Cosa Nostra:
siciliana
le
regole
della
mafia
Ordinanza-Sentenza nel procedimento penale contro Abbate Giovanni +706
(Antonino Caponnetto consigliere istruttore, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello,
Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta giudici istruttori delegati), Palermo, 8
novembre 1985, vol. n.5, pp. 808-829.
Nella sentenza si descrive l'organizzazione di Cosa Nostra, secondo le
testimonianze di Buscetta. Tra le molte leggi non scritte che regolano il comportamento
mafioso, vi è anche l'obbligo di dire sempre la verità allorché si parla fra “uomini d'onore” di
questioni
comuni.
La vita di Cosa Nostra (la parola mafia è un termine letterario che non viene mai usato
dagli aderenti a questa organizzazione criminale) è disciplinata da regole rigide non scritte
ma tramandate oralmente, che ne regolamentano l'organizzazione e il funzionamento
("nessuno troverà mai elenchi di appartenenza a Cosa Nostra, né attestati di alcun tipo, né
ricevute di pagamento di quote sociali"), e così riassumibili, sulla base di quanto emerge dal
lungo
interrogatorio
del
Buscetta.
- La cellula primaria è costituita dalla "famiglia", una struttura a base territoriale, che
controlla una zona della città o un intero centro abitato da cui prende il nome (famiglia di
Porta Nuova, famiglia di Villabate e così via).
- La famiglia è composta da "uomini d'onore" o "soldati" coordinati, per ogni gruppo di
dieci, da un "capodecina" ed è governata da un capo di nomina elettiva, chiamato anche
"rappresentante", il quale è assistito da un "vice capo" e da uno o più "consiglieri".
Qualora eventi contingenti impediscano o rendano poco opportuna la normale elezione del
capo da parte dei membri della famiglia, la "commissione" provvede alla nomina di
"reggenti" che gestiranno pro tempore la famiglia fino allo svolgimento delle normali
elezioni. Ad esempio, ha ricordato Buscetta, la turbolenta "famiglia" di Corso dei Mille è
stata diretta a lungo dal reggente Francesco Di Noto fino alla sua uccisione (avvenuta il
9.6.1981); alla sua morte è divenuto rappresentante della famiglia Filippo Marchese.
Analogamente, a seguito dell'uccisione di Stefano Bontate, rappresentante della famiglia di
S. Maria di Gesù, la commissione nominava reggenti Pietro Lo Iacono e Giovanbattista
Pullarà, mentre a seguito dell'uccisione di Salvatore Inzerillo, capo della famiglia di Passo
di Rigano, veniva nominato reggente Salvatore Buscemi; così, dopo la scomparsa di
Giuseppe Inzerillo, padre di Salvatore e capo della famiglia di Uditore, veniva nominato
reggente Bonura Francesco ed analogamente, dopo l'espulsione da Cosa Nostra di Gaetano
Badalamenti, capo della famiglia di Cinisi, veniva nominato reggente Antonino
Badalamenti,
cugino
del
vecchio
capo.
- L'attività delle famiglie è coordinata da un organismo collegiale, denominato
"commissione" o "cupola", di cui fanno parte i "capi-mandamento" e, cioè, i
rappresentanti di tre o più famiglie territorialmente contigue. Generalmente, il "capo
mandamento" è anche il capo di una delle famiglie, ma, per garantire obiettività nella
rappresentanza degli interessi del "mandamento" ed evitare un pericoloso accentramento
di poteri nella stessa persona, talora è accaduto che la carica di "capo mandamento" fosse
distinta
da
quella
di
"rappresentante"
di
una
famiglia.
- La commissione è presieduta da uno dei capi-mandamento: in origine, forse per
accentuarne la sua qualità di primus inter pares, lo stesso veniva chiamato "segretario"
mentre, adesso, è denominato "capo". La commissione ha una sfera d'azione, grosso
modo, provinciale ed ha il compito di assicurare il rispetto delle regole di Cosa Nostra
all'interno di ciascuna famiglia e, soprattutto, di comporre le vertenze fra le famiglie.
- Da tempo (le cognizioni del Buscetta datano dagli inizi degli anni '50) le strutture
mafiose sono insediate in ogni provincia della Sicilia, ad eccezione (almeno fino ad un
certo
periodo)
di
quelle
di
Messina
e
di
Siracusa.
- La mafia palermitana ha esercitato, pur in mancanza di un organismo di
coordinamento, una sorta di supremazia su quella delle altre province, nel senso che
queste
ultime
si
adeguavano
alle
linee
di
tendenza
della
prima.
- In tempi più recenti, ed anche in conseguenza del disegno egemonico prefissosi dai
Corleonesi, è sorto un organismo segretissimo, denominato "interprovinciale", che ha il
compito
di
regolare
gli
affari
riguardanti
gli
interessi
di
più
province.
- Non meno minuziose sono le regole che disciplinano l' "arruolamento" degli
"uomini
d'onore"
ed
i
loro
doveri
di
comportamento.
I requisiti richiesti per l'arruolamento sono: salde doti di coraggio e di spietatezza (si
ricordi che Leonardo Vitale divenne "uomo d'onore" dopo avere ucciso un uomo); una
situazione familiare trasparente (secondo quel concetto di "onore" tipicamente siciliano, su
cui tanto si è scritto e detto) e, soprattutto, assoluta mancanza di vincoli di parentela con
"sbirri".
La prova di coraggio ovviamente non è richiesta per quei personaggi che
rappresentano, secondo un'efficace espressione di Salvatore Contorno, la "faccia
pulita" della mafia e cioè professionisti, pubblici amministratori, imprenditori che
non vengono impiegati generalmente in azioni criminali ma prestano utilissima
opera di fiancheggiamento e di copertura in attività apparentemente lecite.
Il soggetto in possesso di questi requisiti viene cautamente avvicinato per sondare la sua
disponibilità a far parte di un'associazione avente lo scopo di "proteggere i deboli ed
eliminare le soverchierie". Ottenutone l'assenso, il neofita viene condotto in un luogo
defilato dove, alla presenza di almeno tre uomini della famiglia di cui andrà a far parte, si
svolge la cerimonia del giuramento di fedeltà a Cosa Nostra. Egli prende fra le mani
un'immagine sacra, la imbratta con il sangue sgorgato da un dito che gli viene punto,
quindi le dà fuoco e la palleggia fra le mani fino al totale spegnimento della stessa,
ripetendo la formula del giuramento che si conclude con la frase: "Le mie carni debbono
bruciare
come
questa
santina
se
non
manterrò
fede
al
giuramento".
