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Suoni muti. Rumori, musica e voci nei fumetti
Jacopo Conti
I fumettisti hanno elaborato numerosi escamotage per ovviare alla totale assenza di sonoro
all’interno del loro medium, esattamente come hanno fatto per il movimento. In questo saggio
vengono analizzati alcuni dei metodi che hanno permesso al fumetto di rappresentare rumori,
musica e voci emancipandosi dalla narrativa esclusivamente scritta e dall’arte figurativa per
poi considerare la possibilità di incorporarne alcuni nello sviluppo di nuovi metodi di
trascrizione musicale.
L’icona sinestetica di gran lunga più usata, più complessa e più versatile delle molte dei
fumetti è l’onnipresente, amatissimo balloon. Nel corso degli anni, gli autori di fumetti
hanno lottato con decine di varianti nei loro disperati tentativi di descrivere il suono in un
medium rigidamente visivo.1
Proprio perché il fumetto è un medium rigidamente visivo, il suono e la musica sembrano esserne
tagliati fuori completamente. Di fatto è così: non c’è alcun suono nei fumetti. Essendo visivo e al
contempo narrativo, però, è necessario che includa al suo interno, oltre al movimento, anche una
rappresentazione del suono; non dimentichiamoci che molto, all’interno della cosiddetta arte
sequenziale, si avvicina ai metodi della narrazione cinematografica, pur con differenze
fondamentali, e proprio nel periodo in cui il sonoro entra nel linguaggio filmico, le onomatopee si
insinuano – con tempi e modalità diverse a seconda dei contesti e degli autori – nelle vignette, fino
a divenire protagoniste di molte scene. L’uso della rappresentazione sonora è diventato sempre più
importante mano a mano che il fumetto si emancipava dalle forme di cui rappresenta una sorta di
fusione (arte figurativa e narrativa), dimostrandosi uno degli elementi cardine per la formazione del
cosiddetto fumetto moderno. Negli ultimissimi anni sono state pubblicate moltissime storie o
biografie a fumetti che riguardavano protagonisti del mondo musicale (John Coltrane, 2010, Jimi
Hendrix, 2010, Luigi Tenco, 2008, Fabrizio De André, 2008, Fats Waller, 2004…); per poterle
realizzare, è implicito che si sia dovuto affrontare la sfida di una raffigurazione della musica sul
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1
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tavolo da disegno, opera impossibile senza la consapevolezza acquisita dagli autori nei quasi
centoventi anni di età di questo medium.
In questo saggio si prenderanno in esame molti – certamente non tutti – modi con cui suono, musica
e voce sono stati rappresentati nella nona arte, cercando di coprire un buon numero di epoche e
contesti geografico-culturali; la completa esaustività, ahimè, non è però possibile. L’intento è quello
di collocare gli escamotage grafici nel loro contesto culturale e comprendere come e perché questi
siano stati elaborati e siano (o non siano) sopravvissuti, per poi – nella conclusione – proporne
l’utilizzo per un possibile sistema di rappresentazione sonora utilizzabile nella trascrizione. I
fumettisti hanno fatto di necessità (l’assenza del suono nei loro strumenti) virtù, elaborando metodi
più o meno semplici ma molto efficaci: non è detto che i loro traguardi non possano essere di
stimolo in altri contesti.
In appendice, nella sezione Riferimenti fumettistici nelle figure, sono elencati i rimandi bibliografici
da cui sono tratte le immagini. Per ragioni di spazio non si sono potuti includere alcuni esempi, né
riportare altri riferimenti a storie in cui la musica scritta fa parte della narrazione a fumetti (come
criterio preferenziale – indubbiamente soggettivo – si è scelto l’utilizzo innovativo della
rappresentazione sonora ai fini narrativi e descrittivi), ma, come si è già accennato, l’esaustività
assoluta è irraggiungibile. Altri lavori in questo senso sapranno colmare tale lacuna.
SUONI
È curioso notare come una necessità dettata da un limite sia diventata uno degli elementi più
ampiamente riconducibili al fumetto: anche un non appassionato riconosce all’onomatopea
«BANG!» lo status di codice linguistico proprio del fumetto.2 Probabilmente è anche per questo
motivo che le gigantesche scritte che comparivano durante le scene di lotta nel telefilm Batman,
prodotto tra il 1966 e il 1968, sono passate alla storia come elemento comico: erano un goffo
tentativo di rendere un elemento prettamente fumettistico sullo schermo. Ma perché goffo? Oltre al
fatto che spesso si impiegavano onomatopee assurde e impronunciabili (Figura 1), non era un
espediente necessario né utile: i suoni erano già perfettamente udibili. Non solo: oltre alla marca
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2
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sonora diegetica della scazzottata (quelli reali sono troppo sordi per funzionare sullo schermo), le
succitate scene di azione facevano ricorso a una musica di sottofondo (il celebre tema della sigla)
nella quale i colpi venivano messi in risalto da veloci glissati dissonanti – perché, si sa, una
dissonanza può far male come un pugno nello stomaco – degli ottoni. Non vi era quindi solo una
sovrabbondanza visiva, ma anche sonora.
Figura 1. Una delle tante, impronunciabili onomatopee a tutto schermo dal telefilm Batman (1966)
In realtà, le onomatopee non sono presenti da sempre nei fumetti: ne Il corriere dei piccoli le storie
– come Il signor Bonaventura (1917, di Sergio Tofano) o Quadratino (1910, di Antonio Augusto
Rubino) – sono piccoli racconti di una tavola con brevi didascalie in rima a commento di immagini
completamente “mute”, cioè prive di dialoghi od onomatopee. Ancora una ventina di anni dopo
negli Stati Uniti, in storie come quelle di Flash Gordon (creato nel 1934 da Alex Raymond; Figura
2), Mandrake (1934, di Lee Falk e Phil Davis) e Tarzan nell’adattamento di Burne Hogarth, lo
svolgimento è ancora saldamente radicato alla narrazione esclusivamente scritta (probabilmente qui
il rifermento è il romanzo di avventura per ragazzi), ragion per cui non solo mancano scritte o
elementi grafici che intendano rappresentare i rumori (mentre sono già presenti delle piccole linee
di movimento), ma sono “staccate”, risultando, in pratica, come immagini commentate da didascalie
(o viceversa). Prendendo in esame le scene di azione nelle storie dei tardi anni trenta e quaranta dei
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neonati supereroi come Superman (1938, di Jerry Siegel e Joe Shuster) e Batman (1939, di Bob
Kane), la pratica di evitare le onomatopee e fare descrivere l’azione dalle parole è ancora attuata.
Figura 2. Alex Raymond, Flash Gordon – da Il mostro maledetto (1939). Nessuna onomatopea per
descrivere i suoni: l’immagine riproduce la didascalia senza aggiungere o togliere nulla
In quegli stessi anni, parallelamente, possiamo però notare che il suono si guadagna uno spazio
sempre più importante: Will Eisner, in The Spirit (1940), gli conferisce un ruolo di grande rilievo,
scegliendo addirittura quali suoni far comparire e quali no all’interno della medesima storia.
Qualora la fonte del suono fosse presente in scena – e magari ben identificabile attraverso il
tratteggio delle linee, come in Figura 3 – l’onomatopea diverrebbe pleonastica, per cui viene
omessa, mentre invece suoni importanti per la narrazione che avvengono fuori campo vengono
riportati sulla tavola sia con le linee che con le scritte (Figura 4). Il procedimento attuato, quindi, è
scevro da ogni ridondanza: viene cioè attuato un procedimento sottrattivo, antitetico rispetto a
quello del telefilm descritto in precedenza. The Spirit segue il modello della detective story, ma si
rifà – specialmente per le sequenze “familiari” con la fidanzata del protagonista, come in Figura 4 –
alla commedia brillante, per cui i suoi tempi devono essere serrati e la narrazione efficace.
