Domenica
il fatto
Eliseo, la casa del presidente-re
La
di
DOMENICA 29 APRILE 2007
ANAIS GINORI e BERNARDO VALLI
la memoria
Repubblica
Attentato a Togliatti, le carte segrete
ALDO AGOSTI e ALBERTO CUSTODERO
Guevara, la guerriglia e i figli,
le poesie e le lettere d’amore
A quarant’anni dalla morte
Aleida March lo racconta in un libro
La vedova
CHE
ILLUSTRZIONE ROMAN CIESLEWICZ
del
OMERO CIAI
ALEIDA MARCH
l’immagine
«A
uccede a volte che le parole siano mute, che smarriscano
il loro significato. Che non si sappia o non si possa spiegare l’esatta portata degli avvenimenti che stiamo vivendo.
Fu questa la sensazione che provai nel momento del distacco (la partenza del Che per il Congo, ndr), il primo di
tanti che avrei vissuto, sempre, come definitivi. Ogni volta ignoravo che ne sarebbero seguiti altri simili e che avrebbero sempre risvegliato in me quell’istinto di protezione nei suoi confronti che
andava al di là di ogni razionalità. Nonostante sapessi fin troppo bene che tutto era già scritto. Per questo mi costava tanto farmene una
ragione. Per questo mi era così difficile accettarlo. Ora, cercando di
rievocare quei fatti — fatti che m’ero ripromessa di non raccontare —
provo le stesse emozioni e gli stessi timori di allora, quando con tutte
le mie forze mi aggrappavo a qualcosa che non sarebbe mai più stato
uguale a prima. [...] Dal tono delle sue lettere, che conservo come il
mio tesoro più caro, capivo che non ero soltanto io a essere segnata
da quella prova. Anche per lui la separazione era dura da sopportare,
insostenibile, tanto più che io potevo contare almeno sulla compagnia e il conforto dei figli, immagine concreta del nostro amore.
Le lettere. A distanza di anni, rileggendo per l’ennesima volta le
lettere che mi scrisse dalle regioni più sperdute del Congo, posso
misurare l’enormità del suo sacrificio, del suo scegliere di vivere
senza di noi.
(segue nelle pagine successive)
Lo stilista-sultano che creò la moda
leiducha! Dall’ultima tappa ufficiale, ti mando un
fedele abbraccio maritale. Pensavo di esserti fedele anche con il pensiero prima di vedere le ragazze more di qui. Impossibile resistergli… un bacio. Che». Allegro, beffardo e anche innamorato,
Ernesto Guevara scrisse questo bigliettino, finora
inedito, alla moglie Aleida March dal Marocco nel corso del suo primo
viaggio dopo la vittoria della rivoluzione cubana. Siamo nell’estate del
1959. Guevara ha sposato Aleida il 2 giugno. Dieci giorni dopo parte e
tornerà a L’Avana solo alla fine di settembre. Tre mesi e mezzo da ambasciatore della nuova Cuba senza luna di miele. Quando ha saputo del
viaggio, la povera Aleida, che ha appena perso un figlio per un aborto
spontaneo, ha lottato per partire con lui ma il Comandante è stato irremovibile. «Sarebbe questo tuo — disse alla novella sposa — un privilegio inaccettabile. Cosa penserebbero di me gli altri membri della delegazione che non possono portare con sé le mogli?». Perfino Fidel Castro intervenne ben due volte presso il Che in favore di Aleida. Ma non
ci fu nulla da fare. Era il primo dei numerosi abbandoni che soffrirà Aleida nei sette anni (1959-66) in cui dividerà la sua vita con quella del Che,
gli regalerà quattro figli (Aleidita, ‘60; Camilo, ‘62; Celia, ‘63; e Ernesto,
‘65), e diverrà per sempre la “vedova ufficiale” che ne difenderà la memoria e occulterà ciò che di quel ricordo al regime non serve.
(segue nelle pagine successive)
con un articolo di CARLOS FRANQUI
S
NATALIA ASPESI
cultura
Le Corbusier e l’utopia di cemento
ENRICO REGAZZONI e AMBRA SOMASCHINI
la lettura
Giallo su giallo, un killer al Tour
GIANNI MURA
le tendenze
Le piante e i fiori del grande caldo
PAOLO PEJRONE e ROSSELLA SLEITER
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 APRILE 2007
la copertina
Testimonianze
La donna che sposò Guevara nel 1959 e gli restò a fianco fino al 1967, anno
della morte, ha scritto un libro intitolato “Evocación”, dove agli struggenti ricordi
privati fanno da contrappunto i silenzi sulla rottura politica
con Castro e sulla disperata
avventura boliviana
Ne anticipiamo alcuni brani
“Mio marito il Che”
la verità di Aleida
(segue dalla copertina)
uevara e Aleida March si conobbero sulla sierra dell’Escambray verso la metà del
1958. Lui era già uno dei comandanti che guidava una
colonna della guerriglia
mentre lei, «una maestrina bionda e rotondetta», era fuggita in montagna dopo aver
preso parte ad alcuni scioperi e azioni di boicottaggio che l’avevano segnalata come
«sovversiva»allapoliziadeldittatoreBatista.
Galeotti furono un foulard di seta nero che
Aleida regalò al Che affinché reggesse un
braccio che s’era fratturato cadendo dal tetto di una caserma e una parola, “Caterpillar”, che lei non sapeva scrivere. Fu un colpo
di fulmine ma fra il primo incontro e il primo
bacio ci furono la lunga marcia su Santa Clara,labattagliadecisivael’ingressoall’Avana:
i mesi cruciali della rivoluzione. E soltanto
dopo l’ultimo atto, la resa della Cabaña, l’estrema fortezza dei batistiani nella capitale,
il Che e Aleida cominceranno a vivere come
due fidanzati. Ma, fatta la rivoluzione, Guevara aveva un grosso problema personale:
chiudere il legame con Hilda Gadea, la peruviana che aveva conosciuto in Guatemala e sposato in Messico, e dalla quale aveva
avuto una figlia, Hildita, prima di unirsi, nel
1956, alla spedizione di Fidel Castro a Cuba.
Hilda raggiunse l’Avana vittoriosa l’ultima settimana di gennaio del ‘59. Scrive
Aleida: «Alberto Castellanos (un attendente di Guevara) andò a prenderla all’aeroporto. I genitori del Che la stavano aspettando. Al ritorno, nessuno ci presentò. E così, quando me la trovai davanti la squadrai
da capo a piedi. Fu allora che tutte le mie
preoccupazioni si sciolsero come neve al
sole. In un baleno mi convinsi che la persona che mi stava davanti non poteva assolutamente essere la mia rivale: dovevo solo
aspettare che il Che decidesse». Come contraddirla: sul volto di Hilda c’erano stampati i tratti rudi e rocciosi degli indios peruviani, era piccolina e poco affascinante,
mentre lei, Aleida, era una bianca, europea,
femminile e sensuale. Sul piano dell’avvenenza fisica non c’era partita.
Sarà per questo e per la sua leggendaria
gelosia che Aleida starà tremendamente
antipatica a tutti i biografi di Guevara. La
maggioranza le dedica appena qualche paragrafo. Ha scritto Jorge Castañeda: «Ernesto s’innamorò di lei; l’intensità del suo affetto durò anni. Ma misteriosa risulta la distanza che abbastanza presto si interpose
fra loro due. Qualcuno l’attribuisce alla rivoluzione; altri alla tendenza di Aleida ad
essere quel genere di donna il cui aspetto fi-
G
sico si rovina rapidamente; altri ancora ad
una possessività femminile che sopravviverà alla morte del marito e si estenderà ai
suoi figli, ai suoi archivi, alla sua memoria».
Anni più tardi, Pepe Aguilar, un amico d’infanzia del Che che aveva conservato con lui
un legame molto intimo fino alla fine, coglierà bene il mistero di Aleida: «Era molto
difficile averci a che fare e, per di più, era terribilmente gelosa di tutti coloro che erano
stati vicini al Che prima di lei».
Nonostante la sua nota bellezza, particolare che lo ha reso, molto al di là della sua
vita, il mito più sfruttato e durevole del Novecento, Ernesto Guevara non fu mai un
donnaiolo. I suoi amori si possono contare
sulle dita di una mano. L’aristocratica
“Chichita” nell’adolescenza argentina,
Hilda, Aleida e, forse, Tania Bunke, la guerrigliera d’origine tedesca che lo affiancherà
in Bolivia. Ma la sua relazione con le donne
fu sempre quella di colui che seduce e abbandona perché ha un compito più alto,
trascendente l’amore, da compiere. E neppure Aleida sfugge al destino.
Dopo il matrimonio vennero gli anni dell’impegno e della lotta politica. Guevara si
batte per l’industrializzazione di Cuba, diventa ministro dell’Industria e poi presidente della Banca centrale (i famosi pesos
firmati semplicemente “Che”), riceve la cittadinanza onoraria. Nel giro di trenta mesi
perde la sua sfida. Mentre Fidel Castro abbraccia l’Orso sovietico e vende Cuba come
zuccherificio del Patto di Varsavia, Guevara
scrive che l’Urss è un paese capitalista e imperialista come l’America di Lindon Johnson e della Cia. Così lascia ogni incarico e
torna alla guerra, alla guerriglia. Va prima in
Congo,poiinTanzania.DalCongoscrivead
Aleida: «Non mi ricattare. Non puoi raggiungermi né adesso né fra tre mesi. Fra un
anno forse sarà diverso e allora vedremo. La
cosa va soppesata nei minimi dettagli. Se
vieni, l’importante è che tu non sia “la signora” ma la combattente, e per questo devi prepararti per bene, almeno devi studia-
“Quando ci siamo
sposati sapevi chi ero
Amami ma capiscimi:
il mio destino
è segnato,
niente mi fermerà
fino alla morte”
re il francese […] Quando ci siamo
sposati sapevi chi ero. Amami, ma
capiscimi: il mio destino è segnato,
niente mi fermerà fino alla morte».
L’ultimo incontro con Aleida all’estero non è tra due amanti ma tra un
guerrigliero in cerca d’autore e una
funzionaria del regime, quasi un
agente dei servizi. Lo scenario è Praga.
Fidel Castro invia Aleida per convincere Guevara a tornare a Cuba. Guevara si
rifiuta. Vuole andarsene per la sua strada, vuole preparare una guerriglia nella
sua Argentina. In fretta i cubani gli organizzano la spedizione in Bolivia: l’unico
paese dove c’è un partito comunista che
accetta (in realtà fingono) l’idea della lotta armata. Lui ci casca e loro sbagliano la
zona più propizia per la guerriglia e si dimenticano di attivare una rete di collegamento. Ancora per un po’ Fidel Castro fa il
doppio gioco: sostiene Guevara ma rassicura i sovietici che non lo vogliono né nel
gruppo dirigente cubano né in giro per l’America Latina a combinare guai che possono incrinare la divisione del mondo della
Guerra fredda. Poi l’abbandona.
Nelle memorie, a volte dolci, spesso
struggenti di Aleida, gli ultimi due anni del
Che praticamente non ci sono. Da vedova
ufficiale, l’unica signora Guevara nella nomenclatura, difende la versione ortodossa.
Le ultime volte che s’incontrano litigano,
racconterà la scorta. Per Tania, che lui incontra “troppo spesso”, e perché Guevara,
durante un breve soggiorno a Cuba, ha
avuto un’altra donna e un altro figlio. Ma
neanche questo Aleida ammette oggi: il mito del guerrigliero eroico non va sporcato.
Lo stesso avverrà per i diari, per i “quaderni
di Praga”, per gli appunti, per quelle otto
casse sigillate di documenti originali del
grafomane Guevara che Castro consegnerà a Carlos Franqui e questo porterà ad
Aleida. Ossessionata dal “cubanizzare” il
Che per ordine di Fidel («l’unico uomo di
fronte al quale perdevo la facoltà di parola»)
nasconderà tutto per trent’anni vigilando
sulla memoria del marito nella forma prescelta dal regime.
Marito che aveva trascorso gli ultimi sei
mesi della sua vita senza un contatto né con
lei né con i cubani, mentre il suo piccolo
esercito boliviano veniva decimato e accerchiato. Così, se in Congo l’avevano salvato scambiando la sua vita e quella degli
altri cubani con il via libera agli anticastristi
che volevano emigrare negli Stati Uniti, in
Bolivia L’Avana gira la testa dall’altra parte
e attende che il destino si compia. L’8 ottobre 1967 Barrientos decide che deve morire, la mattina del 9 l’incosciente Mario Teran lo fucila. Il Che muore ed è per il bene di
tutti: russi, cubani e americani.
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OMERO CIAI
CAMUFFATO
A sinistra, Aleida
e il Che,
camuffato
da Ramon,
in Tanzania
nel 1966
A destra, insieme
a Remedios
Sopra, in auto
il 2 giugno 1959,
giorno delle nozze
ALEIDITA, LA PRIMA FIGLIA
Nella foto grande a centro pagina, Ernesto “Che”
Guevara e Aleida March all’ingresso della città
di Santa Clara all’inizio della primavera 1959
Qui sopra, nell’intimità della loro casa con la figlia
primogenita Aleidita nel 1961
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
O
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FILM RIGHTS
BALTABICK TV
FILMS GMBH
DOMENICA 29 APRILE 2007
IL LIBRO
Si intitola Evocación. La mia vita a fianco del Che (Bompiani,
215 pagine, 16,50 euro, in uscita il 2 maggio) il libro di Aleida
March, la donna che sposò Ernesto Che Guevara nel 1959
e gli restò accanto fino al 1967, anno della morte
del Comandante. È un lungo racconto dall’infanzia al golpe
di Batista fino all’incontro con il Che nella Sierra Escambray
e la sua nuova vita tra famiglia, figli e l’impegno rivoluzionario
del marito. Sabato 12 maggio alle 18,30 alla Fiera del libro
di Torino, il volume sarà presentato dalla figlia del Che Aleidita
Guevara. I testi a firma Aleida March e le foto pubblicate
in queste pagine sono tratte dal libro Bompiani
“Dovette travestirsi
per l’ultimo addio”
noscevo nelle più intime fibre. [...]
La partenza per la Bolivia. L’addestramento stava per finire. Questa volta vivevo
in modo meno apprensivo la sua partenza,
forse perché avevo avuto la possibilità di
partecipare ai preparativi, o magari perché
pensavo che avremmo potuto rivederci
presto: speravo che la separazione non durasse più di cinque anni. Anche se non riuscivo mai a prevedere quanto tempo sarebbe passato tra un incontro e l’altro, credevo fermamente che, nel giro di cinque
anni, l’avrei potuto raggiungere. [...]
Qualche giorno prima della partenza, lo
trasportarono in un luogo sicuro, a L’Avana. Trasformato di nuovo nel vecchio
Ramón, chiese di vedere i bambini. Se si
presentò così camuffato, era per il timore
che i più grandicelli lo riconoscessero e potessero parlarne a qualcuno, con tutte le
conseguenze del caso. Quando arrivarono,
lo presentai come un uruguaiano molto
amico del papà che voleva conoscerli. [...]
Tanto per il Che quanto per me fu un momento difficilissimo. Si può ben immaginare il suo strazio: avere i figli lì, così vicini,
e non potersi rivelare, non poterli trattare
come desiderava fu una delle prove più dure della sua vita. Per i ragazzi, quello fu un
giorno di festa; erano scatenati, giocarono
tutto il tempo per ingraziarsi l’amico di
papà, perché vedesse quello che sapevano
fare. [...] Aleidita, correndo a perdifiato,
batté la testa. Il Che si precipitò a prestarle
un’attenzione così premurosa che lei mi si
fece incontro per sussurrarmi all’orecchio:
«Mamma, quest’uomo è innamorato di
me». Anche il Che aveva sentito. Non ci dicemmo nulla, ma entrambi sbiancammo
dall’emozione.
Da quella casa raggiunse l’aeroporto: sarebbe volato prima in Europa per poi riprendere il viaggio, verso la meta finale. Prima di partire, mi scrisse una poesia. A
quanto mi dissero avrebbe voluto scriverla
su un fazzoletto bianco che tuttavia non
trovò. [...] L’ultimo frammento recita:
ALEIDA MARCH
(segue dalla copertina)
a soprattutto la gigantesca portata del suo consacrarsi anima e corpo
alla lotta per conquistare un mondo più giusto.
Come emerge con impareggiabile chiarezza dalle parole e dal tono del suo primo messaggio: «Mia unica al
mondo: (L’ho preso in prestito dal vecchio
Hickmet) Che miracolo hai fatto con questa povera, vecchia carcassa che non cerca
abbracci reali ma si strugge pensando ai
tuoi baci, sognando le concavità in cui l’accoglievi, il tuo odore, le tue carezze rudi,
contadine? Questa è un’altra Sierra Maestra, ma senza il piacere d’averla concepita
né — fino a oggi almeno — di sentirla mia.
Tutto scorre al rallentatore come se la guerra fosse cosa di dopodomani. Per adesso, la
tua paura che mi facciano fuori è altrettanto infondata delle gelosie di un tempo. Le
mie giornate le passo tra le lezioni di francese — cui dedico alcune ore — di swahili e
di medicina. Fra qualche giorno comincerò un lavoro più serio, di addestramento.
Una specie di Minas del Frío, per intenderci, quella della guerra, non quella che abbiamo visitato insieme. Dai un bacio speciale a ogni bambino (Hildita compresa).
Fatti fare una foto con tutti loro e mandamela. Non grande, e poi un’altra piccolina. Studia il francese, non da infermiera
e voglimi bene. Un lungo bacio, di quelli da reincontro. Ti ama, Tatu»
La morte della madre. Durante la
sua permanenza in Congo, seppe della morte della madre. Affidò la sua angoscia a una lettera nella quale si augurava che «non avesse troppo sofferto e che non avesse avuto tempo per
pensare a me». Fu in memoria della
madre che scrisse uno dei suoi racconti più commoventi, La piedra.
Evocandola, scrisse della sua necessità fisica che «appaia mia madre;
che io appoggi la testa sul suo grembo magro e lei mi dica “il mio vecchio”, con una tenerezza rude e
piena. Che possa sentire fra i capelli la sua mano ossuta accarezzarmi a scatti, come un pupazzo
caricato a molla, come se la tenerezza traboccasse dagli occhi e
dalla voce [...]. Non è necessario
chiederle perdono; lei ha già capito; e tu lo sai per certo quando la senti mormorare “il mio
vecchio”...». Questo era l’uomo che, al di sotto della scorza
d’apparente durezza, io co-
M
CARLOS FRANQUI
stanza dalla casa di Celia Sánchez e Fidel Castro. Da lì pasel 1964, durante il suo secondo viaggio a Mosca, Fidel
savano tutti, e il commento era che il comandante Piñero,
Castro si accordò con Nikita Krusciov per trasformacapo delle operazioni di intelligence, Bolivia inclusa, diceva
re Cuba nello zuccherificio socialista. Il potere ecoche stavano preparando un piano per salvare il Che, in due
nomico esercitato da Guevara fin dalla fine del 1959, comfasi. La prima era l’invio di contingenti di guerriglieri che
preso il suo potente ministero dell’Industria, svaniva. La sua
avrebbero aperto diversi fronti per alleggerire la situazione
risposta Guevara la diede al seminario di Algeri, nel febbraio
del Che; la seconda era un’azione di rastrellamento per trodel1965, quando dichiarò: «I paesi socialisti sono, in una cervare il Che e portarlo in salvo. Passarono mesi senza che sucta misura, complici dello sfruttamento imperialista». Fu la
cedesse niente. Fidel Castro diede la notizia della morte di
rottura con Castro e con i sovietici. In quei mesi, di passaggio
Guevara basandosi sulle tracce di una cicatrice e con la foa Parigi, Guevara mi aveva detto: «Franqui, con Fidel né matocopia delle pagine del diario del Che, consegnato dalla Cia
trimonio né divorzio».
a un’agenzia di stampa. Dato che conoscevo, dai tempi di
Al suo arrivo all’Avana, nell’aprile di quello stesso anno,
Radio Rebelde, sulla Sierra Maestra, la calligrafia e lo stile dei
scoppiò il conflitto fra lui e Fidel, e la soluzione fu spedirlo a
bollettini del Che, Fidel mi mandò a cercare perché dessi il
fare la rivoluzione in Africa. Di cubani a dargli manforte gliemio parere, che fu affermativo.
ne inviarono pochi e, alla fine del 1965, sconfitto e a un passo
Guevara morì in Bolivia solo e abbandonato. La sua decidalla morte, prima di fuggire, il Che scrisse: «Mai come oggi
sione di lasciare il potere e di andare a morire lottando conho avvertito fino a che punto era solitario il mio cammino».
tro il nemico, quella foto di lui morto che sembra il Cristo del
Dopo la lettura della sua lettera di commiato al congresso del
Mantegna e la carenza di miti lo trasformarono, al di là dei
Partito comunista, che Guevara aveva dato ordine di leggere
suoi errori e dei suoi fallimenti, nel mito della rivoluzione. Ansolo dopo la sua morte, il Che si rifugiò a Praga, rifiutandosi
ni dopo che il Che si era trasformato in un mito universale, Fidi tornare a Cuba, fino a quando non lo andò a cercare il codel Castro ordinò di recuperare i suoi “resti” e di trasformarmandante Valdés per convincerlo all’avventura boliviana.
lo nell’icona del suo apartheid turistico. I morti non possono
Qualche mese dopo, con una manciata di uomini, Gueparlare, ma la Cuba di oggi, alleata con i peggiori capitalisti,
vara diede il via alla sua tragica esperienza boliviana. Alla fiche nega ai cubani le spiagge, gli alberghi, i ristoranti e le cline di maggio del 1957, scrisse nel suo diario: «Con l’Avana
niche del dollaro, è la negazione della vita e del pensiero di Ernon c’è comunicazione». L’assenza di comunicazione pernesto Che Guevara.
durò fino alla sua morte, nell’ottobre del 1967. In quell’epoTraduzione di Fabio Galimberti
ca lavoravo all’Ufficio affari storici, situato a un isolato di di-
N
quanto mi mancano
le tue lacrime di rito”
FOTO © GENKO FILMS GMBH BALTABICK TV FILM RIGHTS LLC
Il mito e l’eredità tradita
“Ci sono giorni
in cui la malinconia
avanza incontenibile:
Natale e Capodanno
soprattutto. Non sai
Addio, mia unica, / non ti faccia tremare
la fame dei lupi / né il freddo steppario dell’assenza: / ti porto nel petto dalla parte del
cuore / e ce ne andremo insieme, finché la
strada si dissolva.
