Cosa Nostra: siciliana le regole della mafia Ordinanza-Sentenza nel procedimento penale contro Abbate Giovanni +706 (Antonino Caponnetto consigliere istruttore, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta giudici istruttori delegati), Palermo, 8 novembre 1985, vol. n.5, pp. 808-829. Nella sentenza si descrive l'organizzazione di Cosa Nostra, secondo le testimonianze di Buscetta. Tra le molte leggi non scritte che regolano il comportamento mafioso, vi è anche l'obbligo di dire sempre la verità allorché si parla fra “uomini d'onore” di questioni comuni. La vita di Cosa Nostra (la parola mafia è un termine letterario che non viene mai usato dagli aderenti a questa organizzazione criminale) è disciplinata da regole rigide non scritte ma tramandate oralmente, che ne regolamentano l'organizzazione e il funzionamento ("nessuno troverà mai elenchi di appartenenza a Cosa Nostra, né attestati di alcun tipo, né ricevute di pagamento di quote sociali"), e così riassumibili, sulla base di quanto emerge dal lungo interrogatorio del Buscetta. - La cellula primaria è costituita dalla "famiglia", una struttura a base territoriale, che controlla una zona della città o un intero centro abitato da cui prende il nome (famiglia di Porta Nuova, famiglia di Villabate e così via). - La famiglia è composta da "uomini d'onore" o "soldati" coordinati, per ogni gruppo di dieci, da un "capodecina" ed è governata da un capo di nomina elettiva, chiamato anche "rappresentante", il quale è assistito da un "vice capo" e da uno o più "consiglieri". Qualora eventi contingenti impediscano o rendano poco opportuna la normale elezione del capo da parte dei membri della famiglia, la "commissione" provvede alla nomina di "reggenti" che gestiranno pro tempore la famiglia fino allo svolgimento delle normali elezioni. Ad esempio, ha ricordato Buscetta, la turbolenta "famiglia" di Corso dei Mille è stata diretta a lungo dal reggente Francesco Di Noto fino alla sua uccisione (avvenuta il 9.6.1981); alla sua morte è divenuto rappresentante della famiglia Filippo Marchese. Analogamente, a seguito dell'uccisione di Stefano Bontate, rappresentante della famiglia di S. Maria di Gesù, la commissione nominava reggenti Pietro Lo Iacono e Giovanbattista Pullarà, mentre a seguito dell'uccisione di Salvatore Inzerillo, capo della famiglia di Passo di Rigano, veniva nominato reggente Salvatore Buscemi; così, dopo la scomparsa di Giuseppe Inzerillo, padre di Salvatore e capo della famiglia di Uditore, veniva nominato reggente Bonura Francesco ed analogamente, dopo l'espulsione da Cosa Nostra di Gaetano Badalamenti, capo della famiglia di Cinisi, veniva nominato reggente Antonino Badalamenti, cugino del vecchio capo. - L'attività delle famiglie è coordinata da un organismo collegiale, denominato "commissione" o "cupola", di cui fanno parte i "capi-mandamento" e, cioè, i rappresentanti di tre o più famiglie territorialmente contigue. Generalmente, il "capo mandamento" è anche il capo di una delle famiglie, ma, per garantire obiettività nella rappresentanza degli interessi del "mandamento" ed evitare un pericoloso accentramento di poteri nella stessa persona, talora è accaduto che la carica di "capo mandamento" fosse distinta da quella di "rappresentante" di una famiglia. - La commissione è presieduta da uno dei capi-mandamento: in origine, forse per accentuarne la sua qualità di primus inter pares, lo stesso veniva chiamato "segretario" mentre, adesso, è denominato "capo". La commissione ha una sfera d'azione, grosso modo, provinciale ed ha il compito di assicurare il rispetto delle regole di Cosa Nostra all'interno di ciascuna famiglia e, soprattutto, di comporre le vertenze fra le famiglie. - Da tempo (le cognizioni del Buscetta datano dagli inizi degli anni '50) le strutture mafiose sono insediate in ogni provincia della Sicilia, ad eccezione (almeno fino ad un certo periodo) di quelle di Messina e di Siracusa. - La mafia palermitana ha esercitato, pur in mancanza di un organismo di coordinamento, una sorta di supremazia su quella delle altre province, nel senso che queste ultime si adeguavano alle linee di tendenza della prima. - In tempi più recenti, ed anche in conseguenza del disegno egemonico prefissosi dai Corleonesi, è sorto un organismo segretissimo, denominato "interprovinciale", che ha il compito di regolare gli affari riguardanti gli interessi di più province. - Non meno minuziose sono le regole che disciplinano l' "arruolamento" degli "uomini d'onore" ed i loro doveri di comportamento. I requisiti richiesti per l'arruolamento sono: salde doti di coraggio e di spietatezza (si ricordi che Leonardo Vitale divenne "uomo d'onore" dopo avere ucciso un uomo); una situazione familiare trasparente (secondo quel concetto di "onore" tipicamente siciliano, su cui tanto si è scritto e detto) e, soprattutto, assoluta mancanza di vincoli di parentela con "sbirri". La prova di coraggio ovviamente non è richiesta per quei personaggi che rappresentano, secondo un'efficace espressione di Salvatore Contorno, la "faccia pulita" della mafia e cioè professionisti, pubblici amministratori, imprenditori che non vengono impiegati generalmente in azioni criminali ma prestano utilissima opera di fiancheggiamento e di copertura in attività apparentemente lecite. Il soggetto in possesso di questi requisiti viene cautamente avvicinato per sondare la sua disponibilità a far parte di un'associazione avente lo scopo di "proteggere i deboli ed eliminare le soverchierie". Ottenutone l'assenso, il neofita viene condotto in un luogo defilato dove, alla presenza di almeno tre uomini della famiglia di cui andrà a far parte, si svolge la cerimonia del giuramento di fedeltà a Cosa Nostra. Egli prende fra le mani un'immagine sacra, la imbratta con il sangue sgorgato da un dito che gli viene punto, quindi le dà fuoco e la palleggia fra le mani fino al totale spegnimento della stessa, ripetendo la formula del giuramento