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4
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Figura 3. Will Eisner, The Spirit - da L'eredità (1948). I suoni in campo non vengono segnalati come
onomatopee, ma attraverso le linee
Figura 4. Will Eisner, The Spirit – da L'eredità (1948). I suoni fuori campo vengono riportati
graficamente come onomatopee
Nonostante la porta venga sbattuta con grande forza, qui lo «SLAM» che ne identifica il suono è
piccolo: in fondo il rumore è quello, le linee e la scritta, per quanto piccole, svolgono il loro
compito.
È estremamente interessante notare come, però, le immagini e i suoni diegetici guadagnino sempre
più posto, almeno nel fumetto d’azione. Negli anni sessanta è ancora in atto la pratica della
descrizione del disegno attraverso la didascalia, ma la grafica prende sempre più il sopravvento,
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addirittura passandosi il testimone in maniera esplicita con le descrizioni: nella Figura 5, tratta dallo
“storico” episodio in cui Capitan America entra a far parte dei Vendicatori, il testo «Le quali, con
forza sempre crescente, strappano il pesante oggetto senza mai cedere per un secondo… finché…»
rimane in sospeso per “lanciare” l’onomatopea «WHOOOM!», significativamente di colore rosso
ed enorme (il volume del colpo deve essere verosimilmente alto), al punto di oltrepassare i bordi
della vignetta; la voce fuori campo cede il passo al suono diegetico. Tutte sinestesie, naturalmente.
Figura 5. Jack Kirby (disegni) Stan Lee (sceneggiatura), I Vendicatori – da Capitan America si unisce
ai Vendicatori (1964). La didascalia passa il testimone all’enorme onomatopea
Il fumetto si smarca quindi dalla narrazione scritta, e lo fa utilizzando una delle sue più proprie
manifestazioni, ovvero l’onomatopea, che diventa elemento grafico e parte fondamentale nella
composizione dell’immagine. Sono il ruolo del suono e la sua rappresentazione ad aiutare la
costruzione di un idioma proprio della nona arte: a un volume alto corrisponde una grande
dimensione, e ad un suono che interrompe un desolato silenzio corrisponde un colore che spicca
sullo sfondo.
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Protagoniste delle tavole, queste scritte sempre più grandi e variegate sono diventate, come si è già
detto, il simbolo pop del fumetto per antonomasia. I manga – i fumetti giapponesi – ne fanno un uso
più sfacciato e prorompente rispetto alla loro controparte europea e americana, specialmente nel
genere avventuroso: nelle splash pages (tavole costituite da una sola, grande immagine) e nelle loro
versioni a doppia anta (due tavole, un’immagine sola) la scritta rappresentante il suono arriva ad
ottenere un terzo dello spazio. Inoltre, per rendere il volume del rumore, la scritta esonda non solo
dai bordi della vignetta, come nel caso di Kirby, ma anche dai confini della pagina, risultando
tagliata, come se il fragore sia tale da non poter essere contenuto all’interno di un misero foglio di
carta (spesso i personaggi dei manga di combattimento hanno una forza sovraumana), mentre il
carattere con cui viene presentata è spezzato, a rappresentarne la violenza.
Figura 6. Akira Toriyama, Dragon Ball (1984-1995). L'onomatopea occupa quasi metà della splash
page, sconfina in basso e oltrepassa i limiti della tavola stessa a sinistra
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Figura 7. Tetsuo Hara (disegni), Buronson (sceneggiatura), Ken il guerriero (1983-1988). La violenza
della scena trasborda, il rumore eccede i limiti dell’immagine (in alto)
Figura 8. Eiichiro Oda, One Piece (1997-in corso). Nella doppia splash page, il cielo è quasi
completamente coperto dall'onomatopea prodotta dal suono del pugno gigante
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I manga d’azione sembrano fare uso, oltre che di pose plastiche e inquadrature suggestive, anche di
un suono invasivo come nel cinema dello stesso genere. In aggiunta, però, i mangaka (gli autori), di
tanto in tanto si divertono a giocare impiegando descrizioni performative sotto forma di
onomatopea (non si tratta quindi di suoni veri e propri), che si tratti di passetti furtivi o di un
sorriso.
Figura 9. Akira Toriyama, Dragon Ball (1984-1995). Che suono è «furtiv furtiv»?
Figura 10. Eiichiro Oda, One Piece (1997-in corso). Che suono fa un sorriso?
Per associazione, è possibile che i “suoni impossibili” «furtiv» e «smile» siano gli equivalenti
fumettistici (un po’ arditi, e certamente con un intento comico, specialmente nel primo caso) di
quelli che vengono normalmente associati a determinate azioni nei telefilm e nei film – per il fare
furtivo del bambino, probabilmente delle brevi frasi di archi in pizzicato, in corrispondenza dei
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passi appoggiati a terra; per il sorriso forse un veloce arpeggino di tre o quattro note di un
metallofono. L’associazione messa in atto è quindi doppia: prima quella del fumetto al riferimento
cinematografico e poi quella del cinema con le sue convenzioni.
Suoni extradiegetici, quindi, proprio come capita in One Piece quando compare una situazione di
particolare pericolo (presumibilmente sottolineata, al cinema, da un gong o da un lungo boato degli
ottoni nel registro grave). Se le onomatopee a tutto schermo del telefilm Batman erano un tentativo
di resa sullo schermo di un elemento tipicamente fumettistico, qui ci troviamo di fronte al percorso
inverso, ovvero di una resa fumettistica (onomatopea) di una caratteristica esplicitamente
cinematografica (il commento sonoro non diegetico). È possibile che il tentativo di aderenza al
cinema d’azione – estrema dinamicità al limite del paradossale (e talvolta oltre), inquadrature ad
effetto, montaggi rapidi e grande dispendio di rappresentazione sonora (diegetica e non) – sia uno
dei motivi del grande successo del fumetto giapponese nel mondo occidentale.
Figura 11. Eiichiro Oda, One Piece (1997-in corso). La gigantesca onomatopea nel cielo non
rappresenta una cannonata, ma sta per un suono non diegetico a sottolineare l’imponenza della flotta
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Per essere più efficaci, si è cercato, da quando negli anni sessanta l’onomatopea è diventata parte
integrante del disegno nella composizione della vignetta, di rendere il senso materico della
rappresentazione sonora andando ad agire sul carattere (il font, in inglese) con cui viene scritta la
parola interessata: un «CRASH» (o un più raro «PRAK», come in Figura 12) rappresentante una
rottura viene scritto con le lettere a loro volta frantumate.
Figura 12. Andrea Pazienza, Verde matematico (1982). L'onomatopea si frantuma come il vetro del
finestrino sfondato dalla ginocchiata di Zanardi
Il passaggio successivo a questa elaborazione sinestetica è l’interessante lavoro di Frank Quitely,
che nei primi tre numeri (gli unici da lui disegnati) della serie Batman and Robin (2009) sceneggiata
da Grant Morrison ha eliminato ulteriormente la barriera scritta/disegno, incorporando la
rappresentazione del suono all’interno dell’elemento da cui esso scaturisce. Ciò porta, oltre ad una
notevole unitarietà del disegno, a un’efficacissima resa materica dell’effetto sonoro.
