Domenica il fatto Eliseo, la casa del presidente-re La di DOMENICA 29 APRILE 2007 ANAIS GINORI e BERNARDO VALLI la memoria Repubblica Attentato a Togliatti, le carte segrete ALDO AGOSTI e ALBERTO CUSTODERO Guevara, la guerriglia e i figli, le poesie e le lettere d’amore A quarant’anni dalla morte Aleida March lo racconta in un libro La vedova CHE ILLUSTRZIONE ROMAN CIESLEWICZ del OMERO CIAI ALEIDA MARCH l’immagine «A uccede a volte che le parole siano mute, che smarriscano il loro significato. Che non si sappia o non si possa spiegare l’esatta portata degli avvenimenti che stiamo vivendo. Fu questa la sensazione che provai nel momento del distacco (la partenza del Che per il Congo, ndr), il primo di tanti che avrei vissuto, sempre, come definitivi. Ogni volta ignoravo che ne sarebbero seguiti altri simili e che avrebbero sempre risvegliato in me quell’istinto di protezione nei suoi confronti che andava al di là di ogni razionalità. Nonostante sapessi fin troppo bene che tutto era già scritto. Per questo mi costava tanto farmene una ragione. Per questo mi era così difficile accettarlo. Ora, cercando di rievocare quei fatti — fatti che m’ero ripromessa di non raccontare — provo le stesse emozioni e gli stessi timori di allora, quando con tutte le mie forze mi aggrappavo a qualcosa che non sarebbe mai più stato uguale a prima. [...] Dal tono delle sue lettere, che conservo come il mio tesoro più caro, capivo che non ero soltanto io a essere segnata da quella prova. Anche per lui la separazione era dura da sopportare, insostenibile, tanto più che io potevo contare almeno sulla compagnia e il conforto dei figli, immagine concreta del nostro amore. Le lettere. A distanza di anni, rileggendo per l’ennesima volta le lettere che mi scrisse dalle regioni più sperdute del Congo, posso misurare l’enormità del suo sacrificio, del suo scegliere di vivere senza di noi. (segue nelle pagine successive) Lo stilista-sultano che creò la moda leiducha! Dall’ultima tappa ufficiale, ti mando un fedele abbraccio maritale. Pensavo di esserti fedele anche con il pensiero prima di vedere le ragazze more di qui. Impossibile resistergli… un bacio. Che». Allegro, beffardo e anche innamorato, Ernesto Guevara scrisse questo bigliettino, finora inedito, alla moglie Aleida March dal Marocco nel corso del suo primo viaggio dopo la vittoria della rivoluzione cubana. Siamo nell’estate del 1959. Guevara ha sposato Aleida il 2 giugno. Dieci giorni dopo parte e tornerà a L’Avana solo alla fine di settembre. Tre mesi e mezzo da ambasciatore della nuova Cuba senza luna di miele. Quando ha saputo del viaggio, la povera Aleida, che ha appena perso un figlio per un aborto spontaneo, ha lottato per partire con lui ma il Comandante è stato irremovibile. «Sarebbe questo tuo — disse alla novella sposa — un privilegio inaccettabile. Cosa penserebbero di me gli altri membri della delegazione che non possono portare con sé le mogli?». Perfino Fidel Castro intervenne ben due volte presso il Che in favore di Aleida. Ma non ci fu nulla da fare. Era il primo dei numerosi abbandoni che soffrirà Aleida nei sette anni (1959-66) in cui dividerà la sua vita con quella del Che, gli regalerà quattro figli (Aleidita, ‘60; Camilo, ‘62; Celia, ‘63; e Ernesto, ‘65), e diverrà per sempre la “vedova ufficiale” che ne difenderà la memoria e occulterà ciò che di quel ricordo al regime non serve. (segue nelle pagine successive) con un articolo di CARLOS FRANQUI S NATALIA ASPESI cultura Le Corbusier e l’utopia di cemento ENRICO REGAZZONI e AMBRA SOMASCHINI la lettura Giallo su giallo, un killer al Tour GIANNI MURA le tendenze Le piante e i fiori del grande caldo PAOLO PEJRONE e ROSSELLA SLEITER Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 APRILE 2007 la copertina Testimonianze La donna che sposò Guevara nel 1959 e gli restò a fianco fino al 1967, anno della morte, ha scritto un libro intitolato “Evocación”, dove agli struggenti ricordi privati fanno da contrappunto i silenzi sulla rottura politica con Castro e sulla disperata avventura boliviana Ne anticipiamo alcuni brani “Mio marito il Che” la verità di Aleida (segue dalla copertina) uevara e Aleida March si conobbero sulla sierra dell’Escambray verso la metà del 1958. Lui era già uno dei comandanti che guidava una colonna della guerriglia mentre lei, «una maestrina bionda e rotondetta», era fuggita in montagna dopo aver preso parte ad alcuni scioperi e azioni di boicottaggio che l’avevano segnalata come «sovversiva»allapoliziadeldittatoreBatista. Galeotti furono un foulard di seta nero che Aleida regalò al Che affinché reggesse un braccio che s’era fratturato cadendo dal tetto di una caserma e una parola, “Caterpillar”, che lei non sapeva scrivere. Fu un colpo di fulmine ma fra il primo incontro e il primo bacio ci furono la lunga marcia su Santa Clara,labattagliadecisivael’ingressoall’Avana: i mesi cruciali della rivoluzione. E soltanto dopo l’ultimo atto, la resa della Cabaña, l’estrema fortezza dei batistiani nella capitale, il Che e Aleida cominceranno a vivere come due fidanzati. Ma, fatta la rivoluzione, Guevara aveva un grosso problema personale: chiudere il legame con Hilda Gadea, la peruviana che aveva conosciuto in Guatemala e sposato in Messico, e dalla quale aveva avuto una figlia, Hildita, prima di unirsi, nel 1956, alla spedizione di Fidel Castro a Cuba. Hilda raggiunse l’Avana vittoriosa l’ultima settimana di gennaio del ‘59. Scrive Aleida: «Alberto Castellanos (un attendente di Guevara) andò a prenderla all’aeroporto. I genitori del Che la stavano aspettando. Al ritorno, nessuno ci presentò. E così, quando me la trovai davanti la squadrai da capo a piedi. Fu allora che tutte le mie preoccupazioni si sciolsero come neve al sole. In un baleno mi convinsi che la persona che mi stava davanti non poteva assolutamente essere la mia rivale: dovevo solo aspettare che il Che decidesse». Come contraddirla: sul volto di Hilda c’erano stampati i tratti rudi e rocciosi degli indios peruviani, era piccolina e poco affascinante, mentre lei, Aleida, era una bianca, europea, femminile e sensuale. Sul piano dell’avvenenza fisica non c’era partita. Sarà per questo e per la sua leggendaria gelosia che Aleida starà tremendamente antipatica a tutti i biografi di Guevara. La maggioranza le dedica appena qualche paragrafo. Ha scritto Jorge Castañeda: «Ernesto s’innamorò di lei; l’intensità del suo affetto durò anni. Ma misteriosa risulta la distanza che abbastanza presto si interpose fra loro due. Qualcuno l’attribuisce alla rivoluzione; altri alla tendenza di Aleida ad essere quel genere di donna il cui aspetto fi- G sico si rovina rapidamente; altri ancora ad una possessività femminile che sopravviverà alla morte del marito e si estenderà ai suoi figli, ai suoi archivi, alla sua memoria». Anni più tardi, Pepe Aguilar, un amico d’infanzia del Che che aveva conservato con lui un legame molto intimo fino alla fine, coglierà bene il mistero di Aleida: «Era molto difficile averci a che fare e, per di più, era terribilmente gelosa di tutti coloro che erano stati vicini al Che prima di lei». Nonostante la sua nota bellezza, particolare che lo ha reso, molto al di là della sua vita, il mito più sfruttato e durevole del Novecento, Ernesto Guevara non fu mai un donnaiolo. I suoi amori si possono contare sulle dita di una mano. L’aristocratica “Chichita” nell’adolescenza argentina, Hilda, Aleida e, forse, Tania Bunke, la guerrigliera d’origine tedesca che lo affiancherà in Bolivia. Ma la sua relazione con le donne fu sempre quella di colui che seduce e abbandona perché ha un compito più alto, trascendente l’amore, da compiere. E neppure Aleida sfugge al destino. Dopo il matrimonio vennero gli anni dell’impegno e della lotta politica. Guevara si batte per l’industrializzazione di Cuba, diventa ministro dell’Industria e poi presidente della Banca centrale (i famosi pesos firmati semplicemente “Che”), riceve la cittadinanza onoraria. Nel giro di trenta mesi perde la sua sfida. Mentre Fidel Castro abbraccia l’Orso sovietico e vende Cuba come zuccherificio del Patto di Varsavia, Guevara scrive che l’Urss è un paese capitalista e imperialista come l’America di Lindon Johnson e della Cia. Così lascia ogni incarico e torna alla guerra, alla guerriglia. Va prima in Congo,poiinTanzania.DalCongoscrivead Aleida: «Non mi ricattare. Non puoi raggiungermi né adesso né fra tre mesi. Fra un anno forse sarà diverso e allora vedremo. La cosa va soppesata nei minimi dettagli. Se vieni, l’importante è che tu non sia “la signora” ma la combattente, e per questo devi prepararti per bene, almeno devi studia- “Quando ci siamo sposati sapevi chi ero Amami ma capiscimi: il mio destino è segnato, niente mi fermerà fino alla morte” re il francese […] Quando ci siamo sposati sapevi chi ero. Amami, ma capiscimi: il mio destino è segnato, niente mi fermerà fino alla morte». L’ultimo incontro con Aleida all’estero non è tra due amanti ma tra un guerrigliero in cerca d’autore e una funzionaria del regime, quasi un agente dei servizi. Lo scenario è Praga. Fidel Castro invia Aleida per convincere Guevara a tornare a Cuba. Guevara si rifiuta. Vuole andarsene per la sua strada, vuole preparare una guerriglia nella sua Argentina. In fretta i cubani gli organizzano la spedizione in Bolivia: l’unico paese dove c’è un partito comunista che accetta (in realtà fingono) l’idea della lotta armata. Lui ci casca e loro sbagliano la zona più propizia per la guerriglia e si dimenticano di attivare una rete di collegamento. Ancora per un po’ Fidel Castro fa il doppio gioco: sostiene Guevara ma rassicura i sovietici che non lo vogliono né nel gruppo dirigente cubano né in giro per l’America Latina a combinare guai che possono incrinare la divisione del mondo della Guerra fredda. Poi l’abbandona. Nelle memorie, a volte dolci, spesso struggenti di Aleida, gli ultimi due anni del Che praticamente non ci sono. Da vedova ufficiale, l’unica signora Guevara nella nomenclatura, difende la versione ortodossa. Le ultime volte che s’incontrano litigano, racconterà la scorta. Per Tania, che lui incontra “troppo spesso”, e perché Guevara, durante un breve soggiorno a Cuba, ha avuto un’altra donna e un altro figlio. Ma neanche questo Aleida ammette oggi: il mito del guerrigliero eroico non va sporcato. Lo stesso avverrà per i diari, per i “quaderni di Praga”, per gli appunti, per quelle otto casse sigillate di documenti originali del grafomane Guevara che Castro consegnerà a Carlos Franqui e questo porterà ad Aleida. Ossessionata dal “cubanizzare” il Che per ordine di Fidel («l’unico uomo di fronte al quale perdevo la facoltà di parola») nasconderà tutto per trent’anni vigilando sulla memoria del marito nella forma prescelta dal regime. Marito che aveva trascorso gli ultimi sei mesi della sua vita senza un contatto né con lei né con i cubani, mentre il suo piccolo esercito boliviano veniva decimato e accerchiato. Così, se in Congo l’avevano salvato scambiando la sua vita e quella degli altri cubani con il via libera agli anticastristi che volevano emigrare negli Stati Uniti, in Bolivia L’Avana gira la testa dall’altra parte e attende che il destino si compia. L’8 ottobre 1967 Barrientos decide che deve morire, la mattina del 9 l’incosciente Mario Teran lo fucila. Il Che muore ed è per il bene di tutti: russi, cubani e americani. FOTO © GENKO FILMS GMBH BALTABICK TV FILM RIGHTS LLC OMERO CIAI CAMUFFATO A sinistra, Aleida e il Che, camuffato da Ramon, in Tanzania nel 1966 A destra, insieme a Remedios Sopra, in auto il 2 giugno 1959, giorno delle nozze ALEIDITA, LA PRIMA FIGLIA Nella foto grande a centro pagina, Ernesto “Che” Guevara e Aleida March all’ingresso della città di Santa Clara all’inizio della primavera 1959 Qui sopra, nell’intimità della loro casa con la figlia primogenita Aleidita nel 1961 Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 O FOTO © GENK LLC FILM RIGHTS BALTABICK TV FILMS GMBH DOMENICA 29 APRILE 2007 IL LIBRO Si intitola Evocación. La mia vita a fianco del Che (Bompiani, 215 pagine, 16,50 euro, in uscita il 2 maggio) il libro di Aleida March, la donna che sposò Ernesto Che Guevara nel 1959 e gli restò accanto fino al 1967, anno della morte del Comandante. È un lungo racconto dall’infanzia al golpe di Batista fino all’incontro con il Che nella Sierra Escambray e la sua nuova vita tra famiglia, figli e l’impegno rivoluzionario del marito. Sabato 12 maggio alle 18,30 alla Fiera del libro di Torino, il volume sarà presentato dalla figlia del Che Aleidita Guevara. I testi a firma Aleida March e le foto pubblicate in queste pagine sono tratte dal libro Bompiani “Dovette travestirsi per l’ultimo addio” noscevo nelle più intime fibre. [...] La partenza per la Bolivia. L’addestramento stava per finire. Questa volta vivevo in modo meno apprensivo la sua partenza, forse perché avevo avuto la possibilità di partecipare ai preparativi, o magari perché pensavo che avremmo potuto rivederci presto: speravo che la separazione non durasse più di cinque anni. Anche se non riuscivo mai a prevedere quanto tempo sarebbe passato tra un incontro e l’altro, credevo fermamente che, nel giro di cinque anni, l’avrei potuto raggiungere. [...] Qualche giorno prima della partenza, lo trasportarono in un luogo sicuro, a L’Avana. Trasformato di nuovo nel vecchio Ramón, chiese di vedere i bambini. Se si presentò così camuffato, era per il timore che i più grandicelli lo riconoscessero e potessero parlarne a qualcuno, con tutte le conseguenze del caso. Quando arrivarono, lo presentai come un uruguaiano molto amico del papà che voleva conoscerli. [...] Tanto per il Che quanto per me fu un momento difficilissimo. Si può ben immaginare il suo strazio: avere i figli lì, così vicini, e non potersi rivelare, non poterli trattare come desiderava fu una delle prove più dure della sua vita. Per i ragazzi, quello fu un giorno di festa; erano scatenati, giocarono tutto il tempo per ingraziarsi l’amico di papà, perché vedesse quello che sapevano fare. [...] Aleidita, correndo a perdifiato, batté la testa. Il Che si precipitò a prestarle un’attenzione così premurosa che lei mi si fece incontro per sussurrarmi all’orecchio: «Mamma, quest’uomo è innamorato di me». Anche il Che aveva sentito. Non ci dicemmo nulla, ma entrambi sbiancammo dall’emozione. Da quella casa raggiunse l’aeroporto: sarebbe volato prima in Europa per poi riprendere il viaggio, verso la meta finale. Prima di partire, mi scrisse una poesia. A quanto mi dissero avrebbe voluto scriverla su un fazzoletto bianco che tuttavia non trovò. [...] L’ultimo frammento recita: ALEIDA MARCH (segue dalla copertina) a soprattutto la gigantesca portata del suo consacrarsi anima e corpo alla lotta per conquistare un mondo più giusto. Come emerge con impareggiabile chiarezza dalle parole e dal tono del suo primo messaggio: «Mia unica al mondo: (L’ho preso in prestito dal vecchio Hickmet) Che miracolo hai fatto con questa povera, vecchia carcassa che non cerca abbracci reali ma si strugge pensando ai tuoi baci, sognando le concavità in cui l’accoglievi, il tuo odore, le tue carezze rudi, contadine? Questa è un’altra Sierra Maestra, ma senza il piacere d’averla concepita né — fino a oggi almeno — di sentirla mia. Tutto scorre al rallentatore come se la guerra fosse cosa di dopodomani. Per adesso, la tua paura che mi facciano fuori è altrettanto infondata delle gelosie di un tempo. Le mie giornate le passo tra le lezioni di francese — cui dedico alcune ore — di swahili e di medicina. Fra qualche giorno comincerò un lavoro più serio, di addestramento. Una specie di Minas del Frío, per intenderci, quella della guerra, non quella che abbiamo visitato insieme. Dai un bacio speciale a ogni bambino (Hildita compresa). Fatti fare una foto con tutti loro e mandamela. Non grande, e poi un’altra piccolina. Studia il francese, non da infermiera e voglimi bene. Un lungo bacio, di quelli da reincontro. Ti ama, Tatu» La morte della madre. Durante la sua permanenza in Congo, seppe della morte della madre. Affidò la sua angoscia a una lettera nella quale si augurava che «non avesse troppo sofferto e che non avesse avuto tempo per pensare a me». Fu in memoria della madre che scrisse uno dei suoi racconti più commoventi, La piedra. Evocandola, scrisse della sua necessità fisica che «appaia mia madre; che io appoggi la testa sul suo grembo magro e lei mi dica “il mio vecchio”, con una tenerezza rude e piena. Che possa sentire fra i capelli la sua mano ossuta accarezzarmi a scatti, come un pupazzo caricato a molla, come se la tenerezza traboccasse dagli occhi e dalla voce [...]