che si conclude con la frase: "Le mie carni debbono bruciare come questa santina se non manterrò fede al giuramento". Lo status di "uomo d'onore", una volta acquisito, cessa soltanto con la morte; il mafioso, quali che possano essere le vicende della sua vita, e dovunque risieda in Italia o all'estero, rimane sempre tale. Proprio a causa di queste rigide regole Antonino Rotolo era inviso a Stefano Bontate (oltre che per la sua stretta amicizia con Giuseppe Calò), essendo cognato di un vigile urbano; e lo stesso Buscetta veniva espulso dalla mafia per avere avuto una vita familiare troppo disordinata e, soprattutto, per avere divorziato dalla moglie. Pare, comunque, che adesso, a detta del Buscetta, a causa della degenerazione di Cosa Nostra, i criteri di arruolamento siano più larghi e che non si vada più tanto per il sottile nella scelta dei nuovi adepti. L' "uomo d'onore", dopo avere prestato giuramento, comincia a conoscere i segreti di Cosa Nostra e ad entrare in contatto con gli altri associati. Soltanto i Corleonesi e la famiglia di Resuttana non hanno mai fatto conoscere ufficialmente i nomi dei propri membri ai capi delle altre famiglie, mentre era prassi che, prima che un nuovo adepto prestasse giuramento, se ne informassero i capi famiglia, anche per accertare eventuali motivi ostativi al suo ingresso in Cosa Nostra. In ogni caso, le conoscenze del singolo "uomo d'onore" sui fatti di Cosa Nostra dipendono essenzialmente dal grado che lo stesso riveste nell'organizzazione, nel senso che più elevata è la carica rivestita maggiori sono le probabilità di venire a conoscenza di fatti di rilievo e di entrare in contatto con "uomini d'onore" di altre famiglie. Ogni "uomo d'onore" è tenuto a rispettare la "consegna del silenzio": non può svelare ad estranei la sua appartenenza alla mafia, né, tanto meno, i segreti di Cosa Nostra; è, forse, questa la regola più ferrea di Cosa Nostra, quella che ha permesso all'organizzazione di restare impermeabile alle indagini giudiziarie e la cui violazione è punita quasi sempre con la morte. All'interno dell'organizzazione, poi, la loquacità non è apprezzata: la circolazione delle notizie è ridotta al minimo indispensabile e l' "uomo d'onore" deve astenersi dal fare troppe domande, perché ciò è segno di disdicevole curiosità ed induce in sospetto l'interlocutore. Quando gli "uomini d'onore" parlano tra loro, però, di fatti attinenti a Cosa Nostra hanno l'obbligo assoluto di dire la verità e, per tale motivo, è buona regola, quando si tratta con "uomini d'onore" di diverse famiglie, farsi assistere da un terzo consociato che possa confermare il contenuto della conversazione. Chi non dice la verità viene chiamato "tragediaturi" e subisce severe sanzioni che vanno dalla espulsione (in tal caso si dice che l' "uomo d'onore è posato") alla morte. Così, attraverso le regole del silenzio e dell'obbligo di dire la verità, vi è la certezza che la circolazione delle notizie sia limitata all'essenziale e, allo stesso tempo, che le notizie riferite siano vere. Questi concetti sono di importanza fondamentale per valutare le dichiarazioni rese da "uomini d'onore" e, cioè, da membri di Cosa Nostra e per interpretarne atteggiamenti e discorsi. Se non si prende atto della esistenza di questo vero e proprio "codice" che regola la circolazione delle notizie all'interno di "Cosa Nostra" non si riuscirà mai a comprendere come mai bastino pochissime parole e perfino un gesto, perché uomini d'onore si intendano perfettamente tra di loro. Così, ad esempio, se due uomini d'onore sono fermati dalla polizia a bordo di un'autovettura nella quale viene rinvenuta un'arma, basterà un impercettibile cenno d'intesa fra i due, perché uno di essi si accolli la paternità dell'arma e le conseguenti responsabilità, salvando l'altro. E così, se si apprende da un altro uomo d'onore che in una determinata località Tizio è "combinato" (e, cioè, fa parte di Cosa Nostra), questo è più che sufficiente perché si abbia la certezza assoluta che, in qualsiasi evenienza ed in qualsiasi momento di emergenza, ci si potrà rivolgere a Tizio, il quale presterà tutta l'assistenza necessaria. [...] Proprio in ossequio a queste regole di comportamento sia Buscetta sia Contorno, come si vedrà, hanno posto una cura esasperata nell'indicare come "uomini d'onore" soltanto i personaggi dei quali conoscevano con certezza l'appartenenza a Cosa Nostra, e cioè soltanto coloro che avevano avuto presentati come "uomini d'onore" e coloro che avevano avuto indicati come tali da altri uomini d'onore, anche se personalmente essi non li avevano mai incontrati. Anche la "presentazione" di un uomo d'onore è puntualmente regolamentata dal codice di Cosa Nostra allo scopo di evitare che nei contatti fra i membri dell'organizzazione si possano inserire estranei. E' escluso, infatti, che un "uomo d'onore" si possa presentare da solo, come tale, ad un altro membro di Cosa Nostra, poiché, in tal modo, nessuno dei due avrebbe la sicurezza di parlare effettivamente con un "uomo d'onore". Occorre, invece, l'intervento di un terzo membro dell'organizzazione che li conosca entrambi come "uomini d'onore" e che li presenti tra loro in termini che diano l'assoluta certezza ad entrambi dell'appartenenza a Cosa Nostra dell'interlocutore. E, così, come ha spiegato Contorno, è sufficiente che l'uno venga presentato all'altro, con la frase "Chistu è a stissa cosa", (questo è la stessa cosa), perché si abbia la certezza che l'altro sia appartenente a Cosa Nostra. Altra regola fondamentale di Cosa Nostra è quella che sancisce il divieto per l'uomo di trasmigrare da una famiglia all'altra. Questa regola, però, riferisce Buscetta, non è stata più rigidamente osservata dopo le vicende della "guerra di mafia" che hanno segnato l'inizio dell'imbastardimento di Cosa Nostra: infatti, Salvatore Montalto, che era il vice di Salvatore Inzerillo (ucciso nella guerra di mafia) nella "famiglia" di Passo