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Figura 13a. Frank Quitely (disegni) e Grant Morrison (sceneggiatura), Batman and Robin (2009). Il
suono fa parte dell'esplosione
Figura 13b. Frank Quitely (disegni) e Grant Morrison (sceneggiatura), Batman and Robin (2009). È
l'acqua a prendere la forma dello «SPLSH» (senza vocali)
Figura 13c. Frank Quitely (disegni) e Grant Morrison (sceneggiatura), Batman and Robin (2009). La
rottura dei mattoni è leggibile tra le crepe del muro stesso
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Si può attribuire l’incorporazione delle scritte nel disegno a una progressiva asciugatura della
rappresentazione fumettistica contemporanea, la quale, specialmente in anni recenti e nel cosiddetto
fumetto per adulti americano (dalla metà degli anni ottanta in avanti), ha cercato di eliminare le
onomatopee, considerate un elemento troppo “frivolo” e troppo “scontato” per il pubblico maturo
cui quei fumetti sono destinati. Per ragioni di spazio viene qui riportato un solo caso (da Wanted di
Millar e Jones), ma gli esempi sarebbero molteplici.
Figura 14. J. G. Jones
(disegni), Mark Millar
(sceneggiatura) e Paul
Mounts (colori), Wanted
(2004-2005). Per evitare
che la scena, ricca di
eventi “rumorosi”, venga
inondata dalle
onomatopee, essa viene
resa “muta”, dal
momento che le fonti e i
suoni sono chiari
RUMORI VS. MUSICA
Che i suoni possano essere resi solo attraverso linee di movimento è molto evidente in queste due
strisce di Paperino (creato nel 1934). In queste brevi storielle, molto simili alle comiche del cinema
muto, i dialoghi sono molto scarni o assenti, e possiamo notare come la musica ottenga la
precedenza su tutto.
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Figura 15a. Al Taliaferro, Paperino (1938)
Figura 15b. Al Taliaferro, Paperino (1938)
Quando il cestino della spesa cade sulla testa del protagonista (Figura 15a, terza vignetta), vediamo
le traiettorie degli oggetti che cadono, ma non vi è scritto niente; la stessa cosa vale per la ruota
della bicicletta che si infrange contro il tombino aperto (Figura 15b, seconda vignetta). Nonostante
ciò, il motivetto fischiettato dall’operaio è trasportato su di un improbabile pentagramma (Figura
15a; capiamo che il pezzo è particolarmente melodioso attraverso una convenzione grafica
comunemente accettata: il pentagramma ha la forma di onde regolari e morbide, segno di
piacevolezza). Quando Paperino è in bicicletta, invece, la sua canzone non ha un testo, ma capiamo
che sta cantando perché attorno alle sillabe da lui pronunciate ci sono note (Figura 15b; un insensato
misto, per chi fosse anche approssimativamente pratico di solfeggio, tra crome e minime), segno per
un lettore occidentale (o occidentalizzato) che si tratta di note – una sorta di latinorum in versione
musicale. Questi sono segnali che si fermano, sia nella loro produzione che nella loro fruizione, a
quello che Andrea Garbuglia definisce un primo livello di lettura (di tre), cioè quello «messo in atto
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dai lettori [o dagli autori] non musicisti […]. In questo caso, le note sul pentagramma perdono il
loro valore musicale e ne assumono uno che deriva loro dal contesto».3 Garbuglia fa riferimento a
una storia nella quale lo spartito che viene riportato è quello di un brano effettivamente esistente,
mentre in questo caso si tratta solo di segnali che rimandano a un’idea generica: la musica che canta
Paperino o che fischietta l’operaio immaginata da un lettore musicista o non musicista può essere
esattamente la stessa. Possiamo quindi parlare di un primo livello di scrittura, non solo di lettura.4
Certo, le note sul pentagramma perdono il loro valore musicale in senso univoco (cioè nel senso del
solfeggio), ma significano musica “generica” per il lettore. Va altresì segnalato che, in altre strisce
dello stesso periodo e dello stesso autore, compaiono alcune piccole onomatopee: ciò a
dimostrazione che, almeno apparentemente, se è presente della musica in campo, questa vince sul
rumore, occupando più spazio e attenzione nella vignetta.
Per la stragrande maggioranza delle situazioni in cui la musica è comparsa in storie a fumetti,
questa è stata rappresentata come piccole note (in genere, crome) che scaturiscono da una fonte di
suoni (strumenti, altoparlanti, radio, televisori… Figura 17, prima vignetta) o che si insinuano nel
balloon (il “fumo” che esce dalla bocca di chi parla, da cui i comics prendono il loro nome italiano:
piccola nuvoletta di fumo fumetto) di chi sta cantando o fischiettando (Figura 16a). Più
raramente, viene collocato anche un pentagramma (Figura 16b), e ancora più raramente ciò che vi è
scritto ha un senso effettivamente musicale.
Figura 16a e 16b. Rendere il cantato nei fumetti: note e pentagrammi insieme alle parole, nel balloon
Nell’esempio qui riportato da Dick Tracy (1931, di Chester Gould), vengono utilizzate onomatopee
e simboli musicali per rendere la differenza tra rumori e musica: il protagonista, prigioniero del
gangster Testa Piatta (Flattop in originale), distingue le interferenze con cui un suo agente gli sta
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comunicando l’arrivo dei rinforzi in codice Morse attraverso una radio accesa dai malviventi per
evitare che i vicini sentano i rumori dell’esecuzione. I ticchettii non intonati del codice Morse –
rumori a tutti gli effetti – sono delle “semplici” onomatopee, mentre la musica “merita” un
trattamento di favore: essendo percepita come piacevole o bella, viene rappresentata con simboli
decodificabili solo da esperti (anche se nella versione latinorum) e non “banalizzata” simulandone il
suono. Evidentemente, si evince che la definizione di musica in quanto “suono umanamente
organizzato”5 non vale per i fumetti (non si conti il fatto che la storia qui riportata sia stata scritta
una trentina di anni prima della definizione di John Blacking: sono certo che ancora oggi questa
sequenza verrebbe rappresentata così), o, meglio, non vale per i suoi lettori: il codice Morse è un
suono che possiede uno statuto codificato dunque riconoscibili, ma non essendo intonato o cantabile
non ottiene lo status artistico che invece ha la musica. La percezione di ciò che è musica e ciò che
non lo è si radica in un’esperienza estetica resa attraverso simboli che si distinguono dalle
onomatopee.
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Figura 17. Chester Gould, Dick Tracy – da Testa Piatta (1943-1944). Tra le note della radio, Dick Tracy
riconosce i «click clickity» del codice Morse e li decodifica (con un’intuizione a forma di fulmine)
Chester Gould, nel 1944, utilizza il suono, in un mezzo narrativo muto, e lo fa con estrema
concisione (tutto il racconto è disseminato di messaggi che vengono mandati picchiando sulle pareti
o attraverso la musica) impiegando elementi grafici immediatamente comprensibili.
Per quanto raro, non è impossibile che la musica venga resa attraverso le onomatopee. In alcuni
fumetti recenti, per esempio, tale sistema viene utilizzato per rappresentare un’amplificazione a
tutto volume, invasiva e invadente; musica techno, magari, o, come nel caso seguente, musica rock
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trasmessa al massimo del volume attraverso l’interfono di una scuola elementare. Il volume,
insomma, priva di ogni piacevolezza la musica, trasformandola in rumore, e quindi togliendole la
possibilità di essere rappresentata attraverso le note. Torna di nuovo a farsi valere l’esperienza
estetica di cui sopra.