. Non è necessario chiederle perdono; lei ha già capito; e tu lo sai per certo quando la senti mormorare “il mio vecchio”...». Questo era l’uomo che, al di sotto della scorza d’apparente durezza, io co- M CARLOS FRANQUI stanza dalla casa di Celia Sánchez e Fidel Castro. Da lì pasel 1964, durante il suo secondo viaggio a Mosca, Fidel savano tutti, e il commento era che il comandante Piñero, Castro si accordò con Nikita Krusciov per trasformacapo delle operazioni di intelligence, Bolivia inclusa, diceva re Cuba nello zuccherificio socialista. Il potere ecoche stavano preparando un piano per salvare il Che, in due nomico esercitato da Guevara fin dalla fine del 1959, comfasi. La prima era l’invio di contingenti di guerriglieri che preso il suo potente ministero dell’Industria, svaniva. La sua avrebbero aperto diversi fronti per alleggerire la situazione risposta Guevara la diede al seminario di Algeri, nel febbraio del Che; la seconda era un’azione di rastrellamento per trodel1965, quando dichiarò: «I paesi socialisti sono, in una cervare il Che e portarlo in salvo. Passarono mesi senza che sucta misura, complici dello sfruttamento imperialista». Fu la cedesse niente. Fidel Castro diede la notizia della morte di rottura con Castro e con i sovietici. In quei mesi, di passaggio Guevara basandosi sulle tracce di una cicatrice e con la foa Parigi, Guevara mi aveva detto: «Franqui, con Fidel né matocopia delle pagine del diario del Che, consegnato dalla Cia trimonio né divorzio». a un’agenzia di stampa. Dato che conoscevo, dai tempi di Al suo arrivo all’Avana, nell’aprile di quello stesso anno, Radio Rebelde, sulla Sierra Maestra, la calligrafia e lo stile dei scoppiò il conflitto fra lui e Fidel, e la soluzione fu spedirlo a bollettini del Che, Fidel mi mandò a cercare perché dessi il fare la rivoluzione in Africa. Di cubani a dargli manforte gliemio parere, che fu affermativo. ne inviarono pochi e, alla fine del 1965, sconfitto e a un passo Guevara morì in Bolivia solo e abbandonato. La sua decidalla morte, prima di fuggire, il Che scrisse: «Mai come oggi sione di lasciare il potere e di andare a morire lottando conho avvertito fino a che punto era solitario il mio cammino». tro il nemico, quella foto di lui morto che sembra il Cristo del Dopo la lettura della sua lettera di commiato al congresso del Mantegna e la carenza di miti lo trasformarono, al di là dei Partito comunista, che Guevara aveva dato ordine di leggere suoi errori e dei suoi fallimenti, nel mito della rivoluzione. Ansolo dopo la sua morte, il Che si rifugiò a Praga, rifiutandosi ni dopo che il Che si era trasformato in un mito universale, Fidi tornare a Cuba, fino a quando non lo andò a cercare il codel Castro ordinò di recuperare i suoi “resti” e di trasformarmandante Valdés per convincerlo all’avventura boliviana. lo nell’icona del suo apartheid turistico. I morti non possono Qualche mese dopo, con una manciata di uomini, Gueparlare, ma la Cuba di oggi, alleata con i peggiori capitalisti, vara diede il via alla sua tragica esperienza boliviana. Alla fiche nega ai cubani le spiagge, gli alberghi, i ristoranti e le cline di maggio del 1957, scrisse nel suo diario: «Con l’Avana niche del dollaro, è la negazione della vita e del pensiero di Ernon c’è comunicazione». L’assenza di comunicazione pernesto Che Guevara. durò fino alla sua morte, nell’ottobre del 1967. In quell’epoTraduzione di Fabio Galimberti ca lavoravo all’Ufficio affari storici, situato a un isolato di di- N quanto mi mancano le tue lacrime di rito” FOTO © GENKO FILMS GMBH BALTABICK TV FILM RIGHTS LLC Il mito e l’eredità tradita “Ci sono giorni in cui la malinconia avanza incontenibile: Natale e Capodanno soprattutto. Non sai Addio, mia unica, / non ti faccia tremare la fame dei lupi / né il freddo steppario dell’assenza: / ti porto nel petto dalla parte del cuore / e ce ne andremo insieme, finché la strada si dissolva. Mi chiedevo se stava per cominciare una nuova fase della nostra vita, ma non potevo fare altro che aspettare. Piansi tutte le mie lacrime prima di tornare a casa. [...] L’incertezza, di nuovo. Le notizie dalla Bolivia arrivavano sempre attraverso terzi. Ricevetti una sola lettera. Me l’aveva portata il peruviano Juan Pablo Chang, il Cinese, reduce dalla visita al campo di Ñancahuasú prima del suo inserimento definitivo nelle file della guerriglia. «Mia unica, approfitto del viaggio di un amico per mandarti queste righe. Avrei potuto spedirtele; ma mi è sembrata più intima la via “paraufficiale”. Ti potrei dire che mi manchi tanto da perdere il sonno, ma so che non mi crederesti, quindi mi astengo. Ci sono giorni nei quali la melanconia avanza incontenibile e mi pervade. A Natale, a Capodanno, soprattutto. Non sai quanto mi mancano le tue lacrime di rito, sotto un cielo di stelle nuove che mi facevano pensare al poco che ho approfittato della vita sul piano personale. [...] Nulla di interessante della mia di qui. Il lavoro mi piace ma mi assorbe troppo e a volte mi stanca. Appena posso, studio e sogno; gioco a scacchi, contro avversari non proprio di prima categoria. Cammino parecchio. Sto dimagrendo, un po’ per la nostalgia, un po’ per il lavoro. Dai un bacio ai pezzettini di carne, e a tutti gli altri. Per te un bacio carico di sospiri e di altre angosce dal tuo povero e spelacchiato Marito» La morte. Di nuovo ottobre, e con esso la tragedia. Lo seppi da Fidel in persona, che alla conferma della notizia mi mandò a chiamare. Io ero sull’Escambray, per una ricerca storico-sociale. Celia venne a Santa Clara e dall’aeroporto mi mandò a prendere per accompagnarmi nel ritorno a L’Avana. Lì mi aspettava Fidel, che mi portò a casa sua dove rimasi da sola per una settimana. Quindi mi spostai per qualche tempo in un’altra abitazione accompagnata dai miei figli. Fidel veniva a trovarci quasi ogni giorno. [...] Il 18 ottobre si tenne la solenne cerimonia funebre in Plaza de la Revolución. Fidel fu l’unico a parlare. Mi chiese di essere presente, ma gli risposi che sentivo di non avere la forza necessaria per affrontare l’evento. Preferivo restare a casa, davanti alla televisione, in compagnia dei miei figli più piccoli, anche se neppure i più grandicelli potevano rendersi pienamente conto dell’accaduto. Traduzione di Daniela Carpani © 2007 Rcs Libri Spa CONTROFIGURA Sopra, il Che travestito da “vecchio Ramon”, la controfigura usata per far visita in sicurezza a Aleida e ai figli A destra, i figli del Che con la madre e i nonni nel 1968 Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 APRILE 2007 il fatto Fatto costruire da un conte e abitato dall’amante di Luigi XV, l’Eliseo fu adottato come dimora dei capi di Stato elettivi dalla Seconda Repubblica, a metà Ottocento Simboli del potere Ora che i francesi stanno per sceglierne il nuovo inquilino, ne ricordiamo la storia fino alle attuali istituzioni, le più monarchiche che una democrazia ricordi Il palazzo del presidente-re L PARIGI sigente. Più burocratico. Nella mia memoria Georges Arnaud è legato a quel giorno di maggio, in cui vidi per la prima volta in carne ed ossa Charles de Gaulle. Il romanziere era l’altra Francia. I francesi erano divisi. Lacerati da quel conflitto, di chiaro stampo coloniale, ma visto da molti come una minaccia all’integrità nazionale, l’Algeria essendo considerata una delle tante province metropolitane, in cui vivevano un milione di francesi (insieme a dieci milioni di algerini). Nata in seguito al putsch militare di Algeri, la Quinta Repubblica fu considerata a lungo dall’opposizione di sinistra Un colpo di Statopermanente. Questo era il titolo di un libro di François Mitterrand, il quale ventitré anni dopo, nel 1981, diventato primo presidente socialista di quella detestata Repubblica, si adeguò volentieri alle sue istituzioni, usandole da monarca repubblicano per ben quattordici anni. La Costituzione scritta dall’avversario de Gaulle gli andava a pennello. ABDICAZIONE Sconfitto a Waterloo (1815), Napoleone firmò l’atto di abdicazione all’Eliseo 10 SALLE PAULIN (piano nobile) Sala da pranzo degli appartamenti presidenziali, porta l’impronta del gusto del presidente Pompidou, primo successore di de Gaulle, che non intervenne su nessun altro ambiente del palazzo 11 12 3 9 2 8 ILL US TR AZ IO NE DI 10 M IR CO TA NG HE RL IN I a Quinta Repubblica, della quale i francesi eleggeranno domenica 6 maggio il sesto presidente (o la prima donna presidente), compirà l’anno prossimo mezzo secolo. La sua data di nascita è il 28 settembre 1958, se ci si riferisce al giorno in cui fu approvata, con un referendum, la nuova Costituzione. Ma è meglio andare indietro di qualche settimana. Il primo giugno, una domenica, poco dopo le 21, nell’emiciclo di Palazzo Borbone, il presidente dell’ultima Assemblea nazionale della Quarta Repubblica annunciò infatti con tono solenne che, avendo ottenuto la fiducia (con 329 voti contro 224), il generale Charles de Gaulle assumeva le funzioni di Presidente del Consiglio. Di fatto è quella sera che la Francia inaugurò un’altra Repubblica. La quinta dalla fine dell’ancien régime, durante la Rivoluzione francese. Ma è bene retrocedere ancora di qualche giorno. Il 19 maggio, all’hôtel d’Orsay, sulla sponda sinistra della Senna, dove adesso c’è il Museo d’Orsay (ricavato da quell’albergo e dall’omonima stazione ferroviaria) sempre il generale de Gaulle, che da tre anni non teneva conferenze stampa, spiegò ai giornalisti, e quindi al Paese e alla società politica in preda al panico, le condizioni e le formalità per un suo ritorno al potere. Un ritorno già garantito. Si trattava di precisare soltanto le procedure. Un particolare tutt’altro che trascurabile, vista l’atmosfera da colpo di Stato. Quel 19 maggio del ‘58 ero seduto sul parquet del grande salone dell’hôtel d’Orsay in cui il generale parlava nel tardo pomeriggio. Dalla finestra spalancata vedevo gli almeno mille poliziotti schierati sul Lungosenna. Un elicottero, sul quale si diceva fosse Jules Moch, il ministro degli Interni, sfarfallava su di noi facendo un gran chiasso. Vicino a me, come me accosciato sul pavimento per mancanza di sedie, c’era Georges Arnaud, autore del Salario della Paura, un romanzo di grande successo nei primi anni Cinquanta. Il regista Clouzot ne aveva tratto un film, interpretato da Yves Montand. Arnaud era per i ribelli algerini. E come me voleva raggiungere al più presto l’Algeria. Là, ad Algeri, si svolgevano gli avvenimenti che stavano uccidendo la Quarta Repubblica e riportando al potere de Gaulle. Il generale era appena arrivato da Colombey-les-deux-Eglises, villaggio dell’Alta Marna, a duecentocinquanta chilometri dalla capitale, dove si era ritirato dopo aver lasciato il governo nel 1946, disgustato dai partiti che gli rendevano la vita impossibile. Là aveva aspettato, con apparente flemma e reale impazienza, che la Francia, della quale aveva rappresentato la dignità nei bui anni dell’occupazione tedesca, avesse ancora bisogno di lui. A creare le condizioni per un suo ritorno era la guerra d’Algeria. Quello che Georges Arnaud, mio vicino all’hôtel d’Orsay, chiamava «il putsch dei generali fascisti» stava infatti riportando al potere il quasi settantenne ex capo della Francia Libera. Sei giorni prima della conferenza stampa dell’hôtel d’Orsay, il 13 maggio, l’Armée sconfitta in Indocina, a Dien Bien Fu, umiliata nella spedizione di Suez contro l’Egitto di Nasser e impegnata da quattro anni in Algeria, era insorta contro il governo di Parigi, dal quale non si sentiva abbastanza ap- poggiata. E aveva chiesto il ritorno di de Gaulle. Altrimenti avrebbe mandato i suoi parà sui Campi Elisi. Quei poliziotti schierati da Jules Moch sul Lungosenna erano, secondo Arnaud, «una pagliacciata». Cosa potevano fare contro un eventuale sbarco dei militari sediziosi d’Algeria? Non ho mai più incontrato l’autore del Salario della paura. Come altri intellettuali francesi, quando l’Algeria diventò indipendente scelse di viverci, ma ne fu cacciato appena il regime diventò più intran- FOTO AFP BERNARDO VALLI Danielle Mitterrand ricorda ANAIS GINORI «M PARIGI i annoiavo molto». Come, signora Mitterrand? «Sì, all’epoca mi annoiavo molto. Vede, la moglie del presidente è poco più che un ninnolo, un gingillo. Dentro all’Eliseo si muove come un’ombra». Sorride beffarda, sul volto traspare ancora la luce dell’eterna ribelle. «È una gatta selvatica», diceva François Mitterrand. François e Danielle, cinquant’anni di vita e di lotta comune, un lungo cammino attraverso la storia fino a varcare quel cancello, 55 rue du Faubourg-Saint-Honoré. L’Eliseo. Le Château, nell’immaginario dei fran- cesi, anche se questa dimora non ha nulla del castello ma sembra piuttosto la classica casa borghese dell’ottavo arrondissement, come sosteneva il generale de Gaulle. «Qui lo Spirito non soffia» osservò, dopo aver tentato invano di spostare la presidenza della Repubblica in un luogo a suo dire più appropriato, un forte militare a Vincennes. Anche la coppia Mitterrand non amò mai veramente il palazzo costruito dal conte d’Evreux nel 1718 e scelto da madame de Pompadour per sfuggire alla corte di Versailles. «Lo consideravo un luogo di lavoro», confessa Danielle che rimase a vivere nei suoi appartamenti in rue de Bièvre, sulla rive gauche. Le cene con gli amici e i parenti avvenivano sempre altrove, in una delle tante case di Mitterrand. Eppure pochi luoghi come l’Eliseo emanano il fascino del potere. Qui, nel Salon d’Argent, Napoleone firmò la sua seconda abdicazione, subito Repubblica Nazionale DOMENICA 29 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Le Repubbliche PRIMA (1792-1799) TERZA (1870-1940) Dal regicidio a Napoleone, segnata dal Terrore di Robespierre (foto) La più lunga, tormentata dagli scandali e marchiata dall’affare Dreyfus (nella foto) SECONDA (1848-1851) QUARTA (1946-1958) Nasce da una rivoluzione e muore con il colpo di Stato di Luigi Bonaparte (foto) Soccombe all’instabilità (nella foto, René Coty, secondo dei suoi due presidenti) QUINTA (1958 A OGGI) Fondata dal generale de Gaulle (foto), basata su un marcato presidenzialismo 7 LA GUIDA 6 D’ONORE 1 CORTILE Qui il presidente accoglie e saluta gli ospiti di Stato 13 5 4 SALON 2 PETIT Parte dei vecchi appartamenti presidenziali 1 11 SALON DORÉ (piano nobile) Adottato come ufficio presidenziale da de Gaulle in poi, cioè da tutti i capi di Stato della Quinta Repubblica tranne Valéry Giscard d’Estaing, che gli preferì il primo salone d’angolo 12 FOTO AFP 13 SALON MURAT (piano terra) Ex sala da ballo, vi si riunisce tutti i mercoledì il Consiglio dei ministri CLEOPATRA 3 SALONE Già toilette della FOTO SYGMA/CORBIS FOTO AFP Pompadour e ufficio di Napoleone III dopo la sconfitta di Waterloo. E qui Luigi Bonaparte preparò il colpo di Stato, mentre organizzava una festa dopo l’altra, suscitando così l’amara ironia di Victor Hugo: «Fa ballare la Repubblica prima di farla saltare per aria». Il governo s’insedia e si dimette all’Eliseo, il Consiglio dei ministri si tiene ogni mercoledì all’Eliseo, le leggi vengono promulgate all’Eliseo. I vertici internazionali, le riunioni diplomatiche avvengono all’Eliseo. Il famoso computer Giove che controlla l’arma atomica si trova all’Eliseo. «Monsieur le président!». Danielle Mitterrand non dimenticherà mai quel momento. Quando il 21 maggio 1981 le guardie repubblicane scandirono l’ingresso del nuovo presidente nel Salon des Fêtes. È in questo grande salone al primo piano che il 16 maggio si insedierà il vincitore del voto di domenica prossima, Nicolas Sarkozy o Ségolène Royal. «Subito dopo, scelsi di non andare con François a fare la parata sui Campi Elisi», continua la signora Mitterrand sul filo dei ricordi. «Io e mia sorella Christine eravamo curiose di visitare gli appartamenti presidenziali. Dissi ai ciambellani: “Non c’è bisogno che ci accompagnate, ce la caveremo da sole”. Mi guardarono come una pazza. “Escluso, madame”. È così che dovetti abituarmi ai passi felpati, alle frasi sussurrate». Refrattaria alla moda, fino ad allora aveva indossato sempre pantaloni e borse a tracolla. Quel giorno, con massimo sforzo, trovò un vestitino patriottico blu, bianco e rosso. Nel protocollo presidenziale la première dame de France può tutt’al più aspirare ad occuparsi dei menù dei pranzi di Stato, della tosatura dei prati, dello smistamento della corrispondenza. E comunque molta dell’ordinaria amministrazione rimane in mano ai militari, quasi seicento dei mille dipendenti. Danielle Mitterrand riuscì a ottenere una ristrutturazione completa degli appartamenti presidenziali, così come un fazzo- letto di terra nel grande parco, destinato a Ypsilon e Baltico, i due labrador neri. L’architetto Philippe Starck si occupò della sua camera, Jean-Michel Wilmotte di quella del presidente. Il primo a modernizzare l’Eliseo era stato Pompidou, introducendo le poltrone e le librerie anni Settanta. Giscard d’Estaing aveva recuperato lo stile Napoleone III ma aveva fatto un’altra innovazione: aprire l’Eliseo al popolo. Il 14 luglio 1977 quasi ottomila persone si misero in fila per entrare nei saloni dorati e nel grande parco. Da allora è una tradizione che si ripete per la festa nazionale. Mitterrand cambiò il Salon des Fêtes, aprendo su entrambi i lati nuove finestre e innalzando un piccolo palco per l’orchestra durante i ricevimenti. Decise anche di risistemare lo studio presidenziale nel Salon Doré, scelto da de Gaulle per la splendida prospettiva sui giardini. Con Mitterrand il primo piano dell’Eliseo divenne un labirinto di intrighi e segreti, ogni stanza una “cellula” di collaboratori in concorrenza tra di loro, che comunicavano con il capo dello Stato soltanto attraverso bigliettini. «François lavorava fino a tardi, poi tornava a dormire a casa». La mattina l’autista andava a prendere il presidente per riportarlo all’Eliseo. «Era il suo modo di non essere completamente prigioniero», aggiunge la moglie, che Mitterrand chiamava solo “Danou”. Figlia di partigiani, giovane militante socialista, non era destinata a rimanere nei canoni presidenziali, diversa da Yvonne de Gaulle, Claude Pompidou e Anne-Aymone Giscard, capaci di conversare amabilmente di stagioni e botanica durante i pranzi di Stato. «Non si può semplicemente dire: “Sei la moglie del presidente, non devi fare questo o quello”», spiega. «Rimanevo una militante che voleva esprimersi sulle cose che le stavano a cuore». Con la sua fondazione per i diritti umani France-Libertés ha scompaginato le regole. Ha fatto infuriare la Cina invitando il Dalai Lama, poi re Hassan II del Marocco (che la definì “moglie morganatica”) sostenendo pubblicamente la causa dei saharawi; ha viaggiato nel Sudafrica dell’apartheid e nel Kurdistan rischiando di Al momento del crollo della Quarta Repubblica la Francia non era in preda a una delle sue puntuali collere sociali o economiche. Il Paese era in piena espansione; il livello di vita migliorava con regolarità da cinque o sei anni; aumentava anche la natalità, segno vitale in una società afflitta da una demografia cronicamente anemica. Il pieno impiego era garantito. Gli effimeri governi succedutisi dal dopoguerra, benché deboli e incoerenti, avevano portato il Paese sulla strada della prosperità. La malattia era politica. Le istituzioni erano paralizzate (in quei giorni di maggio, da quattro settimane si tentava invano di mettere fine alla quarta crisi di governo in due anni); l’integrità territoriale era messa in pericolo dall’insurrezione algerina; e nella gerarchia internazionale la Francia aveva subito una serie di severe umiliazioni. L’ultima era arrivata con il brusco arresto della spedizione franco-inglese di Suez, imposto dall’ormai superpotenza americana. La maggioranza dei francesi sperava in un cambiamento e quando i militari d’Algeria insorsero spuntò il nome di de Gaulle. Fu pronunciato dai generali, ma molti se l’aspettavano, contavano su di lui. Con accenti brutali ma realistici, in una cronaca del 1959, lo storico François Furet, tutt’altro che indulgente con de Gaulle, scrive che, per ironia della storia, con la Quinta Repubblica si mette in movimento un auspicato riformismo borghese. E questo accade in seguito «a un colpo di Stato reazionario canalizzato da un monarca liberale». Quest’ultimo, il generale de Gaulle, avvia subito un rapido processo di decolonizzazione, smonta l’impero africano e in quattro anni, dopo avere dimostrato ai militari che non possono vincere la guerra, accetta l’indipendenza dell’Algeria. De Gaulle non ha mai amato Napoleone Bonaparte. Ne ha denunciato spesso il cinismo e la dismisura. E nella primavera del 1958, quando l’Armée di Algeri insorge contro il governo di Parigi, non segue l’esempio dell’«uomo di Brumaio», come viene chiamato Bonaparte per il colpo di Stato contro il Direttorio del 9 novembre (brumaio) del 1799. Erano in parecchi a pensare che de Gaulle non avrebbe resistito alla stessa tentazione. Furono delusi, smentiti, rassicurati. Ritornato al governo, de Gaulle regola tuttavia i conti con la Repubblica parlamentare