GIORNATE DI PRIMAVERA FAI MONUMENTI PIAZZA MERCATO La piazza del Mercato, cuore della città, è caratteristica per i suoi portici che san di medioevo e per le case a balconate e loggette. I capitelli delle colonne, che sostengono archi romanici e gotici scompagnati, sono finemente scolpiti e recano nelle testate gli stemmi, in parte scalpellati, delle grandi famiglie ossolane, quelle che formavano le consorterie contrapposte degli ’spelorci’ e dei ‘ferrarii’, sempre in lotta per la preminenza nel borgo. Insisistevano sulla piazza i palazzi del potere, quello del vescovo-conte sul lato settentrionale, che culminava nella torre di Briona ancora esistente nella via omonima, e, proprio di fronte, quello trecentesco della Comunità, abbattuto all’inizio dell’Ottocento «quando si volle a tutti i costi far passare la strada napoleonica del Sempione attraverso il borgo».All'angolo con la piazza Mellerio, vi è la casa Calpini dall’aereo loggiato (ora chiuso) e dal grazioso balconcino, che fu già abitazione del Pretore e dove è nato (lo ricorda un'epigrafe recente) Giovanni Leoni (1846-1920), il poeta dialettale, che si firmava Torototela. Sulla facciata della casa che fu il palazzo De Rodis, famiglia di antica nobiltà antigoriana, altra lapide venne incautamente posta nel 1891 per scomodare Berengario I, il quale con un diploma datato 917 (per errore; in base all’indizione va riportato a due anni dopo) avrebbe concesso al vescovo di Novara, non ancora conte dell'Ossola, il diritto di aprire nel sabato di ogni settimana il mercato nel borgo e di riscuoterne la tassa o teloneo.(1) Ma il diploma originale è stato alterato da mano del secolo XI e XII e la concessione di oxila (Domodossola) è scritta su «viéibilissima rasura».Tuttavia, il mercato di Domo è certamente assai antico; esiste da sempre, si può dire: «fu quella del mercato una infrastruttura connaturata con la nascita stessa del centro abitato» (Bertamini), già ai tempi dei Leponzi quindi, anteriormente all'occupazione romana.Ai nostri giorni la piazza è il luogo naturale per le grandi manifestazioni civili o folkloristiche. A carnevale vi si festeggia con polenta esciriui (salamini) il matrimonio della Cia di Briona con il Togn della Motta, la più casta forosella e il più bel dei montanar, seguendo il cerimoniale preciso di una tradizione antica. (1) Testo della lapide: BERENGARIO I CON DIPLOMA DEL XIX NOVEMBRE DCCCCXVII ACCORDAVA IL DIRITTO DI TENERE IN QUESTO COMUNE NEL SABATO D’OGNI SETTIMANA IL MERCATO POSTO A RICORDANZA – MDCCCLXXXXI VIA BRIONA- TORRE DEL VESCOVO Dalla piazza del Mercato s'inizia la vecchia via Briona.Questa finiva con la porta omonima delle mura, aperta in direzione del Sempione e dei passi transalpini di Antigorio e di Formazza, nonché verso Vigezzo, da raggiungersi superando la Toce al termine della strada, che l'attuale via Carale di Masera ricalca molto parzialmente. Sinuosa, stretta fra case dai tetti di piode e dai balconcini pretenziosi sostenuti da cariatidi, via Briona è sempre stata strada di mercanti per eccellenza. Il suo nome venne collegato a quello di Opizzone da Briona, che nel 1183 fu tra i firmatari della pace di Costanza a nome dei popoli novaresi che avevano preso parte alla lega lombarda contro il Barbarossa. All’imbocco verso piazza Cavour era chiusa da una pusterla: in documenti del XV secolo è ricordato un Dionigi de Brambilla connestabile della porta di Briona. Fin che la via Marconi non fu aperta ai veicoli, transitava per via Briona la diligenza svizzera del Sempione a cinque cavalli, e doveva essere uno spettacolo (insieme con un fracasso) terribile. Via Briona è sovrastata dalla 'torre del vescovo’ trecentesca, che faceva parte del palazzo centro dell’autorità del vescovo-conte novarese: la facciata principale dell’edificio era su piazza Mercato. Accanto alla torre è la casa (molto restaurata) della potente famiglia da Ponte, amica Visconti e poi degli Sforza e degli spagnoli, inurbatasi da Crevola all’inizio Quattrocento, e che fu a capo della fazione detta appunto dei 'ponteschi'. Lo stemma Da Ponte rappresenta un ponte levatoio alzato, associato a varie figure araldiche, da potrebbe derivare il cognome della nobile casata. dei del dei cui MURA MEDIEVALI Dai primi anni del 1300 il borgo di Domodossola era munito di una cinta muraria, il cui tracciato disegnava un pentagono; cardine della difesa era il castello, già documentato nel X secolo, al quale