Mi chiedevo se stava per cominciare una
nuova fase della nostra vita, ma non potevo fare altro che aspettare. Piansi tutte le
mie lacrime prima di tornare a casa.
[...] L’incertezza, di nuovo. Le notizie
dalla Bolivia arrivavano sempre attraverso terzi. Ricevetti una sola lettera. Me l’aveva portata il peruviano Juan Pablo
Chang, il Cinese, reduce dalla visita al
campo di Ñancahuasú prima del suo inserimento definitivo nelle file della guerriglia. «Mia unica, approfitto del viaggio di
un amico per mandarti queste righe. Avrei
potuto spedirtele; ma mi è sembrata più
intima la via “paraufficiale”. Ti potrei dire
che mi manchi tanto da perdere il sonno,
ma so che non mi crederesti, quindi mi
astengo. Ci sono giorni nei quali la melanconia avanza incontenibile e mi pervade.
A Natale, a Capodanno, soprattutto. Non
sai quanto mi mancano le tue lacrime di rito, sotto un cielo di stelle nuove che mi facevano pensare al poco che ho approfittato della vita sul piano personale. [...] Nulla
di interessante della mia di qui. Il lavoro mi
piace ma mi assorbe troppo e a volte mi
stanca. Appena posso, studio e sogno; gioco a scacchi, contro avversari non proprio
di prima categoria. Cammino parecchio.
Sto dimagrendo, un po’ per la nostalgia,
un po’ per il lavoro. Dai un bacio ai pezzettini di carne, e a tutti gli altri. Per te un
bacio carico di sospiri e di altre angosce dal
tuo povero e spelacchiato Marito»
La morte. Di nuovo ottobre, e con esso
la tragedia. Lo seppi da Fidel in persona,
che alla conferma della notizia mi mandò
a chiamare. Io ero sull’Escambray, per
una ricerca storico-sociale. Celia venne a
Santa Clara e dall’aeroporto mi mandò a
prendere per accompagnarmi nel ritorno
a L’Avana. Lì mi aspettava Fidel, che mi
portò a casa sua dove rimasi da sola per
una settimana. Quindi mi spostai per
qualche tempo in un’altra abitazione accompagnata dai miei figli. Fidel veniva a
trovarci quasi ogni giorno. [...] Il 18 ottobre si tenne la solenne cerimonia funebre
in Plaza de la Revolución. Fidel fu l’unico
a parlare. Mi chiese di essere presente, ma
gli risposi che sentivo di non avere la forza necessaria per affrontare l’evento. Preferivo restare a casa, davanti alla televisione, in compagnia dei miei figli più piccoli, anche se neppure i più grandicelli
potevano rendersi pienamente conto
dell’accaduto.
Traduzione di Daniela Carpani
© 2007 Rcs Libri Spa
CONTROFIGURA
Sopra, il Che
travestito
da “vecchio
Ramon”,
la controfigura
usata per far visita
in sicurezza
a Aleida e ai figli
A destra,
i figli del Che
con la madre
e i nonni nel 1968
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 APRILE 2007
il fatto
Fatto costruire da un conte e abitato dall’amante di Luigi XV,
l’Eliseo fu adottato come dimora dei capi di Stato
elettivi dalla Seconda Repubblica, a metà Ottocento
Simboli del potere
Ora che i francesi stanno per sceglierne il nuovo inquilino,
ne ricordiamo la storia fino alle attuali istituzioni,
le più monarchiche che una democrazia ricordi
Il palazzo del presidente-re
L
PARIGI
sigente. Più burocratico. Nella mia memoria Georges Arnaud è legato a quel giorno
di maggio, in cui vidi per la prima volta in
carne ed ossa Charles de Gaulle. Il romanziere era l’altra Francia. I francesi erano divisi. Lacerati da quel conflitto, di chiaro
stampo coloniale, ma visto da molti come
una minaccia all’integrità nazionale, l’Algeria essendo considerata una delle tante
province metropolitane, in cui vivevano
un milione di francesi (insieme a dieci milioni di algerini).
Nata in seguito al putsch militare di Algeri, la Quinta Repubblica fu considerata a
lungo dall’opposizione di sinistra Un colpo di Statopermanente. Questo era il titolo
di un libro di François Mitterrand, il quale
ventitré anni dopo, nel 1981, diventato primo presidente socialista di quella detestata Repubblica, si adeguò volentieri alle sue
istituzioni, usandole da monarca repubblicano per ben quattordici anni. La Costituzione scritta dall’avversario de Gaulle gli
andava a pennello.
ABDICAZIONE
Sconfitto a Waterloo (1815), Napoleone
firmò l’atto di abdicazione all’Eliseo
10
SALLE PAULIN (piano nobile)
Sala da pranzo degli appartamenti presidenziali, porta l’impronta
del gusto del presidente Pompidou, primo successore di de Gaulle,
che non intervenne su nessun altro ambiente del palazzo
11
12
3
9
2
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ILL
US
TR
AZ
IO
NE
DI
10
M
IR
CO
TA
NG
HE
RL
IN
I
a Quinta Repubblica, della
quale i francesi eleggeranno
domenica 6 maggio il sesto
presidente (o la prima donna
presidente), compirà l’anno prossimo
mezzo secolo. La sua data di nascita è il 28
settembre 1958, se ci si riferisce al giorno in
cui fu approvata, con un referendum, la
nuova Costituzione. Ma è meglio andare
indietro di qualche settimana. Il primo
giugno, una domenica, poco dopo le 21,
nell’emiciclo di Palazzo Borbone, il presidente dell’ultima Assemblea nazionale
della Quarta Repubblica annunciò infatti
con tono solenne che, avendo ottenuto la
fiducia (con 329 voti contro 224), il generale Charles de Gaulle assumeva le funzioni
di Presidente del Consiglio. Di fatto è quella sera che la Francia inaugurò un’altra Repubblica. La quinta dalla fine dell’ancien
régime, durante la Rivoluzione francese.
Ma è bene retrocedere ancora di qualche giorno. Il 19 maggio, all’hôtel d’Orsay,
sulla sponda sinistra della Senna, dove
adesso c’è il Museo d’Orsay (ricavato da
quell’albergo e dall’omonima stazione
ferroviaria) sempre il generale de Gaulle,
che da tre anni non teneva conferenze
stampa, spiegò ai giornalisti, e quindi al
Paese e alla società politica in preda al panico, le condizioni e le formalità per un suo
ritorno al potere. Un ritorno già garantito.
Si trattava di precisare soltanto le procedure. Un particolare tutt’altro che trascurabile, vista l’atmosfera da colpo di Stato.
Quel 19 maggio del ‘58 ero seduto sul
parquet del grande salone dell’hôtel d’Orsay in cui il generale parlava nel tardo pomeriggio. Dalla finestra spalancata vedevo
gli almeno mille poliziotti schierati sul
Lungosenna. Un elicottero, sul quale si diceva fosse Jules Moch, il ministro degli Interni, sfarfallava su di noi facendo un gran
chiasso. Vicino a me, come me accosciato sul pavimento per mancanza di sedie, c’era Georges
Arnaud, autore del Salario della Paura,
un romanzo di grande successo
nei primi anni
Cinquanta. Il
regista Clouzot
ne aveva tratto un
film, interpretato da
Yves Montand. Arnaud era per i ribelli algerini. E come me voleva
raggiungere al più presto
l’Algeria. Là, ad Algeri, si svolgevano gli avvenimenti che
stavano uccidendo la Quarta
Repubblica e riportando al potere
de Gaulle. Il generale era appena arrivato da Colombey-les-deux-Eglises, villaggio dell’Alta Marna, a duecentocinquanta chilometri dalla capitale, dove si era ritirato dopo aver lasciato il
governo nel 1946, disgustato dai partiti che
gli rendevano la vita impossibile. Là aveva
aspettato, con apparente flemma e reale
impazienza, che la Francia, della quale
aveva rappresentato la dignità nei bui anni dell’occupazione tedesca, avesse ancora bisogno di lui.
A creare le condizioni per un suo ritorno
era la guerra d’Algeria. Quello che Georges
Arnaud, mio vicino all’hôtel d’Orsay, chiamava «il putsch dei generali fascisti» stava
infatti riportando al potere il quasi settantenne ex capo della Francia Libera. Sei
giorni prima della conferenza stampa dell’hôtel d’Orsay, il 13 maggio, l’Armée sconfitta in Indocina, a Dien Bien Fu, umiliata
nella spedizione di Suez contro l’Egitto di
Nasser e impegnata da quattro anni in Algeria, era insorta contro il governo di Parigi, dal quale non si sentiva abbastanza ap-
poggiata. E aveva chiesto il ritorno di de
Gaulle. Altrimenti avrebbe mandato i suoi
parà sui Campi Elisi. Quei poliziotti schierati da Jules Moch sul Lungosenna erano,
secondo Arnaud, «una pagliacciata». Cosa
potevano fare contro un eventuale sbarco
dei militari sediziosi d’Algeria?
Non ho mai più incontrato l’autore del
Salario della paura. Come altri intellettuali francesi, quando l’Algeria diventò indipendente scelse di viverci, ma ne fu cacciato appena il regime diventò più intran-
FOTO AFP
BERNARDO VALLI
Danielle
Mitterrand
ricorda
ANAIS GINORI
«M
PARIGI
i annoiavo molto». Come, signora Mitterrand? «Sì, all’epoca mi annoiavo molto. Vede, la moglie
del presidente è poco più che un ninnolo, un gingillo.
Dentro all’Eliseo si muove come un’ombra». Sorride
beffarda, sul volto traspare ancora la luce dell’eterna ribelle. «È una gatta selvatica», diceva François Mitterrand. François e Danielle, cinquant’anni di vita e di lotta comune, un lungo cammino attraverso la storia fino
a varcare quel cancello, 55 rue du Faubourg-Saint-Honoré. L’Eliseo. Le Château, nell’immaginario dei fran-
cesi, anche se questa dimora non ha nulla del castello
ma sembra piuttosto la classica casa borghese dell’ottavo arrondissement, come sosteneva il generale de
Gaulle. «Qui lo Spirito non soffia» osservò, dopo aver
tentato invano di spostare la presidenza della Repubblica in un luogo a suo dire più appropriato, un forte militare a Vincennes.
Anche la coppia Mitterrand non amò mai veramente il palazzo costruito dal conte d’Evreux nel 1718 e scelto da madame de Pompadour per sfuggire alla corte di
Versailles. «Lo consideravo un luogo di lavoro», confessa Danielle che rimase a vivere nei suoi appartamenti in
rue de Bièvre, sulla rive gauche. Le cene con gli amici e i
parenti avvenivano sempre altrove, in una delle tante
case di Mitterrand. Eppure pochi luoghi come l’Eliseo
emanano il fascino del potere. Qui, nel Salon d’Argent,
Napoleone firmò la sua seconda abdicazione, subito
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Le Repubbliche
PRIMA (1792-1799)
TERZA (1870-1940)
Dal regicidio a Napoleone, segnata
dal Terrore di Robespierre (foto)
La più lunga, tormentata dagli scandali
e marchiata dall’affare Dreyfus (nella foto)
SECONDA (1848-1851)
QUARTA (1946-1958)
Nasce da una rivoluzione e muore
con il colpo di Stato di Luigi Bonaparte (foto)
Soccombe all’instabilità (nella foto, René
Coty, secondo dei suoi due presidenti)
QUINTA (1958 A OGGI)
Fondata dal generale de Gaulle (foto),
basata su un marcato presidenzialismo
7
LA GUIDA
6
D’ONORE
1 CORTILE
Qui il presidente
accoglie e saluta
gli ospiti di Stato
13
5
4
SALON
2 PETIT
Parte dei vecchi
appartamenti
presidenziali
1
11 SALON DORÉ (piano nobile)
Adottato come ufficio presidenziale da de Gaulle in poi,
cioè da tutti i capi di Stato della Quinta Repubblica tranne Valéry
Giscard d’Estaing, che gli preferì il primo salone d’angolo 12
FOTO AFP
13 SALON MURAT (piano terra)
Ex sala da ballo,
vi si riunisce tutti i mercoledì
il Consiglio dei ministri
CLEOPATRA
3 SALONE
Già toilette della
FOTO SYGMA/CORBIS
FOTO AFP
Pompadour e ufficio
di Napoleone III
dopo la sconfitta di Waterloo. E qui Luigi Bonaparte preparò il colpo di Stato, mentre organizzava una festa dopo l’altra, suscitando così l’amara ironia di Victor Hugo:
«Fa ballare la Repubblica prima di farla saltare per aria».
Il governo s’insedia e si dimette all’Eliseo, il Consiglio
dei ministri si tiene ogni mercoledì all’Eliseo, le leggi
vengono promulgate all’Eliseo. I vertici internazionali,
le riunioni diplomatiche avvengono all’Eliseo. Il famoso computer Giove che controlla l’arma atomica si trova all’Eliseo.
«Monsieur le président!». Danielle Mitterrand non dimenticherà mai quel momento. Quando il 21 maggio
1981 le guardie repubblicane scandirono l’ingresso del
nuovo presidente nel Salon des Fêtes. È in questo grande salone al primo piano che il 16 maggio si insedierà il
vincitore del voto di domenica prossima, Nicolas
Sarkozy o Ségolène Royal. «Subito dopo, scelsi di non
andare con François a fare la parata sui Campi Elisi»,
continua la signora Mitterrand sul filo dei ricordi. «Io e
mia sorella Christine eravamo curiose di visitare gli appartamenti presidenziali. Dissi ai ciambellani: “Non c’è
bisogno che ci accompagnate, ce la caveremo da sole”.
Mi guardarono come una pazza. “Escluso, madame”. È
così che dovetti abituarmi ai passi felpati, alle frasi sussurrate». Refrattaria alla moda, fino ad allora aveva indossato sempre pantaloni e borse a tracolla. Quel giorno, con massimo sforzo, trovò un vestitino patriottico
blu, bianco e rosso.
Nel protocollo presidenziale la première dame de
France può tutt’al più aspirare ad occuparsi dei menù
dei pranzi di Stato, della tosatura dei prati, dello smistamento della corrispondenza. E comunque molta dell’ordinaria amministrazione rimane in mano ai militari, quasi seicento dei mille dipendenti. Danielle Mitterrand riuscì a ottenere una ristrutturazione completa
degli appartamenti presidenziali, così come un fazzo-
letto di terra nel grande parco, destinato a Ypsilon e Baltico, i due labrador neri. L’architetto Philippe Starck si
occupò della sua camera, Jean-Michel Wilmotte di
quella del presidente. Il primo a modernizzare l’Eliseo
era stato Pompidou, introducendo le poltrone e le librerie anni Settanta. Giscard d’Estaing aveva recuperato lo stile Napoleone III ma aveva fatto un’altra innovazione: aprire l’Eliseo al popolo. Il 14 luglio 1977 quasi ottomila persone si misero in fila per entrare nei saloni dorati e nel grande parco. Da allora è una tradizione che si
ripete per la festa nazionale.
Mitterrand cambiò il Salon des Fêtes, aprendo su entrambi i lati nuove finestre e innalzando un piccolo palco per l’orchestra durante i ricevimenti. Decise anche di
risistemare lo studio presidenziale nel Salon Doré, scelto da de Gaulle per la splendida prospettiva sui giardini.
Con Mitterrand il primo piano dell’Eliseo divenne un
labirinto di intrighi e segreti, ogni stanza una “cellula”
di collaboratori in concorrenza tra di loro, che comunicavano con il capo dello Stato soltanto attraverso bigliettini.
«François lavorava fino a tardi, poi tornava a dormire
a casa». La mattina l’autista andava a prendere il presidente per riportarlo all’Eliseo. «Era il suo modo di non
essere completamente prigioniero», aggiunge la moglie, che Mitterrand chiamava solo “Danou”. Figlia di
partigiani, giovane militante socialista, non era destinata a rimanere nei canoni presidenziali, diversa da
Yvonne de Gaulle, Claude Pompidou e Anne-Aymone
Giscard, capaci di conversare amabilmente di stagioni
e botanica durante i pranzi di Stato. «Non si può semplicemente dire: “Sei la moglie del presidente, non devi
fare questo o quello”», spiega. «Rimanevo una militante che voleva esprimersi sulle cose che le stavano a cuore». Con la sua fondazione per i diritti umani France-Libertés ha scompaginato le regole. Ha fatto infuriare la
Cina invitando il Dalai Lama, poi re Hassan II del Marocco (che la definì “moglie morganatica”) sostenendo
pubblicamente la causa dei saharawi; ha viaggiato nel
Sudafrica dell’apartheid e nel Kurdistan rischiando di
Al momento del crollo della Quarta Repubblica la Francia non era in preda a una
delle sue puntuali collere sociali o economiche. Il Paese era in piena espansione; il
livello di vita migliorava con regolarità da
cinque o sei anni; aumentava anche la natalità, segno vitale in una società afflitta da
una demografia cronicamente anemica. Il
pieno impiego era garantito. Gli effimeri
governi succedutisi dal dopoguerra, benché deboli e incoerenti, avevano portato il
Paese sulla strada della prosperità. La malattia era politica. Le istituzioni erano paralizzate (in quei giorni di maggio, da quattro settimane si tentava invano di mettere
fine alla quarta crisi di governo in due
anni); l’integrità territoriale era messa in pericolo dall’insurrezione
algerina; e nella gerarchia internazionale la Francia aveva subito
una serie di severe umiliazioni.
L’ultima era arrivata con il brusco
arresto della spedizione franco-inglese di Suez, imposto dall’ormai
superpotenza americana. La maggioranza dei francesi sperava in un
cambiamento e quando i militari d’Algeria insorsero spuntò il nome di de Gaulle. Fu pronunciato dai generali, ma molti se
l’aspettavano, contavano su di lui.
Con accenti brutali ma realistici, in una
cronaca del 1959, lo storico François Furet,
tutt’altro che indulgente con de Gaulle,
scrive che, per ironia della storia, con la
Quinta Repubblica si mette in movimento
un auspicato riformismo borghese. E questo accade in seguito «a un colpo di Stato
reazionario canalizzato da un monarca liberale». Quest’ultimo, il generale de Gaulle, avvia subito un rapido processo di decolonizzazione, smonta
l’impero africano e in quattro anni, dopo avere dimostrato ai militari che non
possono vincere la guerra,
accetta l’indipendenza dell’Algeria. De Gaulle non ha
mai amato Napoleone Bonaparte. Ne ha denunciato
spesso il cinismo e la dismisura. E nella primavera del
1958, quando l’Armée di Algeri insorge contro il governo di Parigi, non segue l’esempio dell’«uomo di Brumaio», come
viene chiamato Bonaparte per il colpo di
Stato contro il Direttorio del 9 novembre
(brumaio) del 1799. Erano in parecchi a
pensare che de Gaulle non avrebbe resistito alla stessa tentazione. Furono delusi,
smentiti, rassicurati.
Ritornato al governo, de Gaulle regola
tuttavia i conti con la Repubblica parlamentare dominata dai partiti. E dà al Paese una Costituzione basata, almeno in
parte, sui principi elencati in un suo celebre discorso pronunciato a Bayeux dodici anni prima. La nuova Costituzione stabilisce un audace spostamento di poteri
dal legislativo all’esecutivo. Il ruolo del
Parlamento viene ridimensionato e il
presidente, con la sua elezione al suffragio universale diretto (introdotta dalla
riforma del 1962), acquista una supremazia che ne fa, come si è soliti dire, un monarca repubblicano. Quando dispone
anche di una maggioranza in Parlamento, egli esercita un’autorità più estesa di
quella del presidente americano. Il sistema ha tuttavia retto a tante prove: alla
successione del fondatore nel 1969; all’alternanza di sinistra nel 1981; alle tre
“coabitazioni” del presidente con una
maggioranza parlamentare ostile, e
quindi a una forte limitazione dei suoi
poteri, ad accezione della politica estera
che resta una sua prerogativa. Ségolène
Royal promette una Sesta Repubblica,
con maggiori poteri al Parlamento. Nicolas Sarkozy appare meno disponibile ai
cambiamenti. Che in realtà non molti
francesi sembrano auspicare.
DEGLI
4 SALONE
AIUTANTI DI CAMPO
Ospita pranzi
e cene ufficiali
5 SALONE
morire in un attentato. Ogni
NAPOLEONE III
Usato per ricevimenti
volta che lei si muoveva all’ee incontri bilaterali
stero, qualcuno al quai d’Orsay doveva correre ai ripari.