di Rigano, è stato nominato, proprio come premio per il suo tradimento, rappresentante della "famiglia" di Villabate. Il mafioso, come si è accennato, non cessa mai di esserlo quali che siano le vicende della sua vita. L'arresto e la detenzione non solo non spezzano i vincoli con Cosa Nostra ma, anzi, attivano quell'indiscussa solidarietà che lega gli appartenenti alla mafia: infatti gli "uomini d'onore" in condizioni finanziarie disagiate ed i loro familiari vengono aiutati e sostenuti, durante la detenzione, dalla "famiglia" di appartenenza; e spesso non si tratta di aiuto finanziario di poco conto, se si considera che, come è notorio, "l'uomo d'onore rifiuta il vitto del Governo" e, cioè, il cibo fornito dall'amministrazione carceraria, per quel senso di distacco e di disprezzo generalizzato che la mafia nutre verso lo Stato. Unica conseguenza della detenzione, qualora a patirla sia un capo famiglia, è che questi, per tutta la durata della carcerazione, viene sostituito dal suo vice in tutte le decisioni, dato che, per la sua situazione contingente, non può essere in possesso di tutti gli elementi necessari per valutare adeguatamente una determinata situazione e prendere, quindi, una decisione ponderata. Il capo, comunque, continuando a mantenere i suoi collegamenti col mondo esterno, è sempre in grado di far sapere al suo vice il proprio punto di vista, che però non è vincolante, e, cessata la detenzione, ha il diritto di pretendere che il suo vice gli renda conto delle decisioni adottate. Durante la detenzione è buona norma, anche se non assoluta, che l'uomo d'onore raggiunto da gravi elementi di reità non simuli la pazzia nel tentativo di sfuggire ad una condanna: un siffatto atteggiamento è indicativo della incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Adesso, però, sembra che questa regola non sia più seguita, e, comunque, che non venga in qualche modo sanzionata, ove si consideri che sono numerosi gli esempi di detenuti sicuramente uomini d'onore, che hanno simulato la pazzia (vedi in questo procedimento gli esempi di Giorgio Aglieri, Gerlando Alberti, Tommaso Spadaro, Antonino Marchese, Gaspare Mutolo, Vincenzo Sinagra "Tempesta"). Tutto ciò, a parere di Buscetta, è un ulteriore sintomo della degenerazione degli antichi princìpi di Cosa Nostra. Anche il modello di comportamento in carcere dell'uomo d'onore, descritto da Buscetta, è radicalmente mutato negli ultimi tempi. Ricorda infatti Tommaso Buscetta che in carcere gli "uomini d'onore" dovevano accantonare ogni contrasto ed evitare atteggiamenti di aperta rivolta nei confronti dell'autorità carceraria. Al riguardo, cita il suo stesso esempio: si era trovato a convivere all'Ucciardone, per tre anni, con Giuseppe Sirchia, vice di Cavataio ed autore materiale dell'omicidio di Bernardo Diana, il quale era vice del suo grande amico, Stefano Bontate; ma, benché non nutrisse sentimenti di simpatia nei confronti del suo compagno di detenzione, lo aveva trattato senza animosità, invitandolo perfino al pranzo natalizio. Questa norma, però, non è più rispettata, come si evince dal fatto che Pietro Marchese, uomo d'onore della famiglia di Ciaculli, è stato ucciso il 25.2.1982 proprio all'interno dell'Ucciardone, su mandato della "commissione", da altri detenuti. Unica deroga al principio della indissolubilità del legame con Cosa Nostra è la espulsione dell'uomo d'onore, decretata dal "capo famiglia" o, nei casi più gravi, dalla "commissione" a seguito di gravi violazioni del codice di Cosa Nostra, e che non di rado prelude all'uccisione del reo. L'uomo d'onore espulso, nel lessico mafioso, è "posato". Ma neanche l'espulsione fa cessare del tutto il vincolo di appartenenza all'organizzazione, in quanto produce soltanto un effetto sospensivo che può risolversi anche con la reintegrazione dell'uomo d'onore. Pertanto l'espulso continua ad essere obbligato all'osservanza delle regole di Cosa Nostra. Lo stesso Buscetta, a causa delle sue movimentate vicende familiari, era stato "posato" dal suo capo famiglia Giuseppe Calò, il quale poi gli aveva detto di non tenere conto di quella sanzione ed anzi gli aveva proposto di passare alle sue dirette dipendenze. Anche Gaetano Badalamenti, nel 1978, benché fosse capo di Cosa Nostra, era stato espulso dalla "commissione", per motivi definiti gravissimi, su cui però Buscetta non ha saputo (o voluto) dire nulla. L'uomo d'onore posato non può trattenere rapporti con altri membri di Cosa Nostra, i quali sono tenuti addirittura a non rivolgergli la parola. E proprio basandosi su questa regola, Buscetta si era mostrato piuttosto scettico sulla possibilità che il Badalamenti, benché "posato", fosse coinvolto nel traffico di stupefacenti con altri uomini d'onore; sennonché, venuto a conoscenza delle prove obiettive acquisite dall'ufficio, si è dovuto ricredere ed ha commentato che "veramente il danaro ha corrotto tutto e tutti". Anche la vicenda della espulsione di Buscetta da parte di Calò appare nebulosa. Il Buscetta, infatti, aveva avuto comunicata la sua espulsione addirittura da Gaetano Badalamenti e durante la detenzione non aveva ricevuto, come d'uso per i "posati", alcun aiuto finanziario da parte della sua "famiglia"; per contro il suo capo famiglia Pippo Calò lo aveva esortato a non tenere conto di quanto andava dicendo quel "tragediaturi" di Badalamenti e si era scusato per la mancanza di aiuto finanziario, assumendo che non era stato informato; aveva notato inoltre che in carcere gli altri uomini d'onore intrattenevano con lui normali rapporti, come se nulla fosse accaduto. Altra regola fondamentale di Cosa Nostra è l'assoluto divieto per l'"uomo d'onore" di fare ricorso alla giustizia statuale. Unica eccezione, secondo il Buscetta, riguarda i furti di veicoli, che possono essere denunziati alla polizia giudiziaria per evitare che l'uomo d'onore, titolare del veicolo rubato, possa venire coinvolto in eventuali fatti illeciti commessi con