era addossata la chiesa plebana dei SS. Gervasio e Protasio, poi abbattuta alla metà del Quattrocento per ampliare il castello stesso.Questo si affacciava sull’attuale piazza Tibaldi, in passato a più riprese detta 'castello': qui era la porta di S. Protaso alla quale giungeva la strada 'francisca' dal basso Novarese. All' interno dell’edificio ex Hotel Terminus-Espagne sono conservate, al piano terreno, le volte a crociera su pilastri in pietra appartenute alla torre della porta e, nell'interrato, tratti di muratura della medesima torre. Partendo dal castello, la cinta muraria correva grosso modo lungo le attuali vie Canuto, Monte Grappa, Facchinetti, Marconi e Di Dio. Castello e mura persero ogni importanza con il mutar delle tecniche guerresche e con l'evolversi della situazione politica: una parte fu sventrata per far passare la strada napoleonica del Sempione; il resto andò in mani private.Quanto rimane delle antiche mura è oggi visibile soprattutto in via Monte Grappa dove, all'incrocio con via Facchinetti, si può osservare la 'torretta', bell'esempio di torre quadrata costruita con robusti blocchi di beola estratti dalle cave del colle di Mattarella, per la quale in tempi recenti è stato effettuato, a cura del Lions Club di Domodossola, un opportuno restauro, mettendo in evidenza anche il piede del manufatto. Il portico aperto sul piano della merlatura, poggiante su otto piloni in muratura e coperto da un tetto a quattro spioventi, è stato costruito nella seconda metà dell’Ottocento dal cavalier Angelo Rigoni, avvocato, che, divenuto proprietario della torretta, ne aveva fatto parte integrante del giardino della sua abitazione. COLLEGIATA DEI SANTI GERVASIO E PROTASIO Al'Insigne Collegiata, dedicata ai Santi Gervasio e Protasio, e' stata costruita tra il 1792 e il 1797 sotto la direzione dell'architetto regio Matteo Zucchi. Si doveva restaurare il precedente edificio quattrocentesco, ma durante i lavori precipitarono due navate e fu quindi necessario porre mano ad un piano di ricostruzione generale. Per mancanza di mezzi non fu realizzato il disegno della facciata predisposto dallo Zucchi; la facciata fu cosi' compiuta solo nel 1954, su progetto dell'architetto milanese Giovanni Greppi, per iniziativa dell'arciprete mons. Luigi Pellanda.Il protiro appartiene alla chiesa precedente: ne fu artefice nel 1648 il maestro Bernardino Lazzaro di Val d'Intelvi; le pitture della volta a botte ed ai lati del protiro stesso sono di Carlo Mellerio, artista di origine vigezzina vissuto nel Seicento. Dalla prima collegiata domese, che sorgeva presso il castello e fu abbattuta a meta' circa del Quattrocento per ragioni militari, proviene il portale romanico in serpentino, incompleto, recuperato inaspettatamente durante i lavori per la facciata. Manca, tra l'altro, dell'architrave: si ritenne di poterla individuare in un bassorilievo in serpentino raffigurante, secondo una recente interpretazione, Carlo Magno che riceve l'orifiamma e una scena della battaglia di Roncisvalle. Oggi il bassorilievo e' collocato all'interno della Collegiata, sotto l'affresco della Anime purganti (navata sinistra). Le formelle in bronzo della porta (1955) sono di Vitaliano Marchini, scultore di buon nome dell'Accademia di Brera, ossolano di Mergozzo.All'interno, gli affreschi sono tutti di Lorenzo Peretti, vigezzino (1774-1851): quelli dei tre cieli della navata centrale ed ai lati del presbiterio sono del 1831. Sull'altar maggiore sta il grande Crocifisso di nobilissime forme, capolavoro del maestro intagliatore Giorgio de Bernardis da Buttogno, che alla meta' del Seicento teneva bottega nel borgo, nel quartiere di Briona. Attribuite a lui o alla sua scuola sono pure le statue dei Santi Patroni nella cappella a destra dell'altar maggiore.Il grande quadro in coro, che raffigura i Santi Gervasio e Protasio e la Madonna Assunta, e' di Carlo Giuseppe Borgnis detto lo Sparsicin (1738-1804), pittore vigezzino non dei minori.Nella Cappella di San Carlo, navata destra, e' la tela di grandi dimensioni "San Carlo che comunica gli appestati": l'opera e' attribuita ad Antonio d'Errico, detto il Tanzio (1575 ca 1635), vigoroso pittore valsesiano.Il campanile, che sorge di fianco all'abside, e' una costruzione solidissima (meta' muro e meta' spazio) contemporanea della chiesa distrutta nel 1792: si tratterebbe di una torre elevata maggiormente e adattata a campanile.La Collegiata di Domodossola