Lo status di "uomo d'onore", una volta acquisito, cessa soltanto con la morte; il
mafioso, quali che possano essere le vicende della sua vita, e dovunque risieda in Italia o
all'estero,
rimane
sempre
tale.
Proprio a causa di queste rigide regole Antonino Rotolo era inviso a Stefano Bontate (oltre
che per la sua stretta amicizia con Giuseppe Calò), essendo cognato di un vigile urbano; e
lo stesso Buscetta veniva espulso dalla mafia per avere avuto una vita familiare troppo
disordinata
e,
soprattutto,
per
avere
divorziato
dalla
moglie.
Pare, comunque, che adesso, a detta del Buscetta, a causa della degenerazione di Cosa
Nostra, i criteri di arruolamento siano più larghi e che non si vada più tanto per il sottile
nella
scelta
dei
nuovi
adepti.
L' "uomo d'onore", dopo avere prestato giuramento, comincia a conoscere i segreti di Cosa
Nostra
e
ad
entrare
in
contatto
con
gli
altri
associati.
Soltanto i Corleonesi e la famiglia di Resuttana non hanno mai fatto conoscere
ufficialmente i nomi dei propri membri ai capi delle altre famiglie, mentre era prassi che,
prima che un nuovo adepto prestasse giuramento, se ne informassero i capi
famiglia, anche per accertare eventuali motivi ostativi al suo ingresso in Cosa
Nostra.
In ogni caso, le conoscenze del singolo "uomo d'onore" sui fatti di Cosa Nostra
dipendono essenzialmente dal grado che lo stesso riveste nell'organizzazione, nel
senso che più elevata è la carica rivestita maggiori sono le probabilità di venire a
conoscenza di fatti di rilievo e di entrare in contatto con "uomini d'onore" di altre famiglie.
Ogni "uomo d'onore" è tenuto a rispettare la "consegna del silenzio": non può
svelare ad estranei la sua appartenenza alla mafia, né, tanto meno, i segreti di Cosa
Nostra; è, forse, questa la regola più ferrea di Cosa Nostra, quella che ha permesso
all'organizzazione di restare impermeabile alle indagini giudiziarie e la cui violazione è
punita
quasi
sempre
con
la
morte.
All'interno dell'organizzazione, poi, la loquacità non è apprezzata: la circolazione delle
notizie è ridotta al minimo indispensabile e l' "uomo d'onore" deve astenersi dal fare
troppe domande, perché ciò è segno di disdicevole curiosità ed induce in sospetto
l'interlocutore.
Quando gli "uomini d'onore" parlano tra loro, però, di fatti attinenti a Cosa
Nostra hanno l'obbligo assoluto di dire la verità e, per tale motivo, è buona regola,
quando si tratta con "uomini d'onore" di diverse famiglie, farsi assistere da un terzo
consociato che possa confermare il contenuto della conversazione. Chi non dice la verità
viene chiamato "tragediaturi" e subisce severe sanzioni che vanno dalla espulsione (in
tal
caso
si
dice
che
l'
"uomo
d'onore
è
posato")
alla
morte.
Così, attraverso le regole del silenzio e dell'obbligo di dire la verità, vi è la certezza che la
circolazione delle notizie sia limitata all'essenziale e, allo stesso tempo, che le notizie
riferite
siano
vere.
Questi concetti sono di importanza fondamentale per valutare le dichiarazioni rese da
"uomini d'onore" e, cioè, da membri di Cosa Nostra e per interpretarne atteggiamenti e
discorsi. Se non si prende atto della esistenza di questo vero e proprio "codice" che regola
la circolazione delle notizie all'interno di "Cosa Nostra" non si riuscirà mai a comprendere
come mai bastino pochissime parole e perfino un gesto, perché uomini d'onore si
intendano
perfettamente
tra
di
loro.
Così, ad esempio, se due uomini d'onore sono fermati dalla polizia a bordo di
un'autovettura nella quale viene rinvenuta un'arma, basterà un impercettibile cenno
d'intesa fra i due, perché uno di essi si accolli la paternità dell'arma e le conseguenti
responsabilità,
salvando
l'altro.
E così, se si apprende da un altro uomo d'onore che in una determinata località Tizio è
"combinato" (e, cioè, fa parte di Cosa Nostra), questo è più che sufficiente perché si
abbia la certezza assoluta che, in qualsiasi evenienza ed in qualsiasi momento di
emergenza, ci si potrà rivolgere a Tizio, il quale presterà tutta l'assistenza necessaria. [...]
Proprio in ossequio a queste regole di comportamento sia Buscetta sia Contorno, come
si vedrà, hanno posto una cura esasperata nell'indicare come "uomini d'onore" soltanto i
personaggi dei quali conoscevano con certezza l'appartenenza a Cosa Nostra, e cioè
soltanto coloro che avevano avuto presentati come "uomini d'onore" e coloro che
avevano avuto indicati come tali da altri uomini d'onore, anche se personalmente essi non
li
avevano
mai
incontrati.
Anche la "presentazione" di un uomo d'onore è puntualmente regolamentata dal
codice di Cosa Nostra allo scopo di evitare che nei contatti fra i membri
dell'organizzazione
si
possano
inserire
estranei.
E' escluso, infatti, che un "uomo d'onore" si possa presentare da solo, come tale, ad un
altro membro di Cosa Nostra, poiché, in tal modo, nessuno dei due avrebbe la
sicurezza di parlare effettivamente con un "uomo d'onore". Occorre, invece, l'intervento
di un terzo membro dell'organizzazione che li conosca entrambi come "uomini d'onore" e
che li presenti tra loro in termini che diano l'assoluta certezza ad entrambi
dell'appartenenza a Cosa Nostra dell'interlocutore. E, così, come ha spiegato Contorno, è
sufficiente che l'uno venga presentato all'altro, con la frase "Chistu è a stissa cosa",
(questo è la stessa cosa), perché si abbia la certezza che l'altro sia appartenente a
Cosa
Nostra.
Altra regola fondamentale di Cosa Nostra è quella che sancisce il divieto per l'uomo di
trasmigrare
da
una
famiglia
all'altra.