«Danou, mi pugnali alle spalD’INVERNO
6 GIARDINO
le?», scherzava Mitterrand. Le
Qui si fanno
perdonava tutto, come lei ha
le foto di gruppo
sempre fatto con lui.
dei nuovi governi
«Quanti sprechi, quanti riti
superflui», ricorda ancora
adesso pensando ai quattorDELLE FESTE
7 SALONE
Usato per le conferenze
dici anni passati all’Eliseo.
stampa presidenziali
L’orologiaio che una volta a
e numerose cerimonie
settimana ricarica i trecento e
passa orologi a pendolo (il più
conosciuto, a doppia faccia8 ORATORIO
ta, nel Salon Murat, segna il
Una scala segreta
tempo di parola nelle riunioconduce al comando
ni di governo per il presidente
atomico sotterraneo
e il primo ministro). Le cene
con duecento convitati, settemila coperti d’argento, le
9 APPARTAMENTI
Situati al piano
tovaglie di broccato d’oro, la
nobile, più volte
cantina con gli champagne
rimaneggiati
millesimati. Il lusso non le è
mai piaciuto: «Per me l’Eliseo
non era una vetrina ma la possibilità di cambiare il mondo». La stampa francese mal tollerava le sue espressioni politiche “scomposte” e le sue amicizie così poco rassicuranti, da Fidel Castro al sub-comandante Marcos.
Da dodici anni, con Bernadette Chirac, all’Eliseo è
tornata la normalità. La moglie dell’attuale presidente
si è calata nei panni della padrona di casa, scrupolosa
nel selezionare la carta da lettere, il fornitore ufficiale di
foie gras, la composizione dei bouquet. Nel 1967 chiesero alla signora Giscard: «Cosa può desiderare di più
adesso che è prima donna di Francia?». «Non esserlo
più», rispose lei, tuttavia rassegnata alla sua condizione. Oggi i ciambellani devono prepararsi all’eventualità
di una cerimonia d’insediamento con una “Madame la
présidente” e un “Premier Monsieur de France”. Se invece vincerà la destra, Cécilia Sarkozy ha già fatto sapere di non sentirsi adatta alla vita dell’Eliseo. «Sono politicamente scorretta», ha commentato una volta, aggiungendo che forse nessuna donna della sua generazione sarebbe più adatta a quel ruolo di soprammobile.
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 APRILE 2007
la memoria
Storia d’Italia
Il 14 luglio 1948, in un periodo di estrema tensione politica,
lo studente siciliano Antonio Pallante sparò da breve
distanza quattro colpi di rivoltella contro il segretario
del Partito comunista, che rimase ferito ma si salvò
Abbiamo ritrovato negli archivi l’incartamento del processo
che ne seguì e documenti rimasti sepolti per sessant’anni
Attentato a Togliatti
le lettere segrete
«A
ROMA
nche se in una cella
del Regina Coeli, caro
Paolo, io sono sempre quell’Antonio
buono, affettuoso, e ponderato!». Era il 23
agosto del 1948 quando Antonio Pallante, da una cella d’isolamento del carcere
romano, scrisse queste parole dirette al
suo amico d’infanzia Paolo Marrone. Poco più d’un mese prima, il 14 luglio, in
piazza Montecitorio, quel ragazzo di
Randazzo, provincia di Catania, che si definiva «buono e ponderato», all’epoca appena venticinquenne, aveva sparato a
bruciapelo quattro colpi di rivoltella contro Palmiro Togliatti, ferendolo gravemente. E scatenando al Nord un moto insurrezionale che costò la vita a decine di
persone. Quasi sessant’anni dopo, il fascicolo giudiziario di “Pallante Antonio di
Carmine e di Meloro Maddalena, nato a
Bagnoli Irpino il 3 agosto del 1923” è diventato pubblico, custodito nell’Archivio
di Stato, sezione di Galla Placidia.
Bisogna slegare sei o sette cordicelle
per aprire il faldone quasi imbozzolito
che contiene un migliaio di fogli ingialliti.
Le pagine più toccanti che spuntano da
quel fascicolo dimenticato sono le lettere
inedite che Pallante scrisse a Regina Coeli e che la censura sequestrò. Da quei manoscritti emerge il ritratto di un giovane
fortemente condizionato da una ideologia intrisa di fascismo, che arrivò a Roma
con un solo libro, Mein Kampf di Hitler.
Pallante, iscritto a Catania a Giurisprudenza, per anni aveva finto di dare esami
e ingannato il padre, agente forestale, che
per mantenerlo agli studi aveva venduto
un terreno di famiglia per duecentomila
lire. Ai primi di luglio del 1948 salutò genitori, parenti e amici, raccolse da loro tremilacinquecento lire e disse che sarebbe
andato a Catania per la tesi di laurea. A Catania ci passò solo per acquistare pistola e
munizioni, e invece partì per Roma.
Il fascicolo giudiziario inizia con la testimonianza di “Iotti Romilde fu Egidio
nata a Reggio Emilia, deputato al parlamento”, interrogata dal procuratore di
Roma due ore dopo la sparatoria. Stando
a questa testimonianza di Nilde Iotti, che
vide Togliatti «abbattersi al suolo», mentre «quel giovane pallido in viso si abbassava sul ferito e gli sparava a bruciapelo al
fianco sinistro», e che fu la prima a gridare ai carabinieri «arrestatelo, arrestatelo»,
diventa difficile immaginare che il Migliore, in quel drammatico frangente,
possa aver pronunciato la fatidica frase
che gli viene attribuita: «Non perdete la
calma». Dopo quello della Iotti, c’è l’interrogatorio dello stesso Togliatti del 22
novembre, quando, ormai guarito, pone
fine alla tesi del complotto agitata a lungo
dall’Unità e da esponenti del Pci. «Non
sono in grado di fornire alcun elemento in
merito a responsabilità di altre persone —
dichiara, lapidario, ai giudici — non essendomi curato di fare indagini, né mi è
stato riferito da altri alcun elemento al riguardo».
Così il forestale Carmine Pallante descriveva il figlio. «Ha un carattere mite e
ubbidiente, però un po’ nervoso, si adirava quando era contrariato anche nelle più
piccole cose. Ha una certa ripugnanza per
le armi. Durante il passato regime era appartenuto alla Gioventù italiana littoria».
Fu la madre a ricordare la sua vocazione
religiosa: «Dopo le elementari — dichiarò
Maddalena Miloro — frequentò per
quattro anni il seminario di Cassano Ionio perché aveva manifestato l’intenzione di farsi prete». Dal seminario alla politica: Pallante, ambizioso quanto confuso,
passò dai liberali all’Uomo qualunque, e
manifestò l’intenzione sia di scrivere per
l’Unità, che di iscriversi all’Msi. Ecco come descrisse se stesso alla polizia che lo
aveva appena arrestato. «Nel ‘44 mi sono
iscritto al Partito liberale, diventandone
dirigente della sezione di Randazzo. Lo
lasciai perché a mio giudizio troppo conservatore. Nel mio paese sono conosciuto come un fascista perché il mio noto anticomunismo viene a torto giudicato fascismo». Ed ecco come spiegò il movente
del suo gesto. «Ho sempre pensato che in
Togliatti si debba ravvisare l’elemento
più pericoloso alla vita politica italiana
“Io sono sempre
quell’Antonio buono,
affettuoso
e ponderato”,
scriveva dalla cella
il mancato assassino
a un amico
cui la censura
non inoltrò la missiva
I verbali della vittima
e di Nilde Iotti
che con la sua attività di agente di potenza straniera impedisce il risorgere della
Patria. Lo ritengo colpevole quale mandante delle stragi di fascisti (rettifico l’espressione che avete usata), di italiani al
Nord. Ho sempre pensato che fosse salutare per l’Italia la sua soppressione, ma
solo tre o quattro mesi or sono ho concepito per la prima volta l’idea di compiere
io stesso l’attentato. E a questa decisione
sono stato indotto dai più recenti avvenimenti politici, in particolare la partecipazione di Togliatti al convegno comunista
internazionale».
Una volta a Roma, Pallante spedì a Togliatti un biglietto con la richiesta di un
appuntamento: «I motivi e l’urgenza della richiesta d’incontrarla mi riservo di
specificarli di persona». In un verbale del
18 agosto, il giovane di Randazzo racconta al procuratore aggiunto, Giuseppe Aromatisi, il suo “incontro” con il Migliore,
quando gli sparò a bruciapelo. «Mi stavo
dirigendo verso il portone di via della Missione per chiedere da dove fosse uscito
l’onorevole Togliatti, quando lo vidi venirmi incontro attraverso la porta a vetri.
Avanzai per colpirlo di fronte, ma non feci in tempo ad estrarre la pistola e ad abbassare il grilletto. Ebbi l’impressione che
il mio gesto fosse stato notato dallo stesso
Togliatti, e per un momento rimasi perplesso e come intontito. In questo tempo
mi passò innanzi e mi superò e io, superato il momentaneo smarrimento, lo seguii, estrassi l’arma e gli sparai».
Pochi giorni dopo l’attentato, in isolamento a Regina Coeli dove era rimbalzata l’eco dell’insurrezione, il giovane di
Randazzo teneva un fitto epistolario con
amici e parenti. Nelle missive, sequestrate, indirizzate agli amici Paolo Marrone e
Luigi Vagliasindi e allo zio Domenico Pallante, il mancato omicida faceva parlare
la sua coscienza. E dava sfogo ai rimorsi,
che non erano certo per aver sparato a Togliatti — che non cita mai per nome —
ma per aver deluso il genitore: «Il contegno di mio padre — scrive all’amico
Luigi il 26 agosto — è spiegabile e io lo
giustifico. Ma una combinazione di
fatti mi hanno dato molto da pensare
sul suo ultra rigido comportamento.
In giudizio lo avrò contro». Non una
parola di pentimento. La sofferenza
di Pallante è un’altra: «Il dolore che
più mi tormenta, credimi — confida
all’amico Paolo — è di credermi dimenticato e ripudiato dai miei parenti e amici, che pur un giorno io
apprezzai e amai».
Tenta, poi, di giustificarsi in
qualche modo. «Credo che la mia
azione, venuta così a sorpresa e
senza un mio cenno, avrà messo
dalla parte avversa quanti mi furono amici. Ma se c’è qualcuno
con la testa sulle spalle, caro Paolo, dovrebbe comprendere e
trarne le migliori conseguenze!». Nei ricordi cerca conforto
alla solitudine: «La sera, nei momenti di malinconia, e nella
profonda solitudine in cui mi
trovo, sento e risento le note del
pianoforte. Ma poi mi fò coraggio e vengo a quello che è del mio
destino e della mia fede. E tutto si accomoda». Il tormento, in quei momenti, pa-
FOTO OLYMPIA
ALBERTO CUSTODERO
re essere solo ciò che pensano di lui i suoi
genitori. «Caro Paolo, desidererei avere
da te informazioni sui miei. Io per ora non
scrivo loro. Saranno furenti. Ma Iddio ha
voluto così». All’«affettuosissimo» Luigi
accenna al suo futuro giudiziario: «Come
avrai potuto leggere dai giornali, a mezzo
autunno avremo il processo. Io mi ci preparo con serenità e coscienza. Dovrò affrontare calunnie, accuse, invettive, nonché una sentenza che già prevedo un po’
dura». Il suo fu considerato dai giudici un
delitto politico, e ciò gli procurò sollievo:
«Mi consola il fatto di non figurare come
un reo qualsiasi, ma come responsabile di
una mia esclusiva iniziativa a difesa e coronamento di quello che è sempre stato il
mio ideale».
Pallante commenta anche l’insurrezione che ha infiammato il Nord: «Ho appreso con vero dolore — scrive a Luigi —
e credimi, dei delittuosi fatti di sangue
scatenatisi nel settentrione. Più di tutto
mi rattrista il sacrificio di sangue cui sono
andati incontro numerosi agenti delle
forze dell’ordine. A questi silenziosi martiri, dalle alte sfere soprannaturali, sarà
dato conoscere che le mie intenzioni erano delle più pure e che quindi saranno fieri di essersi sacrificati per la difesa dei figli
migliori d’Italia, quindi per la loro Patria!». «A quanto è scaturito dal mio gesto,
caro Luigi, non c’è niente da commentare. Ma c’è solo da capire, ripeto capire, da
parte nostra, del Governo, e da quanti ancora oggi si sentono veri italiani».
Ma è nella lettera del 30 agosto, indirizzata allo zio Domenico, che Pallante si
confessa, dolendosi per il dolore causato
alla famiglia, ma rivendicando di aver
agito quasi in forza di una volontà superiore. «Mio caro zio, cosa dire a spiegazione di un gesto che ha scombussolato
ogni aspettativa? Tante cose avrei da dire, molto avrei da sostenere, niente da far
attribuire a colpa quello che già da tem-
po avevo deciso di fare. La mia situazione
d’oggi già l’avevo dinanzi agli occhi allorché venni ad abbracciare te e i miei amati parenti l’ultima volta. È per questo che
non potei trattenermi dal piangere dirottamente». «Posso quindi affermare, a
conclusione assoluta di ogni spiegazione, che il mio destino aveva fortemente
incamminato ogni mio atto, anche di
quelli che oggi sono venuti alla luce per
dare dispiacere a mio padre, nel senso
che oggi mi hanno portato in una cella.
Mio padre, e logicamente, mi ha allontanato dalla sua famiglia, insensatamente
mi si è dichiarato avversario». «Spero che
mi vorrai sempre bene e che comprenderai come il nostro nome non sia stato
macchiato da alcun delitto, ma che si è
imposto nella tradizione di quanti la Patria hanno sempre
amato e servito».
Pallante fu condannato, il 3 ottobre
del 1953, a dieci anni
e otto mesi di reclusione, lavorò come
suo padre alla Forestale, e oggi è un
tranquillo pensionato a Catania.
IL VERBALE
Sopra, Palmiro
Togliatti
in ospedale
A destra, l’arma
usata da Pallante
In basso, il luogo
dell’attentato
presidiato
da un agente
e l’ultima pagina
del verbale
della deposizione
di Togliatti
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
La rivoluzione
che non ci fu
ALDO AGOSTI
ra il febbraio e il luglio del 1948 la giovane democrazia italiana è sottoposta a tensioni durissime, che in più di un momento sono a un passo
dal metterla in discussione. Esclusi socialisti e comunisti nel giugno 1947
dal terzo governo De Gasperi, l’Assemblea costituente è ancora riuscita, superando divisioni politiche sempre più profonde, a dare al paese la sua nuova
Costituzione. Ma la carta fondamentale della Repubblica appare più la testimonianza estrema di un momento irripetibile, maturato nel clima di unità del
dopoguerra e presto svanito, che il fondamento riconosciuto di una nuova
convivenza civile.
La Guerra fredda è diventata ormai una realtà. Il risultato delle elezioni del
primo Parlamento repubblicano italiano, convocate per il 18 aprile, rappresenta una posta altissima per le due superpotenze, che si dimostrano tutt’altro che disposte ad accettarlo a scatola chiusa: George Kennan, autorevole
consigliere del segretario di Stato americano, prospetta l’ipotesi di «mettere
fuori legge il Partito comunista e condurre un’energica azione contro di esso
prima delle elezioni» per provocarlo alla guerra civile, e fornire così il pretesto
alla rioccupazione militare del Paese. Togliatti informa l’ambasciatore sovietico Kostylev che il Pci è pronto a reagire ad un’eventualità del genere con
un’insurrezione armata nel Nord del paese. Strutture paramilitari clandestine sono apprestate non solo dai comunisti, ma, come è ora ampiamente documentato, anche dai cattolici, in vista di uno show down ritenuto inevitabile
nel caso che gli avversari non accettino un responso sfavorevole delle urne.
Il clima è avvelenato da una situazione sociale esplosiva. La politica di risanamento economico e finanziario inaugurata da Einaudi e proseguita da Pella ha aumentato i livelli di una disoccupazione già estesissima. La Confindustria attribuisce il dilagare degli scioperi a un piano preciso del Pci e invita le
imprese associate a non concedere nulla sul fronte della contrattazione. La
campagna elettorale si apre così in un clima di contrapposizione esasperata,
in cui la situazione dell’ordine pubblico sembra sul punto di sfuggire di mano. La Chiesa e i comitati civici si mobilitano nella lotta contro «l’Anticristo».
Gli emigrati americani scrivono alle loro famiglie in Italia che in caso di vittoria del Fronte gli aiuti del Piano Marshall cesseranno, e sarà la fame. I partiti
del Fronte popolare, apparentemente sicuri della vittoria, plaudono al colpo
di forza con cui i comunisti, in Cecoslovacchia, si sono sbarazzati degli alleati di governo, e evocano minacciosi scenari di resa dei conti finale. I toni della propaganda si fanno via via più accesi, rappresentando due Italie irriducibilmente nemiche.
La vittoria della Democrazia cristiana, netta oltre ogni previsione, non
smorza la tensione. Nelle settimane successive al voto l’attenzione del Parlamento è polarizzata dalla ratifica dell’accordo con gli Stati Uniti sul Piano Marshall. Nella discussione alla Camera, il 10 luglio, Togliatti denuncia in quell’accordo una subordinazione «alla politica dei gruppi dirigenti imperialisti
degli Stati Uniti» e ammonisce che se il Paese dovesse essere trascinato in una
guerra, «noi conosciamo qual è il nostro dovere. Alla guerra imperialista si risponde oggi con la rivolta, con la insurrezione per la difesa della pace, della indipendenza, dell’avvenire del proprio Paese!».
Tre giorni dopo un editoriale del quotidiano socialdemocratico, siglato dal
suo direttore Carlo Andreoni, bollando la «jattanza con la quale il russo Togliatti parla di rivolta», esprime la certezza che «il governo della Repubblica e
la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti e i suoi complici. E
per inchiodarveli non metaforicamente». Questa prosa virulenta può essere
giudicata emblematica del clima in cui matura il gesto di Pallante il 14 luglio.
Sia la Direzione del Pci sia la Cgil sono colte di sorpresa dall’imponenza di una
risposta di massa, disarticolata e in gran parte spontanea, in cui confluiscono
la frustrazione per la sconfitta elettorale del 18 aprile, lo sdegno per l’attentato alla vita di un dirigente amatissimo dai militanti, la diffusa attesa per una
«spallata» decisiva che in tanti si aspettano.
Non è mai stato provato che dietro questo movimento tumultuoso ci fossero una trama organizzativa e una leadership politico-militare del Pci, come
sosterrà più tardi il ministro Scelba. È probabile piuttosto che scattino quei
meccanismi di difesa che il partito ha predisposto per l’ipotesi di una «provocazione» e di un colpo di Stato, e che in qualche caso questi meccanismi
sfuggano di mano, soprattutto per l’intervento degli ex-partigiani, a chi li aveva ideati. Per tre giorni, paralizzata dallo sciopero generale, l’Italia sembra sull’orlo della rivoluzione. Restano sul terreno almeno quindici morti, equamente divisi fra agenti delle forze dell’ordine e dimostranti, mentre vengono
operati migliaia di arresti.
Eppure in quel momento decisivo ciascuna delle parti che si fronteggiano
compie un passo indietro sull’orlo del baratro: i comunisti frenano, evitano
che il moto si trasformi in insurrezione, e presto lasciano cadere anche la richiesta di dimissioni del governo. Questo a sua volta non cede alla tentazione
di mettere al bando il Pci. La guerra di movimento dei caldi mesi di febbraioluglio si trasforma lentamente in guerra di posizione. Le appartenenze separate, benché abbiano messo radici profonde e destinate a durare, non cancellano del tutto il senso di una cittadinanza comune e il rispetto di una serie di
regole sia pure a malincuore condivise. La democrazia, malgrado tutto, tiene.
EDIZIONE STRAORDINARIA
Nella foto grande, l’edizione
straordinaria dell’Unità
del 14 luglio 1948
Qui sopra, una lettera
di Antonio Pallante
dal carcere di Regina Coeli
Sotto, un suo ritratto del tempo
Roland Lehoucq
La luce…
vista da vicino
Cos’è la luce? Perché riscalda? Da
quanti colori è composta? Un astrofisico in pensione risponde alle mille
domande dei tre nipotini, appassionati
di raggi laser e impazienti di capire
meglio quello che vedono ogni giorno.
Roland Lehoucq
Il Sole
la nostra stella
Cos’è il Sole? Perché brilla? Come fa a
scaldarci, se è così lontano? Un simpatico astronomo risponde alle domande
di quattro piccoli amici, guidandoli
con pazienza e senso dell’umorismo in
un viaggio alla scoperta della stella a
noi più vicina.
Laura Minestroni
non è
come credi
IN LIBRERIA
Si comincia così.
Col mentire a se stessi e credere
perdutamente alle proprie fantasie.
Poi si finisce per ingannare gli
altri e il mondo intero.
Lupetti
Narrativa
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Edizioni Dedalo
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T
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Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
l’immagine
Svolte della moda
DOMENICA 29 APRILE 2007
All’alba del Ventesimo secolo, negli anni febbrili
che precedono la Grande guerra, un couturier
francese sconvolge la buona società disegnando
abiti sotto i quali “si poteva percepire il corpo!”