ha un Capitolo antichissimo, anteriore al Mille: nel 1547 vi occupo' un canonicato Giovanni Antonio Facchinetti, il futuro papa Innocenzo IX, nato a Bologna da genitori provenienti da Cravegna. PALAZZO DI CITTA’ Il Palazzo di Citta' e' stato costruito nel 1847 su disegno dell'architetto Leoni di Torino: una targa di marmo impallidito, murato sulla casa nel passaggio dietro il palazzo, attesta ancora oggi la riconoscenza del Corpo Civico all'Avv. Filippo de Rajmondi, intendente dell'Ossola quando questa fu provincia, per aver favorito il finanziamento dell'edificio. Durante i giorni della "Repubblica partigiana", nel settembre-ottobre 1944, il palazzo fu sede della Giunta Provvisoria di Governo; oggi, ospita la sala storica della Resistenza ossolana. La Sala Storica della Resistenza di Domodossola, nota anche come Sala Consiliare, è un locale del Municipio di Domodossola, nel quale dal 9 settembre al 22 ottobre 1944 si riunì la Giunta Provvisoria di Governo della Repubblica partigiana dell'Ossola. Adibita a museo nel 1984[1], con la collaborazione delle associazioni resistenziali, è il luogo in cui ancora oggi si riunisce il Consiglio Comunale di Domodossola. Eccezionalmente al posto d'onore, solitamente riservato al Capo dello Stato, vi è il ritratto di Ettore Tlbaldi, professore che fu chiamato dalle formazioni partigiane a presiedere la giunta provvisoria di governo dell'Ossola libera. Alle pareti della sala sono stati apposti pannelli fotografici con didascalie che ricostruiscono i momenti più significativi della Resistenza nell'Ossola, dai primi moti di ribellione a Villadossola, fino alla lunga guerriglia sulle montagne, dall'ingresso delle formazioni partigiane nel capoluogo dopo la resa del nazifascisti alla caduta della piccola Repubblica. Vi è poi una riproduzione fedele del vecchio tavolo a ferro di cavallo attorno al quale i commissari di governo tennero le loro riunioni, sperimentando il primo modello di democrazia durante i quaranta giorni di libertà. Sottovetro, lungo il tavolo sono state poste copie di documenti di emanazione del Governo del territorio liberato o di fonte fascista e copie di giornali del periodo. Una teca custodisce l'antico gonfalone civico decorato di Medaglia d'Oro al Valore Militare per i fatti che la sala ricorda[2]. In occasione del 60º anniversario della Repubblica dell'Ossola, la Sala è stata ristrutturata e la nuova inaugurazione è avvenuta il 17 febbraio 2006[3]. Pur rispettando l'originale disposizione di strutture e materiali esposti (immagini, documenti, ecc.) è stato deciso di semplificare i testi e di aggiungere nuove fotografie, così come si è provveduto a risistemare l'ingresso dotandolo di strumenti multimediali per consentire la visione anche di documenti audiovisivi. Nel cortiletto interno del Palazzo di Città e' murata una lapide, che riecheggia la motivazione della medaglia d'oro al valor militare, conferita alla Val d' Ossola gia' nel settembre 1945, per i fatti resistenziali culminanti nel significativo episodio della zona liberata. Nella piazza antistante il palazzo si erge il monumento a Gian Giacomo Galletti, opera di Francesco Ricci scultore vigezzino, inaugurato nel 1899. Il Galletti, nato a Bognanco nel 1789 e morto a Parigi nel 1873, partito dal paese come povero manovale, diviene affermato commerciante e poi ricco banchiere a Parigi, dove abitava nel palazzo Rotschild. Nel 1869, gli Ossolani, con votazione presso che unanime, lo eleggono deputato al Parlamento nazionale.Munifico benefattore dell'Ossola, e' sorta per suo lascito l'opera pia locale di maggior rilievo, denominata Fondazione Galletti. PALAZZO SILVA Palazzo Silva è la dimora gentilizia, che il casato dei Silva possedeva in Domodossola almeno dalla fine del Trecento ed alla cui ristrutturazione pose mano Paolo della Silva ( 1476-1536), capitano valoroso al soldo del re di Francia e persona d'indubbio risalto sull’orizzonte ossolano della prima meta’ del XVI secolo. Il palazzo è uno dei migliori esempi di casa patrizia rinascimentale in Piemonte.Nel vano della torre sporgente sulla 'corte dei marmi', chiusa verso via Palletta da una cancellata ottocentesca, è costruita una scala a chiocciola, che mette in comunicazione tutti i piani della casa. La loggetta, che dal secondo piano si affaccia sul cortile, fatta di pilastrini sormontati da una gronda lunulata, è una caratteristica forma lombarda dei primordi del Rinascimento.Le