La prima teoria sulla struttura della materia risale al V secolo
a.c. (Leucippo e Democrito). Si tratta della prima teoria
atomista nata, tra l’altro, dalla semplice intuizione che un
qualsiasi oggetto si può frammentare (dividere) in parti
sempre più piccole, ma non all’infinito, altrimenti si
arriverebbe al nulla, al «non essere»).
Ciò implica comunque che, essendo fatta da particelle ben
definite, tra essi ci sia il vuoto (discontinuità della materia)
L’idea che la materia fosse fatta anche di «vuoto», di
«nulla» (come dire… la materia è e non è) non era
facile da accettare.
iL secolo dopo, Aristotele la confutò pienamente
sostenendo l’idea della continuità della materia.
Secondo il filosofo, tutto ciò che è materia è fatta
dalla mescolanza, in varie percentuali, di 4 elementi
fondamentali: acqua, aria, terra e fuoco, ma
all’interno non esistono spazi vuoti, quindi neanche
particelle indivisibili (atomi).
La teoria della continuità della materia, pur con
qualche dubbio e «ritocco», fu comunque accettata
per più di 2000 anni.
Dalton (1810), sulla base di comportamenti scientificamente osservati (leggi ponderali di
Lavoisier, Proust e Dalton), teorizzò che la materia è «quantizzata», «pacchettizzata», in
massa e volume. Fu abbandonata definitivamente la teoria della continuità della materia
per accettare quella della discontinuità, quella atomistica.
• La materia è costituita da atomi che sono la più piccola
parte di ogni elemento: indivisibili, indistruttibili,
immutabili
• Gli atomi di un dato elemento sono tutti uguali tra loro e
possiedono la stessa massa
• Gli atomi di elementi diversi non sono uguali tra loro e
possiedono massa diversa
• Gli atomi che partecipano a una reazione sono sempre
interi e rimangono tali anche se passano da un
composto a un altro.
Solo ammettendo i precedenti punti è possibile spiegare
 La massa che si conserva dopo una reazione [I legge ponderale – Lavoisier]
 I rapporti tra le masse dei reagenti in un reazione (o combinazione) che rimangono
definiti e costanti [II legge ponderale – Proust]
 Il fatto che, nel caso in cui due reagenti sono in grado di formare prodotti diversi,
mantenendo fissa la massa di uno dei due, le masse dell’altro reagente nelle diverse
reazioni sono tra loro in rapporti esprimibili con numeri piccoli e interi [III Legge
ponderale – Dalton]
Dalton, teorizzata l’esistenza dell’atomo, immaginato come una sfera piena, volle anche
affrontare il problema delle sue dimensioni e della sua massa.
Relativamente alla massa, pur non avendo principi validi per la sua misura reale, intuì che,
confrontando le densità dei gas, quelli meno densi dovevano avere una massa minore
rispetto agli elementi più densi.
Individuò il gas idrogeno come elemento più «leggero», quindi lo prese come riferimento
per tutti gli altri elementi. Definì, in questo modo l’unità di massa atomica u.m.a. tutt’ora
utilizzata sebbene la sua definizione sia cambiata.
Definizione di Dalton  u.m.a=massa atomica di una particella di idrogeno H
Definizione attuale  u.m.a.= 1/12 della massa del carbonio C12
Si tratta di unità convenzionali, relative, non assolute. Ma questo basta per stabilire una
scala di misura e ricavare (dal confronto con le masse di riferimento) le masse relative di
qualsiasi elemento o composto.
Relativamente al volume, Dalton
era dell’opinione che doveva esserci
una certa relazione tra esso e la
massa, per cui atomi più pesanti
sarebbero più voluminosi e
viceversa.
Alcuni anni dopo la pubblicazione dei lavori di Dalton, le sperimentazioni di Gay-Lussac su
diverse reazioni tra sostanze gassose, misero un po’ in crisi alcuni punti fondamentali della
neonata teoria atomica.
1L O +2L H  2L HO
Uno tra gli esperimenti di Gay-Lussac dimostrava che, mantenendo i gas a pari
temperatura e pressione, con un determinato volume di ossigeno gassoso si combinava
un volume doppio di idrogeno per avere un volume ugualmente doppio (rispetto sempre
all’ossigeno) di vapor acqueo.
Ritenendo che l’acqua fosse il risultato della combinazione di una particella per parte, non
si spiegava il fatto che l’idrogeno, molto più leggero dell’ossigeno, dovesse occupare
volume doppio.
Il paradosso fu subito risolto, considerando che, allo stato gassoso, le particelle sono molto
piccole e molto distanti tra loro e che, quindi, il volume occupato dipendesse in modo
significativo solo dagli spazi interparticellari, più che da quelli effettivamente occupati
dalle particelle (trascurabile).
Questo implica che a parità di numero di particelle (per quanto le dimensioni di ciascuna
siano differenti), il volume di due gas diversi (alle stesse condizioni di t° e P) sia uguale.
Conseguenza di ciò è che se un gas ha un volume doppio rispetto ad un altro significa solo
che contiene un numero doppio di particelle.