Ora, alla sua opera e alla sua straordinaria vita,
il Metropolitan di New York dedica una mostra
NATALIA ASPESI
E lo stilista-sultano
creò la donna libera
a notte dell’11 giugno
1911 Paul Poiret offrì a
trecento ospiti la più fiabesca delle sue tante stupefacenti feste. L’aveva intitolata “La milleduesima
notte”, in omaggio più alla sua moda arabeggiante che alla passione orientalista
precipitata su Parigi con l’arrivo degli audaci Ballets Russes. Il giardino, simile a
quello di Versailles, e il palazzo appartenuto a Luigi XVI, dove il couturier aveva aperto
la sua sartoria, erano illuminati dalle torce
rette da servitori di colore a torso nudo, ragazze seminude spargevano incenso, pappagalli
multicolori, uccelli del paradiso, pavoni si nascondevano spaventati tra gli alberi da cui pendevano frutti luminosi, un immenso buffet percorreva una specie di grotta di Alì Baba, caraffe di
bevande multicolori emanavano luce, dal buio
arrivava musica esotica, tra gli ospiti in costume
persiano si muovevano saltimbanchi, fattucchiere, cartomanti, mimi, finti mendicanti e finti venditori di schiavi. Su un trono d’oro sedeva Paul Poiret
abbigliato da sultano, con un fiabesco turbante di raso bianco incrostato di gemme su cui svettava una
aigrette di fili di cristallo: arrivati tutti gli ospiti, Poiret che a trentadue anni era già chiamato “le magnifique”, aprì una grande gabbia dorata dove lo attendeva la languida, incantevole favorita: la sua modella ideale, la ventenne moglie Denise, bella e sottile,
che in quella notte di meraviglia, con quei pantaloni
gonfi di chiffon ocra stretti alle caviglie, la corta crinolina a paralume di lamè dorato, leggera come la
corolla rovesciata di un papavero, il turbante d’oro
con una gigantesca aigrette fermata da un gioiello di
turchesi, era l’immagine della nuova femminilità libera e sensuale che inaugurava il Ventesimo secolo.
Era il tempo dell’audacia, anche per le donne, anche per la moda, dell’ultimo fulgore di piacere e mistero prima della tragedia della guerra: era anche il
tempo in cui stava nascendo il movimento femminista che chiedeva di uscire dalla secolare sudditanza e pretendeva prima di tutto il diritto al voto. Sin
dagli inizi Poiret aveva sconvolto la buona società
cancellando sei secoli (se si esclude il periodo del Direttorio e dell’Impero napoleonico) di abbigliamento femminile costrittivo, di vite strette e di gonne a
cono, di strati e strati di tessuto a celare ogni naturalezza, ancora in auge in quel primo decennio del secolo. La sua fu una rivoluzione epocale, quasi oltraggiosa, del modo di vestire, una vera metamorfo-
L
STANCHEZZA
Lassitude,
un modello
di tunica
di Paul Poiret
disegnato
da Georges
Lepape
nel 1912
si del corpo che, liberandolo dal rigido corsetto e dall’eccesso di stoffa, scegliendo come punto di forza
dell’abito le spalle e non la vita, restituiva alle donne
il diritto alla forma naturale, le preparava all’indipendenza, alla fuga dalla domesticità claustrofobica, al mondo del lavoro e delle carriere, agli sport, ma
anche al tango che nessuna donna deformata in una
assurda clessidra, contro cui già si scagliava la scienza medica, avrebbe mai potuto affrontare.
Le ricche signore parigine, come la contessa di
Greffulhe, modello per la proustiana duchessa di
Guermantes, si entusiasmarono subito per questa
semplicità d’avanguardia che in qualche modo si
adeguava allo slancio dei nuovi movimenti artistici,
per le linee diritte, alla greca, gli scolli a barchetta, la
vita alta, i colori vivaci, per la scoperta di una mai provata libertà di movimenti. Ma le signore stavano
chiuse nei loro salotti, nelle loro carrozze e automobili, e Poiret invece pensava che la moda esiste solo
quando scende in strada, quando è di tutti. Così un
sabato pomeriggio andò alle corse di Longchamp
con tre mannequin vestite con lo stesso abito di linea
greca, dagli spacchi laterali che mostravano, massima impudicizia, le caviglie, per di più avvolte nella
novità delle calze colorate. Fu uno dei tanti scandali
che accompagnarono il travolgente successo internazionale del couturier. Le Figaro scrisse: «Senza
ombra di dubbio quegli abiti sono il peggio delle recenti follie». E L’illustration: «Che orrore! Sotto quei
vestiti si poteva percepire il corpo!». In Inghilterra,
dove Margo Asquith, moglie del primo ministro liberale, aveva invitato Poiret a mostrare i suoi modelli, ci fu una vera crisi politica e la stampa conservatrice attaccò Downing Street, per l’occasione soprannominata «Gowning Street» (da gown, abito).
“Le magnifique” accumulava fama, denaro, svenimenti di signore, oltraggi di gentiluomini, e, imperturbabile, seguiva la sua strada di appassionato
innovatore. Nel 1910 lanciò una gonna così stretta
alle caviglie che le signore erano costrette a saltellare: e questa volta intervenne addirittura papa Pio X
ordinando ai parroci di non dare l’assoluzione alle
signore così bizzarramente abbigliate. Ma fu con “La
milleduesima notte” del giugno 1911 che inaugurò
le più scandalose delle sue innovazioni, la jupe culotte e la jupe entrevée (la gonna pantalone e la gonna ripresa alle caviglie), e addirittura un modello di
veri pantaloni ampi, vagamente maschili, che anticipavano i pigiama degli anni Trenta. Jean Worth, da
cui aveva lavorato a vent’anni, figlio di Charles Frederick, il creatore delle imponenti crinoline dell’Imperatrice Eugenia, commentò la novità: «È volgare,
è malvagia, è brutta! Il mondo è impazzito: nessuno
parla più di arte, letteratura o politica, ma solo di
quell’orribile indumento!». Nei mesi seguenti Poiret
vendette jupe culotte per dodici milioni di franchi.
Nessun couturier di quel periodo, ancora legati alla
morigeratezza del corsetto, né il grande Jacques
Doucet, né Madame Paquin né le sorelle Callot, avevano mai raggiunto un tale trionfo. Nel suo diario il
poco più che ventenne Jean Cocteau scrisse: «Le duchesse sono pronte a farsi vestire, svestire, mettere
in costume da Paul Poiret. Sognano solo di diventare la sua favorita, le fodere di seta e pelliccia dei cuscini, i paralumi e i tappeti dell’harem del sultano alla moda».
Paul Poiret a trent’anni era un uomo robusto con
barba e baffi scuri, neri occhi sporgenti, un aspetto
dignitoso e imponente da vecchio gentiluomo in
marsina e tuba. Veniva da una famiglia di negozianti di tessuti, il suo primo impiego l’aveva avuto
da Jacques Doucet, il sarto dell’alta società fine secolo e grandioso collezionista, da Watteau a Matisse, da Chardin a Picasso, da cui aveva acquistato il
celebre Les Demoiselles d’Avignon. Poiret amava le
donne e le voleva libere; la moda e la voleva democratica, per tutti; l’arte e fu uno scopritore di talenti. George Lepape era sconosciuto quando il cotourier lo scelse per disegnare l’album di una sua collezione. Era sconosciuto Romain de Tiroff, che a diciannove anni fece alcuni schizzi degli abiti presentati da Poiret a Mosca e San Pietroburgo e due
anni dopo, a Parigi, divenne il suo assistente disegnatore col nome di Ertè. Nessuno sapeva chi fosse
il pittore americano Edward Steichen e lui lo scelse
per fotografare la sua collezione, trasformandolo in
una celebrità. Anche Man Ray fu introdotto alla fotografia di moda ed è sua quella famosa della giovane miliardaria Peggy Guggenheim in un abito ricamato con strascico di un Poiret già in declino.
Amico di artisti, collezionò più di un centinaio di
opere, da Brancusi a Matisse, da Modigliani a Picabia, da Picasso a Van Dongen, Utrillo, Rouault, Vlaminck, Dunoyer de Segonzac e Raoul Dufy che per
lui disegnava tessuti, inviti, pannelli.
Era davvero un personaggio vulcanico, eclettico,
costantemente creativo: scriveva articoli, libri tuttora preziosi per chi si occupa di moda (En habillant
l’Epoque, Revenez-y, Art et finance), ed essendo un
gran gourmet anche un famoso ricettario, 107 ricette o curiosità culinarie. Fu attore accanto a Colette ne
La vagabonde, disegnò costumi per le Folies-Bergére e il Casino de Paris, per un Nabuchodonosor e per
un Afrodite. Con i suoi dipendenti, con cui era protettivo e generoso, la regola d’oro, che vale anche per
gli stilisti di oggi, era: «Voglio essere ubbidito anche
quando ho torto». Dalle clienti pretendeva cieca sottomissione e non accettava nessuna osservazione.
Offeso con la baronessa Henri de Rothschild, che
aveva criticato un suo abito, le impedì di entrare a
una sua sfilata. «Non sono abituata ad essere messa
alla porta dai miei fornitori», disse l’oltraggiata dama. «Non mi considero un suo fornitore e fino a
quando non se ne andrà non ci sarà nessuna sfilata».
Il giorno dopo si presentò il Barone stesso in compagnia della sua giovane amica che sino a quel momento non aveva osato farsi vedere da Poiret per
paura di incontrare la Baronessa. Per quel che riguarda le critiche, Poiret ha fatto scuola: ad essere
cacciate dalle sfilate oggi sono le giornaliste che non
si prostrano ai piedi dei Narcisi più potenti.
Tutto ciò che oggi fa naturalmente parte del
mondo della moda fu in qualche modo anticipato
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
LA MOSTRA
Il Metropolitan Museum’s Costume Institute
di New York celebra Paul Poiret allestendo
una mostra dal titolo Poiret: King of Fashion. Saranno
esposti vestiti, disegni e bozzetti (parte di questo
materiale non è mai stato esposto prima) e attraverso
video installazioni la mostra approfondirà la tecnica
di Poiret e la sua modernità. La mostra sarà inaugurata
il 7 maggio e aprirà al pubblico dal 9 maggio al 5 agosto
DIVE E ANCELLE
ALBUM DI FAMIGLIA
Nella foto a sinistra,
due abiti di Poiret
del 1911
Qui accanto
un abito da sera
in velluto blu
del 1923
Nella foto in basso,
Paul e Denise
Poiret in costume
alla festa
della Milleduesima
notte del giugno 1911
Sotto, un dipinto
di Georges Lepape
ispirato a Denise
durante la festa
In alto, Madame Poiret con la figlia Martine
nel 1912. In basso, la famiglia Poiret: da sinistra
Perrine, Madame Poiret, Colin, Paul e Martine
SILHOUETTE
In alto due modelli
di Paul Poiret
del 1911 disegnati
da Georges Lepape
A sinistra,
abito da giardino
del 1926
A destra,
un abito di seta
con maniche crespe
e ornamenti
di organza ai polsi
e alle spalle (1922)
disegnato
da André Marty
da lui: e non solo nelle linee rivoluzionarie e nei
colori alla Matisse, da sempre scopiazzati anche nelle ultime collezioni; non solo nei turbanti che attualmente fasciano la testa
delle fashion victims; e negli allora scandalosi stivali maschili al ginocchio, a tacco piatto e in
colori squillanti che indossò anche l’attrice-danzatrice fatale Ida Rubinstein in un suo viaggio in
Abissinia, conquistando gli atterriti dignitari locali. Fu il primo couturier a lanciare il suo profumo, e
per questo aprì un laboratorio e una società che
chiamò Rosine, dal nome della prima dei suoi cinque figli, nata nel 1906. Fu il primo a progettare una
collezione di moda maschile, a inventare la boutique, a studiare il sistema del prêt-à-porter e delle
royalties, a partire alla conquista degli Stati Uniti,
a chiedere agli artisti di lavorare per lui. Chiamò
Martine, come la sua secondogenita nata nel 1911
(vennero poi Colin nel ‘12, Perrine nel ‘16, Gaspard
nel ‘18), la scuola di arti decorative ispirata all’austriaca Wiener Werkstatte, aperta a ragazzine particolarmente dotate, di famiglia operaia, che lui stipendiava. Fu un’iniziativa così geniale che sei mesi dopo Poiret poté aprire in Faubourg Saint Honoré un negozio per vendere i loro lavori ultramoderni, tappezzerie, tappeti, tessuti d’arredamento, mobili, lampade, vasi; le Martine, come
venivano chiamate le allieve della scuola, furono
ingaggiate per decorare appartamenti, ristoranti,
alberghi. Con quegli arredi Poiret decorò un castello di Isadora Duncan; Sacha Guitry fu il primo
ad ordinare la vasca da bagno interrata di mosaico
d’oro inventata, come il bar nel salotto, dal couturier.
Al culmine del suo successo, venerato in tutto il
mondo, Poiret, a trentacinque anni, chiuse di colpo tutto, laboratori e casa di mode. Il 3 agosto 1914
la Germania aveva dichiarato guerra alla Francia, e
lui, spinto da appassionato patriottismo, raggiunse subito il reparto di fanteria cui era stato assegnato, vestito con una divisa di tessuto pregiato e fatta
su misura, a bordo della sua Renault Torpedo guidata dall’autista. Evitando le baracche militari, si sistemò con il pittore André Derain in un alberghetto che arredò subito con mobili Impero e tende
Martine. Assegnato come aiuto sarto al 119° reggimento fanteria, imparò ad attaccare bottoni alle divise, accorgendosi dello spreco di tessuto e tempo
con cui erano confezionate. Instancabile e desideroso di essere utile alla Patria,
molestò ogni responsabile
dell’esercito arrivando sino a
Alexandre Millerand, ministro della guerra e futuro presidente francese, senza risultato.
Dopo quattro anni e mezzo
di impegno militare, a guerra
finita, Poiret fu finalmente
congedato. La sua primogenita Rosine, a dieci anni, era
morta di otite, il neonato Gaspard di spagnola. Con un
piccolo capitale, bisognava, a
quarant’anni, ricominciare
da capo, grandiosamente. Ma il mondo era cambiato, erano cambiate le donne che con gli uomini al
fronte avevano scoperto l’indipendenza, anche la
moda doveva cambiare, semplificarsi, diventare razionale, meno costosa, a disposizione di tutti, adatta per quella nuova figura di donna che non era più
la signora ma la ragazza, splendente di giovinezza,
impaziente di muoversi liberamente negli abiti dalle gonne accorciate: la flapper, la bachelor girl.
Lui, che era stato il primo a rivoluzionare l’abbigliamento femminile e capiva benissimo i nuovi bisogni delle donne, non capì che il cambiamento
non era temporaneo ma irreversibile: il suo bisogno
di unicità, di preziosità, gli suggerivano abiti rinascimentali e medioevali, addirittura da infanta secentesca; non gli mancava né l’ispirazione né la sapienza della bellezza, ma ormai le sue idee non corrispondevano più ai desideri delle donne. Il precipizio fu veloce, le riviste di moda cominciarono a
Nell’agosto del 1914,
partì per il fronte
con una divisa su misura
fatta di tessuto pregiato,
a bordo della sua Torpedo
guidata dall’autista
TRA I GUANCIALI
Un vestito
realizzato
dal couturier
Paul Poiret
e disegnato
da George
Lepape
nel 1911
ignorarlo, le clienti sparivano. Ma la sua fama resisteva e, in pieno sfacelo, Natasha Rambova, in viaggio a Parigi col marito Rodolfo Valentino, gli ordinò
un intero guardaroba. Anche Josephine Baker, la
massima star degli anni Venti, si vestiva solo da lui.
Né le drammatiche difficoltà impedivano a Poiret
di mantenere il suo orgoglio: Mistinguett, che una
volta l’aveva irritato, gli chiese un costume rosa carne per un suo spettacolo al Casino de Paris. Lei arricciò il naso: «Ma questo per lei è rosa?». E lui: «Certo mia cara, rosa spento, così appropriato per lei».
La situazione finanziaria peggiorava, fu costretto a chiedere aiuto alle banche, che spietate si impossessarono anche del suo nome. Continuava ad
avere iniziative brillanti, eleganti, raffinate, che
però fallivano. Dovette vendere anche la sua collezione di quadri, finiti nei grandi musei americani e francesi, fino a quando i nuovi padroni gli tolsero il telefono, gli sbarrarono l’ingresso nei suoi
uffici e nel 1929, l’anno del crollo di Wall Street,
chiusero definitivamente la Maison. Con ogni
franco che guadagnava in vari modi Paul Poiret
pagava i suoi debiti, andò anche a presentarsi alle
liste di collocamento, che non prevedevano lavoro per un couturier, mestiere sconosciuto. Un
giorno incontrò Coco Chanel vestita di nero e lui,
che odiava sia quel colore che la nuova giovane diva della moda, le chiese ironico: per chi porta il lutto signora? «Per lei signore», fu la risposta crudele.
Ma Paul Poiret che era stato ricco, potente, temuto, venerato, non piegò mai la testa neppure
nelle avversità, non smise mai di credere in se stesso, di sognare, di progettare: neppure quando la
moglie lo lasciò, neppure ad ogni sfratto dalle camere ammobiliate, neppure quando gli amici rimasti fecero una colletta per permettergli di mangiare. Colpito dal morbo di Parkinson, debilitato
per le privazioni della miseria ma anche della Seconda guerra mondiale, Paul Poiret morì in ospedale la sera di venerdì 28 aprile 1944: aveva sessantacinque anni, Parigi era occupata dai nazisti,
il primo maggio era una giornata di sole e il suo funerale fu seguito da trecento persone. Non se ne
accorse quasi nessuno, neppure i giornalisti, tranne Lucien François: «...un uomo non può, come
Poiret ha fatto, dedicare la sua vita a esaltare il prestigio del lusso in una città che vive di lusso e ne ricava tesori; un uomo non può, come Poiret, essere stato colui cui tanti artisti, sarti, industriali tessili, profumieri, devono indirettamente parte della loro fortuna; un uomo non può esser Poiret e
morire in tale desolata miseria».
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 APRILE 2007
Uno zibaldone di poesie, immagini, oli,
litografie che il grande architetto
intitolò “Le Poème de l’angle droit”. Lo considerava la sintesi
del suo pensiero artistico, l’ultimo approdo della sua concezione
dello spazio. Ora, 52 anni dopo, viene pubblicato anche in Italia
I taccuini di
LeCorbusier
L’uomo che guarda e le utopie di cemento
ENRICO REGAZZONI
hi si ricorda di Le Corbusier? Travolte dall’impietosa stagione della bellezza, figure che hanno segnato con forza il nostro
modo di pensare e di vivere rischiano oggi di essere difficilmente ricostruibili. Sono entrate nella storia, si dice: ma la storia recente, e cioè
quell’ordinamento del tempo passato
che pensavamo imperdibile, si è anche
trasformata in una zona franca della rimozione collettiva. E non è semplice
restituire nitidezza al profilo del personaggio che forse più di ogni altro influenzò l’architettura del Novecento,
forzandone i limiti e saturandola di genialità e contraddizioni.
Intanto, quanti furono i Le Corbusier? Anagraficamente, uno solo: e cioè
quel Charles-Edouard Janneret-Gris
(lo pseudonimo di Le Corbusier lo
adottò per la prima volta sulla rivista
Esprit Nouveau, da lui fondata nel 1919
con il pittore Amédée Ozenfant e il
poeta Paul Dermée), nato in Svizzera,
a La Chaux-de-Fonds il 6 ottobre 1887.
Culturalmente, molti di più: il razionalista severo e l’umanista innamorato
della classicità mediterranea, il teorico
del cemento armato e il disegnatore di
leggerissimi mobili, l’autodidatta in
lotta contro le accademie e l’architetto
disposto a collaborare con qualsiasi
potente, l’intellettuale che vagheggiava complessi abitativi ai limiti di una
logica concentrazionaria e il poeta capace di progettare una chiesa che solo
grazie al suo peso non spiccava il volo.
E poi il tirchio, il lirico, il generoso, il cinico, il genio... Tutto e il suo contrario,
apparentemente. Ma sempre in tensione verso il confine dell’eccellenza, e
sempre all’insegna di un culto smisurato di se stesso.
Così, se uno ne avesse voglia (ma chi,
fra quanti non lo conoscono già, potrebbe oggi sentirsi spinto a fare i conti
con lui, senza timore di apparire obsoleto o snob?), dovrebbe cercare di di-
C
stricarsi nella spaventosa mole di materiali che Le Corbusier, per bulimia
d’azione ma anche per fiera volontà di
testimonianza di sé, ci ha consegnato:
cento edifici, centosettanta progetti
non costruiti, sessantacinque progetti
di urbanistica, quattrocento pitture a
olio, sette affreschi, duecento litografie, quaranta tappezzerie, cinquanta
sculture, venti mobili, cinquanta libri,
seimila disegni autografi, trentaduemila disegni dello studio d’architettura. Terrorizzante, d’accordo. Ma si potrebbe almeno tentare, per scoprire
quanto della sua eredità sia ancora vivo. La meta, come si dice, vale il viaggio.
Poi ci sono le occasioni, come questa
edizione de Le Poème de l’angle droit (Il
poema dell’angolo retto), dove Corbu
(come lo chiamavano gli amici) elegge
la forma artistica a ultimo approdo dell’organizzazione spaziale. O come, arretrando nel tempo, le manifestazioni
che si tennero vent’anni fa (sembrano
secoli, quanto a clima culturale) in occasione del centenario della nascita.