Figura 18. Naoki Urasawa,
20th Century Boys (19992006). Il volume della
musica è tale da farla
percepire come rumore. Le
onomatopee («BOOM» in
ideogrammi) coprono gran
parte dei disegni. La
canzone trasmessa
all’interfono è 20th Century
Boy (1973) dei T. Rex
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MUSICA
Come si può intuire da ciò che è già stato scritto, la resa della musica nel fumetto nelle produzioni
di massa non ha generato risultati particolarmente interessanti o innovativi: con due linee per
indicare la fonte del suono e un paio di crome, la musica viene rappresentata, esattamente come nei
biglietti di auguri et similia. La manipolazione delle onomatopee ha ottenuto risultati più particolari
e ricchi di spunti per uno studio della rappresentazione sonora.
Esistono, però, dei casi nei quali l’autore (sia che si tratti di uno sceneggiatore/disegnatore o solo di
uno dei due) ha cercato di inserire la musica nel disegno tralasciando gli stereotipi.
Un caso eccezionale in questo senso è una storia del 1972-73 di Guido Crepax per Valentina (creata
nel 1965) che ruota intorno ad un violoncello appartenuto a Niccolò Paganini. L’autore, oltre a
giocare con la somiglianza tra le forme del corpo femminile e lo strumento (come nel film con
Lando Buzzanca e Laura Antonelli del 1971 Il merlo maschio, di Pasquale Festa Campanile),
inserisce un’enorme quantità di riferimenti musicologici destinati a passare inosservati a un lettore
non specializzato (come i titoli presenti nella libreria del giovane Bruno o quelli nella libreria
dell’anziano storico della musica)6 e delle originalissime versioni grafiche di esecuzioni musicali.
Nella splendida sequenza a seguire – che va letta dall’alto verso il basso, scorrendo le colonne da
sinistra a destra; Figura 19 – Valentina e il giovane Bruno ascoltano nella di lui camera il Quartetto
per archi di Ravel. Ognuna delle quattro colonne è associata a un movimento della composizione
(Allegro moderato, Assez vif – Très rythme, Très lent, Vif et agité), e oltre al gioco di sguardi con
cui la protagonista seduce un già innamorato ragazzo (e il lettore: spesso lei guarda direttamente chi
legge) vediamo che ai nomi delle sezioni strumentali vengono associate linee che ne rappresentano
l’andamento dinamico e melodico, in una sorta di sismografo polifonico in cui linee rette, curve,
spezzate, sottili, spesse o interrotte indicano gli effetti percepiti all’ascolto in una modalità
semplice, efficace e comprensibile, seppure non particolarmente “precisa”: qui non vi sono livelli di
lettura o di scrittura, ma livelli di percezione. Quella rappresentata è la musica dell’ascoltatore: si
passa quindi dal piano poietico (di chi fa la musica) a quello estesico (di chi ne fruisce),7 evitando
completamente l’elitarismo che avrebbe implicato la presenza, nelle otto vignette dedicate alla
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musica, del pentagramma con rappresentati i motivi principali del quartetto, comprensibile solo a
chi fosse pratico di musica (un’ulteriore scelta esclusivista, che avrebbe rappresentato il terzo livello
secondo Garbuglia, sarebbe stata l’inclusione di accenni di spartito del quartetto di Ravel senza che
ne venisse dichiarato il titolo, rendendo possibile il riconoscimento del brano non solo ai musicistimusicofili, ma a coloro i quali, tra questi, conoscessero la composizione in questione).
Figura 19. Guido Crepax, Valentina – da Pietro Giacomo Rogeri (1972-1973). Quartetto per archi in Fa
maggiore di Maurice Ravel («Ha scritto solo questo… come Debussy», ci tiene a farle sapere lui,
per fare colpo)
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All’interno della storia, Crepax ricorre a questo metodo di rappresentazione in altri due momenti:
uno, precedente, in cui Bruno ascolta un non precisato brano dallo stereo, e uno, nella tavola
conclusiva, in cui il giovane suona la Sesta Suite per violoncello di Bach, in cui ogni danza è
rappresentata tramite il sistema “sismografico”.8
Come si è scritto all’inizio, in anni recenti, specialmente in Europa, si sono scritte numerose
biografie a fumetti di musicisti importanti del Secolo XX o storie in cui la musica avesse un ruolo
predominante; ne La ballata di Hambone (2009-2010) di Igort e Leila Marzocchi, ambientato
durante la Grande Depressione negli Stati Uniti, uno dei protagonisti è bluesman. Quando la musica
viene evocata, specialmente da un grammofono, questa compare come un fantasma, uno spirito; pur
non rinunciando alla presenza delle piccole note, in questa poetica vignetta (Figura 20) il suono
avvolge tra le sue spire la ragazza, danzando con lei.
Figura 20. Leila Marzocchi (incisioni) e Igort (sceneggiatura), La ballata di Hambone (2009-2010)
In un contesto in cui la musica nera si nutre di spiritualità – pensiamo agli spiritual, al gospel e al
blues (che, va ricordato, prende il nome dal modo di dire «to have the blue devils»)9 – e di
evocazione demoniaca o angelica, la raffigurazione in quanto spirito (il bluesman citato, peraltro, è
in grado di tramutarsi in fantasma) è particolarmente suggestiva ed efficace.
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Il fumetto romantico giapponese ha sviluppato una tecnica particolare per rappresentare, attraverso
lo sfondo, le emozioni dei personaggi. Come spiega Scott McCloud:
Alcuni disegni possono produrre un effetto quasi fisiologico in chi guarda. Ma per
qualche ragione, i lettori non attribuiranno queste sensazioni a se stessi, ma ai personaggi
nei quali si identificano. Questi effetti interiori sono, naturalmente, più adatti a storie
intimiste. Quando una storia dipende più dalla caratterizzazione che dalla pura trama,
magari non ci sarà molto da mostrare esteriormente… ma il paesaggio delle menti dei
personaggi può essere un gran bello spettacolo! Questo principio è evidente in molti
fumetti europei a colori e nei fumetti giapponesi d’amore, nei quali sono stati escogitati
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effetti espressionistici per quasi tutte le emozioni immaginabili!
L’associazione sfondo-emozione-musica è il cardine dei manga a tematica musicale. Nello josei11
intitolato Nodame Cantabile (2001-2009) di Tomoko Ninomiya, quando i personaggi suonano
musica classica e vi è un collegamento sentimentale tra essi, o l’esecuzione è tale da suscitare
trasporto emotivo, sullo sfondo grigio compaiono globi di luce bianchi dai bordi sfumati o riflessi
cristallini di luce; nello shōnen12 di Harold Sakuishi Beck (2000-2009), che parla di una giovane
rock band, lo spazio circostante viene invece invaso da fulmini o simili rappresentazioni di “energia
elettrica”, unendo a questo tipo di sfondo anche le grandi linee di movimento che caratterizzano
l’estremo dinamismo del fumetto giapponese. L’associazione di tali immagini sfrutta gli stereotipi
musicali che si sono stratificati negli anni attraverso le colonne sonore.
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Figura 21. Tomoko Ninomiya,
Nodame Cantabile (20012009). Globi di luce, riflessi
cristallini, sfondo grigio in
una sospensione temporale: il
trasporto sentimentale
veicolato dalla musica si
proietta nello sfondo
Figura 22. Harold Sakuishi,
Beck (2000-2009). Seguendo lo
stereotipo del rock come
genere “energico”, sullo
sfondo compaiono forme che
ricordano i fulmini
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MUSICA E CORPO
Nella gigantesca mole di fumetti prodotta negli ultimi cento anni e più, la musica è comparsa anche
in altri modi; specialmente negli ultimi trent’anni, si sono cercati modi alternativi di fare il fumetto,
e di conseguenza sistemi nuovi per la rappresentazione degli elementi grafici (tra cui anche la
musica). Come abbiamo appena visto, nei manga le linee di movimento e gli sfondi emotivi
rappresentano un possibile metodo alternativo.
