistenza elettronica
multipla, alla lettura automatica del profilo delle lastre, dallo sfruttamento ottimale
dell’area di queste ultime alla riduzione delle pressioni di lavoro sui bordi, dalla
esclusione del trattamento delle porzioni di lastra difettose alla ripetitività di alcune
operazioni, fino agli ausili delle collimazioni laser, del controllo numerico nella gestione
del lavoro, e via dicendo.
Nell’ambito della lucidatura, sembra opportuno citare due trattamenti di superficie di
ricorso meno comune, ma quanto mai interessanti per le loro possibilità di applicazione.
Si tratta della superficie semi-lucida e dell’effetto traslucenza.
Il trattamento semilucido non corrisponde, come la definizione potrebbe far pensare, ad
una lucidatura non completa, bensì ad un tipo di trattamento in cui la lucidatura si
combina e si armonizza con altri tipi di trattamento superficiale che il semilavorato già
possiede. Ai materiali che dispongono di una superficie “ a piano di cava” o “a spacco”
viene applicata una comune lucidatura; in conseguenza delle irregolarità gia presenti sulla
superficie, la lucidatura esplica la sua azione solamente sulle parti in maggior rilievo,
lasciando inalterate quelle un po’ più depresse. Il risultato finale è un’alternanza di zone
lucide e zone grezze, talora di gradevole effetto estetico.
La traslucenza è quella trasparenza che permette di percepire l’immagine di un oggetto
senza peraltro distinguerne nettamente i contorni. Al di là del rigore di questa
definizione, la traslucenza interessa nel settore lapideo in quanto le pietre naturali, ridotte
ad opportuni spessori (sottili), si lasciano attraversare dalla luce, sia essa naturale che
artificiale. Il fenomeno permette di modellare e creare l’illuminazione di determinati
ambienti nei quali si fa uso della pietra, ovvero di esaltare al massimo le doti tessiturali ed
estetiche di quest’ultima quando viene osservata in controluce. Gli effetti della
traslucenza si manifestano soprattutto su rocce di tipo calcareo, su alabastri, su onici e su
onici calcarei. Sono questi i materiali che, grazie alla loro frequente monomineralicità, al
modo in cui i cristalli sono aggregati tra loro ed alle colorazioni complessivamente più
tenui, offrono i maggiori valori di trasparenza e traslucenza. La traslucenza è un
fenomeno per cosi dire pretenzioso; la trasmissione della luce si attenua in maniera
drastica all’aumentare dello spessore del materiale, il quale si trova cosi a dover essere
impiegato in spessori sottili, se non molto sottili, per ottenere un effetto sufficiente. I
materiali in grado di coniugare spessori sottili, ottime proprietà meccaniche , elevato
valore di traslucenza, ed un “disegno” esteticamente valido, quando se ne debbano
apprezzare le caratteristiche in controluce, sono veramente pochi.
1.6.5 Superfici trattate mediante prodotti chimici
Le superfici dei materiali lapidei possono anche essere trattate con agenti chimici.
L’applicazione di sostanze chimiche risponde a molteplici esigenze:
•
Azioni di consolidamento e rinforzo nel caso dei materiali, per loro natura,
fratturati, fragili e/o deboli (marmi colorati, brecce)
•
Effetto estetico superficiale, esaltazione o attenuazione di componenti
cromatiche, di tessiture e di disegni particolari
•
Incremento della resistenza ad agenti esterni(salsedine, smog, piogge acide,
ecc)
o più semplicemente per proteggere il materiale stesso dalle varie cause di degrado
superficiale.
Tra i vari trattamenti chimici che le pietre naturali ricevono, due prevalgono per
importanza e frequenza di applicazione: la resinatura e la stuccatura.
Resinatura
È una operazione di consolidamento e di rinforzo mediante la quale i materiali fragili e
difettosi, vengono impregnati di resina pigmentale onde conferire loro maggior solidità e
compattezza. Il processo fa uso di resine epossidiche e resine poliestere, queste ultime un
po’ più economiche. Può essere eseguito sia su lastre che su blocchi.
La resinatura è normalmente inserita all’interno del processo di levi-lucidatura,
solitamente dopo che è stata operata la prima sgrossatura con gli abrasivi a grana
maggiore. Nella pratica classica si applica la resinatura su una o entrambe le facce della
lastra, in funzione della debolezza mostrata dal materiale; l’impregnazione sulla faccia
posteriore è frequentemente combinata con l’applicazione di una rete di rinforzo
(resinatura), onde conferire alle lastre la maggior rigidità possibile.
La resinatura è un trattamento poco applicato ai graniti; in questo caso il trattamento si
rende necessario per otturare piccoli buchi visibili sulla superficie.
Stuccatura
È una operazione tipicamente eseguita sui travertini, subordinariamente su altre pietre;
buchi, fratture e cavità vengono sigillati con mastici e stucchi di tonalità adeguate al
colore del materiale. Le operazioni di stuccatura possono essere manuali, impiegando le
classiche spatole da stucco, ovvero automatiche con macchine stuccatrici, inserite nelle
linee continue di lavorazione.
Le superfici resinate e stuccate raramente vengono impiegate cosi come sono nella posa
in opera finale; solitamente esse vengono lucidate o comunque almeno levigate.
La superficie anticata è quella superficie cui deliberatamente è stato dato un aspetto
antico, a simulare una superficie invecchiata dal tempo e dall’usura. I materiali più idonei
a questo tipo di trattamento sono quelli di durezza medio-limitata come i marmi, il
travertino, le brecce molto compatte. Il granito, pur tecnicamente validissimo ed idoneo,
risulta meno preferito, vuoi perché la sua anticatura è più lunga da ottenersi, vuoi soprattutto- perché il suo aspetto non sempre sembra essere cosi accattivante come quello
dei fratelli calcarei.
La anticatura è un processo molto semplice: i pezzi prescelti vengono inseriti in macchine
chiamate buratti, unitamente ad acqua, talvolta miscele acquose di sostanze debolmente
abrasive, e consunti per rotolamento, urto e/o altri tipi di movimento meccanico. L’azione
è particolarmente efficace sui bordi e sugli spigoli degli elementi e ad essa contribuisce
notevolmente anche il residuo stesso dei pezzi messo in circolo mano a mano che la loro
usura procede. Gli elementi che si ottengono trovano molteplici applicazioni
commerciali, alle quali spesso conferiscono un senso di pregio e di elevato valore
estetico.
2 Utensili diamantati
Gli utensili diamantati utilizzati per la lavorazione delle pietre naturali si possono
classificare in utensili da taglio, alcuni esempi sono il filo, la lama, il disco diamantato e
la fresa a codolo, e utensili per la lavorazione delle superfici, quali le mole e le frese di
differenti forme e profili. In entrambi i casi l’utensile è costituito da un supporto, da una
grana di super abrasivo e da un legante. Il supporto è la parte dell’utensile sul quale viene
fissata la grana abrasiva; esso conferisce la forma appropriata all’utensile, trasmette
l’energia cinetica dagli assi macchina alla grana abrasiva ed assorbe le sollecitazioni che
nascono durante il processo di lavorazione. Il supporto è in generale costituito da un
acciaio legato al cromo che ha la proprietà di resistere alla corrosione. I corpi di acciaio
sono temprati e rinvenuti in modo tale da raggiungere una durezza di circa 43-45 HRC.
Inoltre esistono supporti flessibili su cui viene fissata la grana abrasiva: essi possono
essere di origine metallica, si parla di funi, catene, oppure di origine non metallica, quali
tele e carta. La grana superabrasiva ha il compito di asportare il materiale; le sue proprietà
sono la granulometria, la forma e la concentrazione nella matrice di legante. La
granulometria esprime la misura della dimensione della grana di superabrasivo attraverso
un numero (mesh, #) funzione delle maglie di un setaccio attraverso cui la grana viene
fatta passare. La forma delle grane può essere regolare o irregolare a seconda della qualità
delle grane stesse. L’analisi della forma viene effettuata mediante separazione meccanica,
esame visivo o scanner per l’acquisizione di immagini digitali. L’analisi visiva è
attualmente il metodo più comune per valutare la forma del diamante anche se difetta di
obbiettività e non consente di ottenere una valutazione rigorosa e precisa. La
concentrazione è la quantità, in peso, di grana di diamante per unità di volume di settore.
All’aumentare della concentrazione cresce il costo e, quindi, il prezzo dell’utensile. Il
legante è quella lega che blocca il superabrasivo al supporto dell’utensile in modo tale
che possa svolgere, economicamente ed in modo tecnicamente corretto, il taglio, la
molatura, l’affilatura, la levigatura e la profilatura. Il legante deve assicurare, in stretta
sinergia con le grane di super abrasivo, due requisiti contrastanti: la capacità di taglio ed
una lunga durata dell’utensile. Infine il legante deve avere una resistenza all’usura
adeguata al tipo di superabrasivo dell’utensile, tale cioè da consentire, durante l’uso, la
giusta sporgenza in relazione al tipo di lavoro da eseguire ed alle caratteristiche del
materiale in lavorazione, ma soprattutto deve permettere la perdita delle grane usurate per
favorire l’avvicendamento con altre nuove esistenti all’interno della matrice.
I metalli costituenti la miscela del legante sono il ferro, il rame, il tungsteno, il cobalto, il
nichel. La produzione degli utensili diamantati utilizza due tecniche alternative:
elettrodeposizione e tecnologia delle polveri. La prima consente di ottenere quegli
utensili, sulla cui superficie è distribuito uno strato di concrezione diamantata (insieme di
legante e grana abrasiva), che vengono utilizzati per la lavorazione di pietre naturali meno
impegnative dal punto di vista delle sollecitazioni sviluppate durante il taglio, quali ad
esempio i marmi. La tecnologia delle polveri consente di costruire i settori diamantati che
vengono saldo-brasati sul supporto a costituire gli utensili a settori destinati alla
lavorazione di materiali particolarmente duri, quali i graniti. La tecnologia delle polveri
coinvolge diverse fasi. La prima fase è relativa alla preparazione della polvere metallica e
della grana di diamante. Essa avviene attraverso la miscelazione e la granulazione delle
polveri metalliche. In particolare la granulazione, oltre a favorire la scorrevolezza e la
compattazione nella successiva pressatura a freddo, permette una maggiore separazione
tra i granelli di polvere rendendo più agevole la successiva distribuzione dei diamanti al
suo interno. Infatti, dopo la granulazione viene effettuata un'altra miscelazione: i diamanti
vengono aggiunti alla polvere metallica insieme a della cera che favorisce la
miscelazione. Questa seconda miscelazione è meno vigorosa della prima, poiché esiste
sempre il rischio di segregazione fra i diamanti e la polvere e, quindi, di disgregazione del
granulato. Successivamente il ciclo produttivo comporta la pressatura a freddo della
miscela diamante/matrice attraverso particolari attrezzature che dosano opportunamente
la quantità di miscela che va a riempire lo stampo. A questo punto si possono utilizzare
due processi alternativi: la pressatura a caldo o la sinterizzazione libera. Nella pressatura
a caldo la qualità dei compatti è determinata dalla pressione, dalla temperatura e dal
tempo del ciclo; questi tre parametri vengono solitamente variati su basi empiriche dai
costruttori di utensili. Il controllo della temperatura si effettua con una termocoppia o un
pirometro. Generalmente vengono impiegati stampi di grafite che devono essere sostituiti
frequentemente a causa della sollecitazioni termiche di tipo ciclico a cui sono sottoposti
che riducono nel tempo la sezione portante dei punzoni. Un altro svantaggio della grafite
è la possibilità di formare carburi legandosi con il ferro o altri metalli presenti all’interno
della matrice. Nella sinterizzazione libera non si utilizzano stampi di grafite, il che
comporta una riduzione consistente dei costi, ma si utilizzano pressioni superiori rispetto
a quelle usate nella pressatura a caldo. Le fasi finali del ciclo produttivo prevedono
operazioni di finitura, quali la burattatura, ossia la sbavatura dei segmenti sinterizzati, la
brasatura o la saldatura dei settori sui supporti.
Nel presente capitolo vengono illustrare le caratteristiche principali degli utensili
diamantati utilizzati nelle lavorazioni delle pietre naturali. In particolare vengono
riportate le caratteristiche dei componenti principali costituenti l’utensile e il relativo
processo di produzione.
2.1 Caratteristiche degli utensili diamantati
Gli utensili diamantati sono costituiti da tre componenti principali:
• Supporto;
• Grani di diamante;
• Legante.
Le tipologie di tali utensili e le relative caratteristiche sono funzione del tipo di materiale
da lavorare (metallico, ceramico, pietra, ecc.), dal tipo di processo lavorativo e dal tipo di
macchina utensile utilizzata.
2.1.1 Supporto
Su tale elemento viene fissata, o montata, la parte abrasiva. Il suo compito, oltre a quello
di dare il profilo dell’utensile, è quello di trasmettere il moto dalla macchina operatrice
alla parte abrasiva e di assorbire le sollecitazioni, che nascono durante il processo di
lavoro. In genere vengono usati acciai legati al cromo i quali hanno anche una capacità di
resistenza alla corrosione. Naturalmente, i corpi di acciaio sono temprati e rinvenuti a
circa 43-45 HRC. Oltre ai supporti rigidi si hanno supporti flessibili su cui fissare
l’abrasivo. Questi possono essere di origine metallica quindi si parla di funi, catene e di
qualsiasi altro sistema che permetta un certo grado di flessibilità. Oppure sono di origine
non metallica e quindi si parla di tele o carte su cui vengono fissate le polveri super
abrasive.
2.1.2 Grani di diamante
La classificazione delle grane superabrasive viene fatta rispetto a proprietà che incidono
in modo indiretto sulle prestazioni dell’utensile, quali ad esempio ossidazione in presenza
di particolari metalli, grado di reattività chimica del cristallo, reattività legata alla capacità
di ritenuta del legante.
Le proprietà delle grane superabrasive vengono classificate anche rispetto a
caratteristiche che hanno un impatto diretto sulle prestazioni dell’utensile. Tali
caratteristiche sono la granulometria, la forma e la concentrazione nella matrice di
legante.
Granulometria. Per granulometria si intende la misura della dimensione dei granuli che
costituiscono in generale una polvere.
Questa si può esprime in termini di un numero S, che caratterizza le maglie di un
setaccio attraverso cui le grane passano, o in termini di un diametro medio g del grano
superabrasivo. I stacci sono costituiti da reti formate da fili equidistanziati che si
incrociano a 90° e possono essere caratterizzati da:
• Apertura dello staccio;
• Maglie per unità di superficie;
• Mesh.
L’apertura dello staccio o luce netta è la distanza fra i fili paralleli delle maglie,
normalmente espressa in millimetri.
Secondo la normativa ASTM la classifica granulometrica è individuata dall’ultimo
setaccio attraverso cui il campione passa e dal primo su cui si ferma. Il setaccio è
individuato dal numero di maglie per pollice ‘‘Mesh’’.
La norma prevede anche la dimensione del filo della maglia e, pertanto, è nota la luce
attraverso cui le particelle possono passare. Teoricamente il diametro medio g è legato al
numero di mesh (S) dalla seguente relazione:
S⋅g = 1
In realtà, poiché il filo della maglia ha un diametro non nullo, tale valore è minore
dell’unità. In generale si tiene conto dello spazio occupato dal filo assumendo una
riduzione del 30% delle aperture della maglia. Con tali correzioni la relazione diventa:
S ⋅ g = 0,7
Di seguito in figura 2.1 è riportato un diagramma che mostra il legame tra il numero di
mesh ed il diametro medio g delle grane [Mil96].
Il numero di Mesh è ormai uno standard commerciale e presenta molteplici vantaggi
quali:
• Facile interpretazione della misura;
• Facile ed economico approvvigionamento di setacci certificati per i controlli di
qualità;
• Abitudine all’impiego di tale scala per la selezione delle grane adatte alle
specifiche lavorazioni.
Nonostante ciò, questa misura ha anche dei limiti severi quali:
• Bassa sensibilità: l’intervallo tra le dimensioni delle maglie dei setacci
consecutivi della serie è ampio;
• Bassa precisione: la tolleranza lasciata dalla norma sulla dimensione della maglia
consente differenze di misura dal 3 al 15%, a seconda della dimensione della
mesh;
• Nessuna discriminazione della misura in base alla forma della polvere
(morfologia).
La forma delle grane superabrasive ha un ruolo importante nel caratterizzare le
prestazioni degli utensili diamantati.
Fig.2.1 - Variazione approssimata del diametro di grana medio con il numero di mesh su
una vasta gamma di dimensioni di grana [Mil96].
Ovviamente, non tutte le forme dei cristalli corrispondono alla morfologia regolare del
diamante o CBN. Certe qualità di grane sono caratterizzate da cristalli parzialmente
geminati, oppure contengono frammenti e grani cristallini di forma irregolare.
Storicamente l’analisi della forma veniva interpretata mediante separazione meccanica in
base alla forma e ad esami visivi. Una tecnica di separazione meccanica consiste
nell’immettere i cristalli su tavole vibranti lievemente inclinate, che li separano
approssimativamente in classi basate sul rapporto fra area superficiale e volume (cioè
sfericità). Pur essendo utile come tecnica di smistamento, questo metodo fornisce pochi
dati quantificabili (precisi) sulla forma dei cristalli. L’analisi visiva è il metodo più
comune per valutare la forma del diamante e costituisce un notevole miglioramento
rispetto alla classificazione meccanica. Tuttavia, l’analisi visiva difetta sempre di
obbiettività e contribuisce poco ad una quantificazione numerica generalizzata e precisa.
Esiste una molteplicità di sistemi alternativi tra i quali uno in particolar modo, a causa
dello sviluppo delle tecniche informatiche, sta diventando sempre più interessante
l’acquisizione di immagini digitali dei grani di diamante, attraverso scanner ad alta
risoluzione e l’elaborazione di tali immagini attraverso software appropriati. La
sensibilità dei comuni scanner commerciali arriva tranquillamente a 2700 punti per
pollice e questo significa circa 10µm su grani acquisiti direttamente, senza passare da
immagini provenienti da microscopio; in quest’ultimo caso la precisione può scendere
anche sotto il micron, ma con un aumento non proporzionale di tempi e costi di
elaborazione. L’elaborazione delle immagini consente di ricavare tutta una serie di
informazioni quali:
• Dimensioni medie, massime e minime dei grani e relativi scarti quadratici medi;
• Diametro equivalente e la corda media;
• Fattori di circolarità ed allungamento;
• Rapporto di forma.
Tali informazioni possono influenzare notevolmente le prestazioni abrasive, ma non
vengono messe in risalto dai sistemi tradizionali di classificazione granulometrica quale è
la ASTM.
Concentrazione. Dal punto di vista applicativo la concentrazione è un parametro che ha
una influenza notevole, non fosse altro che per la sua influenza sul costo, e quindi sul
prezzo dell’utensile.
Per concentrazione si intende infatti la quantità, in peso, di grana di diamante per unità di
volume di concrezione diamantata (dove per concrezione diamantata si intende la matrice
costituita dal legante metallico comprendente l’abrasivo diamante in essa distribuito).
L’uso ha consacrato, per i diamanti, una unità di misura: il Carato (crt) che ha la sua
equivalenza come segue:
lcrt=0.2g
Ne consegue che la concentrazione è espressa in:
crt/cm3
In sede internazionale, secondo le raccomandazioni della F.E.P.A. (Federazione Europea
dei Costruttori di Prodotti Abrasivi), esiste anche un diverso modo per rappresentare la
concentrazione, che parte dalla seguente assunzione:
100=4.4crt/cm3
Si tratta quindi di una classificazione percentuale. Così ad esempio secondo questo
criterio di classificazione della concentrazione risulta:
Conc. 75 = 3.30 crt/cm3
50 = 2.20 crt/cm3
30 =1.32 crt/cm3
25 =1.10 crt/cm3
Può essere utile aggiungere a quale percentuale in volume corrispondano le
concentrazioni prese in esame avendo assunto come peso specifico del diamante il valore
di 3.52 g/cm3 e ricordando l’equivalenza 1 crt = 0.2 g. Quindi risulta:
100 = 25.00 %
75 = 18.75 %
50 = 12.50 %
30 = 7.500 %
25 = 6.250 %
È da notare che questi valori delle percentuali in volume sono state ricavate dalla
seguente relazione elementare:
% Volume =
0.2 × Conc.
× 100
p.s.
dove Conc. = concentrazione e p.s. = peso specifico del diamante
2.1.3 Leganti
Il termine legante, nell’ambito degli utensili diamantati, sta ad indicare quei composti
(sostanze-leghe) che hanno il compito di bloccare e fissare il superabrasivo al supporto di
un utensile, per consentirgli di svolgere, economicamente ed in modo tecnicamente
corretto, il taglio, la molatura, l’affilatura, la levigatura, la profilatura e la trafilatura. È un
compito tutt’altro che semplice, se si tiene presente che i leganti, in stretta sinergia con le
grane di super abrasivo, devono assicurare due requisiti contrastanti: capacità di taglio e
lunga durata degli utensili.
Tali caratteristiche comportano bassi costi di lavorazione, i più contenuti in assoluto,
comunque decisamente più convenienti di quelli determinati da altre lavorazioni,
realizzate per esempio con utensile in abrasivo convenzionale.
Alla base di tale realistica pretesa sta l’indiscussa superiorità dei Superabrasivi e la loro
eccezionale idoneità ad operare positivamente su una enorme varietà di materiali.
Naturalmente si sottraggono a tale handicap gli utensili a tagliente singolo o multiplo
realizzati con superabrasivo (cristallo singolo o policristallino), per i quali la funzione del
legante, o del brasante, si esplica esclusivamente assicurando il fissaggio della pietra al
porta utensile, fino al momento in cui il livello di usura non ne consigli la sostituzione.
Per chiarire meglio il comportamento dei leganti, possiamo aggiungere che questi devono
avere una resistenza all’usura adeguata al tipo di Superabrasivo presente nella
concrezione, tale cioè da consentire, durante l’uso, la giusta sporgenza in relazione al tipo
di lavoro da eseguire ed alle caratteristiche del materiale.
Soprattutto il legante deve permettere la perdita delle grane usurate, per favorire
l’avvicendamento con altre nuove esistenti all’interno della concrezione.
Correntemente si parla di leganti duri, o teneri; queste definizioni stanno ad indicare che,
nel primo caso, il legante resiste alla usura ed agli urti fino ad allinearsi al livello del
Superabrasivo, la capacità di taglio si esaurisce ed il forte attrito provoca fenomeni di
surriscaldamento, che danneggiano sia il materiale che lo stesso utensile.
Nel secondo caso, il legante subisce una usura eccessiva, provocando una sporgenza
sempre più pronunciata del Superabrasivo, fino al momento in cui viene a mancare la
tenuta del grano e questo si distacca prima che possa svolgere un lavoro adeguato alle sue
caratteristiche ed alle sue dimensioni.
E’ tipico il fenomeno del "pull-out", ossia la presenza di cavità sulla superficie attiva
della concrezione. La durata dell’utensile viene drasticamente ridotta, rendendone
l’impiego antieconomico.
2.2 Tipologie di legante
Le principali categorie di leganti, impiegate nella produzione degli utensili in
Superabrasivo, sono:
• Resinoidi;
• Metallici sinterizzati;
• Metallici elettrodeposti (Cu, Ni, altri);
• Ceramici-Vetrificati.
2.2.1 Leganti resinoidi
I leganti resinoidi sono classificabili tra i leganti teneri. La maggioranza dei costruttori di
utensili, in legante resinode, si rivolge alla serie delle termoindurenti, allontanandosene
solo per usi speciali o per la produzione di parti dell’utensile, cui si richiedono prestazioni
meno rigide.
In considerazione delle conseguenze d’impiego di un legante tenero, come sopra
accennato, questa categoria trova il maggior campo di utilizzazione in:
• lavorazioni meccaniche (rettifica ed affilatura);
• lavorazione del vetro;
• levigatura e lucidatura di materiali ferrosi e non ferrosi con micropolveri di
Superabrasivo.
E’ utile mettere in evidenza che, tra questa categoria di leganti ed il Superabrasivo, esiste
generalmente una scarsissima affinità chimica, ossia è diffìcile ottenere che il granulo di
Superabrasivo riesca ad aderire o a "saldarsi" alla resina. Ben maggiore affinità-adesività,
invece, esiste tra resina ed alcuni metalli. È uno dei motivi per cui i superabrasivi
utilizzati nei sistemi resinoidi sono rivestiti di una pellicola metallica, rame o nichel in
prevalenza. La percentuale in peso di detto rivestimento può variare tra il 20 ed il 60%, in
relazione al tipo di Superabrasivo ed all’applicazione. Il secondo valido motivo per
impiegare granuli "metallizzati" è quello di creare una difesa delle particelle.
L’impiego di un legante tenero, come quello resinoide, richiede l’uso di superabrasivi
ragionevolmente friabili, se non addirittura policristallini (aggregati di microcristalli). È
quindi evidente che durante il lavoro le particelle siano sollecitate, tanto da frantumarsi e
da perdere qualche frazione. Ne consegue un ridimensionamento della particella che
rischia di perdere la tenuta nell’alveo del legante, createsi in fase di indurimento ed ormai
capace di riadattarsi alla nuova geometria della particella stessa. D’altra parte la frattura
verificatasi è un fenomeno previsto e voluto, perché l’utensile presenti le doti di
autoravvivatura desiderate. In queste condizioni è facile immaginare che il rivestimento
metallico abbia mantenuto le sue dimensioni e geometria, e continui quindi a svolgere il
suo compito di tenuta, quasi una corazza della grana nel legante, difendendo la parte
residua della particella ed impedendone, per quanto e per il tempo possibili, la perdita di
altre frazioni. Da tale sinergia deriva una prolungata vita ed efficienza dell’utensile, ben
superiore rispetto a quella prevedibile e provata di uno analogo, ma realizzato con
superabrasivo nudo. Il terzo motivo è quello della superiore capacità del metallo a
dissipare la quantità di calore che le grane incamerano, durante il contatto con il pezzo in
lavorazione.
2.2.2 Leganti metallici elettrodeposti
Costituisce una classe ben distinta dagli altri agglomerati ottenuti per sinterizzazione.
Non si tratta di concrezione diamantata, bensì di deposito, su un supporto di acciaio, di
uno strato diamantato. Questo strato ha uno spessore pari alla dimensione dei grani
utilizzati e ciò spiega perché questo genere di utensile non può essere rettificato o
modificato dopo la fabbricazione.
L’ancoraggio del diamante al supporto, necessariamente conduttore, avviene attraverso
un procedimento galvanico di semplice deposizione. Il materiale che costituirà l’origine,
materia prima per l’elettrodeposizione, è collegato all’anodo, l’utensile da diamantare al
catodo. I metalli maggiormente impiegati, in questo tipo di prodotto, sono il rame e il
nichel, meno frequentemente il cromo che, nella sua versione dura, viene a volte
utilizzato come protettivo del primo rivestimento del nichel. La caratteristica più
significativa, dell’utensile elettrodeposto è rappresentata dall’esistenza di un monostrato
(oltre il 95% del prodotto) di superabrasivo, praticamente aderente al supporto. Inoltre, il
particolare tipo di ancoraggio permette alle particelle di avere una protrusione tra il 30 ed
il 50% della loro dimensione massima, fa queste condizioni, la densità delle punte attive è
elevatissima, conferendo all’utensile una taglienza eccezionale. Per avere un’idea
quantitativa possiamo aggiungere che, in condizioni normali e a parità di dimensione
granulometrica del superabrasivo, la concentrazione superficiale è in rapporto 5:1, circa,
rispetto ad un utensile in concrezione sinterizzata in concentrazione 100 (4.4 ctr/cm3).
Fig. - 2.2 - Cella galvanica per l’elettrodeposizione di superabrasivo.
Se la selezione granulometrica del superabrasivo è molto severa, il profilo esterno
dell’utensile copia fedelmente quello del supporto, rendendo l’utensile stesso
particolarmente idoneo a compiti di profilatura, sia diretta che indiretta.
2.2.3 Leganti ceramici vetrificati
Si tratta di leganti particolarmente dotati, ma che si rivolgono ad applicazioni ben precise,
esibendo una caratteristica che non solo è tipica di questa categoria, ma ne costituisce
forse il vantaggio determinante: la porosità.
Storicamente i leganti ceramici vetrificati sono nati con le stesse mole abrasive, sono
quindi di gran lunga quelli utilizzati da più tempo. L’avvento dei superabrasivi non li ha
coinvolti immediatamente, per la incompatibilità dei cicli termici richiesti dalla
vetrificazione dei leganti tradizionali ed i superabrasivi stessi che, almeno per quanto
concerne il diamante, soffrono le alte temperature ( T > 800 °C).
Attualmente si può contare su leganti adatti alla pressosinterizzazione che completano il
ciclo di indurimento entro i 730-750 °C; ed altri, adatti al prestampaggio e alla cottura in
forno, che pure non richiedono temperature al di sopra dei 900-950 °C. Ne deriva una
completa adattabilità per la produzione di utensili diamantati. La composizione base dei
leganti in parola parte dagli ossidi di Silicio, Sodio e Calcio, su cui si aggiungono, per una
formulazione sempre molto articolata, il Corindone o il Carburo di silicio, più una
selezione di altri ossidi, da scegliere tra quelli di Boro, Potassio, Litio e Zirconio per
segnalare i più comuni. L’influenza caratterizzante della porosità si manifesta con un
numero: 55 %; tale è il limite superiore di porosità che fornisce dei rendimenti ancora
pienamente validi.
Le principali doti dei leganti ceramici vetrificati possono essere individuate tra le
seguenti:
• Durezza sufficientemente elevata, tale da garantire una durata dell’utensile
generalmente molto soddisfacente;
• Elevata capacità di taglio, accompagnata da uno spiccato potere di
autoravvivatura, che impedisce l’innesco di fenomeni di surriscaldamento, anche
in condizioni di impiego molto gravose;
• Notevole efficacia del raffreddamento e della eliminazione dei microtrucioli dalla
zona di lavoro;
• Ragionevole facilità di profilatura.
2.2. 4 Leganti metallici
I leganti metallici sinterizzati rappresentano tipologicamente la gamma dei leganti duri. In
questo tipo di legante i parametri in gioco sono numerosi:
•
•
•
Il numero molto alto degli elementi metallici utilizzabili
La variabilità delle combinazioni e delle relative percentuali a formare la lega
La possibilità di impostare, per ogni soluzione, diversissimi cicli di temperature e
di pressioni
È possibile affermare comunque che anche questa categoria di leganti può estendersi dai
leganti durissimi ai teneri. La tecnica consolidata per produrre i leganti metallici è quella
della Metallurgia delle polveri. La tecnologia più affermata e seguita, sia in Italia che
all’estero è quella della Sinterizzazione.
Ricordiamo la delicata funzione che svolge la matrice in una concrezione diamantata:
•
bloccare rigidamente le grane di diamante, lasciando che svolgano la loro azione
il più a lungo possibile;
•
possedere una adeguata resistenza all’abrasione, tale da trattenere le grane di
diamante nel loro alveo fino al momento in cui, perdendo la dimensione e/o
forma utile iniziale, sia opportuno abbandonarle per lasciar spazio a nuove grane
affioranti dalla concrezione (principio di autoravvivatura).
Se la matrice è troppo tenera si rischia di permettere che le grane di diamante lascino il
loro alveo, prima che abbiano svolto la loro funzione. Eccedendo, invece, in resistenza
meccanica, e/o in resistenza all’usura, si rischia di giungere al completo appiattimento
delle grane, che si uniformano al piano della matrice, perdendo qualsiasi efficacia nel
taglio.
La funzione dei vari elementi che compongono un legante non è sempre molto chiara, in
quanto, a volte, la presenza di un elemento ha un effetto che dipende a sua volta dalla
presenza o meno, ed in determinate percentuali, di un secondo elemento. Basti vedere a
tal proposito come cambiano le caratteristiche degli acciai, pur avendo degli elementi
comuni.
In generale le materie prime che vengono impiegate, singole o associate, legate o
miscelate, sono, come già detto, polveri metalliche particolarmente scelte e selezionate
per purezza e per omogeneità di forma e grandezza delle particelle elementari. Le più
comuni sono: Rame, Stagno, Bronzo, Cobalto, Nichel, Argento, Cromo, Manganese,
Molibdeno, Vanadio, Titanio, Carburi Cementati.
Circa le caratteristiche che questi elementi conferiscono ai settori è possibile dire in
maniera del tutto orientativa che:
• Argento: ammorbidisce il settore e fa da legante;
• Stagno: tende ad aumentare la durezza del settore ed esplica anche una buona
azione saldante;
• Bronzo: è usato sempre in quanto permette di ottenere una lega abbastanza
tenera;
• Cromo: tende a formare degli ossidi superficiali che proteggono gli altri
componenti del legante. In vicinanza del diamante tende a formare Carburo di
Cromo, quindi favorisce la creazione della "coda" dietro il diamante (visibile sui
segmenti usati), proteggendolo. Inoltre conferisce un aumento della resistenza
alla trazione senza che l’allungamento, la strizione e la resilienza siano
eccessivamente abbassati, e tende a conferire un’elevata resistenza all’usura per
attrito.
• Manganese: se usato in percentuali maggiori dello 0.5% migliora le
caratteristiche meccaniche favorendo un aumento della tenacità (in particolare
della resilienza) e un forte aumento della resistenza a trazione (circa 100 N/mm2
per ogni 1% di manganese);
• Molibdeno: come il Cromo anch’esso tende ad indurire il settore, migliora le
caratteristiche meccaniche, ed in particolare il limite di fatica e quello dello
scorrimento a caldo. Inoltre diminuisce l’effetto del surriscaldamento;
• Rame: si usa per ammorbidire il settore;
• Vanadio: migliora in generale le caratteristiche meccaniche del manufatto con
aumento della resistenza alle sollecitazioni dinamiche e ripetute;
• Titanio: ha una grande attività con il Carbonio (Diamante), forma Carburo di
Titanio durissimo, e riduce la corrosione intergranulare;
•
Carburi Cementati: sono anch’essi elementi che non vanno in lega, ma vengono
annegati nella matrice sinterizzata. Sono Carburi di Wolframio o di Tungsteno.
Sono sinterizzati e cementati in presenza di cobalto ( 6-7.5%), e altri elementi
quali Titanio, Nichel, Molibdeno, Tantalio, Niobio (0.2-0.5%) con peso specifico
14.7 g/cm3. Sono carburi durissimi, con forme molto irregolari, angolose, e danno
un certo contributo al diamante nel taglio, oppure con forme arrotondate o
sferoidali per migliorare la resistenza all’usura.
Tra gli elementi elencati una considerazione a parte merita il Cobalto. Da una panoramica
degli impieghi industriali del cobalto, emerge che questo metallo, per le sue limitate
caratteristiche di duttilità e lavorabilità, in genere, viene raramente usato allo stato puro.
Rappresentano una eccezione proprio i leganti di utensili diamantati, destinati al settore
lapideo per il taglio di pietre dure ed abrasive, in cui il cobalto è spesso presente in
percentuali elevate ed in numerosi casi oltre il 90%.
Il cobalto non legato, a temperatura ambiente, possiede una struttura (hcp, esagonale
compatta) che consente una bassissima duttilità. Si sono quindi dovute effettuare
numerose ricerche per poter ottenere un cobalto che avesse migliori caratteristiche di
duttilità. Un miglioramento è stato ottenuto con l’introduzione nella lega di elementi tali
da conservare la fase (fcc, cubica facce centrate), che è stabile a temperatura superiore a
417 °C. Generalmente vengono effettuate piccole aggiunte (entro il 6% in peso) di singoli
elementi (Fé, Ni, Mn, Ti, Al) o di loro combinazioni.
Comunque ogni serie di applicazioni deve sempre trovare un equilibrio tra le
caratteristiche meccaniche della matrice e quelle delle grane del superabrasivo utilizzato.
È infatti logico evitare che i benefìci degli additivi usati vengano vanificati da una usura
precoce della matrice. È noto che le parti ottenute con puro cobalto, sinterizzato con la
metallurgia delle polveri, presentino la migliore combinazione di duttilità ed elevate
caratteristiche meccaniche. Tali favorevoli condizioni sono ben diffìcilmente ottenibili
con altri processi e sono state considerate un risultato dovuto alla piccola dimensione dei
grani, alla microporosità ben distribuita nella massa ed alla presenza di particelle di
ossido di cobalto. Tali elementi ostacolano la trasformazione di fase da fcc ad hcp,
durante il raffreddamento, dopo la sinterizzazione, permettendo che una elevata
percentuale di fase fcc, più duttile, venga mantenuta a temperatura In questo capitolo
vengono descritte le principali proprietà del diamante e del nitruro di boro cubico
utilizzati come abrasivi. Inoltre, in riferimento al diamante, vengono riportate le principali
tecnologie di fabbricazione.
2.3 I Superabrasivi
Con il termine superabrasivi si vanno ad indicare quelle materie prime per utensili da
taglio aventi caratteristiche chimiche fisiche quali durezza, resistenza all’usura , tenacità
superiori ai comuni abrasivi. I Superabrasivi per eccellenza sono il Diamante ed il Nitruro
di Boro Cubico (Borazon); quest’ultimo ormai universalmente conosciuto come CBN.
Il diamante, carbonio puro, possiede una caratteristica tecnologica fondamentale: la sua
straordinaria durezza. Essa è dovuta alla disposizione in forma tetraedrica degli atomi di
carbonio in modo che in qualunque punto la distanza fra due qualsiasi atomi è sempre la
stessa.
Il diamante è principalmente usato per lavorazioni di materiali non ferrosi molto duri, in
particolare vetro, ceramica e pietre. Già dal 1890 veniva usato per operazioni di
segagione di materiali duri, mentre intorno al 1940 iniziò ad essere usato come utensile
da taglio.
Il diamante, impiegato come abrasivo, ha tutte le caratteristiche del diamante "Gemma",
fatta eccezione per la dimensione e qualità del cristallo dovuto alle impurità che lo
rendono idoneo solo per impieghi industriali.
Nel campo applicativo industriale vengono oggi sostanzialmente impiegati due categorie
di diamante:
ƒ
Diamanti naturali
ƒ
Diamanti artificiali - sintetici
Sul piano fisico dei singoli cristalli ambedue hanno la stessa durezza: quella del
diamante.
Ma se interpretiamo il termine durezza in un significato più ampio, esteso alla sinergia fra
tenacità, resilienza, resistenza all’abrasione ed alla fatica, etc., si rileva che il diamante
sintetico, per certe applicazioni molto impegnative, può addirittura dimostrarsi più adatto
dello stesso diamante naturale.
Nitruro di Boro Cubico (Borazon) è ottenuto per sintesi ed è costituito da una fitta rete di
atomi di boro e di azoto che gli conferisce caratteristiche fisiche simili a quelle del diamante.
Dopo il diamante è il materiale più duro: HK = 4700, due volte e mezzo maggiore
dell’alundum e due volte maggiore del carborundum. Il coefficiente di dilatazione è tra i
più bassi, la massa volumica è di 3,48 g/cm3. Può sopportare temperature di oltre 1270 °C
e pertanto può essere usato per rettificare ad alta velocità. I cristalli di maggiori
dimensioni si possono paragonare a granelli di sabbia di colore nero marrone.
2.3.1 Diamante naturale
Il diamante naturale è quello che viene direttamente prodotto per estrazione dai
giacimenti che la natura offre.
I fattori che determinano la cristallizzazione del carbonio in forma di diamante o di
grafite possono essere semplificati nella temperatura e nella pressione al momento della
cristallizzazione.
Il diamante è la varietà di carbonio di alta pressione. In figura 2.3 (a) e (b) vengono
riportate le due forme allotropiche del carbonio: grafite e diamante.
Nella grafite, gli atomi di carbonio si trovano su piani paralleli, come rappresentato nella
figura 2.3(a). Ciascun piano è formato da una rete estesa di esagoni di carbonio situata in
un enorme reticolato di elettroni delocalizzati. Nella grafite i piani di atomi sono tenuti
insieme da forze di London che sono deboli, quindi possono slittare uno sull’altro se sono
sottoposti a una pressione, il che rende la grafite utilizzabile quale lubrificante a secco.
Nel diamante, fig.2.3(b), gli atomi di carbonio sono uniti esclusivamente da legami
covalente, con geometria tetraedrica.
Esistono due varianti strutturali della grafite che rappresentano un esempio di politipismo
( cioè è un caso particolare di polimorfismo in cui le diverse modificazioni, dette politipi,
possiedono una struttura a strati e differiscono tra loro solo per il modo in cui gli strati si
sovrappongono).
(a) Struttura della grafite
(b) Struttura del diamante
Fig.2.3 - Allotropi del carbonio.
Queste proprietà fisiche ne condizionano gli impieghi pratici: la bassa durezza la rende
utile per la fabbricazione di matite (impastata con quantità variabili di minerali argillosi),
la facile sfaldatura come lubrificante secco, la sua conducibilità elettrica anisotropa lo
rende prezioso per alcuni utilizzi (come per la tecnica galvanoplastica), il punto di fusione
molto alto ne permette l’impiego per crogioli refrattari destinati ad usi speciali. La grafite
inoltre brucia più velocemente del diamante, e la velocità di combustione dipende
essenzialmente dalle dimensioni dei singoli cristalli.
La struttura del diamante invece consiste di atomi di carbonio legati ad altri quattro atomi
di carbonio ai vertici di un tetraedro ciascuno dei quali è legato ad altri quattro atomi di
carbonio e così via. Non esistono molecole discrete e tutto il cristallo può essere
considerato una macromolecola, e la struttura che ne deriva può essere ricondotta ad un
reticolo cubico, come il silicio ed il germanio elementare, il carborundum (SiC), il nitruro
di boro cubico (CBN).
In questa struttura gli atomi di C si esplicano in puri legami covalenti sp3 che portano alla
disposizione tetraedrica di 4 atomi di C attorno ad uno centrale. Questa disposizione è
delimitabile in un cubo a facce centrate con 4 atomi interni disposti lungo le diagonali del
cubo in ottanti alternati e si sviluppa con un identico concatenamento in tutte le direzioni.
I cristalli di questa nota gemma hanno generalmente una caratteristica ottaedrico
(occasionalmente pseudo-tetraedrico per diseguale sviluppo delle facce). Spesso i cristalli
hanno facce curve, ed assai frequenti sono i geminati secondo [100] od anche [111]. Si ha
facile sfaldatura secondo le facce dell’ottaedro e ciò contribuisce ad aumentare la fragilità
del diamante, che è assai elevata nonostante l’estrema durezza.
Studi di laboratorio hanno evidenziato che il carbonio cristallizza con pressioni di almeno
50 kbar e temperature superiori a 900 °C. A pressioni o temperature più basse si forma la
grafite. In natura pressioni di 50 kbar si riscontrano nello strato superiore del mantello
terrestre ad una profondità 150 km o più.
I parametri che stabiliscono il valore del diamante sono determinati dal peso, purezza,
colore. Il carato è l’unità di peso generalmente impiegata nella misura dei diamanti. Un
carato corrisponde a 0.2 grammi e si divide in 100 punti. Questa unità di misura deriva
dall’uso del seme della carruba quale parametro di riferimento, in arabo “el qarat”, dal
greco “keràtion”.
La presenza (o assenza) di inclusioni in un diamante, le quali possono essere di diversa
dimensione e forma, colore, natura e posizione, vanno a caratterizzare il valore del
diamante gemma. I colori vanno dal bianco al giallo cupo. Un diamante è più prezioso
quanto più il suo colore è bianco. Oltre al bianco e al giallo vi sono altri colori rari come
il rosa, il giallo canarino, il verde, il blu.
In generale il diamante naturale risente dei trattamenti subiti, presentando micro e
macrolesioni, oltre che nella maggioranza dei casi una forma sostanzialmente irregolare,
raramente assimilabile ad un solido geometrico. L’insieme di questi ‘‘danneggiamenti
‘‘conferisce a questo tipo di diamante una certa fragilità e sensibilità agli urti,
caratteristica che non deve però essere assolutamente giudicata solo in negativo in quanto
in un processo di rettifica la rottura dei grani provoca la formazione costante di nuovi
spigoli taglienti. In realtà, esiste una certa percentuale di cristalli ben formati il cui valore
da un punto di vista tecnologico è più elevato e le pietre di detto tipo vengono selezionate
per impieghi speciali: utensili profilatori in legante metallico elettrodeposto, perforatori,
matrici per trafile ed altro.
Una categoria di diamanti sono i cristalli detti ‘‘ processed ‘‘. Questa categoria di cristalli
di forma compatta gli si attribuisce una resistenza meccanica superiore alla media.
Questi cristalli vengono trattati a lungo chimicamente e fisicamente in modo da far
perdere loro gli spigoli ed altre asperità superficiali, fino ad assumere un aspetto
decisamente arrotondato.
Il cristallo cosi trattato acquisisce un’elevatissima resistenza agli urti ed all’abrasione che,
collegata alla peculiare resistenza alle alte temperature, ne permette l’uso per applicazioni
molto speciali quali: carotatori per ispezioni geologiche e ricerche petrolifere, ecc.
Un’altra caratteristica dei diamanti naturali è quella di essere priva di qualsiasi forma di
magnetismo. Di conseguenza il diamante naturale è il materiale eletto per tutte le
applicazioni ottenute per via elettrogalvanica.
2.3.2 Diamanti sintetici
Nel 1797 Smith Tennant dimostrò, inconfutabilmente, che il diamante non era altro che
una forma di presentazione del carbonio. La prova fu data bruciando il diamante in
ambiente d’ossigeno e ricavandone solo CO 2 e tracce di ceneri.
Il diamante ha una densità di 3,52 gr/cm3, superiore a qualsiasi altra forma di carbonio,
come ad esempio la grafite che ha un peso specifico di 2,25 gr/cm3. Apparve quindi
subito teoricamente possibile che una forte pressione, in grado di aumentare la densità,
consentisse di modificare alcune determinate forme di carbonio in diamante.
Pare che prima della fine del XIX secolo molti tentativi furono fatti per sintetizzare il
diamante senza successo. Gradualmente si rendeva conto che in tale trasformazione erano
necessarie pressioni e temperature estremamente alte per convertire la grafite in diamante
(Rossini e Jessops 1938). Tra gli studiosi pionieristici nello studio della sintesi del
diamante ha un peso rilevante Percy Williams Bridgman. Egli fu senz’altro il più
prolifico ed il più conosciuto ricercatore nel campo delle alte pressioni. Nel 1941 firmò
un accordo con la General Electric Company per formare un gruppo di ricerca per lo
studio e la sintesi del diamante. Molti dei suoi esperimenti contribuirono a capire e
successivamente a realizzare la prima sintesi riuscita di diamante.
Benché Bridgman riuscì a realizzare temperature vicino ai 3000 K e pressioni intorno ai
29 Kbar per brevi intervalli di tempo, questo non fu sufficiente a convertire la grafite in
diamante. Di seguito, figura 2.4, è riportato il diagramma di fase del carbonio.
Fig.2.4 - Diagramma di fase del carbonio [Car96]
Nel 1951 la General Electric Company formò un nuovo gruppo di ricercatori i quali
giunsero a scoprire che certi metalli fungevano da catalizzatori rendendo possibile la
conversione di grafite in diamante ad un livello di temperature pressione minore rispetto a
quelle descritte dal diagramma di fase del carbonio ( Hall 1960, Suits 1964) [Mil96].