Proprio in quella circostanza, all’inizio
del 1987, apparve un numero speciale
della rivista Casabella (all’epoca diretta da Vittorio Gregotti) curato da Pierre-Alain Croset e interamente dedicato a Le Corbusier. Meglio: il numero
della rivista prendeva in esame l’incredibile capacità di osservazione del reale che per il progettista era la prima
chiave di lavoro. «Guardare / osservare / vedere / immaginare / inventare /
creare», questa la progressione che
teorizzava lui stesso negli ultimi anni.
E ancora: «Sono un asino ma che ha
l’occhio. Si tratta dell’occhio di un asino che ha capacità di sensazioni. Sono
un asino con l’istinto della proporzione. Sono e rimango un visivo impenitente».
Più che un’attitudine: un dono, il suo
sguardo. La possibilità di cogliere il
centro al primo colpo d’occhio. Ma anche una tecnica, dapprima sorretta
dalla pratica costante del disegno (la
macchina fotografica era per lui «strumento di pigrizia»), poi, con l’arrivo
“Sono un asino
- diceva di sé ma che ha l’occhio
Sono un asino
con l’istinto
della proporzione
Sono e rimango
un visivo impenitente
della Cupido 80 (una camera assai evoluta per l’epoca), perfezionata con
splendide fotografie. Infine liberata
dall’aereo (Corbu fu tra i primi civili a
farne un uso sistematico): «Dall’aereo
ho assistito a spettacoli che si potrebbe definire cosmici. Che invito alla meditazione, che richiamo alle verità fondamentali della nostra terra!».
Così, partendo dagli occhi, riuscì a
cogliere il senso di tutti i progetti che si
trovò ad affrontare, a formulare le domande corrette e dunque a dotarsi di un
bagaglio culturale essenziale che gli
consentì un uso trasversale del proprio
sapere. Pur avendo cominciato come
orafo cesellatore (La Chaux-de Fonds
era città d’orologi e il suo primo maestro
fu il pittore Charles L’Eplattenier), la
qualità estetica (di un oggetto, di un edificio, di un’intera città) non diventò mai
l’obiettivo primario della sua ricerca,
ma piuttosto un esito naturale della necessità. Impossibile, qui, riassumere in
poche righe le esperienze che segnarono il suo percorso creativo. Ricorderemo il suo apprendistato presso Peter
Behrens, a Berlino (fra il 1910 e il 1911),
e il “voyage d’Orient” (sempre nel 1911),
due fatti che certo pesarono nella sua
radicale devozione alla classicità. Come pure fu decisiva, nel suo inseguimento di uno standard edilizio innovativo, l’impressione che gli fecero le rovine della Prima guerra mondiale in Francia. Di tutto questo (e della sua esperienza pittorica, all’insegna del purismo) formulò una sintesi magistrale in
Vers une architecture, il libro che nel
1923 gli valse la definitiva consacrazione nell’olimpo della modernità.
Altro fu la battaglia per costruire
davvero. Tutti segnati da una forte
esemplarità, gli edifici da lui firmati furono certo inferiori, per numero e dimensioni, a quelli che la sua carica di
utopia gli avrebbe suggerito. Dalle ville ai “grands travaux”, fino alla cappella di Notre-Dame-du-Haut e a Chandigarh (la nuova capitale indiana), Le
Corbusier inseguì tanto il sogno collettivo di un nuovo modo di abitare quanto quello, solitario, di un’arte che varcava la soglia dell’indicibilità e diventava cosa. Pensò smisuratamente in
grande, riprogettando città senza esserne richiesto e bussando, spesso
inutilmente, a porte non consigliabili
quali quelle di Pétain, Stalin e Mussolini (nulla di suo è edificato in Italia). Disinvolto Robespierre dell’architettura,
cercò di imporre la felicità dell’uguaglianza, disegnando spazi che indirizzavano i comportamenti delle persone, anziché assecondarli. Poiché fu geniale, i suoi sbagli ebbero comunque
un senso. Ma quelli dei suoi entusiasti
nipotini, molto meno.
Ricordo un personale pellegrinaggio giornalistico di anni fa all’Unité
d’habitation di Marsiglia, l’edificio-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
TIRATURA LIMITATA
Nel montaggio grafico,
un’immagine
di Le Corbusier
e cinque pagine tratte
da Le Poème de l’angle
droit. Il libro fu pubblicato
nel 1955 dalle Editions
Verve in tiratura limitata
Ora esce anche in Italia
per Electa, che ha
riprodotto fedelmente
l’edizione originale
Quell’angolo retto
tra la mente e il cuore
città da lui progettato come un transatlantico (e costruito fra il 1947 e il 1952).
Un gigante di cemento lungo 165 metri e alto 56, pensato per ospitare 1.600
persone in 337 appartamenti di 23 tipi
(ma la superficie standard è di 98 metri
quadrati), ma anche dotato di servizi
interni quali albergo, bar e supermercato. Un’architettura grandiosa, inquietante, che articola i “cinque punti” fondamentali da lui teorizzati
(pianta libera, facciata libera, pilotis di
sostegno, finestra in lunghezza e tettoterrazza) e che, nel bene e nel male, lascia il suo segno in chi la abita. C’erano,
all’epoca, violente zuffe condominiali
per decidere sulle enormi spese di ristrutturazione (il cemento a vista si
ammalora rapidamente), e alcuni spazi pensati per la vita in comune (cineclub, atelier di
fotografia, club di
ping-pong) erano
stati chiusi. Dalla
palestra sul tettoterrazza, divenuta
scuola di karate,
provenivano le
angoscianti urla
dei lottatori. Ma
molti inquilini
(soprattutto architetti ed ex ragazzi del ’68 che
non avevano abdicato alle utopie comunitarie) erano
comunque felici di
esser lì, sostenendo che all’interno
dell’Unité vigeva
una solidarietà
non riscontrabile
in alcun quartiere
cittadino.
Sempre in quel viaggio, mi capitò di
pernottare nel convento di Sainte-Marie de la Tourette, a Eveux-sur-l’Arbresle, non molto distante da Lione. Era
uno degli ultimi lavori di Le Corbusier
(edificato fra il 1957 e il 1960), ma an-
RENZO PIANO, LE CORBUSIER
E LA MAGICA LUCE ROSSA
Lo schizzo e gli appunti
qui sotto sono il primo studio
dell’architetto Renzo Piano
per il convento delle Clarisse
che sta progettando e che dovrà
sorgere accanto alla cappella
di Ronchamp, opera
di Le Corbusier. Accanto
al disegno Piano ha scritto:
“Le Corbusier a Ronchamp
Le Corbusier la luce la fa entrare
da nord. È la luce magica
che si colora di rosso”
che qui le impronte dei casseri erano
imbruttite da cavillature e crepe. E anche qui era evidente la passione dell’architetto per le idee e la sua noncuranza per le cosiddette finiture. Spezzate in due le funzioni del chiostro (che
serve a pregare e a muoversi), i padri
domenicani pregavano sui tetti-terrazza e si spostavano nei lunghi camminamenti interni. Le celle, un’ottantina, riprendevano le dimensioni del
Modulor (un sistema di proporzioni a
misura d’uomo che l’architetto aveva
ricavato dalla sezione aurea e dalla serie di Fibonacci): 226 centimetri in altezza, cioè un uomo con le braccia alzate, e 186 in larghezza, un uomo con le
braccia aperte. Qualche lamentela dei
religiosi, perché quello strambo progettista, che amava il contrasto dei
materiali, aveva
murato i vetri delle
finestre fisse direttamente nel cemento. Quando si
rompevano, come
ai vetri accade, era
un bel guaio.
Da ultimo visitai
il Cabanon di Cap
Martin, la baracca
in legno (un quadrato di 366 centimetri di lato) che
costruì per sé davanti al mare, sul
terreno di amici, e
dal quale uscì per
quel suo ultimo
bagno (morì nuotando, per crisi
cardiaca, il 27 agosto 1965). Un tavolo, uno sgabello,
un letto, un lavandino. Un’autopunizione? Al contrario:
l’idea di quanto basta. Oggi, che l’architettura è un effetto e lo stupore è la
sua musa, nulla sembra bastare. Del
resto, l’essenziale richiede una dimensione. Il superfluo, no.
AMBRA SOMASCHINI
anoscritti, ghirigori, litografie, oli, disegni, collage. Nel
1955 Le Corbusier pubblica Le poème de l’angle droit, poema in formato extralarge, 32 per 42 centimetri, mischia
scrittura e composizione, parole e immagini, fonde bozzetti e papiers collés insieme alla sua ispirazione poetica. Un libro elegante,
raffinato, in edizione limitata, 250 copie soltanto, un lavoro lungo
otto anni e 155 pagine, un discorso plastico-letterario, una nuova
sintesi delle arti, un’affascinante percezione del reale presentata
dalle Editions Verve promosse da Tériade, ovvero dall’effervescente artista e critico parigino Stratis Elefteriades che sulla sua rivista
ospitava Léger, Matisse, Picasso. Il poème esce per la prima volta in
Italia il 29 maggio (Electa, 185 pagine, 145 illustrazioni, 95 euro) con
una lunga introduzione di Juan Calatrava: «Le Corbusier attribuiva a questo poema un posto fondamentale nel suo iter e lo considerava un’opera di sintesi di ricapitolazione del suo pensiero e delle sue idee intorno alla creazione artistica e architettonica».
Un libro sensoriale diviso in sette sezioni: Milieu-Ambiente,
Esprit-Mente, Chair-Carne, Fusion-Fusione, Caractères-Caratteri, Offre-Offerta, Outil-Attrezzo. Un sottocapitolo è dedicato a
La main ouverte-La mano aperta: «La vita
che si gusta attraverso il plasmare delle mani, la vita che è nella palpazione». In una frase c’è il grande amore per Yvonne Gallis, la
moglie morta: «Lei è in alto e non lo sa [...] lei
è la rettitudine, il bimbo dal cuore limpido
che sta al mio fianco, i suoi gesti semplici e
quotidiani sono il sigillo della sua grandezza». In un’altra la descrizione dell’ambiente
che ci circonda: «L’universo dei nostri occhi
riposa su di un piano bordato di orizzonte /
La faccia girata verso il cielo / Consideriamo
lo spazio inconcepibile fino a qui non colto». C’è un autoritratto: «Sono un costruttore di case e palazzi, vivo
in mezzo agli uomini in pieno nella loro matassa ingarbugliata. Fare un’architettura è fare una creatura».
Ma cos’è l’angle droit definito dallo stesso Le Corbusier «categorico angolo retto del carattere, della mente, del cuore»? «È immagine di ordine e chiarezza, è la figura più prossima alla linea retta —
spiega Francesco Dal Co, ordinario di storia dell’architettura allo
Iuav di Venezia, che ha curato l’edizione italiana — il segnale e il segno di una differenza e di un confine, dei punti infiniti dove le cose, toccandosi, si separano predisponendosi a venire ricomposte».
«Questo poema — aggiunge — è il tentativo di mostrare come la
mano lavora. Le Corbusier esemplifica il passaggio spiegando come la sua mano operi nell’avvalersi della parola, lo scrivere e della
forma, il dipingere».
M
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Cronisti noir
GIANNI MURA
«E
NANTES, 1 luglio
hi, Barba, ti andrebbe una bella
scopata?».
Sono appena uscito dalla stazione, due quotidiani italiani in
mano. Il mio albergo è proprio di fronte. Ha parlato
una ragazzina minuta ma con grandi tette. Capelli
neri a caschetto, camicia a maniche lunghe, minigonna, sandali. Forse ho capito male. Forse no. Forse è una tossica.
«Non ho capito bene».
«Allora ripeto: ti andrebbe una bella scopata, nel
tuo albergo?».
Tutte le volte che mi abbordano ho sempre il timore di essere scortese.
«Mi sembra un po’ presto».
«Mica vero, la tarda mattinata è l’ideale per i pensionati».
«Non sono ancora un pensionato».
«E che ci fai a Nantes?».
«Sono qui per il Tour».
«Benissimo. Viva il Tour. Offerta speciale: un
pompino imperiale più una coppa di Champagne,
cinquanta euro. Champagne a carico tuo. Cosa c’è,
non sono abbastanza carina? O sei finocchio?».
«No, anzi, ma ho da lavorare».
«Mi crolla il mito dell’italiano sempre arrapato».
Sveglia, la ragazzina. Il rosa della “Gazzetta” l’ha
notato.
«Sono poco italiano e poco arrapato». La seconda
è una mezza bugia. Lei è bella è anche simpatica, nella sua sfrontatezza. Carletto è andato a Challans per
sintonizzare la radio di bordo su Radio Tour e torna
a metà pomeriggio. Il pezzo è il solito pezzo di vigilia.
Metto la mano nella tasca destra, dove tengo le banconote sotto i cinquanta. Ne prendo una a caso. È da
venti. Gliela allungo.
«Dai, vai a farti un panino, è l’ora giusta anche per
quello».
«Lo considero un anticipo». Fa sparire i soldi nella tasca della camicia. «Arrivederci».
Non torno in albergo, quella è capace di venir-
DOMENICA 29 APRILE 2007
Esce per Feltrinelli il primo romanzo di Gianni Mura, un thrilling
che si dipana lungo il percorso di un Tour de France insanguinato
Ne anticipiamo il capitolo iniziale, dove una ragazza assassinata
“bussa” alla porta della stanza d’albergo del narratore e lo precipita
- da un’avventura fatta di racconti epico-sportivi e di ottime cene in un incubo che solo un bizzarro commissario saprà dissolvere
mi dietro.
Vado in un baretto lungo la Loira, un’omelette e
un bicchiere di Muscadet, pessimo il caffè. Mi sa che
aveva ragione la ragazza, un pompino e una coppa
di Champagne era meglio. Amen. Pensiamo al pezzo. Torno in albergo.
* * *
«Challans. Tanto per dire che tipo è Bill Sheldon.
Oggi alle 18.48 parte alla ricerca della settima vittoria al Tour (il record, e con sei tutte di fila, è già suo)
con un 7 giallo stilizzato sulla forcella. La ruota dietro, lenticolare, è stata decorata da un celebre writer
di New York, Benny Salvatore. I motivi ornamentali, dorati su fondo nero, hanno un che di funebre, ma
passi. Sul telaio si leggono due numeri, un 2 e un
10. Così si chiama la linea
di abbigliamento della
Roll studiata per Sheldon. Spiegazione. Il 2 ottobre (del ‘96) gli era stato diagnosticato il cancro ed è da questa data, ci
tiene a ricordarlo, che
Sheldon comincia la sua
seconda vita. Questo
sarà comunque il suo ultimo Tour, l’ha detto e ripetuto. E ha già designato il suo erede, Mirko Valli. In passato gli aveva fatto la corte perché entrasse nella sua squadra, e Valli aveva detto “no grazie”
perché ci teneva a fare la sua corsa, senza vincoli. Anche adesso Sheldon lo corteggia. Gli tiene in caldo il
posto non più da gregario ma da capitano. I due
grandi avversari del Tour sono questi. [...]
«Si parte dalla Vandea, come nel ‘99, primo Tour
vinto da Sheldon. Uno a cui nessuno pensava, in
chiave maglia gialla, la sua era già una bella storia,
quella di un ragazzo che sconfigge il cancro e che poi
batte tutti gli avversari, infilando sei vittorie consecutive. Le ultime due più faticate, ma ugualmente
succose. Sheldon è motivatissimo: “So di poter arri-
vare a sette Tour, è più di un sogno”. E ne trova una
per gli avversari: “È l’ultima occasione che loro hanno per battermi”. “Loro” chi?, questo è il punto. Gli
spagnoli annunciano Royo in buone condizioni,
meno teso dell’anno scorso. Herrera, bel cavallino,
verrà buono per le tappe. I francesi sono al minimo
storico per numero di partecipanti e qualità. L’ultima vittoria, col grande Hinault, è del 1985. Vernier,
che almeno sul podio era salito, ha smesso.
«Altro in giro non si vede, e questo ci riporta a
Mirko Valli. Ho scambiato con lui qualche parola appartata tra una conferenza stampa e i massaggi. C’è
qualcosa di nobile nel profilo delicato di questo ragazzo, e anche il suo modo di inquadrare la corsa è
poco comune, nel ciclismo: “Io so che vincerò il
Tour. Se non questo, il
prossimo. Ho ventisette
anni, almeno altri sei li
correrò. Mi sono innamorato del Tour da ragazzino, ma non so spiegare
perché. È come per una
donna o una musica, è
una sensazione fortissima che ti prende. Col Tour
è nata la passione per Indurain. Mi sembrava un
saggio, non un freddo.
Penso che noi siamo prima di tutto atleti, ma anche dispensatori di emozioni. Quando ero un
morto che pedalava, sullo
Stelvio, tanta gente mi ha incoraggiato e io ho capito, nel momento di maggior sofferenza, che ero entrato nel cuore di tanti, anche se avevo vinto poco. E
per essere sincero, lo so che non vincerò mai molto.
Potrei vincere una corsa in linea solo se avesse l’arrivo in salita, e di corse così in Italia c’è solo il giro dell’Emilia. In volata non sono forte, e non è così facile
levarsi tutti di ruota. A cronometro sono migliorato.
Nel prologo non ha importanza se perdo 20 o 50 secondi. Non corro dal Giro e potrei avere qualche problema sul ritmo”.
«Già, il prologo. Non i soliti 6-8 km, ma 19. Una co-
“Ehi, Barba, ti andrebbe
una bella scopata?”
Ha parlato una ragazzina
minuta, capelli neri
a caschetto, minigonna
Forse ho capito male
Forse è una tossica
sa seria, un impegno vero e legato al vento, che sull’oceano è mutevole e, molto spesso, forte. Ieri ci è
stato regalato tutto il ventaglio, dalla pioggia al sole,
unica costante il vento. Noir-moutier è un’isola piatta, famosa per le patate, le mimose e una frase del pittore Renoir che giudicava le sue acque ben più suggestive di quelle del Mediterraneo. Ciclisticamente
è famosa per il Gois, una stradina che si apre nel mare, percorribile solo con la bassa marea. [...] Alcuni si
ostinano a chiamare il Tour ‘la Grande Boucle’, ma
quest’anno il profilo è quello di due rotaie sbilenche
e quasi parallele, prima da ovest a est — sino allo
sconfinamento in Germania — , poi da est a ovest —
dalle Alpi ai Pirenei — , infine rapida (e con un paio
di tappe-trappola) risalita fino a Parigi». [...]
* * *
Rileggo e detto. Ai dimafoni c’è Roberta, le faccio
lo spelling di tutti i ciclisti stranieri. Piero è in corta.
Piero è un impallinato di ciclismo, secondo me conosce anche i dilettanti uzbeki. Guardo l’ora, tra un
po’ dovrebbe tornare Carletto da Challans, il paese
delle anitre, la grande riserva della Tour d’Argent.
Vado sotto la doccia. Mi asciugo, mi stendo nudo sul
letto. Ho spento l’aria condizionata per paura del
colpo della strega — è così dal ‘98, il Tour di Pantani
l’ho seguito piegato in due, con Carletto che mi aiutava a infilare i jeans, che mi allacciava le scarpe. Una
sigaretta, un sorso di Vittel, un superermetico di Domenica quiz da terminare.
Dopo un po’ bussano. Dev’essere Carletto. Mi allaccio intorno ai fianchi un telo da bagno — dovrei
dimagrire, ma non si viene al Tour per dimagrire —
e apro la porta. Non c’è nessuno. No, qualcuno c’è.
La ragazza della stazione, lì a terra sulla moquette
verde, sembra ancora più minuta. Ha la camicia
strappata, dei brutti segni sul collo, un foglietto giallo — un post-it — attaccato alla mano destra. Mi chino per vedere se sta male o è una finta e in pochi secondi accadono molte cose. Uno: il telo mi scivola
dai fianchi e resto più o meno nudo. Due: mi sembra
che la ragazza non respiri. Tre: un grido fortissimo di
donna mi buca le orecchie. Poi il corridoio si riempie
di cameriere, facchini, turisti, un tipo vestito di scuro e imponente (dev’essere della sicurezza interna)
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
IL LIBRO
Gianni Mura, cronista sportivo di Repubblica, si inventa un Tour de France bagnato
di sangue. Il protagonista fa il mestiere di Mura: segue il Tour, quando può mangia
e beve bene, ricrea per i lettori il clima delle tappe, telefona ogni tanto alla saggia
moglie, descrive la quotidianità bizzarra di una delle manifestazioni sportive
più epiche. Ma fin dall’inizio le cose si mettono male: una giovane prostituta
che ha tentato di adescarlo viene trovata senza vita davanti alla porta della camera
d’albergo del cronista. Che naturalmente viene subito sospettato, portato in galera
e interrogato a sangue. Il brano che anticipiamo è il primo capitolo. Il libro si intitola
Giallo su giallo (Feltrinelli, 232 pagine, 14 euro) e uscirà il 3 maggio.
L’immagine è tratta dal film di animazione Appuntamento a Belleville
di Sylvain Chomet del 2003
FOTO WEBPHOTO
Il killer della bici accanto
giallo su giallo al Tour
che correndo precede l’arrivo di due poliziotti. Gridano a tutti di andar via, a me dicono «dentro» con
aria poco amichevole. Mi sono ridrappeggiato nel
telo, mi siedo sul letto e vedo un uomo anziano chinarsi sulla ragazza. Poi la porta si chiude. Non prima
che una voce dall’accento del Midi urli «porco, assassino, lasciatelo in mano a noi che gli tagliamo
l’uccello e glielo ficchiamo in bocca».
