‐ PARLIAMONE PER LA MEMORIA STORICA ‐ ‐ L'ATTO FINALE DELLA IIa GUERRA MONDIALE ‐ ‐ È PASSATO ALL'ALTRA RIVA L'AVIATORE DELL'ENOLA GAY ‐ THEODORE VAN KIRK, TRACCIÒ LA ROTTA DEL B29, L'ULTIMO MEMBRO DELL'EQUIPAGGIO AMERICANO CHE SGANCIÒ L'ATOMICA di Cataldo Greco È morto di vecchiaia in Georgia a 93 anni, Theodore Van Kirk, lo chiamavano "Dutch l'olandese", era uno dei dodici aviatori dell'Enola Gay. Di origine olandese era la sua famiglia, ma Theodore, era nato in Pennsylvania e di olandese sapeva solo qualche parola che aveva imparato da bambino. Un ragazzo prestante, simpatico, Sopra Thedore Van Kirk (primo a sinistra), il Comandante gentile Paul Tibbets e l'ufficiale puntatore Thomas Ferebee e molto davanti all'Enola Gay. Sotto il fungo atomico di intelligente. Hiroshima. A sinistra Van Kirk recentemente. Scelse di fare l'ufficiale di carriera e quando uscì dall'Accademia della Us Air Force di Colorado Springs nel 1941 non avrebbe mai immaginato che sarebbe passato alla storia. E mai pensò che il suo nome, insieme a quello del Colonnello pilota Paul W. Tibbes e del Maggiore pilota Thomas W. Ferebee, sarbbe stato al tempo stesso benedetto e maledetto. Thedore Van Kirk era l'ultimo rimasto in vita. E l'Enola Gay è il noto "B29" che il 6 agosto 1945 sganciò la "famosa" bomba su Hiroshima, la città giapponese. Dell'equipaggio Theodore Van Kirk, giovane capitano, dopo il comandante Tibbets, era il più importante: era l'ufficiale esperto di rotta. Fu lui quella mattina di 69 anni fa a 1 identificare il punto scelto dal Pentagono per il primo spaventoso bombardamento atomico. Erano le 08,15. L'aereo era decollato dalle isole Marianne nel Pacifico sei ore e mezzo prima. Arrivato su Iwojima era salito a 31 mila piedi, circa 10 mila metri, «Dissi al Comandante: ci siamo ‐ avrebbe raccontato in un'intervista al "New York Times" ‐ e il Comandante diede l'ordine. La bomba esplose a 1890 piedi da terra (circa 600 metri). Il nostro B29 si buttò in picchiata e fece una virata radicale per evitare lo spostamento d'aria…» fu solo in quel momento, mentre l'aereo ballava spaventosamente, che Theodore Van Kirk e gli altri guardarono in basso. Videro l'intera città coperta da fumo e polvere. «Sembrava come una pentola di catrame in ebollizione. Vidi qualche fuoco. Capii che i morti dovevano essere molti». Più tardi apprese che erano stati 80 mila. Altri 80 mila sarebbero morti per le terribili ustioni e le radiazioni, come riferirono i giornali e la radio. (ndr. Per la storia ufficialmente sono 145 mila vittime). Il mondo non aveva mai visto prima nulla di simile e ne rimase sbalordito, pietrificato. Stalin fu sconvolto dalla potenza della nuova arma americana e ordinò ai suoi scienziati di rimediare con un progetto sovietico. In un libro intitolato "Duty", uscito nel 2002, dodici anni fa, autore Bob Greene, l'ex Capitano (che allora, nel 1945 aveva 24 anni) confidò: «Rimanemmo in silenzio. Ma io ebbi netta la sensazione che quello era un punto di svolta nella guerra con il Giappone». Sensazione esatta. Tre giorni dopo Hiroshima, l'allora Presidente democratico Harry Truman ordinò un secondo bombardamento atomico su Nagasaki. Ancora sei giorni e il 15 agosto sulla corazzata Missouri l'Imperatore in persona firmava davanti al Generale Mac Arthur la resa incondizionata. Ci sarebbe stata lo stesso senza quelle due terribili bombe? «Non credo proprio ‐ disse Theodore Van Kirk ‐ Combattevamo un nemico che non si sarebbe mai arreso, che non avrebbe mai
riconosciuto la disfatta». E a chi lo definiva un criminale di guerra replicava con l'accusa di ipocrisia. «Come si fa a parlare di guerra e di moralità nello stesso momento? Dov'era la
moralità quando i tedeschi bombardavano Coventry o gli alleati Dresda? Dov'era la
moralità quando i giapponesi ci colsero di sorpresa a Pearl Harbor o perpetrarono stragi
inenarrabili a Nanchino? Una sola cosa è giustificata e doverosa se si è in guerra: una
Nazione deve avere il coraggio di vincere nei tempi più brevi possibili e con il minor