Successivamente si riuscì che la conversione diretta di grafite in diamante senza
catalizzatore era possibile solo con pressioni sopra i 125 Kbar e temperature intorno ai
3000 K, sotto queste condizioni, la grafite si decompone spontaneamente in diamante.
Gli elementi efficaci come catalizzatori sono Cromo, Manganese, Tantalio, più tutti gli
elementi delle VIII gruppo della tavola periodica come ferro, cobalto nichel, ecc. Questi
elementi si prestano a giocare un duplice ruolo nella sintesi del diamante:
ƒ
catalizzatore;
ƒ
come solvente buono per la grafite ma meno buono per il diamante;
In questo modo la grafite si dissolve nel catalizzatore fuso, mentre contemporaneamente
si manifesta la cristallizzazione di diamanti, per i quali la solubilità è molto inferiore.
Ogni catalizzatore ha una regione di efficacia di temperatura e pressione diversa.
In figura 2.5 è riportato il diagramma di equilibrio temperatura-pressione del carbonio
dove come catalizzatore è usato il nichel ( Bovenkerk 1959).
Fig.2.5 - Diagramma pressione e temperatura, mostra le regioni di stabilità del diamante e della
grafite ed il ruolo del solvente/catalizzatore nell’abbassare le condizioni di sintesi [Mil96].
Fig.2.6 - Diagramma di fase del carbonio dove vengono realizzati i processi di sintesi.
La percentuale di formazione dei nuclei di diamante e la relativa crescita, ad una data
temperatura, accresce con l’aumento della pressione sopra la linea d’equilibrio.
In figura 2.6 vengono illustrate le diverse regioni del diagramma di fase del carbonio
dove vengono oggi effettuati i processi di sintesi del diamante.
I metodi di sintesi del diamante si possono dividere in due categorie:
ƒ trasformazione diretta
ƒ trasformazione indiretta
Il metodo di trasformazione diretta della grafite in diamante è il più difficile e si può
effettuare in due modi:
ƒ sintesi mediante onda d’urto;
ƒ sintesi (HP/ HT)
mentre i processi di trasformazione indiretta si dividono in:
ƒ sintesi (HP/ HT) con solvente/catalizzatore
ƒ CVD (Chemical Vapour Deposition )
Trasformazione diretta: sintesi mediante onda d’urto. La sintesi del diamante
mediante onda d’urto utilizza delle pressioni shock, maggiori di 30 GPa in un intervallo
di temperature tra 1000 K ÷ 3000 K , per convertire grafite in diamante. Tale processo
non permette produzioni di grandi cristalli di diamante dovuto al ridotto tempo di
persistenza a tali valori di pressione e temperatura.
Le grane che si ottengono sono nanometriche (meno di 400 mesh) con caratteristiche tali,
quali la friabilità, da essere impiegate in applicazioni industriali di levigatura molto fini.
Trasformazione diretta: sintesi (HP/ HT). La transizione diretta da grafite in diamante
fu segnalata per la prima volta nel 1963 da Bundy.
Consiste nel far convertire in modo diretto, ad una pressione statica altissima di 13 Gpa e
ad una temperatura di 3000 K, la grafite in diamante. Il diamante così formato è di
granulometria molto fine e di tipo cubica. Uno dei problemi associati a tale sintesi è
quello di realizzare pressioni così alte, in modo sicuro continuo.Tale metodo è poco
utilizzato in quanto risulta troppo costoso per usi pratici.
Trasformazione indiretta: sintesi (HP/ HT) con solvente/catalizzatore. L’altro modo
di sintetizzare i diamanti è tramite la trasformazione indiretta HP/HT basata sul sistema
solvente/catalizzatore i quali accelerano di molto la formazione del diamante, abbassando
l’energia di attivazione necessaria, con pressioni e temperature intermedie rispetto al
metodo di sintesi (HP/ HT) diretto visto in precedenza.
Un sistema ad alta temperatura e pressione, usato per la crescita di cristalli utilizzabili per
gli utensili da taglio, è costituito da un sistema a pistoni multipli.
La cella contenente la grafite e i metalli catalizzatori viene compressa da presse grandi e
potenti, di solito ad azionamento idraulico. L’obiettivo primario del processo di sintesi
dei cristalli per utensili da taglio è di ottenere la massima resa in cristalli di diamante,
della forma e della tipologia desiderate, al minor costo possibile. La cella di reazione,
contenente la grafite e i metalli catalizzatori, viene portata a condizioni di temperatura e
di pressione tali da consentire l’avvio della nucleazione dei cristalli di diamante. Le
condizioni vengono poi regolate, in un processo controllato, per produrre cristalli della
forma e della qualità desiderale. Le proprietà fisiche dei cristalli possono essere variate
durante la crescita, modificando i parametri di sintesi. La forma del cristallo, da cubica ad
ottaedrica, può essere influenzata da differenti temperature di sintesi, come illustrato nella
figura 2.7.
Invece, la dimensione dei cristalli viene controllata principalmente dalla durata del processo, ed in genere si ottengono particelle fino ad una dimensione di 1 mm.
Nel caso di sintesi di diamanti di grande dimensioni viene usata una tecnica chiamata
‘‘Metodo Ricostituito’’.
Fig.2.7 - Diagramma pressione e temperatura e le diverse regioni di crescita del diamante.
La fonte di carbonio di diamante viene posizionata nella zona di alta temperatura della
cellula pressurizzata e nella zona di temperatura inferiore si colloca un cristallo seme di
diamante come mostrato in Fig.2.8.
Fig.2.8 - Configurazione della cella di reazione.
Questo processo dipende dalla differenza di concentrazione di carbonio dovuta alla lieve
differenza di pressione della cella. Il meccanismo di crescita al metodo di ricostituzione
comporta tre fasi critiche: a) dissolvimento del carbonio della fonte del solvente; b)
trasporto del carbonio in soluzione verso la superficie di crescita del cristallo seme; c)
formazione di nuovi strati cristallini sul seme.
Le condizioni di crescita del cristallo vengono influenzate dalla velocità di diffusione del
carbonio nel solvente verso il cristallo crescente.
Tale velocità, funzione del gradiente di concentrazione del carbonio nello strato di
solvente, può essere controllata variando opportunamente parametri di crescita quali la
temperatura e la pressione. La dimensione dei cristalli così sintetizzati può essere molto
grande e la forma dipende dall’orientamento dei cristalli seme.
La De Beers ha fatto crescere un diamante di 14,2 carati con una velocità media di
crescita stimata a 5,8 mg/h.
La quantità e le proprietà dei diamanti dipendono fortemente dai materiali di partenza. La
grafite e il metallo utilizzato come catalizzatore/solvente influenzano la nucleazione e le
caratteristiche dei diamanti. Il tipo di fonte di carbonio, la solubilità e la grafitizzazione
del carbonio madre sono i fattori determinanti per la formazione del diamante, ma fra gli
altri fattori importanti ci sono la cristallinità e la grafite ricristallizzata, i gas adsorbiti e il
vapore d’acqua, come pure il trattamento termico ad alta pressione. Tutti questi fattori
influenzano la formazione del diamante.
Trasformazione indiretta: CVD (Chemical Vapour Deposition). Per ottenere depositi
di ‘‘diamante policristallino’’ con caratteristiche simili al diamante naturale
monocristallino sono stati messi a punto dei processi CVD che sfruttano la sintesi
metastabile a bassa pressione del diamante in fase gassosa utilizzando miscele di CO o
CH 4 e H 2 in presenza di un plasma e in un campo di temperature fra i 700 e i 1000 °C.
La crescita del diamante a bassa temperatura e pressione ( condizioni in cui il diamante
risulta essere in fase metastabile) è resa possibile dall’osservazione che le fasi metastabili
possono essere formate da una reazione di precursori gassosi adeguati (per es. CH4 e H2
nel caso del diamante), se le barriere energetiche di attivazione verso le fasi più stabili (
grafite) sono sufficientemente alte.
Un grande passo in avanti è stato fatto su questa tecnica quando alcuni ricercatori hanno
osservato che la presenza di idrogeno atomico rendeva possibile la deposizione di
diamante da idrocarburi. L’idrogeno non solo erodeva preferenzialmente la grafite
rispetto al diamante ma, saturando i legami liberi alla superficie in crescita del diamante,
impediva anche la chiusura dei legami carbonio su se stessi e quindi la ricostruzione della
fase grafitica. A causa del ruolo determinante dell’idrogeno atomico nell’erodere
preferenzialmente la grafite e nel sopprimerne la crescita, tutti i metodi di deposizione del
diamante, attualmente utilizzati, hanno in comune la produzione di idrogeno atomico in
prossimità della superficie. Tale processo permette di rivestire materiali di altra natura
con pellicole di diamante. L’innovazione di tale tecnica di sintesi del diamante, oltre alla
più facile esecuzione delle condizioni di processo rispetto a quelle tradizionali (HP/HT),
ha permesso di estendere a nuovi campi di applicazione tutte quelle proprietà
tecnologiche del diamante.
Le caratteristiche degli strati di diamante ottenuti con questi processi sono elevatissime:
• la durezza si avvicina a quella del diamante naturale (7000-12.000 HV);
• il coefficiente d’attrito è simile a quello del Teflon, la reattività chimica è
bassissima (in ambienti non ossidanti);
• la stabilità termica in atmosfera inerte è molto alta e può superare i 1.200 °C;
• la conduttività termica è altissima.
• La resistenza all’ossidazione ad elevate temperature non è invece molto alta e il
diamante inizia ad ossidarsi oltre i 600°C.
Uno degli svantaggi si tale processo di sintesi è legata alla velocità di crescita, la quale
risulta estremamente bassa. La morfologia di superficie ottenuta durante il CVD dipende
dal rapporto di miscelazione del gas e dalla temperatura del substrato.
Con pressione parziale di CH 4 e temperature del sub strato bassa, si ottengono pellicole
microcristallina con sfaccettature triangolari{111}e contorni ben definiti come mastra la
figura 2.9.
Fig.2.9 - Film di diamante microcristallino depositato su una base di Si con la tecnica CVD.
Con l’aumento della concentrazione di CH 4 nella miscela di gas precursore e/o con
l’aumento della temperatura del substrato si hanno facce di tipo {100} con forme
squadrate e regolari.
La Fig.2.10 seguente mostra la sezioni trasversale di una pellicola microcristallina di
questo tipo di spessore 6,7 µm mostrando uno sviluppo strutturale di tipo colonnare:
Fig.2.10 - Sezione trasversale di un deposito di diamante microcristallino con la tecnica CVD
Con pressioni parziali maggiori di
CH 4 la morfologia cristallina scompare
completamente. Una pellicola cosi realizzata, rappresentata in figura 2.11, è costituita da
un complesso di nanocristalli di diamante e da grafite disordinata.
Fig.2.11 - Film di diamante microcristallino con tecnica di deposizione CVD con pressioni parziali
di CH4 maggiori.
Le tecniche attualmente utilizzate per il rivestimento di utensili con uno strato di
diamante sono essenzialmente due:
• Produzione di membrane autosostenute di puro diamante monocristallino cubico.
Ottenute con processi CVD, su substrati di comodo e in particolari di grandi
dimensioni e spessori (fino a 500-1000 µm), successivamente tagliati alle
dimensioni opportune e saldobrasati sulla superficie dell’utensile stesso. Questo
procedimento, in parte assimilabile alla preparazione del PCD, non consente un
rivestimento in tre dimensioni e comporta un numero elevato di passaggi
operativi. Presenta tuttavia alcuni vantaggi quali la possibilità di utilizzare
substrati scelti in maniera ottimale, per facilitare la nucleazione e la crescita,
l’assenza di stress all’interfaccia e la possibilità di ottenere spessori, struttura,
dimensione dei grani cristallini ottimali.
• Rivestimento CVD direttamente sull’utensile. Con temperature del substrato
intorno a 800-900 °C, e possibilità di ricoprire superfici complesse in tre
dimensioni. Il rivestimento CVD "in situ", può diventare il metodo ottimale, in
quanto ha la potenzialità e la flessibilità più alte, essendo in grado di rivestire con
una sola operazione un numero molto elevato di campioni contemporaneamente,
di rivestire superfici complesse in tre dimensioni, di depositare multistrati ed,
infine, dì ottenere spessori delle dimensioni richieste.
Altri campi di impiego si possono citare la costruzione di semiconduttori, il rivestimento
di vetri e specchi per applicazioni aerospaziali, riporti con differenti caratteristiche
elettriche, termiche e di trasmissione del suono nel settore elettronico, etc.
2.3.3 CBN ( Nitruro di Boro Cubico )
Il Nitruro di Boro è una molecola composta da Boro ed Azoto e si presenta sotto quattro
forme allotropiche:
• esagonale
• romboedrico
• wurtzitic
• cubico
Atomo di boro
Atomo di azoto
Fig.2.12- Forme allotropiche del nitruro di boro
È da notare la similitudine delle forme allotropiche del Nitruro di Boro con quelle del
carbonio. Infatti la struttura esagonale è simile alla grafite, mentre la struttura cubica è
simile al diamante.
Tale somiglianza spiega le eccezionale durezza del Nitruro cubico di Boro (CBN) la
quale risulta essere seconda solo al diamante.
Malgrado la somiglianza tra le forme allotropiche fra il Nitruro di Boro (BN) ed il
Carbonio, in natura tale elemento non è reperibile come la grafite o il diamante ma si
presenta come ossido o legato con altri ossidi alcalini. Il Nitruro di Boro viene ottenuto
sotto forma di polvere da un processo di lavorazione diviso in diverse fasi. Il materiale di
partenza viene inizialmente purificato dai metalli alcalini, ottenendo materiali iniziali per
la sintesi del Nitruro del Boro (in genere dell’acido borico), quindi un ulteriore
trasformazione in sostanze definite precursori del Nitruro del Boro.
La forma allotropica esagonale del Nitruro di Boro è la forma stabile in condizioni
ambiente mentre quella cubica è metastabile.
Il Nitruro Boro cubico è stato sintetizzato per la prima volta nel 1957 da R. H. Wentorf
sottoponendo il Nitruro di Boro esagonale ad alta pressione e temperatura. Inizialmente, il
processo di sintesi del CBN consisteva nel riscaldare il materiale a circa 1.800 °C e
sottoponendolo ad una pressione di 9 GPa.
Successivamente, il requisito di pressione è stato reso meno importante tramite
l’introduzione di catalizzatori, quali metalli alcalini e alcalini terrosi, in particolare nitriti
di magnesio, calcio o litio.
Una delle proprietà che rende il CBN estremamente interessante in campo tecnologico,
oltre ad essere un materiale estremamente duro (4500 Kg/mm2) secondo solo al diamante,
è la sua estrema stabilità alle alte temperatura.
Infatti il CBN è chimicamente stabile nell’aria ad un temperatura intorno ai 1300 ° C,
mentre il diamante è stabile nell’aria solo intorno ai 800° C (oltre tali valori inizierebbe
un processo di grafitizzazione).
Tale proprietà rende il CBN estremamente interessante come abrasivo in lavorazioni di
metalli duri, come l’acciaio, ad alte temperature [Mil96].
2.4 Morfologia del diamante e del CBN
Le vere facce cubiche sono estremamente rare nel diamante naturale, la cui morfologia e
la cui struttura sono determinate dalla condizioni esistenti prima e durante la loro
formazione nei fornelli di kimberlite.
Invece, la morfologia del cristallo di diamante sintetico può andare da un cubo puro ad un
ottaedro puro fino a cristalli irregolari, parzialmente geminati o a frammanti di cristallo, a
seconda delle velocità relative di crescita delle facce del cristallo lungo le principali
direzioni cristallografiche.
La morfologia dei diamanti sintetici può essere manipolata intervenendo sulle condizioni
del processo di sintesi. Può esistere, quindi, tutta una gamma di forme di cristallo fra
quelle estreme del cubo e dell’ottaedro, come illustra la figura 2.13.
Mentre la velocità di crescita del cristallo è controllata dalla velocità di diffusione del
carbonio attraverso il solvente, la cinetica dell’adesione dell’atomo di carbonio e il
processo di riassestamento della superficie del cristallo all’interfaccia liquido-cristallo
controllano la morfologia dei cristalli. Le facce del cristallo che hanno una velocità di
crescita maggiore, delimitate agli spigoli da quelle di crescita più lenta, diventano più
piccole e infine scompaiono, man mano che il cristallo stesso diventa più grande. Le
facce che rimangono sono quelle di crescita più lenta. Idealmente le facce {111}, che
sono quelle dalla disposizione più densa, sarebbero anche quelle dalla crescita più lenta
del cristallo, formando alla fine un ottaedro circondato da otto facce {111}. Le facce che
crescono più velocemente sul diamante sono i piani cubici {100}.
Tuttavia la morfologia effettiva della crescita dipende da molti fattori. Si segnala che le
velocità di crescita relative delle facce {111} e {100} variano a seconda della temperatura
di crescita, del tipo di lega del solvente, delle impurezze nel solvente e della loro distribuzione relativa fra cristallo e solvente. Cristalli cresciuti con lo stesso
solvente/catalizzatore e la stessa pressione possono presentare variazioni di morfologie e i
settori di crescita dei diamanti sintetici cresciuti con il metodo di gradiente di temperatura
dipendono dalla temperatura di crescita .
Fig. 2.13 - Gamma delle forme di cristallo da ottaedrica a cubica.
Nel caso del diamante cresciuto a 1350°C la morfologia è quasi esaedrica (cubica) e i
settori di crescita (100) occupano quasi tutta la struttura del cristallo. In proporzione con
l’aumento della temperatura di crescita, la morfologia diventa esa-ottaedrica ( cuboottaedrica ) e infine quasi ottaedrica.
La morfologia del nitruro di boro cubico è molto più complessa di quella del diamante.
Le due sostanze hanno strutture geometriche simili, ma nel caso del CBN si ha una
perdita di simmetria, data l’alternanza degli atomi fra boro e azoto.
Atomo di carbonio
Atomo di Azoto
Atomo di boro
Fig.2.14 - Confronto tra la struttura cristallografica di (a) diamante e (b) CBN.
Nel diamante le facce ottaedriche {111} sono chimicamente identiche; invece nel CBN le
otto facce sono di due tipi, diversi fra loro, in quanto quattro facce terminano col boro e le
altre quattro con l’azoto.
Qualora le velocità di crescita di questi due tipi di facce ottaedriche {111} fossero uguali,
risulterebbe un ottaedro. Se invece un tipo dovesse crescere con l’esclusione dell’altro, il
risultato sarebbe un tetraedro. Visto che ci sono due tipi distinti di facce {111}, è
possibile avere due tipi distinti di tetraedri (ossia che terminano o col boro o con l’azoto).
Finora è stato osservato che i tetraedri più diffusi sono del tipo che termina con atomi di
azoto.
Nel caso predominasse la crescita di un tipo di faccia, ma senza l’esclusione totale
dell’altre, risulterebbe un cristallo con otto facce in proporzioni variabili.
Inoltre come nel caso del diamante, durante la crescita di un cristallo di CBN, possono
svilupparsi anche delle facce cristallografiche cubiche {100}.
La morfologia di una particella di CBN può, quindi, variare fra cubica e ottaedrica
(analogamente a quella del diamante) e anche fra ottaedrica e tetraedrica come mostrato
in figura 2.15.
Quest’ultima variante si riscontra raramente nel diamante e in tali casi è stato dimostrato
che si tratta in realtà di un ottaedro, gemellato con crescita modificata delle componenti
gemelle. Un diamante autenticamente tetraedrico non sarebbe previsto a causa della
struttura e della chimica identiche fra tutte le facce ottaedriche.
La classificazione delle morfologie cristallografiche possibili per il diamante sintetico e il
CBN può essere fatta attribuendo un indice numerato alla gamma di morfologie di diamante e di CBN in modo tale che, sulla scala "cubo-ottaedro", il cubo sia designato 0 e
l’ottaedro 8.
Fig.2.15 - Forme del cristallo da ottaedrica a tetraedrica.
Sulla scala "ottaedro-tetraedro", l’ottaedro è designato sempre 8 e il tetraedro 0. Questi
numeri vengono, usati insieme per descrivere un cristallo in termini delle proporzioni
relative fra facce cubiche, ottaedriche e tetraedriche.
Ad esempio, l’indice per il cubo è 0/8, per l’ottaedro 8/8 e per il tetraedro 8/0.
Questo indice presuppone una crescita regolare delle diverse facce, mentre in pratica i
cristalli di diamante e di CBN possono spesso presentare distorsioni di queste forme
morfologiche regolari a causa di gradienti direzionali delle condizioni esistenti
nell’ambiente di crescita.
II comportamento chimico di un cristallo può essere influenzato dalla sua morfologia. Nel
caso del diamante, in cui ogni faccia del cristallo è composta da atomi di carbonio, a
meno che non sia alterata specificamente, la chimica della sua superficie è dominata da
quella dell’idrogeno o dell’ossigeno, a seconda dei diversi ambienti in cui il cristallo è
cresciuto. La struttura chimica e fisica e le energie superficiali della superficie cubica
{100} e di quella ottaedrica {111} sono diverse e, dunque, saranno diverse anche le loro
reattività chimiche. Le otto facce {111} sono identiche e dovrebbero comportarsi in modo
analogo.
Fig.2.16 - Gamma di morfologie teoriche dei cristalli di diamante e CBN.
Nel caso del CBN, si pensa che la chimica superficiale sia dominata normalmente da
quella dell’ossigeno. La struttura chimica e fisica delle facce cubiche {111} e quella delle
facce ottaedriche/tetraedriche {111} sono diverse. Così chimicamente i due tipi di facce,
come nel caso del diamante, dovrebbero reagire in modi differenti.
Inoltre, a differenza del diamante, nemmeno le otto facce {111} sono identiche, in quanto
terminano o con atomi di azoto o con quelli di boro. Nel caso di un cristallo di CBN che
sia un tetraedro puro (indice morfologico 8/0) e che abbia quattro facce {111} identiche,
la sua chimica superficiale sarà influenzata dal fatto che le superfici terminino con azoto
o con boro. Un cristallo di CBN puramente ottaedrico (indice morfologica 8/8) avrà otto
facce {111}, di cui quattro termineranno con azoto, mentre le altre quattro, alternanti ed
adiacenti a queste, termineranno con boro; la reattività chimica dell’insieme del cristallo
sarà influenzata da entrambi i tipi di faccia.
Le principali impurità che si possono presentare nel diamante sono l’azoto, il boro e tutti
quei materiali che fungono da catalizzatore come nichel, ferro, cobalto.
Il tipo di impurità e la relativa percentuale dipende dalla natura del diamante (naturale o
sintetico) e dalle soggettive condizioni di crescita.
La caratterizzazione del tipo di impurità è di fondamentale importanza in quanto queste
influenzano notevolmente il comportamento chimico fisico e meccanico del diamante.
Una classificazione del diamante è stata fatta in base alle percentuali contenute di azoto e
sotto quale forma (sostituzionale o interstiziale ).
Infatti gli atomi di azoto sono in grado di sostituire quelli di carbonio rimanendo
incorporato nel reticolo oppure si può accumulare in grandi ammassi o lastrine.
Si definisce :
Diamante Tipo Ia: Diamante contenente azoto come impurità in quantità notevole
solitamente nell’ordine dello 0,1% e concentrato in piccoli aggregati. Contiene anche
placchette, associate alle impurità di azoto, la cui struttura non è nota. La maggior parte
dei diamanti naturali è di questo tipo.
Diamante Tipo Ib: Diamante contenente anch’esso azoto come impurità, ma in forma
dispersa di sostituzione. Quasi tutti i diamanti sintetici sono di questo tipo.
Diamante Tipo IIa: Diamante con impurità di azoto completamente assenti. Molto rari in
natura, questi diamanti hanno proprietà ottiche e termiche in misura maggiore rispetto
agli altri tipi.
Diamante Tipo IIb: Tipo di diamante molto puro con proprietà di semiconduttore,
generalmente di colore blu ed assai raro in natura.
Proprietà semiconduttive possono essere indotte nei cristalli sintetici mediante
incorporazione di boro.
Un diamante perfetto è incolore, ma quando è presente l’azoto in sostituzione singola o in
dispersione, il diamante assume un colore giallo-verdastro.
Questi atomi dell’azoto assorbendo lo spettro blu della luce provocano colori come il
giallo (esistono diamanti color giallo canarino), marrone e gialli-verdastro intensi. In
generale il colore dipende oltre dalla presenza dell’azoto anche da come questo è
presente.
Inoltre i cristalli sintetici cresciuti da solventi metallici contenenti nichel, ferro o cobalto
hanno atomi metallici dispersi come impurezze.
Catalizzatori abbassi di ferro-nichel sono noti per determinare inclusioni globi polari
distribuite casualmente nel grano cristallino, con dimensioni ed è in numero variabile a
seconda della qualità della materia. Nel caso di catalizzatori al cobalto, indice, le
inclusioni sono numerose e finissime e localizzate prevalentemente sui piani (100).
2.5 Utensili diamantati sinterizzati nelle lavorazioni delle pietre
naturali
Gli utensili diamantati sono oggi impiegati in un’ampia varietà di applicazioni nel settore
della pietra, quali la trivellatura esplorativa, dove sono usati sotto forma di corone
diamantate per estrarre carote campione, nel campo minerario, nella segagione di pietre
naturali e agglomerati.
L’analisi del settore lapideo ha permesso di evidenziare come il comparto degli utensili
diamantati, quali fili diamantati, lame e dischi diamantati, frese cilindriche e sagomate,
identifichi un insieme di beni strumentali estremamente funzionali allo svolgimento delle
singole fasi di trasformazione dei materiali lapidei lungo la filiera produttiva.
Dalla loro natura e caratteristiche dipendono infatti in grande misura il grado di
economicità, il livello di prestazione e la stessa qualità del prodotto finale ottenuti in
corrispondenza di ciascuno stadio di lavorazione.
Gli utensili diamantati utilizzati per le lavorazioni dei materiali lapidei si possono
classificare agevolmente secondo due macro-categorie: gli utensili da taglio (ad esempio
filo, lame e dischi diamantati) e gli utensili per la lavorazione delle superfici (tipicamente
mole e frese di varia forma e profilo).
L’utensile diamantato è un utensile abrasivo avente un rendimento estremamente elevato
rispetto ai metodi tradizionali di taglio.
I procedimenti fino ad oggi utilizzati per produrre utensili diamantati si basano,
essenzialmente, su due tecniche; elettrodeposizione ed tecnologia delle polveri.
La prima utilizzata nella costruzione di utensili a matrice metallica destinati alla
lavorazione di materiali particolarmente difficoltosi nella lavorazione come i graniti,
mentre i secondi sono utilizzati nella lavorazione di materiali lapidei meno impegnativi
dal punto di vista del taglio come il marmo.
Negli ultimi tempi, per la verità, si è resa disponibile una nuovissima tecnologia che si
basa non più sulla sinterizzazione, bensì sulla fusione delle polveri, mediante raggio laser,
direttamente sul supporto di acciaio (anima). Benché quest’ultima tecnologia sia
particolarmente interessante e degna di un attento esame, non sarà per il momento trattata,
non fosse altro perché non ancora sufficientemente adottata dai costruttori di utensili
diamantati.
2.6 Costruzione degli utensili diamantati sinterizzati
Il processo PM costituisce il ciclo di produzione principale per tutti gli utensili diamantati
a legante metallico.
Saranno presi in considerazione i sistemi di produzione tradizionali, con riferimento
particolare a quelli che interessano la produzione di utensili diamantati a settori fissati su
di un supporto metallico. Questo in quanto tutti gli altri utensili diamantati, siano essi
impiegati su materiali lapidei o su altri materiali (nel qual caso gli utensili diamantati
vengono catalogati "per meccanica") sono ottenuti con tecnologia che include sempre una
fase di sinterizzazione (o polimerizzazione se di legante resinoide) e differisce operativamente solo dalla produzione di grandi serie di settori.
Infatti nella categoria degli utensili a settori, oltre naturalmente ai dischi, alle lame per
telaio, ai foretti si inseriscono anche utensili speciali tipo mole, levigatori e il filo
diamantato, poiché le perline, dal punto di vista produttivo, possono considerarsi come
settori.
Il processo tipico di fabbricazione può essere rappresentato tramite un diagramma di
flusso, di seguito rappresentato, che mostra le varie fasi del processo produttivo.
Fig.2.17 - Ciclo di produzione degli utensili diamantati sinterizzati
2.6.1 Preparazione della polvere metallica e della grana di diamante
Per la maggior parte dei costruttori di utensili diamantati, la preparazione della polvere
metallica e della grana di diamante comporta due operazioni. La prima è la miscelatura
delle polveri metalliche costituenti, effettuata attraverso un apposito miscelatore. La
scelta precisa del tempo e della velocità spetta però al singolo costruttore. Occorre prestare attenzione, poiché una miscelatura eccessiva può provocare la segregazione degli
ingredienti. Dopo la miscelatura iniziale, è possibile far granulare la polvere metallica.
Questa oltre a favorisce la scorrevolezza e le caratteristiche di compattazione nella
pressatura a freddo permette una maggiore uniforme distribuzione dei diamanti. Dopo la
granulazione, viene effettuata un’altra miscelatura, in cui vengono aggiunti i diamanti alla
polvere metallica e, spesso, anche della cera, per ottenere una corretta miscelatura. La
seconda fase di miscelatura è meno vigorosa della prima, poiché esiste sempre il rischio
di segregazione fra i diamanti e la polvere e, quindi, di disgregazione del granulato.
2.6.2 Processo di pressatura a freddo
Dopo la miscelatura delle polveri di metallo e di diamante, il ciclo produttivo normale
comporta la pressatura a freddo della miscela diamante/matrice. La pressatura a freddo
degli utensili diamantati da sinterizzare per infiltrazione è solitamente meno sofisticata di
quella effettuata nei componenti a sinterizzazione libera. La pressatura a freddo, per gli
utensili pressati a caldo o a sinterizzazione libera, è effettuata da particolari macchine.
Queste sono dotate di dispositivi di riempimento o di scivoli vibratori, in grado di dosare
la quantità corretta di materiale per riempire lo stampo. Vediamo le differenti possibilità
di attuazione di tale fase.
a) Preformatura con dosaggio gravimetrico
Le polveri vengono dosate mediante una bilancia di precisione, che lascia cadere in una
tramoggia l’esatto quantitativo di polvere richiesto; dalla tramoggia la polvere cade nel
trasportatore (filler o scarpetta), che lo trascina fin sopra la cavità dello stampo.
Fig.2.18 - Fasi della preformatura con dosaggio gravimetrico
b) Preformatura con dosaggio volumetrico
In queste presse il dosaggio della polvere avviene senza pesatura ed è ottenuto (per
tentativi all’inizio di ogni nuovo tipo di ciclo) regolando la discesa del punzone inferiore,
in modo che il volume della cavità stampo, correlata alla densità apparente della polvere,
ne contenga il peso esatto calcolato sulla base del pezzo finito. Va subito detto che,
contrariamente a quanto sembrerebbe, la ripetibilità del dosaggio, verificata con bilancia,
è buona e la differenza in peso non arriva al 2%, anche con pezzi di piccolo volume (quali
ad esempio le perline diamantate che costituiscono l’elemento tagliente del filo
diamantato). Questo sistema che può operare solamente se le polveri sono granulari,
presenta notevoli vantaggi e si possono fare le considerazioni seguenti:
•
la macchina fa a meno di sistemi elettronici di pesatura;
•
non si hanno perdite per attriti a dosaggio avvenuto e, quindi, la
ripetibilità è assicurata;
•
il procedimento è più veloce per se stesso e consente una facile
moltiplicazione (stessa pressa con più cavità stampo e più punzoni
azionati nello stesso tempo).
La figura 2.19 illustra schematicamente questo dosaggio che, peraltro, può avvenire in
diversi modi, a seconda della posizione relativa di scarpetta e punzone inferiore, poiché si
può creare una leggera depressione nella cavità stampo, favorendo il riempimento.
Fig. 2.19 - Fasi della preformatura con dosaggio volumetrico
Lo scopo principale per cui i segmenti vengono pressati a freddo è di facilitarne la
gestione quando si carica lo stampo di grafite, con l’ulteriore vantaggio di ridurre l’usura
degli stampi di grafite, durante il ciclo di pressatura a caldo. I segmenti compattati a
freddo vengono di solito pressati fino al 50% della densità teorica, valore che tuttavia può
essere modificato, per ottenere resistenza diversa all’usura della matrice.
La pressatura a freddo per le operazioni di sinterizzazione libera viene effettuata a
pressioni maggiori, tipicamente 400 MPa.
2.6.3 Processi di sinterizzazione
Nella produzione di utensili diamantati si impiegano tre processi diversi: pressatura a
caldo, infiltrazione e sinterizzazione libera.
2.6.4 Sinterizzazione: pressatura a caldo
La qualità dei compattati a caldo è determinata dalla pressione, dalla temperatura e dal
tempo del ciclo; questi tre parametri vengono solitamente variati su basi empiriche dai
costruttori di utensili. La pressione esatta adottata dipende dal tipo di polvere metallica;
comunque nella pressatura a caldo una pressione tipica è di 35 MPa. Le pressioni per la
pressatura a caldo vengono spesso ottimizzate empiricamente. Viene modificato anche il
tempo di ciclo, ma il tempo in temperatura è di solito attorno ai 10-15 minuti. Se si
utilizzano una temperatura o un tempo di ciclo eccessivi, i diamanti possono subire danni.
Di solito si utilizza il riscaldamento per resistenza, ma è usato anche il riscaldamento per
induzione, particolarmente da parte delle aziende minori.
Il controllo della temperatura si effettua con una termocoppia o un pirometro.
Generalmente vengono impiegati stampi di grafite, ma si possono usare anche quelli di
acciaio. Gli stampi metallici sono utilizzati per le mole a legante metallico, per via delle
temperature più basse utilizzate in questo processo. Invece, nella produzione di segmenti
e a temperature elevate gli stampi di grafite offrono un’efficienza maggiore; gli ossidi
gassosi di carbonio proteggono contro l’ossidazione sia il metallo che il diamante.
Occorre sostituire frequentemente i punzoni di grafite, durante la produzione di una serie
di lotti, poiché essi si bruciano nel punto di entrata nello stampo, riducendo così la
sezione portante dei punzoni con conseguente cedimento meccanico. Un altro svantaggio
della grafite è che la carburizzazione può risultare indesiderabile, se la matrice contiene
ferro o altri metalli che formano carburi, con effetti imprevedibili sulle prestazioni
dell’utensile.
2.6.5 Sinterizzazione: infiltrazione
In generale l’infiltrazione viene utilizzata solo nella produzione di corone diamantate per
il settore minerario. Le quantità relative in volume di fase solida di scheletro (compattato
verde) e di infiltrante liquido dipendono in parte dalle proprietà fisiche richieste per la
corona diamantata. Poiché la forza motrice di penetrazione del metallo liquido nei pori è
un’azione capillare, il metallo, o lega, liquido deve "bagnare" e spandersi sulla superficie
del metallo solido. Se ciò non accade, o avviene troppo lentamente, ne risulterà una
corona diamantata scadente. I vantaggi dell’infiltrazione sono: (a) il raggiungimento di
una densità praticamente piena senza necessità di applicare una pressione esterna
eccessiva; (b) la combinazione di due componenti con punti di fusione molto diversi e (e)
la produzione di forme precise.
Questi vantaggi sono molto importanti nella produzione di questo tipo di corone
diamantate, poiché i segmenti utilizzati nel carotaggio minerario sono più grossi delle
corone impiegate nel settore delle costruzioni. Un altro motivo è che tutto il tubo di
carotaggio è prodotto al momento dell’infiltrazione, in cui il corpo di acciaio viene
inserito nei segmenti della corona in modo che l’infiltrante, oltre ad infiltrarsi nei
segmenti, forma un legame di tipo brasato col corpo di acciaio. Tuttavia, l’infiltrazione
comporta anche diversi problemi. A causa del flusso direzionale seguito dal metallo
liquido, mentre viene attirato dentro i pori, è possibile l’erosione della superficie sulla
quale l’infiltrante viene alimentato, in modo analogo a certi processi di colata.
Il riscaldamento prolungato, in seguito all’infiltrazione, può provocare il rigonfiamento
del compattato a causa delle reazioni metallurgiche che si verificano al suo interno. Per
questi motivi, i tempi del ciclo di infiltrazione devono essere mantenuti brevi.
Tipicamente si utilizzano temperature di infiltrazione di circa 15°C al di sopra del campo
di fusione.
2.6.6 Sinterizzazione: sinterizzazione libera
Alcune aziende utilizzano la sinterizzazione libera, che attualmente si sta diffondendo;
non è molto usata. Essa offre un vantaggio importante: non si utilizzano stampi di grafite,
il che comporta una riduzione consistente dei costi. Come elemento negativo, i segmenti
si devono pressare a freddo e, inoltre, a pressioni superiori rispetto a quelle usate per i
segmenti da pressare successivamente a caldo. Un altro svantaggio è il fatto che i tempi di
sinterizzazione sono più lunghi e può verificarsi l’assettamento dei segmenti.
2.6.7 Considerazioni sulla distribuzione delle grane di diamante
La distribuzione delle grane abrasive, nel nostro caso specifico diamante in polvere, nella
massa del legante, durante la fabbricazione di utensili diamantati, è stata ed è tuttora un
problema di non facile soluzione pratica.
Non è raro il caso di utensili diamantati, particolarmente se composti da segmenti, in cui
un lato del segmento abbia una concentrazione di punte superiore al lato opposto. E’
ovvio che la resa di un utensile in cui i granelli siano regolarmente distribuiti sarà
migliore di un utensile con irregolare distribuzione.
La difficoltà nella regolazione della distribuzione dei granelli di diamante è dovuta al
fatto che questa deve avvenire in seno ad un volume.
Tale problema non è tanto legato nella fase di miscelatura, la quale, anche se legata al
tipo di sistema meccanico usato e quantificabile solo in modo statistico, permette una
distribuzione delle grane più che soddisfacente, ma da tutte quelle fasi, successive alla
miscelazione, che comportano un scorrimento relativo del mix granulare finale.
Generalmente, nel processo di preformatura (stampaggio a freddo) dei segmenti
diamantati, e più specificatamente nel momento in cui si riempie la cavità dello stampo,
la miscela di polveri metalliche miste a granelli di diamante cade per gravità nella cavità
stessa. Quindi, dato che i granelli di diamante sono "individui estranei" sia come forma
che come grandezza, ed inoltre sono in quantità molto minore rispetto alla polvere (specialmente nel caso di granulometria del diamante non molto fine). Essi sono in qualche
modo liberi di muoversi relativamente fra loro in seno alla quantità di polvere metallica e
potrebbe accadere che, durante la caduta, abbiano una velocità diversa, dovuta alla loro
massa differente. Pertanto si verificherebbe nello stampo una distribuzione diversa da
quella esistente al momento della loro miscelatura in "mixer" o altro dispositivo. In
particolare ogni travaso della miscela da un recipiente all’altro varia la posizione relativa
dei granelli di diamante.
Naturalmente questo movimento relativo sarà più o meno facilitato a seconda del tipo di
grana di diamante, dalla sua dimensione, ed anche a seconda del tipo e dimensione dei
granelli elementari della polvere metallica. Una granulometria fine di polvere di diamante
naturale, miscelata con polvere metallica fine, i cui granelli elementari hanno forma
spugnosa o dendritica, avrà meno possibilità di movimento di quanto non abbia una
granulometria grossa di diamante sintetico, in seno ad una polvere metallica non molto
fine e con granelli di forma tondeggiante, questo è il caso tipico che si verifica quando si
impiegano polveri metalliche granulate.
In questo caso i granelli di diamante possono facilmente muoversi fra le particelle di
polvere granulare di forma sferica e non è raro il caso, specialmente nella preformatura di
segmenti diamantati, di ottenere un segmento stampato a freddo con i granelli diamantati
tutti concentrati su un lato.
Anche durante la riduzione di volume nella fase di compattazione a caldo, poiché i
granelli di diamante hanno sempre lo stesso peso specifico e quindi occuperanno sempre
lo stesso volume, la loro posizione può subire spostamenti rispetto alla geometria del
preformato. In pratica, per ovviare ad inconvenienti come sopra descritti, si adottano
accorgimenti atti a ridurre le possibilità di movimento dei granelli, durante i travasi della
miscela.
Tali accorgimenti possono essere di tipo meccanico utilizzando appunto sostanze coesive
quali cere, oppure operando con procedure di travasatura tali da minimizzare lo
stravolgimento della distribuzione ottimale. Tali procedimenti anche se riportano
riscontrabili benefici rimangono sempre dei processi affidati al caso e quindi
quantificabili solo statisticamente.
2.6.8 Fasi finali e controllo della qualità
Proseguendo con le rimanenti fasi del ciclo produttivo si incontra la burattatura, ossia la
sbavatura dei segmenti sinterizzati quindi la fase di brasatura o saldatura dei segmenti sui
supporti metallici o anime.
Per brasatura si intende quella ottenuta mediante apporto di leghe bassofondenti (leghe
all’argento) e generalmente eseguita con brasatrici ad induzione elettromagnetica (HF),
automatiche (o quasi). Per saldatura invece si considera l’unione del segmento al supporto
mediante fusione del metallo, ottenuta con raggio laser. Ambedue i procedimenti sono
abbastanza rapidi e ormai completamente automatizzati.
Il controllo di qualità investe varie fasi del ciclo produttivo.
Per quanto riguarda le polveri in entrata, il requisito per avere risultati affidabili e
riproducibili è un buon sistema di campionatura. Di solito si utilizza l’analisi per setaccio
della densità effettiva e apparente e della scorrevolezza della polvere.
Tali esami di solito non vengono effettuati dai piccoli produttori di utensili. In seguito alla
sinterizzazione, la verifica principale di controllo di qualità si limita di solito alle prove di
durezza. Come è risaputo, i semplici numeri di durezza non si possono affatto associare
direttamente con la resistenza all’usura dei diversi leganti. È importante il calcolo della
densità finale della matrice in quanto fornisce un’indicazione della porosità.
Altro controllo è quello relativo al fissaggio dei settori. E’ un controllo non distruttivo che
si effettua applicando ad ogni segmento saldato un momento flettente, il cui valore è (o
almeno dovrebbe essere) calcolato tenendo conto della sezione di saldatura (sez.
resistente), della distanza del punto di applicazione della forza, ed immettendo, nel
calcolo del momento resistente, un carico di sicurézza a flessione, relativo all’effettivo
materiale della sezione di saldatura (non è sempre facile). In fine si esegue un controllo
dimensionale dell’utensile diamantato in tutta la sua interezza.
2.7 Tipi di matrici metalliche
I metalli di base tipicamente utilizzati sono quelli elementari, per es. ferro, rame,
tungsteno, cobalto, nichel, o leghe di questi. Gli additivi più usati sono carbonio (grafite),
fosforo, titanio, molibdeno, stagno, cromo e niobio, dove gli abrasivi secondari più tipici
sono WC e WC-Co. Poiché il livello di resistenza all’usura necessario è legato al tipo di
applicazione, ci si assicura di coprire un’ampia gamma di queste, con combinazioni dei
componenti del legante sopra nominati, o modifiche al processo di produzione. Dove
esiste un problema di segregazione dei componenti, si utilizzano metalli prelegati o
parzialmente prelegati. Le matrici che comprendono polveri di più granulometrie e di
forma irregolare (per es. dendritiche, irregolari) forniscono un effetto d’intreccio, che le
rende più resistenti all’usura di quelle prodotte con polveri di una forma più uniforme e
con una distribuzione unimodale.
Si può lasciare appositamente un certo livello di porosità nel prodotto finale, in modo da
conferirgli determinate caratteristiche di "taglio libero".
2.8 Effetti della sinterizzazione sul diamante
Il processo di sinterizzazione può provocare il degrado del diamante. L’entità del degrado
dipende molto dalla temperatura di sinterizzazione, dalla composizione chimica della
matrice e dalla misura e distribuzione delle particelle metalliche. Negli utensili diamantati
il degrado del diamante inizia in generale intorno agli 800°C e può verificarsi sia in
superficie che all’interno. La grafitizzazione è la causa primaria del degrado termico nei
prodotti diamantati sinterizzati. In generale, quanto più fine è la grana, elevata la
temperatura e lungo il tempo di pressatura a caldo, tanto maggiore è l’entità della
grafitizzazione. Il cobalto, il tungsteno, il nichel e il ferro sono noti come generatori di
carburi, data la loro alta affinità con il carbonio. Quando questi metalli sono impiegati
nella matrice, l’integrità dei cristalli di diamante è compromessa dalla grafitizzazione
superficiale durante il ciclo di sinterizzazione. Invece, quando la sinterizzazione avviene
con matrici di rame, di stagno o di bronzo, l’integrità del diamante non viene
compromessa, a causa della loro scarsa affinità chimica.
Data la presenza di inclusioni metalliche nel diamante, il degrado è abbastanza rapido a
temperature superiori ai 1000° C e quindi è necessario fare attenzione, nella pressatura a
caldo, a temperature simili. Questi metalli sono necessari per la trasformazione diamantegrafite nel campo di temperature fra gli 850 e i 1000°C. Ciò indicherebbe che i diamanti
di qualità inferiore, che hanno in generale livelli più alti di inclusioni metalliche, si
degradano prima e più rapidamente di quelli di qualità superiore.
3 Forza ed energia nel taglio delle
pietre naturali
Si è affermato che per rendere sempre più efficiente una lavorazione per asportazione di
truciolo si richiede un’attenta valutazione di tutti i parametri di taglio. Tale valutazione
opera su due distinti fronti: da un lato la crescente necessità di massimizzare la velocità di
asportazione del materiale, garantendo così lavorazioni in tempi brevi e di conseguenza
una minore influenza sul costo della lavorazione stessa; dall’altro lato la necessità di
garantire una buona e soddisfacente finitura e qualità superficiale del prodotto lavorato;
aspetti spesso contrastanti: l’abbassamento dei costi di una lavorazione in seguito alla
scelta di operare a velocità piuttosto elevate comporta molto spesso il risultato di una
superficie lavorata non soddisfacente, addirittura danneggiata, danni dovuti alle forze a
cui è sottoposto il materiale stesso. Non potendo migliorare un aspetto senza pregiudicare
l’altro, nasce l’esigenza di sviluppare delle metodologie mirate alla ottimizzazione del
processo di taglio. L’ottimizzazione del processo di taglio vede coinvolti diversi fattori
connessi alle proprietà dell’utensile, della macchina e del materiale in lavorazione.
Ottimizzare in questo caso significa ridurre i costi della lavorazione e/o i tempi e/o la
qualità dei prodotti ottenuti agendo su diversi fattori, quali le forze di taglio, le proprietà
degli utensili, le temperature di processo e le vibrazioni.
In questo capitolo l’attenzione è rivolta alle forze generate durante il processo di taglio
delle pietre naturali mediante utensili diamantati. In particolare viene proposto un
modello in grado di valutare la forza e l’energia di taglio in funzione dei parametri di
processo. Tali modelli sono stati sviluppati a partire da considerazioni sulla cinematica
del processo di taglio. Il modello proposto consente di calcolare la forza e l’energia di
taglio in funzione dello spessore massimo di truciolo asportato dal singolo grano di
diamante. Tale modello e stato validato su un marmo denominato Perlato Royal di
Coreno mediante una campagna di prove sperimentali eseguita su un centro di lavoro
opportunamente strumentato.