incorniciature delle finestre sono in marmo di Crevola; al pianterreno e al primo piano portano nel fregio il motto dei Silva, Humiltas alta petit; quelle del secondo piano recano motti religiosi.La data 1519, sovrastata da Laus Deo, compare nell'incorniciatura di una finestra della torre; su altre la sigla PA.SIL.I documenta il rinnovamento edilizio operato da Paolo della Silva.L’area a ponente della casa, l'attuale piazza Chiossi, in origine era occupata dal 'brolo’, il giardino con pozzo ed annesso frutteto, caratteristico delle case signorili dell'epoca. Verso mezzodì era delimitato da un muro di cinta nel quale era inserito il portale a sesto acuto, ora esposto nella corte dei marmi, che probabilmente appartenne alla preesistente casa medioevale.Il palazzo, acquistato dalla Fondazione Galletti nel 1882, fu restaurato sotto la direzione del pittore Vittorio Avondo tra il 1884 e il 1889; all’aspetto attuale hanno contribuito interventi successivi non solo di manutenzione. Lo scioglimento della Fondazione Galletti ha comportato il passaggio del suo patrimonio, e quindi anche di palazzo Silva, al comune di Domodossola. PALAZZO MELLERIO Il conte Giacomo Mellerio affida nel 1816 al cognato Giovanni Luca Cavazzo della Somaglia l'incarico di costruire un palazzo da destinare a scuola secondaria: il 5 novembre 1818 viene solennemente inaugurato il primo ginnasio dell'Ossola. Quasi vent’anni dopo, nel 1837, su proposta del Mellerio l’abate Rosmini assume la gestione della scuola, aggiungendovi un convitto.Per le esigenze della popolazione scolastica viene poi edificato l'Oratorio dedicato alla Madonna Immacolata (1854) su progetto del l’architetto Giacomo Moraglia milanese e cinque anni dopo si iniziano i lavori di ampliamento della scuola: si eleva di un piano il palazzo e si costruiscono i quattro porticati a cinque colonne di serizzo, che si affacciano su piazza Rovereto, per sfruttare le casette esistenti fra il palazzo stesso e l’oratorio.Nel 1874 scuole e convitto passano nel nuovo edificio eretto dai Padri Rosminiani alla Madonna della Neve.Sulla facciata del palazzo si trovano, a destra, il medaglione del Mellerio, dello scultore Antonio Lusardi, e, a sinistra, il bassorilievo di Rosmini, opera di Francesco Ricci di Crana.Giacomo Mellerio, nato a Domodossola nel 1777 e morto a Milano nel 1847, occupò cariche politiche ed amministrative di rilievo e fu Gran Cancelliere del Lombardo-Veneto a Vienna fino al 1819; dall'imperatore Francesco li gli fu conferito il tiolo di conte. Erede di un ricco patrimonio, provvide con larghezza ad istituti di istruzione e di beneficienza non solo in Ossola. Con un suo lascito fu eseguita la porta centrale in bronzo del Duomo di Milano, scultore Ludovico Pogliaghi. PALAZZO SAN FRANCESCO Il palazzo San Francesco é una costruzione sorta sui muri perimetrali della chiesa trecentesca dedicata al Santo; su piazza Convenzione se ne può ancora ammirare il portone e una piccola parte della facciata, «elegante assieme della dolomia di Crevoladossola bianco-paglierina alternata a corsi della serpentinite verde-grigio scura di Cisore». La chiesa, di notevoli dimensioni, era a tre navate delimitate da dodici colonne in serizzo con capitelli scolpiti, che sono giunti fino ai giorni nostri: inglobati nelle pareti interne del palazzo, si sono potuti recuperare in occasione dilavori effettuati all'inizio del nostro secolo. A fianco del presbiterio, sulla destra, si alzava un agile campanile dal tetto appuntito, che ripeteva la rivestitura a bande bianche e scure della facciata.Accanto alla chiesa era il convento con chiostro dei Frati minori, gia' documentato nel 1277. Per oltre cinque secoli, chiesa e convento furono al centro della vita spirituale culturale e politica del borgo di Domodossola. Nel convento poi si firmarono (1381) i patti con i delegati di Galeazzo Visconti, conte di Virtù, che possono essere considerati la magna charta dei privilegi ossolani. La soppressione napoleonica degli enti ecclesiastici segnò la fine della chiesa di San Francesco, che pure in più occasioni aveva sostituito la collegiata domese: furono dispersi altari, arredi, paramenti e quadri. Nella prima meta' dell'ottocento fu abbattuto il campanile e gran parte del chiostro e costruito il nuovo palazzo, che nel 1881 fu acquistato dalla Fondazione Galletti. Questa restaurò in parte l'antico edificio, in parte lo sistemò ad uso delle scuole