dominata dai partiti. E dà al Paese una Costituzione basata, almeno in parte, sui principi elencati in un suo celebre discorso pronunciato a Bayeux dodici anni prima. La nuova Costituzione stabilisce un audace spostamento di poteri dal legislativo all’esecutivo. Il ruolo del Parlamento viene ridimensionato e il presidente, con la sua elezione al suffragio universale diretto (introdotta dalla riforma del 1962), acquista una supremazia che ne fa, come si è soliti dire, un monarca repubblicano. Quando dispone anche di una maggioranza in Parlamento, egli esercita un’autorità più estesa di quella del presidente americano. Il sistema ha tuttavia retto a tante prove: alla successione del fondatore nel 1969; all’alternanza di sinistra nel 1981; alle tre “coabitazioni” del presidente con una maggioranza parlamentare ostile, e quindi a una forte limitazione dei suoi poteri, ad accezione della politica estera che resta una sua prerogativa. Ségolène Royal promette una Sesta Repubblica, con maggiori poteri al Parlamento. Nicolas Sarkozy appare meno disponibile ai cambiamenti. Che in realtà non molti francesi sembrano auspicare. DEGLI 4 SALONE AIUTANTI DI CAMPO Ospita pranzi e cene ufficiali 5 SALONE morire in un attentato. Ogni NAPOLEONE III Usato per ricevimenti volta che lei si muoveva all’ee incontri bilaterali stero, qualcuno al quai d’Orsay doveva correre ai ripari. «Danou, mi pugnali alle spalD’INVERNO 6 GIARDINO le?», scherzava Mitterrand. Le Qui si fanno perdonava tutto, come lei ha le foto di gruppo sempre fatto con lui. dei nuovi governi «Quanti sprechi, quanti riti superflui», ricorda ancora adesso pensando ai quattorDELLE FESTE 7 SALONE Usato per le conferenze dici anni passati all’Eliseo. stampa presidenziali L’orologiaio che una volta a e numerose cerimonie settimana ricarica i trecento e passa orologi a pendolo (il più conosciuto, a doppia faccia8 ORATORIO ta, nel Salon Murat, segna il Una scala segreta tempo di parola nelle riunioconduce al comando ni di governo per il presidente atomico sotterraneo e il primo ministro). Le cene con duecento convitati, settemila coperti d’argento, le 9 APPARTAMENTI Situati al piano tovaglie di broccato d’oro, la nobile, più volte cantina con gli champagne rimaneggiati millesimati. Il lusso non le è mai piaciuto: «Per me l’Eliseo non era una vetrina ma la possibilità di cambiare il mondo». La stampa francese mal tollerava le sue espressioni politiche “scomposte” e le sue amicizie così poco rassicuranti, da Fidel Castro al sub-comandante Marcos. Da dodici anni, con Bernadette Chirac, all’Eliseo è tornata la normalità. La moglie dell’attuale presidente si è calata nei panni della padrona di casa, scrupolosa nel selezionare la carta da lettere, il fornitore ufficiale di foie gras, la composizione dei bouquet. Nel 1967 chiesero alla signora Giscard: «Cosa può desiderare di più adesso che è prima donna di Francia?». «Non esserlo più», rispose lei, tuttavia rassegnata alla sua condizione. Oggi i ciambellani devono prepararsi all’eventualità di una cerimonia d’insediamento con una “Madame la présidente” e un “Premier Monsieur de France”. Se invece vincerà la destra, Cécilia Sarkozy ha già fatto sapere di non sentirsi adatta alla vita dell’Eliseo. «Sono politicamente scorretta», ha commentato una volta, aggiungendo che forse nessuna donna della sua generazione sarebbe più adatta a quel ruolo di soprammobile. Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 APRILE 2007 la memoria Storia d’Italia Il 14 luglio 1948, in un periodo di estrema tensione politica, lo studente siciliano Antonio Pallante sparò da breve distanza quattro colpi di rivoltella contro il segretario del Partito comunista, che rimase ferito ma si salvò Abbiamo ritrovato negli archivi l’incartamento del processo che ne seguì e documenti rimasti sepolti per sessant’anni Attentato a Togliatti le lettere segrete «A ROMA nche se in una cella del Regina Coeli, caro Paolo, io sono sempre quell’Antonio buono, affettuoso, e ponderato!». Era il 23 agosto del 1948 quando Antonio Pallante, da una cella d’isolamento del carcere romano, scrisse queste parole dirette al suo amico d’infanzia Paolo Marrone. Poco più d’un mese prima, il 14 luglio, in piazza Montecitorio, quel ragazzo di Randazzo, provincia di Catania, che si definiva «buono e ponderato», all’epoca appena venticinquenne, aveva sparato a bruciapelo quattro colpi di rivoltella contro Palmiro Togliatti, ferendolo gravemente. E scatenando al Nord un moto insurrezionale che costò la vita a decine di persone. Quasi sessant’anni dopo, il fascicolo giudiziario di “Pallante Antonio di Carmine e di Meloro Maddalena, nato a Bagnoli Irpino il 3 agosto del 1923” è diventato pubblico, custodito nell’Archivio di Stato, sezione di Galla Placidia. Bisogna slegare sei o sette cordicelle per aprire il faldone quasi imbozzolito che contiene un migliaio di fogli ingialliti. Le pagine più toccanti che spuntano da quel fascicolo dimenticato sono le lettere inedite che Pallante scrisse a Regina Coeli e che la censura sequestrò. Da quei manoscritti emerge il ritratto di un giovane fortemente condizionato da una ideologia intrisa di fascismo, che arrivò a Roma con un solo libro, Mein Kampf di Hitler. Pallante, iscritto a Catania a Giurisprudenza, per anni aveva finto di dare esami e ingannato il padre, agente forestale, che per mantenerlo agli studi aveva venduto un terreno di famiglia per duecentomila lire. Ai primi di luglio del 1948 salutò genitori, parenti e amici, raccolse da loro tremilacinquecento lire e disse che sarebbe andato a Catania per la tesi di laurea. A Catania ci passò solo per acquistare pistola e munizioni, e invece partì per Roma. Il fascicolo giudiziario inizia con la testimonianza di “Iotti Romilde fu Egidio nata a Reggio Emilia, deputato al parlamento”, interrogata dal procuratore di Roma due ore dopo la sparatoria. Stando a questa testimonianza di Nilde Iotti, che vide Togliatti «abbattersi al suolo», mentre «quel giovane pallido in viso si abbassava sul ferito e gli sparava a bruciapelo al fianco sinistro», e che fu la prima a gridare ai carabinieri «arrestatelo, arrestatelo», diventa difficile immaginare che il Migliore, in quel drammatico frangente, possa aver pronunciato la fatidica frase che gli viene attribuita: «Non perdete la calma». Dopo quello della Iotti, c’è l’interrogatorio dello stesso Togliatti del 22 novembre, quando, ormai guarito, pone fine alla tesi del complotto agitata a lungo dall’Unità e da esponenti del Pci. «Non sono in grado di fornire alcun elemento in merito a responsabilità di altre persone — dichiara, lapidario, ai giudici — non essendomi curato di fare indagini, né mi è stato riferito da altri alcun elemento al riguardo». Così il forestale Carmine Pallante descriveva il figlio. «Ha un carattere mite e ubbidiente, però un po’ nervoso, si adirava quando era contrariato anche nelle più piccole cose. Ha una certa ripugnanza per le armi. Durante il passato regime era appartenuto alla Gioventù italiana littoria». Fu la madre a ricordare la sua vocazione religiosa: «Dopo le elementari — dichiarò Maddalena Miloro — frequentò per quattro anni il seminario di Cassano Ionio perché aveva manifestato l’intenzione di farsi prete». Dal seminario alla politica: Pallante, ambizioso quanto confuso, passò dai liberali all’Uomo qualunque, e manifestò l’intenzione sia di scrivere per l’Unità, che di iscriversi all’Msi. Ecco come descrisse se stesso alla polizia che lo aveva appena arrestato. «Nel ‘44 mi sono iscritto al Partito liberale, diventandone dirigente della sezione di Randazzo. Lo lasciai perché a mio giudizio troppo conservatore. Nel mio paese sono conosciuto come un fascista perché il mio noto anticomunismo viene a torto giudicato fascismo». Ed ecco come spiegò il movente del suo gesto. «Ho sempre pensato che in Togliatti si debba ravvisare l’elemento più pericoloso alla vita politica italiana “Io sono sempre quell’Antonio buono, affettuoso e ponderato”, scriveva dalla cella il mancato assassino a un amico cui la censura non inoltrò la missiva I verbali della vittima e di Nilde Iotti che con la sua attività di agente di potenza straniera impedisce il risorgere della Patria. Lo ritengo colpevole quale mandante delle stragi di fascisti (rettifico l’espressione che avete usata), di italiani al Nord. Ho sempre pensato che fosse salutare per l’Italia la sua soppressione, ma solo tre o quattro mesi or sono ho concepito per la prima volta l’idea di compiere io stesso l’attentato. E a questa decisione sono stato indotto dai più recenti avvenimenti politici, in particolare la partecipazione di Togliatti al convegno comunista internazionale». Una volta a Roma, Pallante spedì a Togliatti un biglietto con la richiesta di un appuntamento: «I motivi e l’urgenza della richiesta d’incontrarla mi riservo di specificarli di persona». In un verbale del 18 agosto, il giovane di Randazzo racconta al procuratore aggiunto, Giuseppe Aromatisi, il suo “incontro” con il Migliore, quando gli sparò a bruciapelo. «Mi stavo dirigendo verso il portone di via della Missione per chiedere da dove fosse uscito l’onorevole Togliatti, quando lo vidi venirmi incontro attraverso la porta a vetri. Avanzai per colpirlo di fronte, ma non feci in tempo ad estrarre la pistola e ad abbassare il grilletto. Ebbi l’impressione che il mio gesto fosse stato notato dallo stesso Togliatti, e per un momento rimasi perplesso e come intontito. In questo tempo mi passò innanzi e mi superò e io, superato il momentaneo smarrimento, lo seguii, estrassi l’arma e gli sparai». Pochi giorni dopo l’attentato, in isolamento a Regina Coeli dove era rimbalzata l’eco dell’insurrezione, il giovane di Randazzo teneva un fitto epistolario con amici e parenti. Nelle missive, sequestrate, indirizzate agli amici Paolo Marrone e Luigi Vagliasindi e allo zio Domenico Pallante, il mancato omicida faceva parlare la sua coscienza. E dava sfogo ai rimorsi, che non erano certo per aver sparato a Togliatti — che non cita mai per nome — ma per aver deluso il genitore: «Il contegno di mio padre — scrive all’amico Luigi il 26 agosto — è spiegabile e io lo giustifico. Ma una combinazione di fatti mi hanno dato molto da pensare sul suo ultra rigido comportamento. In giudizio lo avrò contro». Non una parola di pentimento. La sofferenza di Pallante è un’altra: «Il dolore che più mi tormenta, credimi — confida all’amico Paolo — è di credermi dimenticato e ripudiato dai miei parenti e amici, che pur un giorno io apprezzai e amai». Tenta, poi, di giustificarsi in qualche modo. «Credo che la mia azione, venuta così a sorpresa e senza un mio cenno, avrà messo dalla parte avversa quanti mi furono amici. Ma se c’è qualcuno con la testa sulle spalle, caro Paolo, dovrebbe comprendere e trarne le migliori conseguenze!». Nei ricordi cerca conforto alla solitudine: «La sera, nei momenti di malinconia, e nella profonda solitudine in cui mi trovo, sento e risento le note del pianoforte. Ma poi mi fò coraggio e vengo a quello che è del mio destino e della mia fede. E tutto si accomoda». Il tormento, in quei momenti, pa- FOTO OLYMPIA ALBERTO CUSTODERO re essere solo ciò che pensano di lui i suoi genitori. «Caro Paolo, desidererei avere da te informazioni sui miei. Io per ora non scrivo loro. Saranno furenti. Ma Iddio ha voluto così». All’«affettuosissimo» Luigi accenna al suo futuro giudiziario: «Come avrai potuto leggere dai giornali, a mezzo autunno avremo il processo. Io mi ci preparo con serenità e coscienza. Dovrò affrontare calunnie, accuse, invettive, nonché una sentenza che già prevedo un po’ dura». Il suo fu considerato dai giudici un delitto politico, e ciò gli procurò sollievo: «Mi consola il fatto di non figurare come un reo qualsiasi, ma come responsabile di una mia esclusiva iniziativa a difesa e coronamento di quello che è sempre stato il mio ideale». Pallante commenta anche l’insurrezione che ha infiammato il Nord: «Ho appreso con vero dolore — scrive a Luigi — e credimi, dei delittuosi fatti di sangue scatenatisi nel settentrione. Più di tutto mi rattrista il sacrificio di sangue cui sono andati incontro numerosi agenti delle forze dell’ordine. A questi silenziosi martiri, dalle alte sfere soprannaturali, sarà dato conoscere che le mie intenzioni erano delle più pure e che quindi saranno fieri di essersi sacrificati per la difesa dei figli migliori d’Italia, quindi per la loro Patria!». «A quanto è scaturito dal mio gesto, caro Luigi, non c’è niente da commentare. Ma c’è solo da capire, ripeto capire, da parte nostra, del Governo, e da quanti ancora oggi si sentono veri italiani». Ma è nella lettera del 30 agosto, indirizzata allo zio Domenico, che Pallante si confessa, dolendosi per il dolore causato alla famiglia, ma rivendicando di aver agito quasi in forza di una volontà superiore. «Mio caro zio, cosa dire a spiegazione di un gesto che ha scombussolato ogni aspettativa? Tante cose avrei da dire, molto avrei da sostenere, niente da far attribuire a colpa quello che già da tem- po avevo deciso di fare. La mia situazione d’oggi già l’avevo dinanzi agli occhi allorché venni ad abbracciare te e i miei amati parenti l’ultima volta. È per questo che non potei trattenermi dal piangere dirottamente». «Posso quindi affermare, a conclusione assoluta di ogni spiegazione, che il mio destino aveva fortemente incamminato ogni mio atto, anche di quelli che oggi sono venuti alla luce per dare dispiacere a mio padre, nel senso che oggi mi hanno portato in una cella. Mio padre, e logicamente, mi ha allontanato dalla sua famiglia, insensatamente mi si è dichiarato avversario». «Spero che mi vorrai sempre bene e che comprenderai come il nostro nome non sia stato macchiato da alcun delitto, ma che si è imposto nella tradizione di quanti la Patria hanno sempre amato e servito». Pallante fu condannato, il 3 ottobre del 1953, a dieci anni e otto mesi di reclusione, lavorò come suo padre alla Forestale, e oggi è un tranquillo pensionato a Catania. IL VERBALE Sopra, Palmiro Togliatti in ospedale A destra, l’arma usata da Pallante In basso, il luogo dell’attentato presidiato da un agente e l’ultima pagina del verbale della deposizione di Togliatti Repubblica Nazionale DOMENICA 29 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 La rivoluzione che non ci fu ALDO AGOSTI ra il febbraio e il luglio del 1948 la giovane democrazia italiana è sottoposta a tensioni durissime, che in più di un momento sono a un passo dal metterla in discussione. Esclusi socialisti e comunisti nel giugno 1947 dal terzo governo De Gasperi, l’Assemblea costituente è ancora riuscita, superando divisioni politiche sempre più profonde, a dare al paese la sua nuova Costituzione. Ma la carta fondamentale della Repubblica appare più la testimonianza estrema di un momento irripetibile, maturato nel clima di unità del dopoguerra e presto svanito, che il fondamento riconosciuto di una nuova convivenza civile. La Guerra fredda è diventata ormai una realtà. Il risultato delle elezioni del primo Parlamento repubblicano italiano, convocate per il 18 aprile, rappresenta una posta altissima per le due superpotenze, che si dimostrano tutt’altro che disposte ad accettarlo a scatola chiusa: George Kennan, autorevole consigliere del segretario di Stato americano, prospetta l’ipotesi di «mettere fuori legge il Partito comunista e condurre un’energica azione contro di esso prima delle elezioni» per provocarlo alla guerra civile, e fornire così il pretesto alla rioccupazione militare del Paese. Togliatti informa l’ambasciatore sovietico Kostylev che il Pci è pronto a reagire ad un’eventualità del genere con un’insurrezione armata nel Nord del paese. Strutture paramilitari clandestine sono apprestate non solo dai comunisti, ma, come è ora ampiamente documentato, anche dai cattolici, in vista di uno show down ritenuto inevitabile nel caso che gli avversari non accettino un responso sfavorevole delle urne. Il clima è avvelenato da una situazione sociale esplosiva. La politica di risanamento economico e finanziario inaugurata da Einaudi e proseguita da Pella ha aumentato i livelli di una disoccupazione già estesissima. La Confindustria attribuisce il dilagare degli scioperi a un piano preciso del Pci e invita le imprese associate a non concedere nulla sul fronte della contrattazione. La campagna elettorale si apre così in un clima di contrapposizione esasperata, in cui la situazione dell’ordine pubblico sembra sul punto di sfuggire di mano. La Chiesa e i comitati civici si mobilitano nella lotta contro «l’Anticristo». Gli emigrati americani scrivono alle loro famiglie in Italia che in caso di vittoria del Fronte gli aiuti del Piano Marshall cesseranno, e sarà la fame. I partiti del Fronte popolare, apparentemente sicuri della vittoria, plaudono al colpo di forza con cui i comunisti, in Cecoslovacchia, si sono sbarazzati degli alleati di governo, e evocano minacciosi scenari di resa dei conti finale. I toni della propaganda si fanno via via più accesi, rappresentando due Italie irriducibilmente nemiche. La vittoria della Democrazia cristiana, netta oltre ogni previsione, non smorza la tensione. Nelle settimane successive al voto l’attenzione del Parlamento è polarizzata dalla ratifica dell’accordo con gli Stati Uniti sul Piano Marshall. Nella discussione alla Camera, il 10 luglio, Togliatti denuncia in quell’accordo una subordinazione «alla politica dei gruppi dirigenti imperialisti degli Stati Uniti» e ammonisce che se il Paese dovesse essere trascinato in una guerra, «noi conosciamo qual è il nostro dovere. Alla guerra imperialista si risponde oggi con la rivolta, con la insurrezione per la difesa della pace, della indipendenza, dell’avvenire del proprio Paese!». Tre giorni dopo un editoriale del quotidiano socialdemocratico, siglato dal suo direttore Carlo Andreoni, bollando la «jattanza con la quale il russo Togliatti parla di rivolta», esprime la certezza che «il governo della Repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti e i suoi complici. E per inchiodarveli non metaforicamente». Questa prosa virulenta può essere giudicata emblematica del clima in cui matura il gesto di Pallante il 14 luglio. Sia la Direzione del Pci sia la Cgil sono colte di sorpresa dall’imponenza di una risposta di massa, disarticolata e in gran parte spontanea, in cui confluiscono la frustrazione per la sconfitta elettorale del 18 aprile, lo sdegno per l’attentato alla vita di un dirigente amatissimo dai militanti, la diffusa attesa per una «spallata» decisiva che in tanti si aspettano. Non è mai stato provato che dietro questo movimento tumultuoso ci fossero una trama organizzativa e una leadership politico-militare del Pci, come sosterrà più tardi il ministro Scelba. È probabile piuttosto che scattino quei meccanismi di difesa che il partito ha predisposto