Poi silenzio. Ho il cuore in gola e la certezza di essere in un brutto guaio. Uno dei poliziotti («Agente
Le Guilloux, ho alcune domande per lei») mi ordina
di spostarmi dal letto, potrei cancellare delle prove.
«Prove di che?».
«Come di che? La troviamo nudo sulla porta della
sua stanza, una ragazza a terra, con le vesti scomposte, e si mette a fare il furbo?».
«La ragazza può chiarire tutto».
«La ragazza non chiarirà più nulla. A quanto sembra è morta strangolata. Sarà la sua autopsia a chiarire qualcosa, semmai. Risparmiamo tempo: l’ha
violentata?».
«No, né lei né altre».
«Controlleremo. La conosceva?».
«Mai vista in vita mia».
«E com’è finita proprio davanti alla sua porta?».
«Non lo so, ero a letto, stavo facendo un gioco enigmistico, vede il pennarello ancora aperto? Hanno
bussato, credevo fosse l’autista, mi sono coperto come capitava e sono andato ad aprire».
«Perché dovrei crederle?».
«Perché è la verità».
«La sua verità. Ne vuole sentire altre?».
Preferirei di no, ma si apre la porta ed entra un tipo magro, con gli occhialini d’oro. Mi guarda come
fossi una merda secca.
«Le Guilloux, continuo io. Tu e Vernet andate da
tutti quelli che stanno al piano, magari qualcuno ha
sentito qualcosa. Ci vediamo dopo».
Dà un’occhiata in giro, si sofferma sull’Olivetti 32.
«So che lei è giornalista e che è a Nantes per il
Tour».
«Sì, come base, le prossime tappe sono qui intorno e a Nantes ci sono più posti letto».
«Come mai usa ancora questo ferrovecchio?».
«Ci sono affezionato, mi piace scrivere così e non
sul computer».
«Le piace anche strangolare puttane?».
Ha una voce fredda, ha qualcosa del serpente. Devo stare attento.
«Non sapevo che battesse».
«Proprio qui davanti. Dominique Roux, diciannove anni ma ne dimostrava meno, eroinomane e
ninfomane, specializzata in ammucchiate a tre e a
quattro. Pur di fare quattrini abbordava tutti, uomini e donne, vecchi e giovani, bianchi e neri. Sicuro di
non averla mai vista?».
«E quando? Siamo arrivati stamattina da Tours. Le
giuro, ispettore, mai vista in vita mia».
«Ispettore Gibert. Io non so se lei sia stato il primo
a vedere Dominique morta o l’ultimo a vederla viva,
o se ha coperto tutt’e due
i ruoli. L’indagine è appena partita. Lei è un testimone importante, quindi non può lasciare la città
e tanto meno la Francia.
Se lo ricordi».
«Veramente domani
pomeriggio dovrei essere
a Noir-moutier per il prologo del Tour».
«Per domani pomeriggio dovremmo avere
qualche elemento in
più».
Devo mostrarmi collaborativo. Gli scrivo il numero del mio cellulare —
lui ricambia con un biglietto da visita — e gli dico il
programma.
«Per cena ho prenotato all’Atlantide, quai ErnestRenaud, alle otto e mezzo. Andiamo lì, pare che si
mangi bene, e poi rientriamo in albergo. Magari la
chiamo domani verso mezzogiorno per la faccenda
del prologo».
Torna a guardarmi come fossi una merda secca.
«Non me ne importa nulla di come mangia. Ho per
le mani un caso di omicidio e il principale indiziato
è davanti a me. Se mi ha raccontato anche solo una
virgola non corrispondente a verità rimpiangerà di
essere nato, glielo garantisco».
«Non ho nulla da temere», ribatto cercando di tener ferma la voce. E intanto penso: mi avrà visto
qualcuno mentre parlavo con la ragazza? Un dialogo di un minuto scarso, senza mai alzare i toni. Gioco il jolly: «Può chiedere informazioni sul mio conto
a Blanchard, il gran capo del Tour. Pensi che da professionista ha vinto solo una corsa, il Grand Prix
d’Aix-en-Provence, e io c’ero. Il primo Tour l’ho seguito nel ‘67».
«Non mi interessa la storia della sua vita, ma solo
le ultime ore. Controlleremo, ci informeremo. Arrivederci».
E via rigido, senza una stretta di mano. Forse è giusto, sono un sospettato. E cammino in bilico: ho raccontato una balla, sono
innocente ma rischio di
passare per colpevole.
Fumo una Ms dopo l’altra. Meno male che arriva
Carletto. «Sô giamò tuscòss», dice. «Il facchino
portoghese», aggiunge.
«Un casìn de la madòna»,
chiosa.
Carletto Morelli, milanese di piazzale Corvetto, autista alla Gazzetta
dello Sport, prima a trasportare giornali (tempo
massimo cinque ore e
dieci da Milano piazza
Cavour a Roma via Marsala, anche con la nebbia e la neve), poi inviato alle
corse ciclistiche, è andato in pensione nel ‘91. L’ho
ingaggiato al volo. Non seguirei il Tour se non ci fosse e lui non lo seguirebbe senza di me. Andiamo d’accordo su molte cose, ed è fondamentale: quasi un
mese di vita in comune, a volte dividendo anche la
camera d’albergo, non si reggerebbe se l’altro non
fosse in sintonia.
Gli racconto tutta la storia.
«Se salta fuori che vi eravate parlati, è un casino»,
commenta.
«Era un casino anche se dicevo che ci eravamo
Bussano, apro la porta
Non c’è nessuno. No,
qualcuno c’è. La ragazza
della stazione, lì a terra
sulla moquette, sembra
più minuta. Ha un post-it
attaccato alla mano destra
parlati. Volevo vedere come te le cavavi tu, toc toc e
c’è una morta sull’uscio».
«E chi ha bussato?».
«E che cazzo ne so io? Lei no, se era morta».
«T’hann fa su un pacch, me par». Poi cambia discorso.
«Non avevi prenotato nel miglior ristorante di
Nantes? Siamo quasi in ritardo e mangerei un bue».
Prendiamo un taxi, sembra che a Nantes ci siano
solo lavori in corso. L’Atlantide è al quarto piano
d’un palazzo ultramoderno. Jean-Yves Guého fa
una cucina fresca, con accostamenti insoliti (granseola e mango, astice e fagioli) e i dolci sono strepitosi. Ancora Muscadet, ma di quello buono, e per
chiudere un Vieux Calvados di Heurtevent. Parliamo della corsa, di altre vecchie corse, il Calva lo assaggia anche lui (quando guida, solo acqua minerale — qui non scherzano —, e del vino e dei distillati
sente solo il profumo, «che è già qualcosa»).
A mia moglie ho già telefonato, è sull’altopiano di
Pinè con sua sorella, si alzano presto per andare a
funghi. Al giornale ho già fatto la telefonata di controllo, pezzo arrivato, tutto a posto. C’è solo da sperare di prender sonno presto, forse avrei dovuto berne due, di Calva, adesso chiamiamo un taxi e via.
Sul marciapiede c’è l’ispettore Gibert con due poliziotti diversi da quelli del pomeriggio.
«La dichiaro in arresto. Venga con noi».
Vedo che Carletto sta per partire come un bufalo
e lo blocco.
«Avvisa qualcuno a Roma, Aligi o Peppe o Fabrizio. Meglio se trovi Stella. Dillo anche a Blanchard.
Non preoccuparti, non ho fatto niente di male».
«Tranne che un omicidio», ridacchia Gibert. Manette, sedile dietro e via, senza lampeggiante.
«Posso prendere in albergo due cose di cui ho bisogno?», chiedo.
«Ma certo», dice un poliziotto. E mi tira un fortissimo pugno alla bocca dello stomaco. «Di questo hai
bisogno, bastardo».
Mi vomito addosso una buona cena. «Un vero
porco», sento dire. Il dolore è acutissimo, mi sforzo
di non urlare, la situazione precipita e mi sa che siamo solo all’inizio.
© 2007 Giangiacomo Feltrinelli Editore
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 APRILE 2007
Dopo un difficile inizio di carriera la giovane soprano russa,
relativamente poco ascoltata e poco nota in Italia, è ormai
considerata un astro assoluto della lirica e attira platee
appassionate ovunque si esibisca. Tra i suoi fan c’è anche
un celebre scrittore sudafricano, che in esclusiva
per le nostre pagine racconta come è diventato un “netrebkiano”
Anna
Netrebko
Vi racconto la voce
che ha incantato il mondo
ANDRÉ BRINK
o appena intrapreso un
pellegrinaggio di diecimila chilometri — il terzo
in tre anni — sulle orme
del soprano russo Anna
Netrebko. Ogni viaggio
ha rappresentato una pietra miliare
sulla via dell’amore che mia moglie ed
io percorriamo insieme da quando ci
incontrammo per la prima volta a Salisburgo, alla fine del 2004. Fu subito dopo averla incontrata che sentii cantare
la Netrebko per la prima volta in Sempre libera: uno dei suoi primi cd divenuto ormai quasi leggendario. La mia
prima passione musicale erano state le
composizioni strumentali. Soprattutto
Mozart. Con gli anni, alcuni straordinari interpreti — attraverso delle vecchie registrazioni di Caruso, Gigli e
Björling, Tebaldi e Galli-Curci, poi della Sutherland e, inevitabilmente, della
Callas — mi hanno fatto apprezzare anche l’opera. Ma è stato ascoltando Anna Netrebko in una piccola città nel
cuore del Sudafrica che ho colto le potenzialità dell’opera in quanto esperienza totale, in un modo che non avevo mai immaginato. Inviai immediatamente un sms per raccontare della mia
scoperta alla donna che amavo. Di lì a
cinque minuti lei mi rispose con un
sunto della carriera di Anna Netrebko
— compreso il fatto che l’artista aveva
definitivamente sfondato sulla scena
mondiale nel 2002 al Festival di Salisburgo, nei panni di Donna Anna, nel
Don Giovanni.
Nacque così l’idea del primo dei miei
pellegrinaggi, nell’agosto del 2005. Naturalmente ottenere dei biglietti era stato impossibile, pur con sei mesi di anticipo. Ci mettemmo ugualmente in viaggio alla volta di Salisburgo nella convinzione che una volta sul posto sarebbe
accaduto qualche miracolo. Non fu così. Pare che al mercato nero i biglietti per
la Traviata con la Netrebko e Rolando
Villazón fossero venduti per cinquemila euro. Quella sera dunque mia moglie,
suo fratello Krystian ed io ci recammo al
ristorante Zirkelwirt, al centro di Salisburgo, consapevoli del fatto che Anna
LE ALTRE
H
ANGELA GHEORGHIU
Soprano drammatico, romena
di nascita (Adjud 1965), debuttò
al Covent Garden di Londra
nel ruolo di Mimì nella Bohème
di Giacomo Puccini. Suo marito
è il tenore Roberto Alagna
RENÉE FLEMING
Nata nel 1959 in Pennsylvania,
la sua fama si affermò definitamente
nel ruolo della Contessa
nelle Nozze di Figaro di Mozart
Oggi è apprezzata soprattutto
come interprete di Richard Strauss
NATALIE DESSAY
Francese, nata a Lione nel 1965,
soprano di coloritura dalla voce
estesissima. Celebre la sua Regina
della notte nel Flauto magico
di Mozart. Problemi alle corde vocali
l’hanno tenuta lontana
dalle scene per lungo tempo
SUSANNA
Anna Netrebko
ritratta durante
le prove nel ruolo
di Susanna
nelle Nozze di Figaro
di Mozart l’anno
scorso a Salisburgo
BARBARA FRITTOLI
È nata e ha compiuto gli studi
musicali a Milano, dove può contare
alla Scala su un pubblico entusiasta
Applaudita in tutto il mondo,
è interprete mozartiana
ma soprattutto del repertorio italiano
da Rossini a Verdi e Puccini
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
FOTO TASS
FOTO AP
FOTO AP
L’AUTORE
André Brink (ritratto con Anna Netrebko nella foto qui accanto,
scattata dalla moglie Karina l’anno scorso a Salisburgo)
è uno scrittore sudafricano di cui molti libri sono tradotti in Italia
Tra i suoi titoli ricordiamo: Un’arida stagione bianca, edito
da Sperling; La polvere dei sogni e Desiderio, Feltrinelli; La prima
vita di Adamastor, Instar Libri. L’editore Le Vespe
ha anche pubblicato Ieri è vicino. Scritti sul Sudafrica e La Valle
del Diavolo. Da Un’arida stagione bianca è stato tratto nel 1989
un fortunato film con Donald Sutherland, Susan Sarandon
e Marlon Brando
MANON
AL BALLO
RECITAL
Anna Netrebko nei panni di una moderna Manon
Si tratta dell’edizione dell’omonima opera
di Jules Massenet andata in scena lo scorso marzo
alla Staatsoper di Vienna. Con la soprano, il tenore
Roberto Alagna interpreta Des Grieux
Anna Netrebko ancora sul palcoscenico dell’Opera
di Vienna, uno dei teatri dove più spesso è chiamata
ad esibirsi, insieme alla Festspielhaus di Salisburgo
Qui la vediamo impegnata nella tradizionale serata
del grande ballo dell’Opera, lo scorso 15 febbraio
La Netrebko con il tenore messicano Rolando Villazón
durante un recital tenuto l’anno scorso all’auditorium
Ciaikovskij di Mosca. Nel Paese natale la Netrebko
è stata oggetto di polemiche dopo che ha chiesto
(e ottenuto) la cittadinanza austriaca
amplificato: non volevamo più ascoltare solo Anna, ma Anna-e-Rolando. Da
diversi anni ormai questi due artisti sono al centro del mondo operistico. Di
coppie famose l’opera ne ha viste: Gigli
e Galli-Curci, Tebaldi e Di Stefano. O ancora Di Stefano con la Callas. E in tempi
più recenti Alagna e Gheorghiu. Ma pur
senza perdere di vista questi tenori e soprani, Anna Netrebko e Rolando Villazón hanno acquistato un rilievo stellare che sembra mettere in ombra tutti gli
altri. Come la stessa Anna ha detto recentemente, con un’alzata di spalle:
«Un tempo gli artisti appartenevano alla Chiesa, mentre oggi appartengono ai
media e al denaro». Questo li mette di
fronte ad una scelta cruciale: sottostare
allo sfruttamento dei media e del denaro o servirsene, cogliendo l’opportunità
per affermare la propria libertà interiore. Sempre libera, appunto.
Inizialmente Anna e Rolando si sono
fatti apprezzare per le loro capacità individuali. Lei, dagli esordi piuttosto difficili al teatro Mariinskij di San Pietroburgo (dove, come tutti ormai sanno,
da studentessa di musica lavava i pavimenti per poter assistere alle prove dei
cantanti) sino all’affermazione nel Don
Giovanni; lui esordendo al Conservatorio nazionale di musica del Messico e
facendosi strada tra i giovani artisti della Pittsburg Opera, prima di attrarre su
di sé l’attenzione del mondo nel 1999
nelle vesti di Des Grieux in Manon, a
Genova. Ma quando hanno iniziato a
cantare insieme è stato come se uno
tsunami musicale avesse investito il
mondo. Sembrano darsi l’un l’altro la
possibilità di crescere — di essere —
con maggior pienezza; entrambi contribuiscono, separatamente, ad un insieme incomparabilmente più grande
dei loro esseri individuali. Non solo aggiungono qualcosa alla musica, ma la
incarnano, rivoltandola su se stessa, facendola espandere e poi riversarsi sul
pubblico. È questo il segreto della loro
Bohème e — persino più trionfalmente
— della loro Traviata e del loro Elisir
d’amore.
La giovane scrittrice sudafricana Susan Mann, nella sua recente opera
Quarter Tones, fa maliziosamente bol-
lare l’opera in questi termini da uno dei
suoi personaggi: «L’ultima cosa di cui
ho bisogno è un italiano nevrotico che
mi urli come se gli avessero appena fatto una multa». L’opera sembra infatti
spesso considerata — anche dagli
amanti della musica — un genere troppo “superficiale”, troppo “melodrammatico” per essere preso seriamente.
Viene alla mente il famoso dottor Johnson, che definì il romanzo «un piccolo
racconto, per lo più d’amore». Da allora abbiamo conosciuto Dostoevskij e
Tolstoj, Sigrid Undset, Kafka e Márquez... E mi pare che, da quando Netrebko e Villazón hanno iniziato a
“Un tempo gli artisti
appartenevano
alla Chiesa”, dice
Anna con un’alzata
di spalle, “oggi
appartengono
ai media e al denaro”
reimmaginare il significato stesso del
concetto di opera, questo non sarà più
lo stesso.
Nel mentre, giovani come sono (entrambi hanno sui trentacinque anni),
Netrebko e Villazón possono sfruttare
appieno gli eccessi del mondo dei divi,
mantenendo al tempo stesso — grazie
in parte ad un sano senso dell’umorismo — un’autentica umiltà. Di fatto,
un’innocenza assolutamente disarmante. Netrebko viene salutata in Germania come «die letzte Primadonna»
(l’ultima primadonna, ndt) eppure
non si fa problemi di girare per le strade di Salisburgo su una bicicletta malconcia, i capelli neri raccolti in un cappellino con visiera. E Villazón sarà pure
largamente acclamato come forse il più
grande tenore dei nostri tempi, ma a chi
gli chiede come sia la vita sull’Olimpo
risponde che sua moglie gli ricorda di
non essere dopotutto che un aquilone
nel cielo — e che è lei a tenerlo saldamente legato a terra. La dice lunga anche la gioia con cui racconta la parabola dello specchio magico, che risucchia
al suo interno chiunque specchiandosi
dica una bugia. Un soprano fissa lo
specchio e proclama: «Io penso che il
mondo non abbia mai visto una Gilda
come me»; con un suono di risucchio,
lo specchio la fa sparire. Arriva un baritono, che si vanta: «Io penso di essere il
miglior Rigoletto mai apparso sulla
scena»; e sparisce. Si avvicina poi un tenore, si mette in posa e inizia: «Io penso...»; immediatamente lo specchio lo
risucchia per sempre. Questo certamente non potrà mai accadere ad Anna
e Rolando: una delle prime cose che
colpisce l’ascoltatore o lo spettatore è
quanto ciascun ruolo, ciascuna battuta, ogni alterazione, legato, pausa o rubato siano stati pensati.
Sono stati già descritti come «la coppia ideale», o «i gemelli divini». È necessario farsi largo tra il fitto fogliame
delle metafore e degli aggettivi inventati dai media quando vogliono montare
un caso. Questi due cantanti, provenienti da angoli opposti della Terra,
sembrano offrire un cocktail intenso,
inebriante e assolutamente irresistibile a base di vodka e tequila. Ed è affascinante vedere con quale abbandono
Villazón riesce ad identificarsi con la
melanconia e la collera più tetre e la
quasi insopportabile tenerezza della
musica russa, o la convinzione e l’esuberanza con cui Netrebko fa propria la
furia española di una zarzuela.
È vero che entrambi danno il loro
meglio nel contesto di un’opera, dove
possono vestire un ruolo che nel corso
di un’interpretazione si sviluppa, si
espande e cresce. È questo il motivo per
cui parlavo di una esperienza totale
dell’opera: in un’aria specifica è possibile che Renée Fleming, Cecilia Bartoli,
Angela Gheorghiu o Mirella Freni offrano un’interpretazione “migliore” di
Netrebko. Ma se si guarda l’effetto
complessivo, fatto di apparenza, capacità recitative e canore, questi due artisti sono semplicemente unici. (Ad ogni
buon conto, come ha insistito una volta la stessa Anna in un’intervista, nella
musica non si tratta di scegliere dei
campioni: quel che occorre piuttosto è
il senso di gratitudine e ammirazione
con cui si sa apprezzare un miracolo).
È per questo che non ho resistito alla
tentazione di andare a Parigi per vedere e sentire quei due in concerto al
Théâtre des Champs-Élysées. Non si
trattava di un’opera, quindi nessuno
dei due poteva dare — e sviluppare —
l’“esperienza totale” che avevano offerto con Verdi, Mozart, Puccini o Donizetti. Ma pur nei limiti delle piccole,
levigate perle che hanno cantato da soli o insieme, in una miscela eclettica ma
in definitiva magica, fatta di Ciaikovskij
e Verdi, Gounod e Rachmaninov, Morrena-Torroba, Ponchielli, Catalani e
Massenet, hanno incantato il pubblico
parigino (non elegante come quello del
Festival di Salisburgo o della Wiener
Oper, ma decisamente esigente e dai
gusti sicuri). C’è stato qualche intoppo:
In Je veux vivre, da Roméo et Juliette, la
voce di Netrebko è preoccupantemente venuta meno in un do di petto. E durante uno dei bis — il Brindisi della Traviata — si è addirittura dimenticata le
parole. Ma lei e Rolando ne hanno fatto un trionfo: la cantante si è prima piegata in due crollando dal ridere; lui poi
l’ha aiutata a rialzarsi, mettendosi a
ballare con lei. Alla fine tutto il pubblico era in piedi ad incoraggiarli e applaudirli.
Così la serata si è trasformata in una
rappresentazione. Il pubblico, che all’inizio osservava Anna (la quale era alla sua prima apparizione parigina) con
atteggiamento critico, analizzando le
interpretazioni con intelletto d’acciaio, è stato man mano blandito e conquistato sino a farsi travolgere dall’estasi e dall’esultanza, per finire in piedi, in un applauso scrosciante che si è
protratto per molti minuti, con alcuni
dei francesi che addirittura urlavano
«Spasiba!».