Questo si tradusse in una prima correzione della formula dell’acqua.
1L O +2L H  2L H2O
Rimaneva ancora un problema:
Dal ragionamento precedente risulta che una particella di ossigeno con due particelle di
idrogeno formano una particella di acqua, quindi da 1L di ossigeno e 2L di idrogeno
dovremmo aspettarci 1l di acqua: perché, invece se ne ottengono 2L?
Il problema fu risolto da un’intuizione «aritmetica» di Avogadro:
Se ammettiamo che ogni particella dei gas reagenti sia fatta da due atomi (anziché da uno
solo) i conti tornano.
1L O2 +2L H2  2L H2O
Grazie ad Avogadro, si scoprì che la maggior parte degli elementi gassosi c.s. (fanno eccezione i gas
nobili) esistono in forma bi-atomica.
A lui si deve anche l’omonimo principio:
Gas differenti, alle stesse temperature, pressioni e volumi, contengono lo stesso numero di
molecole.
Altri suoi contributi sono stati:
La definizione di mole (o grammo mole): quantitativo di una qualsiasi sostanza che contiene un
numero fisso di particelle: Il Numero di Avogadro. (il numero di particelle contenute in 12 grammi di
Carbonio 12)
Tale numero, calcolato successivamente è: 6,023 x1023
In grammi corrisponde alla massa molecolare relativa (u.m.a)
La misura delle nasse molecolari relative delle varie sostanze si deve al siciliano Cannizzaro
Tra il 1700 e il 1800 la ricerca scientifica si occupò anche di altri tre fenomeni: quelli
elettrici, quelli magnetici e quelli luminosi.
Inizialmente venivano studiati a parte e non considerati come proprietà della materia.
Era, infatti, convinzione generale
che l’elettricità, il magnetismo e la
luce fossero «fluidi» particolari non
aventi massa né volume e tra loro
indipendenti.
Con A. Volta si cominciò a collegare i fenomeni
elettrici con le trasformazioni chimiche (si può
ottenere elettricità da reazioni chimiche e,
viceversa, l’elettricità può avviare reazioni
chimiche)
Nel 1820, Oersted dimostrò che un conduttore attraversato da corrente elettrica è in
grado di «orientare» un ago magnetico posto nelle immediate vicinanze.
Ciò significava che il passaggio di corrente «crea» nello spazio attorno al conduttore un
campo magnetico che interagisce con quello dell’ago.
Faraday, poco dopo, sperimentò
che, muovendo una calamita
vicino ad un conduttore (o
viceversa), si genera in esso
della corrente elettrica.
Erano le prove scientifiche che elettricità e magnetismo non sono indipendenti.
Gli studi successivi pervennero a diverse leggi e raggiunsero il culmine con Maxwell il
quale dimostrò matematicamente (attraverso le sue famose 4 equazioni) che elettricità e
magnetismo sono due aspetti di uno stesso fenomeno che chiamò «elettromagnetismo»
(teoria unificata dell’elettromagnetismo).
Dimostrò anche che la luce è fatta di onde elettromagnetiche.
Ritornando alla ricerche sulla materia, nonostante diverse prove dimostrassero che
elettricità, magnetismo, nonché la stessa luce, interagissero con essa, per tutto il XIX
secolo si rimase convinti che l’elettromagnetismo fosse separato dalla materia: nessuno
aveva idea di quanto, in realtà, siano strettamente legati.
Verso gli ultimi decenni del 1800 furono intensificati gli studi degli «effetti» elettrici sui vari
materiali, in particolare sui gas.
Si utilizzavano tubi di vetro, contenenti gas, collegati con elettrodi (catodo – e anodo +) cui
veniva applicata un’alta tensione:
1. A pressioni (densità) medie e alte  nessun effetto apprezzabile (isolanti).
2. A pressioni basse luminescenza colorata diffusa con scariche elettriche (archi).
3. A pressioni sempre più basse luminescenza tenue, assente nella zona attorno al
catodo (-), qualche scarica elettrica.
In un primo momento si pensava che il tutto fosse
dovuto alle particelle di gas surriscaldate e rese
incandescenti dal passaggio del «fluido»
elettrico…
… Crookes ideò e costruì un tubo adatto a rilevare meglio tali fenomeni a bassissime
pressioni (densità di gas): il tubo di Crookes.
Utilizzò un tipo di vetro «arricchito» con fosforo (per via delle proprietà fluorescenti).
Il tubo era collegato, oltre che agli elettrodi, ad una pompa aspirante abbastanza potente
da realizzare praticamente il «vuoto» dentro il tubo (circa 1 milionesimo di atmosfera).
+
All’accensione dello strumento (ad alto voltaggio) non
si notarono scariche elettriche, ma, oltre ad una tenue
luminescenza diffusa diversamente colorata (a seconda
del gas), una zona fluorescente verde sul vetro nella
zona in prossimità dell’anodo (+).
-
L’inserimento di lamine sagomate (es. a croce) produceva la proiezione di ombre sempre
verso l’anodo.
Si aveva la netta impressione che un fascio di energia partisse dal catodo per colpire i
fosfori verdi dell’anodo. Si parlò di raggi catodici.