Questa regola, però, riferisce Buscetta, non è stata più rigidamente osservata dopo le
vicende della "guerra di mafia" che hanno segnato l'inizio dell'imbastardimento di Cosa
Nostra: infatti, Salvatore Montalto, che era il vice di Salvatore Inzerillo (ucciso nella guerra
di mafia) nella "famiglia" di Passo di Rigano, è stato nominato, proprio come premio per il
suo
tradimento,
rappresentante
della
"famiglia"
di
Villabate.
Il mafioso, come si è accennato, non cessa mai di esserlo quali che siano le
vicende
della
sua
vita.
L'arresto e la detenzione non solo non spezzano i vincoli con Cosa Nostra ma,
anzi, attivano quell'indiscussa solidarietà che lega gli appartenenti alla mafia:
infatti gli "uomini d'onore" in condizioni finanziarie disagiate ed i loro familiari vengono
aiutati e sostenuti, durante la detenzione, dalla "famiglia" di appartenenza; e spesso non
si tratta di aiuto finanziario di poco conto, se si considera che, come è notorio, "l'uomo
d'onore rifiuta il vitto del Governo" e, cioè, il cibo fornito dall'amministrazione carceraria,
per quel senso di distacco e di disprezzo generalizzato che la mafia nutre verso lo Stato.
Unica conseguenza della detenzione, qualora a patirla sia un capo famiglia, è che questi,
per tutta la durata della carcerazione, viene sostituito dal suo vice in tutte le decisioni,
dato che, per la sua situazione contingente, non può essere in possesso di tutti gli
elementi necessari per valutare adeguatamente una determinata situazione e prendere,
quindi, una decisione ponderata. Il capo, comunque, continuando a mantenere i suoi
collegamenti col mondo esterno, è sempre in grado di far sapere al suo vice il proprio
punto di vista, che però non è vincolante, e, cessata la detenzione, ha il diritto di
pretendere
che
il
suo
vice
gli
renda
conto
delle
decisioni
adottate.
Durante la detenzione è buona norma, anche se non assoluta, che l'uomo d'onore
raggiunto da gravi elementi di reità non simuli la pazzia nel tentativo di sfuggire ad una
condanna: un siffatto atteggiamento è indicativo della incapacità di assumersi le proprie
responsabilità.
Adesso, però, sembra che questa regola non sia più seguita, e, comunque, che non venga
in qualche modo sanzionata, ove si consideri che sono numerosi gli esempi di detenuti
sicuramente uomini d'onore, che hanno simulato la pazzia (vedi in questo procedimento gli
esempi di Giorgio Aglieri, Gerlando Alberti, Tommaso Spadaro, Antonino Marchese,
Gaspare
Mutolo,
Vincenzo
Sinagra
"Tempesta").
Tutto ciò, a parere di Buscetta, è un ulteriore sintomo della degenerazione degli antichi
princìpi
di
Cosa
Nostra.
Anche il modello di comportamento in carcere dell'uomo d'onore, descritto da
Buscetta,
è
radicalmente
mutato
negli
ultimi
tempi.
Ricorda infatti Tommaso Buscetta che in carcere gli "uomini d'onore" dovevano
accantonare ogni contrasto ed evitare atteggiamenti di aperta rivolta nei confronti
dell'autorità carceraria. Al riguardo, cita il suo stesso esempio: si era trovato a convivere
all'Ucciardone, per tre anni, con Giuseppe Sirchia, vice di Cavataio ed autore materiale
dell'omicidio di Bernardo Diana, il quale era vice del suo grande amico, Stefano Bontate;
ma, benché non nutrisse sentimenti di simpatia nei confronti del suo compagno di
detenzione, lo aveva trattato senza animosità, invitandolo perfino al pranzo natalizio.
Questa norma, però, non è più rispettata, come si evince dal fatto che Pietro Marchese,
uomo d'onore della famiglia di Ciaculli, è stato ucciso il 25.2.1982 proprio all'interno
dell'Ucciardone,
su
mandato
della
"commissione",
da
altri
detenuti.
Unica deroga al principio della indissolubilità del legame con Cosa Nostra è la espulsione
dell'uomo d'onore, decretata dal "capo famiglia" o, nei casi più gravi, dalla
"commissione" a seguito di gravi violazioni del codice di Cosa Nostra, e che non di rado
prelude all'uccisione del reo. L'uomo d'onore espulso, nel lessico mafioso, è "posato".
Ma neanche l'espulsione fa cessare del tutto il vincolo di appartenenza all'organizzazione,
in quanto produce soltanto un effetto sospensivo che può risolversi anche con la
reintegrazione
dell'uomo
d'onore.
Pertanto l'espulso continua ad essere obbligato all'osservanza delle regole di Cosa Nostra.
Lo stesso Buscetta, a causa delle sue movimentate vicende familiari, era stato "posato"
dal suo capo famiglia Giuseppe Calò, il quale poi gli aveva detto di non tenere conto di
quella sanzione ed anzi gli aveva proposto di passare alle sue dirette dipendenze. Anche
Gaetano Badalamenti, nel 1978, benché fosse capo di Cosa Nostra, era stato espulso
dalla "commissione", per motivi definiti gravissimi, su cui però Buscetta non ha saputo
(o
voluto)
dire
nulla.
L'uomo d'onore posato non può trattenere rapporti con altri membri di Cosa Nostra, i quali
sono tenuti addirittura a non rivolgergli la parola. E proprio basandosi su questa regola,
Buscetta si era mostrato piuttosto scettico sulla possibilità che il Badalamenti, benché
"posato", fosse coinvolto nel traffico di stupefacenti con altri uomini d'onore; sennonché,
venuto a conoscenza delle prove obiettive acquisite dall'ufficio, si è dovuto ricredere ed ha
commentato
che
"veramente
il
danaro
ha
corrotto
tutto
e
tutti".
Anche la vicenda della espulsione di Buscetta da parte di Calò appare nebulosa.
Il Buscetta, infatti, aveva avuto comunicata la sua espulsione addirittura da Gaetano
Badalamenti e durante la detenzione non aveva ricevuto, come d'uso per i "posati", alcun
aiuto finanziario da parte della sua "famiglia"; per contro il suo capo famiglia Pippo Calò lo
aveva esortato a non tenere conto di quanto andava dicendo quel "tragediaturi" di
Badalamenti e si era scusato per la mancanza di aiuto finanziario, assumendo che non era
stato informato; aveva notato inoltre che in carcere gli altri uomini d'onore intrattenevano
con
lui
normali
rapporti,
come
se
nulla
fosse
accaduto.