Siamo venuti, abbiamo visto, siamo
stati conquistati.
Sono pronto per il prossimo pellegrinaggio.
Traduzione di Marzia Porta
FOTO REUTERS
stesse cantando a meno di cento metri
da noi, pur restando irraggiungibile come se fosse su un altro pianeta.
Dopo cena, sotto una pioggia sferzante, ci trasferimmo al Café Tomaselli, ancora profondamente sconsolati
ma almeno consapevoli di esserci avvicinati. Lungo la strada ci imbattemmo
in una delle numerose strutture a forma di cono che quell’estate erano disseminate per tutta Salisburgo. Era di un
giallo sfacciato. Una volta raggiuntala,
Krystian si fermò premendovi contro
l’orecchio e rimase senza fiato dalla
sorpresa: «Da questo coso escono suoni!». Mi avvicinai, e la mia incredulità
presto si trasformò in meraviglia. «Dio
mio!», dissi. «È la Traviata! È Anna!».
Proprio così. In diretta dalla Festspielhalle. Arrivammo al Tomaselli
zuppi sino al midollo, ma sentivo che la
mia missione era stata portata a compimento: avevo sentito Anna Netrebko. Dal vivo — anche se a distanza.
Un anno dopo, era l’agosto del 2006,
grazie all’intervento di una persona influente e addentro al Festival riuscimmo ad ottenere i biglietti per Le Nozze di
Figaro (pare che quella volta al mercato
nero avessero raggiunto i diecimila euro). Proprio come la sua Donna Anna
aveva ridefinito tre anni prima il Don
Giovanni, e come la sua Violetta della
Traviata aveva infuso nella musica di
Verdi le profonde complessità e l’umanità del testo di Dumas, la Susanna di
Netrebko rivelava delle profondità che
pochi altri soprano avevano espresso
prima di lei. Questa Susanna non era
una soubrette, ma presentava ombre e
sfumature di sofferenza umana — e
femminile — di cui forse solo Mozart era
stato consapevole. (Pochi giorni dopo,
quando si presentò l’opportunità di discutere brevemente di questo con Anna
Netrebko, lei ammise con un accenno di
sorriso: «Quando iniziai a lavorare a Susanna sapevo solo che dovevo fare qualcosa di nuovo». E io, per un attimo, ho
pensato a Baudelaire: «Plonger au fond
du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe? /
Au fond de l’Inconnu pour trouver du
nouveau!».
E siamo al terzo pellegrinaggio. Questa volta ad animarmi era un proposito
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 APRILE 2007
i sapori
Trasgressioni
Macinatura fine o grossolana, di maiale
o carni miste, morbido o ben stagionato,
il gioiello più celebre della nostra norcineria
viene festeggiato da oggi a Cagli
Ciaùscolo
con “Distinti Salumi” e a metà maggio a Felino
nella due giorni di “Salame & Champagne”
Il salame da spalmare, tipico marchigiano,
si prepara con carni da pancetta, costate
e spalla, sminuzzate e impastate
con lardo, sale, pepe, aglio, finocchio,
buccia di arancia. Va gustato nel giro
di qualche settimana con pane casereccio
La buccia
Varzi
Cacciatora
Casalìn
L’alternativa al salame mantovano
più conosciuto è una piccola produzione
protetta da Slow Food. Ingredienti: spalle,
lonze, filetti e rifilatura di prosciutto
Aggiunte consentite: aglio, sale, pepe,
spezie. Si insacca nel budello naturale
Brianza
Secondo il disciplinare dop, le spalle
di suini allevati tra Piemonte, Emilia
Romagna e Lombardia, fresche
o congelate, sono lavorate con triti
di pancette e gole. Tra gli additivi
consentiti: vino, zucchero, aglio, lattosio
Il vulcanico
Ivan Albertelli
gestisce
con la moglie
Barbara
una bella
locanda
a Fontanelle,
campagna parmense,
dove la cucina
tradizionale
è impreziosita
dalle “chicche”
delle cantine di casa:
salumi, vini
e grandi Champagne
I diversi spessori delle varie
sezioni dell’intestino del suino –
crespone, cresponetto, filzetta, gentile – identificano alcune tipologie di salame. Ma il budello naturale è importante per
tutte le varietà di carni utilizzate: mucca, pecora, capra, oca (salami kosher), perfino trota. Essendo una membrana porosa, bisogna
evitare la vicinanza con odori forti, che rovinerebbero la fragranza dell’impasto. Meglio rimuovere il budello prima di tagliare le fette, per evitare che la muffa presente sulla su perficie
contamini il gusto del
salame
Nato nell’Oltrepò pavese, di origine
longobarda, marchio dop, viene
preparato con ritagli di coscia, spalla,
lonza, coppa, filetto, guanciale
e pancetta. Dopo l’aromatizzazione
e l’insaccatura, viene stufato e asciugato
Prodotti a partire da carni magre di suini
del Centro-nord, i salamini italiani
alla cacciatora dop vengono addizionati
in maniera simile ai Brianza
In più, è possibile aggiungere
latte magro in polvere o caseinati
itinerari
Salame
ei un salame, ti dicono. Guai a offendersi: chi usa il più trasgressivo e goloso dei salumi come
un insulto non sa godersi i piaceri della tavola. Perché addentare pane e salame è un inno alla gioia del palato, ovunque noi siamo: picnic, pausa lavorativa, merenda, intermezzo, colazione rustica, premio dopo una vigorosa camminata o consolazione a metà di un’interminabile giornata sui libri. Con tutte le variabili connesse, a cominciare dal pane: michetta fragrante o due robuste fette di pane cafone, la lunga baguette o lo sfizioso bocconcino con peperoncino e cipolla, la croccante pasta dura mantovana o il pane toscano senza sale.
Ma soprattutto lui, il principe dei panini: macinatura fine o grossolana, pepe in grani o aglio a svenire, magro e muscoloso o languido e grassoccio, morbido come si conviene appena svezzato dalla lavorazione o indurito da una stagionatura severa, di puro maiale o frutto di “meticciato carnivoro”. E poi
il taglio, su cui si rischiano litigi epocali: con o senza budello, fetta spessa o sottile, sottilissima, in diagonale o tonda come una moneta. E ancora, il bicchiere a coté: dall’immancabile Cola dei ragazzini a
una birra fresca e spumosa, su su fino all’empireo alcolico: un bianco secco e aromatico, un rosso allegro e corposo, o l’ammiccante compagnia delle bollicine.
Non a caso, il secondo fine settimana di maggio, a Felino, terrasanta del salame, opportunamente gemellata con Cumières, si celebra “Salame & Champagne”, due giorni di passione eno-gastronomica con produttori emiliani e vignerons francesi in passerella insieme. Il tutto con i ristoranti-testimonial di un’altra storica rassegna, “Salame mon amour” — Cantinetta, Porta di Felino, Trattoria Leoni, Pane e Salame —
pronti a offrire il menù degustazione completo di flute a 35 euro, pausa pranzo coi
fiocchi tra il mercato del mattino e la visita al Museo del salame, alloggiato nel castello medievale che domina il borgo.
Visitare il museo, dove si racconta il percorso del miglior salame artigianale, aiuta a
capire che c’è salame e salame. E che le protezioni europee — Dop e Igp — non bastano a garantirci. L’elenco degli additivi permessi in alcuni disciplinari — a cominciare
da caseinati, polifosfati, nitriti e nitrati di sodio e potassio — lascia inquieti così come
gli starter microbici, che accelerano artificiosamente la stagionatura. Certo, alcune sostanze aiutano a sterilizzare le carni, uccidendo i batteri tossici. In altri casi, migliorano colore, sapore, aspetto. In compenso, la presenza di nitriti — che possono formare nitrosammine cancerogene — è vietata nell’acqua potabile, mentre i nitrati — meLICIA GRANELLO
no velenosi — rischiano di trasformarsi in nitriti se non tamponati dall’acido ascorbico (vitamina C). In quanto ai polifosfati, trattengono l’acqua nei tessuti e alterano il
rapporto calcio-fosforo, intervenendo negativamente sulla calcificazione ossea.
Per fortuna, esistono produzioni che prosperano alla larga dalla chimica: carni di prima scelta, manipolazione e salagione accurate, budelli naturali, stagionatura in cantine controllate. Nei giorni scorsi Massimo Spigaroli, allevatore-culto di Polesine Parmense, ha fondato il Consorzio del suino nero,
razza pregiata importata a fine Settecento dai Borbone, da cui si ricavano culatelli e salami meravigliosi. Visitare la sua “Antica Corte Pallavicina” significa imparare molto su come si allevano maiali felici e
sui sapori straordinari dei salumi di qualità.
Altro itinerario didattico quello di Cagli (Pesaro Urbino) dove da oggi a martedì si svolge “Distinti Salumi”, sequenza di laboratori, assaggi, racconti, menù intorno agli insaccati d’autore. I dannati del colesterolo si regalino solo fette sottilissime.
S
Primattore
di picnic
e merende
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
Felino (Pr)
Fabriano (An)
S. Angelo di Brolo (Me)
Il borgo medievale
nel cuore della
food-valley è famoso
per il suo castello,
sede di un originale
Museo del salame,
ultimo nato
nel circuito dei musei
del cibo. In zona, infatti, si trovano
quelli dedicati a parmigiano reggiano
e prosciutto di Parma
Appoggiata
nell’ultima
propaggine
della Marca
d’Ancona a ridosso
dell’Umbria,
è un felice mix
di economia agricola
e industriale (carta). Grande tradizione
di insaccati, in primis salame lardellato,
ciaùscolo e coppa di testa
Alta sul mare,
già nota
per l’allevamento
dei bachi da seta,
la zona (il nome
viene dal latino
medievale Brolum,
campo) ha avviato
un’eccellente attività di salumificazione
Il microclima aiuta la stagionatura degli
insaccati Igp, lavorati a punta di coltello
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
LA CORTE DI SAN MICHELINO
Via Venturini 24, San Michele Gatti
Tel. 0521-831238
Camera doppia da 65 euro
colazione inclusa
AGRITURISMO GOCCE DI CAMARZANO
Frazione Moscano
Tel. 336-649028
Camera doppia da 70 euro
colazione esclusa
ANTICO CASALE DI LISYCON
Contrada Nunziata
Tel. 0941-533288
Camera doppia da 80 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
LA PORTA DI FELINO
Via Casale 28 B
Tel. 0521-836839
Chiuso domenica, menù da 22 euro
MARCHESE DEL GRILLO
Via Rocchetta Bassa 73
Tel. 0732-625690
Chiuso dom. sera e lun., menù da 40 euro
DA ANGELO
Strada 139 per Ucria Sinagra
Tel. 0941-594433
Chiuso lunedì, menù da 22 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
ANTICHE CANTINE LUPPI
Via San Vitale 30, San Vitale Baganza
Tel. 0521-330711
SALUMERIA BARBAROSSA
Frazione San Michele 89
Tel. 0732-676921
SALUMIFICIO SALVATORE CAPUTO
Contrada S. Maria Lo Piano
Tel. 094-1560121
Ungherese
Inventato in Italia, è approdato in Ungheria
due secoli fa. Il taglio della carne
è finissimo, la consistenza magra,
l’aromatizzazione con pepe e paprika
esaltata da una leggera affumicatura.
Il Milano, ha speziatura diversa
Strolghino
Pregiato e particolare, sfrutta i ritagli
della lavorazione del culatello
La carne, magra e dolce, viene
insaccata in budelli sottili, lunghi, stretti
e forgiata a ferro di cavallo. Va gustato
tenero e non stagionato
Finocchiona
Ciaùscolo, la nutella suina
scoperta dalle legioni romane
Per il salame medievale toscano, rifilature
di prosciutto, guanciale e grasso del maiale
macinati e conciati con sale, pepe, semi
di finocchio, aglio, vino
Matura una settimana al caldo
La stagionatura dura oltre cinque mesi
CORRADO BARBERIS
nconsapevole nutella suina, da spalmare sul pane come una marmellata, spetta probabilmente al
ciaùscolo il rango di più antico salame italiano. Esso preesisteva, infatti, a quella battaglia di Sentino
che consentì ai Romani di affacciarsi sulla Padania. Correva il 295 avanti Cristo. La costa settentrionale delle Marche era allora abitata da una tribù gallica, i Senoni, che producevano il loro tradizionale
pãté de campagne — tuttora presente, benché sempre meno, nelle salumerie francesi: carne lardo e fegato mescolati assieme in varie proporzioni. Vittoriosi, i Romani espulsero gli sconfitti dall’agro che ancor oggi prende il nome di Senigallia, e li respinsero verso le montagne. Là i superstiti di Sentino continuarono a fabbricare il loro pãté, insacchettandolo. Era nato il ciaùscolo, da cibuscolo, forse, propiziatore di gagliarde merende.
Al secondo posto — o addirittura in lizza per il primo — troviamo le luganeghe. E anche qui c’entrano
i Romani: i quali, spingendosi sempre più a sud, giunsero a contatto con i lucani, che avevano un’arte
tutta loro di insaccare il maiale. Da essi — dice Varrone — i soldati la appresero, ma è lecito pensare che
ancora più godessero di imporre ai vinti cospicui annui tributi di quegli elaborati. Sicché l’insaccato per
antonomasia finì per chiamarsi lucanica. E ancor oggi il nome — se non proprio l’impasto — vive dalle
parti di Cannobio (Novara) in un salamino da bollire dove la carne di manzo prevale sulla suina. Vive nelle luganeghe trentine, spesso ma non sempre di puro maiale, e nelle venete. A Treviso il podestà si preoccupava di garantirne l’autentica provenienza suina già con editti del secolo Quattordicesimo. Il fatto che
le lucaniche si siano oggi spostate così a nord (in Basilicata il nome è scomparso, rimangono fortunatamente le soppressate) lascia pensare che le legioni romane abbiano avuto un’influenza non secondaria
nella diffusione del prodotto.
Un salto di un migliaio di anni e ci troviamo ai piedi del Circeo, a Monte San Biagio. Al centro di un forte insediamento saraceno, sbaragliato dopo le vittorie delle armate cristiane al Garigliano nel 916 della
nostra epoca. Qui la salsiccia, promossa a salame per l’occasione, si fa tuttora col coriandolo: spezia del
mondo arabo per eccellenza. Ai cultori di sociologia religiosa decidere se i saraceni, mangiando quella
salsiccia, tenevano in non cale i dettami antisuini di Maometto e se la salsiccia era di carni lecite, bovine
e ovine. Certo è che quei granelli di coriandolo confitti nelle carni sembrano rappresentare ancora oggi,
dopo tanti secoli, la concrezione non si sa bene se del seme stupratore o delle lacrime delle vergini cristiane trascinate verso gli harem del Medio Oriente. Quasi a vergognarsi di un passato così sofferto, gli
attuali produttori soffocano il delicato sentore del coriandolo sotto un’orgia di peperoncino.
E ancora i saraceni c’entrano, sia pure non da protagonisti, nella gara per la quarta posizione. Nel 1060
inizia — ad opera dei Normanni — la riconquista cristiana della Sicilia. Per ripopolare le contrade spopolate dalle stragi, il conte Ruggero chiede alla sua terza moglie, Adelasia del Monferrato, di mandargli
un po’ dei suoi vassalli e servi. Questi arrivano e si portano dietro le loro usanze alimentari. Così a
Sant’Angelo di Brolo (Messina) si può gustare un salame di stretta osservanza padana: lo stesso che si
dirama a sud fino a Chiaramonte Gulfi che, dall’alto dei suoi ottocento metri, sfida il proprio parallelo
a sud di Tunisi. E che emozione quando, nelle sagre paesane messinesi, capita di incontrare un produttore di salame il cui cognome finisce in audi, proprio come quello del nostro vecchio presidente Einaudi, langarolo.
Fette di salame, pagine di storia.
L’autore è presidente dell’Istituto nazionale di sociologia rurale
I
420
60
7
le calorie
contenute in media
in un etto di salame
le tipologie
di salame censite
in Italia
i salami protetti
dall’Unione Europea
(dop e igp)
Sopressa
Dop vicentina che si ottiene insaccando
in grossi budelli bovini un macinato
di spalla, prosciutto, capocollo, lardo
e una miscela di aromi. Per darle forma
compatta, si massaggia in acqua calda
Quella all’aglio ha un cordino colorato
Felino
Si impastano carni fresche di prosciutto,
coppa, spalla e sottospalla di maiali
emiliani “pesanti”, tritate, aromatizzate
con sale, pepe, pochissimo aglio pestato
e vino bianco. Si insacca in budello
naturale. Stagionatura di almeno due mesi
Repubblica Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 APRILE 2007
le tendenze
Nuovi vivai
Il clima che cambia costringe il regno vegetale ad adattarsi
Erica e ortensie diventano specie esotiche, i prati all’inglese
si seccano e trionfano cisti e papaveri bianchi. Una lotta
per la sopravvivenza che può diventare moda, come dirà
la “Tre giorni per il giardino” al Castello di Masino
Fiori
PAEONIA ICE STORM
Bianca, fiore semplice, gambo
legnoso, resiste al freddo, fiorisce
tra aprile e maggio. Vuole
la mezz’ombra, terriccio leggero, ottimo
drenaggio, acqua con moderazione
i
del grande caldo
Ditelo con una rosa, senz’acqua
ROSSELLA SLEITER
e passate dal Castello di Masino noterete che c’è
uno strano movimento e una certa tensione nell’aria. Due cose insolite in quest’angolo di Piemonte fuori dal grande turismo. Camioncini che
scaricano banconi, tende, vasi, alberi e piante;
gente che misura a passi il campone sotto il Castello, sposta balle di fieno, costruisce chioschi e traccia sentieri nell’erba. Stanno preparando la scena dello spettacolo
che incomincerà venerdì 4 maggio: la “Tre giorni per il giardino”, mostra mercato inventata dall’architetto Paolo Pejrone
sedici anni fa, un po’ per attirare visitatori nell’allora nuova
proprietà del Fondo per l’ambiente italiano, un po’ per riprendere quello che gli inglesi chiamerebbero “la gloria del giardino”, cioè il gusto per piante scelte per la
bellezza e per la speciale resistenza a crescere e prosperare in condizioni di prigionia dorata come in un vaso o in un’aiuola.
In sedici anni Masino ha fatto scuola,
perché è in questo mondo di giardinieri,
in questi centodieci stand di vivaisti italiani e stranieri che mettono in mostra le
loro collezioni e le novità di giardinaggio,
che si capisce dove va il gusto, quale pianta va di moda, quale colore fa tendenza.
Anni fa, in una delle prime edizioni, ci si rese conto che il bosso, lento, longevo, sempreverde, era ancora un protagonista
sulla scena del giardino, anche se non come accadeva al tempo del suo massimo splendore nel giardino all’italiana. Da
Masino partì la tendenza ad avere il bosso tagliato a sfera nei
vasi di cotto toscano. Ed è ancora bosso nel 2007, tagliato a onda, a piramide, a spirale, per guidare lo sguardo verso la vista
migliore, per separare una zona del terrazzo o del giardino, da
un’altra.
Prendiamo il glicine. Una delle piante di cui conosciamo il
profumo, la forma a grappolo, il colore lilla, la forza nel crescere. Pochissimi, fino all’anno scorso, avrebbero sospettato
che ne esistano più varietà (da cercarsi sotto il nome latino di
wisteria). Quella che marca la nuova stagione ha un nome,
S
ROSA GALLICA
Facile, resiste al freddo, al sole,
alla mezz’ombra e alla siccità
Non arrampica. Trova da sola il proprio
habitat, assecondatela
con dello stallatico in autunno
macrobotrys, e alcune caratteristiche speciali. È rifiorente,
produce un grappolo tanto lungo da toccare il suolo da una
pergola, ha un profumo meno intenso.
Prendiamo le peonie. Da quando abbiamo capito che è
inutile cercare la pianta fiorita tutto l’anno, accettando la legge di natura, immaginarci in giardino o in terrazzo a maggio,
in mezzo alle peonie in fiore è un nuovo, piccolo piacere della vita. A Masino per la prima volta si possono trovare le peonie che l’inglese Peter Smithers, giardiniere aristocratico prima ancora che diplomatico al servizio di Sua Maestà, aveva
ibridato per sé per i suoi amici e che Rivière, lo specialista di
Francia, ha acquistato quest’anno.
E sempre parlando di inglesi, loro preferiscono un geranio che assomiglia a un
bocciolo di rosa, il Rosebud. Non lo coltivate ancora? Eppure è l’ultima moda. Insieme agli agapanthus dal fiore blu, agli
ibischi sempre più avanzati nella fioritura (settembre e ottobre), ai cisti, alle passiflore, che meno terra hanno più fiori
fanno, al corbezzolo, pianta mediterranea e risorgimentale per eccellenza (verdi le foglie, bianco il fiore, rosso il frutto).
Per non dire delle salvie, non da cucina,
ma da fiore, che se le annaffi le offendi.
Già, il problema dell’acqua. Certe rose non la vogliono, tra
queste, la rosa gallica, come le vecchie rose francesi di Monsieur Guillot, un marchio che è una garanzia. Tutti i ceanothus,
o lillà della California, preferiscono il terreno poco bagnato e,
in cambio, danno una magnifica fioritura blu. Il giardiniere
che non spreca acqua ha capito la tendenza del momento. Il
giardiniere che salva e coltiva i semi naturali, come quelli raccolti dall’associazione Kokopelli che a Masino porta circa
quattrocento varietà di pomodori da riscoprire, fa tendenza.