3.1 Fenomeno della formazione del truciolo nel taglio delle pietre
naturali mediante utensili diamantati
Il processo di lavorazione delle pietre avviene attraverso la formazione di trucioli dovuta
alla distruzione della consistenza del materiale ad opera dell’utensile
L’interazione meccanica fra l’utensile e il pezzo genera forze di processo dovute
principalmente ai seguenti fattori[Ton99]:
• deformazione elastica e plastica della pietra da parte dei diamanti;
• attrito fra la pietra e i diamanti;
• attrito fra la pietra e la matrice;
• attrito fra gli sfridi e la matrice.
L’interazione tra l’utensile (diamante) e pietra genera l’asportazione di materiale che può
essere associato a due meccanismi differenti, come riportato in figura 3.1.
Una particella, impegnata nel processo abrasivo, è soggetta a sollecitazioni tangenziali,
sulla parete frontale (3), dovute all’impatto con il materiale nella direzione del moto di
taglio e da sollecitazioni a compressione, sulla parete di testa (4), generata dal materiale
per contrastare la penetrazione della particella in direzione ortogonale al moto stesso.
Nella zona frontale alla particella gli sfridi sono prodotti dalle sollecitazioni critiche “di
rottura” indotte dalle forze tangenziali sul materiale. Tale meccanismo è detto
formazione primaria di truciolo.
Nella zona di testa, la sollecitazione a compressione, generata sotto il diamante, deforma
il materiale da tagliare. Quando il carico viene tolto si ha un recupero elastico del
materiale, ciò produce sollecitazioni a trazione critiche, che provocano la frattura fragile.
Questo meccanismo, dovuto alle sollecitazioni a trazione, è chiamato formazione
secondaria di truciolo.
L’interazione tra utensile e pietra genera delle forze di processo che dipendono dalle
proprietà della pietra, dalle proprietà dell’utensile e dai parametri di processo. Forza ed
energia di taglio sono dei parametri importanti per lo studio e l’ottimizzazione del
processo di taglio. Queste hanno una influenza diretta sulle prestazioni dell’utensile,
sull’usura, sulla temperatura e sulla qualità del taglio. In letteratura esistono diversi studi
sul taglio delle pietre naturali. In questi lavori non si è giunti ancora ad un modello di
taglio universalmente riconosciuto.
Fig.3.1 Interazione meccanica fra utensile e pietra nel processo di taglio [Ton99].
Jerro riporta un approccio matematico per definire la geometria teorica del truciolo
prodotto dall’interazione tra il diamante e la pietra. [Jer99]. Tale approccio consente di
calcolare l’area e lo spessore medio di truciolo asportato dal singolo grano di diamante.
Sperimentalmente è stata, inoltre, trovata la relazione tra la forza di taglio e lo spessore
massimo di truciolo nel taglio lineare di granito mediante dischi diamantati sinterizzati.
Brach et al. hanno studiato la relazione tra le componenti della forza di taglio, misurata da
un dinamometro, e la potenza assorbita dal mandrino. Asche et al. mostrano uno studio
empirico dell’influenza dei parametri di processo sull’usura [Asc99]. Konstanty presenta
un modello di taglio di pietre naturali mediante dischi diamantati sinterizzati [Kon02].
Tale modello non è stato validato mediante una analisi sperimentale. Pai et al. mostrano
la relazione tra le forze e l’energia di taglio, misurata sperimentalmente, e la forma del
truciolo osservata mediante un microscopio a scansione [Pai89]. In nessuno di questi
lavori è stato possibile ricavare un modello in grado di valutare la forza e l’energia di
taglio nelle lavorazioni delle pietre naturali. La letteratura sulla rettifica di materiali
metallici e ceramici è più ricca rispetto a quella relativa al taglio di pietre naturali. La
rettifica è un processo simile al taglio delle pietre naturali mediante utensili diamantati
sinterizzati. Da tale analogia sono stati presi in considerazione alcuni lavori interessanti
sul processo di rettifica. Malkin propone un modello interessante tra la potenza assorbita
nella rettifica di materiali ceramici ed i parametri di processo [Mal99]. In particolare la
relazione tra l’energia specifica in rettifica e la geometria dell’abrasivo è riportata in
[Hwa99]. I lavori sulla rettifica di materiali metallici mostrano dei modelli per il calcolo
della forza di taglio [Ton92]. Tali modelli sono stati ricavati da considerazioni empiriche
[Che99] o fisiche [Law73]. In [Sha96] è riportata la proporzionalità tra l’energia specifica
di taglio in rettifica e lo spessore di truciolo.
Dai lavori analizzati è emerso che un aspetto importante nella determinazione della forza
e dell’energia di taglio è lo spessore di truciolo generato dal singolo grano di abrasivo.
Tale spessore dipende dalla cinematica del processo di taglio e dalle caratteristiche
geometriche dell’utensile. Si riporta, nel paragrafo successivo, l’approccio cinematico per
il calcolo dello spessore di truciolo e dei parametri collegati.
3.2 Approccio cinematico per il calcolo dello spessore di truciolo
La determinazione dello spessore massimo della sezione di truciolo è di fondamentale
importanza per le lavorazione delle pietre naturali, infatti da tale spessore dipende in
modo considerevole il valore della forza di taglio. Si è osservato che lo spessore di
truciolo dipende sia dalle variabili di processo impostate per la lavorazione, sia dai
parametri geometrici dell’utensile utilizzato. Questo significa che a giocare un ruolo
importante nella determinazione della sezione di truciolo sono: numero e forma dei grani
di diamante attivi. Secondo quanto riportato in [Jer99] la sezione di truciolo può essere
determinata considerando la cinematica del processo di taglio. La sezione di truciolo può
essere calcolata in base a considerazioni geometriche e non può essere misurata dopo la
lavorazione in quanto, per la natura fragile del materiale, il truciolo prodotto è fortemente
frammentato o polverizzato.
3.2.1 La sezione di truciolo
La forma di un ipotetico truciolo, considerato indeformato sotto l’azione del grano di
diamante, può essere schematizzata attraverso il suo spessore a la sua lunghezza. Il
volume totale del truciolo asportato dal singolo grano, assimilabile ad una virgola di
truciolo, figura 3.2, è pari alla quantità di materiale asportato:
Vmill = d p ⋅ f ⋅ b p
(3.1)
dove: dp è la profondità di taglio
f è la velocità di avanzamento
bp è la larghezza del pezzo in lavorazione:
Vmill = d p ⋅ f ⋅ b p = C ⋅ b p ⋅ vt ⋅V0
dove
(3.2)
C è la densità della distribuzione dei grani attivi sulla superficie della
fresa
vt è la velocità di taglio
V0 è il volume medio di un truciolo
Fig 3.2 – Schema di taglio e forma del truciolo
Se lo spessore massimo del truciolo è hc, la larghezza media del truciolo è bc e la
lunghezza del truciolo è lc (lunghezza dell’arco di contatto), il volume massimo del
truciolo risulta essere:
1
V0 = ⋅ hc ⋅ bc ⋅ lc
6
(3.3)
La lunghezza del truciolo lc può essere approssimata con la lunghezza del contatto
cinematico come:
lc =
d
⋅θ
2
dove d è il diametro dell’utensile
⎡
θ = cos −1 ⎢1 −
⎣
2d p ⎤
⎥
d ⎦
(3.4)
Dalle equazioni (3.2) e (3.3), considerando il rapporto di forma del truciolo: r = bc /hc si
ha:
1
Vmill = d p ⋅ f ⋅ b p = ⋅ C ⋅ b p ⋅ vt ⋅ r ⋅ lc ⋅ hc2
6
(3.5)
ed il massimo spessore del truciolo risulta essere uguale a:
hc =
6⋅d p ⋅ f
C ⋅ r ⋅ vt ⋅ l c
(3.6)
dalla 3.6 si nota la dipendenza dello spessore massimo di truciolo dai parametri di
processo (dp, f e vt) e dai parametri dell’utensile (C ed r).
Questo significa che l’utensile influenza la sezione del truciolo con la densità di grani di
diamante attivi (C) e la forma della sezione del truciolo (r).
La determinazione dello spessore massimo della sezione di truciolo richiede quindi la
determinazione di “C” e di “r”, una volta fissati i parametri di processo.
3.2.2 La densità dei grani attivi (C)
Un utensile diamantato è caratterizzato dalla concentrazione di diamanti cd e dalla mesh
(#). Questi due parametri possono essere utilizzati per calcolare la variabile C per mezzo
del seguente metodo.
I grani di diamante sono rappresentati schematicamente con delle sferette, e si è assunta
una distribuzione uniforme sulla superficie cilindrica dell'utensile (come riportato in
figura 3.3).
Il primo passo è il calcolo del diametro medio del diamante, dalla relazione [Sha96]:
#*dgrain = 0.7
(3.7)
dove dgrain è il diametro medio di un grano di diamante in pollici.
Fig 3.3 – Schema rappresentativo della fresa.
Il volume corrispondente è pari a:
Vgrain
⎛ d grain
4
= ⋅ π ⋅ ⎜⎜
3
⎝ 2
⎞
⎟⎟
⎠
3
(3.8)
mentre il peso corrispondente è
wgrain = Vgrain ⋅ ρ s
(3.9)
3
dove ρs è il peso specifico del diamante ( 3.52 g/cm ).
Inoltre, un carato è pari a 0.2 g, la superficie dell'utensile è costituita da un numero di
grani:
n grains =
[cd ⋅ (π ⋅ d ⋅ htool ) ⋅ 0.2]
wgrain
(3.10)
Dalla 3.10, la variabile C è pari a
C=
n grains
π ⋅ d ⋅ htools
=
cd ⋅ 0.2
wgrain
(3.11)
Inoltre, la distanza tra due grani consecutivi λ, che si è assunta essere uguale sia in
direzione assiale che in direzione radiale, può essere calcolata per mezzo del sistema
seguente:
rgrain ⋅ c grain = n grain
(3.12)
rgrain ⋅ d grain + rgrain ⋅ λ = π ⋅ d
(3.13)
c grain ⋅ d grain + c grain ⋅ λ = htool
(3.14)
dove: rgrain ed cgrain sono le file nelle direzioni radiale e assiale dei grani
htool è l'altezza dell’utensile
Questo sistema di equazioni permette di calcolare [rgrain], [cgrain] e λ.
3.2.3 Il rapporto di forma della sezione del truciolo (r)
Il parametro “r” è definito come il rapporto tra la larghezza bc e l'altezza h della sezione
del truciolo r = bc /hc.
La forma del truciolo, come detto precedentemente, non può essere misurata in quanto la
lavorazione sulla pietra produce sfridi di dimensione piccolissime dovute alla
frammentazione del truciolo generato dal singolo grano.
Durante il taglio ogni singolo grano di diamante rimuove del materiale lasciando un solco
sul pezzo, si evidenzia quindi una impronta la cui geometria è collegata con la forma del
truciolo. E’ possibile quindi ottenere la geometria della sezione del truciolo analizzando
la curva del profilo lasciato dai grani di diamante sul pezzo, come si vede in figura 3.4.
Una volta realizzato il taglio, la superficie ottenuta deve essere misurata con il
rugosimetro, che ne acquisisce un profilo da cui ricavare i parameri geometrici richiesti.
Un valore medio del parametro r può essere calcolato come il rapporto tra Sm(R) e le
variabili di rugosità Rz :
r=
S m ( R)
Rz
(3.15)
Sm(R) è lo spazio medio tra le irregolarità del profilo all’interno della lunghezza di
campionamento, Rz è il valore medio tra i valori assoluti delle altezze di cinque picchi
più alti e le profondità di cinque valli più profonde, entro la lunghezza di campionamento
(ISO 4287/1).
Fig 3.4 – Profilo della superficie di taglio
3.3 Modelli di taglio
L’analisi dello stato dell’arte, riferita principalmente alla rettifica di materiali ceramici, ha
messo in evidenza che le componenti principali della forza di taglio dipendono dallo
spessore massimo di truciolo hc calcolato in base alla relazione 3.6. Le due componenti
principali della forza di taglio, figura 3.5, possono essere calcolate in base alla relazione:
υ
Ft = K t ⋅ h c t
(3.16)
Fn = K n ⋅ hcυ n
Dove Kt e Kn sono due coefficienti della forza di taglio,
(3.17)
υt
e
υn
sono costanti. Queste
due relazioni sono valide per differenti velocità di avanzamento dell’utensile e dipendono
dai parametri di processo mediante lo spessore massimo di truciolo e dalle proprietà
dell’utensile e della pietra.
Ft
Pietra
Fx
Fn
δ
R
Fy
f
θ
Vt
Fig 3.5 – Componenti della forza di taglio
L’energia specifica di taglio dipende dalla componente tangenziale della forza di taglio e
dalla velocità di taglio. L’energia specifica di taglio è data dal rapporto tra la potenza di
taglio e il volume di materiale asportato nell’unità di tempo dall’utensile mediante la
relazione:
Ec =
Ft ⋅ vt
f ⋅ d p ⋅b
(3.18)
L’energia specifica di taglio è un parametro mediante il quale è possibile calcolare la
componente della forza di taglio nella direzione della velocità di taglio dell’utensile è può
essere calcolata mediante la relazione:
υ
Ec = Ke ⋅ hc e
con Ke è il coefficiente dell’energia di taglio,
(3.19)
υe è una costante.
3.4 Validazione dei modelli di taglio
I modelli di taglio proposti al paragrafo precedente sono stati valicati mediante delle
prove di taglio con fresa e disco diamantato utilizzando un centro di lavoro a controllo
numerico opportunamente strumentato. Le prove di taglio, effettuate sul marmo
denominato Perlato Royal Coreno, hanno messo in evidenza la bontà dei modelli proposti
consentendo di determinare i coefficiente e le costanti riportate nei modelli stessi.
3.4.1 Sviluppo dell’hardware di acquisizione
Per validare i modelli di taglio si è messo a punto, su di un centro di lavoro a controllo
numerico, un sistema di misura in grado di monitorare la forza di taglio al variare dei
parametri di processo. Il sistema di misura è costituito dai seguenti elementi:
• la macchina a controllo numerico CMS Junior;
• il dinamometro Kistler 9257BA;
• controller;
• morsettiera CB-68LP della National Instruments;
•
scheda di acquisizione per PC: 6034E della National Instruments.
La macchina utensile “modello Junior”, in dotazione presso il Laboratorio di Tecnologia
e Sistemi di Lavorazione, dell’Università degli Studi di Cassino, prodotta dalla CMS
Tecnometal S.r.l., (fig.3.6) è stata progetta e costruita con lo scopo di semplificare e
facilitare le lavorazioni su materiale come il vetro, i ceramici e le pietre naturali,
lavorazioni di taglio, fresatura, foratura, molatura, lucidatura.
Le lavorazioni vengono effettuate tramite una testa operatrice che si muove lungo i tre X,
Y, Z, consentendo la massima flessibilità. L’elettromandrino, componente primario della
testa operatrice, ha una potenza di 13,5 kW e un numero di giri massimo di 15.000
giri/minuto, permettendo una precisa finitura anche nelle condizioni di lavorazione più
difficili e complicate.
Il dinamometro Kistler 9257BA (fig. 3.7) è costituito da quattro sensori di forza al quarzo
che permettono di misurare le tre componenti ortogonali di una forza R. Esso è collegato
ad un’unità di controllo 5233 A1 attraverso la quale si può selezionare il fondo scala di
forza previsto, per le forze Fx, Fy ed Fz.
Fig. 3.6 - Macchina utensile a controllo numerico (modello Junior della CMS”
Fig. 3.7 - Dinamometro Kistler 9257BA.
La morsettiera CB-68LP della National Instruments permette di prelevare i dati acquisiti
dal dinamometro, sui canali di uscita 0,1,2, segnali che vengono poi inviati al PC (fig
3.8).
Fig. 3.8 – Morsettiera CB-68LP
Il sistema di acquisizione implementato sulla macchina utensile può essere schematizzato
come in figura 3.9.
Il sensore, installato sulla macchina a controllo numero CMS Junior, è costituito da un
dinamometro Kistler Type 9257BA, in grado di rilevare le forze su di esso applicate,
attraverso dei sensori piezoelettrici per le direzioni X, Y, Z, i quali emettono dei segnali
di tensione in proporzione allo sforzo da essi letto.
Il provino in pietra naturale viene fissato rigidamente al sensore attraverso un sistema di
afferraggio opportunamente progettato per questa tipologia di prove (fig 3.10).
Fig. 3.9 – Schema del sistema di acquisizione delle forze
Fig. 3.10 – Complessivo dinamometro, sistema di afferraggio, provino
L’utensile durante la lavorazione induce al materiale delle forze di taglio che vengono
rilevate dai sensori piezoelettrici del dinamometro; la tensione che ne deriva viene
trasmessa ad un controllore che ha la funzione suddividere il segnale su tre connettori
distinti, corrispondenti alle tre direzioni X,Y e Z (fig. 3.11).
Fig. 3.11 – Controller Kistler
Inoltre il controller ha la funzione di ridurre il segnale ad una tensione di ± 5V, segnale
che può essere così rilevato dal sistema di acquisizione dati della National Instruments
costituito da una scheda esterna al PC: CB-68LP, che comprende una serie di morsetti sia
di input che di output, collegata alla scheda interna al PC: 6034E che permette di gestire
così i dati via software.
Per poter gestire i dati acquisiti dal dinamometro durante la lavorazione di fresatura è
stato realizzato, in ambiente LabView (National Instruments), un software in grado di
rilevare, gestire e registrare le forze, ottenendo così lo strumento di misura virtuale.
3.4.2
Implementazione del software
Fase importante per la realizzazione dello strumento di misura è la realizzazione di un
opportuno software che permette di rilevare e trattate i segnali provenienti dalla
lavorazione per asportazione di truciolo.
Il software è stato studiato e realizzato in ambiente Labview, su misura per le esigenze di
misura delle forze rilevate dal sensore rappresentato dal dinamometro a piattaforma
piezoelettrica..
Fig. 3.12– Sistema di riferimento triassiale per il dinamometro Kistler 9257BA
La cella di carico è in grado di rilevare le forze lungo le tre direzioni x, y e z (fig. 3.12)
durante la lavorazione, è quindi necessario attivare tre canali di acquisizione sulla scheda
CB-68LP, per i quali si è fatta la scelta di renderli disponibili in modo indipendente via
software.
Il punto di partenza del programma è rappresentato dall’istruire il software sul sistema di
acquisizione previsto, indicando con un’opportuna istruzione la presenza di una scheda
esterna per la quale si avrà la possibilità di selezionare il codice corrispondente al canale
dati che si desidera attivare. In particolare per questo sistema di acquisizione si potranno
attivare i canali 0,1,2 corrispondenti agli assi x,y,z.
Successivo studio è stato quello di gestione del singolo canale dati, suddividendo il
cammino del segnale in tre passi fondamentali:
• selezione della scala della forza
• registrazione su file dei dati acquisiti
• rappresentazione grafica del segnale rappresentante il carico, nel tempo di
prova
Il pannello frontale dello strumento virtuale realizzato è rappresentato in figura 3.13:
Fig. 3.13 – Pannello grafico dello strumento virtuale
Esso si può considerare suddiviso in sei aree fondamentali.
Scheda. Consente di selezionare il tipo di scheda presente nel PC.
Canali da attivare. Consente di definire i canali di acquisizione in quanto la scheda
presente nel sistema può prevedere più canali d’ingresso dei segnali; in particolare sono
stati utilizzati, per i rilievi lungo gli assi X, Y e Z, i canali: 0,1,2
Numero di campione per canale. Il “numero di campioni per canale da acquisire”
definisce il numero di acquisizioni che si vogliono ottenere, per canale, durante la prova
di taglio: impostando ad esempio il valore 10000 si acquisiscono, durante la lavorazione,
10000 dati, lungo gli assi X, Y, e Z ottenendo così tre vettori colonna.
Una volta stimato il numero di dati da acquisire, viene impostata la velocità di
acquisizione dei dati da parte del sistema. Mantenendo ad esempio il numero di 10000
dati da acquisire, se questi dati si vogliono acquisire in 10 secondi, si imposta il valore di
“scan rate” pari a 1000, ottenendo così un tempo di scansione pari a: 10000/1000 = 10
sec.
Fig. 3.14 – Area del pannello grafico
L’area rappresentata in figura 3.14 riproduce il pannello frontale del controller. Per
effettuare l’acquisizione è necessario, sia fisicamente sul controller, che virtualmente su
tale pannello, selezionare il massimo sforzo sopportabile lungo gli assi durante la
lavorazione per asportazione di truciolo.
La scheda di acquisizione della National Instruments ricevere infatti dei segnali elettrici
di tensione nel range di 10 Volts quindi il controllore ha il compito di dare come segnale
di output una tensione di ± 5V .
Nell’esempio riportato in figura 3.13, avendo selezionato la scala
500 N
, ci si aspetta,
mV
10
N
lungo gli assi X e Y che il carico applicato sia inferiore a 500N, per tale scala selezionata
il controller emette una tensione pari a 10mV per ogni Newton applicato sul
dinamometro. Il controller fisico, attraverso la selezione di questa scala, si preoccuperà di
divide per 100 ogni Newton di misura in modo da dare come segnale di uscita 0,01Volts
per ogni N, considerando infatti uno sforzo di misura di 500N:
500
= 5V si ottiene così
100
la massima tensione disponibile per questo specifico settaggio.
La selezione della scala via software permette invece di ottenere i dati direttamente in
Newton, il programma, in funzione della scala scelta si preoccuperà di moltiplicare
opportunamente i dati ricevuti dal sistema di acquisizione. Nell’esempio in figura il
software si preoccuperà di moltiplicare per 100 ogni valore di tensione letto dai sensori.
Analogamente, per l’asse Z, avendo selezionato la scala 1Z, si può misurare, sull’asse
corrispondente, uno sforzo massimo 1KN a cui corrisponde una tensione massima di
uscita sempre di 5V, infatti il controllore fisico divide per 200 ogni Newton di misura in
modo da dare come segnale di uscita 0,005V per ogni N, mentre la selezione virtuale
permette di ottenere i dati in Newton.
Salvataggio dati. In questa zona del pannello frontale sono inoltre presenti delle caselle
in cui è possibile dare il percorso corretto di salvataggio dei dati Il programma si
preoccuperà quindi di salvare i dati, corrispondenti per ogni canale, su tre files differenti
per i quali l’operatore può decidere il nome da attribuire.
Assi da calibrare. Riscontrata una notevole sensibilità da parte del dinamometro sopra
descritto, nasce la necessità di ripulire il segnale acquisito dai rumori di fondo presenti
durante la lavorazione per asportazione di truciolo. Rumori di fondo che sono attribuibili
alla vibrazioni del piano su cui è fissato il dinamometro stesso, la presenza del fluido
refrigerante durante la lavorazione, ecc.
Questi rumori di fondo possono essere misurati effettuando una prova di taglio a vuoto,
cioè senza la presenza del provino; il dinamometro misurerà degli sforzi lungo gli assi X,
Y, Z che non riguardano la lavorazione meccanica. Effettuando quindi una prova a vuoto,
si leggeranno nelle caselli corrispondenti alla sezione ASSI DA CALIBRARE i valori di
tensione rilevati dal dinamometro, cioè il rumore di fondo.
Nella sottostante sezione COSTANTI DI CALIBRAZIONE, inserendo i valori sopra letti,
il software si preoccuperà di detrarre dai valori ottenuti durante la lavorazione, il rumore
di fondo determinato. Per una corretta valutazione delle costanti di calibrazione è
necessario effettua più prove a vuoto al fine di determinarne un valore medio.
La sezione ASSI CALIBRATI fornirà quindi importanti informazioni sulla validità della
prova di taglio. Infatti, dopo aver individuato le costanti di calibrazione, si effettua una
nuova prova di taglio a vuoto, tale prova si potrà ritenere ben ripulita dai umori di fondo
se, nelle caselle della sezione “assi calibrati”, si legge, per ogni asse un valore di tensione
prossimo allo zero.
Grafico delle forze. Infine è presente un’area grafica dove è possibile visualizzare
l’andamento delle forze rilevate durante la prova. Ogni canale, corrispondente allo
specifico asse, è contrassegnato da un colore differente ed indicato nella legenda a lato
del grafico stesso (fig. 3.15).
Fig. 3.15 – Area grafica degli sforzi rilevati
3.5 Misura della forza di taglio
Lo strumento di misura consente di calcolare le componenti della forza di taglio lungo gli
assi X, Y, Z. Da tali componenti è possibile ricavare la risultate delle forze scambiate tra
utensile e pezzo e le componenti della forza di taglio nella direzione tangenziale e
normale al moto di taglio.
3.5.1
Componenti della forza di taglio
La misura delle componenti della forza di taglio è stata effettuata durante il taglio della
pietra naturale, utilizzando un dinamometro posizionato sotto il pezzo in lavorazione,
determinando così le componenti ortogonali della forza (figura 3.5):
Fy: forza risultante nella direzione di avanzamento
Fx: forza risultante normale alla direzione di avanzamento (per la fresa, figura 3.5)
Fz: forza risultante normale alla direzione di avanzamento (per il disco)
La risultante R di queste componenti sarà:
R = Fx2 + Fy2
per la fresa
R = Fz2 + Fy2
per il disco
Le forze Fx ed Fy, rilevate dal dinamometro, si possono considerare come somma delle
forze esercitate da ogni singolo dente in presa, figura 3.16, lungo l’arco di contatto tra
utensile e pietra:
Fx = ∑ Fxi
i
Fy = ∑ Fyi
i
Fig. 3.16 – Denti in presa
da cui è possibile determinare, nell’ipotesi che tutti i denti in presa esercitino lo stesso
sforzo, la forza esercitata da ogni dente:
Fxdente =
Fx
N
Fy dente =
Fy
N
dove N: è il numero totale di denti in presa N = C ⋅ A dove A è l’area di contatto.
3.5.2
Forza principale di taglio ed energia specifica di taglio
La risultante R si scompone in due componenti, la forza tangenziale Ft e la forza normale
Fn (in direzione radiale).
La componente che determina il taglio è appunto Ft, da cui l’energia specifica di taglio:
Ec =
Ft ⋅ Vt
f ⋅b ⋅ d p
dove Ft: forza tangenziale
Vt: velocità di rotazione della fresa
f: velocità di avanzamento
b: larghezza del truciolo
dp: profondità di passata
Fig. 3.17 – Componenti tangenziale e normale della forza di taglio
Ottenuta la risultante R si vuole determinare la componente Ft e la componente Fn il cui
valore cambia a seconda del punto di applicazione, lungo l’arco di contatto, della
risultante R. Si introduce un parametro K che dipende appunto dalla posizione del punto
di applicazione della risultante R sull’arco di contatto tra utensile e pezzo in lavorazione.
Ft
Pietra
Fx
Fn
δ
R
Va
Fy
A B
θ
θ
C
Vt
Fig. 3.18 – Componenti tangenziale e normale sotto l’ipotesi di piccole profondità
di passata
Dalla figura 3.18 si ottiene:
AB
;
AC
Ft = R ⋅ sin δ ;
K=
Fn = R ⋅ cos δ .
sia β l’angolo tra R ed Fx
⎞
⎟⎟
⎠
risulta δ = β − Kθ ; la determinazione di δ dipende quindi strettamente da K.
⎛ Fy
⎝ Fx
β = tan −1 ⎜⎜
In [Sha96] il valore di K è stato determinato sperimentalmente ed è compreso tra 0,4 0,6.
3.6 Fase sperimentale
Le prove sperimentali sono state effettuate con un centro di lavoro a controllo numerico
CMS Junior; il materiale sul quale è stato effettuato il taglio è il marmo Perlato Royal di
Coreno, le forze di taglio Fx ed Fy sono state misurate con un sistema di acquisizione
costituito da un dinamometro a piattaforma piezoelettrica della Kistler (tipo 5297BA), da
un controllore di segnali A/D e da un PC per la registrazione e gestione dei dati.
3.6.1 Proprietà del materiale
Il materiale utilizzato nella presente sperimentazione è un materiale lapideo del
comprensorio estrattivo del basso Lazio, noto con la denominazione commerciale di
“Perlato Royal di Coreno”, nella tabella 3.1 sono riportate le principali caratteristiche
fisico-meccaniche.
È composto per il 99 % da carbonato di calcio (CaCO3) che come noto ha costituito il più
antico caso di polimorfismo identificato in composti naturali. Il polimorfismo è un
fenomeno ampio e complesso nel quale sono coinvolti molti aspetti di natura sia chimica
che fisica. In chimica un elemento o un composto è definito polimorfo se esso può
esistere allo stato condensato, almeno con due differenti modi di organizzazione spaziale
degli atomi o molecole, che non siano l’uno il simmetrico dell’altro; ognuno di tali è detto
modificazione polimorfa o fase e soltanto uno di essi è stabile entro un determinato
intervallo di condizioni chimiche e termodinamiche. La stabilità contemporanea di più
fasi in equilibrio tra loro è fissata solo per condizioni particolari (punti tripli nei
diagrammi di fase). L’uso del termine “fase” è tecnico e di origine chimico-fisica, come
nella regola delle fasi. Essa fa esplicitamente riferimento al fatto che ciascuna
modificazione polimorfa ha almeno una caratteristica fisica (colore, densità, suscettività
magnetica, ecc.) in base alla quale esso può essere meccanicamente separata, almeno in
via di principio, da ogni altro materiale con il quale esso si trova associato o mescolato.
Tipo di prova
normativa
Analisi
petrografica
Massa volumica
apparente
Assorbimento, %
in peso
Resistenza
a
flessione
EN 12407
Unità
di condizionamento Valori medi
misura
Calcare Bio-Micritico (a Briozoi e Litotamni)
ASTM C 97
Kg/m3
2671.40
ASTM C 97
%
0.57
ASTM C 880
MPa
a ASTM C 170
MPa
Resistenza
compressione
Dry
Wet
Dry
Wet
Dry
Modulo
di ASTM C 1352 MPa
elasticità
a
Wet
flessione
Resistenza
ASTM C 241
Ha
Dry
all’abrasione
Microdurezza
UNI 9724/6
MPa
Knoop
Prova di rottura R.D. 2234/39
cm
per urto
Coefficiente di ASTM E 831
°C-1
dilatazione
termica lineare
Tabella 3.1 - Caratteristiche del Perlato Royal di Coreno
12.62
15.78
166.79
157.13
60799.8
56429.2
29.87
1904.0
49.0
2.1*10-6
Il marmo in generale è una roccia metamorfica essenzialmente composta da calcite che
deriva dalla ricristallizzazione, in ambiente di elevata temperatura e pressione, di
preesistenti formazioni calcaree. La roccia, dal tipico aspetto saccaroide, è formata per
giustapposizione di granuli calcitici, di dimensioni variabili, tra di loro fortemente
compenetrati a dare la caratteristica struttura cristalloblastica tipica delle rocce
metamorfiche.
La tipica forma in cui si manifesta in natura il carbonato di calcio è la calcite. Questo
minerale assume diverse colorazioni , ma generalmente è bianco o incolore; anche la
forma e le dimensioni del cristallo sono estremamente variabili, assumendo quasi ogni
forma trigonale possibile: scalenoedra, romboedra, esagonale e pinacoide. La calcite non
è il solo minerale di carbonato di calcio; dal suo metamorfismo si possono avere
aragonite (struttura ortorombica) e laterite ( esagonale) che come detto presentano sempre
la stessa composizione chimica ma organizzata in strutture diverse. L’aragonite è un
minerale comune ma molto meno della calcite in quanto questa è molto più stabile in
parecchie condizioni di temperatura e pressione. Al contrario la laterite è estremamente
rara in natura e dunque difficile da osservare se non in ben precise circostanze.
3.6.2 Proprietà degli utensili
Gli utensili oggetto di studio sono: la fresa a codolo “diametro 20 mm) ed il disco
(diametro 180 mm) riportati in figura 3.19. Tali utensili sono stati utilizzati nel presente
lavoro per la determinazione della forza di taglio generata durante la lavorazione del
Perlato Royal di Coreno.
Fresa a codolo
Disco a settori diamantati
Fig. 3.19 - Utensili da taglio
I due utensili sono stati caratterizzati con lo scopo di determinare la granulometria, la
protrusione, la forma e la concentrazione del diamante disperso sull’utensile.
L’analisi della geometria degli utensili è stata effettuata mediante un microscopio ottico,
LEICA VMM200, dotato di un sistema di movimentazione e misura lungo i tre assi, con
un ingrandimento 100x si è osservata una popolazione di 20 diamanti, in tre zone distinte
dell’utensile, per un totale di 60 grani. Per ogni grano si è misurato il diametro, ottenuto
mediante una circonferenza approssimante la geometria del grano, e l’altezza di
protrusione (distanza tra l’estremità superiore del grano e la superficie del legante). I due
utensili sono caratterizzati da grani di diametro medio pari a 0,458 mm e 0,288 mm
rispettivamente per la fresa e per il disco e da una altezza di protrusione media pari a
0,279 mm, e 0,123 mm rispettivamente per la fresa e per il disco. Per determinare la
concentrazione di diamante (numero di diamanti per unità di superficie) sono state
effettuate, in tre zone distinte sulla superficie dell’utensile, delle micrografie mediante un
microscopio a scansione elettronica. La concentrazione media di diamante per le due
tipologie di utensili è pari a 4,77 diamanti/mm2 e 5,11 diamanti/mm2 rispettivamente per
la fresa e il disco.
3.6.3 Piano sperimentale
I valori dei parametri di processo previsti per la campagna di prove sono stati scelti
prendendo in considerazione le variabili di processo più comunemente utilizzate nei
processi industriali. In tabella 3.2 è riportato il piano sperimentale.
La scelta di considerare un unico numero di giri sia per la fresa sia per il disco, variando
invece la velocità di avanzamento, deriva dal fatto che in azienda si preferisce interviene
spesso soltanto su quest’ultimo parametro f e non sul numero di giri dell’utensile. Il range
di variazione della velocità d’avanzamento è stato valutato fissando come valore minimo
200 mm/min e valore massimo 600 mm/min, in quanto una velocità di avanzamento
inferiore a 200 mm/min. comporta per l’azienda una velocità di produzione troppo bassa.
Al contrario superare i 600 mm/min, pur se guadagnando in termini di tempo di
produzione, si ottiene una qualità superficiale scadente del prodotto lavorato.
Ogni taglio è stato replicato tre volte, producendo un totale di 252 misure della forza;
inoltre i tagli sperimentali sono stati operati in una sequenza a caso, per ridurre l’effetto di
alcuni possibili errori sistematici.
Profondità di passata [mm]
0,01-0,02-0,03-0,04-0,05-0,06-0,07-0,08-0,090,10-0,20-0,30-0,40-0,5’-0,60-0,70-0,80-0,901,00-2,00-3,00-4,00-5,00-6,00-7,00-8,00-9,0010,00
avanzamento 200-400-600
Velocità
di
[mm/min]
Numero di giri della fresa 3000
[giri/min]
Numero di giri del disco [giri/min] 2000
Tab. 3.2 – Campagna di prove sperimentali
3.7 Analisi dei risultati
Ricavati le componenti della forza di taglio, queste vengono messe in relazione con i
parametri profondità di passata (dp) e velocità di avanzamento (f) al fine di evidenziarne
una definita dipendenza funzionale. Vengono quindi di seguito riportati i grafici ottenuti
plottando le componenti Fx, Fy ed Fz, registrate durante il taglio con fresa e disco, in
funzione della profondità di passata, per le tre velocità di avanzamento previste nel piano
degli esperimenti, 200, 400 e 600 mm/min.
In figura 3.20 si riporta l’andamento di Fx ed Fy relativi al taglio con fresa al variare dei
parametri di processo sopra detti.
f= 200 mm/min
1800
1600
Fx, Fy [N]
1400
1200
Fx
1000
Fy
800
600
400
200
0
0
2
4
6
8
10
12
profondità di passata [mm]
a)
f=400 mm/min
1800
1600
Fx, Fy [N]
1400
1200
1000
Fx
800
Fy
600
400
200
0
0
2
4
6
8
profondità di passata [mm]
b)
10
12
f=600 mm/min
1800
1600
Fx, Fy [N]
1400
1200
1000
Fx
800
Fy
600
400
200
0
0
2
4
6
8
10
12
profondità di passata [mm]
c)
Fig. 3.20 – (utensile fresa); Andamento delle componenti della forza di taglio in funzione
della profondità di passata per i tre valori della velocità di avanzamento: a)200, b)400,
c)600 mm/min.
Come si evidenzia dai grafici, relativi al taglio realizzato con la fresa a codolo, la
componente della forza di taglio, in direzione dell’avanzamento della fresa, risulta minore
della componente ortogonale Fx, questo avviene fino ad una profondità di passata di circa
3mm a cui corrisponde un angolo dell’arco di contatto pari a 45°. Superata tale profondità
di passata si osserva un andamento differente per le due componenti, in particolare Fy
cresce, mentre la componente Fx, ortogonale alla direzione di avanzamento della fresa,
tende invece ad un valore costante. Inoltre i valori di forza sopra riportati crescono, come
si evidenzia nei grafici di figura 3.20, a parità di profondità di passata, al crescere della
velocità di avanzamento, dimostrando con ciò una dipendenza delle forze con entrambi i
parametri di processo dp e f.
Analogo discorso si verifica per le forze registrati durante il taglio con il disco, come
evidenziato dai grafici di figura 3.21.
f = 200 m m /m in
140
120
Fy, Fz [N]
100
80
Fy
60
Fz
40
20
0
0
2
4
6
8
profondità di passata [m m ]
a)
10
12
f= 400 mm/min
140
Fy, Fz [N]
120
100
80
Fy
60
Fz
40
20
0
0
2
4
6
8
10
12
profondità di passata [mm]
b)
f= 600mm/min
140
120
Fy, Fz [N]
100
80
Fy
60
Fz
40
20
0
0
2
4
6
8
profondità di passata [mm]
10
12
Fig. 3.21 – (Utensile Disco); Andamento della forza di taglio in funzione della profondità
di passata per i tre valori della velocità di avanzamento:a)200, b)400, c)600 mm/min.
Come si evidenzia dai grafici relativi all’utilizzo del disco a settori diamantati, figura
3.21, la componente della forza di taglio, in direzione dell’avanzamento del disco, Fy,
risulta essere sempre minore rispetto alla componente ortogonale Fz; in particolare, Fy
tende ad un valore costante all’aumentare della profondità di passata, mentre Fz cresce
secondo una legge di tipo esponenziale. Fenomeno che si presenza per tutti e tre i valori
della velocità di avanzamento, 200, 400 e 600 mm/min, inoltre, come evidenziato per la
fresa, anche per il disco Fy ed Fz crescono al crescere di f.
L'analisi ANOVA effettuata sui dati ha sottolineato infatti che tutte e due le variabili,
velocità di avanzamento (f) e profondità di taglio (dp), influenzano significativamente le
componenti Fx, Fy ed Fz rilevate dal dinamometro durante la lavorazione. L’aumento della
profondità di taglio o della velocità di avanzamento, causa, in entrambi i casi, un aumento
di tali componenti. In particolare, la profondità di passata sembra avere un effetto
maggiore sulla forza, rispetto alla velocità di avanzamento, come evidenziato dal
parametro F nelle tabelle 3.3 e 3.4.
Source DF
SS
AdjMS F
dp
f
dp*f
Error
Total
53.916
1.764
0.302
0.016
55.998
1.997
0.882
0.0056
0.0001
27
2
54
168
251
p
21000 0
9107 0
57.68 0
Tab. 3.3 – Risultati ANOVA per Fy
Source DF
SS
AdjMS F
dp
f
dp*f
Error
Total
112.04
1.976
0.802
0.017
114.86
4.150
0.988
0.015
0.001
27
2
54
168
251
p
41000 0
9860 0
151.5 0
Tab. 3.4 – Risultati ANOVA per Fx
L’aumento della profondità di passata e della velocità di avanzamento, causa per entrambi
gli utensili un aumento delle forze rilevate dal dinamometro durante il taglio; dipendendo
quindi da entrambi i parametri di processo, la loro influenza è stata sintetizzata in un
unico parametro: il volume di materiale asportato nell’unità di tempo, Q.
Si rappresenta graficamente, figura 3.22 e figura 3.23, l’andamento delle componenti
3
della forza di taglio ottenuti in funzione di Q = d p ⋅ f ⋅ b ⎡⎢ mm ⎤⎥
⎣ min ⎦
Fresa a codolo
1800
1600
Fx, Fy [N]
1400
1200
Fx
1000
Fy
800
600
400
200
0
0
20000
40000
60000
80000
100000 120000 140000
3
Q [mm /min]
Fig. 3.22 – (Fresa): Andamento degli sforzi rilevati in funzione del volume di
materiale asportato nell’unità di tempo
Disco a settori diamantati
140
120
Fy, Fz [N]
100
80
Fy
60
Fz
40
20
0
0
2000
4000
6000
8000
10000
12000
14000
3
Q [mm /min]
Fig. 3.23 – (Disco) Andamento degli sforzi rilevati in funzione del volume di
materiale asportato nell’unità di tempo
3.8 Forza principale di taglio
In letteratura [Sha96] si è evidenziato che il punto di applicazione della risultante R può
variare per K compreso tra 0,4 e 0,6, per il taglio in concordanza e discordanza. Tale
ipotesi è confortata dal fatto che per piccole profondità di passata (fino 0,5 mm) la
variazione percentuale delle componenti della forza di taglio in funzione di K è ridotta.
La variazione calcolata geometricamente è al massimo del 10%. Da queste considerazioni
si può assumere un valore di K pari a 0,5. Dalle relazioni riportate al paragrafo 3.5.2 è
possibile valutare le componenti della forza di taglio nelle direzioni tangenziali e normali
al moto di taglio.
In figura 3.24 (per la fresa) e figura 3.25 (per il disco) sono riportati i grafici delle
componenti tangenziali e normali della forza di taglio per le diverse velocità di
avanzamento. Lo spessore massimo di truciolo è stato calcolato in base all’equazione 3.6
a partire dai parametri di processo e dell’utensile riportati al paragrafo 3.6.2.
f = 200 mm/min
Ft, Fn [N]
200
180
160
140
120
100
80
60
40
20
0
0,001
Ft
Fn
0,003
0,005
0,007
0,009
spessore massimo di truciolo [mm]
a)
f = 400 mm/min
200
Ft, Fn [N]
150
Ft
100
Fn
50
0
0,001
0,003
0,005
0,007
spessore massimo di truciolo [mm]
b)
0,009
f = 600 mm/min
200
Ft, Fn [N]
150
Ft
100
Fn
50
0
0,001
0,003
0,005
0,007
0,009
spessore massimo di truciolo [mm]
Fig. 3.24 – (Fresa) Andamento delle componenti tangenziale e normale al
variare dello spessore massimo di truciolo per i tre valori della velocità di
avanzamento a)200, b)400, c)600 mm/min.
f = 200 mm/min
25
Ft, Fn [N]
20
15
Ft
Fn
10
5
0
0
0,0005
0,001
0,0015
spessore massimo di truciolo [mm]
a)
0,002
f = 400mm/min
25
Ft, Fn [N]
20
15
Ft
Fn
10
5
0
0
0,0005
0,001
0,0015
0,002
spessore massimo di truciolo [mm]
b)
f = 600 mm/min
25
Ft, Fn [N]
20
15
Ft
Fn
10
5
0
0
0,0005
0,001
0,0015
spessore massimo di truciolo [mm]
0,002
Fig. 3.25 – (Disco) Andamento delle componenti tangenziale e normale al
variare della sezione massima di truciolo per i tre valori della velocità di
avanzamento a)200, b)400, c)600 mm/min.
Per entrambi gli utensili utilizzati si evidenzia un andamento crescente delle componenti
Ft ed Fn, al variare dello spessore massimo di truciolo hc, e della velocità di avanzamento,
secondo le seguenti leggi di tipo esponenziale indicate in tabella 3.5 e 3.6 rispettivamente
per la fresa e per il disco:
f [mm/min]
200
Ft [N]
Fn [N]
Ft = 2.3 ⋅10 6 hc
2 , 056
R2 = 0,9963
400
2 , 4621
R2 = 0,9979
Ft = 9.7 ⋅10 7 hc
2 ,866
R2 = 0,9976
600
Fn = 5.3 ⋅10 7 hc
2 , 771
Fn = 1.42 ⋅10 8 hc
R2 = 0,9981
Ft = 7.3 ⋅10 7 hc
2 ,8853
R2 = 0,9974
Fn = 1.35 ⋅108 hc
2 ,8327
R2 = 0,9975
Tab. 3.5– (Fresa) Funzioni che descrivono l’andamento di Ft ed Fn al variare
dello spessore massimo della sezione di truciolo
f [mm/min]
200
Ft [N]
Fn [N]
Ft = 2 ⋅10 ⋅ hc
7
2 ,1358
R2 = 0,9827
400
Ft = 8 ⋅10 6 ⋅ hc
Ft = 9 ⋅10 6 ⋅ hc
R2 = 0,9816
2 ,16658
R2 = 0,9876
2 , 0124
R2 = 0,9862
600
Fn = 2 ⋅10 7 ⋅ hc
Fn = 3 ⋅10 7 ⋅ hc
2 , 27
R2 = 0,9823
2 , 0147
Fn = 6 ⋅10 7 ⋅ hc
2 , 3478
R2 = 0,9833
Tab. 3.6 – (Disco) Funzioni che descrivono l’andamento di Ft ed Fn al variare
dello spessore massimo della sezione di truciolo
Dai valori ottenuti si nota la dipendenza funzionale della componenti della forza di taglio
rispetto allo spessore di truciolo secondo il modello proposto. I risultati ottenuti dalle
curve di regressione ha consentito di verificare la bontà del modello proposto e di
determinare le costanti sperimentali.
3.9 Energia specifica di taglio
L’andamento dell’energia specifica di taglio “Ec” in funzione del massimo spessore di
truciolo, è stata calcolata sempre nell’ipotesi di considerare il punto di applicazione del
carico a metà dell’arco di contatto tra utensile e pietra, per piccole profondità di passata
(fino a 0,5 mm). L’energia specifica di taglio è stata calcolata in base alla relazione
descritta al paragrafo 3.5.2.
In figura 3.26 si evidenzia l’andamento dell’energia specifica per la fresa al crescere dello
spessore massimo di truciolo.
f = 200 mm/min
35000
Ec [N/mm2]
30000
25000
20000
15000
10000
5000
0
0
0,002
0,004
0,006
0,008
spessore massimo di truciolo[mm]
a)
f= 400mm/min
30000
Ec [N/mm 2]
25000
20000
15000
10000
5000
0
0
0,002
0,004
0,006
spessore massimo di truciolo [mm]
b)
0,008
f = 600 mm/min
30000
Ec [N/mm 2]
25000
20000
15000
10000
5000
0
0
0,002
0,004
0,006
0,008
0,01
spessore massimo di truciolo [mm]
Fig. 3.26 – (Fresa) Andamento dell’energia specifica di taglio per i tre valori
della velocità di avanzamento a)200, b)400, c)600 mm/min.