l'uso dello stesso; naturalmente, può essere denunciato soltanto il fatto obiettivo del furto, ma non l'autore. Del divieto di denunciare i furti, vi è in atti un riscontro persino umoristico riguardante il capo della "commissione", Michele Greco. Carla De Marie, titolare di una boutique a Saint Vincent, era solita fornire alla moglie di Michele Greco capi di abbigliamento che spediva a Palermo, tramite servizio ferroviario, regolarmente assicurati contro il furto. Una volta, il pacco era stato sottratto ad opera di ignoti durante il trasporto, e la De Maria aveva più volte richiesto telefonicamente alla signora Greco di denunciare il furto, essendo ciò indispensabile perché la compagnia assicuratrice rifondesse il danno. Ebbene, la moglie di Michele Greco, dopo di avere reiteratamente fatto presente alla De Marie che il marito non aveva tempo per recarsi alla polizia per presentare la denunzia, aveva preferito pagare i capi di abbigliamento, nonostante che non li avesse mai ricevuti. torna ad inizio pagina Commento [1]: HTML: <noscript> MATERIALE REPERITO SU SPORTELLO SCUOLA E UNIVERSITA' DELLA COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA http://www.camera.it/_bicamerali/leg15/commbicantimafia/documentazionetematica/30/schedabase .asp Mafie italiane Descrizione del fenomeno Diverse sono le ipotesi etimologiche del termine mafia. La più accreditata ritiene che il termine sia di origine araba e derivi dai seguenti termini: mafi, che significa "non c'è"; mahias, inteso come spacconeria; màhfal, inteso come adunanza, riunione di persone; maha, inteso come cava di pietra, in riferimento alle cave di pietra di Marsala e Trapani dove trovarono rifugio i fuggiaschi sin dai tempi dei saraceni; mu inteso come salvezza e afah inteso come proteggere e tutelare. Il termine mafia, nel linguaggio corrente, viene utilizzato per descrivere organizzazioni criminali segrete formate da uomini (e donne), dotate di eserciti privati, armi e capitali, il cui fine è quello di commettere reati per arricchirsi rapidamente ed impunemente controllando, attraverso l'esercizio della violenza e dell'intimidazione, il territorio nel quale agiscono. Maggiore è la ricchezza di cui le mafie dispongono maggiore è il loro potere. Il Presidente della Commissione parlamentare antimafia ha affermato che il fatturato criminale attuale delle mafie italiane ammonterebbe a cento mila milioni di euro1 . Una parte di questo denaro viene investita nelle attività illecite - narcotraffico, di armi, di rifiuti, di esseri umani, estorsioni e usura - un'altra parte viene riciclata e investita in attività lecite, come ad esempio acquisto di immobili, di quote di aziende, di titoli azionari e di Stato. Il riciclaggio del denaro sporco viene generalmente effettuato in aree a non tradizionale presenza mafiosa, come ad esempio l'Italia centrale e settentrionale nonché in alcuni paesi esteri, europei ed extraeuropei. La prova dell'esistenza di questi investimenti nonché del fatto che le mafie non sono soltanto un problema che riguarda alcune regioni meridionali italiane è dimostrato dai dati delle confische dei beni oltre che dalle inchieste giudiziarie avviate in diversi tribunali italiani. Data la loro natura e considerate le loro finalità le mafie possono definirsi una particolare forma di crimine organizzato. Infatti, a differenza di altre forme delinquenziali, per raggiungere i loro obiettivi - arricchimento, potere e impunità - le mafie necessitano di avere rapporti con esponenti del mondo politico, imprenditoriale, economico-finanziario, investigativogiudiziario, ossia con tutti quei soggetti rientranti nella categoria della cosiddetta "borghesia mafiosa", formata da soggetti insospettabili in grado di assicurare ai mafiosi specifici servizi e relazioni. Ai mafiosi, infatti, interessa fare affari, riciclare capitali illeciti, esercitare il potere e arricchirsi riducendo non solo i costi economici ma altresì quelli di carattere penale (carcere e confisca dei beni). Il massimo guadagno va ottenuto con il minor costo, compresa l'impunità. I mafiosi agiscono secondo una logica utilitaristica: tutto quello che conviene all'organizzazione va fatto, tutto quello che nuoce o può nuocere alla stessa va evitato. Un esempio in tal senso è rappresentato dall'uso della violenza. Contrariamente a quello che si è portati a pensare, i mafiosi utilizzano con molta attenzione la violenza. Infatti, se usata in forme tali da creare un elevato allarme sociale, come accadde con le stragi in Sicilia del 1992 e con le bombe scoppiate a Firenze, Milano e Roma nel 1993, la violenza crea allarme sociale ed attira l'attenzione dei mass media, delle forze dell'ordine, della magistratura. In questo modo i rischi legati alla possibilità di essere arrestati e di vedersi confiscare le ricchezze accumulate aumentano sensibilmente. I mafiosi, dunque, utilizzano le armi soltanto quando con altri strumenti - la corruzione, l'intimidazione e la minaccia - non riescono a raggiungere i fini prestabiliti. Tenere conto di questa situazione permette di evitare di cadere nell'errore in base al quale si crede che le mafie esistano esclusivamente quando sparano. Al contrario, quando le armi tacciono, anche se ai più può apparire un paradosso, è segno che tra i mafiosi e le persone che con loro sono in rapporto, si è trovato un punto di equilibrio che soddisfa tutte le parti in gioco. Gli affari illeciti e "leciti" si possono svolgere senza ricorrere all'omicidio. Il potere delle mafie si fonda principalmente sulla segretezza, sull'omertà, sul silenzio. È per questo motivo che in anni recenti coloro che hanno tradito le mafie collaborando con lo Stato - i collaboratori di giustizia - sono divenuti oggetto di vendette trasversali molto cruente che si sono risolte spesso con l'uccisione dei loro famigliari e dei loro parenti più stretti. Le mafie non possono essere considerate come "piovre" o "cancri". L'utilizzo di queste