per l’ipotesi di una «provocazione» e di un colpo di Stato, e che in qualche caso questi meccanismi sfuggano di mano, soprattutto per l’intervento degli ex-partigiani, a chi li aveva ideati. Per tre giorni, paralizzata dallo sciopero generale, l’Italia sembra sull’orlo della rivoluzione. Restano sul terreno almeno quindici morti, equamente divisi fra agenti delle forze dell’ordine e dimostranti, mentre vengono operati migliaia di arresti. Eppure in quel momento decisivo ciascuna delle parti che si fronteggiano compie un passo indietro sull’orlo del baratro: i comunisti frenano, evitano che il moto si trasformi in insurrezione, e presto lasciano cadere anche la richiesta di dimissioni del governo. Questo a sua volta non cede alla tentazione di mettere al bando il Pci. La guerra di movimento dei caldi mesi di febbraioluglio si trasforma lentamente in guerra di posizione. Le appartenenze separate, benché abbiano messo radici profonde e destinate a durare, non cancellano del tutto il senso di una cittadinanza comune e il rispetto di una serie di regole sia pure a malincuore condivise. La democrazia, malgrado tutto, tiene. EDIZIONE STRAORDINARIA Nella foto grande, l’edizione straordinaria dell’Unità del 14 luglio 1948 Qui sopra, una lettera di Antonio Pallante dal carcere di Regina Coeli Sotto, un suo ritratto del tempo Roland Lehoucq La luce… vista da vicino Cos’è la luce? Perché riscalda? Da quanti colori è composta? Un astrofisico in pensione risponde alle mille domande dei tre nipotini, appassionati di raggi laser e impazienti di capire meglio quello che vedono ogni giorno. Roland Lehoucq Il Sole la nostra stella Cos’è il Sole? Perché brilla? Come fa a scaldarci, se è così lontano? Un simpatico astronomo risponde alle domande di quattro piccoli amici, guidandoli con pazienza e senso dell’umorismo in un viaggio alla scoperta della stella a noi più vicina. Laura Minestroni non è come credi IN LIBRERIA Si comincia così. Col mentire a se stessi e credere perdutamente alle proprie fantasie. Poi si finisce per ingannare gli altri e il mondo intero. Lupetti Narrativa Distribuito da Messaggerie Libri Edizioni Dedalo www.edizionidedalo.it FOTO OLYCOM - PUBLIFOTO FOTO GIANCOLOMBO/CONTRASTO T www.lupetti.com Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA l’immagine Svolte della moda DOMENICA 29 APRILE 2007 All’alba del Ventesimo secolo, negli anni febbrili che precedono la Grande guerra, un couturier francese sconvolge la buona società disegnando abiti sotto i quali “si poteva percepire il corpo!” Ora, alla sua opera e alla sua straordinaria vita, il Metropolitan di New York dedica una mostra NATALIA ASPESI E lo stilista-sultano creò la donna libera a notte dell’11 giugno 1911 Paul Poiret offrì a trecento ospiti la più fiabesca delle sue tante stupefacenti feste. L’aveva intitolata “La milleduesima notte”, in omaggio più alla sua moda arabeggiante che alla passione orientalista precipitata su Parigi con l’arrivo degli audaci Ballets Russes. Il giardino, simile a quello di Versailles, e il palazzo appartenuto a Luigi XVI, dove il couturier aveva aperto la sua sartoria, erano illuminati dalle torce rette da servitori di colore a torso nudo, ragazze seminude spargevano incenso, pappagalli multicolori, uccelli del paradiso, pavoni si nascondevano spaventati tra gli alberi da cui pendevano frutti luminosi, un immenso buffet percorreva una specie di grotta di Alì Baba, caraffe di bevande multicolori emanavano luce, dal buio arrivava musica esotica, tra gli ospiti in costume persiano si muovevano saltimbanchi, fattucchiere, cartomanti, mimi, finti mendicanti e finti venditori di schiavi. Su un trono d’oro sedeva Paul Poiret abbigliato da sultano, con un fiabesco turbante di raso bianco incrostato di gemme su cui svettava una aigrette di fili di cristallo: arrivati tutti gli ospiti, Poiret che a trentadue anni era già chiamato “le magnifique”, aprì una grande gabbia dorata dove lo attendeva la languida, incantevole favorita: la sua modella ideale, la ventenne moglie Denise, bella e sottile, che in quella notte di meraviglia, con quei pantaloni gonfi di chiffon ocra stretti alle caviglie, la corta crinolina a paralume di lamè dorato, leggera come la corolla rovesciata di un papavero, il turbante d’oro con una gigantesca aigrette fermata da un gioiello di turchesi, era l’immagine della nuova femminilità libera e sensuale che inaugurava il Ventesimo secolo. Era il tempo dell’audacia, anche per le donne, anche per la moda, dell’ultimo fulgore di piacere e mistero prima della tragedia della guerra: era anche il tempo in cui stava nascendo il movimento femminista che chiedeva di uscire dalla secolare sudditanza e pretendeva prima di tutto il diritto al voto. Sin dagli inizi Poiret aveva sconvolto la buona società cancellando sei secoli (se si esclude il periodo del Direttorio e dell’Impero napoleonico) di abbigliamento femminile costrittivo, di vite strette e di gonne a cono, di strati e strati di tessuto a celare ogni naturalezza, ancora in auge in quel primo decennio del secolo. La sua fu una rivoluzione epocale, quasi oltraggiosa, del modo di vestire, una vera metamorfo- L STANCHEZZA Lassitude, un modello di tunica di Paul Poiret disegnato da Georges Lepape nel 1912 si del corpo che, liberandolo dal rigido corsetto e dall’eccesso di stoffa, scegliendo come punto di forza dell’abito le spalle e non la vita, restituiva alle donne il diritto alla forma naturale, le preparava all’indipendenza, alla fuga dalla domesticità claustrofobica, al mondo del lavoro e delle carriere, agli sport, ma anche al tango che nessuna donna deformata in una assurda clessidra, contro cui già si scagliava la scienza medica, avrebbe mai potuto affrontare. Le ricche signore parigine, come la contessa di Greffulhe, modello per la proustiana duchessa di Guermantes, si entusiasmarono subito per questa semplicità d’avanguardia che in qualche modo si adeguava allo slancio dei nuovi movimenti artistici, per le linee diritte, alla greca, gli scolli a barchetta, la vita alta, i colori vivaci, per la scoperta di una mai provata libertà di movimenti. Ma le signore stavano chiuse nei loro salotti, nelle loro carrozze e automobili, e Poiret invece pensava che la moda esiste solo quando scende in strada, quando è di tutti. Così un sabato pomeriggio andò alle corse di Longchamp con tre mannequin vestite con lo stesso abito di linea greca, dagli spacchi laterali che mostravano, massima impudicizia, le caviglie, per di più avvolte nella novità delle calze colorate. Fu uno dei tanti scandali che accompagnarono il travolgente successo internazionale del couturier. Le Figaro scrisse: «Senza ombra di dubbio quegli abiti sono il peggio delle recenti follie». E L’illustration: «Che orrore! Sotto quei vestiti si poteva percepire il corpo!». In Inghilterra, dove Margo Asquith, moglie del primo ministro liberale, aveva invitato Poiret a mostrare i suoi modelli, ci fu una vera crisi politica e la stampa conservatrice attaccò Downing Street, per l’occasione soprannominata «Gowning Street» (da gown, abito). “Le magnifique” accumulava fama, denaro, svenimenti di signore, oltraggi di gentiluomini, e, imperturbabile, seguiva la sua strada di appassionato innovatore. Nel 1910 lanciò una gonna così stretta alle caviglie che le signore erano costrette a saltellare: e questa volta intervenne addirittura papa Pio X ordinando ai parroci di non dare l’assoluzione alle signore così bizzarramente abbigliate. Ma fu con “La milleduesima notte” del giugno 1911 che inaugurò le più scandalose delle sue innovazioni, la jupe culotte e la jupe entrevée (la gonna pantalone e la gonna ripresa alle caviglie), e addirittura un modello di veri pantaloni ampi, vagamente maschili, che anticipavano i pigiama degli anni Trenta. Jean Worth, da cui aveva lavorato a vent’anni, figlio di Charles Frederick, il creatore delle imponenti crinoline dell’Imperatrice Eugenia, commentò la novità: «È volgare, è malvagia, è brutta! Il mondo è impazzito: nessuno parla più di arte, letteratura o politica, ma solo di quell’orribile indumento!». Nei mesi seguenti Poiret vendette jupe culotte per dodici milioni di franchi. Nessun couturier di quel periodo, ancora legati alla morigeratezza del corsetto, né il grande Jacques Doucet, né Madame Paquin né le sorelle Callot, avevano mai raggiunto un tale trionfo. Nel suo diario il poco più che ventenne Jean Cocteau scrisse: «Le duchesse sono pronte a farsi vestire, svestire, mettere in costume da Paul Poiret. Sognano solo di diventare la sua favorita, le fodere di seta e pelliccia dei cuscini, i paralumi e i tappeti dell’harem del sultano alla moda». Paul Poiret a trent’anni era un uomo robusto con barba e baffi scuri, neri occhi sporgenti, un aspetto dignitoso e imponente da vecchio gentiluomo in marsina e tuba. Veniva da una famiglia di negozianti di tessuti, il suo primo impiego l’aveva avuto da Jacques Doucet, il sarto dell’alta società fine secolo e grandioso collezionista, da Watteau a Matisse, da Chardin a Picasso, da cui aveva acquistato il celebre Les Demoiselles d’Avignon. Poiret amava le donne e le voleva libere; la moda e la voleva democratica, per tutti; l’arte e fu uno scopritore di talenti. George Lepape era sconosciuto quando il cotourier lo scelse per disegnare l’album di una sua collezione. Era sconosciuto Romain de Tiroff, che a diciannove anni fece alcuni schizzi degli abiti presentati da Poiret a Mosca e San Pietroburgo e due anni dopo, a Parigi, divenne il suo assistente disegnatore col nome di Ertè. Nessuno sapeva chi fosse il pittore americano Edward Steichen e lui lo scelse per fotografare la sua collezione, trasformandolo in una celebrità. Anche Man Ray fu introdotto alla fotografia di moda ed è sua quella famosa della giovane miliardaria Peggy Guggenheim in un abito ricamato con strascico di un Poiret già in declino. Amico di artisti, collezionò più di un centinaio di opere, da Brancusi a Matisse, da Modigliani a Picabia, da Picasso a Van Dongen, Utrillo, Rouault, Vlaminck, Dunoyer de Segonzac e Raoul Dufy che per lui disegnava tessuti, inviti, pannelli. Era davvero un personaggio vulcanico, eclettico, costantemente creativo: scriveva articoli, libri tuttora preziosi per chi si occupa di moda (En habillant l’Epoque, Revenez-y, Art et finance), ed essendo un gran gourmet anche un famoso ricettario, 107 ricette o curiosità culinarie. Fu attore accanto a Colette ne La vagabonde, disegnò costumi per le Folies-Bergére e il Casino de Paris, per un Nabuchodonosor e per un Afrodite. Con i suoi dipendenti, con cui era protettivo e generoso, la regola d’oro, che vale anche per gli stilisti di oggi, era: «Voglio essere ubbidito anche quando ho torto». Dalle clienti pretendeva cieca sottomissione e non accettava nessuna osservazione. Offeso con la baronessa Henri de Rothschild, che aveva criticato un suo abito, le impedì di entrare a una sua sfilata. «Non sono abituata ad essere messa alla porta dai miei fornitori», disse l’oltraggiata dama. «Non mi considero un suo fornitore e fino a quando non se ne andrà non ci sarà nessuna sfilata». Il giorno dopo si presentò il Barone stesso in compagnia della sua giovane amica che sino a quel momento non aveva osato farsi vedere da Poiret per paura di incontrare la Baronessa. Per quel che riguarda le critiche, Poiret ha fatto scuola: ad essere cacciate dalle sfilate oggi sono le giornaliste che non si prostrano ai piedi dei Narcisi più potenti. Tutto ciò che oggi fa naturalmente parte del mondo della moda fu in qualche modo anticipato Repubblica Nazionale DOMENICA 29 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 LA MOSTRA Il Metropolitan Museum’s Costume Institute di New York celebra Paul Poiret allestendo una mostra dal titolo Poiret: King of Fashion. Saranno esposti vestiti, disegni e bozzetti (parte di questo materiale non è mai stato esposto prima) e attraverso video installazioni la mostra approfondirà la tecnica di Poiret e la sua modernità. La mostra sarà inaugurata il 7 maggio e aprirà al pubblico dal 9 maggio al 5 agosto DIVE E ANCELLE ALBUM DI FAMIGLIA Nella foto a sinistra, due abiti di Poiret del 1911 Qui accanto un abito da sera in velluto blu del 1923 Nella foto in basso, Paul e Denise Poiret in costume alla festa della Milleduesima notte del giugno 1911 Sotto, un dipinto di Georges Lepape ispirato a Denise durante la festa In alto, Madame Poiret con la figlia Martine nel 1912. In basso, la famiglia Poiret: da sinistra Perrine, Madame Poiret, Colin, Paul e Martine SILHOUETTE In alto due modelli di Paul Poiret del 1911 disegnati da Georges Lepape A sinistra, abito da giardino del 1926 A destra, un abito di seta con maniche crespe e ornamenti di organza ai polsi e alle spalle (1922) disegnato da André Marty da lui: e non solo nelle linee rivoluzionarie e nei colori alla Matisse, da sempre scopiazzati anche nelle ultime collezioni; non solo nei turbanti che attualmente fasciano la testa delle fashion victims; e negli allora scandalosi stivali maschili al ginocchio, a tacco piatto e in colori squillanti che indossò anche l’attrice-danzatrice fatale Ida Rubinstein in un suo viaggio in Abissinia, conquistando gli atterriti dignitari locali. Fu il primo couturier a lanciare il suo profumo, e per questo aprì un laboratorio e una società che chiamò Rosine, dal nome della prima dei suoi cinque figli, nata nel 1906. Fu il primo a progettare una collezione di moda maschile, a inventare la boutique, a studiare il sistema del prêt-à-porter e delle royalties, a partire alla conquista degli Stati Uniti, a chiedere agli artisti di lavorare per lui. Chiamò Martine, come la sua secondogenita nata nel 1911 (vennero poi Colin nel ‘12, Perrine nel ‘16, Gaspard nel ‘18), la scuola di arti decorative ispirata all’austriaca Wiener Werkstatte, aperta a ragazzine particolarmente dotate, di famiglia operaia, che lui stipendiava. Fu un’iniziativa così geniale che sei mesi dopo Poiret poté aprire in Faubourg Saint Honoré un negozio per vendere i loro lavori ultramoderni, tappezzerie, tappeti, tessuti d’arredamento, mobili, lampade, vasi; le Martine, come venivano chiamate le allieve della scuola, furono ingaggiate per decorare appartamenti, ristoranti, alberghi. Con quegli arredi Poiret decorò un castello di Isadora Duncan; Sacha Guitry fu il primo ad ordinare la vasca da bagno interrata di mosaico d’oro inventata, come il bar nel salotto, dal couturier. Al culmine del suo successo, venerato in tutto il mondo, Poiret, a trentacinque anni, chiuse di colpo tutto, laboratori e casa di mode. Il 3 agosto 1914 la Germania aveva dichiarato guerra alla Francia, e lui, spinto da appassionato patriottismo, raggiunse subito il reparto di fanteria cui era stato assegnato, vestito con una divisa di tessuto pregiato e fatta su misura, a bordo della sua Renault Torpedo guidata dall’autista. Evitando le baracche militari, si sistemò con il pittore André Derain in un alberghetto che arredò subito con mobili Impero e tende Martine. Assegnato come aiuto sarto al 119° reggimento fanteria, imparò ad attaccare bottoni alle divise, accorgendosi dello spreco di tessuto e tempo con cui erano confezionate. Instancabile e desideroso di essere utile alla Patria, molestò ogni responsabile dell’esercito arrivando sino a Alexandre Millerand, ministro della guerra e futuro presidente francese, senza risultato. Dopo quattro anni e mezzo di impegno militare, a guerra finita, Poiret fu finalmente congedato. La sua primogenita Rosine, a dieci anni, era morta di otite, il neonato Gaspard di spagnola. Con un piccolo capitale, bisognava, a quarant’anni, ricominciare da capo, grandiosamente. Ma il mondo era cambiato, erano cambiate le donne che con gli uomini al fronte avevano scoperto l’indipendenza, anche la moda doveva cambiare, semplificarsi, diventare razionale, meno costosa, a disposizione di tutti, adatta per quella nuova figura di donna che non era più la signora ma la ragazza, splendente di giovinezza, impaziente di muoversi liberamente negli abiti dalle gonne accorciate: la flapper, la bachelor girl. Lui, che era stato il primo a rivoluzionare l’abbigliamento femminile e capiva benissimo i nuovi bisogni delle donne, non capì che il cambiamento non era temporaneo ma irreversibile: il suo bisogno di unicità, di preziosità, gli suggerivano abiti rinascimentali e medioevali, addirittura da infanta secentesca; non gli mancava né l’ispirazione né la sapienza della bellezza, ma ormai le sue idee non corrispondevano più ai desideri delle donne. Il precipizio fu veloce, le riviste di moda cominciarono a Nell’agosto del 1914, partì per il fronte con una divisa su misura fatta di tessuto pregiato, a bordo della sua Torpedo guidata dall’autista TRA I GUANCIALI Un vestito realizzato dal couturier Paul Poiret e disegnato da George Lepape nel 1911 ignorarlo, le clienti sparivano. Ma la sua fama resisteva e, in pieno sfacelo, Natasha Rambova, in viaggio a Parigi col marito Rodolfo Valentino, gli ordinò un intero guardaroba. Anche Josephine Baker, la massima star degli anni Venti, si vestiva solo da lui. Né le drammatiche difficoltà impedivano a Poiret di mantenere il suo orgoglio: Mistinguett, che una volta l’aveva irritato, gli chiese un costume rosa carne per un suo spettacolo al Casino de Paris. Lei arricciò il naso: «Ma questo per lei è rosa?». E lui: «Certo mia cara, rosa spento, così appropriato per lei». La situazione finanziaria peggiorava, fu costretto a chiedere aiuto alle banche, che spietate si impossessarono anche del suo nome. Continuava ad avere iniziative brillanti, eleganti, raffinate, che però fallivano. Dovette vendere anche la sua collezione di quadri, finiti nei grandi musei americani e francesi, fino a quando i nuovi padroni gli tolsero il telefono, gli sbarrarono l’ingresso nei suoi uffici e nel 1929, l’anno del crollo di Wall Street, chiusero definitivamente la Maison. Con ogni franco che guadagnava in vari modi Paul Poiret pagava i suoi debiti, andò anche a presentarsi alle liste di collocamento, che non prevedevano lavoro per un couturier, mestiere sconosciuto. Un giorno incontrò Coco Chanel vestita di nero e lui, che odiava sia quel colore che la nuova giovane diva della moda, le chiese ironico: per chi porta il lutto signora? «Per lei signore», fu la risposta crudele. Ma Paul Poiret che era stato ricco, potente, temuto, venerato, non piegò mai la testa neppure nelle avversità, non smise mai di credere in se stesso, di sognare, di progettare: neppure quando la moglie lo lasciò, neppure ad ogni sfratto dalle camere ammobiliate, neppure quando gli amici rimasti fecero una colletta per permettergli di mangiare. Colpito dal morbo di Parkinson, debilitato per le privazioni della miseria ma anche della Seconda guerra mondiale, Paul Poiret morì in ospedale la sera di venerdì 28 aprile 1944: aveva sessantacinque anni, Parigi era occupata dai nazisti, il primo maggio era una giornata di sole e il suo funerale fu seguito da trecento persone. Non se ne accorse quasi nessuno, neppure i giornalisti, tranne Lucien François: «...un uomo non può, come Poiret ha fatto, dedicare la sua vita a esaltare il prestigio del lusso in una città che vive di lusso e ne ricava tesori; un uomo non può, come Poiret, essere stato colui cui tanti artisti, sarti, industriali tessili, profumieri, devono indirettamente parte della loro fortuna; un uomo non può esser Poiret e morire in tale desolata miseria». Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 APRILE 2007 Uno zibaldone di poesie, immagini, oli, litografie che il grande architetto intitolò “Le Poème de l’angle droit”. Lo considerava la sintesi del suo pensiero artistico, l’ultimo approdo della sua concezione dello spazio. Ora, 52 anni dopo, viene pubblicato anche in Italia I taccuini di LeCorbusier L’uomo che guarda e le utopie di cemento ENRICO REGAZZONI hi si ricorda di Le Corbusier? Travolte dall’impietosa stagione della bellezza, figure che hanno segnato con forza il nostro modo di pensare e di vivere rischiano oggi di essere difficilmente ricostruibili. Sono entrate nella storia, si dice: ma la storia recente, e cioè quell’ordinamento del tempo passato che pensavamo imperdibile, si è anche trasformata in una zona franca della rimozione collettiva. E non è semplice restituire nitidezza al profilo del personaggio che forse più di ogni altro influenzò l’architettura del Novecento, forzandone i limiti e saturandola di genialità e contraddizioni. Intanto, quanti furono i Le Corbusier? Anagraficamente, uno solo: e cioè quel Charles-Edouard Janneret-Gris (lo pseudonimo di Le Corbusier lo adottò per la prima volta sulla rivista Esprit Nouveau, da lui fondata nel 1919 con il pittore Amédée Ozenfant e il poeta Paul Dermée), nato in Svizzera, a La Chaux-de-Fonds il 6 ottobre 1887. Culturalmente, molti di più: il razionalista severo e l’umanista innamorato della classicità mediterranea, il teorico del cemento armato e il disegnatore di leggerissimi mobili, l’autodidatta in lotta contro le accademie e l’architetto disposto a collaborare con qualsiasi potente, l’intellettuale che vagheggiava complessi abitativi ai limiti di una logica concentrazionaria e il poeta capace di progettare una chiesa che solo grazie al suo peso non spiccava il volo. E poi il tirchio, il lirico, il generoso, il cinico, il genio... Tutto e il suo contrario, apparentemente. Ma sempre in tensione verso il confine dell’eccellenza, e sempre all’insegna di un culto smisurato di se stesso. Così, se uno ne avesse voglia (ma chi, fra quanti non lo conoscono già, potrebbe oggi sentirsi spinto a fare i conti con lui, senza timore di apparire obsoleto o snob?), dovrebbe cercare di di- C stricarsi nella spaventosa mole di materiali che Le Corbusier, per bulimia d’azione ma anche per fiera volontà di testimonianza di sé, ci ha consegnato: cento edifici, centosettanta progetti non costruiti, sessantacinque progetti di urbanistica, quattrocento pitture a olio, sette affreschi, duecento litografie, quaranta tappezzerie, cinquanta sculture, venti mobili, cinquanta libri, seimila disegni autografi, trentaduemila disegni dello studio d’architettura. Terrorizzante, d’accordo. Ma si potrebbe almeno tentare, per scoprire quanto della sua eredità sia ancora vivo. La meta, come si dice, vale il viaggio. Poi ci sono le occasioni, come questa edizione de Le Poème de l’angle droit (Il poema dell’angolo retto), dove Corbu (come lo chiamavano gli amici) elegge la forma artistica a ultimo approdo dell’organizzazione spaziale. O come, arretrando nel tempo, le manifestazioni che si tennero vent’anni fa (sembrano secoli, quanto a clima culturale) in occasione del centenario della nascita. Proprio in quella circostanza, all’inizio del 1987, apparve un numero speciale della rivista Casabella (all’epoca diretta da Vittorio Gregotti) curato da Pierre-Alain Croset e interamente dedicato a Le Corbusier. Meglio: il numero della rivista prendeva in esame l’incredibile capacità di osservazione del reale che per il progettista era la prima chiave di lavoro. «Guardare / osservare / vedere / immaginare / inventare / creare», questa la progressione che teorizzava lui stesso negli ultimi anni. E ancora: «Sono un asino ma che ha l’occhio. Si tratta dell’occhio di un asino che ha capacità di sensazioni. Sono un asino con l’istinto della proporzione. Sono e rimango un visivo impenitente». Più che un’attitudine: un dono, il suo sguardo. La possibilità di cogliere il centro al primo colpo d’occhio. Ma anche una tecnica, dapprima sorretta dalla pratica costante del disegno (la macchina fotografica era per lui «strumento di pigrizia»), poi, con l’arrivo “Sono un asino - diceva di sé ma che ha l’occhio Sono un asino con l’istinto della proporzione Sono e rimango un visivo impenitente della Cupido 80 (una camera assai evoluta per l’epoca), perfezionata con splendide fotografie. Infine liberata dall’aereo (Corbu fu tra i primi civili a farne un uso sistematico): «Dall’aereo ho assistito a spettacoli che si potrebbe definire cosmici. Che invito alla meditazione, che richiamo alle verità fondamentali della nostra terra!». Così, partendo dagli occhi, riuscì a cogliere il senso di tutti i progetti che si trovò ad affrontare, a formulare le domande corrette e dunque a dotarsi di un bagaglio culturale essenziale che gli consentì un uso trasversale del proprio sapere. Pur avendo cominciato come orafo cesellatore (La Chaux-de Fonds era città d’orologi e il suo primo maestro fu il pittore Charles L’Eplattenier), la qualità estetica (di un oggetto, di un edificio, di un’intera città) non diventò mai l’obiettivo primario della sua ricerca, ma piuttosto un esito naturale della necessità. Impossibile, qui, riassumere in poche righe le esperienze che segnarono il suo percorso creativo. Ricorderemo il suo apprendistato presso Peter Behrens, a Berlino (fra il 1910 e il 1911), e il “voyage d’Orient” (sempre nel 1911), due fatti che certo pesarono nella sua radicale devozione alla classicità. Come pure fu decisiva, nel suo inseguimento di uno standard edilizio innovativo, l’impressione che gli fecero le rovine della Prima guerra mondiale in Francia. Di tutto questo (e della sua esperienza pittorica, all’insegna del purismo) formulò una sintesi magistrale in Vers une architecture, il libro che nel 1923 gli valse la definitiva consacrazione nell’olimpo della modernità. Altro fu la battaglia per costruire davvero. Tutti segnati da una forte esemplarità, gli edifici da lui firmati furono certo inferiori, per numero e dimensioni, a quelli che la sua carica di utopia gli avrebbe suggerito. Dalle ville ai “grands travaux”, fino alla cappella di Notre-Dame-du-Haut e a Chandigarh (la nuova capitale indiana), Le Corbusier inseguì tanto il sogno collettivo di un nuovo modo di abitare quanto quello, solitario, di un’arte che varcava la soglia dell’indicibilità e diventava cosa. Pensò smisuratamente in grande, riprogettando città senza esserne richiesto e bussando, spesso inutilmente, a porte non consigliabili quali quelle di Pétain, Stalin e Mussolini (nulla di suo è edificato in Italia). Disinvolto Robespierre dell’architettura, cercò di imporre la felicità dell’uguaglianza, disegnando spazi che indirizzavano i comportamenti delle persone, anziché assecondarli. Poiché fu geniale, i suoi sbagli ebbero comunque un senso. Ma quelli dei suoi entusiasti nipotini, molto meno. Ricordo un personale pellegrinaggio giornalistico di anni fa all’Unité d’habitation di Marsiglia, l’edificio- Repubblica Nazionale DOMENICA 29 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 TIRATURA LIMITATA Nel montaggio grafico, un’immagine di Le Corbusier e cinque pagine tratte da Le Poème de l’angle droit. Il libro fu pubblicato nel 1955 dalle Editions Verve in tiratura limitata Ora esce anche in Italia per Electa, che ha riprodotto fedelmente l’edizione originale Quell’angolo retto tra la mente e il cuore città da lui progettato come un transatlantico (e costruito fra il 1947 e il 1952). Un gigante di cemento lungo 165 metri e alto 56, pensato per ospitare 1.600 persone in 337 appartamenti di 23 tipi (ma la superficie standard è di 98 metri quadrati), ma anche dotato di servizi interni quali albergo, bar e supermercato. Un’architettura grandiosa, inquietante, che articola i “cinque punti” fondamentali da lui teorizzati (pianta libera, facciata libera, pilotis di sostegno, finestra in lunghezza e tettoterrazza) e che, nel bene e nel male, lascia il suo segno in chi la abita. C’erano, all’epoca, violente zuffe condominiali per decidere sulle enormi spese di ristrutturazione (il cemento a vista si ammalora rapidamente), e alcuni spazi pensati per la vita in comune (cineclub, atelier di fotografia, club di ping-pong) erano stati chiusi. Dalla palestra sul tettoterrazza, divenuta scuola di karate, provenivano le angoscianti urla dei lottatori. Ma molti inquilini (soprattutto architetti ed ex ragazzi del ’68 che non avevano abdicato alle utopie comunitarie) erano comunque felici di esser lì, sostenendo che all’interno dell’Unité vigeva una solidarietà non riscontrabile in alcun quartiere cittadino. Sempre in quel viaggio, mi capitò di pernottare nel convento di Sainte-Marie de la Tourette, a Eveux-sur-l’Arbresle, non molto distante da Lione. Era uno degli ultimi lavori di Le Corbusier (edificato fra il 1957 e il 1960), ma an- RENZO PIANO, LE CORBUSIER E LA MAGICA LUCE ROSSA Lo schizzo e gli appunti qui sotto sono il primo studio dell’architetto Renzo Piano per il convento delle Clarisse che sta progettando e che dovrà sorgere accanto alla cappella di Ronchamp, opera di Le Corbusier. Accanto al disegno Piano ha scritto: “Le Corbusier a Ronchamp Le Corbusier la luce la fa entrare da nord. È la luce magica che si colora di rosso” che qui le impronte dei casseri erano imbruttite da cavillature e crepe. E anche qui era evidente la passione dell’architetto per le idee e la sua noncuranza per le cosiddette finiture. Spezzate in due le funzioni del chiostro (che serve a pregare e a muoversi), i padri domenicani pregavano sui tetti-terrazza e si spostavano nei lunghi camminamenti interni. Le celle, un’ottantina, riprendevano le dimensioni del Modulor (un sistema di proporzioni a misura d’uomo che l’architetto aveva ricavato dalla sezione aurea e dalla serie di Fibonacci): 226 centimetri in altezza, cioè un uomo con le braccia alzate, e 186 in larghezza, un uomo con le braccia aperte. Qualche lamentela dei religiosi, perché quello strambo progettista, che amava il contrasto dei materiali, aveva murato i vetri delle finestre fisse direttamente nel cemento. Quando si rompevano, come ai vetri accade, era un bel guaio. Da ultimo visitai il Cabanon di Cap Martin, la baracca in legno (un quadrato di 366 centimetri di lato) che costruì per sé davanti al mare, sul terreno di amici, e dal quale uscì per quel suo ultimo bagno (morì nuotando, per crisi cardiaca, il 27 agosto 1965). Un tavolo, uno sgabello, un letto, un lavandino. Un’autopunizione? Al contrario: l’idea di quanto basta. Oggi, che l’architettura è un effetto e lo stupore è la sua musa, nulla sembra bastare. Del resto, l’essenziale richiede una dimensione. Il superfluo, no. AMBRA SOMASCHINI anoscritti, ghirigori, litografie, oli, disegni, collage. Nel 1955 Le Corbusier pubblica Le poème de l’angle droit, poema in formato extralarge, 32 per 42 centimetri, mischia scrittura e composizione, parole e immagini, fonde bozzetti e papiers collés insieme alla sua ispirazione poetica. Un libro elegante, raffinato, in edizione limitata, 250 copie soltanto, un lavoro lungo otto anni e 155 pagine, un discorso plastico-letterario, una nuova sintesi delle arti, un’affascinante percezione del reale presentata dalle Editions Verve promosse da Tériade, ovvero dall’effervescente artista e critico parigino Stratis Elefteriades che sulla sua rivista ospitava Léger, Matisse, Picasso. Il poème esce per la prima volta in Italia il 29 maggio (Electa, 185 pagine, 145 illustrazioni, 95 euro) con una lunga introduzione di Juan Calatrava: «Le Corbusier attribuiva a questo poema un posto fondamentale nel suo iter e lo considerava un’opera di sintesi di ricapitolazione del suo pensiero e delle sue idee intorno alla creazione artistica e architettonica». Un libro sensoriale diviso in sette sezioni: Milieu-Ambiente, Esprit-Mente, Chair-Carne, Fusion-Fusione, Caractères-Caratteri, Offre-Offerta, Outil-Attrezzo. Un sottocapitolo è dedicato a La main ouverte-La mano aperta: «La vita che si gusta attraverso il plasmare delle mani, la vita che è nella palpazione». In una frase c’è il grande amore per Yvonne Gallis, la moglie morta: «Lei è in alto e non lo sa [...] lei è la rettitudine, il bimbo dal cuore limpido che sta al mio fianco, i suoi gesti semplici e quotidiani sono il sigillo della sua grandezza». In un’altra la descrizione dell’ambiente che ci circonda: «L’universo dei nostri occhi riposa su di un piano bordato di orizzonte / La faccia girata verso il cielo / Consideriamo lo spazio inconcepibile fino a qui non colto». C’è un autoritratto: «Sono un costruttore di case e palazzi, vivo in mezzo agli uomini in pieno nella loro matassa ingarbugliata. Fare un’architettura è fare una creatura». Ma cos’è l’angle droit definito dallo stesso Le Corbusier «categorico angolo retto del carattere, della mente, del cuore»? «È immagine di ordine e chiarezza, è la figura più prossima alla linea retta — spiega Francesco Dal Co, ordinario di storia dell’architettura allo Iuav di Venezia, che ha curato l’edizione italiana — il segnale e il segno di una differenza e di un confine, dei punti infiniti dove le cose, toccandosi, si separano predisponendosi a venire ricomposte». «Questo poema — aggiunge — è il tentativo di mostrare come la mano lavora. Le Corbusier esemplifica il passaggio spiegando come la sua mano operi nell’avvalersi della parola, lo scrivere e della forma, il dipingere». M Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Cronisti noir GIANNI MURA «E NANTES, 1 luglio hi, Barba, ti andrebbe una bella scopata?». Sono appena uscito dalla stazione, due quotidiani italiani in mano. Il mio albergo è proprio di fronte. Ha parlato una ragazzina minuta ma con grandi tette. Capelli neri a caschetto, camicia a maniche lunghe, minigonna, sandali. Forse ho capito male. Forse no. Forse è una tossica. «Non ho capito bene». «Allora ripeto: ti andrebbe una bella scopata, nel tuo albergo?». Tutte le volte che mi abbordano ho sempre il timore di essere scortese. «Mi sembra un po’ presto». «Mica vero, la tarda mattinata è l’ideale per i pensionati». «Non sono ancora un pensionato». «E che ci fai a Nantes?». «Sono qui per il Tour». «Benissimo. Viva il Tour. Offerta speciale: un pompino imperiale più una coppa di Champagne, cinquanta euro. Champagne a carico tuo. Cosa c’è, non sono abbastanza carina? O sei finocchio?». «No, anzi, ma ho da lavorare». «Mi crolla il mito dell’italiano sempre arrapato». Sveglia, la ragazzina. Il rosa della “Gazzetta” l’ha notato. «Sono poco italiano e poco arrapato». La seconda è una mezza bugia. Lei è bella è anche simpatica, nella sua sfrontatezza. Carletto è andato a Challans per sintonizzare la radio di bordo su Radio Tour e torna a metà pomeriggio. Il pezzo è il solito pezzo di vigilia. Metto la mano nella tasca destra, dove tengo le banconote sotto i cinquanta. Ne prendo una a caso. È da venti. Gliela allungo. «Dai, vai a farti un panino, è l’ora giusta anche per quello». «Lo considero un anticipo». Fa sparire i soldi nella tasca della camicia. «Arrivederci». Non torno in albergo, quella è capace di venir- DOMENICA 29 APRILE 2007 Esce per Feltrinelli il primo romanzo di Gianni Mura, un thrilling che si dipana lungo il percorso di un Tour de France insanguinato Ne anticipiamo il capitolo iniziale, dove una ragazza assassinata “bussa” alla porta della stanza d’albergo del narratore e lo precipita - da un’avventura fatta di racconti epico-sportivi e di ottime cene in un incubo che solo un bizzarro commissario saprà dissolvere mi dietro. Vado in un baretto lungo la Loira, un’omelette e un bicchiere di Muscadet, pessimo il caffè. Mi sa che aveva ragione la ragazza, un pompino e una coppa di Champagne era meglio. Amen. Pensiamo al pezzo. Torno in albergo. * * * «Challans. Tanto per dire che tipo è Bill Sheldon. Oggi alle 18.48 parte alla ricerca della settima vittoria al Tour (il record, e con sei tutte di fila, è già suo) con un 7 giallo stilizzato sulla forcella. La ruota dietro, lenticolare, è stata decorata da un celebre writer di New York, Benny Salvatore. I motivi ornamentali, dorati su fondo nero, hanno un che di funebre, ma passi. Sul telaio si leggono due numeri, un 2 e un 10. Così si chiama la linea di abbigliamento della Roll studiata per Sheldon. Spiegazione. Il 2 ottobre (del ‘96) gli era stato diagnosticato il cancro ed è da questa data, ci tiene a ricordarlo, che Sheldon comincia la sua seconda vita. Questo sarà comunque il suo ultimo Tour, l’ha detto e ripetuto. E ha già designato il suo erede, Mirko Valli. In passato gli aveva fatto la corte perché entrasse nella sua squadra, e Valli aveva detto “no grazie” perché ci teneva a fare la sua corsa, senza vincoli. Anche adesso Sheldon lo corteggia. Gli tiene in caldo il posto non più da gregario ma da capitano. I due grandi avversari del Tour sono questi. [...] «Si parte dalla Vandea, come nel ‘99, primo Tour vinto da Sheldon. Uno a cui nessuno pensava, in chiave maglia gialla, la sua era già una bella storia, quella di un ragazzo che sconfigge il cancro e che poi batte tutti gli avversari, infilando sei vittorie consecutive. Le ultime due più faticate, ma ugualmente succose. Sheldon è motivatissimo: “So di poter arri- vare a sette Tour, è più di un sogno”. E ne trova una per gli avversari: “È l’ultima occasione che loro hanno per battermi”. “Loro” chi?, questo è il punto. Gli spagnoli annunciano Royo in buone condizioni, meno teso dell’anno scorso. Herrera, bel cavallino, verrà buono per le tappe. I francesi sono al minimo storico per numero di partecipanti e qualità. L’ultima vittoria, col grande Hinault, è del 1985. Vernier, che almeno sul podio era salito, ha smesso. «Altro in giro non si vede, e questo ci riporta a Mirko Valli. Ho scambiato con lui qualche parola appartata tra una conferenza stampa e i massaggi. C’è qualcosa di nobile nel profilo delicato di questo ragazzo, e anche il suo modo di inquadrare la corsa è poco comune, nel ciclismo: “Io so che vincerò il Tour. Se non questo, il prossimo. Ho ventisette anni, almeno altri sei li correrò. Mi sono innamorato del Tour da ragazzino, ma non so spiegare perché. È come per una donna o una musica, è una sensazione fortissima