Altra regola fondamentale di Cosa Nostra è l'assoluto divieto per l'"uomo
d'onore" di fare ricorso alla giustizia statuale. Unica eccezione, secondo il
Buscetta, riguarda i furti di veicoli, che possono essere denunziati alla polizia
giudiziaria per evitare che l'uomo d'onore, titolare del veicolo rubato, possa venire
coinvolto in eventuali fatti illeciti commessi con l'uso dello stesso; naturalmente, può
essere denunciato soltanto il fatto obiettivo del furto, ma non l'autore.
Del divieto di denunciare i furti, vi è in atti un riscontro persino umoristico
riguardante il capo della "commissione", Michele Greco. Carla De Marie, titolare di una
boutique a Saint Vincent, era solita fornire alla moglie di Michele Greco capi di
abbigliamento che spediva a Palermo, tramite servizio ferroviario, regolarmente assicurati
contro il furto. Una volta, il pacco era stato sottratto ad opera di ignoti durante il trasporto,
e la De Maria aveva più volte richiesto telefonicamente alla signora Greco di denunciare il
furto, essendo ciò indispensabile perché la compagnia assicuratrice rifondesse il danno.
Ebbene, la moglie di Michele Greco, dopo di avere reiteratamente fatto presente alla De
Marie che il marito non aveva tempo per recarsi alla polizia per presentare la denunzia,
aveva preferito pagare i capi di abbigliamento, nonostante che non li avesse mai ricevuti.
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MATERIALE REPERITO SU SPORTELLO SCUOLA E UNIVERSITA'
DELLA COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA
http://www.camera.it/_bicamerali/leg15/commbicantimafia/documentazionetematica/30/schedabase
.asp
Mafie italiane
Descrizione del fenomeno
Diverse sono le ipotesi etimologiche del termine mafia. La più accreditata ritiene che il termine sia
di origine araba e derivi dai seguenti termini: mafi, che significa "non c'è"; mahias, inteso come
spacconeria; màhfal, inteso come adunanza, riunione di persone; maha, inteso come cava di pietra,
in riferimento alle cave di pietra di Marsala e Trapani dove trovarono rifugio i fuggiaschi sin dai
tempi dei saraceni; mu inteso come salvezza e afah inteso come proteggere e tutelare.
Il termine mafia, nel linguaggio corrente, viene utilizzato per descrivere organizzazioni criminali
segrete formate da uomini (e donne), dotate di eserciti privati, armi e capitali, il cui fine è
quello di commettere reati per arricchirsi rapidamente ed impunemente controllando,
attraverso l'esercizio della violenza e dell'intimidazione, il territorio nel quale agiscono.
Maggiore è la ricchezza di cui le mafie dispongono maggiore è il loro potere. Il Presidente della
Commissione parlamentare antimafia ha affermato che il fatturato criminale attuale delle mafie
italiane ammonterebbe a cento mila milioni di euro1 . Una parte di questo denaro viene investita
nelle attività illecite - narcotraffico, di armi, di rifiuti, di esseri umani, estorsioni e usura - un'altra
parte viene riciclata e investita in attività lecite, come ad esempio acquisto di immobili, di quote di
aziende, di titoli azionari e di Stato. Il riciclaggio del denaro sporco viene generalmente effettuato in
aree a non tradizionale presenza mafiosa, come ad esempio l'Italia centrale e settentrionale nonché
in alcuni paesi esteri, europei ed extraeuropei. La prova dell'esistenza di questi investimenti nonché
del fatto che le mafie non sono soltanto un problema che riguarda alcune regioni meridionali
italiane è dimostrato dai dati delle confische dei beni oltre che dalle inchieste giudiziarie avviate in
diversi tribunali italiani.
Data la loro natura e considerate le loro finalità le mafie possono definirsi una particolare forma di
crimine organizzato. Infatti, a differenza di altre forme delinquenziali, per raggiungere i loro
obiettivi - arricchimento, potere e impunità - le mafie necessitano di avere rapporti con
esponenti del mondo politico, imprenditoriale, economico-finanziario, investigativogiudiziario, ossia con tutti quei soggetti rientranti nella categoria della cosiddetta "borghesia
mafiosa", formata da soggetti insospettabili in grado di assicurare ai mafiosi specifici servizi e
relazioni. Ai mafiosi, infatti, interessa fare affari, riciclare capitali illeciti, esercitare il potere e
arricchirsi riducendo non solo i costi economici ma altresì quelli di carattere penale (carcere e
confisca dei beni). Il massimo guadagno va ottenuto con il minor costo, compresa l'impunità.
I mafiosi agiscono secondo una logica utilitaristica: tutto quello che conviene
all'organizzazione va fatto, tutto quello che nuoce o può nuocere alla stessa va evitato. Un
esempio in tal senso è rappresentato dall'uso della violenza. Contrariamente a quello che si è portati
a pensare, i mafiosi utilizzano con molta attenzione la violenza. Infatti, se usata in forme tali da
creare un elevato allarme sociale, come accadde con le stragi in Sicilia del 1992 e con le bombe
scoppiate a Firenze, Milano e Roma nel 1993, la violenza crea allarme sociale ed attira l'attenzione
dei mass media, delle forze dell'ordine, della magistratura. In questo modo i rischi legati alla
possibilità di essere arrestati e di vedersi confiscare le ricchezze accumulate aumentano
sensibilmente. I mafiosi, dunque, utilizzano le armi soltanto quando con altri strumenti - la
corruzione, l'intimidazione e la minaccia - non riescono a raggiungere i fini prestabiliti. Tenere
conto di questa situazione permette di evitare di cadere nell'errore in base al quale si crede che le
mafie esistano esclusivamente quando sparano. Al contrario, quando le armi tacciono, anche se ai
più può apparire un paradosso, è segno che tra i mafiosi e le persone che con loro sono in rapporto,
si è trovato un punto di equilibrio che soddisfa tutte le parti in gioco. Gli affari illeciti e "leciti" si
possono svolgere senza ricorrere all'omicidio.
Il potere delle mafie si fonda principalmente sulla segretezza, sull'omertà, sul silenzio. È per
questo motivo che in anni recenti coloro che hanno tradito le mafie collaborando con lo Stato - i
collaboratori di giustizia - sono divenuti oggetto di vendette trasversali molto cruente che si sono
risolte spesso con l'uccisione dei loro famigliari e dei loro parenti più stretti.