Applicando criteri sottrattivi anziché additivi, seguendo cioè il tipo di mentalità che abbiamo
individuato nello Spirit di un giovane Will Eisner, molti disegnatori hanno evocato la musica senza
rappresentarla direttamente. Nel caso di Spirit si era detto che la fonte sonora in campo non rendeva
necessaria l’onomatopea; nei casi in cui la musica non viene rappresentata, sono i corpi a veicolarla.
Figura 23. Gianluca Maconi
(disegni) e Mattia
Colombara (sceneggiatura),
Electric Requiem. Biografia
a fumetti di Jimi Hendrix
(2010). Settima di una serie
di dieci tavole mute, in cui il
silenzio e la solitudine del
musicista (il nero di sfondo)
sono in contrasto con la
musica (nell’espressione del
volto e nelle mani di
Hendrix)
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Figura 24. Paolo Parisi, Coltrane
(2010). Le guance gonfie e gli occhi
chiusi di Coltrane, le bacchette e
l’espressione di Elvin Jones e l’aria
assorta di Jimmy Garrison al
contrabbasso sono l’unico veicolo
di rappresentazione della musica
Figura 25. Andrea Pazienza, Giallo
scolastico (1981). Luci, corpi sudati
e in movimento: la musica è in
Zanardi e Colasanti che ballano
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Nel caso seguente, vengono fusi i due modelli di rappresentazione sonora di ciò che non è in campo
(come abbiamo notato in Figura 4) e raffigurazione “muta” della musica attraverso il corpo (in
questo caso, come nel precedente, attraverso la danza).
Figura 26. Tanino Liberatore (disegni) e Stefano Tamburini (sceneggiatura), RanXerox (1981). Gli
applausi devono essere scritti, altrimenti non sapremmo che il pubblico sta apprezzando il ballo,
attraverso il quale il fisico dell’androide comunica al lettore la presenza della musica
LA VOCE
Le voci, nei fumetti, vengono normalmente rappresentate attraverso il balloon. Questo cambia a
seconda degli stili grafici degli autori che lo impiegano: generalmente arrotondato, può anche essere
rettangolare, inesistente e con una sola linea che collega le parole alla bocca o sottolineato (sempre
con la linea da collegamento con la fonte sonora). In realtà tutto ciò non ne modifica il senso o il
significato.
Con gli anni sono state elaborate delle convenzioni – ormai comunemente accettate – per
rappresentare chi parla sottovoce e chi urla: bordi tratteggiati anziché continui per il primo caso,
linee spezzate e caratteri ingranditi per il secondo.
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Figura 27. a) Linee tratteggiate che stanno per “sottovoce” e b) linee spezzate e balloon “appuntito”
che indicano l’urlo
Di tanto in tanto è capitato che le mezzevoci fossero rappresentate con parole scritte in piccolo o
bordi del balloon in grigio, ma la linea tratteggiata rimane il sistema più utilizzato. Spesso, inoltre,
le voci provenienti dal telefono o da un apparecchio elettrico sono evidenziate in altro modo rispetto
a quelle naturali; in assenza di un metodo convenzionale per queste, ogni autore usa modi personali
per raffigurarle.
Akira Toriyama, per il suo Dragon Ball, ha elaborato un semplice sistema molto interessante per
distinguere il timbro, la qualità delle voci di personaggi positivi (i “buoni”) e negativi (i “cattivi”,
anche quando questi vengono redenti, come succede in moltissimi manga; il loro atteggiamento
scorbutico, ad ogni modo, fa sì che il loro timbro vocale non cambi). Le voci degli eroi sono
bordate da nuvolette arrotondate, mentre quelle dei cattivi sono un po’ spigolose.
Figura 28. Akira Toriyama, Dragon
Ball (1984-1995). a) Crilin è un
personaggio positivo, quindi la sua
voce è “rotonda”; b) Vegeta, al
contrario, è scorbutico, per cui la sua
voce è “spigolosa”
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Paul Karasik, per rendere la stranezza dell’inquietante figura di Peter Stillman nell’adattamento
grafico di City of Glass (2004) di Paul Auster, ha optato per fare provenire la voce dall’interiorità,
dalla profondità del personaggio, rompendo la convenzione per cui l’inizio della nuvoletta è sempre
visibile quando la fonte del suono (in questo caso, la bocca) è in campo. Nelle parole di Karasik:
Stiamo per intraprendere un viaggio nel cuore di tenebra di questa persona. All’inizio
l’effetto è ingannevole, perché è bizzarro e divertente, ma poi ci si rende conto che ci si
va immergendo nelle profondità dell’animo di quest’uomo devastato. [La sua è una voce
che viene] Da un luogo di profondo tormento.13
Figura 29. Paul Karasik (schizzi, sceneggiatura), David Mazzucchelli (rifiniture), Paul Auster (testi,
storia), Città di Vetro (2004). La voce di Stillman viene da dentro, quasi non è umana
LA VOCE DEGLI DEI
C’è un altro elemento che rende inquietante il modo di parlare di Peter Stillman: il font con cui è
scritto. Da anni, ormai, qualsiasi editor di testo è provvisto di un carattere chiamato COMIC: quasi
tutti i fumetti vengono scritti con esso, seppure con qualche piccola variazione, almeno da quando il
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lettering14 viene fatto al computer. Di per sé, comunque, questo font è nato per imitare la grafia a
mano, dal momento che tradizionalmente i fumetti vengono scritti e disegnati così.
Consapevoli, però, del fatto che nessuno sentirà mai le vere voci dei personaggi, e forti di
escamotage di cui sono privi gli autori di narrativa, i fumettisti hanno iniziato, specialmente dagli
anni ottanta, a giocare con le forme e i colori dei balloon e con i font.
Il medium grafico ha consentito quindi di giocare con la rappresentazione della voce di creature
magiche, divine o semi-divine, mitologiche o allegoriche: in questo modo non solo il lettore
immaginerà le singole, diverse voci dei personaggi (come anche nella letteratura solo scritta), ma
verrà portato a creare il timbro di queste voci (evidentemente non umano) facendo leva sulla propria
immaginazione. Sono quindi voci puramente inventate, che non hanno alcun riferimento nel reale.
Figura 30. Neil Gaiman, Sandman (1989-1996). Le voci di alcuni degli Eterni: a) Sogno; b) Delirio; c)
Barnaba (il cane di Distruzione); d) Distruzione; e) Disperazione; f) Desiderio
La voce di Distruzione (Figura 30d), uno degli Eterni della saga di Sandman (1989-1996)
sceneggiata da Neil Gaiman, ha una qualità vocale che verrà riutilizzata da Alan Moore per Tom
Strong (1999-2006): un personaggio particolarmente forte e vigoroso ha una voce tonante anche
senza gridare, per cui il suo balloon è bordato con una linea più spessa (potente voce di basso?).