che ti prende. Col Tour è nata la passione per Indurain. Mi sembrava un saggio, non un freddo. Penso che noi siamo prima di tutto atleti, ma anche dispensatori di emozioni. Quando ero un morto che pedalava, sullo Stelvio, tanta gente mi ha incoraggiato e io ho capito, nel momento di maggior sofferenza, che ero entrato nel cuore di tanti, anche se avevo vinto poco. E per essere sincero, lo so che non vincerò mai molto. Potrei vincere una corsa in linea solo se avesse l’arrivo in salita, e di corse così in Italia c’è solo il giro dell’Emilia. In volata non sono forte, e non è così facile levarsi tutti di ruota. A cronometro sono migliorato. Nel prologo non ha importanza se perdo 20 o 50 secondi. Non corro dal Giro e potrei avere qualche problema sul ritmo”. «Già, il prologo. Non i soliti 6-8 km, ma 19. Una co- “Ehi, Barba, ti andrebbe una bella scopata?” Ha parlato una ragazzina minuta, capelli neri a caschetto, minigonna Forse ho capito male Forse è una tossica sa seria, un impegno vero e legato al vento, che sull’oceano è mutevole e, molto spesso, forte. Ieri ci è stato regalato tutto il ventaglio, dalla pioggia al sole, unica costante il vento. Noir-moutier è un’isola piatta, famosa per le patate, le mimose e una frase del pittore Renoir che giudicava le sue acque ben più suggestive di quelle del Mediterraneo. Ciclisticamente è famosa per il Gois, una stradina che si apre nel mare, percorribile solo con la bassa marea. [...] Alcuni si ostinano a chiamare il Tour ‘la Grande Boucle’, ma quest’anno il profilo è quello di due rotaie sbilenche e quasi parallele, prima da ovest a est — sino allo sconfinamento in Germania — , poi da est a ovest — dalle Alpi ai Pirenei — , infine rapida (e con un paio di tappe-trappola) risalita fino a Parigi». [...] * * * Rileggo e detto. Ai dimafoni c’è Roberta, le faccio lo spelling di tutti i ciclisti stranieri. Piero è in corta. Piero è un impallinato di ciclismo, secondo me conosce anche i dilettanti uzbeki. Guardo l’ora, tra un po’ dovrebbe tornare Carletto da Challans, il paese delle anitre, la grande riserva della Tour d’Argent. Vado sotto la doccia. Mi asciugo, mi stendo nudo sul letto. Ho spento l’aria condizionata per paura del colpo della strega — è così dal ‘98, il Tour di Pantani l’ho seguito piegato in due, con Carletto che mi aiutava a infilare i jeans, che mi allacciava le scarpe. Una sigaretta, un sorso di Vittel, un superermetico di Domenica quiz da terminare. Dopo un po’ bussano. Dev’essere Carletto. Mi allaccio intorno ai fianchi un telo da bagno — dovrei dimagrire, ma non si viene al Tour per dimagrire — e apro la porta. Non c’è nessuno. No, qualcuno c’è. La ragazza della stazione, lì a terra sulla moquette verde, sembra ancora più minuta. Ha la camicia strappata, dei brutti segni sul collo, un foglietto giallo — un post-it — attaccato alla mano destra. Mi chino per vedere se sta male o è una finta e in pochi secondi accadono molte cose. Uno: il telo mi scivola dai fianchi e resto più o meno nudo. Due: mi sembra che la ragazza non respiri. Tre: un grido fortissimo di donna mi buca le orecchie. Poi il corridoio si riempie di cameriere, facchini, turisti, un tipo vestito di scuro e imponente (dev’essere della sicurezza interna) Repubblica Nazionale DOMENICA 29 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 IL LIBRO Gianni Mura, cronista sportivo di Repubblica, si inventa un Tour de France bagnato di sangue. Il protagonista fa il mestiere di Mura: segue il Tour, quando può mangia e beve bene, ricrea per i lettori il clima delle tappe, telefona ogni tanto alla saggia moglie, descrive la quotidianità bizzarra di una delle manifestazioni sportive più epiche. Ma fin dall’inizio le cose si mettono male: una giovane prostituta che ha tentato di adescarlo viene trovata senza vita davanti alla porta della camera d’albergo del cronista. Che naturalmente viene subito sospettato, portato in galera e interrogato a sangue. Il brano che anticipiamo è il primo capitolo. Il libro si intitola Giallo su giallo (Feltrinelli, 232 pagine, 14 euro) e uscirà il 3 maggio. L’immagine è tratta dal film di animazione Appuntamento a Belleville di Sylvain Chomet del 2003 FOTO WEBPHOTO Il killer della bici accanto giallo su giallo al Tour che correndo precede l’arrivo di due poliziotti. Gridano a tutti di andar via, a me dicono «dentro» con aria poco amichevole. Mi sono ridrappeggiato nel telo, mi siedo sul letto e vedo un uomo anziano chinarsi sulla ragazza. Poi la porta si chiude. Non prima che una voce dall’accento del Midi urli «porco, assassino, lasciatelo in mano a noi che gli tagliamo l’uccello e glielo ficchiamo in bocca». Poi silenzio. Ho il cuore in gola e la certezza di essere in un brutto guaio. Uno dei poliziotti («Agente Le Guilloux, ho alcune domande per lei») mi ordina di spostarmi dal letto, potrei cancellare delle prove. «Prove di che?». «Come di che? La troviamo nudo sulla porta della sua stanza, una ragazza a terra, con le vesti scomposte, e si mette a fare il furbo?». «La ragazza può chiarire tutto». «La ragazza non chiarirà più nulla. A quanto sembra è morta strangolata. Sarà la sua autopsia a chiarire qualcosa, semmai. Risparmiamo tempo: l’ha violentata?». «No, né lei né altre». «Controlleremo. La conosceva?». «Mai vista in vita mia». «E com’è finita proprio davanti alla sua porta?». «Non lo so, ero a letto, stavo facendo un gioco enigmistico, vede il pennarello ancora aperto? Hanno bussato, credevo fosse l’autista, mi sono coperto come capitava e sono andato ad aprire». «Perché dovrei crederle?». «Perché è la verità». «La sua verità. Ne vuole sentire altre?». Preferirei di no, ma si apre la porta ed entra un tipo magro, con gli occhialini d’oro. Mi guarda come fossi una merda secca. «Le Guilloux, continuo io. Tu e Vernet andate da tutti quelli che stanno al piano, magari qualcuno ha sentito qualcosa. Ci vediamo dopo». Dà un’occhiata in giro, si sofferma sull’Olivetti 32. «So che lei è giornalista e che è a Nantes per il Tour». «Sì, come base, le prossime tappe sono qui intorno e a Nantes ci sono più posti letto». «Come mai usa ancora questo ferrovecchio?». «Ci sono affezionato, mi piace scrivere così e non sul computer». «Le piace anche strangolare puttane?». Ha una voce fredda, ha qualcosa del serpente. Devo stare attento. «Non sapevo che battesse». «Proprio qui davanti. Dominique Roux, diciannove anni ma ne dimostrava meno, eroinomane e ninfomane, specializzata in ammucchiate a tre e a quattro. Pur di fare quattrini abbordava tutti, uomini e donne, vecchi e giovani, bianchi e neri. Sicuro di non averla mai vista?». «E quando? Siamo arrivati stamattina da Tours. Le giuro, ispettore, mai vista in vita mia». «Ispettore Gibert. Io non so se lei sia stato il primo a vedere Dominique morta o l’ultimo a vederla viva, o se ha coperto tutt’e due i ruoli. L’indagine è appena partita. Lei è un testimone importante, quindi non può lasciare la città e tanto meno la Francia. Se lo ricordi». «Veramente domani pomeriggio dovrei essere a Noir-moutier per il prologo del Tour». «Per domani pomeriggio dovremmo avere qualche elemento in più». Devo mostrarmi collaborativo. Gli scrivo il numero del mio cellulare — lui ricambia con un biglietto da visita — e gli dico il programma. «Per cena ho prenotato all’Atlantide, quai ErnestRenaud, alle otto e mezzo. Andiamo lì, pare che si mangi bene, e poi rientriamo in albergo. Magari la chiamo domani verso mezzogiorno per la faccenda del prologo». Torna a guardarmi come fossi una merda secca. «Non me ne importa nulla di come mangia. Ho per le mani un caso di omicidio e il principale indiziato è davanti a me. Se mi ha raccontato anche solo una virgola non corrispondente a verità rimpiangerà di essere nato, glielo garantisco». «Non ho nulla da temere», ribatto cercando di tener ferma la voce. E intanto penso: mi avrà visto qualcuno mentre parlavo con la ragazza? Un dialogo di un minuto scarso, senza mai alzare i toni. Gioco il jolly: «Può chiedere informazioni sul mio conto a Blanchard, il gran capo del Tour. Pensi che da professionista ha vinto solo una corsa, il Grand Prix d’Aix-en-Provence, e io c’ero. Il primo Tour l’ho seguito nel ‘67». «Non mi interessa la storia della sua vita, ma solo le ultime ore. Controlleremo, ci informeremo. Arrivederci». E via rigido, senza una stretta di mano. Forse è giusto, sono un sospettato. E cammino in bilico: ho raccontato una balla, sono innocente ma rischio di passare per colpevole. Fumo una Ms dopo l’altra. Meno male che arriva Carletto. «Sô giamò tuscòss», dice. «Il facchino portoghese», aggiunge. «Un casìn de la madòna», chiosa. Carletto Morelli, milanese di piazzale Corvetto, autista alla Gazzetta dello Sport, prima a trasportare giornali (tempo massimo cinque ore e dieci da Milano piazza Cavour a Roma via Marsala, anche con la nebbia e la neve), poi inviato alle corse ciclistiche, è andato in pensione nel ‘91. L’ho ingaggiato al volo. Non seguirei il Tour se non ci fosse e lui non lo seguirebbe senza di me. Andiamo d’accordo su molte cose, ed è fondamentale: quasi un mese di vita in comune, a volte dividendo anche la camera d’albergo, non si reggerebbe se l’altro non fosse in sintonia. Gli racconto tutta la storia. «Se salta fuori che vi eravate parlati, è un casino», commenta. «Era un casino anche se dicevo che ci eravamo Bussano, apro la porta Non c’è nessuno. No, qualcuno c’è. La ragazza della stazione, lì a terra sulla moquette, sembra più minuta. Ha un post-it attaccato alla mano destra parlati. Volevo vedere come te le cavavi tu, toc toc e c’è una morta sull’uscio». «E chi ha bussato?». «E che cazzo ne so io? Lei no, se era morta». «T’hann fa su un pacch, me par». Poi cambia discorso. «Non avevi prenotato nel miglior ristorante di Nantes? Siamo quasi in ritardo e mangerei un bue». Prendiamo un taxi, sembra che a Nantes ci siano solo lavori in corso. L’Atlantide è al quarto piano d’un palazzo ultramoderno. Jean-Yves Guého fa una cucina fresca, con accostamenti insoliti (granseola e mango, astice e fagioli) e i dolci sono strepitosi. Ancora Muscadet, ma di quello buono, e per chiudere un Vieux Calvados di Heurtevent. Parliamo della corsa, di altre vecchie corse, il Calva lo assaggia anche lui (quando guida, solo acqua minerale — qui non scherzano —, e del vino e dei distillati sente solo il profumo, «che è già qualcosa»). A mia moglie ho già telefonato, è sull’altopiano di Pinè con sua sorella, si alzano presto per andare a funghi. Al giornale ho già fatto la telefonata di controllo, pezzo arrivato, tutto a posto. C’è solo da sperare di prender sonno presto, forse avrei dovuto berne due, di Calva, adesso chiamiamo un taxi e via. Sul marciapiede c’è l’ispettore Gibert con due poliziotti diversi da quelli del pomeriggio. «La dichiaro in arresto. Venga con noi». Vedo che Carletto sta per partire come un bufalo e lo blocco. «Avvisa qualcuno a Roma, Aligi o Peppe o Fabrizio. Meglio se trovi Stella. Dillo anche a Blanchard. Non preoccuparti, non ho fatto niente di male». «Tranne che un omicidio», ridacchia Gibert. Manette, sedile dietro e via, senza lampeggiante. «Posso prendere in albergo due cose di cui ho bisogno?», chiedo. «Ma certo», dice un poliziotto. E mi tira un fortissimo pugno alla bocca dello stomaco. «Di questo hai bisogno, bastardo». Mi vomito addosso una buona cena. «Un vero porco», sento dire. Il dolore è acutissimo, mi sforzo di non urlare, la situazione precipita e mi sa che siamo solo all’inizio. © 2007 Giangiacomo Feltrinelli Editore Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 APRILE 2007 Dopo un difficile inizio di carriera la giovane soprano russa, relativamente poco ascoltata e poco nota in Italia, è ormai considerata un astro assoluto della lirica e attira platee appassionate ovunque si esibisca. Tra i suoi fan c’è anche un celebre scrittore sudafricano, che in esclusiva per le nostre pagine racconta come è diventato un “netrebkiano” Anna Netrebko Vi racconto la voce che ha incantato il mondo ANDRÉ BRINK o appena intrapreso un pellegrinaggio di diecimila chilometri — il terzo in tre anni — sulle orme del soprano russo Anna Netrebko. Ogni viaggio ha rappresentato una pietra miliare sulla via dell’amore che mia moglie ed io percorriamo insieme da quando ci incontrammo per la prima volta a Salisburgo, alla fine del 2004. Fu subito dopo averla incontrata che sentii cantare la Netrebko per la prima volta in Sempre libera: uno dei suoi primi cd divenuto ormai quasi leggendario. La mia prima passione musicale erano state le composizioni strumentali. Soprattutto Mozart. Con gli anni, alcuni straordinari interpreti — attraverso delle vecchie registrazioni di Caruso, Gigli e Björling, Tebaldi e Galli-Curci, poi della Sutherland e, inevitabilmente, della Callas — mi hanno fatto apprezzare anche l’opera. Ma è stato ascoltando Anna Netrebko in una piccola città nel cuore del Sudafrica che ho colto le potenzialità dell’opera in quanto esperienza totale, in un modo che non avevo mai immaginato. Inviai immediatamente un sms per raccontare della mia scoperta alla donna che amavo. Di lì a cinque minuti lei mi rispose con un sunto della carriera di Anna Netrebko — compreso il fatto che l’artista aveva definitivamente sfondato sulla scena mondiale nel 2002 al Festival di Salisburgo, nei panni di Donna Anna, nel Don Giovanni. Nacque così l’idea del primo dei miei pellegrinaggi, nell’agosto del 2005. Naturalmente ottenere dei biglietti era stato impossibile, pur con sei mesi di anticipo. Ci mettemmo ugualmente in viaggio alla volta di Salisburgo nella convinzione che una volta sul posto sarebbe accaduto qualche miracolo. Non fu così. Pare che al mercato nero i biglietti per la Traviata con la Netrebko e Rolando Villazón fossero venduti per cinquemila euro. Quella sera dunque mia moglie, suo fratello Krystian ed io ci recammo al ristorante Zirkelwirt, al centro di Salisburgo, consapevoli del fatto che Anna LE ALTRE H ANGELA GHEORGHIU Soprano drammatico, romena di nascita (Adjud 1965), debuttò al Covent Garden di Londra nel ruolo di Mimì nella Bohème di Giacomo Puccini. Suo marito è il tenore Roberto Alagna RENÉE FLEMING Nata nel 1959 in Pennsylvania, la sua fama si affermò definitamente nel ruolo della Contessa nelle Nozze di Figaro di Mozart Oggi è apprezzata soprattutto come interprete di Richard Strauss NATALIE DESSAY Francese, nata a Lione nel 1965, soprano di coloritura dalla voce estesissima. Celebre la sua Regina della notte nel Flauto magico di Mozart. Problemi alle corde vocali l’hanno tenuta lontana dalle scene per lungo tempo SUSANNA Anna Netrebko ritratta durante le prove nel ruolo di Susanna nelle Nozze di Figaro di Mozart l’anno scorso a Salisburgo BARBARA FRITTOLI È nata e ha compiuto gli studi musicali a Milano, dove può contare alla Scala su un pubblico entusiasta Applaudita in tutto il mondo, è interprete mozartiana ma soprattutto del repertorio italiano da Rossini a Verdi e Puccini Repubblica Nazionale DOMENICA 29 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 FOTO TASS FOTO AP FOTO AP L’AUTORE André Brink (ritratto con Anna Netrebko nella foto qui accanto, scattata dalla moglie Karina l’anno scorso a Salisburgo) è uno scrittore sudafricano di cui molti libri sono tradotti in Italia Tra i suoi titoli ricordiamo: Un’arida stagione bianca, edito da Sperling; La polvere dei sogni e Desiderio, Feltrinelli; La prima vita di Adamastor, Instar Libri. L’editore Le Vespe ha anche pubblicato Ieri è vicino. Scritti sul Sudafrica e La Valle del Diavolo. Da Un’arida stagione bianca è stato tratto nel 1989 un fortunato film con Donald Sutherland, Susan Sarandon e Marlon Brando MANON AL BALLO RECITAL Anna Netrebko nei panni di una moderna Manon Si tratta dell’edizione dell’omonima opera di Jules Massenet andata in scena lo scorso marzo alla Staatsoper di Vienna. Con la soprano, il tenore Roberto Alagna interpreta Des Grieux Anna Netrebko ancora sul palcoscenico dell’Opera di Vienna, uno dei teatri dove più spesso è chiamata ad esibirsi, insieme alla Festspielhaus di Salisburgo Qui la vediamo impegnata nella tradizionale serata del grande ballo dell’Opera, lo scorso 15 febbraio La Netrebko con il tenore messicano Rolando Villazón durante un recital tenuto l’anno scorso all’auditorium Ciaikovskij di Mosca. Nel Paese natale la Netrebko è stata oggetto di polemiche dopo che ha chiesto (e ottenuto) la cittadinanza austriaca amplificato: non volevamo più ascoltare solo Anna, ma Anna-e-Rolando. Da diversi anni ormai questi due artisti sono al centro del mondo operistico. Di coppie famose l’opera ne ha viste: Gigli e Galli-Curci, Tebaldi e Di Stefano. O ancora Di Stefano con la Callas. E in tempi più recenti Alagna e Gheorghiu. Ma pur senza perdere di vista questi tenori e soprani, Anna Netrebko e Rolando Villazón hanno acquistato un rilievo stellare che sembra mettere in ombra tutti gli altri. Come la stessa Anna ha detto recentemente, con un’alzata di spalle: «Un tempo gli artisti appartenevano alla Chiesa, mentre oggi appartengono ai media e al denaro». Questo li mette di fronte ad una scelta cruciale: sottostare allo sfruttamento dei media e del denaro o servirsene, cogliendo l’opportunità per affermare la propria libertà interiore. Sempre libera, appunto. Inizialmente Anna e Rolando si sono fatti apprezzare per le loro capacità individuali. Lei, dagli esordi piuttosto difficili al teatro Mariinskij di San Pietroburgo (dove, come tutti ormai sanno, da studentessa di musica lavava i pavimenti per poter assistere alle prove dei cantanti) sino all’affermazione nel Don Giovanni; lui esordendo al Conservatorio nazionale di musica del Messico e facendosi strada tra i giovani artisti della Pittsburg Opera, prima di attrarre su di sé l’attenzione del mondo nel 1999 nelle vesti di Des Grieux in Manon, a Genova. Ma quando hanno iniziato a cantare insieme è stato come se uno tsunami musicale avesse investito il mondo. Sembrano darsi l’un l’altro la possibilità di crescere — di essere — con maggior pienezza; entrambi contribuiscono, separatamente, ad un insieme incomparabilmente più grande dei loro esseri individuali. Non solo aggiungono qualcosa alla musica, ma la incarnano, rivoltandola su se stessa, facendola espandere e poi riversarsi sul pubblico. È questo il segreto della loro Bohème e — persino più trionfalmente — della loro Traviata e del loro Elisir d’amore. La giovane scrittrice sudafricana Susan Mann, nella sua recente opera Quarter Tones, fa maliziosamente bol- lare l’opera in questi termini da uno dei suoi personaggi: «L’ultima cosa di cui ho bisogno è un italiano nevrotico che mi urli come se gli avessero appena fatto una multa». L’opera sembra infatti spesso considerata — anche dagli amanti della musica — un genere troppo “superficiale”, troppo “melodrammatico” per essere preso seriamente. Viene alla mente il famoso dottor