In figura 3.27 sono riportati gli andamenti dell’energia specifica di taglio per il disco:
f= 200 mm/min
350000
300000
Ec [N/mm2]
250000
200000
150000
100000
50000
0
0
0,0005
0,001
0,0015
spessore massimo di truciolo [mm]
a)
f = 400 mm/min
350000
Ec [N/mm2]
300000
250000
200000
150000
100000
50000
0
0,0000
0,0005
0,0010
0,0015
spessore massimo di truciolo [mm]
b)
f= 600 m m /m in
350000
Ec [N/mm2]
300000
250000
200000
150000
100000
50000
0
0,0000
0,0005
0,0010
0,0015
spessore m assim o di truciolo [m m ]
Fig. 3.27 – (Disco) Andamento dell’energia specifica di taglio per i tre valori
della velocità di avanzamento a)200, b)400, c)600 mm/min.
In tabella 3.7 si riportano i risultati ottenuti dalle curve di regressione.
f [mm/min]
200
Fresa
Ec = 0,11 ⋅ hc
Disco
−1,19
R2 = 0,996
400
E c = 0,95 ⋅ hc
Ec = 1,06 ⋅ hc
R2 = 0,984
−1, 92
R2 = 0,995
−1,15
R2 = 0,988
600
Ec = 0,06 ⋅ hc
Ec = 0,07 ⋅ hc
−1, 96
R2 = 0,9992
−1,13
Ec = 0,09 ⋅ hc
−1, 96
R2 = 0,990
Tab. 3.7 - Funzioni che descrivono l’andamento dell’energia specifica al
variare dello spessore massimo di truciolo
4 Usura degli utensili diamantati
Gli utensili diamantati sinterizzati sono stati introdotti circa trent’anni fa nella lavorazione
delle pietre naturali, quali il marmo ed il granito. È indiscutibile che essi hanno
rivoluzionato tutto il settore della lavorazione della pietra consentendo aumenti della
velocità di asportazione rispetto alle tecniche convenzionali basate sul taglio con graniglia
abrasiva. Il processo di lavorazione delle pietre naturali mediante utensili diamantati
avviene attraverso la formazione di trucioli dovuta alla distruzione della consistenza del
materiale ad opera dei diamanti costituenti l’utensile. L’interazione meccanica fra
l’utensile e il pezzo genera forze di processo legate alla deformazione della pietra da parte
dei taglienti, all’attrito fra la pietra e i diamanti, fra la pietra e la matrice e fra gli sfridi e
la matrice.
In questo capitolo l’attenzione è rivolta all’usura degli utensili diamantati e in particolare
alla definizione di parametri quantitativi caratterizzanti il processo di usura. Il lavoro
riportato nel presente capitolo è indirizzato alla comprensione del processo di usura dei
diamanti. Tale comportamento ha una diretta influenza sul consumo energetico e sulla
durata dell’utensile. In particolare l’usura degli utensili diamantati necessita di una
opportuna definizione e misura; in altri termini è necessario definire, in maniera chiara ed
univoca, i parametri qualitativi, ma soprattutto, quantitativi caratterizzanti il processo di
usura e la loro misura attraverso una procedura affidabile e ripetibile. L’obiettivo è quello
di definire un protocollo di prova per l’usura dei diamanti costituenti il componente
principale di questo tipo di utensili. La completa assenza di riferimenti bibliografici o
normative relative alle procedure per condurre prove di usura su utensili diamantati
sinterizzati ha reso obbligatorio la messa a punto di un protocollo di prova atto a offrire
una modalità universalmente valida per l’esecuzione della prova di usura micro e macro
geometrica in modo tale da ottenere risultati ripetibili e confrontabili. Il protocollo
utilizzato costituisce uno strumento indispensabile alla corretta conduzione della prova e
alla corretta interpretazione dei risultati. Si tratta di un protocollo per prove di laboratorio
e, quindi, particolarmente accurate, ma piuttosto lente. Questo è stato dettato dalla
necessità di creare un substrato di conoscenze relative al processo di usura: attraverso
questo primo lavoro infatti si sono identificati i parametri critici del processo di usura.
4.1 Usura delle grane di diamante
In generale i possibili meccanismi di usura dei grani di diamante si possono dividere in
quattro forme principali [Wri86]:
1. Usura per adesione: il diamante si attacca alla superficie in lavorazione e le
particelle vengono fratturate dagli sforzi di taglio;
2. Usura per attrito: la superficie del diamante viene fratturata da particelle di pietra
molto dure;
3. Usura per diffusione: le reazioni chimiche fra il pezzo e la superficie del
diamante ne abbassano la resistenza o la durezza;
4. Frattura delle particelle: la frattura dei diamanti è provocata dal sovraccarico
meccanico o termico o dalla fatica.
In realtà i meccanismi d’usura per adesione e quello per diffusione non sono rilevanti
nella lavorazione della pietra, per cui i principali effetti di usura che causano una
riduzione delle particelle sono la frattura e l’usura per attrito.
L’usura delle grane di diamante può essere classificata in sei modi diversi, figura 4.1:
1) Cristallo emergente. Si identifica in tale modo quella particella abrasiva di
diamante appena emerse dalla superficie del legante metallico. In questa fase
la capacità di taglio è scarsa data la insufficiente altezza di protrusione,
questa aumenta durante il processo di taglio, man mano che si consuma la
superficie del legante metallico.
2)
Cristallo protruso. Vengono classificate in tale modo le particelle aventi
una elevata altezza di protrusione e caratterizzate dall’avere un
danneggiamento superficiale assente o insignificante. Sono a queste particelle
che viene attribuito il migliore contributo di taglio.
3) Cristallo levigato. Queste particelle sono caratterizzate dall’avere un’area
consumata e levigata o facce appiattite, tale usura, probabilmente, è causata
dalla combinazione dell’attrito meccanico da una parte ed gli effetti termici
locali dall’altra.
4) Cristallo micro-fratturato. Tali particelle presentano piccole fratture che
rendendo la superficie della particella ricca di nuovi taglienti. Tali microfratturazioni possono essere causate dall’impatto ripetuto con il materiale
lavorato. Sforzi di taglio ciclici, urti meccanici, carichi termici, sono i
principali responsabili della formazione di fratture sulla superficie del
diamante. Particelle così classificate, comunque, possono ancora mantenere
un’azione tagliente moderata.
5) Cristallo macro-fratturato. Questo stato di usura è in generale successivo a
quello della micro-fratturazione. Le particelle così classificate presentano una
notevole fratturazione dell’intera superficie del cristallo venendosi a ridurre,
in modo significativo, l’altezza di protrusione. La limitata sporgenza dei
nuovi taglienti dalla superficie del legante metallico riduce notevolmente la
capacità di taglio di queste grane.
6) Vuoto pull-out. Quando una grana abrasiva di diamante fuoriesce della
matrice metallica sulla superficie di questa si crea un ‘‘cratere’’ o vuoto, tale
fenomeno è chiamato pull-out. Il fenomeno del pull-out incide sull’usura del
segmento, infatti, se la grana abrasiva di diamante fuoriesce dal legante
metallico prima di completare la sua vita di taglio efficace il vuoto formatosi
sarà di dimensioni notevole. In questa condizione occorre una notevole usura
del legante prima che affiori una nuova grana abrasiva. Al contrario, se la
grana fuoriesce dal legame metallico dopo che ha esaurito la sua vita di taglio
efficace, il vuoto formato sarà poco profondo e si dovrà consumare meno
matrice per far fuoriuscire una nuova grana abrasiva diamantata.
(a)
(c)
(b)
(d)
(e)
(f)
Fig.4.1 - Stato di usura possibili delle grane di diamante: cristallo emergente (a); cristallo protruso
(b); cristallo levigato (c); cristallo micro fratturato (d); cristallo macro fratturato (e); cristallo pullout (f).
4.2 Usura della matrice
La miscela abrasiva, composta dal refrigerante e dalle particelle di pietra, provoca, oltre
all’usura dei grani, l’erosione del legante. L’aspetto caratteristico dell’usura della matrice
è la formazione di un cratere davanti alla singola particella, viceversa dietro la particella
si verifica un’erosione minore. In questo modo si forma una coda di materiale legante
dietro la particella abrasiva. Tale materiale sostiene il diamante contro le forze di
processo e ne rafforza la tenuta.
È opportuno distinguere due comportamenti all’usura della matrice:
•
Velocità di usura elevata della matrice; se la matrice si consuma troppo
velocemente (rispetto al diamante), la capacità di taglio del diamante non viene
completamente sfruttata in quanto si verifica subito il pull-out.
•
Velocità di usura bassa della matrice: Se si consuma più lentamente del diamante
lo spazio fra la sommità delle particelle abrasive e la superficie della matrice
metallica (protrusione) viene costantemente ridotto; gli sfridi non vengono
rimossi a sufficienza e il segmento perde la sua capacità di taglio.
4.3 Progressione d’usura
Il comportamento di un utensile diamantato rispetto all’usura è la conseguenza delle
singole progressioni di usura dei diamanti e della matrice costituenti l’utensile. I diversi
stati possibili di usura delle grane abrasive di diamante hanno condotto ad un modello di
progressione di usura proposto da Writght e Wapler nel 1986.
Questo modello della progressione di usura è stato ricavato mediante prove di taglio su
dischi diamantati sinterizzati, analizzando l’altezza di protrusione delle grane diamantate
in funzione del tempo.
Fig.4.2 - Modello di progressione di usura delle grane diamantate proposto da Writght e Wapler
[Wri86]
Writght e Wapler hanno diviso la progressione di usura delle grane abrasive diamantate e
della matrice in varie fasi; in funzione dell’altezza di protrusione e della quanità di
materiale lavorato.
Il comportamento di un utensile diamantato nei confronti dell’usura è la conseguenza
delle singole progressioni di usura dei diamanti e del legante costituenti l’utensile.
Durante ogni fase della progressione di usura la grana di abrasivo ha una reazione distinta
alle condizioni che le vengono imposte. In un primo momento si verifica un graduale
incremento della sporgenza della grana rispetto al legante a causa dell’erosione del
legante stesso, anche se questo fenomeno non è sufficiente perché si abbia contatto con il
pezzo in lavorazione. Una volta che la grana è a contatto con il pezzo, essa viene
arrotondata fino alla formazione di un plateau, questa fase è denominata di appiattimento.
Il contatto intermittente con il pezzo, a causa della rotazione dell’utensile, porta ad un
carico ciclico sulle grane di diamante che, amplificato dalla disomogeneità del pezzo e
dalle vibrazioni, provoca un deterioramento della capacità delle grane stesse di resistere
alle forze di taglio e, di conseguenza, il loro disgregarsi dopo un certo intervallo di tempo
(insorgenza di microfratture).
La progressione nelle diverse fasi di usura porta, infine, ad una situazione in cui la
particella è totalmente frammentata o la matrice è erosa in misura sufficiente, affinché la
particella venga rilasciata dal legante. Nel frattempo, altre particelle saranno state esposte
per effetto del processo di erosione del legante ed il ciclo si ripeterà.
È la natura della progressione di usura sopra descritta che determina le prestazioni
dell’utensile abrasivo. Questa è determinata oltre che dalla resistenza e struttura della
grana abrasiva anche dalle condizioni di taglio; una scelta errata di uno di questi criteri
avrà effetti sulla prestazione dell’utensile. Una scelta errata del tipo di grana abrasiva
potrebbe portare, per effetto della forza di taglio, ad una disgregazione prematura della
grana stessa. Una conseguenza della disgregazione prematura delle particelle è la
riduzione della sporgenza media del grano (rispetto al caso in cui si impieghi una grana
idonea). Ciò provoca un aumento delle forze di attrito sull’utensile e un maggior consumo
di energia. In condizioni impegnative, una grana con maggiore tendenza a
microfratturarsi presenterà una durata ridotta rispetto a quella con tendenza all’appiattimento. Tuttavia, in condizioni di taglio meno impegnativo, questa situazione si
inverte.
D’altra parte può verificarsi una situazione in cui le particelle della grana prescelta
presentino una fase estesa di appiattimento.
Una grana che presenta un appiattimento esteso tenderà a lucidarsi, con un aumento
dell’attrito fra il diamante ed il pezzo in lavorazione, dando luogo ad un aumento del
consumo di energia ed alla tendenza al "pull-out".
L’aumento del consumo di energia può essere visto come la conseguenza dello
smussamento delle punte della grana e quindi una riduzione dell’efficienza di taglio.
La perdita del diamante per "pull-out", piuttosto che per microfrattura continua, significa
una velocità di usura dell’utensile relativamente maggiore. Quindi, l’utensile con un
abrasivo caratterizzato da appiattimenti estesi avrà una durata più breve rispetto a quello
che presenta più microfratture.
Chiaramente, la situazione ottimale si ottiene scegliendo un prodotto abrasivo che dia una
progressione equilibrata di usura per le forze di taglio cui le particelle saranno esposte.
Secondo quanto evidenziato, il rapporto fra appiattimento e microfrattura ha un impatto
diretto sulle caratteristiche della prestazione dell’utensile, come consumo energetico e
durata, in diverse condizioni di taglio, tuttavia il rapporto dettagliato fra la struttura della
particella, le sue proprietà e il suo comportamento è complesso [Wri86].
4.4 Studio dell’usura micro e macro geometrica nelle frese
diamantate sinterizzate
Lo studio dell’usura delle frese diamantate sinterizzate si presta da una parte
all’identificazione dei parametri caratterizzanti l’usura, e dall’altra determinare una
metodologia di studio della progressione di usura standardizzabile, che porti a risultati
confrontabili quando questi vengono eseguiti da altri operatori in altri studi.
Il problema usura è stato distinto in due parti, da un lato una usura macro geometrica
rappresentante il comportamento della fresa ad usura da un punto di vista globale, perdita
della capacità di taglio nel momento in cui lo spessore dei settori sinterizzati sono
totalmente o quasi ridotti a zero. Dall’altra definire una usura micro geometrica
riguardante il comportamento ad usura a livello locale comprendente il comportamento
delle grane diamantate e della matrice metallica e la loro interazione durante il taglio.
La valutazione dei parametri caratterizzanti l’usura sono stati scelti in base a
considerazioni di similitudine tra la fresa diamantata sinterizzata a codolo e altri utensili
diamantati sinterizzati come dischi o lame di cui esistono studi.
L’usura macro geometrica può essere espressa dalla riduzione del diametro utensile e
quindi di settore diamantato, dalla riduzione del peso dell’utensile e dalla cilindricità, in
funzione del volume di materiale lavorato.
Nel caso dell’usura micro geometrica oltre ad una caratterizzazione qualitativa delle
grane diamantate, già utilizzata per caratterizzare la progressione di usura dei dischi, si è
cercato di ottenere una caratterizzazione quantitativa della progressione di usura
attraverso la misurazione della altezza di protrusione in funzione del materiale lavorato e
delle condizioni di taglio. Sono stati, infine, individuati una serie di parametri quantitativi
caratterizzanti la curva di protrusione e quindi l’usura.
L’approccio sperimentale utilizzato è stato diviso nei seguenti passi:
ƒ pianificazione delle prove di macro e micro usura delle frese diamantate
sinterizzate a codolo (definizione di un protocollo di prova);
ƒ esecuzione delle prove atte a definire e quantificare i parametri caratterizzanti
l’usura macro e micro geometrica;
ƒ analisi ed interpretazione dei dati ottenuti
La completa assenza di riferimenti bibliografici o normative sulla metodologia di
esecuzione di prove di usura su utensili diamantati sinterizzati, e la consapevolezza che lo
studio intrapreso non è che una fase iniziale di un lavoro a lungo termine, si sono definiti
dei protocolli di prova atti ad offrire una modalità di esecuzione della prova di usura
micro geometrica e macro geometrica con lo scopo di ottenere risultati confrontabili e
ripetibili.
La linea guida di tali protocolli è stata ottenuta sulla base di normative riguardanti utensili
monotaglienti, questa scelta è giustificata dal fatto che solo per questi utensili esistono
protocolli di usura.
4.5 Protocolli di prova
Di seguito vengono riportati i protocolli di prova di usura micro geometrica e macro
geometrica delle frese diamantate sinterizzate. I protocolli proposti definiscono la
procedura per l’esecuzione delle prove, le caratteristiche dei materiali impiegati, le
attrezzature ed la forma per la presentazione dei risultati ottenuti. I protocolli di prova
sviluppati indicano la modalità, universalmente utilizzabile, per la misura dell’usura dei
diamanti costituenti l’utensile. Esso è uno strumento indispensabile per una corretta
esecuzione delle prove di usura ed una affidabile interpretazione dei risultati. Il protocollo
sviluppato finora riguarda per lo più prove eseguibili in laboratorio, visto la lentezza e la
precisione delle misure coinvolte.
4.6 Protocollo per prove di usura micro-geometrica
Il protocollo di usura micro-geometrica prevede di specificare il materiale da lavorare, le
condizioni standard del pezzo, le caratteristiche dell’utensile, il fluido refrigerante
utilizzato e le condizioni di taglio da utilizzare durante la prova. La macchina sulla quale
si effettua la prova deve essere di costruzione rigida e tale che non abbia alcuna tendenza
a vibrare o a flettersi in modo anomalo nel corso della prova. La macchina utensile per la
prova deve disporre di un comando con variazione continua di velocità in modo da
ricoprire tutta la gamma di velocità utilizzate durante la lavorazione vera e propria. Il
metodo da seguire per realizzare la prova di durata dell’utensile è lo stesso di quello
utilizzato per realizzare l’operazione di taglio con, in più, le osservazioni da rilevare e le
misure che devono essere effettuate. Prima di iniziare la prova si sceglie un settore
diamantato sinterizzato di riferimento fra quelli costituenti la fresa oggetto di studio, che
verrà osservato con gli strumenti in dotazione. Successivamente, sul settore di
riferimento, si localizza in maniera univoca una porzione di superficie contenente un
numero di diamanti ritenuto rappresentativo dell’intera popolazione di diamanti
costituenti l’utensile. La prova di usura micro-geometrica consiste nell’effettuare in
successione più operazioni di taglio e intercalando, tra un taglio ed il successivo,
l’osservazione delle grane di diamante e la misura dei parametri di usura
micro.geometrica. La prova si considera terminata quando tutti i diamanti, inizialmente
presenti sulla superficie di riferimento, sono stati rilasciati dalla matrice. Il rapporto di
prova conterrà il grafico relativo all’andamento dei parametri di usura micro-geometrica
in funzione del volume di materiale lavorato. Nel seguito si riporta il testo integrale del
protocollo.
4.6.1 Materiale da lavorare
Data la numerosità di materiali utilizzati nel settore di lavorazione delle pietre naturali
non è consigliabile confrontare prove effettuate su materiali diversi o materiali aventi
caratteristiche simili. Per tal motivo nel resoconto di prova devono essere specificate le
proprietà dei materiali utilizzati e in particolare la classe di lavorabilità [Mil96]. In tabella
1 sono riportate le caratteristiche di due materiali utilizzati per testare il presente
protocollo.
Proprietà del materiale
Granito Sardo
densità [kg/m3]
Assorbimento d’acqua [%]
Resistenza a compressione [MPa]
Resistenza all’abrasione [Ha]
Resistenza all’urto [cm]
Microdurezza Knoop [MPa]
Classe di lavorabilità
2608
0.25
145
40
>90
5000
IV
Granito nero
d’Africa
3010
0.05
180
65
>90
3000
I
Tabella 1 – proprietà del materiale lavorato
4.6.2 Condizioni ‘‘standard’’ del pezzo da lavorare
Le prove di taglio devono essere effettuate su lastre di dimensioni tali da minimizzare le
vibrazioni del pezzo durante la prova. La tavola per fissare il pezzo deve essere stabile e
ben equilibrata. Durante il posizionamento del pezzo sulla tavola, si deve evitare con cura
di inflettere il pezzo da lavorare.
4.6.3 Utensile
L’usura dell’utensile dipende fortemente dai materiali costituenti l’utensile stesso. Nel
resoconto di prova devono essere specificate le caratteristiche dell’utensile impiegato
nella prova secondo quanto riportato nella tabella 2.
4.6.4 Fluido da taglio
Tutte le prove di taglio devono essere realizzate impiegando come fluido da taglio acqua.
Il getto del fluido da taglio deve essere orientato sulla faccia dell’utensile e investire
completamente la parte attiva dell’utensile. Indicare, se è possibile, nel resoconto di
prova, la portata e pressione del getto.
Tipologia dei settori
Proprietà dell’utensile
M9Z3
M9BN
Composizione chimica della matrice [%]
Co=62.40
Cu=17.79
C=14.09
O=3.14
Al=1.24
Si=0.98
102
45/50
0.9
238
23
5
35
4
6
15
I
Co=25.59
Cu=49.89
C=16.71
O=3.89
Al=2.34
Si=1.58
85
45/50
1.0
177
20
6
44
3.5
5
13
IV
Durezza della matrice [HRB]
Dimensione del diamante mesh [#]
Concentrazione di diamante [Kts/cm^3]
Peso dell’utensile [g]
Diametro dell’utensile [mm]
Numero dei settori
Altezza dei settori [mm]
Profondità dei settori [mm]
Larghezza dei settori [mm]
Diametro del nocciolo [mm]
Applicazione [classe di lavorabilità]
Tabella 2 – proprietà dell’utensile
4.6.5 Condizioni di taglio
Per tutte le prove di taglio nelle quali l’avanzamento f, la profondità di passata a e la
velocità di taglio Vt non costituiscono la variabile principale della prova, le condizioni di
taglio devono corrispondere a quelle indicate nella tabella 3.
Condizioni di taglio
Materiale
granito
marmo
granito
marmo
granito
marmo
Numero di giri vt
[giri/minuto]
5000
5000
4500
5000
4500
4500
Profondità assiale
[mm]
avanzamento
[mm/min]
300
400
200
400
200
400
20
30
40
Tabella 3– parametri di processo
4.6.6 Criteri di durata dell’utensile e misura dell’usura dell’utensile
Lo scopo della prova di durata dell’utensile è quello di determinare sperimentalmente
come uno o più parametri influiscono sulla durata degli utensili da taglio. La ragione per
la quale la durata di un materiale da taglio deve essere considerata terminata non è
sovente la stessa per differenti operazioni di lavorazione. Il caso più semplice che può
capitare è il caso nel quale l’utensile diventa completamente inutilizzabile. Nella maggior
parte dei casi, l’utensile si usura progressivamente ed il lavoro effettuato diventa meno
soddisfacente, per esempio le forze di taglio aumentano e producono delle flessioni o
delle vibrazioni intollerabili. La determinazione della fine della durata dell’utensile è
fissata quindi per delle ragioni di comparabilità.
Definizioni
Agli effetti del presente protocollo si applicano le definizioni seguenti:
• usura dell’utensile: cambiamento, durante il taglio, della forma dell’utensile con
riferimento alla sua forma iniziale risultante dalla perdita progressiva di materiale
dell’utensile;
• misura dell’usura dell’utensile: parametro che deve essere misurata per indicare il
valore dell’usura;
• criterio di durata dell’utensile: valore limite predeterminato della misura
dell’usura di un utensile o dell’apparizione di un fenomeno;
• durata dell’utensile: tempo di taglio necessario per raggiungere il criterio di
durata dell’utensile.
4.6.7 Procedimento di prova di usura micro geometrica
Il meccanismo di usura a livello locale degli utensili sinterizzati diamantati si può
dividere fra quella della matrice da una parte, e quella del diamante, dall’altra. L’azione
abrasiva delle pietre naturali, unita agli alti carichi meccanici, incide sul diamante
provocandone l’usura. D’altra parte, il refrigerante si unisce agli sfridi per formare una
miscela abrasiva che erode la matrice del segmento.
Tali meccanismi determinano quello che viene chiamato ciclo di vita utile delle particelle
di diamante. Tale vita può essere divisa nelle seguenti fasi:
• abrasione della matrice metallica e progressivo aumento della protrusione della
grana diamantata;
• usura per attrito del cristallo di diamante con conseguente appiattimento
• fratturazione del cristallo di diamante
• perdita di ritenuta del cristallo da parte della matrice metallica
La capacità di auto ravvivamento consiste nella ripetizione di tali fasi per ogni grana di
abrasivo permettendo una continua azione di taglio dell’utensile.
Fasi
La procedura è articolata nelle seguenti fasi:
1. individuazione di un settore di riferimento (sotto condizione che tutti i settori
siano identici);
2. individuazione e localizzazione di una porzione di superficie di riferimento, sul
settore sopra scelto, tale da essere contenuta nella superficie attiva di taglio del
settore;
3. individuazione e localizzazione di aree, contenute nella superficie di riferimento
sopra scelta, tali da poter rappresentare le caratteristiche del settore di
riferimento;
4. individuazione della vita utile del singolo diamante espressa in cm3 di materiale
lavorato attraverso una prova preliminare;
5. scelta e localizzazione di grane diamantate di riferimento, contenute nelle sotto
porzioni di superficie del settore in studio, classificabili in stato iniziale di vita
utile;
6. esecuzione del taglio per un intervallo di tempo corrispondente ad una frazione
della vita utile delle grane abrasive, espressa in cm3 ;
7. pulizia dell’utensile da eventuali residui di lavorazione;
8. caratterizzazione quantitativa dell’altezza di protrusione delle grandi diamante
scelte da osservare;
9. iterazione del punto 6, 7 e 8 fino al completamento della vita utile delle singole
grane di diamante.
4.6.8 Apparecchiatura
Macchina utensile
La macchina sulla quale si effettua la prova deve essere di costruzione rigida e tale che
non abbia alcuna tendenza a vibrare o a flettersi anormalmente nel corso della prova. La
macchina utensile per la prova deve disporre di un comando con variazione continua della
velocità che ricopra tutta la gamma delle velocità da utilizzare. Un comando a velocità
variabile permette inoltre la predeterminazione esatta delle velocità di taglio e riduce i
tempi necessari per l’ottenimento della curva di durata dell’utensile.
Strumentazione
La strumentazione sotto indicata è necessaria per l’effettuazione delle misure richieste e
deve essere di accurata costruzione per poter verificare le tolleranze indicate nella
presente norma:
• un cronometro per registrare i tempi di taglio;
•
•
•
un microscopio ottico equipaggiato di un dispositivo micrometrico per la
caratterizzazione delle grane e per la misura della protrusione;
un calibro a corsoio per misurare le dimensioni dell’utensile;
una apparecchiatura per misurare la portata del liquido da taglio (può essere
ottenuta misurando il tempo necessario per vuotare un recipiente di volume noto).
4.6.9 Procedimento di prova di usura micro geometrica dell’utensile
Le condizioni variano in ciascun caso e pertanto il procedimento di prova di durata
dell’utensile non può essere descritto che in termini generali. Il metodo da seguire per
realizzare la prova di durata dell’utensile è lo stesso di quello utilizzato per realizzare una
buona operazione di taglio con, in più, le precauzioni necessarie, le osservazioni da
rilevare e le misure che devono essere effettuate.
Prima di cominciare la prova, assicurarsi che la macchina utensile, il pezzo e l’utensile
rispondano alle prescrizioni del presente protocollo.
La fase successiva consiste nella scelta di un settore diamantato sinterizzato di
riferimento, fra quelli costituenti la fresa oggetto di studio, tale da poter essere facilmente
osservato con gli strumenti in dotazione. Lo studio è effettuato su un solo settore in
quanto è lecito affermare che tutti i settori diamantati sinterizzati costituenti la fresa siano
tra loro omogenei. Successivamente, sul settore di riferimento, si localizza una porzione
di superficie di riferimento. Tale porzione di superficie deve essere scelta in modo da
essere contenuta nella zona di superficie principale del settore coinvolta nel processo di
taglio. La determinazione di sotto porzioni di superfici, destinate all’osservazioni e studio
dell’usura, devono essere scelte da poter consentire un buon campione rappresentativo
delle caratteristiche della superficie in esame e quindi del settore. La prova di usura
micro-geometrica consiste in una operazione di taglio in cui viene misurata l’andamento
della protrusione delle particelle di abrasivo rispetto alla matrice, e del loro stato (integro,
micro e macro fratturato, appiattito, perso), in funzione del volume di materiale lavorato.
La prova è suddivisa in un numero di tagli parziali. Al termine di ogni taglio parziale
vengono catalogati i cristalli di diamante, contenuti nelle sotto porzioni di superficie
scelte, e misurata la rispettiva altezza di protrusione. La quantità di materiale da lavorare
in ogni taglio parziale è determinato dal rapporto tra la vita utile media del singolo
cristallo, espressa in cm3, ed il numero scelto di tagli parziali. Prima di eseguire la prova
di usura micro geometrica viene eseguita una prova preliminare, esposta nel paragrafo
seguente, per la determinazione della vita utile media del singolo grano di diamante non
nota a priori. Tale prova preliminare è necessaria in quanto permette la pianificazione del
numero di intervalli, e quindi del volume di materiale, da eseguire ad ogni taglio parziale
nella prova di usura micro geometrica.
4.6.10 Prova preliminare per la determinazione della vita utile media delle
grane diamantate
La prova preliminare di vita utile del singolo grano consiste nel far lavorare l’utensile,
nelle condizioni di taglio sopra riportate, per un volume di materiale tale da non
consentire la perdita delle grane scelte come riferimento. Tale volume è determinato
attraverso una successione di prove di taglio brevi e dall’indagine visiva delle particelle
abrasive sulle sotto porzioni di superfici di riferimento al termine di ogni taglio.
4.6.11 Resoconto di prova ed espressione dei risultati
Nel resoconto di prova devono essere riportati i seguenti risultati:
•
Andamento della protrusione P in funzione del materiale lavorato;
•
Stato di usura dei cristalli in funzione del materiale lavorato;
•
parametri caratterizzanti la curva di protrusione.
4.7 Prova di usura micro geometrica: esempi applicativi
La prova di usura micro geometrica consiste nella misurazione dell’altezza di protrusione
delle grane diamantate e classificazione qualitativa di queste in funzione del volume di
materiale lavorato. La prova è stata eseguita secondo il protocollo di micro usura
dettagliatamente riportato al paragrafo precedente. L’analisi, di seguito riportata, è un
esempio di applicazione del protocollo precedentemente illustrato. Inoltre, tale protocollo
è stato applicato a due tipologie di fresa a codolo comunemente impiegate nel taglio del
granito.
4.7.1 Progettazione della prova
Inizialmente, come riportato nel protocollo di micro usura, è stato valutato il materiale da
lavorare. La scelta del materiale lapideo, su cui testare le frese diamantata sinterizzata a
codolo, è stata effettuata sull’ipotesi di porre tali utensili nelle condizioni più critiche
possibile, cioè su quei materiali dove notoriamente si hanno maggiori difficoltà di
lavorazione, quindi utilizzando granito. Tra le possibili tipologie di granito, sempre
tenendo conto il concetto di peggiori condizioni, la scelta è ricaduta su due tipi di granito
particolarmente difficoltosi nel taglio quali il granito Nero d’Africa ed il granito Sardo.
La scelta dell’utensile, come riportato nel protocollo, è stata eseguita valutando quelli
offerti dal mercato; i due utensili scelti sono due frese a codolo denominate con la sigla
M9Z3 ed M9BN. Le caratteristiche tecniche, sono riportate nella tabella2. Tali
caratteristiche sono state acquisite dalla casa costruttrice. Le condizioni di taglio, velocità
di taglio e avanzamento sono state scelte in base alla tabella 3 e riportate nella tabella 4.
Prova
1
2
Utensile
M9Z3
M9BN
Numero di giri vt
[giri/min]
4500
4500
Parametri di processo
avanzamento f
[mm/min]
200
200
Profondità assiale a
[mm]
30
40
Tabella 4– parametri di processo utilizzati nella sperimentazione.
La macchina utensile utilizzata è un centro di lavoro a controllo numerico a tre assi della
CMS Brembana macchine modello JUNIOR, figura 4.3.
Fig. 4.3 - Centro di lavoro a CN “Modello JUNIOR”
Come indicato dal protocollo di usura micro geometrica si è passati alla individuazione
di un settore della fresa da prendere come riferimento per lo studio. La scelta di studio su
un unico settore è giustificata dall’ipotesi, per altro confermata dalla stessa casa
costruttrice, della identicità de settori costituenti la fresa diamantata sinterizzata.
L’individuazione della porzione di superficie del settore di riferimento è stata ottenuta
attraverso un compromesso tra due esigenze. Da una parte avere una superficie di studio
tale da poter costituire un campione ben rappresentativo del comportamento delle grane
diamantate costituenti il settore e, quindi, dell’intera fresa. Dall’altra, una difficile
individuazione e localizzazione della superficie in esame, quando questa veniva
sottoposta ad osservazione attraverso strumenti quali il microscopico ad scansione
elettronica ‘‘S.E.M.’’o microscopio ottico, dovuto alla forma elicoidale dei settori. La
maggiore difficoltà veniva scaturita dalle dimensioni di ingombro della fresa la quale
limitava la possibilità di movimentazione e quindi di un corretto posizionamento della
stessa nel vano di depressurizzazione del microscopio elettronico. Le problematiche sopra
esposte sono state risolte costruendo un opportuno sistema di posizionamento della fresa
capace di poter regolare il posizionamento di questa nel vano di depressurizzazione del
microscopio elettronico. In figura 4.4, di seguito riportata, è schematizzato il sistema di
posizionamento realizzato. Il codolo della fresa viene serrato tra le due flangie tramite la
coppia di bulloni e dadi, quindi reso solidale a tale sistema il quale tramite un perno
filettato può essere agevolmente posizionato sulla tavola porta provini nel vano di
depressurizzazione del microscopio elettronico. La demarcazione della superficie di
studio è stata effettuata solo in direzione longitudinale del settore attraverso delle
incisioni, eseguita con un normale seghetto per il taglio di materiali ferrosi, mentre si è
utilizzata l’intera estensione trasversale del settore data la limitata dimensione di questa,
come mostrato schematicamente in figura 4.5.
Fig. 4.4 - Supporto adottato nelle osservazioni S.E.M.
Superficie di riferimento
Intagli di delimitazione
longitudinale
Settore di riferimento
Fig. 4.5 - Rappresentazione schematica della delimitazione della superficie scelta come
riferimento
4.7.2 Metodo di individuazione delle grane e della misura di protrusione
L’individuazione ed identificazione univoca delle grane diamantate sulla superficie di
riferimento è stata ottenuta tramite mappatura fotografica.
Attraverso l’utilizzazione di un microscopio a scansione elettronica si è proceduti
all’identificazione di aree adiacenti contenute nella superficie di riferimento e si è
utilizzato come sistema di origine iniziale l’intaglio inferiore precedentemente eseguito
sul settore.
L’acquisizione dell’immagine di sotto zone in forma digitale ha reso possibile una
mappatura delle grane contenute nei vari spot.
Le grane su tale spot venivano catalogate tramite un codice identificativo alfa numerico
indicante il tipo di fresa lo spot di appartenenza ed un numero riferito alla grana di
diamante.
L’utilizzo del microscopio a scansione elettronica oltre a permettere una facile
individuazione delle sotto zone con resoconti fotografici, permettendo il ritrovamento e
l’identificazione delle grane diamantate, rende possibile una visione tridimensionale
realistica delle grane di diamante, permettendo una più facile qualificazione di queste
rispetto al loro stato di usura.
La classificazione dello stato qualitativo di usura utilizzato è quello esistente in
letteratura, andando a definire le grane di diamante in 6 modi: cristallo emergente,
cristallo integro, cristallo levigato, cristallo micro fratturato, cristallo macro fratturato,
vuoto o pul-out. La misurazione di protrusione delle grane di diamante è stata pensata ed
effettuata utilizzando un microscopio ottico dotato di movimentazione lungo i tre assi
principali X, Y, Z e di un sistema di rilevazione e misura lungo tali assi.
Il microscopio utilizzato è un modello LEICA VMM 200 avente caratteristiche di
misurazione sopra riportate con una risoluzione di 0,5 micron ed una incertezza di misura
inferiore ai 2.55 micron. La misura di tipo digitale è ottenuta su una unità di valutazione
Quadrachek QC 2210 interconnessa con il microscopio ottico tramite tre interfacce seriali
RS-232 C.
La metodologia di rilevazione della misura di protrusione, schematicamente riportato in
figura 4.6, è stata basata sulla rilevazione della misura relativa del posizionamento del
fuoco visivo dell’obbiettivo lungo l’altezza delle grana di diamante.
Z
Y
X
Protrusione
Protrusione
Fig. 4.6 - Rappresentazione schematica della misura di protrusione.
La distanza tra il punto di fuoco e l’obiettivo da 200 ingrandimenti è fissa, per cui la
messa a fuoco avviene attraverso la traslazione dell’obbiettivo lungo l’asse z . La
traslazione del fuoco ottico avviene grazie ad un sistema micrometrico a vite che trasla
l’intero gruppo ottico compreso l’obiettivo da 200 ingrandimenti utilizzato. La misura si
effettua azzerando il traduttore di posizione dell’asse Z quando il punto di fuoco
dell’obbiettivo è posizionato nel punto più alto della grana in osservazione, segnalato da
una visione nitida di tale punto nell’oculare. Quindi tramite la vite micrometrica, si va a
mettere a fuoco la base della stessa, dove risulta incastonata nel legante metallico. Il
valore della protrusione è proprio la variazione di altezza lungo l’asse Z subito
dall’obiettivo e riportato nel display del Quadra check del microscopio.
4.7.3 Prove preliminari di taglio
Come già precedentemente riportato la vita delle grane diamantate è limitata, infatti il
sistema di taglio prevede proprio un rinnovo degli elementi taglienti attraverso un sistema
di usura ed erosione del legante metallico imprigionante le grane diamantate.
La vita di tale grane può essere definita come l’intervallo temporale che va dai primi
istanti di emersione dal legante metallico fino alla completa disgregazione o fuoriuscita
dallo stesso. La conoscenza di tale parametro è fondamentale per lo svolgimento della
prova di usura, poiché consente di organizzare la sequenza dei tagli necessari, quindi il
volume di materiale da asportare ogni volta, senza che le grane di diamante giungano
subito ad uno stato di completa distruzione o addirittura fuoriuscita dal legante metallico.
La quantificazione di tale vita non può che essere dedotta per via sperimentale data
l’enormità dei fattori entranti in gioco quali: parametri di processo, vibrazioni,
disomogeneità del materiale in lavorazione, forze di processo. La determinazione di tale
parametro è stato ottenuto attraverso un iter costituito da tagli di piccole quantità di
materiale e controlli visivi tramite microscopio ottico di alcune grane di diamante scelte
nella superficie di riferimento in condizioni di inizio vita. L’iter si arresta nel momento in
cui la totalità delle grane sono scomparse, ed il volume di materiale cumulato durante
l’iter rappresenta proprio la vita delle grane diamantate.
4.7.4 Esecuzione dei tagli di usura micro geometrica e misura dei parametri
correlati alla progressione di usura
Nota la vita delle grane di diamante si è passati all’esecuzione dei tagli di usura micro
geometrica. L’esecuzione della prova di usura micro geometrica consiste in una serie di
tagli a volume di materiale prestabilito intervallati da osservazioni visive, tramite
microscopio a scansione elettronica, e misurazione dell’altezza di protrusione delle grane
di diamante contenute nella superficie di riferimento. Il quantitativo di materiale lavorato
in ogni taglio è stato dedotto dalla conoscenza della vita delle grane diamantate espressa
in cm3 e dal numero di step scelti per suddividere tale vita come riportato nel protocollo
di prova di usura micro geometrica. I tagli sono stati effettuati su lastre di granito
prescelto, Nero d’africa e Granito Sardo, aventi dimensioni 1000 mm × 500 mm × 30
mm, tali da poter essere ben fissate sul banco del centro di lavoro. Il fluido refrigerante
utilizzato è acqua, questa veniva indirizzata nella zona interessata al taglio tramite un
sistema di ugelli opportunamente orientati ed un condotto interno alla macchina che
irrorava la fresa tramite un condotto interno alla fresa stessa. Sulle lastre i tagli eseguiti
sono stati lineari e dal pieno facendo in modo di far lavorare sempre la zona di
riferimento scelta sul settore. Inoltre questi si sono eseguiti ad opportuna distanza l’uno
dall’altro in modo tale da garantire una completa indipendenza dei tagli. Al termine di
ogni taglio la fresa veniva rimossa dalla mandrino della macchina e sottoposta a una
approfondita pulizia. La necessita di tale pratica era dettata dalla necessita di rimuovere
eventuali residui di lavorazione che avrebbero reso le osservazioni ed misurazioni più
scadenti. In una prima fase la pulizia veniva eseguita tramite l’utilizzo di semplice acqua
ad alta pressione in modo da rimuovere tutte le impurità di tipo grossolano quali melme e
sfridi di granito depositati tra le grane di diamante e il legante metallico. Successivamente
la fresa veniva pulita tramite una soluzione acida di acqua e acido acetico in modo da
sciogliere e rimuovere in modo completo i residui di origine calcarea ancora depositati
sulla superficie e non rimossi dall’azione meccanica della precedente pulizia. Infine nelle
osservazioni al microscopio elettronico della fresa diamantata sintetizzata veniva
ulteriormente pulita con acetone per rimuovere impurità oleose formate durante il
manipolamento della stessa.
4.8 Prova di usura micro geometrica: espressione dei dati ed
analisi dei risultati.
Le rilevazioni sullo stato di usura attraverso una classificazione qualitativa delle grane ed
una quantitativa inerente alla altezza di protrusione è stata condotta su tutte le grane
contenute nella superficie di riferimento. Logicamente quelle di più interesse sono le
grane che presentano all’inizio prova uno stato classificabile come emergente, in quanto
danno la possibilità di avere un quadro completo su l’evoluzione dell’altezza di
protrusione. Questo ha comportato l’estensione dell’iter di tagli e misurazioni a quelle
grane di diamante affiorate in tempi successivi alla situazione iniziale. Si sono eseguite
più di 200 scansioni e un numero di 150 immagini digitalizzate, mentre i dati relativi
all’altezza di protrusione sono stati ricavati per ogni grana di diamante ad ogni fine taglio.
4.8.1 Parametri caratterizzanti l’usura.
Dalle prove effettuate è emerso che l’altezza di protrusione in funzione del volume di
materiale lavorato ha un andamento simile per tutte le grane di diamante osservate.
In figura 4.7 è riportato, a titolo di esempio, un andamento tipico della protrusione ed il
rispettivo stato di usura, valutato mediante immagini al SEM, di una grana di diamante in
funzione del materiale lavorato. L’andamento della protrusione mostrato in figura 4.7 può
essere considerato rappresentativo del comportamento delle grane di diamante contenute
nell’utensile, in quanto gli andamenti delle altre grane, riportate in figura 4.8, hanno tutte
un andamento simile o un andamento riconducibile ad una sotto zona di tale diagramma.
Nell’analisi di tali diagrammi si possono individuare due zone distinte, definibili come
zona di transitorio e zona di regime. Nella prima zona si ha una notevole variazione della
protrusione in funzione del materiale lavorato, mentre nella seconda questa si mantiene
pressoché costante. La zona di transitorio è contraddistinta da inizio protrusione,
corrispondente ad uno stato della particella di tipo ‘‘emergente’’, fino ad una protrusione
massima per terminare ad un livello di protrusione minore. La zona di regime è delimitata
dal fine transitorio e da un livello di protrusione minore di quella massima ma di
andamento quasi costante fino a terminare per la fuoriuscita del cristallo dalla matrice.
Per meglio caratterizzare la progressione di usura sono state calcolate alcune grandezze
caratterizzanti la curva di protrusione quali:
•
•
Altezza di protrusione massima Pmax. Tale parametro è stato calcolato
prendendo l’altezza massima di protrusione su quelle particelle dotate della zona
di transitorio o della parte di esso in cui sia stato possibile definire una
protrusione massima.
Velocità di protrusione nel punto di protrusione massima Vmax. Con tale
parametro si va a definire la pendenza della curva ‘‘protrusione-materiale
lavorato’’ nel tratto iniziale del transitorio. Esso ci dà il grado di protrusione del
cristallo in funzione del materiale lavorato e quindi indirettamente sul
comportamento della matrice all’usura. La Vmax è stata calcolata per quelle
particelle di cui è stato possibile avere un transitorio completo nel modo
seguente
Vmax =
•
•
•
Pmax
materiale lavorato lavorato al punto Pmax misurato in cm3
Protrusione media nella zona di regime Pavg. Come dice la definizione tale
parametro è stato calcolato facendo la media della protrusione nel tratto di curva
‘‘protrusione-materiale lavorato ‘‘ relativo al transitorio.
Materiale lavorato nella regione transitoria Vtra. Tale parametro misurato in
Cm3 esprime la quantità di materiale lavorato nella zona di transitorio della curva
‘‘protrusione-materiale lavorato ‘‘ ed relativo a quelle particelle aventi una zona
di transitorio completa.
Materiale lavorato nella regione di regime Vreg. Anche tale parametro è
espresso in Cm3 e si riferisce alla quantità di materiale lavorato nella zona di
regime.
0,100
B
Altezza di protrusione [mm]
0,090
0,080
C
D
E
0,070
0,060
0,050
0,040
0,030
0,020
0,010
F
A
0,000
0
635
1270
1904
2539
3174
3809
4444
Volume di materiale lavorato [cm^3]
punto A
Diamante emergente
punto C
Diamante lisciato
punto E
Diamante macro fratturato
punto B
Diamante Protruso
punto D
Diamante micro fratturato
punto F
Diamante pull.out
Fig.4.8 - Andamento della protrusione in funzione del materiale lavorato per una grana di
diamante.
0,100
B
0,090
D
altezza di protrusione[mm]
0,080
E
C
0,070
0,060
0,050
0,040
0,030
0,020
0,010
A
F
0,000
0
635
1270
1904
2539
3174
3809
4444
Volume di materiale lavorato [cm^3]
Per meglio caratterizzare il comportamento della progressione di usura micro geometrica
della fresa sono state determinate le varie percentuali di particelle contraddistinte dai
diversi modi di usura. Ricordando che tali stati possibili sono ‘‘ cristallo emergente’’,
cristallo protruso’’, ‘‘cristallo lisciato ‘‘, ‘‘cristallo microfratturato ‘‘, ‘‘cristallo
macrofratturato ‘‘ e ‘‘ pull-out ‘‘, come riportato in figura 4.7.
4.8.2 Resoconto di prova: fresa M9Z3
Il resoconto di prova, come riportato nel protocollo, prevede di specificare le curve di
protrusione in funzione del materiale lavorato, lo stato di usura e d i parametri
caratterizzanti la curva di protrusione. Le curve di protrusione in funzione del materiale
lavorato, per l’utensile M9Z3, sono riportate nella figura 4.8. Da tutte le curve di
protrusione rilevato sono stati ricavati i parametri caratterizzanti la curva la curva stessa.
Lo stato di usura dei cristalli è riportato in figura 4.9 in funzione del materiale lavorato.
100%
90%
Stato usura cristalli %
80%
cristalli pull-out
70%
cristalli macro fratturati
60%
cristalli micro fratturati
50%
cristalli lisciati
40%
cristalli protrusi
30%
cristalli mergenti
20%
10%
0%
0
635
1270
1904
2539
3174
3809
4444
Materiale Lavorato cm^3
Fig.4.9 - Percentuali dei modi d’usura dei cristalli della fresa M9Z3 in funzione del materiale
Tale diagramma è stato dedotto analizzando tutti i cristalli situati nella superficie di
riferimento.
L’alta percentuale di pull-out e di cristalli micro fratturati rispetto a cristalli lisciati
denota un buon comportamento dell’utensile durante il taglio. Infatti l’alta percentuale di
pull-out indica un buon grado di rinnovamento delle grane, mentre l’alto numero di grane
micro fratturate denota una alta capacità di taglio dovuto al maggior numero di taglienti
che tali grane hanno sulla sommità causate da micro fratture.
