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Perché ritornare all’“Aida” scaligera?
Milano, Teatro alla Scala - Stagione d’opera e balletto 2012-2013
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re ALEXANDER TSYMBALYUK
Amneris NADIA KRASTEVA
Aida LIUDMYLA MONASTYRSKA
Radamès FABIO SARTORI
Ramfis MARCO SPOTTI
Amonasro ALBERTO MASTROMARINO
Messaggero JAEHEUI KWON
Sacerdotessa SAE KYUNG RIM
Akhmet DEBORAH GISMONDI
Coppia di selvaggi BEATRICE CARBONE, CHRISTIAN FAGETTI
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Corpo di ballo del Teatro alla Scala e allievi della Scuola di Ballo Accademia Teatro alla Scala
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia e scene Franco Zeffirelli
Regia ripresa da Marco Gandini
Costumi Maurizio Millenotti
Coreografia Vladimir Vasiliev
Luci Marco Filibeck
Produzione Teatro alla Scala 2006
Milano, 19 novembre 2013 - ultima recita
Il lettore potrebbe domandarsi legittimamente: “Perché ritornare all’Aida della Scala a distanza
di venti giorni? Perché tormentare ancora i pazienti seguaci di «GBopera» con i soliti giudizi sui
cantanti, le abituali notazioni sulle scene, i consueti accenni al libretto e allo stile letterariomusicale dell’opera che tutti conoscono così bene?” Le risposte plausibili sono in realtà più
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d’una: è interessante ritornare alla Scala dopo la recita del 31 ottobre scorso perché tre dei
personaggi principali (Aida, Radamès, Amonasro) sono interpretati da cantanti diversi; poi
perché è utile riascoltare la direzione di Gianandrea Noseda, e confrontarne l’esito e
l’apprezzamento del pubblico con quelli precedenti. Ma soprattutto è doveroso cogliere
l’ennesima occasione di ascolto per un’opera sempre stupefacente dal punto di vista musicale,
scenografico e coreografico, che la regia di Franco Zeffirelli non risolve del tutto, ma ripropone
in chiave storico-tradizionale. Non da ultimo, la serata (turno di abbonamento) è di grande
successo, perché tutti gli interpreti e il direttore sono applauditi a lungo (come non accadeva,
forse, da quando Aida fu diretta da Riccardo Chailly nel 2006); dunque merita parlarne ancora.
Noseda, da interprete intelligente qual è, ha certo interiorizzato le perplessità del
pubblico, provvedendo a correggere in parte l’impostazione direttoriale, e a realizzare un
più apprezzabile equilibrio, nelle dinamiche orchestrali, nei tempi, nelle sonorità. Non tutti i punti
critici sono risolti: la prima scena di Aida sola («Ritorna vincitor!... E dal mio labbro»), per
esempio, è staccata a un ritmo frenetico; le arpe che aprono il II atto sono sempre un po’
aggressive; gli accordi che chiudono il III atto sono sempre un po’ grevi. Il finale del II atto
provoca però una reazione di grande successo, e il duetto tra Aida e Radamès nel III atto si
rivela come il momento più accurato della concertazione, come una sequenza di disegni e
strutture musicali degli archi che il direttore accentua in modo sorprendente.
Fabio Sartori è tenore dalla voce squillante nel declamato, capace di alleggerire l’emissione
nel «Celeste Aida»; la sua linea di canto è molto sobria, con fraseggio ridotto al minimo, ma è
apprezzabile la correttezza, premiata dagli ascoltatori con applausi compatti. La prestazione va
crescendo nel corso della serata, grazie al piglio eroico della scena trionfale e agli accenti di
dignitosa disperazione del IV atto. Sartori è certamente molto più a suo agio come Radamès
che non come Don Carlo; il suo profilo vocale riassume anche l’enigmatica contraddittorietà del
guerriero egizio, un perfetto victor tristis di virgiliana memoria.
Liudmyla Monastyrska ha grande voce, e dimostra una crescita professionale encomiabile:
nel marzo dell’anno scorso aveva già interpretato Aida alla Scala, e nel febbraio di quest’anno
ha impersonato in Nabucco un’ottima Abigaille. Il timbro scuro della sua voce affascina sin
dall’inizio, anche per l’omogeneità di registro, mentre il volume sovrasta quello di tutti gli altri,
anche nei concertati. Forte il carisma, autorevole la presenza vocale; il fraseggio non è molto
approfondito, ma di buon effetto sono sicurezza e controllo complessivi. Quasi più scuro di
quello di Nadia Krasteva, che interpreta di nuovo Amneris, il timbro della Monastyrska rende
nel duetto del II atto ancor più evidenti le forzature vocali del mezzosoprano (in particolare sulle
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note basse). «O cieli azzurri, o dolci aure native» è cantato bene, anche se forse senza il
necessario tono elegiaco, perché quella della Monastyrska è un’Aida sempre regale (e anche
un po’ matronale), che per far risaltare il volume della voce non risparmia qualche emissione
gridata. Alberto Mastromarino è un Amonasro dalla voce un po’ chioccia, opaca, dagli acuti
coperti e sbiancati nel suono; nel duetto del III atto abbondano risonanze intubate, alquanto
fastidiose. Il personaggio è risolto con consumate doti attoriali, che alla fine convincono il
pubblico scaligero. Per il resto della compagnia vale quanto già osservato dopo la recita del 31
ottobre.