Johnson, che definì il romanzo «un piccolo racconto, per lo più d’amore». Da allora abbiamo conosciuto Dostoevskij e Tolstoj, Sigrid Undset, Kafka e Márquez... E mi pare che, da quando Netrebko e Villazón hanno iniziato a “Un tempo gli artisti appartenevano alla Chiesa”, dice Anna con un’alzata di spalle, “oggi appartengono ai media e al denaro” reimmaginare il significato stesso del concetto di opera, questo non sarà più lo stesso. Nel mentre, giovani come sono (entrambi hanno sui trentacinque anni), Netrebko e Villazón possono sfruttare appieno gli eccessi del mondo dei divi, mantenendo al tempo stesso — grazie in parte ad un sano senso dell’umorismo — un’autentica umiltà. Di fatto, un’innocenza assolutamente disarmante. Netrebko viene salutata in Germania come «die letzte Primadonna» (l’ultima primadonna, ndt) eppure non si fa problemi di girare per le strade di Salisburgo su una bicicletta malconcia, i capelli neri raccolti in un cappellino con visiera. E Villazón sarà pure largamente acclamato come forse il più grande tenore dei nostri tempi, ma a chi gli chiede come sia la vita sull’Olimpo risponde che sua moglie gli ricorda di non essere dopotutto che un aquilone nel cielo — e che è lei a tenerlo saldamente legato a terra. La dice lunga anche la gioia con cui racconta la parabola dello specchio magico, che risucchia al suo interno chiunque specchiandosi dica una bugia. Un soprano fissa lo specchio e proclama: «Io penso che il mondo non abbia mai visto una Gilda come me»; con un suono di risucchio, lo specchio la fa sparire. Arriva un baritono, che si vanta: «Io penso di essere il miglior Rigoletto mai apparso sulla scena»; e sparisce. Si avvicina poi un tenore, si mette in posa e inizia: «Io penso...»; immediatamente lo specchio lo risucchia per sempre. Questo certamente non potrà mai accadere ad Anna e Rolando: una delle prime cose che colpisce l’ascoltatore o lo spettatore è quanto ciascun ruolo, ciascuna battuta, ogni alterazione, legato, pausa o rubato siano stati pensati. Sono stati già descritti come «la coppia ideale», o «i gemelli divini». È necessario farsi largo tra il fitto fogliame delle metafore e degli aggettivi inventati dai media quando vogliono montare un caso. Questi due cantanti, provenienti da angoli opposti della Terra, sembrano offrire un cocktail intenso, inebriante e assolutamente irresistibile a base di vodka e tequila. Ed è affascinante vedere con quale abbandono Villazón riesce ad identificarsi con la melanconia e la collera più tetre e la quasi insopportabile tenerezza della musica russa, o la convinzione e l’esuberanza con cui Netrebko fa propria la furia española di una zarzuela. È vero che entrambi danno il loro meglio nel contesto di un’opera, dove possono vestire un ruolo che nel corso di un’interpretazione si sviluppa, si espande e cresce. È questo il motivo per cui parlavo di una esperienza totale dell’opera: in un’aria specifica è possibile che Renée Fleming, Cecilia Bartoli, Angela Gheorghiu o Mirella Freni offrano un’interpretazione “migliore” di Netrebko. Ma se si guarda l’effetto complessivo, fatto di apparenza, capacità recitative e canore, questi due artisti sono semplicemente unici. (Ad ogni buon conto, come ha insistito una volta la stessa Anna in un’intervista, nella musica non si tratta di scegliere dei campioni: quel che occorre piuttosto è il senso di gratitudine e ammirazione con cui si sa apprezzare un miracolo). È per questo che non ho resistito alla tentazione di andare a Parigi per vedere e sentire quei due in concerto al Théâtre des Champs-Élysées. Non si trattava di un’opera, quindi nessuno dei due poteva dare — e sviluppare — l’“esperienza totale” che avevano offerto con Verdi, Mozart, Puccini o Donizetti. Ma pur nei limiti delle piccole, levigate perle che hanno cantato da soli o insieme, in una miscela eclettica ma in definitiva magica, fatta di Ciaikovskij e Verdi, Gounod e Rachmaninov, Morrena-Torroba, Ponchielli, Catalani e Massenet, hanno incantato il pubblico parigino (non elegante come quello del Festival di Salisburgo o della Wiener Oper, ma decisamente esigente e dai gusti sicuri). C’è stato qualche intoppo: In Je veux vivre, da Roméo et Juliette, la voce di Netrebko è preoccupantemente venuta meno in un do di petto. E durante uno dei bis — il Brindisi della Traviata — si è addirittura dimenticata le parole. Ma lei e Rolando ne hanno fatto un trionfo: la cantante si è prima piegata in due crollando dal ridere; lui poi l’ha aiutata a rialzarsi, mettendosi a ballare con lei. Alla fine tutto il pubblico era in piedi ad incoraggiarli e applaudirli. Così la serata si è trasformata in una rappresentazione. Il pubblico, che all’inizio osservava Anna (la quale era alla sua prima apparizione parigina) con atteggiamento critico, analizzando le interpretazioni con intelletto d’acciaio, è stato man mano blandito e conquistato sino a farsi travolgere dall’estasi e dall’esultanza, per finire in piedi, in un applauso scrosciante che si è protratto per molti minuti, con alcuni dei francesi che addirittura urlavano «Spasiba!». Siamo venuti, abbiamo visto, siamo stati conquistati. Sono pronto per il prossimo pellegrinaggio. Traduzione di Marzia Porta FOTO REUTERS stesse cantando a meno di cento metri da noi, pur restando irraggiungibile come se fosse su un altro pianeta. Dopo cena, sotto una pioggia sferzante, ci trasferimmo al Café Tomaselli, ancora profondamente sconsolati ma almeno consapevoli di esserci avvicinati. Lungo la strada ci imbattemmo in una delle numerose strutture a forma di cono che quell’estate erano disseminate per tutta Salisburgo. Era di un giallo sfacciato. Una volta raggiuntala, Krystian si fermò premendovi contro l’orecchio e rimase senza fiato dalla sorpresa: «Da questo coso escono suoni!». Mi avvicinai, e la mia incredulità presto si trasformò in meraviglia. «Dio mio!», dissi. «È la Traviata! È Anna!». Proprio così. In diretta dalla Festspielhalle. Arrivammo al Tomaselli zuppi sino al midollo, ma sentivo che la mia missione era stata portata a compimento: avevo sentito Anna Netrebko. Dal vivo — anche se a distanza. Un anno dopo, era l’agosto del 2006, grazie all’intervento di una persona influente e addentro al Festival riuscimmo ad ottenere i biglietti per Le Nozze di Figaro (pare che quella volta al mercato nero avessero raggiunto i diecimila euro). Proprio come la sua Donna Anna aveva ridefinito tre anni prima il Don Giovanni, e come la sua Violetta della Traviata aveva infuso nella musica di Verdi le profonde complessità e l’umanità del testo di Dumas, la Susanna di Netrebko rivelava delle profondità che pochi altri soprano avevano espresso prima di lei. Questa Susanna non era una soubrette, ma presentava ombre e sfumature di sofferenza umana — e femminile — di cui forse solo Mozart era stato consapevole. (Pochi giorni dopo, quando si presentò l’opportunità di discutere brevemente di questo con Anna Netrebko, lei ammise con un accenno di sorriso: «Quando iniziai a lavorare a Susanna sapevo solo che dovevo fare qualcosa di nuovo». E io, per un attimo, ho pensato a Baudelaire: «Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe? / Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!». E siamo al terzo pellegrinaggio. Questa volta ad animarmi era un proposito Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 APRILE 2007 i sapori Trasgressioni Macinatura fine o grossolana, di maiale o carni miste, morbido o ben stagionato, il gioiello più celebre della nostra norcineria viene festeggiato da oggi a Cagli Ciaùscolo con “Distinti Salumi” e a metà maggio a Felino nella due giorni di “Salame & Champagne” Il salame da spalmare, tipico marchigiano, si prepara con carni da pancetta, costate e spalla, sminuzzate e impastate con lardo, sale, pepe, aglio, finocchio, buccia di arancia. Va gustato nel giro di qualche settimana con pane casereccio La buccia Varzi Cacciatora Casalìn L’alternativa al salame mantovano più conosciuto è una piccola produzione protetta da Slow Food. Ingredienti: spalle, lonze, filetti e rifilatura di prosciutto Aggiunte consentite: aglio, sale, pepe, spezie. Si insacca nel budello naturale Brianza Secondo il disciplinare dop, le spalle di suini allevati tra Piemonte, Emilia Romagna e Lombardia, fresche o congelate, sono lavorate con triti di pancette e gole. Tra gli additivi consentiti: vino, zucchero, aglio, lattosio Il vulcanico Ivan Albertelli gestisce con la moglie Barbara una bella locanda a Fontanelle, campagna parmense, dove la cucina tradizionale è impreziosita dalle “chicche” delle cantine di casa: salumi, vini e grandi Champagne I diversi spessori delle varie sezioni dell’intestino del suino – crespone, cresponetto, filzetta, gentile – identificano alcune tipologie di salame. Ma il budello naturale è importante per tutte le varietà di carni utilizzate: mucca, pecora, capra, oca (salami kosher), perfino trota. Essendo una membrana porosa, bisogna evitare la vicinanza con odori forti, che rovinerebbero la fragranza dell’impasto. Meglio rimuovere il budello prima di tagliare le fette, per evitare che la muffa presente sulla su perficie contamini il gusto del salame Nato nell’Oltrepò pavese, di origine longobarda, marchio dop, viene preparato con ritagli di coscia, spalla, lonza, coppa, filetto, guanciale e pancetta. Dopo l’aromatizzazione e l’insaccatura, viene stufato e asciugato Prodotti a partire da carni magre di suini del Centro-nord, i salamini italiani alla cacciatora dop vengono addizionati in maniera simile ai Brianza In più, è possibile aggiungere latte magro in polvere o caseinati itinerari Salame ei un salame, ti dicono. Guai a offendersi: chi usa il più trasgressivo e goloso dei salumi come un insulto non sa godersi i piaceri della tavola. Perché addentare pane e salame è un inno alla gioia del palato, ovunque noi siamo: picnic, pausa lavorativa, merenda, intermezzo, colazione rustica, premio dopo una vigorosa camminata o consolazione a metà di un’interminabile giornata sui libri. Con tutte le variabili connesse, a cominciare dal pane: michetta fragrante o due robuste fette di pane cafone, la lunga baguette o lo sfizioso bocconcino con peperoncino e cipolla, la croccante pasta dura mantovana o il pane toscano senza sale. Ma soprattutto lui, il principe dei panini: macinatura fine o grossolana, pepe in grani o aglio a svenire, magro e muscoloso o languido e grassoccio, morbido come si conviene appena svezzato dalla lavorazione o indurito da una stagionatura severa, di puro maiale o frutto di “meticciato carnivoro”. E poi il taglio, su cui si rischiano litigi epocali: con o senza budello, fetta spessa o sottile, sottilissima, in diagonale o tonda come una moneta. E ancora, il bicchiere a coté: dall’immancabile Cola dei ragazzini a una birra fresca e spumosa, su su fino all’empireo alcolico: un bianco secco e aromatico, un rosso allegro e corposo, o l’ammiccante compagnia delle bollicine. Non a caso, il secondo fine settimana di maggio, a Felino, terrasanta del salame, opportunamente gemellata con Cumières, si celebra “Salame & Champagne”, due giorni di passione eno-gastronomica con produttori emiliani e vignerons francesi in passerella insieme. Il tutto con i ristoranti-testimonial di un’altra storica rassegna, “Salame mon amour” — Cantinetta, Porta di Felino, Trattoria Leoni, Pane e Salame — pronti a offrire il menù degustazione completo di flute a 35 euro, pausa pranzo coi fiocchi tra il mercato del mattino e la visita al Museo del salame, alloggiato nel castello medievale che domina il borgo. Visitare il museo, dove si racconta il percorso del miglior salame artigianale, aiuta a capire che c’è salame e salame. E che le protezioni europee — Dop e Igp — non bastano a garantirci. L’elenco degli additivi permessi in alcuni disciplinari — a cominciare da caseinati, polifosfati, nitriti e nitrati di sodio e potassio — lascia inquieti così come gli starter microbici, che accelerano artificiosamente la stagionatura. Certo, alcune sostanze aiutano a sterilizzare le carni, uccidendo i batteri tossici. In altri casi, migliorano colore, sapore, aspetto. In compenso, la presenza di nitriti — che possono formare nitrosammine cancerogene — è vietata nell’acqua potabile, mentre i nitrati — meLICIA GRANELLO no velenosi — rischiano di trasformarsi in nitriti se non tamponati dall’acido ascorbico (vitamina C). In quanto ai polifosfati, trattengono l’acqua nei tessuti e alterano il rapporto calcio-fosforo, intervenendo negativamente sulla calcificazione ossea. Per fortuna, esistono produzioni che prosperano alla larga dalla chimica: carni di prima scelta, manipolazione e salagione accurate, budelli naturali, stagionatura in cantine controllate. Nei giorni scorsi Massimo Spigaroli, allevatore-culto di Polesine Parmense, ha fondato il Consorzio del suino nero, razza pregiata importata a fine Settecento dai Borbone, da cui si ricavano culatelli e salami meravigliosi. Visitare la sua “Antica Corte Pallavicina” significa imparare molto su come si allevano maiali felici e sui sapori straordinari dei salumi di qualità. Altro itinerario didattico quello di Cagli (Pesaro Urbino) dove da oggi a martedì si svolge “Distinti Salumi”, sequenza di laboratori, assaggi, racconti, menù intorno agli insaccati d’autore. I dannati del colesterolo si regalino solo fette sottilissime. S Primattore di picnic e merende Repubblica Nazionale DOMENICA 29 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 Felino (Pr) Fabriano (An) S. Angelo di Brolo (Me) Il borgo medievale nel cuore della food-valley è famoso per il suo castello, sede di un originale Museo del salame, ultimo nato nel circuito dei musei del cibo. In zona, infatti, si trovano quelli dedicati a parmigiano reggiano e prosciutto di Parma Appoggiata nell’ultima propaggine della Marca d’Ancona a ridosso dell’Umbria, è un felice mix di economia agricola e industriale (carta). Grande tradizione di insaccati, in primis salame lardellato, ciaùscolo e coppa di testa Alta sul mare, già nota per l’allevamento dei bachi da seta, la zona (il nome viene dal latino medievale Brolum, campo) ha avviato un’eccellente attività di salumificazione Il microclima aiuta la stagionatura degli insaccati Igp, lavorati a punta di coltello DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE LA CORTE DI SAN MICHELINO Via Venturini 24, San Michele Gatti Tel. 0521-831238 Camera doppia da 65 euro colazione inclusa AGRITURISMO GOCCE DI CAMARZANO Frazione Moscano Tel. 336-649028 Camera doppia da 70 euro colazione esclusa ANTICO CASALE DI LISYCON Contrada Nunziata Tel. 0941-533288 Camera doppia da 80 euro colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE LA PORTA DI FELINO Via Casale 28 B Tel. 0521-836839 Chiuso domenica, menù da 22 euro MARCHESE DEL GRILLO Via Rocchetta Bassa 73 Tel. 0732-625690 Chiuso dom. sera e lun., menù da 40 euro DA ANGELO Strada 139 per Ucria Sinagra Tel. 0941-594433 Chiuso lunedì, menù da 22 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE ANTICHE CANTINE LUPPI Via San Vitale 30, San Vitale Baganza Tel. 0521-330711 SALUMERIA BARBAROSSA Frazione San Michele 89 Tel. 0732-676921 SALUMIFICIO SALVATORE CAPUTO Contrada S. Maria Lo Piano Tel. 094-1560121 Ungherese Inventato in Italia, è approdato in Ungheria due secoli fa. Il taglio della carne è finissimo, la consistenza magra, l’aromatizzazione con pepe e paprika esaltata da una leggera affumicatura. Il Milano, ha speziatura diversa Strolghino Pregiato e particolare, sfrutta i ritagli della lavorazione del culatello La carne, magra e dolce, viene insaccata in budelli sottili, lunghi, stretti e forgiata a ferro di cavallo. Va gustato tenero e non stagionato Finocchiona Ciaùscolo, la nutella suina scoperta dalle legioni romane Per il salame medievale toscano, rifilature di prosciutto, guanciale e grasso del maiale macinati e conciati con sale, pepe, semi di finocchio, aglio, vino Matura una settimana al caldo La stagionatura dura oltre cinque mesi CORRADO BARBERIS nconsapevole nutella suina, da spalmare sul pane come una marmellata, spetta probabilmente al ciaùscolo il rango di più antico salame italiano. Esso preesisteva, infatti, a quella battaglia di Sentino che consentì ai Romani di affacciarsi sulla Padania. Correva il 295 avanti Cristo. La costa settentrionale delle Marche era allora abitata da una tribù gallica, i Senoni, che producevano il loro tradizionale pãté de campagne — tuttora presente, benché sempre meno, nelle salumerie francesi: carne lardo e fegato mescolati assieme in varie proporzioni. Vittoriosi, i Romani espulsero gli sconfitti dall’agro che ancor oggi prende il nome di Senigallia, e li respinsero verso le montagne. Là i superstiti di Sentino continuarono a fabbricare il loro pãté, insacchettandolo. Era nato il ciaùscolo, da cibuscolo, forse, propiziatore di gagliarde merende. Al secondo posto — o addirittura in lizza per il primo — troviamo le luganeghe. E anche qui c’entrano i Romani: i quali, spingendosi sempre più a sud, giunsero a contatto con i lucani, che avevano un’arte tutta loro di insaccare il maiale. Da essi — dice Varrone — i soldati la appresero, ma è lecito pensare che ancora più godessero di imporre ai vinti cospicui annui tributi di quegli elaborati. Sicché l’insaccato per antonomasia finì per chiamarsi lucanica. E ancor oggi il nome — se non proprio l’impasto — vive dalle parti di Cannobio (Novara) in un salamino da bollire dove la carne di manzo prevale sulla suina. Vive nelle luganeghe trentine, spesso ma non sempre di puro maiale, e nelle venete. A Treviso il podestà si preoccupava di garantirne l’autentica provenienza suina già con editti del secolo Quattordicesimo. Il fatto che le lucaniche si siano oggi spostate così a nord (in Basilicata il nome è scomparso, rimangono fortunatamente le soppressate) lascia pensare che le legioni romane abbiano avuto un’influenza non secondaria nella diffusione del prodotto. Un salto di un migliaio di anni e ci troviamo ai piedi del Circeo, a Monte San Biagio. Al centro di un forte insediamento saraceno, sbaragliato dopo le vittorie delle armate cristiane al Garigliano nel 916 della nostra epoca. Qui la salsiccia, promossa a salame per l’occasione, si fa tuttora col coriandolo: spezia del mondo arabo per eccellenza. Ai cultori di sociologia religiosa decidere se i saraceni, mangiando quella salsiccia, tenevano in non cale i dettami antisuini di Maometto e se la salsiccia era di carni lecite, bovine e ovine. Certo è che quei granelli di coriandolo confitti nelle carni sembrano rappresentare ancora oggi, dopo tanti secoli, la concrezione non si sa bene se del seme stupratore o delle lacrime delle vergini cristiane trascinate verso gli harem del Medio Oriente. Quasi a vergognarsi di un passato così sofferto, gli attuali produttori soffocano il delicato sentore del coriandolo sotto