Da tale diagramma si evidenzia inoltre come le percentuali degli stati di usura si
mantengono pressoché costanti rispetto al materiale lavorato. Tale comportamento, per
altro meglio esposto in figura 4.10, indica un mantenimento delle buone condizioni di
taglio per tutta la durata della prova.
Nelle figure 4.11 e 4.12 sono riportati i valori medi dei parametri caratterizzanti la curva
di protrusione. Tali valori sono stati ottenuti da tutte le curve di protrusione ricavate per
l’utensile M9Z3.
Classificazione delle grane di diamante fresa M9Z3
40,0
Stato usura cristalli %
36,0
cristalli mergenti
32,0
28,0
cristalli protrusi
24,0
cristalli
lisciati
20,0
cristalli micro
fratturati
16,0
12,0
cristalli macro
fratturati
8,0
cristalli pull-out
4,0
0,0
0
1000
2000
3000
4000
5000
3
Materiale lavorato cm
Fig.4.10 - Tendenza delle percentuali dei modi d’usura dei cristalli della fresa M9Z3
0,18
0,1576
0,16
0,14
0,12
0,10
0,0889
0,08
0,0682
0,06
0,04
0,02
0,00
Pmax [mm]
Pavg [mm]
vmax [mm/min]
Fig.4.11 – Valori medi dei parametri caratterizzanti la curva di protrusione: utensile M9Z3
2500
1920,1
2000
1500
1174,5
1000
500
0
Vtra [cm^3]
Vreg [cm^3]
Fig.4.12 – Valori medi dei parametri caratterizzanti la curva di protrusione: utensile M9Z3
4.8.3 Resoconto di prova: fresa M9BN
In analogia con la prova di taglio eseguita sulla fresa M9Z3 si è misurato l’altezza di
protrusione in funzione del materiale lavorato per ogni particella contenuta nelle sotto
zone di riferimento. Anche in questo caso l’andamento della protrusione ha un
comportamento simile per tutte le grane analizzate. Tali andamenti sono riportati nella
figura 4.13.
0,120
0,100
B
altezza di protrusione [mm]
D
E
0,080
C
0,060
0,040
0,020
F
A
0,000
0
221
442
662
883
1104
1325
1546
1766
1987
2208
2429
2650
2870
3091
3312
volume di materiale lavorato [cm^3]
Fig. 4.13 - Andamento della protrusione di alcuni cristalli di diamante
3533
3754
In figura 4.14 è riportato il diagramma relativo alle percentuali dei diversi stati di usura
delle grane in funzione del materiale lavorato. Anche in questo caso l’analisi dello stato di
usura dei cristalli è stato eseguito su tutta la superficie di riferimento scelta. La
percentuale di pull-out maggiore rispetto a quelli lisciati denota un buon comportamento
di rinnovamento delle grane abrasive e quindi delle condizioni di taglio. Tali condizioni
tendenzialmente permangono per tutta la durata della prova come mostrato dalla figura
4.15 Nelle figure 4.16 e 4.17 sono riportati i valori medi dei parametri caratterizzanti la
curva di protrusione. Tali valori sono stati ottenuti da tutte le curve di protrusione ricavate
per l’utensile M9BN.
100%
90%
Stato di usura cristalli %
80%
cristalli Pull-out
70%
cristalli macro fratturati
60%
cristalli micro fratturati
50%
cristalli lisciati
40%
cristalli protrusi
30%
cristalli emergenti
20%
10%
0%
0
442
883
1325
1766
2208
2650
3091
3533
Materiale Lavorato cm3
Figura 4.14 - Percentuali dei modi d’usura dei cristalli della fresa M9BN in funzione del materiale
lavorato.
Stato usura cristalli %
Classificazione delle grane di diamante fresa M9BN
40,0
cristalli
emergenti
35,0
cristalli protrusi
30,0
cristalli lisciati
25,0
20,0
cristalli micro
fratturati
15,0
cristalli macro
fratturati
10,0
5,0
cristalli Pull-out
0,0
0
1000
2000
3000
4000
3
Materiale lavorato cm
Fig.4.15 - Tendenza delle percentuali dei modi d’usura dei cristalli della fresa M9BN.
0,25
0,2203
0,20
0,15
0,10
0,0859
0,0632
0,05
0,00
Pmax [mm]
Pavg [mm]
vmax [mm/min]
Fig.4.16 – Valori medi dei parametri caratterizzanti la curva di protrusione:utensile M9BN.
1400
1225,6
1200
1000
872,2
800
600
400
200
0
Vtra [cm^3]
Vreg [cm^3]
Fig.4.17 – Valori medi dei parametri caratterizzanti la curva di protrusione:utensile M9BN.
4.8.4 Confronto sul comportamento alla micro usura tra la fresa M9Z3 ed
M9BN
Da un punto di vista costruttivo la differenza tra la fresa M9Z3 ed M9BN è nella
geometria, con numero e dimensioni diverse dei settori, e nel contenuto degli elementi
costituenti la matrice metallica sinterizzata, quindi sulle caratteristiche meccaniche di
questa.
La fresa M9Z3 ha un contenuto di cobalto maggiore rispetto alla fresa M9BN ed il
rapporto delle percentuali in peso del cobalto nelle due frese è pari a:
Co M9Z3 62,40 %
=
= 2,44
Co M9BN 25,59 %
Tale differenza è giustificata dal fatto che le frese in questione sono state concepite dalla
casa costruttrice espressamente per lavorare graniti aventi differenti proprietà di
lavorabilità. In particolare la M9Z3 per il granito Nero d’Africa o graniti aventi
caratteristiche di lavorabilità simile ed la M9BN per il granito sardo o graniti aventi
caratteristiche di lavorabilità simile.
Il granito Nero d’Africa è uno dei graniti più duri ed difficili da lavorare; da una scala da
I a IV ,con IV = materiale facile da lavorare ed I = materiale più difficile da lavorare, il
granito Nero d’Africa assume il valore I. Il granito Sardo ha una lavorabilità di indice IV.
[Mil96]
La fresa M9Z3 è utilizzata nel granito Nero Africa proprio in virtù della maggiore
durezza della matrice metallica causata dal maggiore tenore di cobalto. La fresa M9BN
con un minore tenore di cobalto presenta una minore durezza della matrice metallica per
cui è usato per lavorare il granito Sardo.
Da un punto di vista delle prestazioni rispetto alla micro usura la fresa M9Z3 ha avuto un
comportamento migliore della fresa M9BN, sia da un punto di vista della vita utile delle
grane sia rispetto alla quantità di materiale lavorato.
Confrontando i parametri caratteristici medi della progressione di usura delle due frese,
riportati in figura 4.18 e 4.19, si nota come la fresa M9Z3 abbia, nella zona di regime
della progressione di usura, un volume di materiale lavorato maggiore rispetto a quello
della fresa M9BN.
Altra differenza , più legata alla proprietà abrasiva dei materiali, è la differente velocità di
protrusione che si riscontra nei transitori delle grane di diamante nei due tipi di frese.
Questa è maggiore nella fresa M9BN, essenzialmente dovuta a due fattori; il primo
dovuto alla minore durezza della matrice metallica e quindi una più facile usura di questa
ad opera dei sfridi, l’altra dovuto alla maggiore abrasività del granito Sardo il quale ha un
indice di abrasività pari a 2.5 rispetto al Nero d’Africa che è pari ad 1.
0,25
0,2203
0,20
0,1576
0,15
M9Z3
M9BN
0,10
0,0889 0,0859
0,0682 0,0632
0,05
0,00
Pmax [mm]
Pavg [mm]
vmax [mm/min]
Fig.4.18 - Confronto tra i parametri Vmax, Pmax e Pavg nelle frese M9Z3 ed M9BN.
2500
1920,1
2000
1500
1225,6
1174,5
1000
M9Z3
M9BN
872,2
500
0
Vtra [cm^3]
Vreg [cm^3]
Fig.4.19 - Confronto tra i parametri Vtra e Vreg nelle frese M9Z3 ed M9BN.
4.9 Protocollo per prove di usura macro-geometrica
Il protocollo di usura macro-geometrica prevede di specificare il materiale da lavorare, le
condizioni standard del pezzo, le caratteristiche dell’utensile, il fluido refrigerante
utilizzato e le condizioni di taglio da utilizzare durante la prova. La macchina sulla quale
si effettua la prova deve essere di costruzione rigida e tale che non abbia alcuna tendenza
a vibrare o a flettersi in modo anomalo nel corso della prova. La macchina utensile per la
prova deve disporre di un comando con variazione continua di velocità in modo da
ricoprire tutta la gamma di velocità utilizzate durante la lavorazione vera e propria. Il
metodo da seguire per realizzare la prova di durata dell’utensile è lo stesso di quello
utilizzato per realizzare l’operazione di taglio con, in più, le osservazioni da rilevare e le
misure che devono essere effettuate. La prova di usura macro-geometrica consiste
nell’effettuare in successione più operazioni di taglio e intercalando, tra un taglio ed il
successivo, la misura dei parametri caratterizzanti l’usura macro geometrica. Nel seguito
si riporta il testo integrale del protocollo.
4.9.1 Materiale da lavorare
Data la numerosità di materiali utilizzati nel settore di lavorazione delle pietre naturali
non è consigliabile confrontare prove effettuate su materiali diversi o materiali aventi
caratteristiche simili. Per tal motivo nel resoconto di prova devono essere specificate le
proprietà dei materiali utilizzati e in particolare la classe di lavorabilità [Mil96]. In tabella
1 sono riportate le caratteristiche di due materiali utilizzati per testare il presente
protocollo.
4.9.2 Condizioni ‘‘standard’’ del pezzo da lavorare
Le prove di taglio devono essere effettuate su lastre di dimensioni tali da minimizzare le
vibrazioni del pezzo durante la prova. La tavola per fissare il pezzo deve essere stabile e
ben equilibrata. Durante il posizionamento del pezzo sulla tavola, si deve evitare con cura
di inflettere il pezzo da lavorare.
4.9.3 Utensile
L’usura dell’utensile dipende fortemente dai materiali costituenti l’utensile stesso. Nel
resoconto di prova devono essere specificate le caratteristiche dell’utensile impiegato
nella prova secondo quanto riportato nella tabella 2.
4.9.4 Fluido da taglio
Tutte le prove di taglio nelle quali il fluido da taglio non è la variabile devono essere
realizzate impiegando come fluido da taglio acqua. Il getto del fluido da taglio deve
essere orientato sulla faccia dell’utensile e investire completamente la parte attiva
dell’utensile. Indicare, se è possibile, nel resoconto di prova, la portata e pressione del
getto.
4.9.5 Condizioni di taglio
Per tutte le prove di taglio nelle quali l’avanzamento f, la profondità di passata a e la
velocità di taglio Vt non costituiscono la variabile principale della prova, le condizioni di
taglio devono corrispondere a quelle indicate nella tabella 3.
4.9.6 Criteri di durata dell’utensile e misura dell’usura dell’utensile
Lo scopo della prova di durata dell’utensile è quello di determinare sperimentalmente
come uno o più parametri influiscono sulla durata degli utensili da taglio. La ragione per
la quale la durata di un materiale da taglio deve essere considerata terminata non è
sovente la stessa per differenti operazioni di lavorazione. Il caso più semplice che può
capitare è il caso nel quale l’utensile diventa completamente inutilizzabile. Nella maggior
parte dei casi, l’utensile si usura progressivamente ed il lavoro effettuato diventa meno
soddisfacente, per esempio le forze di taglio aumentano e producono delle flessioni o
delle vibrazioni intollerabili. La determinazione della fine della durata dell’utensile è
fissata quindi per delle ragioni di comparabilità.
Definizioni
Agli effetti del presente protocollo si applicano le definizioni seguenti:
• usura dell’utensile: cambiamento, durante il taglio, della forma dell’utensile con
riferimento alla sua forma iniziale risultante dalla perdita progressiva di materiale
dell’utensile;
• misura dell’usura dell’utensile: parametro che deve essere misurato per indicare il
valore dell’usura;
• criterio di durata dell’utensile: valore limite predeterminato della misura
dell’usura di un utensile o dell’apparizione di un fenomeno;
• durata dell’utensile: tempo di taglio necessario per raggiungere il criterio di
durata dell’utensile.
4.9.7 Procedimento di prova di usura macro geometrica
Il meccanismo di usura a livello locale degli utensili sinterizzati diamantati si può
dividere fra quella della matrice da una parte, e quella del diamante, dall’altra. L’azione
abrasiva delle pietre naturali, unita agli alti carichi meccanici, incide sul diamante
provocandone l’usura. D’altra parte, il refrigerante si unisce agli sfridi per formare una
miscela abrasiva che erode la matrice del segmento.
Il procedimento di prova di usura macro geometrica consiste nell’effettuare una serie di
tagli lineari dal pieno ed intercalare tra un taglio e il successivo la misura dell’usura. La
prova si considera terminata quando i settori diamantati costituenti l’utensile sono
completamente usurati oppure quando le prestazioni al taglio risultano scadenti. L’usura
macro geometrica è definita mediante la riduzione del diametro dell’utensile in funzione
del materiale lavorato espresso in cm3. Il diametro dell’utensile deve essere misurato
mediante un calibro a corsoio centesimale. L’usura macro geometrica è definita mediante
la riduzione di peso dell’utensile in funzione del volume di materiale lavorato. Il peso
dell’utensile deve essere misurato mediante una bilancia elettronica con risoluzione del
centesimo di grammo. Altro parametro per la definizione dell’usura è relativo alla
cilindricità dell’utensile. La cilindricità in funzione del volume di materiale lavorato
indica la variazione della geometria iniziale cilindrica della fresa.
4.9.8 Apparecchiatura
La macchina sulla quale si effettua la prova deve essere di costruzione rigida e tale che
non abbia alcuna tendenza a vibrare o a flettersi anormalmente nel corso della prova. La
macchina utensile per la prova deve disporre di un comando con variazione continua della
velocità che ricopra tutta la gamma delle velocità da utilizzare. Un comando a velocità
variabile permette inoltre la predeterminazione esatta delle velocità di taglio e riduce i
tempi necessari per l’ottenimento della curva di durata dell’utensile.
La strumentazione sotto indicata è necessaria per l’effettuazione delle misure richieste e
deve essere di accurata costruzione per poter verificare le tolleranze indicate nella
presente norma:
• un cronometro per registrare i tempi di taglio;
• un calibro centesimale per misurare le dimensioni dell’utensile;
• una bilancia digitale con risoluzione del centesimo di grammo;
• una apparecchiatura per misurare la portata del liquido da taglio (può essere
ottenuta misurando il tempo necessario per vuotare un recipiente di volume noto).
4.9.9 Resoconto di prova ed espressione dei risultati
Nel resoconto di prova devono essere riportati i seguenti risultati:
•
Riduzione del peso dell’utensile in funzione del materiale lavorato;
•
Riduzione del diametro dell’utensile in funzione del materiale lavorato;
•
Cilindricità in funzione del volume di materiale lavorato.
4.10 Prova di usura macro geometrica: espressione dei dati ed
analisi dei risultati.
La prova di usura macro geometrica consiste nell’effettuare una serie di tagli lineari ed
intercalare tra un taglio e l’altro la misura dei parametri di usura macro geometrica. Sono
state eseguite, secondo quanto riportato nel protocollo di prova, due campagne
sperimentali testando due utensili, come descritto nella prova di usura micro geometrica.
4.10.1 Progettazione della prova
La scelta degli utensili su cui eseguire la prova, come le considerazioni sulla scelta dei
materiali su cui eseguire la prova, sono state le stesse della prova di usura micro
geometrica, quindi la fresa M9Z3 per il granito Nero Africa ed la Fresa M9BN per il
granito Sardo. I parametri di processo utilizzati nella sperimentazione sono riportati in
tabella 4, come per la prova di usura micro geometrica.
Gli strumenti di misura utilizzati in questo caso sono una bilancia digitale con risoluzione
del centesimo di grammo e un calibro centesimale per le misure di diametro.
L’esecuzione della prova di usura macro geometrica consiste in una serie di tagli a
volume di materiale prestabilito intervallati da misurazione di peso della fresa, del
diametro e quindi della cilindricità. Il quantitativo di materiale lavorato in ogni taglio è
stato dedotto durante la prova con aumenti progressivi del volume di materiale lavorato
per taglio fino ad avere variazioni di peso apprezzabili.
I tagli sono stati effettuati su lastre di granito prescelto, Nero d’africa e Granito Sardo,
aventi dimensioni 1000 mm × 500 mm × 30 mm, tali da poter essere ben fissate sul banco
del centro di lavoro. Il fluido refrigerante utilizzato è acqua, questa veniva indirizzata
nella zona interessata al taglio tramite un sistema di ugelli, opportunamente orientati, e
tramite un condotto interno alla fresa stessa.
Sulle lastre i tagli eseguiti sono stati lineari ed dal pieno facendo in modo da far lavorare
sempre la zona centrale della fresa. Inoltre questi si sono eseguiti ad opportuna distanza
l’uno dall’altro in modo tale da garantire una completa indipendenza dei tagli. Al
termina di ogni taglio la fresa veniva rimossa dalla mandrino della macchina e sottoposta
a una approfondita pulizia prima della misurazione.
La pulizia della fresa è resa necessaria per non alterare i valori delle misure da eventuali
residui di lavorazione. L’azione pulente è stata effettuata tramite getti di acqua e
successivamente da getti di aria compressa per eliminare residui di acqua.
4.10.2 Resoconto di prova: fresa M9BN e fresa M9Z3
Il resoconto di prova consiste nel riportare il grafico della riduzione di peso in funzione
del materiale lavorato espresso in cm3. La riduzione di peso dell’utensile è la differenza
tra il peso iniziale dell’utensile e il peso misurato dopo ogni prova di taglio. In figura 4.20
è riportata la riduzione del peso dell’utensile in funzione del materiale lavorato per le
frese M9Z3 ed M9BN.
L’usura dell’utensile si manifesta come una perdita di materiale costituente i settori
sinterizzati. L’usura consiste in una riduzione dell’altezza dei settori, e quindi, del
diametro dell’utensile. In figura 4.21 è riportata la riduzione del diametro dell’utensile in
funzione del volume di materiale lavorato per le due tipologie di frese, M9Z3 ed M9BN.
riduzione del peso dell'utensile [g]
36
33
30
27
24
21
18
15
12
9
6
3
0
M9Z3
M9BN
0
20000
40000
60000
80000 100000
volume di materiale lavorato [cm^3]
variazione di diamatro [mm]
Fig.4.20 - Riduzione del peso dell’utensile per le frese M9Z3 ed M9BN.
26
24
22
20
18
16
14
12
10
8
6
4
2
0
M9Z3
M9BN
0
20000
40000
60000
80000
100000
volume del
di materiale
lavorato [cm^3]
Fig.4.21 - Riduzione
diametro dell’utensile
per le frese M9Z3 ed M9BN.
Fig.4.21 - Variazione di diametro dell’utensile per le frese M9Z3 ed M9BN.
L’usura dell’utensile, dovuta alla perdita di materiale costituente il settore, può
comportare una variazione sulla forma iniziale dell’utensile. In generale l’utensile durante
il taglio può perdere la geometria iniziale cilindrica, in questo caso l’usura è
accompagnata da una variazione geometrica dell’utensile. Tale variazione può essere
espressa mediante la cilindricità dell’utensile in funzione del volume di materiale
lavorato. In figura 4.22 sono riportati i grafici della cilindricità in funzione del materiale
lavorato per i due utensili.
0,12
cilindricità dell'utensile [mm]
0,1
0,08
M9Z3
0,06
M9BN
0,04
0,02
0
0
20000
40000
60000
80000
volume di materiale lavorato [cm^3]
100000
Fig.4.22 - Variazione di cilindricità dell’utensile per le frese M9Z3 ed M9BN.
5. La tecnologia a getto d’acqua con
abrasivo
La tecnologia a getto d’acqua con abrasivo (Abrasive Water jet “AWJ”), a causa della
peculiarità del meccanismo di asportazione che la caratterizza, rientra in quelle che
vengono più comunemente definite tecnologie non convenzionali. La tecnologia Waterjet
sfrutta la quantità di moto posseduta da un fluido per eseguire lavorazioni sui diversi
materiali. Per conferire quantità di moto al fluido di lavoro si utilizza un pompa
alternativa ad alta pressione costituita da un intensificatore di pressione a doppio effetto.
L’intensificatore è costituito da due sezioni, una di bassa pressione in cui viene pompato
olio idraulico che movimenta un pistone di grosso diametro ed una di alta pressione in
cui due pistoni di diametro ridotto collegati al primo realizzano l’incremento di pressione
dell’acqua. La differenza di sezione dei pistoni comporta un rapporto di pressione tra
acqua ed olio generalmente compreso tra 20÷25 in modo che all’uscita dal cilindro
l’acqua raggiunga valori di pressione massima dell’ordine dei 400 MPa; l’acqua ad alta
pressione viene inviata ad un serbatoio di accumulo che serve per regolarizzare ed
uniformare la portata del fluido, nella fase di compressione si generano fluttuazioni della
pressione causate dall’interruzione del pompaggio nei punti di inversione del moto dei
pistoni, dalle deformazioni delle tubature e dalla comprimibilità del fluido. Oggi ci sono
sistemi WJ che in luogo dell’accumulatore presentano due intensificatori di pressione
collegati in parallelo, ma non in fase. Dal serbatoio mediante condutture d’alta pressione,
raccordi statici, giunti rotanti e serpentine l’acqua viene inviata in un ugello calibrato;
prima di essere espulso ad una velocità pari a tre volte quella del suono , il getto d’acqua
viene addizionato o meno di abrasivo , a seconda della durezza del materiale da lavorare.
Il risultato è un getto idro-abrasivo supersonico che viene diretto contro la superficie del
pezzo in lavorazione determinano l’asportazione di materiale tramite un meccanismo di
erosione. Il getto d’acqua con abrasivo viene applicato nella lavorazione di diversi
materiali e trova applicazioni anche nel settore delle lavorazioni delle pietre naturali. Nel
settore delle pietre naturali la tecnologia a getto d’acqua con abrasivo viene applicato sia
nelle operazioni di taglio, lineare ma soprattutto curvilineo, che nelle lavorazioni
superficiali. L’obiettivo intrapreso in questo settore di lavorazione è relativo allo studio
delle lavorazioni superficiali mediante getto d’acqua, in particolare, si è determinato un
indice energetico in base al quale è possibile prevedere il risultato della lavorazione. Il
getto d’acqua trova applicazioni nel taglio delle pietre naturali. In questo ambito si è
affrontato lo studio della qualità del taglio e il confronto tecnico economico tra la
tecnologia AWJ e la tecnologia tradizionale con utensili diamantati.
5.1 Caratteristiche della tecnologia AWJ
L’AWJ è uno dei recenti processi di lavorazione non convenzionali. Si basa sull’azione
erosiva di un getto d’acqua focalizzato e caricato con polveri abrasive naturali o sintetiche
allo scopo di tagliare e forare materiali duri come marmi, graniti, vetro, metalli, ceramici,
compositi, etc. Il getto d’acqua può viaggiare con velocità di circa 900 m/s ed operare a
pressioni che raggiungono i 400 MPa.
I parametri di processo da cui dipende la qualità del taglio sono molti, una loro
ottimizzazione consente di avere lavorazioni qualitativamente ed economicamente
valide.
I principali parametri di processo della tecnologia AWJ sono :
• pressione dell’acqua; essa determina la velocità delle particelle abrasive:
generalmente si applicano pressioni che superano la pressione critica per ogni
materiale e comunque tali da ottimizzare la qualità del taglio.
• portata massica di abrasivo; è direttamente legata allo spessore del taglio e alla
durezza del materiale: nei materiali quali plastica, legno, alimentari, etc. non si
utilizza l’abrasivo perché basta il semplice getto d’acqua, mentre per marmi, graniti
acciai, materiali compositi, etc. è necessario per il taglio l’aggiunta di abrasivo.
• dimensioni dell’abrasivo; la granulometria è generalmente compresa tra 60 e 120
mesh: per ogni materiale esiste un intervallo di dimensioni ottimale.
• tipo di abrasivo; dipende dalla durezza del materiale da lavorare: i più impiegati
sono Garnet (granato), sabbia di olivina o di silice ed il carburo di silicio.
• velocità di avanzamento trasversale; è la velocità con cui si sposta la testa di taglio:
da questo parametro dipende la qualità e la economicità della lavorazione.
• ugello primario; è costituito da uno zaffiro di diametro dn inferiore al millimetro: la
sua geometria varia per applicazione di taglio a getto d’acqua con abrasivo o non.
• ugello secondario o focalizzatore; è un ugello calibratore che si trova dopo la
camera di miscelazione tra abrasivo ed acqua: importante sono il suo diametro df e
la sua lunghezza lf.
• la distanza di stand-off ; è la distanza tra l’ugello di uscita del getto idroabrasivo ed
il pezzo: il getto una volta uscito dal focalizzatore tende a non restare coerente, la
divergenza o meglio l’espansione della sezione del getto dipende dalla distanza
percorsa dal getto fuori dal focalizzatore, la distanza ugello-pezzo deve essere
dell’ordine dei millimetri, se si esagera con la distanza di stand-off, il getto invece di
tagliare esercita sul materiale solo un’azione erosiva limitata, utile per la pulizia delle
superfici.
La tecnologia AWJ offre numerosi vantaggi. Consente di lavorare materiali di qualsiasi
durezza e con spessori elevati senza che ci siano problemi di usura per l’utensile.
Caratteristiche di questa tecnologia sono:
•
estrema flessibilità, cioè tempi di realizzazioni delle lavorazioni immediati
indipendentemente dal tipo di materiale.
• Assoluta precisione, qualità e facilità di esecuzione di qualunque sagoma complessa.
• Assenza di sollecitazioni termiche e meccaniche, che possono danneggiare le
caratteristiche fisico chimiche delle superfici e bave di lavorazione assai limitate
anche per materiali duttili; consentendo di evitare processi di finitura postlavorazione per eliminare sbavature, etc.
• La larghezza del solco di taglio del getto idro-abrasivo è contenuta ( non supera il
millimetro quindi è contenuto anche lo sfrido generato dal taglio) ed inoltre il getto
può iniziare a tagliare in qualunque punto della superficie per poi proseguire in ogni
direzione.
• Energia di taglio “modulabile” attraverso la scelta della pressione di lavoro e della
sezione dell’orifizio di taglio.
• Tecnologia assolutamente non inquinante, infatti vi è totale assenza di produzioni di
fumi e polveri durante il taglio.
• Bloccaggio del pezzo semplice o addirittura inesistente perché il taglio avviene per
l’applicazione di forze limitate dell’ordine delle decine di newton.
Il sistema AWJ è dotato di un sistema a Controllo Numerico che garantisce una gestione
automatica delle funzioni operative con alta qualità e precisione, è possibile inoltre un
interfacciamento con un sistema CAD-CAM che permette la massima libertà di
espressione; si possono eseguire disegni tecnici con tolleranza ristrette, disegni artistici di
qualsiasi complessità; etc.
5.2 Energia cinetica del getto idroabrasivo.
Le caratteristiche del getto idroabrasivo possono essere sintetizzate da un solo parametro
“l’energia del getto idroabrasivo”. In seguito viene riportato il calcolo dell’energia
cinetica del getto d’acqua con abrasivo.
5.2.1 Calcolo della velocità di efflusso dall’ugello primario
L’ugello primario ha il compito di trasformare l’energia di pressione posseduta dall’acqua
in uscita dalla pompa in energia cinetica. E’ costituito da una struttura in acciaio
inossidabile con un inserto in zaffiro sintetico. Lo zaffiro sintetico è il materiale più
comunemente utilizzato per la realizzazione degli ugelli primari, grazie alla facile
lavorabilità ed all’elevata resistenza all’usura. Il diametro del foro, in dipendenza delle
applicazioni industriali, può variare tra 0.05 mm e 0.40 mm. La vita utile di un ugello
varia tra le 30 e le 200 ore a seconda che l’acqua della rete idrica venga trattata o meno.
Considerando in prima approssimazione l’acqua come fluido incomprimibile (ipotesi di
fluido ideale) e stazionario, la trasformazione viene descritta dal principio di
conservazione dell’energia tramite l’equazione di Bernulli:
P
ρwg
+h+
v2
= cos t
2g
(5.1)
Dove:
•
P è la pressione del fluido [MPa]
•
ρ w è la densità del getto di acqua [Kg/m3]
•
•
•
h è la quota piezometrica [m]
g è l’accelerazione di gravità [m/s2]
v è la velocità del fluido [m/s]
applicando Bernulli al fluido tra l’ingresso (1) e l’uscita (2) dell’ugello primario si
ottiene:
P1
ρw g
essendo
2
+ h1 +
2
v1
P
v
= 2 + h2 + 2
2g ρ w g
2g
(5.2)
P2 << P1 , v1 << v 2 e h1 ≅ h2 si può trascurare il loro peso pertanto dalla
equazione 5.2 si calcola la velocità ideale che coincide con la classica formula di
Torricelli:
v 2 = vid =
2P
ρw
(5.3)
Per ottenere la velocità reale in uscita dall’ugello primario bisogna considerare le perdite
energetiche all’interno dell’orifizio per mezzo di un coefficiente moltiplicativo, detto
“coefficiente di efficienza”, che caratterizza la quantità di moto persa per attrito sulle
pareti dell’ugello. Tale coefficiente dipende oltre che dalla forma dell’ugello primario
anche dal suo diametro e dalla pressione utilizzata.
Fig.5.1: Coefficienti di efficienza per diverse forme di ugello primario
Da cui la velocità reale del getto di sola acqua all’uscita dall’ugello primario è data dalla
relazione:
v re = ξ
2P
ρw
(5.4)
dove:
ξ ( P, d n , geometria) : coefficiente di efficienza.
È importante osservare come la velocità del getto di acqua in uscita dall’ugello primario
non dipenda da nessun parametro geometrico dell’ugello stesso.
Inoltre, considerando le pressioni operative abituali, generalmente utilizzate per il taglio,
l’acqua non può essere assunta incomprimibile, di conseguenza la sua densità risulta
funzione del livello di pressione (Fig.5.2); da ciò deriva una velocità di efflusso
calcolabile tramite la seguente equazione:
vcom =
Dove
1− c
⎤
2 L ⎡⎛ P ⎞
⎢⎜1 + ⎟ − 1⎥
ρ o (1 − c ) ⎣⎢⎝ L ⎠
⎥⎦
(5.5)
ρ 0 è la densità dell’acqua alla pressione atmosferica, L=300 MPa, c=0.1368
[Col01]. Tenendo presente che ad una pressione di circa 400 MPa l’acqua ha un
coefficiente di comprimibilità del 12 %, l’errore commesso è di qualche percento specie
se si utilizza una densità media tra quella dell’acqua alla pressione atmosferica e quella
alla pressione di esercizio.
velocità vid [m/s]
0
1 0 0A
500
31 0 0 0
1500
2000
2 , 52 5 0 0
3000
23 5 0 0
4000
0
0
n0 ,d4 a4 7m2 1e 4n t o0 , 4d4e2l6l a4 1v e l o c i t à d i e f f l u s s o a l v a r i a r e d i P n e l
2 c o m p r im ib ile e d in c o m p rim ib ile
c a s o1 d 0i , f9l6u2s1 s5 o
1 ,4 1 4 2 1 4
1 ,7 3 2 0 5 1
2
2 ,2 3 6 0 6 8
2 ,4 4 9 4 9
2 ,6 4 5 7 5 1
2 ,8 2 8 4 2 7
1 ,3 3 0 2 2 6
1 ,6 0 2 7 5 9
1 ,8 2 7 0 0 5
2 ,0 2 0 9 7 4
2 ,1 9 3 7 6 6
2 ,3 5 0 7 1 9
2 ,4 9 5 2 7 3
1 ,5
F lu id o in c .
1
f lu id o c o m p .
0 ,5
0
0
500
1000
1500
2000
2500
3000
3500
4000
P re s s io n e P [M P a ]
Fig.5.2: Velocità di efflusso al variare della pressione per fluido comprimibile e non
comprimibile
Possiamo inoltre determinare la portata volumetrica dell’acqua in uscita dall’ugello
primario:
Qw = Aw ⋅ v re
(5.6)
dove Aw è l’area di efflusso che è legata alla dimensione dell’orificio attraverso un
coefficiente di scarica( C D <1) che dipende dalla geometria dell’ugello:
Agetto = Aorificio ⋅ C D
(5.7)
da cui:
QW = AW v re = πC D
2
dn
2P
ξ
ρw
4
(5.8)
5.2.2 Calcolo della velocità in uscita dal focalizzatore
All’uscita dell’ugello primario, l’acqua ad alta velocità, penetra nella camera di
miscelazione dove incontra il materiale abrasivo e l’aria aspirati per effetto Venturi.
Come mostrato nella figura 5.3, dopo la miscelazione, all’interno dell’apposita camera, la
“ poltiglia” arriva all’ingresso del focalizzatore.
Fig.5.3: Sezione della testa di taglio AWJ
All’uscita del focalizzatore il getto è composto quindi da una sospensione caratterizzata
dalle tre fasi:
•
•
•
aria che penetra all’interno della camera di miscelazione insieme alle
particelle abrasive
acqua, proveniente dall’accumulatore
abrasivo, proveniente dall’apposito contenitore (tramoggia)
La portata volumetrica totale la si può esprimere come somma di tre contributi:
Qaria + Qacqua + Qabrasivo = Qtot
Qaria = 0.95Qtot
da cui :
(5.9)
Qaria =
0.95
(Qacqua + Qabrasivo )
0.05
(5.10)
note le densità a pressione ambiente
Kg
m3
Kg
ρ w = 1000 3
m
ρ aria = 1.14
.
si può passare al calcolo della portata massica m = ρQ .
Se si esegue un bilancio della quantità di moto tra l’ingresso della camera di miscelazione
e l’uscita dal focalizzatore si ottiene :
Q.d.m. ingresso camera miscelazione = Q.d.m. uscita focalizzatore
m& aria v aria + m& abrasivo v abrasivo + m& acqua v reacqua = viab (m& aria + m& acqua + m& abrasivo )
essendo la densità dell’aria molto inferiore a quella dell’acqua, la portata massica di aria
può essere considerata nulla; inoltre la velocità del materiale abrasivo all’ingresso della
camera di miscelazione è piccola, sia perché l’abrasivo viene aspirato per effetto Venturi,
sia perché il contenitore (tramoggia) si trova ad una quota superiore rispetto alla camera
di miscelazione; possiamo quindi riscrivere la precedente equazione nel seguente modo:
m& acqua v reacqua = viab (m& acqua + m& abrasivo )
•
(5.11)
& abrasivo è la portata di abrasivo [g/min]
dove m
ponendo :
r=
m& abrasivo
m& acqua
⇒ 1+ r =
m& abrasivo + m& acqua
m& acqua
si ottiene :
viab = η
v re
(1 + r )
(5.12)
dove viab è la velocità del getto idroabrasivo
Il parametro η, definito “ coefficiente di quantità di moto trasferita “, tiene conto della
quantità di moto trasferita durante la miscelazione tra il getto d’acqua ad alta velocità e
l’abrasivo all’interno della apposita camera di miscelazione e nel tubo focalizzatore.
Il coefficiente di energia trasferita è funzione dei diversi parametri di processo tra i quali;
la pressione della pompa (velocità del getto di acqua in uscita dall’ugello primario), la
portata di abrasivo e la geometria della camera di miscelazione e del focalizzatore.
Molti sono stati gli studi effettuati al fine di determinare il valore del coefficiente η in
funzione dei diversi parametri di processo. I metodi si basano sulla misura delle forze di
impatto del getto sulla superficie in lavorazione al fine di determinare la velocità reale
dell’idrogetto in uscita dal focalizzatore [And01].
Nel caso di basse portate di abrasivo il coefficiente di efficienza risulta essere compreso
tra 0,60 e 0,81 [Has89]. Inoltre se la lunghezza ed il diametro del tubo di miscelazione
sono sufficientemente elevati, può essere trascurata, all’uscita del focalizzatore, la
velocità di scorrimento tra acqua e abrasivo. Questa analisi ci permette di affermare che la
velocità del getto idroabrasivo è uguale alla velocità della singola particella:
viab = v P
(5.13)
5.2.3 Calcolo della energia cinetica del getto di sola acqua
L’energia cinetica del getto (di sola acqua) in uscita dall’ugello primario può essere
espressa dalla relazione [And97]:
Ew =
1
m& acqua v re2 t
2
(5.14)
dove:
•
m& acqua è la portata di acqua [Kg/s]
•
t è il tempo di esposizione [s]
La portata di acqua può essere determinata dalla semplice relazione:
m& acqua =
π ⎛ dn ⎞
⎜
⎟ v re ρ w
4 ⎝ 1000 ⎠
dove:
•
2
d n è il diametro dell’ugello [mm]
(5.15)
Il tempo di esposizione può essere determinato invece dalla relazione:
t=
spazio
velocità
Dove per spazio percorso si intende la lunghezza del provino mentre la velocità è quella
di avanzamento della testa di taglio.
L’espressione della Ew, funzione dei parametri di processo quali, pressione, velocità di
avanzamento della testa di taglio è:
1, 5
(
P)
⎛ dn ⎞
E w = 1,1102 ⋅ α ⋅ ξ ⋅ ⎜
⎟ ⋅t ⋅
ρw
⎝ 1000 ⎠
2
3
(5.16)
dove α è un numero adimensionale che considera la diminuzione della portata di acqua
dovuta all’improvviso cambio nelle condizioni meccaniche del fluido all’uscita
dell’ugello [And97]. Tipici valori di α per un ugello in zaffiro sono compresi tra 0.6 e
0.8.
5.2.4 Calcolo dell’energia cinetica del getto idroabrasivo
L’energia cinetica della singola particella abrasiva, supposta sferica, è data dalla seguente
relazione:
Ep =
π
12
d 3p ρ A v 2p
(5.17)
dove:
•
ρ A è la densità del materiale abrasivo;
•
d P è il diametro della particella abrasiva;
•
v P è la velocità della particella abrasiva
Durante la miscelazione (acqua/abrasivo) l’energia cinetica del getto di acqua ad alta
velocità è parzialmente assorbita dall’accelerazione delle particelle. La fase di
miscelazione tra acqua e abrasivo è di fondamentale importanza ed è influenzata sia dai
sistemi di iniezione delle particelle abrasive, sia dalla geometria della camera di
miscelazione. Per migliorare questo aspetto vengono impiegati sistemi che impongono al
getto un moto a spirale, all’interno della camera di miscelazione, o in alternativa sistemi
che generano un flusso vorticoso. Un ulteriore interessante aspetto è che le particelle in
questo processo di miscelazione tendono a rompersi. Galecki è stato uno dei primi ad
interessarsi a questo fenomeno. Questo afferma che il 70, 80 % delle particelle sono
soggette a frammentazione [And97].
La percentuale dipende dalla dimensione del grano, dalla pressione della pompa e quindi
la pressione con la quale l’acqua penetra nella camera di miscelazione e dal diametro del
focalizzatore.
Da questa semplice analisi, l’energia cinetica della singola particella diminuisce con
l’aumentare della portata di abrasivo e al diminuire del diametro medio della particella.
E’ inoltre possibile determinare approssimativamente, il numero di particelle di abrasivo
contenute nella direzione di avanzamento del getto:
NP =
m& abrasivo
⋅t
m p.abrasivo
(5.18)
Il numero di particelle risulta quindi essere funzione della portata di abrasivo, della massa
di abrasivo e del tempo di esposizione. La portata di abrasivo viene impostata
direttamente sulla macchina mentre la massa di abrasivo può essere ottenuta
semplicemente dalla relazione:
m p.abrasivo =
π
6
d p3 ρ A
(5.19)
L’energia cinetica del getto idroabrasivo può essere ottenuta dalla seguente equazione:
⎛ P
E p −t = ξ 2 ⋅ η 2 ⋅ ⎜⎜
⎝ ρw
⎞
m& ⋅ m&
⎟⎟ ⋅ t ⋅ A w
m& A + m& w
⎠
(5.20)
Dalla relazione precedente si può notare la dipendenza dell’energia del getto dai
parametri di processo quali pressione, tempo (velocità di avanzamento) e portata di
abrasivo.
5.3 Lavorazioni superficiali delle pietre naturali mediante la
tecnologia a getto d’acqua
I limiti delle lavorazioni dei materiali lapidei mediante utensili tradizionali, derivanti
dalla durezza del materiale e dalla difficoltà di realizzare profili particolari senza
eccessivi scarti, hanno orientato la ricerca verso l’utilizzo di tecnologie non
convenzionali.
La tecnologia Abrasive Water Jet è una tecnologia non convenzionale che ha avuto molto
sviluppo ed impiego in vari settori, da quello automobilistico a quello alimentare; nel
campo dei materiali lapidei questa tecnologia è stata applicata ai graniti in fase di
estrazione e lavorazione ed ai marmi, generalmente per il taglio.
L’AWJ sta acquistando un’importanza notevole come processo tecnologico innovativo di
asportazione di materiale in alternativa alle tecnologie tradizionali. Negli ultimi anni si è
potuto, da un lato dimostrare la notevole potenzialità dell’AWJ, in particolare la capacità
di asportare volumi di materiale significativi in tempi sufficientemente contenuti,
dall’altro l’ampiezza del suo spettro applicativo.
Come naturale conseguenza dell’incremento dell’utilizzo di tale processo in ambito
produttivo, si ha lo sviluppo di ricerche teoriche ed applicative che vertono su
problematiche relative alle prestazioni, al controllo, all’automazione e all’ottimizzazione
delle lavorazioni. Un notevole ed importante passo avanti in questa direzione è dato
dall’analisi funzionale tra le relazioni esistenti tra le variabili di processo e i parametri
caratteristici della superficie.
Oggi, oltre le tradizionali macchine AWJ dedicate al taglio di una vasta gamma di
materiali, sono presenti sul mercato macchine dedicate alla lavorazione superficiale dei
graniti. Queste permettono di ottenere lavorazioni alternative alle tradizionali
bocciardatura, sabbiatura e fiammatura con getti composti da sola acqua e con
produttività superiore alle tecnologie tradizionali. È stata invece constatata la totale
assenza di riferimenti bibliografici sulle lavorazioni superficiali WJ-AWJ sul marmo.
L’obiettivo della ricerca è relativa allo studio dell’effetto del getto idroabrasivo,
incidente ortogonalmente, sulla superficie di un materiale lapideo comunemente definito
“Perlato Royal”.
5.3.1 Analisi preliminare
La completa assenza di riferimenti bibliografici sulle lavorazioni superficiali di marmo
mediante la tecnologia WJ-AWJ ci ha condotti alla messa a punto di una campagna di
prove sperimentali con lo scopo di valutare l’applicabilità o meno di questa tecnologia al
marmo. Il materiale utilizzato è il marmo di Coreno comunemente definito “Perlato
Royal”. Le prove sono state effettuate mediante la cella di lavorazione installata presso il
Dipartimento di meccanica del Politecnico di Milano.
Il sistema è costituito da una movimentazione assi della serie Waterline, prodotta dalla
tecnocut di Terno d’Isola (BG), da un intensificatore di pressione a doppio effetto
completato dal sistema di taglio PASER II ( Particle Stream Erosion ), entrambi forniti
dalla Flow Europe GmbH e da un impianto di trattamento dell’acqua in ingresso.
Quest’ultimo, basato sull’azione di un addolcitore e di una membrana ad osmosi inversa ,
invia alla pompa di alta pressione acqua praticamente demineralizzata.
L’intensificatore a doppio effetto, richiede 30 KW di potenza ed elabora una portata di
3.2 lt./min con accumulatore da 2 lt. , permette di mantenere una pressione di esercizio di
380 MPa. Una particolare caratteristica del sistema è costituita dalla presenza di una
valvola proporzionale che permette il controllo diretto da programma della pressione di
lavoro. Con questo dispositivo è possibile lavorare materiali fragili quali i ceramici ed il
vetro limitando, anche in fase di foratura, l’insorgenza di cricche o fratture dovute
all’azione del getto.
Prima di effettuare degli studi sull’influenza dei parametri di processo quali, pressione
idraulica, portata di abrasivo, velocità di avanzamento della testa di taglio e distanza di
stand-off sulla tipologia della superficie ottenuta, è necessario verificare l’applicabilità o
meno della tecnologia AWJ al Perlato Royal di Coreno. Sono state eseguite inizialmente
delle prove preliminare per valutare la risposta di questo tipo di marmo all’azione del
getto idroabrasivo.
Le prove preliminare hanno riguardato lavorazioni lineari, eseguite in modo casuale senza
dare importanza alla qualità ed alla produttività. Le prime prove sono state eseguite in
assenza di materiale abrasivo variando i parametri di processo quali pressione dell’acqua,
distanza di stand-off e velocità di avanzamento. Si è subito constatata la scarsa attitudine
del materiale ad essere lavorato con una tecnologia WJ.
In un secondo momento sono state eseguite prove in presenza di abrasivo (Barton Garnet
# 80); il materiale ha dimostrato una buona lavorabilità sia per traiettorie lineari che
circolari (fig.5.4).
Fig.5.4 : Marmette trattate con AWJ
Le prove preliminari, in presenza di materiale abrasivo, ci hanno permesso di valutare i
livelli da assegnare ai differenti parametri di processo quali, la pressione dell’acqua, la
velocità di avanzamento della testa di taglio, la portata di abrasivo e la distanza di standoff. I livelli sono stati assegnati sulla base delle prove preliminari, tenendo in
considerazione due aspetti fondamentali: economicità e produttività. Per questi motivi
sono state utilizzate le più basse portate di abrasivo possibili e le velocità di avanzamento
più elevate, tenendo sempre in considerazione il tipo di superficie ottenibile con queste
combinazioni. Per la distanza di stand-off si sono invece scelti quattro livelli. Si è potuto
infatti constatare che per elevati valori della distanza di stand-off (60, 100, 140 mm), per
entrambi i livelli di pressione, l’aspetto della superficie ottenuta è molto simile a quella
ottenuta con le tradizionali lavorazioni di bocciardatura e sabbiatura. Diminuendo il
valore della distanza (30 mm), per valori di pressione di 300 MPa si sono ottenute delle
incisioni, ossia dei tagli non passanti caratterizzati da un basso rapporto
Larghezza/Profondità. Al di sopra dei 140 mm non è stato possibile lavorare per motivi
legati ai limiti dell’impianto utilizzato mentre, al di sotto dei 30 mm è possibile ottenere
incisioni sempre più profonde fino ad arrivare a veri e propri tagli in corrispondenza di
distanze pari a 2-3 mm e velocità di avanzamento e portata di abrasivo dipendenti dallo
spessore del materiale.
5.3.2 Piano degli esperimenti
Nella sperimentazione svolta nel presente lavoro, il cui obiettivo è capire come più
variabili indipendenti influenzano la quantità di materiale asportato e la geometria dello
spot “cratere o solco generato dalla lavorazione” ottenuto, prima di progettare gli
esperimenti si sono eseguite le seguenti fasi:
1. scelte delle variabili di processo che si vogliono mantenere sotto controllo;
2. mantenere il più possibile costanti gli altri parametri tecnologici non presi in
considerazione;
3. prove preliminari per capire il range di variabilità di ciascun parametro.