metafore non può ritenersi corretto in quanto induce erroneamente a pensare che le mafie siano invisibili, imprendibili e, conseguentemente, invincibili. Così non è e a testimoniarlo è il fatto che in Italia nel corso del tempo sono state svolte inchieste giudiziarie, parlamentari e giornalistiche molto complesse ed importanti, sono stati arrestati capi e latitanti di prim'ordine (es. Bernardo Provengano, Totò Riina), sono state confiscate ricchezze illecitamente accumulate per più di 400 milioni di euro. Un altro elemento importante da considerare è costituito dalla capacità delle organizzazioni mafiose di coniugare la tradizione alla modernità. In questo senso è bene tenere conto di due aspetti: il primo è che si entra in una organizzazione mafiosa sottoponendosi ad un rito di affiliazione2 , pronunciando un giuramento solenne nell'ambito di una cornice altamente simbolica e codificata, in cui si fa ricorso ad immagini e formule sacre; il secondo è che le mafie si comportano come delle vere e proprie imprese, anzi come holding economico-finanziarie che agiscono a livello nazionale e internazionale, unendo alle classiche attività illecite anche la capacità di inserirsi nel sistema economico e politico di un determinato territorio. Costituisce dunque un errore il considerare le mafie come fattori di arretratezza di un territorio. Al contrario esse rappresentano i soggetti più dinamici di una modernizzazione distorta che ha investito in particolare il Mezzogiorno. Secondo la maggioranza degli storici le mafie sarebbero nate nel Mezzogiorno d'Italia nel periodo dell'unità nazionale (1860). Esse dunque non costituiscono un'emergenza dei nostri giorni, ma un elemento da allora sempre presente nella storia d'Italia. Per lungo tempo nel nostro Paese la presenza delle mafie è stata negata, anche a livello istituzionale. Si pensi che il primo utilizzo del termine "mafia" nell'accezione di "gruppo di delinquenti" fu compiuto non in un'aula di tribunale ma nella rappresentazione della commedia teatrale di Giuseppe Rizzotto, intitolata I mafiusi di la Vicaria, nel 1862. Storicamente siamo passati da una mafia di tipo agrario (1861- anni '50 del XX secolo), ad una di tipo urbano-imprenditoriale (anni '60 del XX secolo) ad una di tipo finanziario (dagli anni '70 del XX secolo in poi) che si è sempre più internazionalizzata sino a globalizzarsi tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni novanta. Diverse sono le cause che hanno permesso la globalizzazione delle mafie. In primo luogo i beni trattati: i sodalizi mafiosi commerciano in prodotti che vengono realizzati in un luogo e utilizzati in un altro. È questo il caso dei tabacchi lavorati esteri, delle sostanze stupefacenti e delle armi. Il passaggio di queste merci da uno Stato all'altro avviene eludendo controlli, corrompendo chi deve vigilare sui transiti e sui pagamenti. Tutto ciò rafforza i vincoli fra le organizzazioni criminali i cui vertici hanno stabilito dei veri e propri accordi. Un secondo fattore che ha favorito l'internazionalizzazione del mondo criminale è da rintracciarsi nella globalizzazione dell'economia. Quest'ultima ha comportato il progressivo abbattimento delle frontiere nazionali la sempre più libera e non controllata circolazione di beni e capitali, oltre che di persone. A fronte di questa situazione, procede lentamente l'elaborazione di regole comuni da parte degli Stati per contrastare il crimine organizzato e i suoi traffici sul piano internazionale, anche se dei passi significativi in questa direzione sono stati compiuti con la costituzione di organi come Europol e Eurojust e l'entrata in vigore della Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale delle Nazioni Unite. Il terzo ed il quarto fattore di internazionalizzane delle mafie sono rappresentati rispettivamente dall'inserimento dei gruppi mafiosi nella gestione dei flussi migratori e dalla loro necessità e capacità di investire e riciclare i proventi illecitamente accumulati nelle economie legali di paesi stranieri. A livello giuridico le organizzazioni mafiose sono definite e sanzionate dall'articolo 416-bis del codice penale, introdotto con la legge 13 settembre 1982, n. 646, meglio conosciuta come "Legge Rognoni-La Torre", dal nome dei proponenti del provvedimento, l'onorevole Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista Italiano, ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, e il Ministro dell'Interno Virginio Rognoni. La legge fu rapidamente approvata dopo l'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (Prefetto di Palermo), della moglie Emanuela Setti Carraro e dell'agente di scorta Domenico Russo, avvenuto a Palermo il 3 settembre 1982. Cosa Nostra Fu nel 1984 che il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta rivelò al giudice Giovanni Falcone che i mafiosi siciliani, gli "uomini d'onore", definivano l'organizzazione criminale a cui appartenevano "Cosa Nostra". La mafia siciliana è nata nella Sicilia Occidentale nei primi dell'800. Ha una struttura piramidale e verticistica. La famiglia è il suo organo di base. Contrariamente a quanto avviene per la 'Ndrangheta calabrese, con tale termine non si deve intendere un insieme di persone legate tra di loro da legami di sangue. La famiglia della mafia siciliana è retta da un rappresentante, di nomina elettiva, e controlla un determinato territorio (es. borgata o un quartiere di una città). Palermo, storicamente, è il centro delle attività e delle decisioni di Cosa Nostra. A partire dalla seconda metà degli anni '50, su indicazione di Cosa Nostra americana, anche in Sicilia la mafia si è dotata di una struttura gerarchica superiore denominata "Commissione" o "Cupola", di cui fanno parte i capi dell'organizzazione dislocati nelle diverse province dell'isola. Alla base della piramide mafiosa vi sono i "picciotti" o "soldati", che costituiscono l'esercito di Cosa Nostra; salendo si trova la figura del "capodecina" che controlla l'operato di dieci uomini; ancora più in alto la figura del "capo mandamento" (il mandamento è un insieme di tre famiglie territorialmente contigue). I capi mandamento fanno parte della "commissione provinciale". Quando un capo mandamento o un capo famiglia viene arrestato, il suo posto è occupato da un "reggente" provvisorio. In Cosa Nostra vigono rigide norme di comportamento e l'entrata nell'organizzazione avviene per "chiamata". Un soggetto, dopo essere stato sottoposto ad un periodo di osservazione per valutarne le capacità criminali, viene avvicinato e invitato, con l'autorizzazione del capo della famiglia, a partecipare al compimento di alcune azioni delittuose insieme a persone già membre di Cosa Nostra. In questo caso la persona è da considerarsi un "affiliato". Per diventare "picciotto" deve sottoporsi ad un rito di affiliazione, al quale partecipano altri mafiosi. Il prescelto recita un giuramento solenne con il quale giura fedeltà eterna all'organizzazione, passandosi tra le mani un'immagine sacra sulla quale, in precedenza, sono state fatte cadere alcune gocce di sangue di un dito che gli è stato punto (punciutu). Una regola fondamentale per Cosa Nostra è quella per cui non possono far parte dell'organizzazione persone imparentate con magistrati e membri delle forze dell'ordine. Nel corso degli anni '90 del XX secolo, al fine di ridurre i danni provocati dai collaboratori di giustizia (arresti e confische di beni), Cosa Nostra ha in parte modificato la sua struttura seguendo una logica di compartimentazione mutuata dalla 'Ndrangheta. I membri di un gruppo conoscono soltanto il loro capo e gli altri partecipanti al consesso. Essi, dunque, conoscono una parte dell'organizzazione, non tutto il suo insieme. La compartimentazione, in tal modo, riduce il grado di conoscenza di Cosa Nostra che un affiliato, una volta arrestato, può eventualmente confessare agli inquirenti. Va ricordato che Cosa Nostra ha assassinato i parenti più stretti di alcuni membri dell'organizzazione mafiosa che hanno deciso di collaborare con lo Stato. Uno dei casi recenti più efferati è stato certamente il rapimento, la successiva carcerazione durata due anni, lo strangolamento e lo scioglimento del corpo nell'acido di Giuseppe Di Matteo, undici anni, figlio di Santino Di Matteo, membro di Cosa Nostra divenuto collaboratore di giustizia. Cosa Nostra ha sempre cercato legami con il potere politico, in particolar modo con chi deteneva e detiene il potere, sia per fare affari sia per garantirsi l'impunità. Una delle prime figure di mafioso ai tempi del latifondismo è rappresentata dai gabelloti, persone che prendevano in affitto il terreno del feudatario, pagando a quest'ultimo una gabella. Molti gabelloti per controllare il lavoro nei campi e scoraggiare i furti, si avvalevano dei cosiddetti "campieri", una sorta di polizia privata del feudo. I gabelloti affittavano a loro volta i terreni ai contadini per un prezzo nettamente superiore alla gabella. Inoltre, con la collaborazione dei "campieri" e di loro uomini di fiducia denominati "soprastanti", i gabelloti sedavano con la violenza le richieste dei lavoratori. La mafia siciliana, come ricordato nella Relazione sui rapporti tra Mafia e politica della Commissione parlamentare antimafia della XI legislatura1 , è stata utilizzata anche per sedare in modo repressivo e violento le rivolte dei contadini siciliani, riuniti nei fasci, che chiedevano l'abolizione del latifondo e la distribuzione delle terre. Cosa Nostra ha ucciso diversi sindacalisti e devastato alcune camere del lavoro. La mafia siciliana, infine, ha compiuto efferati omicidi di carattere sia punitivo (non rispetto degli accordi) sia preventivo (evitare l'approvazione di certi provvedimenti) nei confronti di uomini politici e di rappresentanti delle istituzioni. Dopo essere nata nelle campagne controllando i mercati ortofrutticoli, essersi trasferita in città per controllare gli appalti, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 del XX secolo, Cosa Nostra ha visto incrementare la propria ricchezza in modo esponenziale entrando nel mercato internazionale degli stupefacenti. La decisione di entrare in questo lucroso affare, nettamente più redditizio del contrabbando di sigarette, scatenò una guerra di mafia che causò la morte di centinaia di persone e che portò al potere i Corleonesi. I corleonesi, a differenza di altri gruppi, hanno sempre esercitato con particolare ferocia la violenza. Nel 1992, rispettivamente il 23 maggio a Capaci (Pa) e il 19 luglio in via Mariano D'Amelio a Palermo, Cosa Nostra, capeggiata dal corleonese Salvatore Riina, assassinò con due grandi stragi che colpirono e allarmarono l'opinione pubblica i suoi nemici principali: i giudici Giovanni Falcone - di cui fu assassinata anche la moglie Francesca Morvillo - e Paolo Borsellino, nonché gli agenti che componevano le loro scorte. Nel 1993 Cosa Nostra fece scoppiare delle autobomba nelle città di Milano, Firenze e Roma, causando la morte di alcuni cittadini inermi e danneggiando pesantemente il patrimonio artistico di quelle città. Il fine di queste bombe era richiedere alle istituzioni dello Stato repubblicano di scendere a patti, modificando alcune leggi di contrasto alle mafie. Di fronte a questa violenza lo Stato italiano reagì prontamente arrestando non solo Salvatore Riina, latitante da più di vent'anni, ma anche altri importanti esponenti di spicco di Cosa Nostra siciliana. Il comando dell'organizzazione è passato in seguito nella mani di Bernardo Provenzano. Quest'ultimo, comunicando con altri esponenti di Cosa Nostra mediante l'utilizzo di fogliettini di carta redatti con una vecchia macchina da scrivere e denominati "pizzini", ha optato per una strategia di "inabissamento" della mafia siciliana, ha impartito l'ordine di evitare l'uso eccessivo ed eclatante della violenza, ha fatto in modo che la mafia ritornasse a fare i suoi affari senza