numero di vittime». Theodore Van Kirk è morto «senza aver mai avuto rimorso o un ripensamento», come si è saputo, in una casa di riposo di Stone Mountain, in Georgia ‐ Stati Uniti, con i conforti religiosi. 2 IL RACCONTO DEL BAMBINO SHOZO TANAKA SOPRAVVISUTO AD HIROSHIMA di Cataldo Greco È stata una ferita profonda per il Giappone. Shozo Tanaka, allora un bambino, è un sopravvissuto di Hiroshima. Oggi vive in Italia a Padenghe, sul lago di Garda. La giornalista bresciana Federica Pacella lo ha contattato per farsi raccontare con le sue parole la memoria incancellabile di quel 6 agosto 1945: alle 8,15 della mattina "Little Boy" ‐ questo come sappiamo, il nome in codice dell'ordigno ‐ la prima bomba nucleare, lanciata ed esplosa sulla città di Hiroshima, rasa al suolo. «Prima una luce, poi lo scoppio, tutto rosso. Per mesi è stato chiamato ‐ racconta ‐ Pika Don, luce e tuono. Non sapevano, i sopravvissuti di Hiroshima, che quello che aveva tinto di rosso il cielo, non era un "normale" bombardamento». Nell'era di internet sembra, non vero, inconcepibile. «Il mondo sapeva della bomba atomica più di quanto sapessimo noi stessi. Poi di li a 10 giorni la guerra finì, e della bomba non si parlò più». Il 6 agosto 1945, Tanaka aveva già compiuto 9 anni e viveva a una ventina di chilometri da dove sarebbe esploso il terribile ordigno nucleare. Un ricordo indelebile nella sua memoria, che riaffiora inevitabilmente nel giorno dell'anniversario. Tanaka, malgrado tutto, raramente perde il sorriso che manifesta una notevole ricchezza spirituale, scrive la giornalista Pacella. «Il dolore ‐ Tanaka tiene a dire ‐ te
lo porti dentro, ma è inutile affliggere gli altri.
Quella mattina siamo andati a scuola più tardi,
perché "le sirene" avevano segnalato un pericolo.
C'era il sole, faceva caldo. Attorno alle 8,15, noi
3 bambini eravamo riuniti nel cortile. Ad un tratto abbiamo visto una luce, tutto era rosso.
Poi, subito, un boato indescrivibile. Ci avevano insegnato di coprirci gli occhi, le orecchie e
gettarci a terra. E così abbiamo fatto». In quel preciso momento, la storia era cambiata. Lo si capì ben presto. La scuola di Tanaka fu trasformata in una sorta di lazzaretto, dice. «Io vivevo lì vicino ‐ ricorda ‐ e ci andavo spesso. Mi ricordo tanti bambini che gridavano per il dolore atroce che avvertivano. Chiedevano la mamma, chiedevano da bere. E poi morivano, davanti ai miei occhi». Nello scoppio sono morti anche alcuni famigliari di Tanaka. «Al tempo portavamo, appuntato sugli indumenti, nome e indirizzo. Della sorella di mio padre trovarono solo quello, il corpo non c'era più». Si chiama sublimazione: per il calore, il corpo passa dallo stato solido a quello aeriforme:«Forse è stata una fortuna morire subito, almeno non hanno sofferto come chi è sopravvissuto». Anche chi non ha riportato ferite, ha convissuto con l'incubo della contaminazione. «Anche per questo le persone parlavano poco della bomba ‐ racconta ‐ avevano paura di essere non normali e di restare emarginate. Solo negli ultimi anni i sopravvissuti hanno iniziato a raccontare, per lasciare un messaggio». «Nessuno ce l'ha con gli americani. La guerra era la guerra, ormai è passato» riflette Tanaka, oggi, un egregio e distinto signore con il cervello pensante. Parla di "Pace", anche se è difficile farlo nei giorni in cui a Gaza, in Ucraina, in Egitto, si spara e si muore. «L'atomica però non la usano, anche se tutti i Paesi ce l'hanno: l'umanità, finora, ha avuto paura di cosa può fare». Il signor Tanaka ha lasciato il suo Giappone a 23 anni, anche se a casa, dove ha ancora una sorella, torna spesso: lo aspetta. Sul Garda vive con la moglie, Ikeda Tomoko e con uno dei due figli, che porta avanti la coltivazione di bonsai iniziata dal padre. Prima di fermarsi in Italia, il suo lavoro di tecnico agricolo lo ha portato a girare il mondo, «La vita è una sola ‐ conclude ‐ bisogna viverla fino in
fondo». 4 
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