professionali, tagliando a meta' quella che era stata la chiesa. Fu poi sede della Fondazione Galletti ed ospitò le sue collezioni museali e la biblioteca. Sciolta la Fondazione, il palazzo è ora proprieta' del comune di Domodossola; i restauri effettuati l'hanno riportato alla sua funzione di museo e centro di cultura. LA MOTTA – PIAZZA CHIOSSI CON CASA NATALE DI ENRICO BIANCHETTI La Motta si presenta in via Carina con le belle balconate di larice annerite dal tempo, che testimoniano contatti con aree di cultura walser e bene esprimono il carattere antico del quartiere. Motta è toponimo che compare nei documenti alla metà circa del XVI secolo e potrebbe ricordare l'accumulo di ghiaie e sassi riversato dal Bogna in occasione delle devastanti piene cinquecentesche, quando nel borgo si dovette murare la porta di S. Agata per il pericolo del fiume sempre incombente. Le case più antiche del quartiere risultano ancor oggi in parte sotterrate, segno non equivoco di un rialzamento del terreno per l’apporto di copioso materiale estraneo, che non si potè evacuare.Centro del quartiere è piazza Fontana, recentemente restaurata con la pavimentazione in sassi: in mezzo, la fontana ottagonale con il piccolo obelisco. Vicino è l’ingresso al vicolo Andromia, dal portale a sesto acuto ed a strisce bianche e scure.La piazza Chiossi, dirimpetto a palazzo Silva, occupa in parte il brolo, che fu della casa signorile; vi è stato posto in posizione centrale il pilone, che stava nel cimitero dietro alla Madonna della Neve e poi davanti all'ingresso di quello in via Pietrere. Recuperato, nel 1912 era stato collocato nella corte dei marmi del palazzo stesso. Sulla piazza si affaccia la casa natale di Enrico Bianchetti (1834-1894), figlio del dottor Giovanni Bianchetti di Ornavasso e di Marietta Mantellini di famiglia varzese. Storico e archeologo, nel 1878 pubblicò “L’Ossola inferiore”, mentre negli anni 1890-91 eseguì gli scavi archeologici delle necropoli di Ornavasso, i cui reperti sono ora conservati al Museo del paesaggi o di Pallanza. Un poco oltre, sempre in via Paolo Silva e di fronte alla chiesa di San Giuseppe, costruita tra il 1713 e il 1715 dal maestro Tomaso Lazzaro di Val d'Intelvi, è la casa dove è nato un altro illustre Ossolano, il conte Giacomo Mellerio. TEATRO GALLETTI È il teatro sociale della Città. Grazie ad un generoso contributo elargito da Gian Giacomo Galletti, nel 1873 fu dato incarico progettuale al Geometra Vincenzo Bianchi, ma i lavori poterono iniziare solo nel 1878 ; l’Architetto Camillo Riccio nel 1877 e l’Ingegnere Giorgio Stiglio nel 1881 intervennero con progetti di compimento per la platea e la galleria. Alla fine degli anni ‘70 del novecento sono stati eseguiti importanti lavori di ristrutturazione, che lo trasformarono radicalmente. Ha una capienza di 240 persone. Tratto da Edgardo Ferrari, Le guide: Domodossola, Domodossola, Edizioni Grossi, 1998. PERSONAGGI GIAN GIACOMO GALLETTI Quella di Gian Giacomo Galletti è tra le massime figure della beneficenza ossolana, legata alla più importante, attiva e duratura istituzione della regione: la Fondazione Galletti, alla quale è legata un'ampia fetta dello sviluppo culturale, didattico, produttivo ed infrastrutturale dell'Ossola di fine XIX e prima metà XX secolo.Nato l'8 luglio 1879 a Colorio, frazione di Bognanco San Lorenzo da famiglia povera, a quattordici anni Gian Giacomo si impiegava come manovale alla costruzione della strada del Sempione; presa in seguito la via dell'emigrazione, fu dapprima merciaio ambulante in Svizzera, poi commerciante a Milano, dove finì con l'accumulare un discreto capitale che decise di impiegare in quella Parigi napoleonica e della restaurazione che, con la Francia meridionale, fu luogo privilegiato dell'emigrazione ossolana. Qui Galletti, in modi che la storiografia non ha ancora svelato, accumulò una ingente fortuna, divenendo banchiere ed entrando a far parte dell'alta borghesia della Francia del Secondo Impero. Tratto da WIKIPEDIA - Enciclopedia Libera IL CONTE GIACOMO MELLERIO (Domodossola 9.1.1777 - Milano 10.12.1847) Il conte Giacomo Mellerio nacque a Domodossola da famiglia originaria di Malesco, agiata ma priva di nobilta'. Il padre, dott. Carlo, era capo dell'ufficio del registro di Domodossola; la madre era Rosa Sbaraglini di antico casato di Oira, frazione di Crevoladossola. Rimasto orfano di padre a due anni, il piccolo Giacomo viene accolto a Milano dal