Le mafie non possono essere considerate come "piovre" o "cancri". L'utilizzo di queste
metafore non può ritenersi corretto in quanto induce erroneamente a pensare che le mafie siano
invisibili, imprendibili e, conseguentemente, invincibili. Così non è e a testimoniarlo è il fatto che in
Italia nel corso del tempo sono state svolte inchieste giudiziarie, parlamentari e giornalistiche molto
complesse ed importanti, sono stati arrestati capi e latitanti di prim'ordine (es. Bernardo
Provengano, Totò Riina), sono state confiscate ricchezze illecitamente accumulate per più di 400
milioni di euro.
Un altro elemento importante da considerare è costituito dalla capacità delle organizzazioni
mafiose di coniugare la tradizione alla modernità. In questo senso è bene tenere conto di due
aspetti: il primo è che si entra in una organizzazione mafiosa sottoponendosi ad un rito di
affiliazione2 , pronunciando un giuramento solenne nell'ambito di una cornice altamente simbolica
e codificata, in cui si fa ricorso ad immagini e formule sacre; il secondo è che le mafie si
comportano come delle vere e proprie imprese, anzi come holding economico-finanziarie che
agiscono a livello nazionale e internazionale, unendo alle classiche attività illecite anche la capacità
di inserirsi nel sistema economico e politico di un determinato territorio. Costituisce dunque un
errore il considerare le mafie come fattori di arretratezza di un territorio. Al contrario esse
rappresentano i soggetti più dinamici di una modernizzazione distorta che ha investito in particolare
il Mezzogiorno.
Secondo la maggioranza degli storici le mafie sarebbero nate nel Mezzogiorno d'Italia nel
periodo dell'unità nazionale (1860). Esse dunque non costituiscono un'emergenza dei nostri
giorni, ma un elemento da allora sempre presente nella storia d'Italia. Per lungo tempo nel nostro
Paese la presenza delle mafie è stata negata, anche a livello istituzionale. Si pensi che il primo
utilizzo del termine "mafia" nell'accezione di "gruppo di delinquenti" fu compiuto non in un'aula di
tribunale ma nella rappresentazione della commedia teatrale di Giuseppe Rizzotto, intitolata I
mafiusi di la Vicaria, nel 1862. Storicamente siamo passati da una mafia di tipo agrario (1861- anni
'50 del XX secolo), ad una di tipo urbano-imprenditoriale (anni '60 del XX secolo) ad una di tipo
finanziario (dagli anni '70 del XX secolo in poi) che si è sempre più internazionalizzata sino a
globalizzarsi tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni novanta.
Diverse sono le cause che hanno permesso la globalizzazione delle mafie. In primo luogo i beni
trattati: i sodalizi mafiosi commerciano in prodotti che vengono realizzati in un luogo e utilizzati in
un altro. È questo il caso dei tabacchi lavorati esteri, delle sostanze stupefacenti e delle armi. Il
passaggio di queste merci da uno Stato all'altro avviene eludendo controlli, corrompendo chi deve
vigilare sui transiti e sui pagamenti. Tutto ciò rafforza i vincoli fra le organizzazioni criminali i cui
vertici hanno stabilito dei veri e propri accordi. Un secondo fattore che ha favorito
l'internazionalizzazione del mondo criminale è da rintracciarsi nella globalizzazione dell'economia.
Quest'ultima ha comportato il progressivo abbattimento delle frontiere nazionali la sempre più
libera e non controllata circolazione di beni e capitali, oltre che di persone. A fronte di questa
situazione, procede lentamente l'elaborazione di regole comuni da parte degli Stati per contrastare il
crimine organizzato e i suoi traffici sul piano internazionale, anche se dei passi significativi in
questa direzione sono stati compiuti con la costituzione di organi come Europol e Eurojust e
l'entrata in vigore della Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale delle Nazioni
Unite. Il terzo ed il quarto fattore di internazionalizzane delle mafie sono rappresentati
rispettivamente dall'inserimento dei gruppi mafiosi nella gestione dei flussi migratori e dalla loro
necessità e capacità di investire e riciclare i proventi illecitamente accumulati nelle economie legali
di paesi stranieri.
A livello giuridico le organizzazioni mafiose sono definite e sanzionate dall'articolo 416-bis del
codice penale, introdotto con la legge 13 settembre 1982, n. 646, meglio conosciuta come "Legge
Rognoni-La Torre", dal nome dei proponenti del provvedimento, l'onorevole Pio La Torre,
segretario regionale del Partito Comunista Italiano, ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, e il Ministro
dell'Interno Virginio Rognoni. La legge fu rapidamente approvata dopo l'omicidio del generale
Carlo Alberto Dalla Chiesa (Prefetto di Palermo), della moglie Emanuela Setti Carraro e dell'agente
di scorta Domenico Russo, avvenuto a Palermo il 3 settembre 1982.
Cosa Nostra
Fu nel 1984 che il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta rivelò al giudice Giovanni Falcone
che i mafiosi siciliani, gli "uomini d'onore", definivano l'organizzazione criminale a cui
appartenevano "Cosa Nostra".
La mafia siciliana è nata nella Sicilia Occidentale nei primi dell'800. Ha una struttura piramidale e
verticistica. La famiglia è il suo organo di base. Contrariamente a quanto avviene per la 'Ndrangheta
calabrese, con tale termine non si deve intendere un insieme di persone legate tra di loro da legami
di sangue. La famiglia della mafia siciliana è retta da un rappresentante, di nomina elettiva, e
controlla un determinato territorio (es. borgata o un quartiere di una città). Palermo, storicamente, è
il centro delle attività e delle decisioni di Cosa Nostra.
A partire dalla seconda metà degli anni '50, su indicazione di Cosa Nostra americana, anche in
Sicilia la mafia si è dotata di una struttura gerarchica superiore denominata "Commissione" o
"Cupola", di cui fanno parte i capi dell'organizzazione dislocati nelle diverse province dell'isola.
Alla base della piramide mafiosa vi sono i "picciotti" o "soldati", che costituiscono l'esercito di
Cosa Nostra; salendo si trova la figura del "capodecina" che controlla l'operato di dieci uomini;
ancora più in alto la figura del "capo mandamento" (il mandamento è un insieme di tre famiglie
territorialmente contigue). I capi mandamento fanno parte della "commissione provinciale". Quando
un capo mandamento o un capo famiglia viene arrestato, il suo posto è occupato da un "reggente"
provvisorio.