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Delirio, invece, che a ogni istante cambia acconciatura, colore di capelli e degli occhi, ha un timbro
vocale sempre mutevole – come suggerito dai tanti, diversi colori e dalle lettere scritte con mano
indecisa (30b). Desiderio, ermafrodito subdolo e machiavellico spesso vestito con abiti eleganti e
dotato di grande charme, parla con un font spigoloso (30f), mentre Sogno, il protagonista della
serie, ha un timbro vocale non identificabile, scritto bianco su nero (30a); probabilmente
l’associazione più ovvia sarebbe con i timbri gravi, bassi, per antonomasia “scuri”, come spiegato
esaustivamente da Philip Tagg [tutti i corsivi miei]:
High pitch is in general much more likely to be associated with light in both the “not
dark” and “not heavy” senses of the word, not least because small gusts of wind can
scatter feathers, leaves, plastic bags and other small, light objects, blowing them up into
the air – towards the sky, the clouds and the sun – whereas heavy objects tend to be
larger, more difficult to move and therefore more likely to stay down on the ground,
which is understandably imagined as darker and heavier than air. Indeed, not only do
large heavy objects tend to need lots of energy – a tornado or vast amounts of jet fuel, for
example – to get them off the ground; their very weight and inertia makes them appear
less volatile and less mobile, more likely to be understood as heavy, dark and massive
rather than quick, light and small,15
ma è possibile che l’idea originale sia quella di una voce “in negativo” rispetto a quella umana, che
è nero su bianco. Come possa suonare, però, questa vocalità, non può che essere una speculazione
personale.
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Figura 31. J. H. Williams (disegni), Mick Gray (chine), Alan Moore (sceneggiatura), Promethea (19992005). a) Una normale voce umana paragonata a quelle b) di Promethea (creatura fatta di
immaginazione e creazione), c) del sistema di informazione computerizzato TEXTure®, d) di tutto ciò
che cresce sulla Terra (raffigurato tramite un serpente, allegoria delle spirali di DNA), e) di un
demone infernale, f) di ogni sogno e fantasia (rappresentati in forma di donna), g) degli Illuminati (la
fonte della voce non è mai indicata)
Tutti gli esempi nelle Figure 30, 31 e 32 rappresentano voci non umane. Non c’è modo di sapere
quale sia il suono di una voce scritta in corsivo minuscolo (in un contesto in cui tutti parlano in
stampatello maiuscolo), o come possa essere quella del dio Mercurio, circondato da una
decorazione greca e in uno strano stampatello; è però evidente che ogni declinazione rappresenti
qualcosa di diverso.
Per associazione, è possibile che le voci 30e, 31e, 32a e b (forse anche le 32g e h) vengano
considerate particolarmente rauche, dal momento che sono circondate da un balloon irregolare e
tremolante, segno di qualcosa di fastidioso, un po’ graffiante; allo stesso modo, generalmente le
voci dei robot o dei computer sono circondate da balloon rigidi e squadrati (la voce metallica e
inespressiva della macchina), ma quella dell’esempio 31c ha la particolarità di essere scritta con un
elegante grafia a mano, tutt’altro che “computerizzata”. Anche l’origine delle voci è importante: se
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la Figura 29 è un esempio inquietante di vocalità paranormale (da medium in trance?), quella degli
esempi 31c e g, che non hanno un’origine, potrebbe essere una voce che si sente direttamente nella
mente, senza passare dalle orecchie.16 Come si è già detto, magari le voci a sfondo nero sono
particolarmente cupe (si aggiungano, alla 30a, anche la 31g, la 32b e la 32f), ma cosa possa
significare un colore diverso per il carattere o per lo sfondo (com’è una voce blu? E una verde?),
non è facile a dirsi; lo stesso vale per i font diversi.
Figura 32. Altre voci divine o oltre-umane: a) la principessa Jemmy (personaggio dei sogni; da
Sandman); b) il demone Asmodeo (da Promethea); c) Wilkinson (personaggio dei sogni; da Sandman);
d) il Dottor Fate (DC Comics); e) il Drago che esaudisce i desideri (da Dragon Ball); f) il dio Mercurio
(da Promethea); g) il Pifferaio Magico (da Promethea); h) gli Interni (personaggi degli incubi; da
Sandman)
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CONCLUSIONE
Quello delle voci rappresentate in tanti modi (quelli riportati non sono che una minima percentuale
delle variabili finora presentate) e delle onomatopee scritte in maniera più “efficace” nel mondo del
fumetto non può che essere un tripudio di sinestesie; queste ultime, però, nel caso delle voci divine,
devono essere associate a fatti mai esperiti dal lettore, che viene quindi spinto in prima persona a
uno sforzo creativo.
È stato un medium muto a rappresentare così tanti tipi di suono, facendo anche leva
sull’immaginazione di chi legge; ma sarebbe possibile utilizzare alcune delle formule sopra
descritte in tutt’altro contesto, per esempio quello della trascrizione musicale? La notazione della
musica contemporanea ha elaborato sistemi di scrittura,17 per esempio, per varie vocalità, ma mai
raggiungendo uno standard condiviso: Ottó Károlyi elenca alcune delle varie possibilità grafiche
elaborate da Stockhausen, Berio, Ligeti, Schönberg e Penderecki per indicare fondamentalmente le
stesse cose (parlato, parlato/cantato, bocca aperta/socchiusa/chiusa, falsetto…).18 Anche l’impiego
in un contesto di trascrizione – e quindi con finalità diversa, ovvero descrittiva anziché prescrittiva
– non ha uno standard fisso. Possibile che il problema della scrittura dei timbri non possa passare
per soluzioni come quelle di Figura 28, magari scandagliando tante e diversissime possibilità, come
nelle Figure 30, 31 e 32? Indubbiamente le diverse qualità sonore sono praticamente infinite, ma un
sistema che faccia uso di linee continue, spezzate, tratteggi, colori, font, sottolineature e così via
potrebbe rappresentare un piccolo passo avanti – probabilmente non definitivo, certo – verso una
più affidabile rappresentazione scritta delle persone vocali indicate da Philip Tagg nel filmato
intitolato Rome Montage,19 mentre indicazioni di tipo “sismografico” come quelle di Crepax, se
associate ad altri segnali, potrebbero essere un’utile modalità di rappresentazione di
dinamica/intensità.
Il sistema di incorporazione dell’onomatopea dentro il materiale che la produce, come negli esempi
di Frank Quitely (Figure 13a-c), o gli sfondi sognanti dei fumetti giapponesi, potrebbero tornare
molto utili per lo studio della musica nel film, anche impiegati in sequenze video come quella
presentata da Philip Tagg per una sequenza di Morricone da Mission,20 riconfermando la vocazione
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all’oggettualità della notazione “colta” contemporanea. 21 Inoltre, è possibile che l’immediatezza con
cui sono stati elaborati i sistemi fumettistici di rappresentazione del suono potrebbe aiutare a
sviluppare metodi elaborati ma non complessi, magari in linea con l’idea di una popular musicology
(e non solo di musicologia del popular).22 E i fumetti sono una delle manifestazioni più importanti
della cosiddetta popular culture.
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BIBLIOGRAFIA
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da La raccolta de La grande avventura dei fumetti. Gli eroi, la storia, i segreti, n. 1, Istituto
Geografico De Agostini, Novara 1990, p. 12. Per ragioni grafiche, l’immagine è stata ricolorata.
Figura 3: Will Eisner, The Spirit: L’eredità (1948), tavola 6. Tratto da La raccolta de La grande
avventura dei fumetti. Gli eroi, la storia, i segreti, n. 3, Istituto Geografico De Agostini, Novara
1990, p. 23. Per ragioni grafiche, l’immagine è stata ricolorata.