ricchissimo zio paterno, Gian Battista, consigliere di Stato. Costui fece educare il nipote a Siena presso il famoso Collegio Tolomei dei padri Scolopi quindi, all'eta' di 18 anni, lo mando' a compiere un lungo giro d'istruzione per l'Europa. Alla sua morte Gian Battista Mellerio lascio' erede il nipote Giacomo di una cospicua sostanza valutata 12 milioni di franchi oro. Sposata la contessa Elisabetta Castelbarco, il Mellerio vide morire uno dopo l'altro tre piccoli figli, seguiti dalla sposa che mori' nel dare alla luce una bambina, anche quest'ultima morta giovanissima. Nonostante tutte queste sventure famigliari, il Mellerio trovo' modo di servire il proprio paese (la Lombardia) occupando cariche politiche ed amministrative assai importanti. Prima, durante il governo napoleonico del vicereame del Beauharnais, poi, come uno dei reggenti del governo provvisorio (1814); in seguito, vice governatore di Milano, e quindi consigliere aulico e gran cancelliere di Lombardia a Vienna dopo il 1816. Il 20 settembre 1817, l'imperatore Francesco II gli conferi' il titolo di conte. Nonostante tutti questi riconoscimenti e l'alte cariche da lui ricoperte, il Mellerio disilluso specialmente dalla politica del Metternich il quale voleva servirsi di lui per scopi vessatori verso il LombardoVeneto, nel 1819 si dimise da ogni incarico, devolvendo sdegnosamente a beneficio dell'Ospedale e dei poveri di Vienna i suoi vistosi emolumenti. Ritornato a Milano si dedico' completamente ad opere di bene, soccorrendo i poveri, dando lavoro ai contadini e provvedendo ad istituti di istruzione e di beneficenza. Gia' da Vienna il conte Mellerio aveva pensato alla sua Ossola, fondando quattro borse di studio per giovani poveri che avessero voluto studiare in seminario, acquistando a Domo il soppresso convento delle Orsoline e destinandolo a sede delle scuole primarie femminili, aiutando il restauro delle opere del Calvario, cedendo tutti i suoi beni in Vigezzo al comune di Malesco e facendo costruire, nel 1816, il ginnasio di Domo, la prima scuola superiore che la citta' abbia avuto. Ma provvidenziale per il futuro delle scuole del Mellerio fu il suo incontro con Rosmini. Questo avvenne a Milano nel 1826, dietro presentazione dello storico Carlo Rosmini, cugino dell'abate Antonio e, pare, di Alessandro Manzoni. Fra i due nacque una grande amicizia, fondata su reciproca stima e consolidata da uguali sentimenti di carita' cristiana e religiosi. Il Rosmini, dietro consiglio del Mellerio, nel 1828 venne al Monte Calvario di Domodossola per vedere di persona se il luogo era adatto a divenire la culla dell'Istituto della Carita' che egli aveva l'animo di fondare e per visitare il ginnasio di Domodossola. Il filosofo roveretano, visti i luoghi e le scuole decise di rimanere: al Calvario scrisse le Costituzioni del suo istituto, a Domo si prese cura dell'insegnamento, tramite i suoi figli spirituali, delle scuole del Mellerio. Nel 1831 i primi rosminiani iniziarono l'attivita' didattica, insegnamento ancor oggi da essi impartito nel Collegio Mellerio-Rosmini di Domodossola. Il conte Mellerio dopo una vita ricca di onori ma anche di dolori, spesa interamente per il bene materiale e spirituale della sua gente, moriva in Milano legando fra l'altro alla Fabbrica del Duomo l'ingente somma occorrente per la fusione delle splendide porte in bronzo eseguite dal Pogliaghi. Tratto da D... come Domodossola - fatti e personaggi nei nomi delle strade di Paolo Bologna e Franco Ferraris, Edizioni Eco Risveglio. PAOLO DELLA SILVA (Crevoladossola 19.7.1476-12.2.1536) Appartenente alla nobile famiglia dei Silva di Crevoladossola, figlio di Giovanni Antonio e di Dorotea Origoni nobildonna di Varese e nato nell'avito castello di Crevola, Paolo fu guerriero ardito ed imponente, e cavaliere squisito. Abbraccio' la carriera delle armi e giovanissimo milito' nelle truppe del Condottiero Gian Giacomo Trivulzio al soldo del re di Francia. Fedelissimo alla causa francese sino alla morte, prese parte alla lotta tra Francia e Spagna per il Ducato di Milano guadagnandosi il grado di Capitano (oggi colonnello). Dopo avere combattuto alla battaglia di Marignano (1515) con la sua compagnia reclutata in gran parte fra la gente di valle Antigorio e fra gli svizzeri del Vallese, Paolo con i suoi uomini occupo' Cremona per conto del re di Francia lasciando di se' tale buon ricordo da meritarsi la nomina a cittadino onorario