J. J. Thomson continuò le sperimentazioni sul
tubo di Crookes con la chiara intenzione di
rivelare la natura di questi raggi catodici.
Inserì un disco con foro centrale (per ottenere un
«pennello» di raggi cat.) e pose il tubo tra le
armature di un condensatore elettrico (per avere
un campo elettrico uniforme), notò una
significativa deflessione dei raggi verso la piastra
positiva.
L’avvicinamento al tubo di una
calamita produceva un analogo
effetto: attrazione verso il polo
nord e repulsione dal polo sud.
Questa deflessione fu paragonata alla flessione che subisce un filo metallico
attraversato da corrente elettrica e immerso in un campo magnetico. (fenomeno
studiato anni prima dal fisico Lorentz)
Quest’ultimo aveva dimostrato che il campo magnetico creato al passaggio della corrente
(Oersted), interagendo con quello della calamita, genera una forza che fa flettere il filo
stesso (detta proprio forza di Lorentz).
Le sue indagini lo portarono a
concludere che tale forza dipende
dall’intensità del campo magnetico B,
dal tratto del filo immerso nel campo
magnetico L e dall’intensità di corrente
I, secondo la formula
FL=BxLxI.
Tale forza, tra l’altro, è in grado di far
«ruotare» un avvolgimento di filo
conduttore non strettamente
vincolato agli estremi (principio del
motore elettrico)
Tornando ai raggi cat., si dimostrò che la loro deflessione è imputabile proprio alla forza
FL=BxIxL. Fu la prova certa che essi devono essere dotati di carica elettrica.
Dato, inoltre, che i raggi si muovono dal catodo (-) all’anodo (+), nonché vengono attratti
verso la piastra + di un condensatore, il segno della carica doveva essere negativo (-).
Il comportamento dei raggi cat. simile a quello di un filo percorso da corrente, ma differente
da quello dei raggi luminosi (non subiscono deviazioni in campi elettrici o magnetici),
portava anche a pensare ad una natura di tipo «materiale». Si era propensi a credere che
fossero fatti da atomi incandescenti , carichi di fluido elettrico staccatisi dal metallo del
catodo. Se così fosse avrebbero, comunque, una massa.
L’idea fu confermata da un
esperimento in cui, dentro al
tubo di Crookes, fu inserito un
mulinello disposto su una sorta
di binario e libero di ruotare.
L’accensione dello strumento
provocò lo spostamento del
mulinello in direzione dell’anodo:
i raggi cat. urtavano le pale del
mulinello: era una prova
abbastanza convincente che i
raggi catodici sono fatti di
materia.
Convinti che i raggi cat. fossero comunque costituiti da particelle aventi massa, la loro
deviazione, nell’attraversare un campo magnetico, era da considerare come accelerazione.
Dalla 2° legge di Newton F=mxa.
Visto che la traiettoria descritta è una «curva»,
tale accelerazione sarà data da ac =V2/r.
Sostituendo, la forza in gioco avrà valore di una
forza centrifuga Fc=mxV2/r.
Nulla si crea, niente si distrugge: forza centrifuga e forza di Lorenz sono uguali: FL=Fc .
Posso porre, dunque, BxLxI=mxV2/r
Per definizione, l’intensità di corrente I è la quantità di carica nell’unità di tempo, cioè
I=q/t, sostituendo  BxLxq/t = mxV2/r.
La quantità L/t rappresenta la velocità V della carica elettrica.
L’equazione diventa BxqxV= mxV2/r. Con passaggi matematici, da quest’ultima si ricava
q/m= V/(Bxr)
Questo significa che, conoscendo la velocità V della carica, l’intensità B di campo magnetico
e il raggio r della deflessione, si può risalire al rapporto q/m ovvero alla quantità di carica
per unità di massa.
Tale rapporto q/m si dimostrò avere un valore costante, pur variando materiale del
catodo e del gas nel tubo:
q/m =1,76 × 1016 C/g.
L’aver trovato un valore fisso permise di escludere che i raggi cat. fossero costituiti da
atomi: avendo massa differente, infatti, avrebbero dato risultati diversi, a seconda del
materiale utilizzato.
Si pensò, invece, a particelle comuni a tutti i materiali.
Un’esperienza, fatta da un certo Millikan, su gocce piccolissime di olio (nebulizzato)
elettrizzate per strofinìo, dimostrò che il valore di carica acquistata da una qualsiasi
goccia (di qualsiasi dimensione e sostanza) ha sempre un valore multiplo di
1.6 x 10−19 coulomb (arrotondato).
Si concluse che questo rappresenta il valore più piccolo di carica elettrica esistente in
natura.
Sostituendo tale valore alla q nel rapporto q/m, si ottenne il valore minimo della massa
dei raggi catodici  m= (1.6 x 10−19 C)/ (1,76 108 C/g) = 9,1 x10-28 g.
Si dimostrò definitivamente che i raggi catodici sono costituiti da particelle molto più
piccole dell’atomo, dotate di massa piccolissima e di carica elettrica negativa: gli…
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