Figura 4: Will Eisner, The Spirit: L’eredità (1948), tavola 2. Tratto da La raccolta de La grande
avventura dei fumetti. Gli eroi, la storia, i segreti, n. 3, Istituto Geografico De Agostini, Novara
1990, p. 19. Per ragioni grafiche, l’immagine è stata ricolorata.
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Figura 5: Jack Kirby (disegni) e Stan Lee (sceneggiatura), I Vendicatori: Capitan America si
unisce ai Vendicatori (1964), tavola 16. Tratto da La raccolta de La grande avventura dei fumetti.
Gli eroi, la storia, i segreti, n. 24, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1990, p. 24.
Figura 6: Akira Toriyama, Dragon Ball (1984-1995), cap. 409 (La speciale onda Kamehameha),
tavola 13. Ed. it. Dragon Ball, n. 50 (Star Comics), aprile 1997, p. 109.
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Figura 9: Akira Toriyama, Dragon Ball (1984-1995), cap. 426 (Due tipi misteriosi), tavola 4. Ed.
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agosto 2009, tavola 7. Ed. it. Batman, n. 35 (Planeta DeAgostini), giugno 2010, p. 8.
Figura 13c: Frank Quitely (disegni) e Grant Morrison (sceneggiatura), Batman and Robin, n. 2,
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Figura 15a: Al Taliaferro, Paperino, 1938. Tratto da La raccolta de La grande avventura dei
fumetti. Gli eroi, la storia, i segreti, n. 3, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1990, p. 29. Per
ragioni grafiche, l’immagine è stata ricolorata.
Figura 15b: Al Taliaferro, Paperino, 1938. Tratto da La raccolta de La grande avventura dei
fumetti. Gli eroi, la storia, i segreti, n. 3, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1990, p. 26. Per
ragioni grafiche, l’immagine è stata ricolorata.
Figura 16a: Rick Veitch (disegni) e Alan Moore (sceneggiatura), Greyshirt: Greyshirt finalmente
canta e balla, tavola 6, da Tomorrow Stories, n. 9, febbraio 2001. Ed. it. Tomorrow Stories, vol. 2,
Magic Press, 2006, p. 78.
Figura 16b: Will Eisner, The Spirit: L’eredità (1948), tavola 7. Tratto da La raccolta de La grande
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Figura 17: Chester Gould, Dick Tracy: Testa Piatta (1943-1944), tavola 25 (16 gennaio 1944).
Tratto da I Classici del Fumetto di Repubblica, n. 60, Panini Comics 2004, p. 39. Per ragioni
grafiche, l’immagine è stata ricolorata.
Figura 18: Naoki Urasawa, 20th Century Boys (1999-2006), cap. 1 (Friend), tavole 6-7. Tratto da
20th Century Boys, n. 1 (1999), Shogakukan, pp. 12-13.
Figura 19: Guido Crepax, Valentina: Pietro Giacomo Rogeri (1972-1973), tavola 14. Tratto da I
Classici del Fumetto di Repubblica, n. 13, Panini Comics 2003, p. 53.
Figura 20: Leila Marzocchi (incisioni) e Igort (sceneggiatura), La ballata di Hambone (20092010), tavola 115. Tratto da Leila Marzocchi – Igort, La ballata di Hambone, vol. 1, Coconino
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Figura 25: Andrea Pazienza, Giallo scolastico (1981), tavola 12. Tratto da Andrea Pazienza,
Zanardi 1. 1981-1984, Fandango Libri, Roma 2008, p. 34.
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Edizioni, Grumo – Nevano (NA) 2004, p. 47.
Figura 27a: Scott Hampton (disegni) e Neil Gaiman (sceneggiatura), The Books of Magic – II Il
mondo delle ombre (1990), tavola 46. Tratto da Neil Gaiman, The Books of Magic, Lion Comics –
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Figura 27b: Akira Toriyama, Dragon Ball (1984-1995), cap. 414 (Il messaggio di Goku), tavola 2.
Ed. it. Dragon Ball, n. 51 (Star Comics), maggio 1997, p. 49.
Figura 28a: Akira Toriyama, Dragon Ball (1984-1995), cap. 427 (La combinazione delle finali),
tavola 14. Ed. it. Dragon Ball, n. 54 (Star Comics), giugno 1997, p. 42.
Figura 28b: Akira Toriyama, Dragon Ball (1984-1995), cap. 416 (Gran finale), tavola 4. Ed. it.
Dragon Ball, n. 51 (Star Comics), maggio 1997, p. 76.
Figura 29: Paul Karasik (schizzi, sceneggiatura), David Mazzucchelli (rifiniture), Paul Auster
(testi, storia), Città di Vetro (2004), tavola 15. Tratto da Paul Auster – Paul Karasik – David
Mazzucchelli, Città di Vetro, Coconino Press, Bologna 2011 (nuova ed.), p. 51.
Figura 30: Neil Gaiman (sceneggiatura), Sandman (1989-1996). a), b), n. 47 (marzo 1993), tavola
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1993), tavola 9. Ed. it. Sandman, n. 15, Planeta DeAgostini, p. 11; f), Ivi, tavola 10. Ivi, p. 12.
Figura 31: J. H. Williams (disegni), Mick Gray (chine), Alan Moore (sceneggiatura), Promethea
(1999-2005). a), b), n. 2 (settembre 1999), tavola 12. Ed. it. Promethea, vol. 1, Magic Press, 2003,
p. 54; c) n. 11 (dicembre 2000), tavola 4. Ed. it. Promethea, vol. 2, Magic Press, 2005, p. 116; d) n.
13 (aprile 2001), tavola 20. Ed. it. Promethea, vol. 3, Magic Press, 2006, p. 28; e) n. 8 (luglio
2000), tavola 3. Ed. it. Promethea, vol. 2, Magic Press, 2005, p. 37; f) come d); g) n. 21 (agosto
2002), tavola 9. Ed. it. Promethea, vol. 4, Magic Press, 2008, p. 65.
Figura 32: a) Sandman, n. 26 (maggio 1991), tavola 16. Ed it. Sandman, n. 8, Planeta DeAgostini,
p. 41; b) Promethea, n. 18 (febbraio 2002), tavola 9. Ed. it. vol. 3, Magic Press, 2006, p. 147; c)
Sandman, n. 35 (febbraio 1992), tavola 16. Ed. it. Sandman, n. 11, p. 41; d) The Books of Magic –
II Il mondo delle ombre (1990), tavola 15. Ed. it. The Books of Magic, Lion Comics – RW Edizioni,
Novara 2012, p. 72; e) Dragon Ball, cap. 417 (L’addio ai guerrieri), tavola 1. Ed. it. Dragon Ball,
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n. 51 (Star Comics), maggio 1997, p. 89; f) Promethea, n. 15 (agosto 2001), tavola 14. Ed. it. vol. 3,
Magic Press, 2006, p. 74; g) Promethea, n. 25 (maggio 2003), tavola 13. Ed. it. Promethea, vol. 4,
Magic Press, 2008, p. 181; h) come c).
1
Scott McCloud, Capire il fumetto. L’arte invisibile, Pavesio, Torino 2006 (terza ed.), p. 142. Corsivi dell’autore:
essendo in forma di fumetto, il libro di McCloud segue la convenzione secondo cui vengono riportate in grassetto
(l’equivalente fumettistico del corsivo) molte più parole che in un testo interamente scritto.
2
Non solo: pur non ricordando di fatto nessun suono, è quasi universalmente accettato che quella parola di quattro
lettere indichi uno sparo di pistola (ma come si può scrivere uno sparo di pistola?).