di quella citta'. Identico onore gli fu conferito da Pavia e Milano. Nel 1521, in seguito alle vicende guerresche allora sfavorevoli a Francesco I, torno' in patria donde riparti' nel 1522 per prendere parte con i francesi alla battaglia della Bicocca, fra Lodi e Milano, funesta per le armi di Francia. Tornato Francesco I in Lombardia nel 1523, Paolo Silva raccolse a Crevola una nuova compagnia di valligiani e pose con alterne vicende l'assedio a Domodossola tenuta da Benedetto del Ponte per conto del duca Francesco II Sforza, assedio che dovette togliere nel 1524 in seguito al rovescio patito dalle armi francesi a Robbio (Pavia). Nell'ottobre dello stesso anno Paolo Silva si porto' nuovamente a Domo ad intimare la resa per conto di Francesco I di Francia che si trovava allora a Pavia alla testa del suo esercito. Dopo la battaglia di Pavia (24.2.1525) nella quale si fece onore, Paolo Silva coi pochi soldati che gli erano rimasti si ritiro' nel castello di Crevola da dove, non sentendosi sicuro, si reco' in Francia agli ordini del Maresciallo Lautrec. Nel 1526, dopo il sacco di Roma, essendo il pontefice Clemente VII rinchiuso in Castel Sant'Angelo, Francesco I inviava un esercito alla liberazione di Roma e Paolo Silva, benche' malfermo in salute, volle partecipare alla spedizione. In questa occasione il papa lo creo' conte palatino e barone romano. Ritiratosi nel suo castello di Crevola chiamo' a se' il grande pittore Fermo Stella da Caravaggio e gli fece dipingere alcune sale del palazzo ed il coro della chiesa. Si deve a Paolo Silva l'inizio della costruzione del palazzo di Domodossola che da lui prese il nome, ora di proprieta' della Fondazione Galletti ed adibito a museo, uno dei migliori esempi di dimora patrizia rinascimentale del Piemonte. Paolo della Silva mori' a Crevola e fu sepolto in chiesa con questa epigrafe: Tu che in vita mai avesti quiete abbi ora, per dono di Dio, eterna quiete. Tratto da D... come Domodossola - fatti e personaggi nei nomi delle strade di Paolo Bologna e Franco Ferraris, Edizioni Eco Risveglio GIOVANNI LEONI detto il TOROTOTELA Giovanni Leoni fu il più grande poeta dialettale che l’Ossola abbia mai avuto. La sua vita fu un’avventura, le sue poesie esprimono la malinconia e l’ironia proprie del montanaro ossolano. Pochi lo conoscono. Giovanni Leoni nasce a Domodossola nel 1846 e a 24 anni emigra con il fratello Costantino a Montevideo dove crea la “Leoni Hermanos”, un proficua attività commerciale in tessuti e generi vari. Compra una nave con quindici uomini di equipaggio e naviga le fredde acque della Patagonia trasportando ogni genere di merce. Viaggi in quel “mondo al confine del mondo” tanto di moda oggi. Nel 1886 Giovanni Leoni liquida l’azienda e rientra in Italia dove vive di rendita fino alla morte. In inverno vive a Domodossola, Bologna e Torino dove frequenta assiduamente la borsa valori. In estate vive a Mozzio dove, via via, trascorrerà soggiorni sempre più prolungati fino a stabilirvisi definitivamente. Nel 1891, durante un viaggio a Roma, scrive la prima poesia dialettale (“L’Olèta”) che invia all’amico parroco di Mozzio, don Gaudenzio Sala. Per oltre vent’anni scriverà poesie mordaci e satiriche in dialetto ossolano con lo pseudonimo di Torototela, a richiamare quei menestrelli girovaghi che nell’Ottocento giravano le piazze accompagnando le loro storie con il suono di una specie di violino ricavato da una zucca vuota. Le sue poesie verranno pubblicate nel 1929 dal nipote Camillo Boni con il titolo di “Rime Ossolane”. Fu presidente della sezione di Domodossola del CAI e fondò la “Pro Devero”. Tra il 1899 e il 1901 fu il promotore della costruzione del rifugio alpino sul Monte Cistella. Morì a Mozzio, villaggio rurale della Valle Antigorio, nel 1920. Tratto da :Paolo Crosa Lenz, Alpinismo, poesia, dialetto STORIA DI DOMODOSSOLA L'Ossola è frequentata dall'uomo fin da epoca preistorica (ne è riprova la recente scoperta dell'accampamento mesolitico di cacciatori stagionali a Cianciavero, nel parco naturale di Alpe Veglia), ma è difficile stabilire da dove siano venuti i primi abitanti. Nella seconda metà del priamo millennio a.C. sono presenti i Leponzi, un popolo di stirpe ligure, influenzato dalla cultura celtica, ed a loro si fa risalire l'origine di Domodossola come centro abitato: l’Oscella Lepontiorum di Tolomeo, il primo che ne scrive.Con la conquista romana Oscella è elevata al grado di 'municipio' ed