Un giardino come oasi naturale, con poche piante orticole
ben tenute: questo è l’ultimo grido dal Castello di Masino.
Tre giorni per il giardino: 4-5-6 maggio, orario 10-18. Ingresso a pagamento. Castello di Masino, Caravino, Torino,
tel.0125-778100. e-mail: faimasino@fondoambiente. it
Centodieci stand
di espositori italiani
e stranieri
per scoprire
le ultime novità
SALVIA
Le specie ad arbusto sono le più belle,
non vogliono acqua, cercano il sole,
si accontentano di qualsiasi terreno,
fioriscono in piena estate. Vogliono
però spazio e vasi grandi
BOSSO
CISTUS
AGAPANTHUS
Odia il vento e il terreno compatto,
vuole terriccio leggero, posizione
a mezz’ombra e acqua, moderata,
durante il grande caldo
Potature prima dell’inverno
Cespuglio di macchia, sempreverde,
fiorisce d’estate non vuole né concime,
né acqua. Per le varietà più belle
qualche accortezza: terreno
leggero, molto sole
Facile, si moltiplica e rifiorisce
per sempre. Le foglie non ingialliscono,
ma non sopporta la neve. Sboccia
tra luglio e agosto aiutato dall’annaffio
Repubblica Nazionale
DOMENICA 29 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
La siccità promessa delle estati future ci spinge
a rinunciare alle piante “aliene”. Largo dunque ad allori,
fichi, bossi, melograni, mimose, agrifogli e a tutti
gli altri esemplari che stanno bene in pieno sole
Ecco i consigli di un grande architetto del verde
Oleandro, rosmarino, corbezzolo
Guida al giardino asciutto ma felice
PAOLO PEJRONE
L’
allarme c’è: il caldo e la siccità sono forti, continui e incalzanti. L’inverno, qui in Piemonte,
è stato caldo all’inverosimile e la pioggia (e
quindi la neve) non è praticamente caduta. Una
strana e torva minaccia aleggia sulle nostre regioni:
i campi sono all’asciutto, il grano stenta a crescere.
L’acqua sta diventando sempre più rara e i giardini,
si sa, sono delle vere spugne.
I giardini, come sono stati finora concepiti, voluti e proposti, confidano nell’acqua come base forte,
vitale ed essenziale. Conseguenza e derivazione del
successo dei campi da golf (e della loro proliferazione) e tramutati nell’immaginario collettivo in ideali, smeraldini maxi giardini, i prati sono diventati nel
corso dell’ultimo secolo i più importanti “pezzi di
resistenza”, i piatti forti di una cucina internazionale giardiniera. Soffici e vellutosi si propongono come larghe e assolate pause di una, spesso intensa,
sinfonia di vegetazione.
Richiesti, coltivati, concimati, tosati ed esibiti,
hanno, ahimè, bisogno di tanta, tantissima acqua
durante l’estate. Per loro e per la loro felicità è necessario ricreare un’atmosfera scozzese, fatta di
docce frequentissime e neanche brevissime. Senza
dimenticare che il caldo, il grandissimo caldo che le
nostre regioni sono riuscite a scatenare e sviluppare in questi ultimi anni, sottopone a mille attacchi e
aggressioni le verdi e luminose speranze delle superfici a prato.
La degenerazione a questo punto è vicina: da un
lato gli attacchi fungini rendono questi affascinanti immigrati di un Nord piovoso e fresco un elemento delicato, esotico ed alieno. Dall’altro, troppo caldo e siccità diventano vere avversità: e il giardiniere si deve trasformare in un piccolo (e triste)
chimico. Questo nel migliore dei casi: perché spesso da chimico deve trasformarsi in un poco scrupoloso avvelenatore. Il caldo, se diventa per un periodo prolungato, forte e insistente, può tramutare un
prato all’inglese in un laboratorio chimico (e velenoso). E per quest’anno si prevede, secondo la meteorologia, una quarta, interminabile e violenta
estate.
Sarà necessario a questo punto, per il bravo e coscienzioso giardiniere, prendere o cercare di adottare provvedimenti saggi e tempestivi: innanzitutto perché non ridurre, nei giardini stessi, le superfici a prato? O, più radicalmente, perché non abbandonare il faticoso e laborioso sogno di un prato all’inglese per un prato all’italiana? Al posto della rigida (e un po’ spocchiosa) uniformità, perché non
trasformare il giardino in una più semplice, mescolata e variopinta assemblea vegetale? Sarà più elegante una giacca di velluto o una di tweed?
Con una superficie fatta di “macchie” rustiche e
di presenze saltuarie (e salutari) si può ricondurre il
prato ad esser prato? Il prato all’italiana può, durante l’estate, diventare anche un po’ giallo, forse un
po’ rado. Con un po’ di pazienza e dopo un po’ di anni, tende a autoselezionarsi, dando vita a sistemi vegetali molto più sani per noi, per i nostri vicini, per
gli uccelli, per i ricci, i rospi, le salamandre, le lucertole, gli insetti, per tutta quella parafernalia animale che un giardino può sostenere e far convivere. E
per i cani? E per noi? Il contatto con prodotti “selettivi” e con i concimanti chimici non è auspicabile e
felice. Proprio no.
E il resto del giardino? Rododendri, azalee, kalmie, eriche e ortensie sono diventate in pochi anni
piante esotiche pure loro, dipendenti in modo eccessivo dall’acqua e dalla umidità ambientale. Ora
soffrono scontente: vorrebbero tanto esser spostate in latitudini e altitudini differenti. A loro non è sufficiente dare acqua, anche se continua, frequente e
non troppo calcarea. Durante i giorni, ormai lunghi
e implacabili dell’estate, pretendono umidità ambientali ormai sempre più rare.
Felice vittima di anglofila passione per rododendri e ortensie, ho dovuto, per pace e tranquillità, ridurne la presenza all’essenziale, al minimo. Un
giardino è bello e piacevole se felice, e se l’aspetto
delle piante coltivate è normale: un giardino non è
un ospedale, né un carcere dove tenere forzate e infelici piante aliene non adatte. Il capriccio per il capriccio, anche in giardino, è odiosissimo.
Ben vengano quindi nei giardini le rose, che del
caldo e della siccità sono soltanto felici, ben vengano gli azzurri, leggeri e impareggiabili ceanoti, che
dalle sabbie della California stanno invadendo, forti pure delle loro sempreverdi, lucide ed elegantissime foglioline, le nostre future… sassaie! E con loro i meravigliosi papaveri bianchi e gialli: la Romneya coulteri che nel secco prospera e si moltiplica.
Ben vengano quindi oleandri, e pure rosmarini,
corbezzoli, filliree, melograni, fichi, mimose, lecci,
sughere, cotini, agrifogli, bossi ed allori… Questo
breve e condensato elenco non è soltanto un suggerito e vocale scioglilingua, può essere l’inizio,
suggerito e consigliato, per un giardino nuovo adatto al sole, al caldo e all’asciutto. Intelligenti e pronti
sono i coraggiosi che prevedono, cambiano e adattano e si adattano.
E i cisti? Da esotici (trentacinque anni fa, quando
ne piantai alcuni, per provare) ora sono diventati i
più facili, semplici e bellissimi compagni delle mie
assolate e scoscese prode. Sempreverdi, robustissimi, amanti delle più infelici ed estreme situazioni di
secco e di caldo, sembrano nati per il posto. Leggeri, sottili (ed elegantissimi) i fiori si aprono presto al
mattino per accompagnare il giorno fino a sera. Felici di sole, di caldo e di strapazzi, sono diventati i migliori amici del giardino asciutto. Alan Fraddè un cisto bianco puro, il fiore perfetto grande ed aperto
mostra felicissimo le sue piccole macchie marroni,
quasi bordeaux. Robustissimo, sta crescendo ed
espandendosi sempre di più alle falde di un sassoso (e assolato) angolo del giardino. Da pochissimi
mesi, vistone il successo e la felicità (in questi ultimi
tre anni), ne ho piantati altri tre, che sono anche loro vicini vicini. E appagati. Nel giardino felice, osservazione, curiosità e coraggio potrebbero esser
coniugate con passione, pazienza e sensibilità.
ROSA GUILLOT ORSOLA SPINOLA
Ibrido fortunato del francese Guillot,
non supera gli ottanta centimetri,
resiste alle malattie, è profumata
Vuole sole, poca acqua, stallatico
in autunno e un vaso tutto suo
HIBISCUS
Quello ad alberello non vuole acqua,
cerca il sole, cresce ovunque e fiorisce
d’estate. Quello a cespuglio
è più esigente: sole, terriccio leggero,
acqua e concime. Ma è più bello
WISTERIA MACROBOTRYS
Cerca da sola il nutrimento in qualsiasi
suolo e con qualunque esposizione
Si può potare due volte l’anno,
ma è difficile salire alla sua altezza
con le forbici
GERANIO ROSEBUD
PASSIFLORA
CORBEZZOLO
Vuole luce, sole e protezione dal vento
e dal gelo. Fiorisce da maggio
ad agosto, va coltivato in vaso
con terriccio leggero e buon drenaggio
Meno terra, più fiori durante l’estate
Più terra, più foglie per la pergola
Teme il freddo, non la siccità
Più una varietà è bella,
più ha bisogno di clima mite
Sempreverde, altezza da albero,
fiorisce da settembre in poi, fruttifica
d’estate, da agosto a settembre
Vuole sole, in natura cresce
con la sola pioggia
Repubblica Nazionale
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 29 APRILE 2007
l’incontro
Ha creato “Bella senz’anima”
e “Margherita”. Poi ha trovato
una seconda giovinezza reinventando
l’opera: “Notre Dame” è stata
un successo planetario, “Giulietta
e Romeo” pare avviata
a ripeterne i trionfi
Adesso ha due nuovi
progetti: il primo
di lavoro, scrivere
un’opera buffa;
il secondo di vita,
ritirarsi nel segreto
dei suoi affetti, “sparire del tutto,
non essere più un fatto fisico,
esserci solo attraverso la musica”
Anti-divi
Riccardo Cocciante
iccardo Cocciante ci viene
incontro all’ingresso degli
Air Studios. In mezzo alle
volte gotiche della chiesa
sconsacrata di Hampstead — nuova residenza degli studi di registrazione di
George Martin, famoso produttore dei
Beatles — la sua figura è ancora più minuta. Il tempo delle cattedrali, viene da
pensare: Notre Dame de Paris, era il ‘98,
e in quasi dieci anni ne ha fatti di viaggi.
«L’opera ha viaggiato. Io mica tanto», dice Cocciante. «Dei tanti luoghi lontanissimi che l’hanno accolta ho visto soltanto la Cina. Neanche in Corea del Sud l’ho
accompagnata. E dire che lì l’hanno voluta per ben due volte, e la seconda, in
contemporanea alle rappresentazioni
di Seul, hanno organizzato schermi per
la ripresa via satellite nei teatri delle altre città». Come si dice, un successo planetario. «Credo di sì, ma non me ne curo più di tanto. La sola urgenza che ho è
di esprimermi, quindi di comporre.
Sempre».
Per il momento sta registrando. Adesso in uno studio normale (legno chiaro e
tappezzerie, macchine sofisticatissime) per le basi; tra qualche settimana si
sposterà nella sala grande per registrare
l’orchestra. La visitiamo, la sala grande.
È la chiesa vera e propria, con tanto di organo. La musica rimbalza sulle volte,
sfiora le grandi vetrate, scende in picchiata verso i leggii già pronti. Sembra
quasi di vederla, di poterla afferrare in
volo. Una straordinaria acustica naturale. «Giulietta e Romeo se la meritano»,
dice Cocciante. Ai tragici amanti veronesi è dedicata la sua nuova opera, sempre su libretto di Pasquale Panella, autore del Battisti dopo-Mogol e traduttoreautore della versione italiana di Notre
musicisti: Francesco De Gregori, Antonello Venditti e Riccardo Cocciante. Un
battesimo. Nessuno era uguale all’altro,
ma tutti e tre, nello stesso momento storico, rivendicavano una canzone fatta
di ribellione, poesia, libertà. De Gregori
bellissimo principe, già colto e distante;
Venditti più sanguigno, infagottato nell’eskimo, con la sua anima popolare già
in evidenza; Cocciante accuratamente
nascosto da una massa di riccioli scuri,
ma con una rabbia da scuotere i muri.
«Avevo bisogno di esprimermi, avevo
bisogno di cantare. Non ho mai parlato
molto, neanche da bambino. La musica
era l’unico modo che avevo per farmi
capire. Eravamo quattro figli e io ero il
secondo, Mai stata facile la vita per il secondo figlio».
La sua timidezza era evidente, così
come un rapporto non proprio sereno
con il suo corpo. Sembra un’altra persona, oggi. Forse proprio perché, dopo
tanto successo, può concedersi il lusso
Ho sempre avuto
bisogno di cantare
per esprimermi
Non ho mai parlato
molto, neanche
quando ero bambino
Eravamo quattro figli
e io ero il secondo:
mai stata facile la vita
per il secondo figlio
FOTO GRAZIA NERI
R
LONDRA
Dame. Giulietta e Romeo debutterà il
primo giugno all’Arena di Verona e per i
primi quattro giorni annunciati (fino al
4 giugno) i biglietti erano già esauriti alla fine di gennaio. «È una grande dimostrazione di fiducia da parte del pubblico. E anche una bella responsabilità»,
dice Cocciante. Ma neanche questo fatto “pratico” sembra turbarlo.
È seduto accanto a Rick Wentworth,
direttore e orchestratore di Giulietta e
Romeo (e di Ca ira, l’opera dell’ex Pink
Floyd Roger Waters sulla rivoluzione
francese). Ha davanti le partiture e anche il libretto. Lo scorriamo. Amore,
amore, amore: la parola magica è una
costante nei testi di Panella. «È fatto apposta. Stiamo parlando di Giulietta e
Romeo. E comunque Panella non è un
poeta, è un meraviglioso scrittore per la
musica e con la musica va ascoltato. Ricordo un gioco che facevo da ragazzino:
prima di Sanremo i giornali pubblicavano i testi delle canzoni che avrebbero
partecipato al festival. Li leggevo e cercavo di capire come sarebbero state le
musiche. Impossibile. Quelle parole
senza musica erano orribili».
Da adolescente amava Sanremo?
«Accidenti se mi piaceva. Sono arrivato
in Italia, da Saigon, quando avevo dieci
anni. In casa si ascoltava l’opera. Il mio
primo incontro con la musica leggera è
stato il festival». A Saigon — oggi Ho Chi
Minh City — Cocciante non è più tornato. «Quando avrei voluto non si poteva,
c’era la guerra. Adesso ho qualcosa che
mi blocca. Forse la paura di vedere la
città troppo diversa da come la ricordo.
Due film mi hanno fatto tornare la nostalgia: Indocina, ma soprattutto L’amante, la storia di Marguerite Duras. Da
quel film uscivano gli odori, i sapori,
usciva la luce che ha illuminato la mia
infanzia. Di Saigon, dopo cinquant’anni, ho un ricordo ancora chiarissimo:
dalla Cattedrale, percorrendo la rue Catinat, saprei perfettamente come tornare a casa».
Tornare a casa, oggi, vuole dire tornare a Dublino. Lì vive da anni con sua moglie (e manager) Cathy e con David, il loro figlio sedicenne. «L’Irlanda mi piace
moltissimo. È in realtà un paese del sud:
il calore della gente, l’energia delle sue
musiche popolari. C’è in Irlanda un rispetto per tutta la musica, dal rock al
folk, senza snobismi. Da Dublino non
vorrei mai spostarmi. Questa è la prima
volta dopo anni che la lascio per così
tanto tempo. Ma nei miei progetti c’è
quello di sparire del tutto, di non essere
più un “fatto fisico”, di esserci soltanto
attraverso la musica».
Lo sguardo azzurro, quasi trasparente, si è fatto sottile, appuntito, penetrante. Anche se, in trentacinque anni di carriera, Cocciante ci ha abituati all’evanescenza, il concetto merita comunque
una spiegazione. E mentre parla ci viene
in mente la sua prima apparizione in
pubblico come “cantautore”. Inverno
1973, Roma, Teatro dei Satiri. Sul palco
Carlo Massarini presenta tre giovani
di scomparire? «A cambiarmi è stata la
grande scoperta di una novità in me. Io
sono un cantante. Un cantautore, se vogliamo. Ho fatto Bella senz’anima, poi
Margherita, poi Cervo a primaverae tutte le altre. Cominciare è facile; difficile è
continuare, soprattutto restando per
anni allo stesso livello. Puoi avere un colpo di fortuna al momento giusto, puoi
avere la faccia giusta. Hai il look, ma le
mode passano. E ti dici: che faccio adesso? Io ho avuto la fortuna di non avere un
look, né la faccia giusta. Aznavour aveva
forse la faccia giusta? E la Piaf? Ce l’aveva la Piaf? La mia ambizione non è mai
stata quella di apparire in pubblico.
Però volevo esprimermi. Sei introverso,
ma hai comunque bisogno di dire qualcosa. È arrivato il successo, ma detestavo essere considerato una star. Tanto
che a un certo punto ho avuto bisogno di
tornare a vivere normalmente. Il divismo uccide. Io non sono caduto nella
trappola. Me ne sono andato dall’Italia.
Sono francese a metà — mia madre era
francese — e mia moglie è francese. Ho
scelto Parigi. E lì, senza più problemi di
popolarità; lì, quasi alla fine di una carriera — almeno così mi sentivo — ho
scoperto che potevo fare altro, e che
questo altro mi piaceva moltissimo».
Il resto è noto: Cocciante ha aperto
uno dei suoi «cassetti perenni» zeppi di
melodie («Ne ho ancora a centinaia,
chissà dove finiranno») ed è uscita Notre
Dame de Paris. «Ho riscoperto una
espressione popolare come l’opera e le
ho dato una vita nuova. Questo mi ha
permesso di unire le mie due anime:
quella classica, fatta di pura melodia, e
l’altra, quella che graffia, moderna,
sempre rivolta al futuro. Il successo di
Notre Dameha dimostrato che avevo ragione: si può fare un’opera con il linguaggio di oggi, ma non destabilizzante
per un pubblico popolare. Senza scenografie, ma con eleganza».
Il turno di registrazione è finito. La
“session” avrebbe dovuto concludersi
alle sette, invece è la mezzanotte passata. Si entra in sala e non si sa mai quando
si esce, è normale. Per questo il bar degli
Air Studios è aperto ventiquattro ore su
ventiquattro. «Continuiamo a parlare al
bar» dice infatti Cocciante. Anche la loquacità è cosa nuova. Sembra esausto,
ma ha ancora troppe cose da dire e, soprattutto, ha come un’urgenza di dirle.
Gli argomenti si accavallano, uno insegue l’altro. C’era stato il concerto al Colosseo, il 16 settembre del 2005, per soli
trecento invitati (e grandi schermi fuori): quel concerto è il debutto del suo impegno decennale con l’Associazione
italiana per la ricerca sul cancro (alla
quale andrà un euro su ogni biglietto
venduto per la nuova opera, fino al
2015). Al Colosseo aveva cantato Giulietta e Romeo da solo, voce e pianoforte. Poi erano arrivate le audizioni per
trovare i cantanti. «Quando abbiamo
fatto quelle per Notre Dame era stato un
disastro. Non si trovava nessuno. Per
Giulietta e Romeo abbiamo avuto mi-
gliaia di provini. La cosa più strana? Erano tutti cantanti giovanissimi, anche di
quattordici anni. La più straordinaria? I
loro curricula. In molti era scritto: dopo
aver visto Notre Dame ho deciso di cantare».
Ma, in fondo, i suoi aspiranti cantanti
sono quelli che oggi non comprano più
i dischi, che pretendono di scaricarli
gratis dalla rete e che quindi la danneggiano. «È un periodo di passaggio. Chi
ha la mia età è legato al formato. A noi
piace avere in mano l’oggetto disco. I ragazzi se ne fregano. Anche nella musica
vedo una transizione. I grandi vecchi
spesso mi deludono e nella rabbia dei
giovani non trovo verità. Hanno troppo
benessere e, se non ce l’hanno, il vero
scopo è quello di raggiungerlo. Noi ci
battevamo per ottenere altre cose».
Del suo progetto di eclissi totale ha già
calcolato tempi, modi e luoghi? «Decidere di comporre opere popolari e di
non interpretarle implica una sparizione. Già mi sto eclissando, quindi. Dove?
Senz’altro a Dublino. Quando sono lì mi
concentro bene, passo intere giornate a
immaginare. In fondo l’arte è questo per
me: ho sempre l’idea che gli uomini abbiano dei sogni, e che li vorrebbero vedere realizzati. Gli unici che riescano a
dare forma ai sogni sono gli artisti. E
quando un sogno, un pensiero, un’idea,
si materializzano, che bella cosa. Quando, con due sole linee, un pittore ti fa capire un concetto, quando con poche note un compositore ti tocca il cuore, questo è l’artista. È tutto e niente. L’evoluzione del mondo passa attraverso l’arte.
È un motore spirituale enorme. Penso a
Mozart e Rossini, spesso lievi eppure così potenti. Dopo tanti drammi in musica, dopo Notre Dame e Giulietta e Romeo, mi piacerebbe fare qualcosa di più
allegro. Un’opera buffa, per esempio.
Anzi, lo decido in questo momento: credo proprio che la farò».
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LAURA PUTTI
Repubblica Nazionale
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