In Cosa Nostra vigono rigide norme di comportamento e l'entrata nell'organizzazione avviene per
"chiamata". Un soggetto, dopo essere stato sottoposto ad un periodo di osservazione per valutarne le
capacità criminali, viene avvicinato e invitato, con l'autorizzazione del capo della famiglia, a
partecipare al compimento di alcune azioni delittuose insieme a persone già membre di Cosa
Nostra. In questo caso la persona è da considerarsi un "affiliato". Per diventare "picciotto" deve
sottoporsi ad un rito di affiliazione, al quale partecipano altri mafiosi. Il prescelto recita un
giuramento solenne con il quale giura fedeltà eterna all'organizzazione, passandosi tra le mani
un'immagine sacra sulla quale, in precedenza, sono state fatte cadere alcune gocce di sangue di un
dito che gli è stato punto (punciutu). Una regola fondamentale per Cosa Nostra è quella per cui non
possono far parte dell'organizzazione persone imparentate con magistrati e membri delle forze
dell'ordine.
Nel corso degli anni '90 del XX secolo, al fine di ridurre i danni provocati dai collaboratori di
giustizia (arresti e confische di beni), Cosa Nostra ha in parte modificato la sua struttura seguendo
una logica di compartimentazione mutuata dalla 'Ndrangheta. I membri di un gruppo conoscono
soltanto il loro capo e gli altri partecipanti al consesso. Essi, dunque, conoscono una parte
dell'organizzazione, non tutto il suo insieme. La compartimentazione, in tal modo, riduce il grado di
conoscenza di Cosa Nostra che un affiliato, una volta arrestato, può eventualmente confessare agli
inquirenti. Va ricordato che Cosa Nostra ha assassinato i parenti più stretti di alcuni membri
dell'organizzazione mafiosa che hanno deciso di collaborare con lo Stato. Uno dei casi recenti più
efferati è stato certamente il rapimento, la successiva carcerazione durata due anni, lo
strangolamento e lo scioglimento del corpo nell'acido di Giuseppe Di Matteo, undici anni, figlio di
Santino Di Matteo, membro di Cosa Nostra divenuto collaboratore di giustizia.
Cosa Nostra ha sempre cercato legami con il potere politico, in particolar modo con chi deteneva e
detiene il potere, sia per fare affari sia per garantirsi l'impunità. Una delle prime figure di mafioso ai
tempi del latifondismo è rappresentata dai gabelloti, persone che prendevano in affitto il terreno del
feudatario, pagando a quest'ultimo una gabella. Molti gabelloti per controllare il lavoro nei campi e
scoraggiare i furti, si avvalevano dei cosiddetti "campieri", una sorta di polizia privata del feudo. I
gabelloti affittavano a loro volta i terreni ai contadini per un prezzo nettamente superiore alla
gabella. Inoltre, con la collaborazione dei "campieri" e di loro uomini di fiducia denominati
"soprastanti", i gabelloti sedavano con la violenza le richieste dei lavoratori.
La mafia siciliana, come ricordato nella Relazione sui rapporti tra Mafia e politica della
Commissione parlamentare antimafia della XI legislatura1 , è stata utilizzata anche per sedare in
modo repressivo e violento le rivolte dei contadini siciliani, riuniti nei fasci, che chiedevano
l'abolizione del latifondo e la distribuzione delle terre. Cosa Nostra ha ucciso diversi sindacalisti e
devastato alcune camere del lavoro. La mafia siciliana, infine, ha compiuto efferati omicidi di
carattere sia punitivo (non rispetto degli accordi) sia preventivo (evitare l'approvazione di certi
provvedimenti) nei confronti di uomini politici e di rappresentanti delle istituzioni.
Dopo essere nata nelle campagne controllando i mercati ortofrutticoli, essersi trasferita in città per
controllare gli appalti, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 del XX secolo, Cosa Nostra
ha visto incrementare la propria ricchezza in modo esponenziale entrando nel mercato
internazionale degli stupefacenti. La decisione di entrare in questo lucroso affare, nettamente più
redditizio del contrabbando di sigarette, scatenò una guerra di mafia che causò la morte di centinaia
di persone e che portò al potere i Corleonesi.
I corleonesi, a differenza di altri gruppi, hanno sempre esercitato con particolare ferocia la violenza.
Nel 1992, rispettivamente il 23 maggio a Capaci (Pa) e il 19 luglio in via Mariano D'Amelio a
Palermo, Cosa Nostra, capeggiata dal corleonese Salvatore Riina, assassinò con due grandi stragi
che colpirono e allarmarono l'opinione pubblica i suoi nemici principali: i giudici Giovanni Falcone
- di cui fu assassinata anche la moglie Francesca Morvillo - e Paolo Borsellino, nonché gli agenti
che componevano le loro scorte. Nel 1993 Cosa Nostra fece scoppiare delle autobomba nelle città di
Milano, Firenze e Roma, causando la morte di alcuni cittadini inermi e danneggiando pesantemente
il patrimonio artistico di quelle città. Il fine di queste bombe era richiedere alle istituzioni dello
Stato repubblicano di scendere a patti, modificando alcune leggi di contrasto alle mafie. Di fronte a
questa violenza lo Stato italiano reagì prontamente arrestando non solo Salvatore Riina, latitante da
più di vent'anni, ma anche altri importanti esponenti di spicco di Cosa Nostra siciliana. Il comando
dell'organizzazione è passato in seguito nella mani di Bernardo Provenzano.
Quest'ultimo, comunicando con altri esponenti di Cosa Nostra mediante l'utilizzo di fogliettini di
carta redatti con una vecchia macchina da scrivere e denominati "pizzini", ha optato per una
strategia di "inabissamento" della mafia siciliana, ha impartito l'ordine di evitare l'uso eccessivo ed
eclatante della violenza, ha fatto in modo che la mafia ritornasse a fare i suoi affari senza suscitare
allarme sociale. Alla violenza si è preferito la corruzione, il controllo del territorio è stato garantito
dall'esercizio delle estorsioni, gli ingenti capitali sono stati realizzati trafficando in sostanze
stupefacenti, instaurando rapporti con le altre mafie italiane e con mafiosi albanesi, dell'Est Europa
e della Colombia, infiltrandosi nel sistema degli appalti pubblici, accaparrandosi, mediante un
sofisticato sistema di truffe, di quote ingenti dei cosiddetti fondi strutturali europei. Il denaro
illecitamente accumulato è stato riciclato grazie al concorso di professionisti insospettabili. Gli
investimenti sono stati fatti in attività economiche lecite, non solo in Sicilia, ma soprattutto in altre
regioni italiane e in alcuni paesi stranieri.