suscitare allarme sociale. Alla violenza si è preferito la corruzione, il controllo del territorio è stato garantito dall'esercizio delle estorsioni, gli ingenti capitali sono stati realizzati trafficando in sostanze stupefacenti, instaurando rapporti con le altre mafie italiane e con mafiosi albanesi, dell'Est Europa e della Colombia, infiltrandosi nel sistema degli appalti pubblici, accaparrandosi, mediante un sofisticato sistema di truffe, di quote ingenti dei cosiddetti fondi strutturali europei. Il denaro illecitamente accumulato è stato riciclato grazie al concorso di professionisti insospettabili. Gli investimenti sono stati fatti in attività economiche lecite, non solo in Sicilia, ma soprattutto in altre regioni italiane e in alcuni paesi stranieri. Bernardo Provenzano, dopo quarantatrè anni di latitanza, è stato arrestato l'11 aprile 2006, a Corleone, in località Montagna dei Cavalli. Tra i papabili alla sua successione figurano il boss latitante Matteo Messina Denaro (capo di Cosa Nostra nella provincia di Trapani) e il boss Salvatore Lo Piccolo (Capo del mandamento di San Lorenzo, che tuttavia ha esteso la propria influenza alla parte occidentale del territorio della provincia di Palermo). Quest'ultimo è stato arrestato a Giardinello, località in prossimità di Carini (Pa) il 5 novembre 2007, insieme al figlio Sandro e ai boss mafiosi Andrea Adamo, reggente del quartiere di Brancaccio, e Gaspare Pulizzi, capo della mafia a Carini. Secondo le più recenti analisi sul fenomeno effettuate dalla Direzione Nazionale Antimafia, l'aspetto probabilmente più caratterizzante della criminalità organizzata siciliana è la presenza di un'area "grigia" della società costituita da elementi o gruppi, che, pur non facendo parte integrante dell'organizzazione, stabiliscono con essa contatti, collaborazioni, forme di contiguità più o meno strette. Nel rapporto tra mafia e società è dunque rinvenibile un blocco sociale mafioso che è di volta in volta complice, connivente, o caratterizzato da una neutralità indifferente. Tale blocco comprende una "borghesia mafiosa" fatta di tecnici, di esponenti della burocrazia, di professionisti, imprenditori e politici, che o sono strumentali o interagiscono con la mafia in una forma di scambio permanente fondato sulla difesa di sempre nuovi interessi comuni. La cosiddetta "zona grigia" rappresenta a ben vedere la vera forza della mafia: essa è costituita da individui e/o gruppi che vivono nella legalità e forniscono un fondamentale supporto di consulenza per le questioni legali, gli investimenti, l'occultamento di fondi, la capacità di manovrare l'immenso potenziale economico dell'organizzazione criminale. Presenze di Cosa Nostra al di fuori della Sicilia si riscontrano nelle seguenti regioni: Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Lazio. (1)Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, Atti parlamentari, XI legislatura, Doc. XXIII, n. 2, Relatore Luciano Violante. MINORI E MAFIA Descrizione del fenomeno È un fatto ormai riconosciuto, anche processualmente, che le organizzazioni mafiose reclutano tra le loro fila molti giovani poco più che adolescenti e che esse si avvalgono per lo svolgimento di specifiche attività illecite, come lo spaccio di droga, di ragazzi minorenni. Molti di questi giovani, in particolare nel Mezzogiorno, vengono reclutati in quartieri ad alta disoccupazione, in cui vige da sempre la regola del più forte, della violenza, provengono da famiglie disagiate, spesso hanno abbandonato la scuola. I giovani sono affascinati dal carisma dei leader mafiosi, in particolare di quelli latitanti, i quali ai loro occhi sono ritenuti più forti dello Stato che è incapace di catturarli. Il boss mafioso, per questi giovani, diventa un modello di riferimento, una persona di cui fidarsi. La mafia per questi ragazzi rappresenta la risposta al loro bisogno di ricerca di un senso di identità, di appartenenza, di rispetto, di ricchezza. Questi ragazzi sono attratti dal mondo mafioso in quanto in esso vedono la possibilità di arricchimento rapido, pensano al fatto che una volta divenuti "uomini d'onore", essi saranno temuti e rispettati dagli altri. La mafia, inoltre, offre protezione e sostegno quando necessario, ma non ammette alcuna disobbedienza. Chi viola la regola dell'omertà o commette un reato senza esserne stato autorizzato dal responsabile di quel territorio, muore. I minorenni vengono impiegati in diverse attività: dallo spaccio della droga al compimento di atti estortivi. In quest'ultimo caso è da rimarcare il fatto che le estorsioni sono una delle modalità mediante la quale le organizzazioni mafiose mettono alla prova i giovani, chiedendo loro di dimostrare coraggio, capacità di utilizzare la violenza e di intimidire. I minorenni, come è già accaduto, sono purtroppo impiegati anche per la commissione di omicidi e per questo sono stati definiti "baby killer". Il carcere è una situazione che molti ragazzi mettono in conto di dover affrontare. La reclusione è considerata un attestato di professionalità criminale da esibire ai propri coetanei in libertà e, soprattutto, ai capi delle organizzazioni malavitose. Parlando di minori e mafia non si possono dimenticare i ragazzi che vivono in famiglie mafiose, i quali non solo hanno da sempre respirato aria di violenza e di prevaricazione ma, magari, hanno visto uccidere i loro padri, fratelli, parenti. In questi casi, secondo il codice d'onore mafioso, deve scattare la vendetta, per cui violenza richiama violenza. Si pensi, inoltre, ai minori figli di mafiosi che hanno deciso di collaborare con la giustizia o ai minorenni diventati essi stessi testimoni di giustizia avendo fornito informazioni importanti per la scoperta di alcuni reati, come ad esempio la giovane Rita Atria. Questi bambini o ragazzi hanno visto cambiare radicalmente la loro vita nell'arco di un tempo brevissimo, sono stati sradicati dal loro ambiente e sono stati sottoposti