Nei primi due atti l’unità drammatica di Aida è corroborata dai tre momenti ballabili, che
Zeffirelli tenta di prolungare anche nel finale dell’opera con un personaggio di sua invenzione,
la sacerdotessa Akhmet, sempre interpretata molto bene da Deborah Gismondi (ma perché
nel programma di sala il regista scrive il nome Akhmen, mentre su tutte le locandine la grafia è
Akhmet? Quale la versione corretta?). Tutto sommato, tra la danza sacra del I atto, quella
decorativa del trionfo e quella funebre del IV, regista e coreografo (Vladimir Vasiliev) riescono
nell’intento di “raccontare una storia”: Akhmet avvia le sue apparizioni in modo ieratico (e
infatti indossa un costume simile a quello dei sacerdoti), coniugando arabeschi finissimi e
movimenti di scatto, mentre intorno a lei si genuflettono due ali di sacerdotesse. Nel finale I è
sempre Akhmet a consegnare a Radamès la spada, con misurata gestualità, nel pieno rispetto
dei tempi musicali. Nella danza dei moretti che apre il II atto intervengono sei bimbe e quattro
bimbetti (due dei quali si cimentano in petits jetés molto accurati); una grazia spontanea e
fanciullesca rende naturale tutto il quadretto. Il ballabile del trionfo, poi, nella prima parte è un
corrispettivo “adulto” della danza dei moretti; nella seconda parte diventano invece protagonisti
due selvaggi, interpretati da Beatrice Carbone, partner delicatissima (apprezzata Madame
nella recente Histoire de Manon), e Christian Fagetti, dotato di una tecnica molto buona e
abilissimo nei volteggi. Meraviglioso il ritenendo in piano di Noseda nel momento di più forte
simbiosi erotica tra i due danzatori, alla chiusa del numero.
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Nella scena del trionfo tutto è impostato sulla frontalità, che permette l’ostentazione di
fregi, geroglifici, ideogrammi, bassorilievi, scalinate e pluralità di livelli, praticabili da
personaggi e masse di coristi e figuranti. Anziché lo scorcio di «Uno degli ingressi della città di
Tebe», come vorrebbe la didascalia di Ghislanzoni (e come Zeffirelli fece per l’Aida scaligera del
1963), di fronte al pubblico c’è un’alta muraglia che colma il palcoscenico in verticale; la
marcia è dunque risolta con una parata di insegne militari presentate al faraone (nella stretta del
finale concertato se ne contano più di venti, enfaticamente innalzate, a mostrare simboli divini,
umani, zoomorfi; il tutto in oro, gemme, paste vitree luminescenti). Non s’intende affatto
giustificare ogni scelta di Zeffirelli: la macchina scenica del trionfo difetta, per esempio, di
profondità; e il suo limite è nella funzionalità, ridotta a mera ostentazione, quasi immobile, degli
oggetti connessi alla guerra. Parlare delle soluzioni registiche di Aida è problema storico-critico
pressoché unico nel teatro verdiano, perché non c’è altro melodramma alla cui messinscena il
compositore abbia dedicato così tanta attenzione; e in particolare per la Scala, come dimostra
l’opuscolo Disposizione scenica per l’opera «Aida» compilata e regolata secondo la messa in
scena del Teatro alla Scala da Giulio Ricordi,
stampato probabilmente all’inizio del 1872 e contenente tutte le note autografe di Verdi a un
esemplare del libretto (il tutto è stato studiato da Luciano Alberti in un saggio del 1977, edito nel
volume einaudiano Il melodramma italiano dell’Ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila). A
leggere i documenti verdiani ci si accorge della sostanziale affinità d’impostazione scenografica
tra l’allestimento milanese del 1872 (24 rappresentazioni tra febbraio e marzo, dirette da
Franco Faccio) e l’attuale di Zeffirelli. Già l’8 settembre 1870 Verdi scriveva a Ghislanzoni in
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merito alla marcia, «la quale è molto lunga e dettagliata. L’ingresso del Re alla Corte, Amneris,
sacerdoti; il canto del Popolo, delle donne; un canto ancora di sacerdoti (da aggiungere);
l’entrata delle truppe con tutti gli arnesi di guerra, danzatrici che portano vasi sacri, cose
preziose etc.; Almèe che danzano; finalmente Radames con tutto il bataclan, non formano che
un pezzo solo, la marcia». L’importanza dell’accumulo di masse e di oggetti nella scena del
trionfo è già in Verdi: è il bataclan, il trovarobato teatrale di stile esotico posticcio che fa
sorridere lo spettatore di oggi, ma che è inevitabile cifra distintiva della marcia, «nel segno di
una erudita evocazione caratteristica», per riprendere parole di Alberti. Il I° quadro del IV atto,
per contro, presenta con Zeffirelli una struttura scenica
opposta a quella del II, perché tutta giocata sulla profondità: la fuga prospettica di monumentali
colonne giunge fino a uno spazio dietro il palco, dove si svolge il giudizio di Radamès a opera
dei sacerdoti; in più, alla scalinata che sale se ne accompagna una che scende verso l’interno,
per accentuare il senso di profondità di livelli diversi (che anticipa i due livelli del finale: il tempio
e la sottostante cripta-tomba dei due amanti). Verdi doveva rappresentare un esotismo non
di maniera, un Egitto mai veduto ma fortemente immaginato, un mondo fiabesco di
faraoni e di schiave, le cui storie fossero però capaci di parlare allo spietato mondo politico di
fine Ottocento e di oggi. Le soluzioni musicali furono straordinarie, e mai oleografiche; quelle
sceniche dettagliatissime, tanto che a distanza di quasi un secolo e mezzo forniscono ancora
una suggestione importante. Dimostrazione che, come ha scritto Luciano Alberti, «Verdi vedeva
giusto: con Aida l’Egitto, nel teatro musicale, era sua invenzione e pertanto, da allora in poi,
sua esclusiva». Foto Brescia & Amisano © Teatro alla Scala
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