I parametri che vengono mantenuti costanti durante le singole prove sono rappresentati
in tabella 5.1:
FATTORE
LIVELLO
Abrasivo
Garnet # 80
Diametro ugello primario [mm]
0,30
Materiale ugello primario
Zaffiro sintetico
Diametro interno
focalizzatore [mm]
Lunghezza focalizzatore [mm]
1
Materiale focalizzatore
Carburo di Tungsteno
Tipologia camera di miscelazione
PASER TM
Numero di passate
1
76
Inclinazione del getto
90°
Tabella 5.1: Parametri costanti
I parametri di processo che vengono fatti invece variare sistematicamente, per due diversi
& A ) di abrasivo e la
livelli di pressione, sono: la velocità di avanzamento (u), la portata ( m
distanza di stand-off (d). Essi rappresentano i fattori che influenzano maggiormente lo
stato della superficie lavorata, come si è potuto constatare dalla prove preliminari; nelle
tabelle 5.2-5.3 è riportato il campo di variabilità dei diversi fattori:
FATTORE
LIVELLO
Pressione dell’acqua [MPa]
100
Portata di abrasivo [g min ]
42-98
Velocità di
8000-15000
Distanza di stand-off [mm]
30-60-100-140
avanzamento [mm min ]
Tabella 5.2: Livelli di variabilità dei parametri di processo (P=100 MPa)
FATTORE
LIVELLO
Pressione dell’acqua [MPa]
300
Portata di abrasivo [g min ]
70-198
Velocità di
8000-15000
Distanza di stand-off [mm]
30-60-100-140
avanzamento [mm min ]
Tabella 5.3: Livelli di variabilità dei parametri di processo (P=300 MPa)
Per ogni combinazione dei livelli delle variabili indipendenti (ottenute in maniera
casuale) sono state effettuata quattro repliche per un totale di 128 prove.
La scelta di lavorare con due livelli separati di pressione è stata dettata dai limiti della
macchina sulla quale si è effettuata la sperimentazione. Questa macchina infatti non è
dotata di un sistema per l’impostazione del livello della portata di abrasivo
indipendentemente dal valore della pressione, ma di un disco forato. Il disco è
caratterizzato dalla presenza di otto fori, numerati in maniera crescente con il diametro;
quindi al foro uno corrisponderà il diametro più piccolo, al foro otto il diametro più
grande.
5.3.3 Scelta del materiale
Il materiale su cui viene applicata la tecnologia Abrasive Water Jet è un materiale lapideo
del comprensorio estrattivo del basso Lazio, noto con la denominazione commerciale di
“Perlato Royal di Coreno”, che trova larga applicazione nell’edilizia e nell’architettura
(Cap.3). È composto per il 99 % da carbonato di calcio CaCO3.
5.3.4 Esecuzione delle prove
Sono state realizzate 128 lavorazioni lineari utilizzando la cella WJ-AWJ installata nel
laboratorio di Meccanica del Politecnico di Milano, figura 5.5. Dopo aver accuratamente
posizionato e bloccato il provino, è stato impostato lo zero macchina nel piano di lavoro
X,Y. La testa di taglio è stata posizionata, rispetto al provino, in modo tale da ottenere la
lavorazione nella mezzeria dello stesso (asse Y). Inoltre, per permettere all’intensificatore
di raggiungere il valore desiderato di pressione in prossimità del provino, la macchina,
durante le prove, è stata azionata circa 30 cm in anticipo rispetto al provino, effettuando
una piccola corsa a vuoto in cui il getto scaricava direttamente nel catcher. Il
posizionamento della testa di taglio in direzione Z (distanza di stand-off) è stato
effettuato manualmente secondo il piano degli esperimenti.
Fig.5.5: Provino sottoposto all’azione del getto idroabrasivo
5.3.5 Rilevazione della geometria superficiale
Per caratterizzare la geometria dello spot ottenuto, sono state effettuate misure sia della
larghezza media, sia della massima profondità raggiunta nella lavorazione.
Per la determinazione della profondità massima dello spot si è utilizzato il rugosimetro.
La rilevazione del profilo è stata effettuata facendo scorrere lo stilo, a contatto con la
superficie, nella direzione ortogonale a quella di avanzamento della testa di taglio. Nota la
non omogeneità del materiale utilizzato, si è ritenuto opportuno effettuare più rilevazioni
per ogni singolo provino. In particolare sono state effettuate cinque rilevazioni per ogni
provino, suddividendo la lunghezza dello stesso (8 cm) in intervalli di 1,5 cm, ritenendo
minima la variabilità all’interno di ognuno degli intervalli (fig.5.6).
10 mm
12 mm
12 mm
12 mm
12 mm
10 mm
Fig.5.6: Intervalli nei quali si è rilevata l’ondulazione dello spot
Sono state effettuate quindi cinque rilevazioni per ognuno dei 64 provini caratterizzati dal
valore di pressione di 100 MPa e altrettante per i provini caratterizzati dal valore di
pressione di 300 MPa per un totale di 640 rilevazioni.
Da ogni singola rilevazione è stato ottenuto, inizialmente, il profilo non filtrato dello spot
di lavorazione (fig.5.7), ossia il profilo contenente ancora la microrugosità.
Fig.5.7: Profilo dello spot
Il profilo è stato successivamente filtrato, eliminando la microrugosità, per mezzo di un
software fornito dalla stessa ditta costruttrice dello strumento di misura (TalyProfile),
tramite filtro Gaussiano (fig.5.8).
Nota quindi l’ondulazione è stato possibile calcolare la massima profondità raggiungibile
nella lavorazione.
Il valore medio della profondità su ogni singolo provino è stato ottenuto dalla media delle
cinque rilevazioni effettuate. Si sono riscontrate deviazioni elevate (3-7 %) con valori
massimi anche dell’ordine del 15 %, dovute alla assoluta non omogeneità del materiale.
Fig.5.8:Ondulazione dello spot
Il marmo utilizzato, come la maggior parte di questi materiali, è caratterizzato da una
certa non omogeneità che ne comporta differenti caratteristiche meccaniche da punto a
punto. Di conseguenza si avrà una differente risposta all’azione del getto idroabrasivo a
seconda della zona sulla quale esso va ad incidere.
La determinazione della larghezza dello spot è stata effettuata tramite microscopio ottico
Leica VMM200 della Leica Microsysteme, presente nel laboratorio di Tecnologie dei
Sistemi di Produzione. Il microscopio utilizzato è dotato inoltre di un sistema di
rilevazione delle coordinate dei punti nel piano X-Y.
La misura della larghezza dello spot è stata ottenuta come media tra cinque rilevazioni
effettuate in altrettanti intervalli nei quali è stato suddiviso ogni singolo provino (fig.5.9)
10 mm
12 mm
12 mm
12 mm
12 mm
10 mm
Fig.5.9: Intervalli nei quali si è misurata la larghezza dello spot
5.3.6 Classificazione delle superfici ottenute
L’analisi effettuata riguarda la classificazione delle superfici e del tipo di lavorazioni
ottenute. La classificazione delle superfici, in termini principalmente di “aspetto” , è stata
effettuata tramite confronto visivo con quelle ottenute con le tecnologie tradizionali,
ampiamente descritte nel Capitolo 1. Da una ricerca effettuata in rete e presso diverse
aziende della zona di Coreno Ausonio, si è constatato che, le superfici ottenute attraverso
le tecnologie tradizionali quali bocciardatura, sabbiatura e fiammatura, non vengono
classificate in funzione di parametri di microgeometria (rugosità), ma macroscopicamente
in base all’aspetto del manufatto stesso. Questo è dovuto principalmente all’impiego dei
manufatti così trattati che generalmente è di tipo ornamentale e non strutturale. Si parla ad
esempio di bocciardatura più o meno profonda ma non si hanno valori limite di rugosità.
Oltre all’aspetto della superficie si è ritenuto opportuno distinguere le lavorazioni in
“Superficiali” ed “Incisioni”. Questa classificazione è stata invece effettuata in base sia
all’aspetto stesso della lavorazione, sia ai valori assunti dal rapporto tra la larghezza e la
profondità della lavorazione ottenuta con una singola passata nella direzione di
avanzamento della testa di taglio. Questo parametro assume valori elevati, nel caso di
lavorazione superficiale, valori bassi, inferiori a 7 nel caso di incisioni.
Per valori di pressione di 100 MPa, sono state ottenute solo lavorazioni di tipo
superficiale (fig.5.10).
Fig.5.10: Esempio di superficie ottenuta con pressione pari a 100 MPa
L’aspetto delle superfici ottenute a 100 MPa è molto simile ad una tradizionale
sabbiatura. La superficie assume infatti un aspetto ruvido ma non tagliente, morbida e
priva di grosse asperità.
Per valori di pressione di 300 MPa sono state invece ottenute sia lavorazioni superficiali
sia incisioni (fig.5.11-5.12).
Fig.5.11: Esempio di superficie ottenuta con pressione pari a 300 MPa
Fig.5.12: Esempio di incisione ottenuta con valori di pressione di 300 MPa
Le superfici ottenute con la pressione più elevata mostrano un aspetto molto simile ad una
bocciardatura non eccessivamente profonda. Come con la bocciardatura, che è un
trattamento meccanico ad urto, anche con l’AWJ, le superfici sono caratterizzate da
asperità di diverse misure, funzione dei parametri di processo, con aspetto che potremmo
definire “ vellutato”.
5.3.7 Influenza dei parametri di processo
L’analisi ANOVA è stata svolta per avere indicazioni sulla variabilità della larghezza e
profondità dello spot in funzione dei parametri di processo (fattori). Per entrambi i livelli
di pressione sono stati considerati i seguenti fattori:
• velocità di avanzamento della testa di taglio
• portata di abrasivo
• distanza di stand-off
In tutte le analisi condotte, gli effetti dei fattori sulle variabili dipendenti sono stati
rappresentati attraverso i main effect plots, grafici che mostrano qualitativamente il
legame esistente tra il valore medio della variabile dipendente, calcolato per ogni livello
di una variabile indipendente, ed i livelli stessi.
In tutte le fasi in cui si è svolta l’ANOVA si è andati sempre a verificare che fossero
rispettate le ipotesi che sono alla base dell’Analisi della Varianza, consistenti nella
normalità della popolazione e l’omogeneità tra le varianze di queste stesse popolazioni.
Essendo lineare il modello che spiega la varianza dei dati, tali verifiche vengono eseguite
sui residui, ovvero sulle differenze tra ogni valore osservato e la media del campione al
quale esso appartiene. Per la verifica di normalità si è eseguito il test di AndersonDarling. Per quanto riguarda la verifica dell’omogeneità della varianza è stato utilizzato il
test di Bartlett.
Dopo aver verificato le ipotesi di normalità ed omogeneità della varianza, è stato
possibile ottenere i main effect plot, come mostrato nelle figure 5.13-5.16, nelle quali è
riportata la variazione delle grandezze in uscita in funzione dei tre parametri di processo,
per entrambi i valori di pressione considerati.
Portata di abrasivo
Distanza di stand-off
Velocità di avanzamento
6,9
Larghezza sp
5,9
4,9
3,9
2,9
42
98
30
60
0
10
0
14
00
80
0
00
15
Fig.5.13: Effetto dei parametri di processo sulla larghezza dello spot (pressione 100 Mpa)
Portata di abrasivo
Distanza di stand-off
Velocità di avanzamento
Profondità M
0,20
0,17
0,14
0,11
0,08
42
98
30
60
0
10
0
14
00
80
0
00
15
Fig.5.14: Effetto dei parametri di processo sulla profondità dello spot (pressione 100
Mpa)
Portata di abrasivo
Distanza di stand-off
Velocità di avanzamento
8
Larghezza sp
7
6
5
4
70
8
19
30
60
0
10
0
14
00
80
0
00
15
Fig.5.15: Effetto dei parametri di processo sulla larghezza dello spot (pressione 300 Mpa)
Portata di abrasivo
Distanza di Stand-off
580
Velocità di avanzamento
Profondità m
500
420
340
260
70
8
19
30
60
0
10
0
14
00
80
0
00
15
Fig.5.16: Effetto dei parametri di processo sulla profondità dello spot (pressione 300
Mpa)
L’analisi ANOVA è stata condotta tra i parametri di processo (fattori) quali, velocità di
avanzamento della testa di taglio, portata di abrasivo e distanza di stand-off e, la
larghezza e la profondità dello spot, per entrambi i livelli di pressione considerati.
Si è potuta constatare ( dalla lettura del parametro P) una rilevante influenza sull’uscita,
sia dei tre singoli fattori considerati, sia delle interazioni doppie e triple degli stessi.
Dalla lettura dell’ Adj SS (somma dei quadrati delle differenze tra le risposte medie
corrispondenti a ciascun livello del fattore e la media complessiva), si è potuto valutare il
peso di ogni singolo fattore sull’uscita.
In particolare la larghezza dello spot, come prevedibile, è influenzata maggiormente
dalla distanza di stand-off. Il getto infatti ha una struttura geometrica caratterizzata da una
certa divergenza nella direzione di avanzamento tra l’uscita del focalizzatore e la
superficie del materiale in lavorazione. Maggiore è la distanza di stand-off, maggiore sarà
quindi il grado di divergenza del getto nella zona di contatto con la superficie del
materiale. Questo fenomeno può essere considerato valido fin quando la distanza di
stand-off non raggiunge valori critici (dipendenti dalla durezza del materiale in
lavorazione), oltre i quali, il profilo di velocità nella direzione radiale del getto sarà tale
da non poter più garantire alle particelle abrasive, situate sulla periferia del getto stesso,
un valore di energia in grado di provocare asportazione di materiale. Dalla figura 5.17 è
possibile notare come oltre un certo valore XTr , la velocità, in prossimità della periferia
del getto (raggio massimo), tenda ad attenuarsi notevolmente rispetto al cuore del getto
[Yan74].
Fig.5.17: Struttura del getto nella direzione radiale
La larghezza dello spot risulta inoltre influenzata, anche se in maniera più lieve, dalla
portata di abrasivo, ossia dal numero di particelle abrasive che, nell’unità di tempo, vanno
ad incidere sulla superficie del materiale.
Anche sulla profondità dello spot ottenuto con una singola passata risulta avere la
maggiore influenzata la distanza di stand-off. La velocità di avanzamento della testa di
taglio e la portata di abrasivo hanno invece lo stesso peso sulla profondità.
La velocità di avanzamento determina il tempo di permanenza del getto sulla superficie in
lavorazione mentre la portata, il numero di particelle abrasive che nell’unità di tempo
incidono sulla superficie del materiale in lavorazione. Al diminuire della velocità di
avanzamento quindi si nota un elevato aumento della profondità dello spot, dovuto al
maggior tempo di permanenza del getto sulla superficie. All’aumentare della portata un
maggior numero di particelle abrasive, ipotizzandone una distribuzione uniforme nella
zona di contatto con il materiale, vanno ad incidere nell’unità di tempo sulla superficie in
lavorazione determinando un aumento della quantità di materiale asportato.
5.3.8 Energia del getto
Per meglio comprendere come i parametri di processo influenzano la geometria della
superficie ottenuta con una singola passata della testa di taglio, in termini di larghezza e
profondità, sono riportati di seguito gli andamenti di queste grandezze in funzione di un
parametro caratteristico; l’energia del getto idroabrasivo, data dalla seguente equazione:
⎛ P
E p −t = ξ 2 ⋅ η 2 ⋅ ⎜⎜
⎝ ρw
⎞
m& ⋅ m&
⎟⎟ ⋅ t ⋅ A w
m& A + m& w
⎠
Larghezza [mm]
L’energia del getto idroabrasivo risulta quindi funzione dei parametri di processo quali,
pressione, velocità di avanzamento della testa di taglio (dal tempo t) e portata di abrasivo,
mentre risulta indipendente dalla distanza di stand-off. Una volta impostati i parametri di
processo e, di conseguenza, fissato il valore dell’energia del getto, è possibile sapere a
priori e con buona approssimazione, quale sarà la geometria dello spot in termini di
profondità e larghezza.
Nei grafici seguenti vengono riportati gli andamenti della larghezza e profondità della
lavorazione e del rapporto L/P in funzione dell’energia del getto idroabrasivo a pressione
100 MPa.
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
d = 30 mm
d = 60 mm
d = 100 mm
d = 140 mm
0
100
200
300
Energia del getto [J]
Fig.5.18: Larghezza spot in funzione dell’energia del getto idroabrasivo
a pressione 100 MPa
0,3
Profondità [mm]
0,25
d = 30 mm
0,2
d = 60 mm
d = 100 mm
0,15
d = 140 mm
0,1
0,05
0
0
100
200
300
Energia del getto [J]
Fig.5.19: Profondità dello spot in funzione dell’energia del getto idroabrasivo
a pressione 100 MPa
120
Rapporto L/P
100
d = 30 mm
80
d = 60 mm
d = 100 mm
60
d = 140 mm
40
20
0
0
100
200
300
Energia del getto [J]
Fig.5.20: Rapporto L/P in funzione dell’energia del getto idroabrasivo
a pressione 100 MPa
Si nota come, per pressione 100 MPa, si abbia un aumento piuttosto pronunciato, sia della
larghezza, sia della profondità dello spot all’aumentare dell’energia per diversi valori
della distanza di stand-off.
Il rapporto tra le due grandezze tende invece a diminuire per valori crescenti dell’energia
fino a stabilizzarsi intorno a valori dipendenti dalla distanza di stand-off.
Di seguito vengono riportati gli andamenti della larghezza e profondità della lavorazione
e del rapporto L/P in funzione dell’energia del getto idroabrasivo a pressione 300 MPa.
Larghezza [mm]
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
d = 30 mm
(Superficiale)
d = 30 mm
(Incisione)
d = 60 mm
(Superficiale)
d = 100 mm
(Superficiale)
d = 140 mm
(Superficiale)
0
1000
2000
3000
Energia del getto [J]
Fig.5.21: Larghezza spot in funzione dell’energia del getto idroabrasivo
a pressione 300 MPa
0,6
d = 30 mm
(Superficiale)
d = 30 mm
(Incisione)
d = 60 mm
(Superficiale)
d = 100 mm
(Superficiale)
d = 140 mm
(Superficiale)
Profondità [mm]
0,5
0,4
0,3
0,2
0,1
0
0
1000
2000
Energia del getto [J]
3000
Fig.5.22: Profondità dello spot in funzione dell’energia del getto idroabrasivo
a pressione 300 MPa
60
d = 30 mm
(Superficiale
)
d = 30 mm
(Incisione)
50
Rapporto L/P
40
30
d = 60 mm
(Superficiale
)
d = 100 mm
(Superficiale
)
d = 140 mm
20
10
0
0
1000
2000
Energia del getto [J]
3000
Fig.5.23: Rapporto L/P in funzione dell’energia del getto idroabrasivo
a pressione pari a 300 MPa
Si nota come, a pressione 300 MPa, le curve che caratterizzano l’andamento della
larghezza e profondità dello spot ottenuto con una singola passata della testa di taglio, per
diversi valori della distanza di stand-off, al variare dell’energia del getto, hanno una
pendenza sicuramente minore rispetto a quelle ottenute a pressione 100 MPa.
Inoltre, alla pressione più elevata, si ha la possibilità di ottenere delle incisioni per
distanza di stand-off pari a 30 mm, al di sopra di un certo valore di energia.
140
Rapporto L/P
120
100
80
Bocciardata
60
Incisa-Bocciardata
40
20
0
523
980
1479
2773
Energia del getto [J]
Fig.5.24: Aree rappresentative del tipo di superficie ottenibile
per pressione P = 300 MPa
Infine, vengono di seguito riportate le aree rappresentative del tipo di superficie ottenibile
al variare dell’energia del getto idroabrasivo e del rapporto L/P con i diversi livelli di
stand-off, per pressione 300 MPa, considerato che alla pressione di 100 MPa si
ottengono solo delle superfici sabbiate.
Le incisioni, caratterizzate da un valore del rapporto L/P inferiore a 6.95, si hanno per
valori della distanza di stand-off di 30 mm ed energia superiore a 980 J.
5.3.9 Confronto con le tecnologie convenzionali
Le superfici ottenute mediante la tecnologia AWJ applicata al Perlato, come detto, sono
caratterizzate da un aspetto molto vicino a quelle ottenute con le tecnologie tradizionali
quali, sabbiatura e bocciardatura.
Come per le superfici sabbiate e bocciardate, una caratteristica importante è la presenza
di scheggiature dovute alla non omogeneità del materiale. L’asportazione del materiale è
provocata dalla formazione e conseguente crescita di cricche che, intersecandosi
provocano la rimozione di parti di materiale. Difetti (cricche) preesistenti, influenzano il
meccanismo di erosione, determinando, puntualmente la rimozione di quantità maggiori
di materiale e quindi la formazione di piccole cavità comunque riscontrabili anche nelle
superficiali ottenute con tecnologie convenzionali.
A differenza della tradizionale bocciardatura ottenuta con la bocciarda, un martello a fitte
punte piramidali, di dimensioni variabili, con la tecnologia AWJ si ha la possibilità di
trattare zone anche molto limitate della superficie, ottenendo lavorazioni caratterizzate da
larghezze anche inferiori al centimetro.
Inoltre, poiché le forze trasmesse dal getto idroabrasivo alla superficie in lavorazione
sono inferiori rispetto a quelle che si generano in una tradizionale bocciardatura, la
tecnologia AWJ ci permette di lavorare superficialmente lastre di spessore contenuto,
anche inferiore al centimetro.
L’AWJ ci permette di ovviare ad un ulteriore problema caratteristico della bocciardatura,
ossia la lavorabilità degli spigoli del manufatto. Come mostrato in figura 5.25, la
superficie ottenuta con l’AWJ è caratterizzata da una certa omogeneità anche in
prossimità degli spigoli del provino.
Provino trattato
Provino lucido
Fig.5.25: Provino trattato con AWJ
5.4
La qualità del taglio AWJ
Prima di effettuare degli studi sull’ottimizzazione del taglio AWJ di pietre naturali si è
affrontato lo studio preliminare sulla qualità del taglio. Sono stati realizzati, sul Perlato
Coreno, una serie di tagli lineari e curvilinei con lo scopo di valutare l’applicabilità di tale
tecnologia sul materiale in esame. In figura 5.26 sono riportati degli esempi di forme
complesse ottenute mediante la tecnologia AWJ. Lo studio della qualità della superficie e
la sua caratterizzazione sono il punto fondamentale del lavoro preliminare affrontato.
Sono state effettuate una serie di prove di taglio lineare, secondo lo schema di figura 5.27,
valutando l’influenza dei parametri di processo sulla qualità del taglio.
Pettine di taglio
Fig. 5.26 - Tipi di tagli realizzati sul Perlato Royal di Coreno con la tecnologia AWJ
Larghezza solco
di taglio W
Pettine di taglio
Distanza tra tagli
successivi d=10 mm
Fig. 5.27 - Sequenza di tagli lineari che generano un pettine di taglio; il tratto continuo
rappresenta la corsa di taglio, il tratto a punti rappresenta la corsa di ritorno della testa di
taglio quando il getto idroabrasivo è interrotto.
5.4.1
Parametri caratterizzanti la qualità del taglio
I parametri caratteristici della qualità del taglio sono:
Profondità di penetrazione lmax [mm]: è la profondità massima del taglio, essa è legata
alla pressione e quindi all’energia cinetica del getto.
Profondità media lmed [mm]: è la media aritmetica delle profondità raggiunte dal getto
durante il taglio non passante e coincide con lo spessore del pezzo nel caso di tagli
passanti.
Ampiezza del solco W [mm]: è legata al diametro del getto.
Conicità del solco α [gradi]: secondo la norma UNI 157, è la tangente dell’angolo che la
parete del taglio forma con l’asse, come in Fig.5.28
tgα =
Ws − Wi
l
conicità = α = arctg
Ws − Wi
l
Ws
l
Wi
α
Fig.5.28 - Angolo di conicità definito dalla norma UNI 157
dovendo focalizzare il lavoro sullo studio della qualità superficiale si è sviluppata una
classificazione delle caratteristiche di interesse rilevabili mediante un esame visivo (i cui
risultati sono per lo più di natura qualitativa e soggettiva ).
•
Dimensione media della superficie di taglio lmed*x [mm2] : è costituita dal prodotto
della profondità media di penetrazione e dello spostamento in direzione di
avanzamento.
•
Presenza di striature “Str”, sono dei solchi presenti sulle superfici tagliate con AWJ in
direzione del getto idroabrasivo, cioè l’ondulazione che può interessare la superficie
di taglio. Tale parametro può assumere i seguenti valori :
S
PV
N
presenza di striature
striature poco visibili
striature non evidenti
N
S
Fig. 5.29 Classificazione delle Striature. PV) Striature poco visibili, N) Striature non
evidenti, S) presenza di striature
• Si indica con Qs la qualità della parte superiore del taglio cioè eventuale presenza di
un bordo arrotondato o danneggiato in qualche modo:
N
S
•
nessun segno di danneggiamento o di arrotondamento
presenza di un bordo arrotondato o danneggiato
Si indica con Qi la qualità della parte inferiore del taglio intesa come eventuale
presenza di scheggiature , tale parametro può assumere i seguenti valori:
N
S
assenza di scheggiature
presenza di scheggiature
N Assenza di scheggiature
S Presenza di scheggiature
Fig. 5.30 Classificazione delle scheggiature: N) Assenza di scheggiature
S) presenza di scheggiature
•
Presenza di uncat , s’intende la presenza di un triangolo di materiale non tagliato che
può essere presente al bordo di uscita del getto dal pezzo in lavorazione [Has92].
Esso richiede una successiva operazione per la separazione delle due superfici di
taglio. Tale parametro può assumere i seguenti valori:
N
S
assenza di uncut
presenza di uncut
Presenza di uncut
Fig.31 Uncut presente sul provino tagliato con AWJ, si notano le striature ed all’estremità
del taglio la presenza di materiale non tagliato “uncut” a forma di triangolo; per separare
le due superfici si è dovuto tagliare l’uncut.
•
Presenza di conicità “tgα” , si genera a causa della presenza nelle zone centrali del
tubo di flusso del fluido di un maggior contenuto energetico, pertanto l’abrasivo
nelle zone centrali taglia più rapidamente, inoltre la conicità dipende anche dai
parametri di processo presi in considerazione. Tale parametro può assumere i
seguenti valori:
N
PV
S
assenza di conicità
conicità poco visibile
presenza di conicità
Si potrebbero aggiungere altre considerazione che derivano dall’analisi dei provini
realizzata con mezzi più sofisticati, quali microscopio ottico o a scansione (ad esempio
presenza di microcricche, di grani di abrasivo incastonati nel materiali, etc. ).
N
P
S
Fig.5.32 Angolo di conicità presente su diversi provini nel piano parallelo all’asse del
getto, tagliati con AWJ. N) assenza di conicità- PV) conicità poco visibile- S) presenza di
conicità
5.4.2
Risultati dell’analisi qualitativa
Dall’analisi qualitativa, effettuata sui provini tagliati, sono emerse le seguenti
considerazioni.
Striature
Sono delle ondulazione presenti sulle superfici lavorate, generate dal getto idroabrasivo in
certe condizioni di taglio.
1. Fissata la pressione P e la portata di abrasivo ma, le striature si generano e
s’accrescono all’aumentare della velocità di avanzamento u della testa di taglio,
questo perché l’azione erosiva sul pezzo dipende dal tipo di abrasivo, dalla sua forma,
dalla sua energia e dal tempo in cui le particelle erodono una determinata zona del
materiale; se aumenta la velocità di avanzamento si riduce a parità degli altri
parametri il tempo durante il quale le particelle erodono una determinata zona,
pertanto la superficie presenterà striature .
2. Fissata la pressione P e la velocità di avanzamento u, al crescere della portata di
abrasivo ma si riduce la presenza di striature, questo dipende dall’aumento di
particelle che contemporaneamente erodono e quindi creano più microfratture
intergranulari in tutte le direzioni di azione dell’erosione, cioè un aumento di portata
di abrasivo significa aumentare gli utensili che lavorano contemporaneamente.
3. Fissata la velocità di avanzamento u e la portata di abrasivo ma, all’aumentare della
pressione P di lavoro le striature si riducono, questo deriva dall’incremento di
energia cinetica posseduta dal fluido all’uscita dall’ugello primario, tale energia nella
camera di miscelazione viene trasferita alle particelle di abrasivo che poi eroderanno
la superficie del provino.
Uncut
È un triangolo di materiale non tagliato presente sul provino nel punto di uscita del getto
sulla parte inferiore
1. Fissata la pressione P e la portata di abrasivo ma, si presenta l’uncut quando la
velocità di avanzamento u è elevata cioè è prossima alla velocità che non permetterà
più un taglio totalmente passante dello spessore del provino.
2. Fissata la pressione P e la velocità di avanzamento u, al crescere della portata di
abrasivo ma la presenza di uncut si riduce, questo perché si hanno maggiori particelle
di abrasivo che erodono .
3. Fissata la velocità di avanzamento u e la portata di abrasivo ma, all’aumentare della
pressione P si riduce la presenza di uncut , perché all’abrasivo il fluido trasferisce
maggiore quantità di moto.
Conicità
Il provino tagliato con AWJ presenta le superfici del solco di taglio non parallele tra di
loro.
1. La conicità è legata alla velocità di avanzamento u, infatti all’aumentare della stessa
la conicità del solco di taglio comincia a presentarsi per poi aumentare se si aumenta
ulteriormente u.
2. Fissata la pressione P e la velocità di avanzamento u, al crescere della portata di
abrasivo ma , la conicità si riduce in maniera limitata.
3. Fissata la velocità di avanzamento u e la portata di abrasivo ma , al crescere della
pressione P si riduce la conicità.
Scheggiate
Consiste nel distacco dalla parte inferiore del provino in prossimità degli spigoli del solco
di taglio di frammenti di materiale, questo danneggiamento rende lo stesso spigolo non
lineare.
1. Fissata la pressione P e la portata di abrasivo ma , la presenza di scheggiature la si
trova per valori elevati della velocità di avanzamento.
2. Fissata la pressione P e la velocità di avanzamento u, al crescere della portata di
abrasivo ma , si riducono le scheggiature dei provini.
3. Fissata la velocità di avanzamento u e la portata di abrasivo ma , al crescere della
pressione P si riducono le scheggiature sulla parte inferiore del pezzo lavorato con
AWJ.
L’arrotondamento “Qs “ o eventuale scheggiatura, della parte superiore del provino dove
il getto idroabrasivo comincia a penetrare nel materiale è trascurabile, cioè nessun
parametro quali pressione P , velocità di avanzamento u e portata di abrasivo ma
influenza macroscopicamente l’arrotondamento dello spigolo superiore.
5.5 Il taglio curvilineo
La tecnologia a getto d’acqua con abrasivo risulta tecnologicamente utilizzabile ed
economicamente conveniente per effettuare tagli curvilinei nella produzione di tasselli e
decorazioni per rivestimenti e pavimentazioni in pietra ornamentale. Il getto idroabrasivo
ha permesso di superare la dimensione esclusivamente artigianale, che caratterizza il
settore delle pietre naturali, proprio nelle lavorazioni artistiche. Di seguito viene riportato
lo studio condotto sul Perlato Royal di Coreno nel taglio curvilineo. Da tale studio sono
emersi i vantaggi competitivi connessi all’utilizzo della tecnologia AWJ rispetto alla
tecnologia tradizionale, che utilizza le frese diamantate, sia in termini tecnici che
economici.
5.5.1 Fase sperimentale
Lo scopo della sperimentazione è quella di valutare l’influenza dei parametri di processo
sulla qualità della lavorazione ottenuta mediante AWJ nel taglio di forme complesse. La
sperimentazione è stata effettuate su una forma complessa (geometria tipica nella
realizzazione di intarsi o decori) riportata in figura 5.33. La forma del provino campione
è dettata dalla geometria complessa della sagoma ottenuta da diversi archi di
circonferenza di diametro variabile. In figura 5.34 è riportata la geometria del profilo con
le relative dimensioni.
Fig. 5.33 Forma complessa utilizzata nella sperimentazione.
Fig. 5.34 Dimensioni del provino
Le prove sono state effettuate su marmette di Perlato Coreno dello spessore di 10 mm.
Spessore tipico nella realizzazione di pavimentazioni a geometria complessa ed intarsi. In
tabella 5.5 si riporta il piano degli esperimenti utilizzato con i relativi parametri fissi e
variabili. Per poter confrontare i tagli ottenuti con la tecnologia AWJ con la fresatura
diamantata sono stati realizzati sei provini mediante un centro di lavoro a controllo
numerico comunemente utilizzato nella lavorazione di pietre naturali.
La realizzazione dei provini, mediante fresatura, è stata possibile utilizzando due frese,
una di diametro 15 mm e la più piccola di diametro 3 mm. Ciò è dovuto ai piccoli raggi di
raccordo presenti nel pezzo da realizzare. E’ da notare che la fresa di diametro 3 mm è la
più piccola industrialmente utilizzata per tali lavorazioni. In figura 5.35 è riportato il
percorso delle due frese diamantata utilizzate.
Fattori fissi
livelli
Pressione [MPa]
350
Diametro
ugello 0.30
primario [mm]
Diametro
1
focalizzatore [mm]
Fattori variabili
n.
di Livelli
livelli
Portata di abrasivo 3
[g/min]
Velocità di avanzamento 3
mm/min]
mesh abrasivo
2
300-400-500
300-500-750
80 - 120
Tipo di abrasivo
garnet
Distanza di standoff 2
[mm]
n. passate
1
Repliche
3
Totale tagli
54
Tabella 5.4: Piano degli esperimenti
Per la scelta di un parametro quantitativo che descriva la qualità delle superfici tagliate si
è tenuto presente che l’unico vincolo è rappresentato dalla necessità di permettere
l’assemblaggio dei singoli componenti del prodotto finito, dunque la condizione
sufficiente è che la conicità del solco di taglio non sia così elevata da compromettere la
giustapposizione delle parti e che l’errore di forma sul profilo ottenuto sia contenuto
entro i limiti di accettabilità della lavorazione.
L’errore di forma sul profilo è stato misurato mediante una machina di misura a
coordinate. Sono stati misurati 338 punti sul profilo valutando lo scostamento tra questi
ed il profilo CAD di progetto. I punti sono stati misurati a 2 mm dalla superficie superiore
del provino e a 7 mm dalla stessa. In figura 5.35 è riportato lo schema di rilevazione e
misura.
path of ∅ 15 mm
path of ∅ 3 mm
Fig. 5.35 Traiettoria nella fresatura.
Profilo misurato
y
profilo CAD
x
Fig. 5.36 Schema di misura del profilo
5.5.2 Influenza dei parametri di processo
u [mm/min]
L’analisi ANOVA è stata utilizzata per valutare l’influenza dei parametri di processo nel
taglio AWJ sulla deviazione geometrica del profilo realizzato.
Nel grafico di figura 2 sono riportati gli errori osservati in funzione dei parametri di
processo, quali portata di abrasivo e velocità di avanzamento. Dalle curve è possibile
notare come la deviazione geometrica (somma dei moduli degli scostamenti massimi e
minimi rispetto al profilo nominale) calcolata sul profilo raggiunga valori minimi di 0,2
mm, con velocità di avanzamento di 500 mm/min e portate di abrasivo di 400 g/min, e
valori massimi di 0,6 mm per i valori minimi di portate di abrasivo e per valori massimi
di velocità di avanzamento utilizzati nella sperimentazione.
650
500
350
300
400
500
ma [g/min]
0.2 mm
0.3 mm
0.4 mm
0.6 mm
Table 3. Influence of AWJ process parameters on geometric deviations
Risultati dell’ANOVA
mesh
Deviations
variables
F
2 mm
mean
median
variance
skewness
0.01
7.84
0.71
0.49
7 mm
mean
1.31
ma
p
u
SSF/
SST
F
p
0.91
0
0.41
0.49
0.6
1.7
2.3
0.3
95.18
134.9
16.34
14.03
0
0
0
0
0.26
1
29.77
0
F
p
SSF/
SST
56.7
62.4
42.4
41.4
45.34
53.29
4.52
1.91
0
0
0.02
0.17
22.7
23.6
10.9
5.4
47.4
13.93
0
20.7
SSF/
SST
median
variance
skewness
0.62
3.10
0.62
0.44
0.09
0.44
0.5
5.2
0.8
28.74
9.40
17.73
0
0
0
45.6
29.9
44.8
15.86
1.23
0.84
0
0.30
0.44
Kruskal-Wallis Test
2 mm
7 mm
kurtosis
kurtosis
H
p
H
p
H
p
0.80
0
0.37
0.99
12.7
16.3
0
0
2.87
1.91
0.24
0.38
Table 4. Regression coefficients.
2 mm
7 mm
ln(mean)
a
5.24
ln(median)
3.93
ln(mean)
3.99
ln(median)
2.50
b
+0.00003
3
+0.00002
5
+0.00002
5
+0.00001
5
c
-0.0322
-0.0266
-0.0249
-0.0181
d
+0.0018
5
+0.0024
R2
89.8%
+0.0016
5
+0.0021
6
67.8%
90%
76.3%
Table 5. Comparison between AWJ minimum error and milling
Kruskal-Wallis Test
Median H
p
Level
2 mm
1
7 mm
2
1
2
Millin
g
AWJ
Millin
g
AWJ
0.18
0.09
0.17
0.14
321.23
28.58
0
Mood Test
Q3χ2
Q1
0.225 334.37
0
0.133
0.107
0.163
47.84
p
0
0
22.7
4.16
2.3
0.6
Median [mm]
0.5
0.4
0.3
0.2
80
120
300
mesh
400
ma [g/min]
500
350
500
750
u [mm/min]
Figure 5. Main Effect Plots of the median of the deviation distribution at 2 mm
Variance [mm^2]
0.150
0.125
0.100
0.075
0.050
80
mesh
120
300
400
500
ma [g/min]
350
500
750
u [mm/min]
Figure 6. Main Effects Plot of the variance of the deviations distribution at 2 mm
5.5.3 Confronto tra AWJ e fresatura diamantata
I risultati ottenuti con la tecnologia Abrasive Water Jet sono stati confrontati con quelli
ottenuti con la tecnologia tradizionale. Dal confronto la tecnologia con getto idroabrasivo
è risultata, in condizioni di processo ottimali, competitiva rispetto alla tecnologia
tradizionale ottenendo un prodotto di qualità superiore rispetto alle specifiche richieste
dal settore. Dal punto di vista economico la tecnologia con getto d’acqua è risultata
particolarmente vantaggiosa rispetto a quella tradizionale per i ridotti scarti e i bassi tempi
di lavorazione. In riferimento al prodotto di figura 1 si è passati da una produzione di 150
mm/min con la tecnologia tradizionale ad una produzione di 300-500 mm/min con la
tecnologia a getto d’acqua, con una riduzione del costo che arriva fino all’80 %. In figura
2 sono riportate le differenze di costo tra le due tecnologie utilizzate.
5.5.4 Analisi dei costi
I principali costi considerati sono riportati nella tabella che segue:
Costi
Diretti
Indiretti
Variabili
Abrasivo
Acqua
Energia
Ugelli
Altri componenti usurabili
Fissi
Preparazione
part-program
Operatori
Manutenzione
Ammortamento
Tabella 6.1 Costi considerati nel taglio con AWJ
I parametri di processo quali pressione idraulica P , portata di abrasivo ma e velocità di
avanzamento u possono essere correlati analiticamente al costo variabile di produzione
mediante la seguente relazione:
C = CA+CE+CW+CU+CH
6.1
Dove le voci di costo (variabili) che vengono considerate sono:
• Costo del consumo di abrasivo
• Costo dell’energia elettrica
• Costo del trattamento e del consumo di acqua
• Costi legati all’usura degli ugelli primario e focalizzatore
• Altri costi indiretti variabili
CA;
CE;
CW;
CU;
CH;
Per quanto attiene il costo del consumo di abrasivo CA, nell’ipotesi di assenza di
riciclaggio si ha:
•
costo del consumo di abrasivo CA =
c a ⋅ m& a
[Euro/ore]
m&
dove ca è il costo per unità di massa ed a è la portata di abrasivo nell’unità di
tempo.
Altre voci di costo sono invece legate al consumo di acqua. Tale consumo di portata
volumica d’acqua era stato valutato mediante l’equazione di Bernoulli e di conservazione
della portata di acqua per fluidi incomprimibili, con la correzione della velocità di uscita
dall’ugello mediante un opportuno coefficiente di efflusso, equazione 2.5, la portata di
acqua risulta :
QW = AW v re = ξS n
2P
2
d
2P
=π n ξ
= qw P
ρ
ρ
4
in cui Sn è la sezione dell’ugello primario, ρ è la densità dell’acqua e P è la pressione di
esercizio. Si è introdotta una notazione simbolica (il coefficiente qw) per evidenziare la
dipendenza di Qw da P.
Sulla base della precedente equazione è possibile determinare CW e CE:
•
costo dell’acqua CW =
c w Qw = c w q w P = c ′w P
ceW = c e
Qw P
= ce
qw P ⋅ P
[lire/ore]
3
= ce′ P 2
η
η
• costo dell’energia CE =
[lire/ore]
dove cw e ce sono i costi unitari di acqua ed energia, W è la potenza ed η il rendimento
complessivo dell’intensificatore.
L’usura degli ugelli, primario (CN) e focalizzatore (CF) dipende dalla tipologia degli
stessi, dalla pressione dell’acqua, dalla portata e dalle caratteristiche dell’abrasivo
impiegato, tuttavia, non essendo attualmente disponibile una relazione che leghi queste
grandezze, la determinazione di CU è basata sulla vita media prevista per tali
componenti:
cn c f
+
= cu
tn t f
• costo degli ugelli CU =
[Euro /ore]
dove cn e cf sono i costi unitari degli ugelli, e tn, tf sono le relative durate medie.
La voce CH raccoglie tutti i costi indiretti variabili (principalmente legati all’usura di
componenti del sistema diversi dagli ugelli) non esplicitamente inclusi nell’analisi, che
possono essere stimati come una frazione di CU tramite un coefficienze moltiplicativo k.
• Altri costi indiretti variabili CH = k⋅CU
La funzione di costo per unità di tempo 6.1 risulta:
C=
C=
[ ca ⋅ m& a +
ce
Qw P
η + c w Qw + cu (1 + k )
1
2
]
3
2
c a m& a + c ′w P + c e′ P + cu (1 + k )
6.2
[Euro/ore]
6.3
[Euro/ore]
La funzione di costo per unità di lunghezza di taglio da minimizzare risulta:
1
C= u
[ ca ⋅ m& a +
ce
Qw P
η + c w Qw + cu (1 + k )
]
6.4
[Euro /lunghezza]
3
c a m& a cu
c ′ P + ce′ P 2
+ (1 + k ) + w
u
u
C= u
6.5
[Euro /lunghezza]
750
u [mm/min]
500
300
350
500
400
ma [g/min]
60-80
80-100
(a)
Figure 7. Technological and economical considerations:
(a) costs difference between milling and AWJ
(b)
6 Il taglio laser
Le lavorazioni laser ricoprono un ruolo sempre più importante nell’industria per la
flessibilità operativa derivante dalla semplicità del fissaggio, dall’assenza di forze di
contatto tra pezzo ed utensile e dall’elevato grado di programmabilità delle traiettorie.
Nell’industria gli impieghi del laser per il taglio sono innumerevoli: lamiere metalliche,
pellami, carta, componenti meccanici e circuiti elettronici sono solo alcuni degli
innumerevoli esempi. In più il laser costituisce una valida alternativa alle lavorazioni
tradizionali per quei materiali che per durezza o abrasività sono difficilmente tagliabili,
come materiali ceramici e diamanti. Questo apre la strada all’impiego di nuovi materiali
non solo nel campo delle costruzioni meccaniche, ma nell’ingegneria in generale.
La tecnologia Laser è una tecnologia non convenzionale che ha avuto molto sviluppo ed
impiego in vari settori, da quello automobilistico a quello medico, dalla ricerca scientifica
alla microelettronica. In campo lapideo essa rappresenta una tecnologia del tutto
innovativa che consente tanto il taglio quanto il trattamento superficiale del materiale. Per
quanto concerne quest’ultimo diciamo che è possibile incidere e marcare la superficie sia
dei marmi che graniti operando una adeguata focalizzazione del fascio. Moderne
marcatrici laser consentono di incidere su lastre lucidate anche immagini ad elevata
definizione, mentre sono in studio dei sistemi per rendere le pavimentazioni antiscivolo.
Altro caso dove già da qualche anno viene impiegato con successo il laser è la pulizia e
restauro dei monumenti ed opere in marmo, mentre risulta ancora in fase sperimentale il
tentativo di applicare tale tecnologia nell’industria di trasformazione per il taglio dei
semilavorati. Per quanto concerne il taglio di lastre e marmette, difficilmente verranno
soppiantate le attuali tecnologie (telaio, filo diamantato, tagliaglocchi, segatrice a ponte,
ecc.), proprio perché rappresentano le uniche economicamente valide. Tecnologie
innovative come laser e water jet infatti consentono il taglio di spessori non
eccessivamente grandi (circa 2 cm). Tuttavia non è assolutamente nel taglio rettilineo del
lapideo che si intravede la possibilità di utilizzo del laser, bensì in tutti quei casi che
richiedono estrema precisione e elevato grado di programmabilità delle traiettorie, come
ad esempio tagli di particolari ornamentali, tagli decorativi, composizioni ad incastro
realizzate con materiali diversi. In questo caso i vantaggi offerti dalla tecnologia laser
sono tanti; vediamone alcuni:
Fissaggio del pezzo estremamente semplice, viste le debolissime forze di contatto
Assenza di usura da parte dell’utensile e di sollecitazioni meccaniche nel pezzo
Lavorazione estremamente silenziosa e pulita, dato il non utilizzo di fluidi refrigeranti
Riduzione degli scarti di lavorazione visto il piccolo spessore del solco di taglio
E’ proprio quest’ultimo il punto di forza della tecnologia di taglio laser applicata ai
lapidei, assieme al fatto che su piccoli spessori (<10mm) si ha anche una riduzione dei
tempi di lavorazione.
Lo sviluppo dei modelli in grado di descrivere i processi di lavorazione dei materiali è
essenziale per valutare l’influenza che i parametri operativi hanno sui risultati già in fase
di progettazione, in modo da ridurre il Time to Market. Ancora oggi è molto diffuso
definire i parametri procedendo per tentativi successivi: ciò aumenta i tempi di set-up,
toglie flessibilità al processo e introduce una causa di imprevedibilità nel controllo di
qualità, non essendo sicuri di poter raggiungere determinati risultati sia in termini di
prodotto finito che in termini di produttività. Avere a disposizione un modello
matematico cui fare riferimento in fase di attrezzaggio della macchina consente di ridurre
drasticamente i tempi e naturalmente anche i costi.
Il presente capitolo ha come obiettivo quello di sviluppare un modello analitico in grado
di prevalutare la geometria del solco di taglio tenendo conto sia delle caratteristiche
termofisiche del marmo sia dei parametri di lavorazione e del tipo di macchina. L’intento
del modello è quello di considerare i complessi fenomeni che intervengono durante il
taglio laser senza che l’efficienza dei calcoli sia inaccettabile e laboriosa, come ad
esempio nel caso dei calcoli con gli elementi finiti. Successivamente si procederà ad una
validazione sperimentale tramite delle prove di taglio in cui verranno fatti variare alcuni
parametri, questo proprio per evidenziare i limiti e i pregi del modello elaborato.