ad uno specifico programma di protezione. A partire dagli anni novanta del XX secolo, come riportano i dati statistici, è stata riscontrata l'utilizzazione di minorenni per lo svolgimento di attività illecite anche da parte di gruppi delinquenziali di tipo mafioso provenienti da paesi stranieri, in particolare dell'Est Europa. Giovani ragazze sono costrette all'esercizio della prostituzione e piccoli bambini sono impiegati in attività quali l'accattonaggio, i furti, gli scippi. Sia le une che gli altri sono le principali vittime del traffico di esseri umani. E' bene ricordare che le organizzazioni mafiose non temono soltanto l'operato delle forze dell'ordine e della magistratura, ma anche quello delle scuole, delle associazioni di volontariato, delle parrocchie, dei servizi sociali che si propongono di offrire a questi ragazzi che potenzialmente possono essere reclutati dai mafiosi o che lo sono già stati, non solo delle opportunità di vita e di lavoro alternative a quelle criminali, ma soprattutto propongono una cultura della legalità e della solidarietà radicalmente alternativa a quella mafiosa. Per questo, ad esempio, in Sicilia è stato assassinato don Pino Puglisi, ed è per la medesima ragione che molte scuole del sud Italia sono oggetto di atti vandalici e le persone che in esse vi operano sono oggetto di pesanti atti intimidatori. Il Ministero dell'interno ha attivato un apposito numero telefonico il 114 dedicato a tutti i minori che si trovano in una situazione di emergenza e di disagio. La Polizia di Stato ha attivato un sito dedicato ai bambini scomparsi. Minori e mafia Dati statistici Minori di anni 18 italiani e stranieri (distinti per nazionalità) denunciati e arrestati per associazione di tipo mafioso. Anni 2004-2006 Totale per nazionalità Denunciati Arrestati Denunciati Arrestati Denunciati Arrestati Denunciati Arrestati 48 23 29 12 40 31 117 66 0 0 1 0 0 1 1 1 2004 2005 2006 Nazione Italia Germania Serbia0 0 1 0 0 Montenegro Iraq 0 0 1 0 0 Romania 1 0 0 0 0 Ucraina 1 0 0 0 1 Luogo 5 0 1 0 1 ignoto Totale 55 23 33 12 42 Fonte: Ministero dell'Interno - Direzione centrale polizia criminale Minori di anni 18 denunciati per estorsione. Anni 1984-2007 (al 31 agosto) Anno 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 N° denunciati 144 108 108 121 96 117 110 121 143 131 152 132 129 135 0 1 0 0 0 0 1 1 2 0 0 0 0 7 0 32 130 67 1998 139 1999 166 2000 132 2001 137 2002 205 2003 140 2004 306 2005 265 2006 239 2007 243 Totale 3.719 Fonte: Ministero dell'Interno Vittime : BIBLIOGRAFIA (citati anche testi su don Puglisi) AA. VV. Vite ribelli. Dieci destini controcorrente Sperling & Kupfer, Milano, 2007 G. Monticciolo, V. Vasile Era il figlio di un pentito Bompiani, Milano, 2007 G. Siani Le parole di una vita. Gli scritti giornalistici Phoebusedizioni, Casalnuovo di Napoli, 2007 R. Giuè Il costo della memoria. Don Peppe Diana. Il prete ucciso dalla camorra Paoline Editoriale Libri, Milano, 2007 S. Rizza, G. Lo Bianco L' agenda rossa di Paolo Borsellino Chiarelettere, Milano, 2007 AA VV Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio. La relazione della Commissione parlamentare antimafia Editori Riuniti, Roma, 2006 AA VV Vivi 21.03.1996-2006 giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2006 F. Deliziosi Don Puglisi. Vita del prete palermitano ucciso dalla mafia Mondadori, Milano, 2006 G. Monti Falcone e Borsellino. La calunnia, il tradimento, la tragedia Editori Riuniti, Roma, 2006 L. Zingales Rocco Chinnici L'inventore del "pool" antimafia Limina, Arezzo, 2006 M. Andolfo Il diario di Annalisa Pironti, Napoli, 2005 R. Agasso Il caso Ambrosoli. Mafia, affari, politica San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo, 2005 B. Monroy Portella della Ginestra. Indice dei nomi Ediesse, Roma, 2005 C. Stajano Un eroe borghese Einaudi, Torino, 2005 L. Zingales Paolo Borsellino. Una vita contro la mafia Limina, Arezzo, 2005 L. Garlando Per questo mi chiamo Giovanni Fabbri editori, Milano, 2004 N. Dalla Chiesa Delitto imperfetto. Il generale, la mafia, la società italiana Editori Riuniti, Roma, 2003 F. La Licata Storia di Giovanni Falcone Feltrinelli, Milano, 2003 U. Lucentini Paolo Borsellino San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo, 2003 B. Stancanelli A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario Einaudi, Torino, 2003 E. Bellavia Enrico, S. Palazzolo Falcone Borsellino. Mistero di Stato Edizioni della Battaglia, Palermo, 2002 A. Franchini L'abusivo Marsilio, Venezia, 2001 R. Scifo Vittime assolute: storie di bambini nell'ambiente mafioso Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1997 AA. VV. Il sogno di Paolo Borsellino: organizzare la Speranza Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996 A. Prestifilippo Scopelliti, Morte di un giudice solo Periferia, Cosenza 1995 C. Fava Nel nome del padre Baldini & Castoldi, Milano, 1996 S. Vitale Nel cuore dei coralli. Peppino Impastato, una vita contro la mafia Rubbettino, Soveria Mannelli, 1995 G. Falcone Interventi e proposte (1982-1992) Sansoni, Milano, 1994 S. Rizza Una ragazza contro la mafia : Rita Atria, morte per solitudine La Luna, Palermo, 1993 S. Vassalli Il cigno Einaudi, Torino, 1993 N. Dalla Chiesa Il giudice ragazzino Einaudi, Torino, 1992 Minori e mafia : BIBLIOGRAFIA R. Priore, G. Lavanco (a cura di) Minori e organizzazioni mafiose: analisi del fenomeno e ipotesi di intervento Franco Angeli, Milano, 2007 M. Cavallo Le nuove criminalità . Ragazzi vittime e protagonisti Franco Angeli, Milano, 1995 F. Occhogrosso Ragazzi della mafia. Storie di criminalità e contesti minorili, voci dal carcere, le reazioni ed i sentimenti, i ruoli e le proposte Franco Angeli, Milano, 1993 M. Calvi C'era una volta l'infanzia. Uno sguardo sulla criminalità minorile Dedalo, Bari, 1991 AA. VV. Il sentire mafioso: percezione e valutazione di eventi criminosi nella preadolescenza Milano, Giuffrè , 1989 Commento [2]: HTML: </noscript>