Bernardo Provenzano, dopo quarantatrè anni di latitanza, è stato arrestato l'11 aprile 2006, a
Corleone, in località Montagna dei Cavalli. Tra i papabili alla sua successione figurano il boss
latitante Matteo Messina Denaro (capo di Cosa Nostra nella provincia di Trapani) e il boss
Salvatore Lo Piccolo (Capo del mandamento di San Lorenzo, che tuttavia ha esteso la propria
influenza alla parte occidentale del territorio della provincia di Palermo). Quest'ultimo è stato
arrestato a Giardinello, località in prossimità di Carini (Pa) il 5 novembre 2007, insieme al figlio
Sandro e ai boss mafiosi Andrea Adamo, reggente del quartiere di Brancaccio, e Gaspare Pulizzi,
capo della mafia a Carini.
Secondo le più recenti analisi sul fenomeno effettuate dalla Direzione Nazionale Antimafia,
l'aspetto probabilmente più caratterizzante della criminalità organizzata siciliana è la presenza di
un'area "grigia" della società costituita da elementi o gruppi, che, pur non facendo parte integrante
dell'organizzazione, stabiliscono con essa contatti, collaborazioni, forme di contiguità più o meno
strette. Nel rapporto tra mafia e società è dunque rinvenibile un blocco sociale mafioso che è di
volta in volta complice, connivente, o caratterizzato da una neutralità indifferente. Tale blocco
comprende una "borghesia mafiosa" fatta di tecnici, di esponenti della burocrazia, di professionisti,
imprenditori e politici, che o sono strumentali o interagiscono con la mafia in una forma di scambio
permanente fondato sulla difesa di sempre nuovi interessi comuni. La cosiddetta "zona grigia"
rappresenta a ben vedere la vera forza della mafia: essa è costituita da individui e/o gruppi che
vivono nella legalità e forniscono un fondamentale supporto di consulenza per le questioni legali,
gli investimenti, l'occultamento di fondi, la capacità di manovrare l'immenso potenziale economico
dell'organizzazione criminale. Presenze di Cosa Nostra al di fuori della Sicilia si riscontrano nelle
seguenti regioni: Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Lazio.
(1)Commissione
parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminali similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, Atti parlamentari, XI legislatura, Doc.
XXIII, n. 2, Relatore Luciano Violante.
MINORI E MAFIA
Descrizione del fenomeno
È un fatto ormai riconosciuto, anche processualmente, che le organizzazioni mafiose reclutano tra le
loro fila molti giovani poco più che adolescenti e che esse si avvalgono per lo svolgimento di
specifiche attività illecite, come lo spaccio di droga, di ragazzi minorenni.
Molti di questi giovani, in particolare nel Mezzogiorno, vengono reclutati in quartieri ad alta
disoccupazione, in cui vige da sempre la regola del più forte, della violenza, provengono da
famiglie disagiate, spesso hanno abbandonato la scuola. I giovani sono affascinati dal carisma dei
leader mafiosi, in particolare di quelli latitanti, i quali ai loro occhi sono ritenuti più forti dello Stato
che è incapace di catturarli. Il boss mafioso, per questi giovani, diventa un modello di riferimento,
una persona di cui fidarsi.
La mafia per questi ragazzi rappresenta la risposta al loro bisogno di ricerca di un senso di identità,
di appartenenza, di rispetto, di ricchezza. Questi ragazzi sono attratti dal mondo mafioso in quanto
in esso vedono la possibilità di arricchimento rapido, pensano al fatto che una volta divenuti
"uomini d'onore", essi saranno temuti e rispettati dagli altri. La mafia, inoltre, offre protezione e
sostegno quando necessario, ma non ammette alcuna disobbedienza. Chi viola la regola dell'omertà
o commette un reato senza esserne stato autorizzato dal responsabile di quel territorio, muore.
I minorenni vengono impiegati in diverse attività: dallo spaccio della droga al compimento di atti
estortivi. In quest'ultimo caso è da rimarcare il fatto che le estorsioni sono una delle modalità
mediante la quale le organizzazioni mafiose mettono alla prova i giovani, chiedendo loro di
dimostrare coraggio, capacità di utilizzare la violenza e di intimidire. I minorenni, come è già
accaduto, sono purtroppo impiegati anche per la commissione di omicidi e per questo sono stati
definiti "baby killer". Il carcere è una situazione che molti ragazzi mettono in conto di dover
affrontare. La reclusione è considerata un attestato di professionalità criminale da esibire ai propri
coetanei in libertà e, soprattutto, ai capi delle organizzazioni malavitose.
Parlando di minori e mafia non si possono dimenticare i ragazzi che vivono in famiglie mafiose, i
quali non solo hanno da sempre respirato aria di violenza e di prevaricazione ma, magari, hanno
visto uccidere i loro padri, fratelli, parenti. In questi casi, secondo il codice d'onore mafioso, deve
scattare la vendetta, per cui violenza richiama violenza. Si pensi, inoltre, ai minori figli di mafiosi
che hanno deciso di collaborare con la giustizia o ai minorenni diventati essi stessi testimoni di
giustizia avendo fornito informazioni importanti per la scoperta di alcuni reati, come ad esempio la
giovane Rita Atria. Questi bambini o ragazzi hanno visto cambiare radicalmente la loro vita
nell'arco di un tempo brevissimo, sono stati sradicati dal loro ambiente e sono stati sottoposti ad uno
specifico programma di protezione.
A partire dagli anni novanta del XX secolo, come riportano i dati statistici, è stata riscontrata
l'utilizzazione di minorenni per lo svolgimento di attività illecite anche da parte di gruppi
delinquenziali di tipo mafioso provenienti da paesi stranieri, in particolare dell'Est Europa.
Giovani ragazze sono costrette all'esercizio della prostituzione e piccoli bambini sono impiegati in
attività quali l'accattonaggio, i furti, gli scippi. Sia le une che gli altri sono le principali vittime del
traffico di esseri umani.