ancora in epoca teodosiana (fine IV secolo) esercita una giurisdizione territoriale. Dopo le scorrerie dei Burgundi, con i Longobardi (VI secolo) si formano le prime opere di difesa sul colle di Mattarella, che anche con i Franchi resta centro militare e amministrativo (Curia di Mattarella).Il dominio feudale della Chiesa novarese inizia con la donazione al vescovo Pietro del 'comitatulo ossolano’ da parte dell’imperatore Enrico I (1014), ma già prima del Mille il vescovo di Novara aveva un suo castello presso la chiesa plebana dei SS.Gervasio e Protasio. Con il Trecento sorgono le mura di Domodossola, prima benedette, poi contestate dal vescovoconte, che ora è Uguccione dei Borromei. La lunga lite finisce con l'arbitrato di Asti (1321) che dà ragione al vescovo, ma le mura non saranno abbattute.Le periodiche invasioni dei Vallesani e le lotte accanite tra 'spelorci' (guelfi, in maggioranza nel borgo) e 'ferrarii' (ghibellini) non cessano neppure dopo il patto di dedizione ai Visconti firmato dagli Ossolani nel 1381. Gli svizzeri della Lega a più riprese scendono in Ossola, occupano Domo anche dopo la protezione richiesta ed ottenuta dal duca di Savoia Amedeo Vili; nel 1415 il castello di Mattarella è devastato.Tornano i Visconti; per ampliare il castello domese si atterra la collegiata che gli sorge accanto, per ricostruirla sul luogo di quella attuale: viene consacrata nel 1486. Intanto son diventati padroni gli Sforza. All'inizio del Cinquecento la lotta tra Francia e Spagna per il ducato di Milano coinvolge l’Ossola; alla fine prevale Carlo V (1535). Il dominio spagnolo durerà quasi due secoli, funestati anche dalle ribalde lotte tra le fazioni antiche dai nomi nuovi di 'breneschi' e 'ponteschi', dalle buzze del Bogna, dalle epidemie di peste. Nel Seicento sorge il Sacro Monte Calvario. Poi arrivano gli Austriaci (1706), per un breve periodo: nel 1743, con il trattato di Worms rossola tutta passa ai Savoia.Verso la fine del secolo si pone mano al rifacimento della Collegiata (1792-1798).La Francia esporta le sue novità; Domo resta estranea ai tentativi rivoluzionari locali e registra senza orrore la scellerata reazione austro-sarda: sessantaquattro persone fucilate in tre giorni sugli spalti del castello che poco dopo viene abbattuto, insieme con il palazzo della Comunità in piazza del Mercato, per far passare la strada voluta da Napoleone verso il Sempione.Con la restaurazione, il borgo diventa capoluogo di una provincia (1818), abolita nel 1836 e ristabilita otto anni dopo per cessare nel 1861, quando l’Ossola viene unita a quella di Novara.La buona borghesia domese fonda nel 1855 la Società Operaia di Mutuo Soccorso e Istruzione; nel 1888 arriva il treno, da Gozzano, e prima della fine del secolo si dà l'avvio al traforo del Sempione. All’inizio del Novecento, la ferrovia internazionale e la disponibilità di energia elettrica giocano una parte decisiva nello sviluppo della città, che cresce in fresco sboccio; sviluppo che riprende vigoroso dopo il primo 'caldo bagno di sangue'.Segue il nuovo conflitto, il movimento di resistenza ai fascisti e tedeschi, la 'repubblica' partigiana: siamo alle soglie dei tempi recenti, si entra nella cronaca. Edgardo Ferrari, Le guide: Domodossola, Domodossola, Edizioni Grossi, 1998. STORIA DEL NOME DI DOMODOSSOLA Domodossola non fu sempre designata con questo nome. Per primo la cita Tolomeo, geografo greco del II secolo d.C., che la assegna per capitale dei Leponzi, con due forme: Oscela e Oscella; riappare cinque secoli più tardi con l'Anonimo Ravennate ed è Oxilla. Intorno al Mille è Oprile (in loco et in fundo Oxile) oppure Ox/la (castro Oxila) e nello stesso tempo il nome si estende alla valle. Quando diminuisce l'importanza politicoamministrativa del centro abitato, questo mantiene quella religiosa per la presenza della chiesa plebana (domus) e il nome diventa Domus Oxile.Nel XII secolo i documenti cominciano a registrare Burgus Domi e Burgus Domi Ossute: l'attributo di 'borgo' sta a significare il primato del centro rispetto alla regione vicina per la presenza in esso, oltre che della chiesa plebana con il collegio dei canonici, pure del castello del vescovo-conte e del mercato.Il nome si trasforma ancora: ecco Domiossola, Duomo d'Ossola (Capis), quindi Domo d'Ossola (siamo già nell'Ottocento) ed infine l’attuale Domodossola Edgardo Ferrari, Le guide: Domodossola, Domodossola, Edizioni Grossi, 1998.