3
Andrea Garbuglia, La musica e i fumetti. Declinazioni di un binomio, in “Musica/Realtà”, n. 92, 2010, pp. 99-100. Il
secondo livello di lettura è quello che riguarda il lettore che sappia e voglia leggere lo spartito riportato in vignetta; un
esempio di questo livello è rintracciabile in V per Vendetta (sceneggiatura di Alan Moore, disegni di David Lloyd,
1981-1988), il cui preludio al secondo libro, Un vile cabaret, consta di cinque tavole le cui vignette sono sottolineate da
una canzone scritta sul pentagramma che accompagna la rappresentazione visiva cantata dal protagonista; composta
appositamente per il breve preludio, è accessibile solo a chi sappia solfeggiare; un altro esempio è ravvisabile in
Promethea, sempre sceneggiato da Moore ma disegnato da J. H. Williams III, quando il Pifferaio Magico rapisce dei
bambini suonando una melodia che attraversa le due tavole disegnate.
Il terzo livello è quello che permette di cogliere le eventuali incongruenze tra immagini e pentagramma e risolverne la
complessità (nel saggio di Garbuglia si fa riferimento a una storia in cui un’orchestrina dovrebbe suonare un cancan, ma
la lettura dello spartito riportato consente di identificare una canzonaccia da caserma: la soluzione che ne consegue
riporta in qualche modo al primo livello, ovvero a una accettazione della musica in quanto elemento grafico e basta, sia
essa diegetica o extra-diegetica).
I tre livelli di lettura, in realtà, si possono applicare a qualsiasi forma di citazionismo venga utilizzata in ogni medium
narrativo, non solo in riferimento alla musica nei fumetti; rimanendo comunque in ambito di arte sequenziale, si può
citare un caso da Watchmen, sempre di Moore, riguardo il personaggio di Ozymandias/Adrian Veidt: «La chiusura del
capitolo XI è tratta da un sonetto di Shelley intitolato, ovviamente, Ozymandias e cade come un sigillo sulla spaventosa
potenza di Adrian Veidt: “Il mio nome è Ozymandias, re dei re: / guardate le mie opere, voi potenti, e disperate!”. Ma
quando ricollochiamo queste parole nella poesia da cui sono state tolte troviamo che non sono che l’iscrizione sul
piedistallo di una statua divelta e dimenticata nel deserto. La poesia si chiude con questi versi: “Niente qui resta.
Intorno al consumarsi / di questo colossale relitto, sconfinate, nude / le solitarie e uniformi sabbie / vanno stendendosi
lontano”. Se ne ricava la suggestione che la gloria di Ozymandias sia destinata alla rovina e all’oblio come quella del
suo omonimo predecessore». Alessio Trabacchini, Nella rete delle citazioni, in Watchmen. 20 anni dopo, a cura di
smoky man, Lavieri, S. Angelo in Formis (CE) 2006, p. 101.
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4
Sempre in tema di suoni, ça va sans dir che, se Paperino parla, nei fumetti deve essere comprensibile, perché l’effetto
comico della sua parlata grammelot può essere reso solo nel medium cinematografico/televisivo.
5
Cfr. John Blacking, How musical is man?, University of Washington Press, Seattle-London 1973 (ed. it. Come è
musicale l’uomo?, Ricordi-LIM, Roma-Lucca 1986).
6
Non riferimenti musicali, bensì musicologici, comprensibili solo ad un secondo livello di lettura, quindi! Nella libreria
di Bruno, di sfondo, si distinguono chiaramente testi di Adorno, Alfred Einstein, Mila, Leydi, Rognoni e un volume su
Niccolò Castiglioni, oltre a vinili (disegnati con estrema cura) di Stockhausen, Schönberg (Pierrot Lunaire), Stravinskij
(L’uccello di fuoco). In primissimo piano, invece, i libri del musicologo, di formazione classica prettamente
mitteleuropea: libri di Hugo Riemann, Friedrich Chrysander, Adolf Bernhard Marx e Guido Adler, Espressionismo e
dodecafonia di Rognoni e un manuale su Hermann Kretzschmar.
7
Cfr. Jean Molino, Fait musical et sémiologie de la musique, in “Musique en jeu”, n. 17 (gennaio 1975), pp. 37-62.
8
Un altro elemento di estremo interesse sta nella somiglianza tra la raffigurazione musicale di Crepax e le partiture di
alcuni brani di musica contemporanea nei quali si sperimentano nuove possibilità grafiche ed espressive, come
Volumina (1967) di Ligeti, Four Visions (1964) di Moran o Odyssee (1964) di Logothetis. Gli esempi potrebbero essere
molto più numerosi.
9
Cfr. Arrigo Polillo, Jazz, nuova edizione aggiornata a cura di Franco Fayenz, Mondadori, Milano 1997, pp. 43-44.
10
Scott McCloud, Capire il fumetto, cit., pp. 140-141.
11
I manga josei – la cui traduzione letterale è “ladies comics” – sono un tipo di fumetto giapponese destinato a un
pubblico femminile maturo, dalle storie tendenzialmente realistiche e di impianto romantico. La loro versione per
ragazze adolescenti, gli shōjo, negli ultimi dieci anni ha invaso il mercato europeo.
12
Gli shōnen sono fumetti per adolescenti maschi, generalmente (ma non esclusivamente) di azione.
13
Bill Kartalopoulos, L’officina delle idee. Paul Karasik dialoga con Bill Kartalopoulos, in Paul Auster – Paul Karasik
– David Mazzucchelli, Città di Vetro, Coconino Press, Bologna 2011 (nuova ed.), pp. 18-19.
14
Il lettering è l’inserimento delle parole all’interno dei balloon, generalmente l’ultima parte della lavorazione.
15
Philip Tagg, Everyday Tonality. Towards a tonal theory of what most people hear, The Mass Media Music Scholars’
Press, New York & Montréal 2009, pp. 19-20.
16
Nel saggio non si è inserito il balloon tipico dei pensieri dal momento che questi non hanno rumore, ma anch’esso
rappresenta una delle convenzioni tipiche del fumetto: apparentemente fatto di fumo (molto più della voce), non è
collegato alla bocca del pensieroso, ma alla sua testa attraverso qualche piccola nuvoletta intermedia. In esempi recenti,
però, il pensiero è stato rappresentato anche come balloon privo di origine, come in questi casi.
17
Stripsody (1966) di Cathy Berberian utilizza proprio strisce a fumetti impiegate come in un collage sulla partitura.
18
Ottó Károlyi, La musica moderna. Le forme e i protagonisti da Debussy al minimalismo, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 1998, p. 174. Per le altre sonorità strumentali, cfr. pp. 174-177.
19
http://www.youtube.com/watch?v=7VTpJGeea4E&feature=plcp da 1:59-2:23 [ultima visita 26/6/2012].
20
Ivi, 0:12-0:29.
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21
Cfr. Andra Valle, La notazione musicale contemporanea. Aspetti semiotici ed estetici, EDT, Torino 2002, capitolo
Concezioni linguistiche e non linguistiche della notazione, pp. 19-65, in particolare p. 50.
22
Per descrizioni del concetto di musicologia e le sue lacune secondo Tagg e il ruolo della IASPM nei cambiamenti che
ha avuto, non ha avuto e potrebbe/dovrebbe avere, cfr. Philip Tagg, Caught on the Back Foot: Epistemic Inertia and
Visible Music, IASPM@Journal, vol. 2, n. 1-2, 2011, http://www.iaspmjournal.net/index.php/IASPM_Journal/article/view/556/574
[ultima visita 26/6/2012]
http://www.turindamsreview.unito.it
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