E' bene ricordare che le organizzazioni mafiose non temono soltanto l'operato delle forze dell'ordine
e della magistratura, ma anche quello delle scuole, delle associazioni di volontariato, delle
parrocchie, dei servizi sociali che si propongono di offrire a questi ragazzi che potenzialmente
possono essere reclutati dai mafiosi o che lo sono già stati, non solo delle opportunità di vita e di
lavoro alternative a quelle criminali, ma soprattutto propongono una cultura della legalità e della
solidarietà radicalmente alternativa a quella mafiosa. Per questo, ad esempio, in Sicilia è stato
assassinato don Pino Puglisi, ed è per la medesima ragione che molte scuole del sud Italia sono
oggetto di atti vandalici e le persone che in esse vi operano sono oggetto di pesanti atti intimidatori.
Il Ministero dell'interno ha attivato un apposito numero telefonico il 114 dedicato a tutti i minori
che si trovano in una situazione di emergenza e di disagio.
La Polizia di Stato ha attivato un sito dedicato ai bambini scomparsi.
Minori e mafia Dati statistici
Minori di anni 18 italiani e stranieri (distinti per nazionalità) denunciati e arrestati per associazione di tipo
mafioso. Anni 2004-2006
Totale per
nazionalità
Denunciati Arrestati Denunciati Arrestati Denunciati Arrestati Denunciati Arrestati
48
23
29
12
40
31
117
66
0
0
1
0
0
1
1
1
2004
2005
2006
Nazione
Italia
Germania
Serbia0
0
1
0
0
Montenegro
Iraq
0
0
1
0
0
Romania
1
0
0
0
0
Ucraina
1
0
0
0
1
Luogo
5
0
1
0
1
ignoto
Totale
55
23
33
12
42
Fonte: Ministero dell'Interno - Direzione centrale polizia criminale
Minori di anni 18 denunciati per estorsione. Anni 1984-2007 (al 31 agosto)
Anno
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
N° denunciati
144
108
108
121
96
117
110
121
143
131
152
132
129
135
0
1
0
0
0
0
1
1
2
0
0
0
0
7
0
32
130
67
1998 139
1999 166
2000 132
2001 137
2002 205
2003 140
2004 306
2005 265
2006 239
2007 243
Totale 3.719
Fonte: Ministero dell'Interno
Vittime : BIBLIOGRAFIA (citati anche testi su don Puglisi)
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AA. VV.
Vite ribelli. Dieci destini controcorrente
Sperling & Kupfer, Milano, 2007
G. Monticciolo, V. Vasile
Era il figlio di un pentito
Bompiani, Milano, 2007
G. Siani
Le parole di una vita. Gli scritti giornalistici
Phoebusedizioni, Casalnuovo di Napoli, 2007
R. Giuè
Il costo della memoria. Don Peppe Diana. Il prete ucciso dalla camorra
Paoline Editoriale Libri, Milano, 2007
S. Rizza, G. Lo Bianco
L' agenda rossa di Paolo Borsellino
Chiarelettere, Milano, 2007
AA VV
Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio. La relazione della Commissione
parlamentare antimafia
Editori Riuniti, Roma, 2006
AA VV
Vivi
21.03.1996-2006 giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie
Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2006
F. Deliziosi
Don Puglisi. Vita del prete palermitano ucciso dalla mafia
Mondadori, Milano, 2006
G. Monti
Falcone e Borsellino. La calunnia, il tradimento, la tragedia
Editori Riuniti, Roma, 2006
L. Zingales
Rocco Chinnici L'inventore del "pool" antimafia
Limina, Arezzo, 2006
M. Andolfo
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
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Il diario di Annalisa
Pironti, Napoli, 2005
R. Agasso
Il caso Ambrosoli. Mafia, affari, politica
San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo, 2005
B. Monroy
Portella della Ginestra. Indice dei nomi
Ediesse, Roma, 2005
C. Stajano
Un eroe borghese
Einaudi, Torino, 2005
L. Zingales
Paolo Borsellino. Una vita contro la mafia
Limina, Arezzo, 2005
L. Garlando
Per questo mi chiamo Giovanni
Fabbri editori, Milano, 2004
N. Dalla Chiesa
Delitto imperfetto. Il generale, la mafia, la società italiana
Editori Riuniti, Roma, 2003
F. La Licata
Storia di Giovanni Falcone
Feltrinelli, Milano, 2003
U. Lucentini
Paolo Borsellino
San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo, 2003
B. Stancanelli
A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario
Einaudi, Torino, 2003
E. Bellavia Enrico, S. Palazzolo
Falcone Borsellino. Mistero di Stato
Edizioni della Battaglia, Palermo, 2002
A. Franchini
L'abusivo
Marsilio, Venezia, 2001
R. Scifo
Vittime assolute: storie di bambini nell'ambiente mafioso
Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1997
AA. VV.
Il sogno di Paolo Borsellino: organizzare la Speranza
Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996
A. Prestifilippo
Scopelliti, Morte di un giudice solo
Periferia, Cosenza 1995
C. Fava
Nel nome del padre
Baldini & Castoldi, Milano, 1996
S. Vitale
Nel cuore dei coralli. Peppino Impastato, una vita contro la mafia
Rubbettino, Soveria Mannelli, 1995
G. Falcone
Interventi e proposte (1982-1992)


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Sansoni, Milano, 1994
S. Rizza
Una ragazza contro la mafia : Rita Atria, morte per solitudine
La Luna, Palermo, 1993
S. Vassalli
Il cigno
Einaudi, Torino, 1993
N. Dalla Chiesa
Il giudice ragazzino
Einaudi, Torino, 1992
Minori e mafia : BIBLIOGRAFIA
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
R. Priore, G. Lavanco (a cura di)
Minori e organizzazioni mafiose: analisi del fenomeno e ipotesi di intervento
Franco Angeli, Milano, 2007
M. Cavallo
Le nuove criminalità . Ragazzi vittime e protagonisti
Franco Angeli, Milano, 1995
F. Occhogrosso
Ragazzi della mafia. Storie di criminalità e contesti minorili, voci dal carcere, le reazioni ed
i sentimenti, i ruoli e le proposte
Franco Angeli, Milano, 1993
M. Calvi
C'era una volta l'infanzia. Uno sguardo sulla criminalità minorile
Dedalo, Bari, 1991
AA. VV.
Il sentire mafioso: percezione e valutazione di eventi criminosi nella preadolescenza
Milano, Giuffrè , 1989
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Cosa Nostra: le regole della mafia siciliana