6.1 I vantaggi
Il taglio è oggi sicuramente l’applicazione industriale più comune per i sistemi laser.
Assieme al taglio ossiacetilenico e al taglio al plasma, il taglio laser rientra nelle
“tecnologie di taglio termico”: il materiale sottoposto all’azione del raggio subisce un
rapidissimo riscaldamento fino alla sua temperatura di fusione o addirittura di
vaporizzazione e viene di conseguenza asportato. I vantaggi di questa tecnologia sono tali
da giustificarne sicuramente l’elevato costo di investimento. Questi riguardano sia il
prodotto che il processo; di seguito se ne riportano alcuni:
Caratteristiche della qualità di taglio
Il solco di taglio è molto stretto, con conseguente risparmio di materiale.
Gli spigoli del taglio non sono arrotondati e generalmente rimangono lisci e puliti, non
necessitando quindi di ulteriori lavorazioni di finitura.
Le superfici rimangono pulite e possono essere risaldate.
Non si hanno bavature come nel taglio meccanico, e l’adesione delle scorie generalmente
può essere evitata.
La zona termicamente alterata e molto stretta e generalmente lo strato risolidificato è
dell’ordine del micron.
Possono essere ottenute scanalature nei materiali che volatilizzano come legno e acrilico.
Caratteristiche del processo
E’ sicuramente uno dei processi di taglio più veloci
Il pezzo non è sottoposto all’azione di forze di taglio, necessita dunque di un semplice
fissaggio per evitarne lo scivolamento durante la movimentazione.
Non esiste usura dell’utensile in quanto non vi è contatto.
Il taglio può avvenire in ogni direzione.
Il livello di rumorosità è molto basso.
Il processo può essere facilmente automatizzato con buone prospettive di inserimento di
controlli adattativi.
Il processo è molto flessibile poiché il “cambio utensile” si traduce spesso solamente in
istruzioni numeriche.
Alcuni materiali possono essere tagliati sovrapponendo più fogli, ma ci possono essere
problemi di saldature tra gli strati.
Quasi tutti i materiali possono essere tagliati, siano essi friabili o compatti, conduttori o
isolanti, duri o morbidi. Solo materiali con elevati coefficienti di riflessività come il rame
e l’alluminio presentano problemi che vengono superati con un appropriato controllo del
fascio.
6.2 Tipi di taglio
Nella figura 6.1 vi è la schematizzazione di come avviene il processo di taglio: il raggio
viene focalizzato dalla lente, passa attraverso l’ugello, coassialmente con un flusso
gassoso, e incide sul pezzo da tagliare. L’azione di taglio viene agevolata dal getto
gassoso che asporta il materiale fuso e i residui evitando inoltre che scorie e vapori
possano risalire e sporcare la lente. Questo dispositivo generale può essere adoperato per
tagliare in sette modi diversi; vediamone alcuni [Ste98].
9
8 7
6
5
Fig. 6.1 - Principio del taglio laser. 1:gas di processo; 2:ugello di taglio; 3:offset ugello;
4:velocità di taglio; 5: materiale fuso; 6:scoria;7:striature; 8:ZTA; 9:larghezza del solco.
6.2.1 Taglio per evaporazione
Nel taglio che si basa sulla evaporazione del materiale, il fascio focalizzato dapprima
riscalda la superficie del pezzo fino al punto di ebollizione in modo da generare il
cosiddetto “keyhole”. Questo produce un improvviso aumento della assorbività dovuto
alle riflessioni multiple e il foro cresce in profondità, mentre il materiale viene espulso via
come un getto gassoso. Questo è generalmente il metodo di taglio per i laser impulsati o
anche si ha nel taglio di materiali che non fondono, come legno, carbonio e alcune
plastiche.
La velocità di penetrazione del raggio nel pezzo può essere stimata in prima
approssimazione valutando la capacità termica, assumendo che il flusso di calore sia
monodimensionale e che venga tutto impiegato nella evaporazione; significa cioè che è
nulla l’energia di conduzione. Questa assunzione apparentemente grossolana risulta
abbastanza veritiera se la velocità di penetrazione è maggiore o uguale alla velocità di
conduzione. Così il volume rimosso per unità di area e per secondo risulta uguale alla
velocità di penetrazione, cioè [Ste98]
V =
F0
ρ ⋅ L + C p (Tv − T0 )
[
]
(6.1)
dove
F0 è la densità di potenza assorbita
è la densità del solido
L il calore latente di fusione e vaporizzazione
Cp il calore specifico del materiale [J/Kg°C]
Tv è la temperatura di evaporazione del materiale [°C]
T0 è la temperatura iniziale del pezzo
I valori determinati sperimentalmente sono dello stesso ordine di grandezza di quelli
valutati con la sopraccitata relazione. Se la velocità di penetrazione è attorno al metro al
secondo allora la velocità del vapore che fuoriesce da un foro cilindrico sarà data dal
rapporto delle densità, cioè v/ s=1000 m/sec. A queste velocità soniche gli effetti di
compressione e le variazioni di forma del foro fanno si che la reale velocità di uscita del
vapore sia inferiore, ma ciò nonostante si possono avere flussi sonici e onde d’urto e il
flusso può essere capace di considerevoli trascinamenti di materiale dalle pareti del foro
formato. Dunque in questo tipo di taglio il materiale in parte viene rimosso come vapore e
in parte per eiezione. E’ stato calcolato che questo ultimo contributo può arrivare fino al
60%.
La qualità del foro o del taglio è determinata dalla quantità di materiale fuso che può
accumularsi e causare detriti sulla superficie o erodere le pareti. Per questo è interessante
calcolare quanto velocemente è raggiunto il punto di ebollizione e così vedere come il
fuso può essere ridotto.
Dalle considerazioni svolte si intuisce che la potenza di picco del raggio è molto
importante. Nella foratura con laser a Nd:YAG particolare attenzione è dovuta allo studio
della forma dell’impulso nel tempo. Lo scopo generalmente è quello di avere un impulso
breve e aguzzo per il taglio in opposizione ad un impulso più lungo e con ridotto picco
iniziale per la saldatura.
Da queste evaporazioni esplosive ci sono diversi effetti collaterali. Una di questi è la
pressione di rinculo richiesta per accelerare il vapore fuori dal solco o dal foro.
L’equazione di Bernoulli è capace di fornire solo una rozza stima del valore di questa
pressione per una velocità di uscita di 1000 m/s anche se viene assunto flusso
incompressibile:
∆P =
ρ ⋅ v2
2
≈ 4 ⋅ 10 6 N / m 2
(6.2)
Una pressione di salita di questo ordine potrebbe provocare un innalzamento della
temperatura di evaporazione. Causa inoltre uno stress di tipo meccanico, amplificato da
quello termico generato dall’improvviso riscaldamento. Insieme costituiscono un
alquanto considerevole sollecitazione.
6.2.2 Taglio per fusione
Nel caso d taglio passante di materiali fondenti è possibile con un getto gassoso
abbastanza forte rimuovere il materiale fuso fuori dal solco e dunque evitare di innalzare
la temperatura al disopra del punto di evaporazione o anche oltre. Non deve allora
sorprendere il fatto che questo tipo di taglio richiede solo un decimo della potenza
richiesta dal taglio per vaporizzazione.
Il processo può essere modellato assumendo che tutta l’energia venga impiegata per
fondere il materiale e che questa parte fusa venga allontanata prima che possano avvenire
effetti conduttivi considerevoli. Ancora una volta, poiché la ZTA per buoni tagli non
supera mai qualche micron, questa assunzione può essere ritenuta valida. E’ possibile fare
una analisi quantitativa del processo effettuando un bilancio energetico sul materiale
rimosso, come mostrato in figura 6.2.
Fig 6.2 - Volume di materiale fuso e rimosso durante il taglio.
Il bilancio sarà
P=wtV* Cp*
Lf + mLv) (6.3)
dove
P è la potenza incidente [w]
W e t sono rispettivamente larghezza e spessore di taglio [m]
V è la velocità di taglio [m/s]
M è la frazione di materiale fuso che viene vaporizzato
Lf e Lv sono il calore latente di fusione e di vaporizzazione rispettivamente
T è la variazione di temperatura che causa la fusione
è la densità
è il coefficiente di accoppiamento del raggio con il pezzo da tagliare
Riordinando l’equazione otteniamo
P
wρ
=
t ⋅ v η ⋅ (C p ∆T + L f + mLv )
(6.4)
A parte la larghezza del solco, che dipende dal diametro del raggio e dalla velocità, e il
coefficiente di accoppiamento, le altre variabili sono tutte costanti del materiale, dunque
ci sarà da aspettarsi che il gruppo P/tV sarà costante per il taglio di un dato materiale
fissati i parametri del laser.
Quello che accade al fronte di taglio è considerevolmente complesso, come è possibile
vedere nella sezione di figura 6.3
Fig 6.3 - Fenomeni che avvengono al fronte di taglio.
Il raggio arriva sulla superficie e buona parte di esso passa nel solco e viene assorbito dal
materiale; la restante aliquota viene in parte riflessa dalla superficie non ancora fusa e in
parte trasmessa attraverso il solco. A basse velocità la fusione inizia allo spigolo iniziale
del raggio e una buona parte di questo passa attraverso il solco senza entrare in contatto
col materiale se questo è abbastanza sottile. Un buon assorbimento si comincia ad avere
quando il fronte di taglio è inclinato ripidamente (circa 16°) con la verticale, a causa di
due meccanismi: principalmente si ha assorbimento della radiazione da parte del
materiale e un assorbimento e reirradiazione da parte del plasma. Il plasma che si forma
nel taglio non è molto significante poiché viene trasportato via dal gas. Così la densità di
potenza che produce fusione al fronte di taglio sarà F0=F*sin =F*0.26. nella parte
inferiore del pezzo lo strato fuso è più spesso a causa della decelerazione dello strato e
della tensione superficiale che ne ritarda l’espulsione. Quando viene guidato nel solco il
gas risucchia l’aria circostante e crea una regione di bassa pressione al disopra della zona
di taglio. Questo può essere un effetto dannoso perché potrebbero essere risucchiate
all’interno delle scorie.
Altro aspetto che bisogna prendere in considerazione è che il flusso gassoso non solo
trascina via il materiale fuso ma lo raffredda anche. L’entità di questo raffreddamento può
essere calcolata sapendo che il calore rimosso per convezione è dato da:
Q=h*A* T
(6.5)
Il valore del coefficiente di trasmissione del calore h è stato determinato per molte
geometrie ed è disponibile in letteratura spesso in funzione del numero di Nusselt. Tale
valore generalmente è <100W/m2K, dunque le perdite al fronte di taglio diventano:
Q=100*t*w* T
(6.6)
L’effetto di raffreddamento del gas è trascurabile se comparato alla potenza del raggio
laser a causa della piccola area coinvolta nel meccanismo di taglio.
6.2.3 Taglio per mezzo di gas reattivi
Se il gas che fuoriesce dall’ugello è in grado di reagire esotermicamente con il materiale
del pezzo allora un’altra sorgente termica interviene nel processo. In questo caso il fronte
di taglio è sede di differenti fenomeni: il gas non solo trascina via il materiale fuso, ma
reagisce con esso. Generalmente il gas in questione è ossigeno o una miscela contenente
ossigeno e dunque si hanno reazioni di combustione che cominciano nella parte superiore
quando la temperatura raggiunge il valore di ignizione. La quantità di energia fornita
dalla reazione di combustione varia a seconda del materiale: con l’acciaio dolce e con
l’acciaio inossidabile è circa del 60%, mentre con metalli reattivi come il titanio può
giungere fino al 90%. Le velocità di taglio sono perlomeno raddoppiate in questo modo.
6.3 Modellazione del taglio laser
La modellazione di una particolare lavorazione o la descrizione matematica dei fenomeni
fisici che intervengono durante il processo è sicuramente un elemento critico per il
successo dello stesso. I modelli infatti possono fornire un grande contributo nella fase di
ottimizzazione e di controllo evitando di eseguire un gran numero di prove preliminari.
Dalle considerazioni precedentemente svolte già si intuisce quanto siano complessi i
meccanismi che intervengono nella operazione di taglio laser. Bisogna ricordare inoltre
che tali fenomeni fisici avvengono in un dominio spaziale e temporale molto ristretto, con
elevati gradienti di temperatura in zone molto localizzate, rendendo necessario
considerare la forte dipendenza di tutte le proprietà del materiale da essa. Questo sempre
nel caso ideale. Durante la lavorazione però possono intervenire tutta una serie di disturbi
che è impossibile prevedere come ad esempio fluttuazioni di potenza del laser, variazioni
nella forma dello spot, cambiamenti di proprietà del materiale e altri fattori. Ciò fa capire
la complessità della modellazione e soprattutto la difficoltà del riuscire a conciliare un
modello affidabile alla necessità di renderlo efficiente in termini computazionali. Nessun
modello pertanto considera tutti gli aspetti del fenomeno: il problema è riuscire a
distinguere quali sono rilevanti per valutare certe caratteristiche e fare assunzioni
plausibili che non condizionino troppo pesantemente i risultati ottenuti.
A livello generale è possibile una prima classificazione tra modelli che si occupano degli
aspetti legati allo scambio termico e modelli che si occupano degli aspetti legati alla
produzione di onde di pressione e al conseguente danneggiamento indotto nel materiale. I
primi sono legati al cosiddetto danneggiamento termico dovuto agli effetti secondari del
processo di rimozione del materiale per fusione e vaporizzazione. I secondi descrivono
invece il danneggiamento meccanico dovuto alle onde di pressione prodotte dal fenomeno
di rapida vaporizzazione o all’interazione tra la radiazione laser e il plasma; tali onde di
pressione si propagano nel materiale base , provocandone frattura in dipendenza dalle
caratteristiche meccaniche del materiale e dall’energia dello shock indotto. Riguardo alla
prima categoria è qui che si concentrano gli sforzi della maggior parte dei ricercatori. I
modelli più vecchi forniscono soluzioni analitiche in forma chiusa pur se a prezzo di
pesanti assunzioni. Ciò perché al tempo in cui essi furono sviluppati (fine anni ’60 primi
anni ’70) non vi era disponibilità di calcolatori per eseguire efficientemente complesse
iterazioni numeriche su modelli più raffinati. Questi in ogni modo conservano una certa
importanza, sia didattica, per capire le problematiche analitiche del processo, che per una
progettazione di primo tentativo di un processo di taglio laser.
Volendone citare alcuni tra i più importanti diciamo innanzitutto che ogni studio veniva
focalizzato su un determinato tipo o classe di materiali e analizzava un aspetto dettagliato
di tutto il processo [Cai96]. In Buinting (1975), Beyer (1990), Petring (1988) e Schulz
(1987) la stima del taglio laser veniva formulata basandosi su un bilancio energetico tra
l’assorbimento superficiale, l’energia di fusione, e riscaldamento del materiale per
conduzione. Tale modello assumeva una larghezza di taglio costante e pari al diametro
del raggio, un fronte di avanzamento del taglio semicircolare e un angolo di inclinazione
costante del fronte di taglio, che veniva determinato sperimentalmente. L’assorbimento
della radiazione in funzione della orientazione del fronte di taglio fu sviluppata solo nel
1988 da Petring. La reazione tra un getto gassoso coassiale e il fronte di taglio venne
studiata da Vicanek (1987) attraverso un bilancio bidimensionale di massa e di energia
nello strato di fusione. Tale modello considerava la diffusione di particelle liquide come il
principale meccanismo di rimozione del materiale. Schuocker (1983;1987) analizzando le
oscillazioni del kerf nel tempo studiò gli effetti dinamici della formazione delle striature
nel taglio laser. Modelli di trasmissione del calore rivolti al taglio per evaporazione e per
fusione furono sviluppati da Chryssolouris (1987;1990), Modest (1986), Roy (1993),
Bang (1993). La profondità e la forma del solco venivano stimate in funzione della
potenza, del diametro del fascio, e della velocità di taglio attraverso un bilancio
energetico tra l’energia incidente, quella necessaria alla trasformazione di fase e quella di
conduzione. Nel modello di Modest (1986) la zona di interazione materiale-raggio viene
divisa in tre regioni: una primaria di interazione col raggio, una zona di evaporazione e
una terza dove si è formato il solco di taglio. In Chryssolouris (1987) la forma del fronte
di erosione era dipendente dalla densità di energia incidente e venivano considerate tre
soluzioni: a bassa, media e alta densità di energia.
Di seguito vengono descritti dettagliatamente e analizzati due modelli in particolare:
quello di [Cai96] e quello di Chryssolouris (1990) che sono stati ripresi e applicati al
taglio dei lapidei, fatte le opportune correzioni.
6.4 Modello di Cai e Sheng del taglio laser per fusione ed evaporazione
Questo lavoro presenta lo sviluppo di un modello generalizzato che descrive il
meccanismo che influenza il taglio laser per evaporazione e fusione. Assegnato un set di
condizioni operative del laser (diametro del fascio, potenza del fascio, velocità del pezzo,
polarizzazione del fascio, e proprietà del materiale) il modello generalizzato fornisce una
stima della forma e dimensioni del fronte di taglio [Cai96].
6.4.1 Meccanismo generale che influenza il taglio laser
Gli effetti principali che influenzano la rimozione di materiale nel taglio laser sono
riportati nella figura 6.4. Si ha innanzitutto un assorbimento parziale della radiazione
incidente ad opera del plasma generatosi sul fronte di taglio (ciò avviene soprattutto nel
taglio per fusione dei metalli). Inoltre la superficie stessa del fronte di taglio ne riflette
una porzione. L’aliquota di radiazione rifratta viene infine dissipata anche per conduzione
all’interno del pezzo e quello che alla fine ne rimane determinerà la trasformazione di
fase del materiale (fusione o vaporizzazione). La rimozione di questo può avvenire
spontaneamente (per evaporazione) oppure, caso più frequente, tramite l’ausilio di un
getto gassoso coassiale al raggio (taglio per fusione) che espelle via la fase liquida e i
detriti. Altri fenomeni dispersivi comprendono la convezione all’interno dello strato fuso,
il raffreddamento dovuto al getto gassoso e le riflessioni secondarie del raggio fra le
pareti del solco.
Fig. 6.4 – Schematizzazione dei fenomeni fisici che avvengono al fronte di taglio
In modo da sviluppare un modello generalizzato per descrivere il processo di taglio
vengono fatte diverse assunzioni:
Il meccanismo principale della rimozione del materiale è fusione o vaporizzazione. Gli
effetti del gas reattivo sono minimizzati usando un gas inerte.
La forza motrice del getto gassoso previene l’accumulo di materiale fuso sul fronte di
taglio poiché esso viene espulso dalla parte inferiore del solco come si forma.
Gli effetti della convezione del materiale fuso e del getto gassoso sono minimi se
confrontati con l’energia del raggio incidente a causa delle piccole dimensioni del fronte
di taglio.
La riflessione primaria del fronte di taglio è molto più grande della secondaria all’interno
del solco.
6.4.2 Geometria del solco
Se il moto relativo tra il pezzo di lavoro ed il raggio incidente è costante allora il processo
di taglio può essere visto come stazionario rispetto ad un sistema di riferimento fissato al
raggio. Il fronte di taglio può essere visto come composto da una serie di elementini di
superficie dA ed orientazione n. Ogni elementino di superficie può essere descritto
tramite due angoli: , angolo con l’asse X, e angolo con l’asse y. La proiezione di
questo elementino sul piano XY avrà un area pari a dxdy. L’area dA è delimitata da due
vettori p e q , definiti come:
pˆ = dx(iˆ − tan ϑ ⋅ kˆ)
qˆ = dy ( ˆj − tan φ ⋅ kˆ)
(6.7)
Il vettore normale all’elementino di superficie può essere determinato come:
nˆ =
pˆ × qˆ
pˆ × qˆ
(6.8)
dove sostituendo le precedenti espressioni di p e q otteniamo
nˆ =
tan θ ⋅ ˆi + tan φ ⋅ ˆj + kˆ
1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ
(6.9)
che ci conduce alla seguente relazione differenziale
dA = 1 + tan 2 θ + tan 2 φ
Fig. 6.5 – Modellazione del solco e del fronte di taglio.
(6.10)
6.4.3 Bilancio di energia al fronte di taglio
Per ogni elementino di superficie può essere effettuato un bilancio energetico tra gli
effetti del raggio incidente, di conduzione e di cambiamenti di fase. Possiamo scrivere:
Eb ( x, y )dxdy = E cond ( x, y )dA + E p ( x, y )dxdy
(6.11)
Mentre il fascio laser ed i cambiamenti di fase del materiale avvengono normalmente al
piano XY, l’energia per conduzione alla superficie si propaga in direzione n. Poiché
l’energia di cambiamento di fase è direttamente correlata al volume di materiale rimosso,
allora Ep è il parametro dipendente nel bilancio energetico.
6.4.4 Energia del fascio incidente
Se si ipotizza che il raggio laser mantenga un modo temporale costante TEM00 allora la
densità di potenza nella sezione trasversale dello stesso può essere bene approssimata con
una distribuzione di tipo gaussiana, e cioè
I ( x, y ) =
⎛ x2 + y2 ⎞
P
⎜⎜ −
⎟
exp
π ⋅ R2
R 2 ⎟⎠
⎝
(6.12)
dove P ed R sono rispettivamente la potenza e il raggio del fascio laser. L’energia
cumulativa in un dato punto (x,y) è data dall’integrale nel tempo dell’intensità della
radiazione. Nel caso in cui la velocità di taglio si mantenga costante, è possibile
esprimere l’intervallo di tempo in funzione delle coordinate spaziali, cioè
dt =
du
V
(6.13)
essendo u la coordinata di riferimento nella direzione X. Attraverso questo cambio di
variabile l’energia del raggio effettivamente assorbita dal materiale può essere espressa in
funzione delle coordinate spaziali x ed y:
x
Eb ( x, y, z ) = ∫ a (u , y ) ⋅ I (u , y )
−∞
x
⎛ u2 + y2 ⎞
du
a (u , y ) ⋅ P
⎜⎜ −
⎟du
=∫
exp
2 ⎟
−∞ π ⋅ R ( z ) 2 ⋅ V
V
⎝ R( z ) ⎠
(6.14)
Appare chiaro dalla 6.14 che due sono i fattori che influenzano l’aliquota di energia del
raggio incidente che effettivamente penetra nell’elementino dA: il primo è il raggio del
fascio che varia lungo la direzione z a causa dell’effetto della focalizzazione; il secondo è
il coefficiente di assorbimento, che dipende dal materiale del pezzo, dall’angolo di
incidenza, dalla lunghezza d’onda, dall’esistenza o meno di plasma e da altri fattori. Se il
punto di fuoco è al top della superficie allora il raggio del fascio ad ogni z(x,y) di
penetrazione nel pezzo è
⎛ ⎛ z ( x, y ) ⋅ λ
0
R ( z ) = R f ⎜1 + ⎜
⎜ ⎜ π ⋅ R2 ⋅ n
f
⎝ ⎝
⎞
⎟
⎟
⎠
2
⎞
⎟
⎟
⎠
1/ 2
(6.15)
Dove Rf è il raggio nel punto
di fuoco, 0 è la lunghezza d’onda della radiazione e n l’indice di rifrazione del mezzo
dove si propaga, che essendo aria si può quasi sempre porre pari ad uno.
Fig. 6.6 – Andamento convergente – divergente del fascio laser: dopo aver raggiunto il
minimo diametro nel punto di fuoco,si ha divergenza con un angolo a.
Il modello assume che il raggio del fascio nel punto di fuoco Rf assume la seguente
espressione
Rf =
4 ⋅ λ0 ⋅ F
π ⋅ Ru
(6.16)
in cui Ru è il raggio non focalizzato e F la distanza focale della lente. Assumendo dunque
una convergenza parabolica del fascio, avremo anche una divergenza dello stesso tipo
dopo il punto di fuoco: in questo modo l’intensità di energia subisce una diminuzione
man mano che si scende in profondità.
Ci sono due fattori che contribuiscono al coefficiente di assorbimento totale a(x,y):
l’orientazione dell’elemento di superficie rispetto alla radiazione incidente e la
formazione di plasma (che avviene essenzialmente durante il taglio di metalli ). Il
coefficiente di assorbimento totale è il prodotto di questi due fattori:
a(x,y)=as(x,y)* p(x,y)
(6.17)
6.4.5 Coefficiente di assorbimento superficiale
Per analizzare l’assorbimento superficiale la regione del fronte di taglio può essere
esaminata come la combinazione di due mezzi, fig.6.7. Assumiamo che il raggio viaggia
nell’aria che ha un indice di rifrazione prossimo ad uno, cioè n1=1. Il secondo mezzo è il
materiale del pezzo di lavoro con un indice di rifrazione complesso n2=n2-ik2.
Assumendo una superficie liscia per il fronte di taglio, se l’angolo di incidenza del fascio
con il pezzo è 1 allora l’angolo del raggio rifratto (che passa attraverso il mezzo) può
essere calcolato tramite la legge di Snell
r
r
n1 sin β 1 = n2 sin β 2
(6.18)
con
cos β 1 =
1
1 + tan ϑ + tan 2 φ
(6.19)
Fig. 6.7 – Fenomeno della riflessione-rifrazione all’interfaccia di separazione di due
mezzi
Nel caso di polarizzazione circolare del fascio, il coefficiente di riflessione all’interfaccia
può essere calcolato come :
Rt=(Rp+Rs)/2
(6.20)
dove Rp e Rs rappresentano rispettivamente il coefficiente di riflessione in direzione
parallela e perpendicolare al piano incidente. Questi possono essere valutati tramite le
relazioni di Fresnel, cioè
n cos β 1 − n1 cos β 2
Rp = 2
n2 cos β 1 + n1 cos β 2
2
n cos β 1 − n2 cos β 2
Rs = 1
n1 cos β 1 + n2 cos β 2
2
(6.21)
Assumendo nullo il coefficiente di trasmissione nel mezzo per la radiazione laser il
coefficiente di assorbimento totale può essere calcolato come:
as=1-Rt
(6.22)
6.4.6 Coefficiente di trasmissione del plasma
Nella saldatura laser o nel taglio di metalli la trasmissione del raggio attraverso il plasma
che si forma sulla superficie del pezzo, è funzione della natura del plasma stesso. Nella
maggior parte dei casi l’assorbimento di energia avviene principalmente a causa della
interazione della radiazione con gli elettroni liberi nel plasma. Quindi l’entità di energia
assorbita dipende dalla densità di elettroni e dalla loro energia cinetica, che aumenta con
la temperatura. Questo effetto venne studiato da Miller (1990) nel caso di saldatura laser
di acciaio impiegando Argon come gas protettivo. Per velocità di efflusso del gas inferiori
a 8l/min i risultati di Miller mostrarono che la temperatura media degli elettroni rimaneva
costante a circa 8800°K.
Il calcolo per il coefficiente di assorbimento del plasma è diviso in due passi:
calcolo della densità di elettroni dell’elemento puro nel plasma
determinazione della frazione molare per ogni elemento puro nella miscela di plasma in
modo da determinare la densità elettronica totale del plasma
Prima di tutto le densità di ioni, elettroni e cariche neutre negli elementi puri può essere
calcolata con l’equazione di Saha:
ne⋅ ni z e ⋅ z i (2πme kTe )
=
η3
na
za
3/ 2
⎛ ν ⎞
⎟⎟
exp⎜⎜ −
⎝ kTe ⎠
(6.23)
dove le funzioni di partizione interne Ze, Zi e Za , ottenibili anche a mezzo di altre
relazioni, sono disponibili in tabelle6.1.
Assumendo la neutralità della fase (ne=ni), l’equilibrio cinetico (Te=Ta=Ti), e un
comportamento da gas ideale, la somma delle densità di ioni, elettroni e atomi neutri può
essere espressa come:
ne+ni+na=7.36*1021/T
(6.24)
Risolvendo le equazioni 6.23 e 6.24 simultaneamente si ottengono le densità degli
elettroni degli elementi puri nel plasma. La densità elettronica totale deve essere calcolata
come somma delle frazioni molari delle sostanze pure:
6.1
National Bureau of Standards tables of atomic energy levels.
n
ne = ∑ x j nej
j =1
(6.25)
Il coefficiente di radiazione di frenamento inversa per un laser a CO2 che si trasmette nel
plasma è:
kv =
1.62 ⋅10 −32 ne2
Te
(6.26)
L’intensità del raggio laser uscente dal plasma può essere determinata usando la legge
dell’assorbimento esponenziale:
I (∆z ) = I 0 e − kv ∆z
(6.27)
dove kv è funzione della distanza z dalla superficie del fronte di taglio. Pertanto
l’intensità totale uscente da uno strato di plasma è dato dal seguente integrale:
I ( z ) = I 0 ∫ e −kv ( z − zo )dz
z
z0
(6.28)
pertanto il coefficiente di trasmissione attraverso lo strato di plasma sarà
τp =
I ( z ) z − kv ( z − zo )
=∫ e
dz
z0
Io
(6.29)
Energia per la trasformazione di fase
E’ l’energia richiesta per portare dalla temperatura ambiente a fusione (taglio per fusione)
o vaporizzazione (taglio per evaporazione) una colonna di materiale con una sezione
trasversale di area dxdy che si estende dalla superficie superiore del pezzo alla posizione
locale dell’elementino di superficie sul fronte di taglio:
E p ( x, y )dxdy = ρ ( L + c p (T p − T∞ )) ∗ z ( x, y ) ∗ dxdy
(6.30)
Effetto della conduzione
La conduzione di energia termica all’interno del pezzo è governata dalla legge di Fourier:
r
∂T
= α∇ 2T + V • ∇T
∂t
(6.31)
Una soluzione completa tridimensionale del flusso di calore richiederebbe un modello
numerico di calcolo eccessivamente complesso. Poiché il principale fattore che influenza
la conduzione di energia è il gradiente di temperatura al fronte di taglio, si può assumere
con buona approssimazione che il flusso termico conduttivo avvenga lungo la direzione
ortogonale alla superficie dell’elementino come mostrato in figura 6.8
Fig. 6.8 – Schematizzazione del percorso conduttivo e condizioni al contorno per il taglio
laser.
Nel caso di spessore finito del pezzo otteniamo un percorso di conduzione del calore di
lunghezza che si estende dall’elementino di superficie fino alla base del pezzo:
δ ( x, y ) = ( D − z ( x, y )) ∗ 1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ
(6.32)
Il movimento relativo tra il pezzo ed il fascio da come risultato un termine convettivo
nella direzione X. Assumendo il processo stazionario possiamo scrivere
∂ 2T
∂T
α 2 +V
=0
∂x
∂n
(6.33)
dove V è la velocità scalare del pezzo nella direzione X. Usando le relazioni geometriche
precedentemente calcolate otteniamo la seguente equazione differenziale
d 2T V
dT
tan ϑ
+ ⋅
⋅
=0
2
α 1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ dn
dn
le cui condizioni al contorno sono:
T = Tp
per
n=0
(6.34)
−k
∂T
= h(T − T∞ )
∂n
n =δ
per
(6.35)
Risolta l’equazione otteniamo il gradiente di temperatura sull’elementino di superficie
λ ( x, y ) h
⎛ ∂T ( x, y, n) ⎞
⎜
⎟ = −(T p − T∞ )
− λ ( x , y )δ ( x , y )
∂n
h(1 − e
) + kλ ( x, y )e −λ ( x , y )δ ( x , y ) (6.36)
⎝
⎠ n=0
dove:
λ ( x, y ) =
V
α
⋅
tan ϑ
1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ
(6.37)
L’energia di conduzione può essere determinata come l’integrale del flusso nella
direzione X:
⎛ x
du ⎞
⎛ ∂T ( x, y, n) ⎞
× 1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ ∗ ⎟⎟dxdy
E cond ( x, y )dA = ⎜⎜ ∫ − k ⎜
⎟
∂n
V ⎠
⎠ n =0
⎝ −∞ ⎝
(6.38)
6.4.9 Soluzione geometrica
Sommando tutti i termini del bilancio energetico otteniamo:
⎛ x a(u, y ) ⋅ P
⎛ u2 + y2 ⎞ ⎞
⎜∫
⎜⎜ − 2
⎟⎟du ⎟dxdy = ρ L + C p (T p + T∞ ) ⋅ s (x, y )dxdy +
exp
⎜ −∞ πR 2 (u, y ) ⋅ V
⎟
R
u
y
(
,
)
⎝
⎠ ⎠
⎝
[
⎛ x
du ⎞
⎛ ∂T ( x, y, n) ⎞
+ ⎜⎜ ∫ − k ⎜
× 1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ ∗ ⎟⎟dxdy
⎟
∂n
V ⎠
⎠ n =0
⎝ −∞ ⎝
]
(6.39)
Questa equazione può essere risolta numericamente per s dove s è compreso tra 0 e D. I
parametri a, s,
 n, R,  sono funzioni di (x,y). La difficoltà nell’implementare
questo modello consiste nello stabilire gli angoli e per ogni elementino di superficie
prima del calcolo della profondità di taglio. Il passaggio iniziale deve essere condotto
prima senza il termine della conduzione per stabilire gli angoli iniziali, dopo di che questi
angoli vengono usati nella soluzione dell’equazione generale per ogni elemento di
superficie. La procedura va iterata fino al raggiungimento della convergenza.
6.5 Modello di Chryssolouris
Tale modello viene riportato nel testo dello stesso autore [Chr91] ed è antecedente a
quello di Sheng e Cai. Si giunge con esso ad una soluzione molto semplice anche se a
costo di drastiche semplificazioni, che consente di determinare lo spessore massimo di
taglio fissati i parametri del materiale e della macchina. Il modello al solito considera una
superficie di controllo infinitesima al fronte di erosione (fig. 6.9) inclinata di un angolo
con l’asse X e un angolo con y e colpita da un raggio di intensità J(x,y), con
J ( x, y ) =
2
2
2
2
2
2
P
e − ( x + y ) / R = J o ⋅ e − (x + y ) / R
2
π ⋅R
(6.40)
Fig. 6.9 – Superficie di controllo al fronte di taglio
Ripetendo le considerazioni del paragrafo precedente possiamo scrivere il bilancio
termico alla superficie di controllo:
a ⋅ J o ⋅ e − (x
2
)
+ y2 / R2
⎛ dT ⎞
2
2
dxdy = ρ ⋅ L ⋅ v ⋅ dxdy ⋅ tan ϑ − k ⎜
⎟ dxdy ⋅ 1 + tan ϑ + tan φ
⎝ dn ⎠ n =0
(6.41)
dove J0 è la densità di potenza, v la velocità di taglio mentre a è il coefficiente di
assorbimento della radiazione incidente. Notiamo già da questo primo bilancio l’estrema
semplificazione che considera un coefficiente di assorbimento costante e non in funzione
della orientazione dell’elemento di superficie. Tale coefficiente ovviamente è da valutare
sperimentalmente con delle prove preliminari. Altre assunzioni fatte riguardano l’avere
considerato la distribuzione di energia del raggio gaussiana e il meccanismo di
conduzione termica esclusivamente in direzione n ortogonale all’elementino di superficie.
Se il pezzo da tagliare ha uno spessore sottile, possiamo schematizzarlo come corpo
seminfinito, considerando la superficie inferiore come adiabatica. In questo modo è
lecito assumere la conduzione al fronte di taglio esclusivamente in direzione parallela alla
superficie inferiore, cioè nel bidimensionale
⎛ dT ⎞
⎛ dT ⎞
2
2
⎟⎟ tan ϑ
⎜
⎟ dxdy ⋅ 1 + tan ϑ + tan φ = ⎜⎜
⎝ dn ⎠ n =0
⎝ dη ⎠η =0
(6.42)
dove è la coordinata parallela alla superficie inferiore del pezzo.
In questo modo l’equazione di bilancio termico diviene la seguente
a ⋅ J o ⋅ e − (x
2
)
+ y2 / R2
⎛ dT ⎞
⎟⎟
= ρ ⋅ L ⋅ v ⋅ tan ϑ − k ⎜⎜
⎝ dη ⎠ η = 0
(6.43)
Il gradiente di temperatura al fronte di erosione può essere determinato risolvendo la
seguente equazione di conduzione
v ∂T
⋅
= ∇ 2T
α ∂x
(6.46)
A questo punto si fa l’assunzione che il meccanismo conduttivo non vari ne in area ne in
direzione, mantenendosi costantemente lungo la direzione dunque il laplaciano della
equazione precedente diviene
∇ 2T =
∂ 2T
∂η 2
Come riportato nella figura 6.9, essendo
direzione è valida la seguente relazione
(6.45)
l’angolo formato tra la direzione X e la
∂T
∂T
=−
cos ζ
∂η
∂x
(6.46)
L’equazione di conduzione in base a queste assunzioni diventa una equazione
differenziale monodimensionale
−
∂ 2T
v ∂T
⋅
cos ζ =
α ∂η
∂η 2
(6.47)
che viene risolta per sostituzione, ponendo
∂ 2T
∂T
=
u
'
u=
∂η 2
∂η e quindi
(6.48)
u'
v
= − ⋅ cos ζ
u
α
(6.49)
per cui si ottiene
che è una equazione differenziale a variabili separabili. Integrando per due volte si ha la
soluzione generale rispetto a T, cioè
v
− ⋅η ⋅cos ζ
T=
c1 ⋅ e α
+ c2
v
− cos ζ
α
(6.50)
Fissate le seguenti condizioni al contorno
per h=o T=Ts temperatura di superficie
(6.51)
h→∞ T=T0 temperatura iniziale
si calcolano le costanti di integrazione e si ottiene la soluzione del campo di temperatura
lungo che riportiamo di seguito
T − T0
Ts − T0
=e
v
− η cos ζ
α
(6.52)
lo scopo tuttavia è quello di valutare il differenziale della temperatura lungo
fermarsi alla prima integrazione
⎛ dT ⎞
v
⎜⎜
⎟⎟ = − ⋅ (Ts − T0 ) ⋅ cos ζ
α
⎝ dη ⎠η =0
(6.53)
sostituendo quest'ultima nella equazione di bilancio si ha
a ⋅ J o ⋅ e − (x
2
)
+ y2 / R2
= ρ ⋅ L ⋅ v ⋅ tan ϑ + ρ ⋅ c p ⋅ v ⋅ cos ζ ⋅ (Ts − T0 ) tan ϑ
(6.56)
e cioè
La massima profondità di taglio si ottiene lungo la mezzeria del solco, dove y=0 e anche
=0. Allora possiamo esprimere la pendenza del fronte di erosione lungo la mezzeria
come:
−
x2
a ⋅ J0 ⋅e R
tan θ =
ρ ⋅ v ⋅ L + c p (Ts − T0 )
2
[
]
(6.55)
l’altezza lungo z dell’elementino dA sarà
ds=dx•tan 
 

quindi è possibile determinare la profondità di taglio in funzione di x, semplicemente
integrando tra -∞ e +∞
∞
∞
−∞
−∞
s = ∫ ds = ∫ tan θdx
(6.57)
e cioè
s=∫
∞
−∞
−
x2
a⋅ P⋅e R
ρ ⋅ v ⋅ π ⋅ R 2 ⋅ L + c p (Ts − T0 )
2
[
]
(6.58)
A questo punto si assume come temperatura sull’elementino della linea media del solco la
temperatura di fusione del materiale. Sebbene Ts varia da Tm (temperatura di fusione) al
fronte di erosione a T0 (temperatura iniziale del pezzo) l’errore commesso è piccolo
poiché il termine esponenziale nella equazione diviene trascurabile per la parte della
superficie dove la temperatura non è Tm (cioè per x grandi). Di conseguenza integrando
s=
2⋅a⋅ P
a⋅P⋅ π ⋅R
=
π ⋅ R ⋅ ρ ⋅ v ⋅ c p (Ts − T0 ) + L
π ⋅ ρ ⋅ v ⋅ d ⋅ c p (Ts − T0 ) + L
2
[
]
[
]
(6.59)
dove d=2R è il diametro del fascio laser. Da notare il fatto che la profondità di taglio è
proporzionale al termine P/vd che è l’energia incidente per unità di area nel materiale.
Inoltre è possibile notare la profondità di taglio s decresce all’aumentare della
temperatura di fusione del materiale, della densità e del calore latente di fusione.
6.6 Comportamento del marmo sottoposto all’azione laser
Il materiale oggetto di studio è il Perlato Coreno formato per il 99% da carbonato di
calcio. Il restante 1% è costiuito da altri minerali disciolti in esso e da “impurezze”,
derivanti da un processo di fossilizzazione di organismi animali, che gli conferiscono il
tipico aspetto “perlato”. Nello sviluppo del modello di taglio, ovviamente non si può
tenere conto di questa minima percentuale dunque faremo l’ipotesi di materiale
omogeneo supponendo appunto che esso sia costituito esclusivamente da CaCO3.
Essendo quindi il taglio laser un processo di taglio termico è bene studiare anzitutto il
comportamento del materiale nel momento in cui è sottoposto ad un intenso
riscaldamento.
6.6.1 Reazione di decomposizione del carbonato di calcio
Per riscaldamento il carbonato di calcio si dissocia in ossido di calcio, solido, ed in
anidride carbonica, gassosa, secondo la seguente reazione:
CaCO3 ↔ CaO + CO2
Si tratta di un equilibrio eterogeneo per la presenza di tre fasi distinte. I componenti
chimici indipendenti sono due, in quanto la composizione del CaCO3, può essere
descritta indicando le percentuali di CaO e di CO2 in esso formalmente contenuti; i fattori
fisici attivi sono due, temperatura e pressione, l’equilibrio è dunque monovariante, infatti,
secondo la regola delle fasi
V = 2+2-3=1
Tutte le fasi hanno composizione fissa perché sono costituite ognuna da un solo composto
chimico, le variabili del sistema si riducono così ai due fattori fisici. In condizioni di
equilibrio ad ogni temperatura deve di conseguenza corrispondere una ben definita
pressione di CO2 (tensione di dissociazione) e viceversa. Alcuni dei valori della tensione
di dissociazione sono riportati in tabella 6.1
Temperatura
( °C)
PCO2
( mm Hg )
600
650
700
750
800
850
882
900
3
11
31
85
208
663
760
992
Tab. 6.1 – Tensione di dissociazione del carbonato di calcio
In teoria il carbonato di calcio potrebbe decomporsi a qualsiasi temperatura purchè
nell’ambiente circostante fosse mantenuta una pressione di anidride carbonica inferiore a
quella di equilibrio. In pratica per avere una dissociazione completa occorre raggiungere
la temperatura alla quale la tensione di dissociazione uguaglia la pressione atmosferica.
6.6.2 Ipotesi sul meccanismo di asportazione del materiale
Già si intuisce a questo punto che il meccanismo di asportazione del materiale nel caso
del marmo è sostanzialmente diverso da quelli che normalmente si verificano per gli altri
materiali, descritti al 6.2. In questo caso infatti quando il raggio laser colpisce il pezzo,
fornendogli energia termica, non si ha né una fusione né vaporizzazione da parte di
questo ma una semplice reazione di decomposizione. Quando il carbonato di calcio viene
cotto in forno, per la preparazione della calce aerea, l’anidride carbonica ha tutto il tempo
di evacuare e di far depositare l’ossido di calcio in fase polverosa. Nel caso di
riscaldamento mediante laser invece i tempi in cui si sviluppa la reazione sono molto
brevi a causa degli elevatissimi gradienti termici, dunque l’anidride carbonica nel
momento in cui si forma espande rapidamente essendo in fase gassosa, trascinando con se
le particelle di ossido di calcio. Queste tuttavia rimangono allo stato solido in quanto la
temperatura di fusione del CaO è 2570 °C, ben al disopra di quella necessaria per far
avvenire la reazione. La conferma di ciò è stata ottenuta raccogliendo le polveri formatesi
durante alcune prove di taglio del marmo col laser e sottoponendole ad analisi
diffrattometrica ai raggi X.
Fig. 6.10 – Analisi diffrattometrica ai raggi X effettuata su un campione di polveri
raccolte durante le prove di taglio laser di marmo
Il risultato delle analisi è riportato nella Fig. 6.10 dove si vede chiaramente che i
componenti sono i seguenti:
Ossido di calcio CaO, che non presenta cristalli risolidificati da precedenti fusioni
Idrossido di calcio Ca(OH)2 formatosi per idratazione dell’ossido di calcio in quanto
estremamente reattivo
Carbonato di calcio CaCO3 che non si è decomposto poiché trascinato via dalla anidride
carbonica e dall’ossido di calcio durante il taglio
Proprio in riferimento a quest’ultimo punto bisogna considerare il fatto che il solco di
taglio generato dal raggio laser è molto stretto, dell’ordine di qualche decimo o del
millimetro; nel momento in cui si ha la formazione di una fase gassosa a quelle
temperature, si ha una sua rapidissima espansione. Se consideriamo il rapporto tra la
densità del marmo e dell’anidride carbonica si comprende facilmente che le velocità di
uscita dal solco di taglio di questa fase possono essere prossime a quelle soniche dunque
l’effetto erosivo sulle pareti del solco può essere considerevole.
La temperatura di dissociazione del carbonato di calcio è di 882 °C alla pressione di
1atm, tuttavia lo strato di gas immediatamente adiacente alla zona di calcare in via di
decomposizione è costituito da anidride carbonica quasi pura, peraltro anche ad una
pressione superiore di quella atmosferica. Questo si traduce in un innalzamento della
temperatura di decomposizione che può essere stimato attorno ai 900-950 °C. Per
minimizzare questo effetto è dunque indispensabile l’impiego del getto d’aria ad elevata
pressione coassiale al fascio che rimuove l’anidride carbonica. Altro effetto non meno
importante del getto è quello di rimuovere le particelle di ossido di calcio e di carbonato
di calcio che causano un effetto schermante al fascio avendo un discreto coefficiente di
assorbimento della radiazione. E’ ovvio che nel caso del taglio del marmo non può essere
d’aiuto né l’impiego di un gas reattivo come l’ossigeno né quello di un gas inerte come
l’azoto, poiché la reazione di dissociazione non può essere accelerata se non attraverso il
controllo dei fattori fisici di temperatura e pressione.
6.6.3 Proprietà ottiche della calcite
Il fenomeno della rifrazione si ha quando un’onda elettromagnetica nel passaggio da un
mezzo ad un altro cambia in direzione. L’indice di rifrazione è il rapporto geometrico tra
l’angolo di incidenza (angolo formato dalla direzione della radiazione incidente con la
normale al piano del cristallo) e l’angolo di rifrazione (angolo con cui il raggio penetra
nel cristallo sempre rispetto alla normale). La legge di Snell della rifrazione si enuncia
come segue
n1 ⋅ sin θ i = n2 ⋅ sin θ r
(6.60)
dove ie rsono gli angoli di incidenza e di riflessione, n1 l’indice di rifrazione del primo
mezzo (che quasi sempre è aria e dunque pari ad uno), e n2 quello del secondo. La 6.60
può allora essere messa nella forma seguente
sin θ i
= n2 = n
sin θ r
(6.61)
dove con n indichiamo l’indice di rifrazione relativo dei due mezzi. Risulta inoltre che
tale indice è anche il rapporto tra il valore che la velocità dell’onda assume nell’aria e
quello nel cristallo. La velocità della luce è funzione del mezzo in cui si propaga, in
genere diminuisce all’aumentare della sua densità. Poiché la frequenza dell’onda deve
rimanere costante, per avere un cambiamento in velocità, si deve avere necessariamente
un cambiamento di lunghezza d’onda, che corrisponde ad un cambiamento nella
direzione di propagazione, dando luogo alla diffrazione.
Fig. 6.11 – Disposizione degli atomi di carbonio, calcio ed ossigeno nella struttura della
calcite: ogni gruppo CO3 assume disposizione triangolare e il piano che lo contiene è
perpendicolare all’asse ottico
Cerchiamo di capire come ciò avvenga per la calcite esaminando anzitutto la sua struttura
spaziale (Fig. 6.11). La direzione designata come asse ottico corrisponde ad una speciale
orientazione cristallografica per cui esso risulta un asse di triplice simmetria: facendo
compiere una rotazione completa al cristallo attorno all’asse ottico, per tre volte apparirà
la stessa configurazione originaria. La grande birifrangenza mostrata dalla calcite deriva
dal fatto che i gruppi carbonatici giacciono tutti in piani normali all’asse ottico. Il
comportamento dei loro elettroni, o piuttosto la mutua interazione tra i dipoli indotti di
ossigeno, è marcatamente differente quando E è normale o parallelo a questo piano
[Hec98].
Consideriamo un’onda piana polarizzata linearmente che incide sul cristallo con il vettore
campo elettrico E in direzione perpendicolare all’asse ottico come mostrato in Fig. 6.12.
L’onda colpisce la superficie del cristallo determinando l’oscillazione degli elettroni che a
loro volta emettono altre piccole onde. Queste si sovrappongono e si ricombinano per
riformare l’onda rifratta e tale processo si ripete fino a che l’onda non fuoriesce dal
cristallo.
Fig. 6.12 – Onda piana incidente con polarizzazione lineare perpendicolare alla sezione
principale del cristallo [Hec98]
Come caso opposto consideriamo il caso di Fig. 6.13 in cui il vettore campo elettrico è
parallelo alla sezione principale. Si noti ora che E ha una componente normale all’asse
ottico come pure una componente parallela ad esso. Poiché il mezzo è birifrangente la
luce polarizzata assumerà velocità diverse nel propagarsi in direzione parallela e
perpendicolare all’asse ottico. Per la calcite, alla lunghezza d’onda di 589nm avremo
1.686 Vτ = 1.658 Vυ = c.
Con il rischio di una eccessiva semplificazione rappresentiamo almeno per ora ogni onda
come una piccola sfera (Fig. 6.14). Poiché Vτ >Vυ l’onda si allungherà nella direzione
dell’asse ottico: possiamo considerare le onde come ellissoidi di rivoluzione attorno a
questo, e l’inviluppo di tutte le onde ellissoidali è praticamente una parte di un onda piana
parallela all’onda incidente. Questa onda piana tuttavia subirà uno spostamento
nell’attraversare il cristallo: il raggio si muoverà in una direzione parallela alle linee
congiungenti l’origine di ogni onda e il punto di tangenza con l’inviluppo piano. Questa è
nota come direzione del raggio e corrisponde alla direzione in cui si propaga l’energia.
Chiaramente in un cristallo anisotropo la direzione del raggio non è
normale al fronte d’onda. Nel caso il raggio incidente abbia polarizzazione circolare, le
due situazioni appena descritte esisteranno simultaneamente, a seconda di come incide il
raggio rispetto al piano.
Fig. 6.13 – Onda piana incidente polarizzata parallelamente al piano principale
Fig. 6.14 - Propagazione dell’onda all’interno della calcite
Tutto questo per dire che la simmetria del cristallo ha notevole influenza sull’indice di
rifrazione. Mentre i cristalli isometrici hanno la stessa struttura in tutte le direzioni e
dunque un solo indice di rifrazione, i trigonali (come la calcite), esagonali e tetragonali
hanno differenti strutture lungo gli assi primari e quindi hanno due indici di rifrazione:
uno lungo l’asse ottico primario, e l’altro lungo ogni altra direzione. La differenza tra il
più alto e il più piccolo degli indici di rifrazione è chiamata birifrangenza. Tale parametro
risulta molto alto per i carbonati e pochi altri minerali: la calcite in particolare ha uno dei
più alti gradi di birifrangenza.
Fig. 6.15 – Andamento degli indici di rifrazione nel cristallo di calcite in direzione
parallela e perpendicolare al piano principale in funzione della lunghezza d’onda della
radiazione incidente.
6.7 Sviluppo del modello di taglio
Il modello proposto per il taglio laser è un modello di tipo energetico, fortemente ispirato
a quello realizzato da Cai e Sheng trattato nel capitolo precedente. Quest’ultimo è stato
già applicato con successo a materiali strutturalmente molto diversi fra loro, come
l’acciaio inossidabile, l’allumina e il polimetilmetacrilato e ci è parso il più adatto ad
interpretare il meccanismo di erosione anche nel caso del marmo, ovviamente con le
opportune correzioni. Assumendo una distribuzione assialsimmetrica della intensità della
radiazione, materiale isotropo e velocità di taglio costante, il problema dell’interazione
laser-materia diviene stazionario, e inoltre la geometria del solco, nonché il problema
dello scambio termico diventano assialsimmetrici [Tan98].
Il modello implementato determina la forma e le dimensioni della geometria del solco di
taglio su un percorso rettilineo considerando le seguenti variabili:
caratteristiche del materiale che deve essere tagliato (Perlato di Coreno): spessore,
densità, calore specifico, conducibilità termica, ecc.
caratteristiche della macchina: raggio non focalizzato, lunghezza d’onda, modo
temporale, lunghezza focale e divergenza
parametri di processo: velocità di taglio, potenza e posizione del fuoco
La formazione del profilo del solco di taglio può essere prevista eseguendo un bilancio
energetico tra l’energia assorbita, la conduzione all’interno del materiale di base secondo
un cammino finito diretto come la perpendicolare localmente all’elementino di superficie
considerato e l’energia associata alla trasformazione del volume di materiale che viene
rimosso. In questo modello si considera la divergenza del fascio laser e la dipendenza
della assorbività del materiale in funzione dell’angolo di incidenza tra la radiazione ed il
fronte di taglio, mentre si considera il fenomeno conduttivo esclusivamente in direzione
normale alla superficie di incidenza. Di seguito riportiamo le assunzione fatte:
Il meccanismo di rimozione del materiale non è né per evaporazione, né per fusione bensì
per decomposizione del carbonato di calcio riscaldato dalla radiazione incidente; si
trascurano dunque effetti di rimozione secondaria dovuti all’azione dei gas o alle
particelle di materiale rimosso.
I prodotti della decomposizione vengono allontanati immediatamente dalla zona di taglio
dal getto d’aria coassiale al fascio, pertanto si assume che non si hanno formazioni di
plasma al fronte di taglio o assorbimenti secondari da parte dell’ossido di calcio. Tale
assunzione risulta veritiera nel caso di taglio passante specie se si opera a potenze e
pressioni elevate.
L’influenza del raffreddamento causato dal gas da taglio viene trascurata, dunque il
parametro pressione del gas non viene considerato.
Si considera la sola riflessione primaria della radiazione sulla superficie del fronte di
taglio, trascurando le riflessioni secondarie all’interno del fronte stesso.
a = coefficiente di assorbimento
Cp = calore specifico
dA = area dell’elementino
dx = proiezione dell’elementino lungo X
Dy = proiezione dell’elementino lungo Y
F = lunghezza focale
I = intensità radiazione incidente
K = coefficiente di conducibilità termica
n = versore normale al fronte di taglio
Ni = indice di rifrazione del primo mezzo
Nt = indice di rifrazione del secondo
mezzo
P = Potenza in uscita del laser
Q = variazione entalpica della reazione
R = raggio del fascio laser
Td = temperatura inizio trasformazione
T0 = temperatura ambiente
V = velocità di taglio
= angolo formato con l’asse X
 angolo formato con l’asse Y
= fattore di forma della gaussiana
= densità del materiale
= percorso conduttivo
Tab. 6.2 – Nomenclatura adoperata nella trattazione
Di seguito vengono ricavati i tre termini dell’equazione di bilancio energetico in maniera
simile a quanto fatto precedentemete nel modello di taglio per fusione ed evaporazione.
Ovviamente a causa della diversa dinamica con cui si esplica il fenomeno sono necessarie
alcune considerazioni che portano a variazioni nella trattazione, pertanto ci soffermeremo
solo su queste avendo già illustrato lo sviluppo generale in precedenza.
Nella tabella 6.2 viene illustrata la simbologia adottata nella trattazione.
6.7.1 Discretizzazione della superficie del solco
Il fronte di taglio viene suddiviso in aree elementari dA ad ognuna delle quali viene
associata la direzione normale n lungo cui verrà poi integrata l’equazione differenziale
della conduzione.
Fig. 6.16 – Elementino di superficie sul fronte di taglio: il sistema di coordinate è
allineato con l’asse centrale del fascio laser.
Dalla posizione e dall’orientamento di ogni area viene determinato il profilo del fronte di
taglio. La relazione geometrica tra l’area dell’elementino e le sue proiezioni sul sistema di
riferimento è la seguente
dA = 1 + tan 2 θ + tan 2 φ
(6.62)
6.7.2 Energia della radiazione incidente assorbita
Si assume che il raggio abbia una intensità di distribuzione Gaussiana della forma:
⎛ x2 + y2
P
I ( x, y ) =
exp⎜⎜ −
2
π ⋅ (ζ ⋅ R) 2
⎝ (ζ ⋅ R)
⎞
⎟⎟
⎠
(6.63)
dove P è la potenza, è il fattore di forma che definisce la effettiva forma della
distribuzione e R è il raggio del fascio per cui la sua intensità si riduce di e-1/ ^2.
La quantità totale di energia incidente su un punto distante u,y dal centro può essere
valutata integrando la distribuzione spaziale di energia lungo l’asse x, così l’energia che
viene assorbita dall’elementino al fronte di taglio è data dalla seguente espressione
x
Eb ( x, y, z ) = ∫ a(u, y ) ⋅ I (u, y )
−∞
x
⎛ u2 + y2 ⎞
du
a(u, y ) ⋅ P
⎜⎜ −
⎟du (6.64)
=∫
exp
2 ⎟
−∞ π ⋅ R( z ) 2 ⋅V
V
⎝ R( z ) ⎠
dove V è la velocità di taglio e R(z) è dato dalla 6.15.
In questa la stima più difficile da fare è il valore del coefficiente di assorbimento a,
funzione non solo del tipo di materiale, ma anche di altri fattori, primo fra tutti
l’orientazione dell’elementino di superficie. Si è discusso al 6.6.3 dei diversi indici di
rifrazione che ha il cristallo della calcite, ma vediamo ora di correlare tali indici ad un
coefficiente che ci fornisca il valore percentuale della radiazione incidente che viene
assorbita dal materiale. A questo scopo bisogna ricorrere alle leggi dell’ottica, in
particolare all’approccio elettromagnetico della propagazione della luce. Consideriamo
un’onda elettromagnetica monocromatica incidente su una superficie piana separante due
mezzi isotropi: qualora l’onda sia polarizzata linearmente e i due corpi siano dielettrici si
possono presentare i due casi limite seguenti:
Onda polarizzata incidente con il vettore campo elettrico E perpendicolare al piano di
incidenza (piano formato dalle direzione di incidenza, riflessione e rifrazione) Fig. 6.17
Fig. 6.17 – Onda con polarizzazione lineare incidente sul piano di separazione di due
mezzi col vettore campo elettrico perpendicolare al piano di incidenza
Tralasciando la trattazione matematica dell’approccio elettromagnetico alle leggi della
rifrazione in quanto esula dal nostro scopo, riportiamo direttamente l’equazione che lega
il coefficiente di trasmissione agli indici di rifrazione, cioè
τ⊥ =
2 ⋅ ni ⋅ cos θ i
ni ⋅ cos θ i + nt ⋅ cos θ t
(6.65)
dove ni e i sono rispettivamente l’indice di rifrazione del primo mezzo e l’angolo di
incidenza, mentre nt e t l’indice di rifrazione del secondo mezzo e l’angolo di
rifrazione.
Onda polarizzata incidente con il vettore campo elettrico E parallelo al piano di incidenza
Fig. 6.18 – Onda con polarizzazione lineare incidente sul piano di separazione di due
mezzi col vettore campo elettrico parallelo al piano di incidenza
In questo caso il coefficiente di trasmissione viene definito dalla seguente relazione:
τ // =
2 ⋅ ni ⋅ cos θ i
ni ⋅ cos θ t + nt ⋅ cos θ i
(6.66)
Nel caso del taglio mediante sistema laser si ha polarizzazione lineare o come più spesso
accade polarizzazione circolare del fascio, quindi si possono verificare entrambi i casi
sopra citati. Pertanto valuteremo il coefficiente di assorbimento come media dei due
valori dei coefficienti di trasmissione, cioè verrà posto
a=
τ ⊥ + τ //
2
(6.67)
Precisiamo che le equazioni dei coefficienti di trasmissione sono esatte solo nel caso in
cui i mezzi in cui si propaga la radiazione siano dielettrici, omogenei ed isotropi, dunque
l’approssimazione fatta, tranne che per l’isotropia si può ritenere sufficientemente valida.
Altra approssimazione da fare riguarda i valori degli indici di rifrazione. Per quel che
riguarda il primo mezzo, essendo aria possiamo porre ni=1, anche se bisognerebbe tenere
comunque conto dell’assorbimento dello strato immediatamente sopra il fronte di taglio
dove troviamo particelle di calcio e ossido di calcio. La stima del secondo indice al
contrario è ben più difficile. Questa , come detto precedentemente dovrebbe essere fatta
per il materiale in questione e alla lunghezza d’onda di 10.6 m. Tuttavia non avendo a
disposizione questi dati si è stimato tale valore come media dei due indici di rifrazione
della calcite, valutati a loro volta per interpolazione con degli indici a diverse lunghezze
d’onda.
Per calcolare il coefficiente di assorbimento ci si avvale inoltre della legge di Snell (6.60)
e della seguente relazione geometrica:
cos β 1 =
1
1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ
In questo modo “a” è funzione solo degli angoli
(6.68)
e   cioè delle coordinate spaziali.
6.7.3 Energia richiesta per la reazione di decomposizione
La reazione di decomposizione del carbonato di calcio è una reazione fortemente
endotermica; per produrre una chilomole di ossido di calcio (56Kg) occorrono
teoricamente 62500 Kcal [Bri91]. Risolvendo la relazione chimica e impostando una
semplice proporzione si ricava che per ottenere la trasformazione di 1 Kg di CaCO3
occorrono ben 1779 KJ. A questa quantità bisognerà aggiungere anche l’energia
necessaria per portare un Kg di materiale dalla temperatura ambiente (To=25°C) a quella
a cui avviene la trasformazione (Td=920°C), ottenuta dal prodotto della capacità termica
del marmo per l’intervallo di temperatura. La capacità termica di un materiale è un
coefficiente che varia in funzione della temperatura e per i solidi amorfi generalmente si
ha una proporzionalità diretta. Anche in questo caso, non avendo a disposizione la
funzione che lega queste due variabili si è deciso di ricavare Cp assumendo una sua
dipendenza lineare da T ed estrapolando i valori da quelli riportati in letteratura. Più
precisamente sono stati trovati i calori specifici del carbonato di calcio a due diverse
temperature: zero e cinquanta gradi centigradi, da cui si è ricavato un valore di Cp pari a
16.7 W/mK.
La equazione 6.30 a questo punto diventa:
ETras ( x, y )dxdy = ρ (Q + c p (Td − T0 )) ⋅ z ( x, y ) ⋅ dxdy
dove Q è il
H della reazione di decomposizione e
(6.69)
al solito la densità.
6.7.4 Effetto della conduzione
L’energia laser assorbita dal materiale irraggiato viene dissipata principalmente per via
termica. Ne risulta quindi un aumento di temperatura all’interno del volume irraggiato e
nelle sue immediate vicinanze. Una stima teorica della distribuzione termica può essere
effettuata solo in quelle situazioni che rendono plausibile l’ipotesi di costanza dei
parametri ottici e termici, ovvero fin quando i picchi di temperatura locale non producono
modificazioni del materiale [She95]. Nel caso reale è impossibile prendere in
considerazione tutti gli aspetti del fenomeno dunque bisogna ricorrere a delle
semplificazioni. L’ipotesi formulata è che a causa dell’elevato gradiente termico, il
meccanismo conduttivo si esplichi esclusivamente in direzione normale all’elementino di
superficie: in questo modo l’equazione di Fourier si semplifica notevolmente e si ottiene
la seguente equazione:
⎛ x
du ⎞
⎛ ∂T ( x, y, n) ⎞
2
2
E cond ( x, y )dA = ⎜⎜ ∫ − k ⎜
⎟ × 1 + tan ϑ + tan φ ∗ ⎟⎟dxdy
−∞
V ⎠
∂n
⎝
⎠ n =0
⎝
(6.70)
dove
λ ( x, y ) h
⎛ ∂T ( x, y, n) ⎞
⎜
⎟ = −(T p − T∞ )
− λ ( x , y )δ ( x , y )
∂n
h(1 − e
) + kλ ( x, y )e −λ ( x , y )δ ( x , y )
⎝
⎠ n =0
λ ( x, y ) =
V
α
⋅
tan ϑ
(6.71)
(6.72)
1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ
δ ( x, y ) = ( D − z ( x, y )) ⋅ 1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ
(6.73)
Fig. 6.19 – Percorso conduttivo all’interno del materiale: per ipotesi la conduzione
avviene in direzione normale all’elementino di superficie dA.
6.7.5 Bilancio energetico
E’ possibile a questo punto stabilire un bilancio energetico per ogni elementino di
superficie tra le tre quantità appena definite:
Eb ( x, y ) dxdy = Econd ( x, y ) dA + Etras ( x, y ) dxdy
(6.74)
Precisiamo infine che tutte le argomentazioni svolte finora sarebbero valide nel caso di
livelli di irraggiamento non troppo elevati, che consentissero l’assunzione di costanza dei
parametri fisici. Quando la fluenza, l’intensità o l’energia laser superano un certo livello
di soglia, è possibile individuare una serie di fenomeni cosiddetti non lineari , che
invalidano significativamente le trattazioni della propagazione ottica, della dissipazione
termica fino a qui considerate oltre che della possibilità di generazione di onde acustiche
all’interno del materiale lavorato. Così ad esempio è possibile evidenziare brusche
variazioni di riflettanza e delle leggi di propagazione ottica, oppure grossi gradienti
termici ed acustici, associate ad elevate intensità di irraggiamento. Le dinamiche che
portano a tali effetti possono essere molto differenziate e in alcuni casi non sono ancora
del tutto note; inoltre in molti casi si ha una compensazione reciproca di tutti questi effetti
minori il che rende minimo l’errore commesso per il fatto di averli trascurati.
6.8 Soluzione del modello
Andando a sommare tutti i termini del bilancio energetico, otteniamo l’equazione 6.75 in
cui i coefficenti a, R, e
sono funzione dell’orientazione e della posizione
dell’elementino; risulta pertanto evidente che il modello non presenta soluzione in forma
chiusa, dunque necessita l’implementazione al calcolatore.
⎛ x a (u , y ) ∗ P
⎛ u2 + y2 ⎞ ⎞
⎜∫
⎜⎜ − 2
⎟⎟ du ⎟dxdy = ρ ⋅ (Q + c p (Td − T0 )) ⋅ z ( x, y ) ⋅ dxdy +
exp
⎜ − ∞ πR 2 (u , y ) ∗ V
⎟
R
(
u
,
y
)
⎝
⎠ ⎠
⎝
⎞
⎛ x k ⋅ T − T ⋅ λ ( x, y ) ⋅ h ⋅ 1 + tan 2 θ + tan 2 φ
d
o
⎟
⎜
du ⎟dxdy
(6.75)
+ ⎜∫
− ∞ V ⋅ h ⋅ 1 − e − λ ( x , y )⋅δ ( x , y ) + k ⋅ λ ( x , y ) e − λ ( x , y )⋅δ ( x , y )
⎟
⎜
⎠
⎝
(
[ (
)
)
]
La equazione 6.75 andrebbe risolta numericamente eseguendo una discretizzazione che
prevede un dominio di calcolo nel piano XY di almeno 20 Rf per 20 Rf e di tutto lo
spessore D lungo l’asse Z, con uno step dell’ordine del centesimo di millimetro. La
principale difficoltà tuttavia risiede nella determinazione degli angoli e per ogni
elementino di superficie prima di calcolare la profondità di taglio. Questi andrebbero
dapprima valutati trascurando il termine conduttivo, dopo di che sostituiti nella equazione
generale; andrebbe poi iterato questo procedimento fino a convergenza. Si intuisce che la
ricerca della soluzione completa tridimensionale risulta comunque molto difficile e
richiede una enorme quantità di calcoli; per tale motivo si è deciso di semplificare il
problema facendo le seguenti considerazioni:
Se abbiamo fatto l’ipotesi di materiale omogeneo ed isotropo nonché quella di taglio
rettilineo con velocità costante e distribuzione assialsimmetrica di energia nel raggio,
allora la geometria del solco di taglio nel piano ortogonale alla velocità di avanzamento
deve mantenersi costante. In questo modo possiamo affrontare il problema nel
bidimensionale eliminando la variabilità lungo l’asse X (che entra in gioco solo nella
densità di potenza incidente) e quindi considerare l’equazione differenziale (6.76) nelle
variabili [u,D]
L’inclinazione dell’elementino deve ora essere vista nel piano dunque si considera il solo
angolo in quanto descriverebbe il profilo parallelamente all’asse di taglio, cosa che
potrebbe interessare solo nel caso di taglio interrotto. L’angolo viene considerato solo
nella soluzione della equazione della conduzione nel termine (x,y) dove viene posto
pari ad un valore piccolissimo onde evitare l’annullamento di questo.
La conduzione all’interno del materiale di base è grandemente semplificata in termini di
quantità di calcoli richiesta, anche dall’uso di riferimenti locali.
In relazione alle considerazioni appena svolte il problema si risolve integrando la
seguente equazione differenziale:
(
)
⎛ 2 u 2 + y 2 ⎞ k dT
a⋅P
⎟⎟ −
exp⎜⎜ −
1 + tan 2 θ
2
2
R
π ⋅V ⋅ R
⎝
⎠ V dn
eng (u , D ) =
ρ Q + c p (Td − T0 )
[
]
(6.76)
con
dT
λ ⋅h
= (T p − T∞ )
− λ ⋅δ
dn
h ⋅ (1 − e ) + k ⋅ λ ⋅ e −λ ⋅δ
(6.77)
dove
λ=
mentre
V
α
⋅
tan ϑ
(6.78)
1 + tan 2 ϑ + tan 2 φ
è dato dalla seguente espressione, come possibile ricavare dalla fig. 6.20
δ =
b− D
cos φ
(6.79)
Fig. 6.20 – Percorso conduttivo nel bidimensionale.
6.8.1 Implementazione al calcolatore
Sempre grazie alla simmetria il problema viene ulteriormente semplificato nei calcoli
andando a prendere in considerazione una sola metà del profilo nel piano YZ per poi
ottenere il profilo completo dal ribaltamento di questo rispetto all’asse Y.
La strategia risolutiva parte dalla discretizzazione del vettore [0,Ymax] giacente sull’asse
delle Y in n punti (generalmente tra 30 e 50 per avere una buona definizione senza
appesantire troppo i calcoli) come possibile vedere in fig. 6.21.
A questo punto si genera un vettore per l’angolo che viene fatto variare tra 0° e 88°,
valori entro cui può oscillare l’angolo formato dall’elementino che definisce il solco e
l’asse delle Y. Vengono dunque fissati diversi valori di tentativo per l’angolo
e
sostituiti uno per volta nella eq. 6.76 che viene integrata e fornisce la soluzione rispetto a
Z, cioè la profondità a cui deve scendere l’elementino. Con questo valore tramite una
relazione geometrica riportata nella fig. 6.22 ricaviamo nuovamente l’angolo che andrà
confrontato con quello di tentativo e andrà valutato lo scarto. Si ripete questo
procedimento per tutti i valori di tentativo ovviamente scegliendo di volta in volta quello
che fornisce il minimo scarto e si ottiene la soluzione completa.
Fig. 6.21 - Dominio nel semipiano YZ in cui viene integrata l’equazione differenziale.
Di seguito riportiamo i valori dei coefficienti riportati in letteratura ed i parametri della
macchina laser.
Parametro
Densità
Diffusività termica
Calore specifico
di trasformazione
Temperatura di trasform
Temperatura ambiente
Indice di rifrazione
Lunghezza d’onda
Altezza focale
Raggio non focalizzato
valore
= 2.7e-6 [Kg/mm3]
= 6 [mm2/s]
Cp = 860 [J/Kg K°]
1.78e6 [J/Kg]
Td = 930°C
T0 = 25°C
n2 = 1.6
0 = 10.6 e-3 [mm]
f = 190.5 [mm]
Ru = 15 [mm]
Tab. 6.3 – Proprietà termofisiche adoperate per il Perlato Royal e costanti della macchina
laser.
6.9 Validazione del modello
6.9.1 Sistema di taglio
Le prove sperimentali sono state eseguite con un laser a CO2 da taglio della potenza
massima di 2.5 Kw operante in modalità continua e TEM00 alla lunghezza d’onda di
10.6 m. Il fascio laser proveniente dalla sorgente (Ru=8.5 mm), trasportato da un
sistema a specchi, viene dapprima polarizzato, quindi focalizzato tramite una lente in La
variazione della potenza d’uscita avviene in continuo, come impostazione del valore
percentuale della massima, tra il 20 e il 100%. L’ugello da taglio adoperato, è di forma
conica e presenta un foro in uscita del diametro di 1.5 mm. Attraverso questo viene fatto
uscire il gas di processo, che può essere semplice aria, azoto o ossigeno, ad una pressione
massima di 16 atm. Il sistema di movimentazione è di tipo cartesiano, con un sistema di
serraggio pneumatico, che consente spostamenti del pezzo lungo i tre assi rispetto alla
testa che rimane ferma.; il tutto viene gestito tramite controllo numerico. La testa da
taglio è racchiusa all’interno di una cabina, mentre sotto di essa viene trasportato il pezzo
da lavorare. Un limite di tale macchina consiste nel fatto che essendo destinata al taglio di
lamiere permette il passaggio di pezzi aventi uno spessore massimo di 12mm. Al disotto
della testa vi è il sistema di aspirazione che provvede ad aspirare tutti i fumi e i residui
della lavorazione e a convogliarli all’interno di un contenitore per poi essere smaltiti. Ciò
consente non solo di lavorare in un ambiente estremamente pulito ma migliora nettamente
la qualità del taglio in quanto viene evitato a residui e scorie di depositarsi sul pezzo in
lavorazione.
6.9.2 Modalità di esecuzione delle prove
A causa della limitazione sullo spessore massimo consentito, per poter eseguire le prove
sono state realizzate delle marmette ad hoc delle dimensioni di 150x300x10 mm con un
lato lucido, ottenute per taglio e successiva levigatura di marmette standard,
comunemente disponibili in commercio, delle dimensioni di 300x300x20 mm. Altro
problema riguardava il fissaggio della marmetta al sistema di movimentazione. Essendo
infatti il Coreno un materiale molto fragile, accadeva facilmente che la mattonella si
rompesse nel momento in cui veniva presa dal gripper. Si è deciso dunque di interporre
tra questa e le ganasce dei lamierini in alluminio in modo da evitare eccessive
sollecitazioni meccaniche. Ovviamente tale problema non si avrebbe nel caso di sistema
di movimentazione con tavola portapezzo.
Venendo alla modalità di esecuzione delle prove sono state attuate due differenti
metodologie, a seconda che il taglio fosse passante o non passante attraverso tutto lo
spessore del pezzo. Nel primo caso, per ottenere una velocità di taglio costante e allo
stesso tempo un solco non eccessivamente lungo, il punto di partenza (A), dove cioè
viene acceso il laser, è stato preso al difuori del campione (Fig. 6.22). Il taglio non è stato
esteso a tutta la marmetta, ma è stato interrotto in un punto interno di questa (B)
spegnendo solo la sorgente laser, senza fermare il pezzo in movimento e il gas di
processo, così da avere sempre il valore istantaneo del fronte di taglio lungo tutto il solco.
Questo perché le osservazioni geometriche della sezione trasversa del kerf devono essere
effettuate con la parte posteriore del campione ancora non tagliata e rigida, in modo da
evitare errori di misurazione dovuti al raccostamento delle due metà.
Fig. 6.22 – Modalità di esecuzione della prova di taglio passante: il raggio laser viene
acceso nel punto A e spento in B.
Nel caso di taglio non passante, ovvero di scanalatura, il fascio laser è stato acceso (A) e
spento (B) sempre quando si trovava al di fuori del pezzo In questo modo sono state
possibili due misurazioni del profilo del solco sulle due facce del pezzo che vedevano
rispettivamente il raggio entrante ed uscente da esso.
6.9.3 Realizzazione dei tagli
Sebbene il modello prevedesse la variabilità di tre parametri di taglio, le prove sono state
eseguite variando solo la potenza e la velocità di avanzamento, lasciando costante la
profondità di fuoco. Il raggio è sempre stato focalizzato sulla superficie superiore del
pezzo durante la lavorazione grazie all’impiego di un sistema di regolazione dell’altezza
della testa di taglio, che le consentiva di adattarsi anche alle minime variazioni di
spessore. Per quanto riguarda la variazione della potenza si è deciso di lavorare a due
livelli che in un certo senso potessero stabilire i limiti di lavorabilità: il 60% e il 100%,
cioè 1.5 KW e 2.5 KW. Al disotto di 1500w infatti non sarebbe conveniente date le
troppo basse velocità di taglio, e inoltre si avrebbe anche un peggioramento della qualità
dei bordi. La velocità di taglio invece è stata variata in un range più largo, cioè tra 0.6 e 3
m/min; con velocità più alte anche operando a potenza massima si ottiene solo una
leggera incisione nel materiale, mentre a velocità più basse si ha notevole peggioramento
della qualità di taglio. Come gas da taglio è stato impiegato l’azoto, un inerte, in quanto la
reazione non presentava combustione alcuna. Poiché il modello non considera l’effetto
del gas, sono state condotte delle prove preliminari in modo da settare il parametro
pressione a valori tali in modo da avere spigoli di taglio il più puliti possibile. La
pressione è sempre stata mantenuta costante a 16 bar. Tale valore, generalmente
raggiunto nel taglio per fusione dei metalli, è sicuramente più alto di quello necessario al
nostro scopo, ma in questo modo ci si è maggiormente avvicinati alle condizioni ideali
del modello, e cioè di assenza di formazione dello strato di materiale rimosso sul fronte di
taglio. Infine va detto che la testa da taglio consentiva di variare anche l’angolo di
incidenza del raggio sulla superficie, cosa che viene fatta nel caso di metalli che
presentano elevata riflettività al fine di evitare ritorni di radiazione sulla lente; tuttavia
visto il buon comportamento del materiale si è deciso di operare sempre col raggio
ortogonale alla superficie del pezzo. Nella tabella 6.4 viene riportato il piano degli
esperimenti attuato.
Prova N°
1
2
3
6
5
6
Potenza
[KW]
2.5
2.5
2.5
1.5
1.5
1.5
Velocità
di
taglio [m/min]
3
1.5
0.6
3
1.5
0.6
Altezza fuoco da Gas da
superficie [mm]
taglio
0
N2
0
N2
0
N2
0
N2
0
N2
0
N2
Pressione del
gas [atm]
16
16
16
16
16
16
Tab. 6.4 – Parametri di taglio impostati durante le prove.
6.10 Analisi dei risultati
6.10.1 Rilevazione del profilo del solco di taglio
Per quanto concerne il tracciamento dei profili dei solchi di taglio, questi sono stati
rilevati mediante scansione al microscopio ottico del provino. Il grafico è stato ottenuto
per punti, rilevando a profondità fissate lo spessore del solco e riportando il valore su un
foglio di carta millimetrata. E’ doveroso precisare però che in questo modo il profilo è
stato reso simmetrico rispetto all’asse ideale del fascio. Questo è stato volutamente fatto
per due motivi: primo perché il profilo presentava delle leggerissime asimmetrie, dovute
molto probabilmente alla modalità di ottenimento delle sezioni da misurare, come
chiariremo tra breve; secondo perché sarebbe stato estremamente difficile definire in
maniera precisa l’asse di simmetria reale del fascio per poi riportare le pareti del solco
rispetto ad esso. Le prime due misurazioni sono state fatte sulle facce laterali della
marmetta. Su entrambe queste superfici però il profilo era diverso da quello all’interno
del solco, in quanto influenzato sia dalla direzione di avanzamento (entrante o uscente),
sia dalla velocità stessa di avanzamento ma soprattutto dalla non perfetto parallelismo tra
raggio laser e parete esterna del pezzo. Per ovviare in parte a questi problemi si è deciso
allora di tagliare la marmetta nel centro in direzione ortogonale al solco: in questo modo è
stato possibile ottenere altri due profili da misurare, questa volta interni, ciascuno su di
una metà (Fig. 6.23).
Fig. 6.23– Campione sezionato a metà in direzione ortogonale al solco.
Per il taglio si è impiegato un sottile disco diamantato a grana molto fine, in modo da
avere un taglio quanto più delicato possibile. Tuttavia anche in questo caso il profilo
osservato non era esattamente quello reale, in quanto gli spigoli superiori risultavano
leggermente scheggiati dal taglio della sega. Pertanto gli andamenti riportati sono stati
ricavati ritenendo maggiormente attendibili i solchi esterni per la parte superiore e i solchi
interni per quella inferiore.
6.10.2 Elaborazione dei dati
Le coordinate dei punti rilevate al microscopio sono state inserite nel foglio di calcolo e
sono state tracciate le curve approssimanti i profili reali dei solchi. In questi sull’asse
delle X viene riportato lo spessore del solco centrato sull’asse ideale del raggio laser,
mentre sull’asse delle Y viene riportata la profondità. In figura 6.24 è riportato il profilo
tracciato nel caso della prova N°2 di tab. 6.4.
0
-0,4
-0,2
0
0,2
0,4
-1
Profondità solco [mm]
-2
-3
-4
Profilo
Misurato
-5
-6
-7
-8
-9
Spessore solco [mm]
Fig. 6.24 – Tracciamento per punti del profilo reale
Notiamo in questo caso che le misure sullo spessore sono state prese con uno step di
0.5mm per i primi tre e gli ultimi tre punti, mentre per gli altri punti centrali, proprio
perché si aveva un andamento abbastanza costante si sono prese le misure ogni
millimetro. Successivamente sono state lanciate le simulazioni al calcolatore, impostando
di volta in volta i parametri della singola prova, ottenendo per ciascuna di queste
l’andamento del profilo calcolato. Il numero di punti di discretizzazione impiegato nella
simulazione è stato fissato a 50, in modo da avere una buona accuratezza della soluzione
senza appesantire eccessivamente e inutilmente i calcoli. Sempre tramite Matlab,
utilizzando un altro programma, è stato sovrapposto al profilo calcolato l’andamento
divergente del fascio laser all’interno della sezione del materiale, come possibile vedere
in fig. 6.25.
0
-1
-2
P rofondità [m m ]
-3
-4
-5
-6
-7
-8
-9
-10
-1.5
-1
-0.5
0
Raggio [m m ]
0.5
1
1.5
Fig. 6.25 - Andamento del profilo del solco calcolato con Matlab con sovrapposizione
dell’andamento teorico del raggio laser (in rosso) all’interno del materiale
Successivamente i due andamenti, quello calcolato e quello misurato, sono stati riportati
su di un unico grafico e sovrapposti, in modo da evidenziare le discordanze fra essi. In
fig. 6.26 viene riportata la sovrapposizione tra i due sempre nel caso di P=2.5KW e
V=1.5mm/min. Osserviamo in questo caso che la soluzione calcolata ha un numero
elevato di punti all’apice e nella gola del solco, mentre i punti interni sono solo tre. Per
poter avere un confronto oltre che qualitativo anche quantitativo si è deciso allora di
valutare lo scarto tra i due profili e di diagrammarlo in funzione della profondità. In
figura 6.27 è riportata la differenza tra i due “raggi” ovvero tra i semispessori in funzione
della profondità sempre per la prova N°2. Va detto che le differenze, in valore assoluto,
sono state calcolate alle profondità del profilo misurato; non avendo a disposizione i
valori per tali punti del profilo calcolato, questi sono stati ottenuti per interpolazione tra i
valori noti, considerando un andamento lineare.
0
-0,3
-0,1
0,1
0,3
-1
-2
Profondità [mm]
-3
-4
Calcolato
-5
Misurato
-6
-7
-8
-9
-10
Spessore [mm]
Fig. 6.26 – Sovrapposizione dei due profili: calcolato e misurato
0,045
differenza tra i raggi [mm]
0,04
0,035
0,03
0,025
Scarto
0,02
0,015
0,01
0,005
0
-8
-7
-6
-5
-4
-3
-2
-1
0
profondità [mm]
Fig.6.27 – Andamento dello scarto tra i semispessori in funzione della profondità
Per ultimo viene confrontata la “conicità” tra i due profili. Con questo termine intendiamo
l’inclinazione della parete del solco di taglio rispetto alla superficie della marmetta. Tale
parametro insieme allo spessore massimo del solco è sicuramente il più importante,
poiché avere una bassa conicità e solco stretto è sinonimo di buona qualità di taglio. In
fig. 6.28 è messa a confronto la conicità dei due profili. La conicità è stata ottenuta
tracciando la retta passante per due punti del profilo, rispettivamente al 20% e all’80%
della profondità massima, in quanto in questo intervallo si è osservato un andamento
pressocchè lineare per tutti i solchi, sia calcolati che misurati. Ovviamente anche in
questo caso non avendo gli spessori esatti a quelle profondità, sono stati ricavati per
interpolazione lineare.
0
-0,2
-0,15
-0,1
-0,05
0
-1
-1,59
-1,70274
-2
Profondità [mm]
-3
-4
-5
-6
-6,36
-6,81096
-7
-8
Raggio [m m ]
calcolato
misurato
Fig. 6.28 – Confronto tra le conicità dei profili
6.11 Considerazioni sui risultati ottenuti
Le poche prove effettuate sono comunque sufficienti per fare delle considerazioni.
Notiamo innanzitutto una certa proporzionalità inversa tra velocità di taglio e profondità
del solco, che si mantiene costante al variare della potenza, come possibile vedere nel
grafico di Fig. 6.29.
10
Profondità raggiunta [mm]
9
8,98
8
7,95
7
6
5,49
5
P=1.5Kw
5,26
P=2.5Kw
4
3,44
3
2
1
0
0
1
2
3
4
Velocità [m/min]
Fig. 6.29 – Risultati delle prove sperimentali
Il comportamento del materiale alla radiazione laser segue dunque abbastanza bene la
legge di taglio ipotizzata. Ulteriore conferma la possiamo avere dalla analisi delle parti
tagliate, che non presentano residui di fusioni o bruciature, bensì un taglio netto e pulito.
Sicuramente ciò è dovuto anche all’impiego del getto di Azoto ad alta pressione che ha
contribuito notevolmente alla pulizia delle pareti del solco.
Per quanto riguarda il confronto tra previsioni teoriche e risultati sperimentali, diciamo
subito che è stata superata di gran lunga ogni aspettativa. Gli scarti tra i profili sono
dell’ordine del decimo di millimetro sugli spessori mentre raggiungono al massimo
1.02mm sulla profondità di taglio. Fermo restando tutte le approssimazioni fatte sui vari
parametri coinvolti nel processo, i cui errori potrebbero andare anche a compensarsi fra di
loro, facciamo delle ipotesi di tipo qualitativo sulle possibili cause di discordanza tra il
modello e i risultati ottenuti. Innanzitutto dall’andamento dello scarto in funzione della
profondità, notiamo che si ha un valore molto piccolo sulla superficie e poi si ha una
progressiva diminuzione man mano che si scende. Ciò potrebbe essere dovuto a tre
fattori:
Il modello prevede una distribuzione di energia nel fascio di tipo gaussiano, che fa si che
il profilo venga modellato su di essa; nella realtà infatti il profilo avrà una distribuzione
che sicuramente si discosta da quella gaussiana. Sarebbe stato necessario infatti effettuare
delle prove per valutare l’esatto profilo energetico della sezione.
Il modello non tiene conto dell’effetto erosivo dovuto all’azione del gas da taglio e delle
particelle da esso trasportate, che comunque provoca un arrotondamento degli spigoli
superiori del solco e delle sue pareti. Infatti man mano che si scende in profondità tale
effetto va a diminuire.
Infine va detto che il modello non tiene conto neanche delle riflessioni multiple della
radiazione all’interno del solco, che se pur minimo potrebbero contribuire in qualche
modo all’asportazione di materiale dalle pareti.
Per quanto riguarda la sovrastima che il modello fa della massima profondità di taglio
raggiunta, notiamo (Tab. 6.5) che in tutti i casi l’errore assoluto aumenta al diminuire
della velocità di taglio, mentre l’errore relativo si attesta su valori pressoché costanti,
fissata la potenza. La causa di ciò potrebbe essere attribuita ancora una volta al fatto che il
modello non tiene in considerazione l’effetto del gas di processo. A potenze minori infatti
l’effetto schermante delle particelle erose trasportate dalla corrente gassosa è
maggiormente sentito che non a potenze più alte, e inoltre tale effetto potrebbe essere
anche influenzato dalla velocità di avanzamento.
Potenza[Kw]
2.5
2.5
1.5
1.5
1.5
Vel.[mm/min]
3
1.5
3
1.5
0.6
Errore[mm]
0,35
0,56
0,69
0,81
1,02
Profond.[mm]
5,26
7,95
3,66
5,69
8,96
Errore %
6,65
7,06
16,26
16,75
11,38
Tab. 6.5 – Errore percentuale commesso nella stima della massima profondità di taglio
raggiunta
Tuttavia quello che sicuramente influenza la velocità di avanzamento sono le perdite per
conduzione. Nel modello infatti queste vengono prese in considerazione lungo un
cammino rettilineo ma nella realtà avvengono in tutte le direzioni e sono tanto più grandi
quanto minore è la velocità di taglio, in quanto il calore ha più tempo per diffondere.
Conclusioni
Obiettivo generale del lavoro di tesi è stato quello di studiare tre tecnologie: la fresatura
diamantata; le lavorazioni mediante getto d’acqua con abrasivo; le lavorazioni mediante
la tecnologia laser. Nell’ambito della tecnologia diamantata sono stati sviluppati dei
modelli per il calcolo della forza e dell’energia di taglio e dei modelli di usura utensile.
Nell’ambito della tecnologia con getto d’acqua con abrasivo sono stati affrontati studi
sulle lavorazioni superficiali e sul taglio curvilineo. Per quanto riguarda la tecnologia
laser è stato sviluppato un modello di taglio laser delle pietre naturali.
Il modello di taglio sviluppato consente di calcolare la forza e l’energia specifica di taglio
in funzione dell’altezza massima di truciolo asportata dal singolo grano di abrasivo. Il
modello proposto consente di calcolare le componenti principali della forza di taglio in
base alla relazione:
Ft = K t ⋅ hcυt
Fn = K n ⋅ hcυn
dove Kt e Kn sono due coefficienti della forza di taglio, υt e υ n sono costanti.
L’energia specifica di taglio può essere calcolata mediante la relazione:
υ
Ec = Ke ⋅ hc e
dove Ke è il coefficiente dell’energia di taglio, υe è una costante.
I modelli proposti sono stati validati mediante l’utilizzo di un centro di lavoro a controllo
numerico opportunamente strumentato. Tale strumentazione è costituita da un
dinamometro piezoelettrico triassiale modello Kistler 9257BA con unità di controllo
Kistler 5233A1 sul quale viene fissato il pezzo in lavorazione. Il segnale in uscita dal
sensore viene inviato ad una scheda di acquisizione a 16 bit National Instruments PCI6034E, installata su un personal computer. Il software per l’acquisizione dei dati è stato
sviluppato in ambiente LabVIEW.
L’usura degli utensili diamantati sinterizzate utilizzati nel taglio delle pietre naturali
necessita di una opportuna definizione e misura. Nell’ambito della tesi sono stati definiti i
parametri qualitativi, ma soprattutto, quantitativi caratterizzanti il processo di usura e la
loro misura attraverso una procedura affidabile e ripetibile. Sono stati definiti dei
protocolli di prova per l’usura dei diamanti costituenti il componente principale di questo
tipo di utensili. Il protocollo utilizzato costituisce uno strumento indispensabile alla
corretta conduzione della prova e alla corretta interpretazione dei risultati. Si tratta di un
protocollo per prove di laboratorio e, quindi, particolarmente accurate, ma piuttosto lente.
Questo è stato dettato dalla necessità di creare un substrato di conoscenze relative al
processo di usura: attraverso questo primo lavoro infatti si sono identificati i parametri
critici del processo di usura. La valutazione dei parametri caratterizzanti l’usura sono stati
scelti in base a considerazioni di similitudine tra la fresa diamantata sinterizzata a codolo
e altri utensili diamantati sinterizzati come dischi o lame di cui esistono studi. L’usura
macro geometrica è espressa dalla riduzione del diametro utensile e quindi di settore
diamantato, dalla riduzione del peso dell’utensile e dalla cilindricità, in funzione del
volume di materiale lavorato. Nel caso dell’usura micro geometrica oltre ad una
caratterizzazione qualitativa delle grane diamantate, già utilizzata per caratterizzare la
progressione di usura dei dischi, si è cercato di ottenere una caratterizzazione quantitativa
della progressione di usura attraverso la misurazione della altezza di protrusione in
funzione del materiale lavorato e delle condizioni di taglio. Sono stati, infine, individuati
una serie di parametri quantitativi caratterizzanti la curva di protrusione e quindi l’usura.
Nell’ambito della tecnologia a getto d’acqua con abrasivo si è affrontato lo studio del
taglio di profili qualsiasi all’interno di lastre in materiale lapideo. In particolare é stato
effettuato il confronto tra la tecnologia AWJ e la tecnologia tradizionale mediante frese
diamantate nell’operazione di contornitura. Dal confronto la tecnologia con getto
idroabrasivo è risultata, in condizioni di processo ottimali, competitiva rispetto alla
tecnologia tradizionale ottenendo un prodotto di qualità superiore rispetto alle specifiche
richieste dal settore. Dal punto di vista economico la tecnologia con getto d’acqua è
risultata particolarmente vantaggiosa rispetto a quella tradizionale per i ridotti scarti e i
bassi tempi di lavorazione.
Inoltre, è stato affrontato uno studio sulle lavorazioni superficiali mediante AWJ
determinando un indice energetico, funzione dei parametri di processo, che consente di
calcolare le caratteristiche della superficie ottenuta dalla lavorazione ed il passaggio dal
taglio alla lavorazione superficiale.
Nell’ambito del taglio laser è stato sviluppato un modello analitico di taglio laser. Il
modello messo a punto, anche se trascura alcuni effetti secondari che avvengono durante
il taglio e ne semplifica degli altri fornisce tuttavia una descrizione abbastanza esatta di
quanto avviene realmente. L’implementazione successiva di questo modello in Matlab ha
consentito di realizzare un programma in grado di fornire una stima della geometria del
solco di taglio facendo esclusivamente riferimento alle proprietà fisiche del materiale,
alle caratteristiche del laser e ai parametri di processo impostati.
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Tecnologie di lavorazione delle pietre naturali