un’orgia di peperoncino. E ancora i saraceni c’entrano, sia pure non da protagonisti, nella gara per la quarta posizione. Nel 1060 inizia — ad opera dei Normanni — la riconquista cristiana della Sicilia. Per ripopolare le contrade spopolate dalle stragi, il conte Ruggero chiede alla sua terza moglie, Adelasia del Monferrato, di mandargli un po’ dei suoi vassalli e servi. Questi arrivano e si portano dietro le loro usanze alimentari. Così a Sant’Angelo di Brolo (Messina) si può gustare un salame di stretta osservanza padana: lo stesso che si dirama a sud fino a Chiaramonte Gulfi che, dall’alto dei suoi ottocento metri, sfida il proprio parallelo a sud di Tunisi. E che emozione quando, nelle sagre paesane messinesi, capita di incontrare un produttore di salame il cui cognome finisce in audi, proprio come quello del nostro vecchio presidente Einaudi, langarolo. Fette di salame, pagine di storia. L’autore è presidente dell’Istituto nazionale di sociologia rurale I 420 60 7 le calorie contenute in media in un etto di salame le tipologie di salame censite in Italia i salami protetti dall’Unione Europea (dop e igp) Sopressa Dop vicentina che si ottiene insaccando in grossi budelli bovini un macinato di spalla, prosciutto, capocollo, lardo e una miscela di aromi. Per darle forma compatta, si massaggia in acqua calda Quella all’aglio ha un cordino colorato Felino Si impastano carni fresche di prosciutto, coppa, spalla e sottospalla di maiali emiliani “pesanti”, tritate, aromatizzate con sale, pepe, pochissimo aglio pestato e vino bianco. Si insacca in budello naturale. Stagionatura di almeno due mesi Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 APRILE 2007 le tendenze Nuovi vivai Il clima che cambia costringe il regno vegetale ad adattarsi Erica e ortensie diventano specie esotiche, i prati all’inglese si seccano e trionfano cisti e papaveri bianchi. Una lotta per la sopravvivenza che può diventare moda, come dirà la “Tre giorni per il giardino” al Castello di Masino Fiori PAEONIA ICE STORM Bianca, fiore semplice, gambo legnoso, resiste al freddo, fiorisce tra aprile e maggio. Vuole la mezz’ombra, terriccio leggero, ottimo drenaggio, acqua con moderazione i del grande caldo Ditelo con una rosa, senz’acqua ROSSELLA SLEITER e passate dal Castello di Masino noterete che c’è uno strano movimento e una certa tensione nell’aria. Due cose insolite in quest’angolo di Piemonte fuori dal grande turismo. Camioncini che scaricano banconi, tende, vasi, alberi e piante; gente che misura a passi il campone sotto il Castello, sposta balle di fieno, costruisce chioschi e traccia sentieri nell’erba. Stanno preparando la scena dello spettacolo che incomincerà venerdì 4 maggio: la “Tre giorni per il giardino”, mostra mercato inventata dall’architetto Paolo Pejrone sedici anni fa, un po’ per attirare visitatori nell’allora nuova proprietà del Fondo per l’ambiente italiano, un po’ per riprendere quello che gli inglesi chiamerebbero “la gloria del giardino”, cioè il gusto per piante scelte per la bellezza e per la speciale resistenza a crescere e prosperare in condizioni di prigionia dorata come in un vaso o in un’aiuola. In sedici anni Masino ha fatto scuola, perché è in questo mondo di giardinieri, in questi centodieci stand di vivaisti italiani e stranieri che mettono in mostra le loro collezioni e le novità di giardinaggio, che si capisce dove va il gusto, quale pianta va di moda, quale colore fa tendenza. Anni fa, in una delle prime edizioni, ci si rese conto che il bosso, lento, longevo, sempreverde, era ancora un protagonista sulla scena del giardino, anche se non come accadeva al tempo del suo massimo splendore nel giardino all’italiana. Da Masino partì la tendenza ad avere il bosso tagliato a sfera nei vasi di cotto toscano. Ed è ancora bosso nel 2007, tagliato a onda, a piramide, a spirale, per guidare lo sguardo verso la vista migliore, per separare una zona del terrazzo o del giardino, da un’altra. Prendiamo il glicine. Una delle piante di cui conosciamo il profumo, la forma a grappolo, il colore lilla, la forza nel crescere. Pochissimi, fino all’anno scorso, avrebbero sospettato che ne esistano più varietà (da cercarsi sotto il nome latino di wisteria). Quella che marca la nuova stagione ha un nome, S ROSA GALLICA Facile, resiste al freddo, al sole, alla mezz’ombra e alla siccità Non arrampica. Trova da sola il proprio habitat, assecondatela con dello stallatico in autunno macrobotrys, e alcune caratteristiche speciali. È rifiorente, produce un grappolo tanto lungo da toccare il suolo da una pergola, ha un profumo meno intenso. Prendiamo le peonie. Da quando abbiamo capito che è inutile cercare la pianta fiorita tutto l’anno, accettando la legge di natura, immaginarci in giardino o in terrazzo a maggio, in mezzo alle peonie in fiore è un nuovo, piccolo piacere della vita. A Masino per la prima volta si possono trovare le peonie che l’inglese Peter Smithers, giardiniere aristocratico prima ancora che diplomatico al servizio di Sua Maestà, aveva ibridato per sé per i suoi amici e che Rivière, lo specialista di Francia, ha acquistato quest’anno. E sempre parlando di inglesi, loro preferiscono un geranio che assomiglia a un bocciolo di rosa, il Rosebud. Non lo coltivate ancora? Eppure è l’ultima moda. Insieme agli agapanthus dal fiore blu, agli ibischi sempre più avanzati nella fioritura (settembre e ottobre), ai cisti, alle passiflore, che meno terra hanno più fiori fanno, al corbezzolo, pianta mediterranea e risorgimentale per eccellenza (verdi le foglie, bianco il fiore, rosso il frutto). Per non dire delle salvie, non da cucina, ma da fiore, che se le annaffi le offendi. Già, il problema dell’acqua. Certe rose non la vogliono, tra queste, la rosa gallica, come le vecchie rose francesi di Monsieur Guillot, un marchio che è una garanzia. Tutti i ceanothus, o lillà della California, preferiscono il terreno poco bagnato e, in cambio, danno una magnifica fioritura blu. Il giardiniere che non spreca acqua ha capito la tendenza del momento. Il giardiniere che salva e coltiva i semi naturali, come quelli raccolti dall’associazione Kokopelli che a Masino porta circa quattrocento varietà di pomodori da riscoprire, fa tendenza. Un giardino come oasi naturale, con poche piante orticole ben tenute: questo è l’ultimo grido dal Castello di Masino. Tre giorni per il giardino: 4-5-6 maggio, orario 10-18. Ingresso a pagamento. Castello di Masino, Caravino, Torino, tel.0125-778100. e-mail: faimasino@fondoambiente. it Centodieci stand di espositori italiani e stranieri per scoprire le ultime novità SALVIA Le specie ad arbusto sono le più belle, non vogliono acqua, cercano il sole, si accontentano di qualsiasi terreno, fioriscono in piena estate. Vogliono però spazio e vasi grandi BOSSO CISTUS AGAPANTHUS Odia il vento e il terreno compatto, vuole terriccio leggero, posizione a mezz’ombra e acqua, moderata, durante il grande caldo Potature prima dell’inverno Cespuglio di macchia, sempreverde, fiorisce d’estate non vuole né concime, né acqua. Per le varietà più belle qualche accortezza: terreno leggero, molto sole Facile, si moltiplica e rifiorisce per sempre. Le foglie non ingialliscono, ma non sopporta la neve. Sboccia tra luglio e agosto aiutato dall’annaffio Repubblica Nazionale DOMENICA 29 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 La siccità promessa delle estati future ci spinge a rinunciare alle piante “aliene”. Largo dunque ad allori, fichi, bossi, melograni, mimose, agrifogli e a tutti gli altri esemplari che stanno bene in pieno sole Ecco i consigli di un grande architetto del verde Oleandro, rosmarino, corbezzolo Guida al giardino asciutto ma felice PAOLO PEJRONE L’ allarme c’è: il caldo e la siccità sono forti, continui e incalzanti. L’inverno, qui in Piemonte, è stato caldo all’inverosimile e la pioggia (e quindi la neve) non è praticamente caduta. Una strana e torva minaccia aleggia sulle nostre regioni: i campi sono all’asciutto, il grano stenta a crescere. L’acqua sta diventando sempre più rara e i giardini, si sa, sono delle vere spugne. I giardini, come sono stati finora concepiti, voluti e proposti, confidano nell’acqua come base forte, vitale ed essenziale. Conseguenza e derivazione del successo dei campi da golf (e della loro proliferazione) e tramutati nell’immaginario collettivo in ideali, smeraldini maxi giardini, i prati sono diventati nel corso dell’ultimo secolo i più importanti “pezzi di resistenza”, i piatti forti di una cucina internazionale giardiniera. Soffici e vellutosi si propongono come larghe e assolate pause di una, spesso intensa, sinfonia di vegetazione. Richiesti, coltivati, concimati, tosati ed esibiti, hanno, ahimè, bisogno di tanta, tantissima acqua durante l’estate. Per loro e per la loro felicità è necessario ricreare un’atmosfera scozzese, fatta di docce frequentissime e neanche brevissime. Senza dimenticare che il caldo, il grandissimo caldo che le nostre regioni sono riuscite a scatenare e sviluppare in questi ultimi anni, sottopone a mille attacchi e aggressioni le verdi e luminose speranze delle superfici a prato. La degenerazione a questo punto è vicina: da un lato gli attacchi fungini rendono questi affascinanti immigrati di un Nord piovoso e fresco un elemento delicato, esotico ed alieno. Dall’altro, troppo caldo e siccità diventano vere avversità: e il giardiniere si deve trasformare in un piccolo (e triste) chimico. Questo nel migliore dei casi: perché spesso da chimico deve trasformarsi in un poco scrupoloso avvelenatore. Il caldo, se diventa per un periodo prolungato, forte e insistente, può tramutare un prato all’inglese in un laboratorio chimico (e velenoso). E per quest’anno si prevede, secondo la meteorologia, una quarta, interminabile e violenta estate. Sarà necessario a questo punto, per il bravo e coscienzioso giardiniere, prendere o cercare di adottare provvedimenti saggi e tempestivi: innanzitutto perché non ridurre, nei giardini stessi, le superfici a prato? O, più radicalmente, perché non abbandonare il faticoso e laborioso sogno di un prato all’inglese per un prato all’italiana? Al posto della rigida (e un po’ spocchiosa) uniformità, perché non trasformare il giardino in una più semplice, mescolata e variopinta assemblea vegetale? Sarà più elegante una giacca di velluto o una di tweed? Con una superficie fatta di “macchie” rustiche e di presenze saltuarie (e salutari) si può ricondurre il prato ad esser prato? Il prato all’italiana può, durante l’estate, diventare anche un po’ giallo, forse un po’ rado. Con un po’ di pazienza e dopo un po’ di anni, tende a autoselezionarsi, dando vita a sistemi vegetali molto più sani per noi, per i nostri vicini, per gli uccelli, per i ricci, i rospi, le salamandre, le lucertole, gli insetti, per tutta quella parafernalia animale che un giardino può sostenere e far convivere. E per i cani? E per noi? Il contatto con prodotti “selettivi” e con i concimanti chimici non è auspicabile e felice. Proprio no. E il resto del giardino? Rododendri, azalee, kalmie, eriche e ortensie sono diventate in pochi anni piante esotiche pure loro, dipendenti in modo eccessivo dall’acqua e dalla umidità ambientale. Ora soffrono scontente: vorrebbero tanto esser spostate in latitudini e altitudini differenti. A loro non è sufficiente dare acqua, anche se continua, frequente e non troppo calcarea. Durante i giorni, ormai lunghi e implacabili dell’estate, pretendono umidità ambientali ormai sempre più rare. Felice vittima di anglofila passione per rododendri e ortensie, ho dovuto, per pace e tranquillità, ridurne la presenza all’essenziale, al minimo. Un giardino è bello e piacevole se felice, e se l’aspetto delle piante coltivate è normale: un giardino non è un ospedale, né un carcere dove tenere forzate e infelici piante aliene non adatte. Il capriccio per il capriccio, anche in giardino, è odiosissimo. Ben vengano quindi nei giardini le rose, che del caldo e della siccità sono soltanto felici, ben vengano gli azzurri, leggeri e impareggiabili ceanoti, che dalle sabbie della California stanno invadendo, forti pure delle loro sempreverdi, lucide ed elegantissime foglioline, le nostre future… sassaie! E con loro i meravigliosi papaveri bianchi e gialli: la Romneya coulteri che nel secco prospera e si moltiplica. Ben vengano quindi oleandri, e pure rosmarini, corbezzoli, filliree, melograni, fichi, mimose, lecci, sughere, cotini, agrifogli, bossi ed allori… Questo breve e condensato elenco non è soltanto un suggerito e vocale scioglilingua, può essere l’inizio, suggerito e consigliato, per un giardino nuovo adatto al sole, al caldo e all’asciutto. Intelligenti e pronti sono i coraggiosi che prevedono, cambiano e adattano e si adattano. E i cisti? Da esotici (trentacinque anni fa, quando ne piantai alcuni, per provare) ora sono diventati i più facili, semplici e bellissimi compagni delle mie assolate e scoscese prode. Sempreverdi, robustissimi, amanti delle più infelici ed estreme situazioni di secco e di caldo, sembrano nati per il posto. Leggeri, sottili (ed elegantissimi) i fiori si aprono presto al mattino per accompagnare il giorno fino a sera. Felici di sole, di caldo e di strapazzi, sono diventati i migliori amici del giardino asciutto. Alan Fraddè un cisto bianco puro, il fiore perfetto grande ed aperto mostra felicissimo le sue piccole macchie marroni, quasi bordeaux. Robustissimo, sta crescendo ed espandendosi sempre di più alle falde di un sassoso (e assolato) angolo del giardino. Da pochissimi mesi, vistone il successo e la felicità (in questi ultimi tre anni), ne ho piantati altri tre, che sono anche loro vicini vicini. E appagati. Nel giardino felice, osservazione, curiosità e coraggio potrebbero esser coniugate con passione, pazienza e sensibilità. ROSA GUILLOT ORSOLA SPINOLA Ibrido fortunato del francese Guillot, non supera gli ottanta centimetri, resiste alle malattie, è profumata Vuole sole, poca acqua, stallatico in autunno e un vaso tutto suo HIBISCUS Quello ad alberello non vuole acqua, cerca il sole, cresce ovunque e fiorisce d’estate. Quello a cespuglio è più esigente: sole, terriccio leggero, acqua e concime. Ma è più bello WISTERIA MACROBOTRYS Cerca da sola il nutrimento in qualsiasi suolo e con qualunque esposizione Si può potare due volte l’anno, ma è difficile salire alla sua altezza con le forbici GERANIO ROSEBUD PASSIFLORA CORBEZZOLO Vuole luce, sole e protezione dal vento e dal gelo. Fiorisce da maggio ad agosto, va coltivato in vaso con terriccio leggero e buon drenaggio Meno terra, più fiori durante l’estate Più terra, più foglie per la pergola Teme il freddo, non la siccità Più una varietà è bella, più ha bisogno di clima mite Sempreverde, altezza da albero, fiorisce da settembre in poi, fruttifica d’estate, da agosto a settembre Vuole sole, in natura cresce con la sola pioggia Repubblica Nazionale 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29 APRILE 2007 l’incontro Ha creato “Bella senz’anima” e “Margherita”. Poi ha trovato una seconda giovinezza reinventando l’opera: “Notre Dame” è stata un successo planetario, “Giulietta e Romeo” pare avviata a ripeterne i trionfi Adesso ha due nuovi progetti: il primo di lavoro, scrivere un’opera buffa; il secondo di vita, ritirarsi nel segreto dei suoi affetti, “sparire del tutto, non essere più un fatto fisico, esserci solo attraverso la musica” Anti-divi Riccardo Cocciante iccardo Cocciante ci viene incontro all’ingresso degli Air Studios. In mezzo alle volte gotiche della chiesa sconsacrata di Hampstead — nuova residenza degli studi di registrazione di George Martin, famoso produttore dei Beatles — la sua figura è ancora più minuta. Il tempo delle cattedrali, viene da pensare: Notre Dame de Paris, era il ‘98, e in quasi dieci anni ne ha fatti di viaggi. «L’opera ha viaggiato. Io mica tanto», dice Cocciante. «Dei tanti luoghi lontanissimi che l’hanno accolta ho visto soltanto la Cina. Neanche in Corea del Sud l’ho accompagnata. E dire che lì l’hanno voluta per ben due volte, e la seconda, in contemporanea alle rappresentazioni di Seul, hanno organizzato schermi per la ripresa via satellite nei teatri delle altre città». Come si dice, un successo planetario. «Credo di sì, ma non me ne curo più di tanto. La sola urgenza che ho è di esprimermi, quindi di comporre. Sempre». Per il momento sta registrando. Adesso in uno studio normale (legno chiaro e tappezzerie, macchine sofisticatissime) per le basi; tra qualche settimana si sposterà nella sala grande per registrare l’orchestra. La visitiamo, la sala grande. È la chiesa vera e propria, con tanto di organo. La musica rimbalza sulle volte, sfiora le grandi vetrate, scende in picchiata verso i leggii già pronti. Sembra quasi di vederla, di poterla afferrare in volo. Una straordinaria acustica naturale. «Giulietta e Romeo se la meritano», dice Cocciante. Ai tragici amanti veronesi è dedicata la sua nuova opera, sempre su libretto di Pasquale Panella, autore del Battisti dopo-Mogol e traduttoreautore della versione italiana di Notre musicisti: Francesco De Gregori, Antonello Venditti e Riccardo Cocciante. Un battesimo. Nessuno era uguale all’altro, ma tutti e tre, nello stesso momento storico, rivendicavano una canzone fatta di ribellione, poesia, libertà. De Gregori bellissimo principe, già colto e distante; Venditti più sanguigno, infagottato nell’eskimo, con la sua anima popolare già in evidenza; Cocciante accuratamente nascosto da una massa di riccioli scuri, ma con una rabbia da scuotere i muri. «Avevo bisogno di esprimermi, avevo bisogno di cantare. Non ho mai parlato molto, neanche da bambino. La musica era l’unico modo che avevo per farmi capire. Eravamo quattro figli e io ero il secondo, Mai stata facile la vita per il secondo figlio». La sua timidezza era evidente, così come un rapporto non proprio sereno con il suo corpo. Sembra un’altra persona, oggi. Forse proprio perché, dopo tanto successo, può concedersi il lusso Ho sempre avuto bisogno di cantare per esprimermi Non ho mai parlato molto, neanche quando ero bambino Eravamo quattro figli e io ero il secondo: mai stata facile la vita per il secondo figlio FOTO GRAZIA NERI R LONDRA Dame. Giulietta e Romeo debutterà il primo giugno all’Arena di Verona e per i primi quattro giorni annunciati (fino al 4 giugno) i biglietti erano già esauriti alla fine di gennaio. «È una grande dimostrazione di fiducia da parte del pubblico. E anche una bella responsabilità», dice Cocciante. Ma neanche questo fatto “pratico” sembra turbarlo. È seduto accanto a Rick Wentworth, direttore e orchestratore di Giulietta e Romeo (e di Ca ira, l’opera dell’ex Pink Floyd Roger Waters sulla rivoluzione francese). Ha davanti le partiture e anche il libretto. Lo scorriamo. Amore, amore, amore: la parola magica è una costante nei testi di Panella. «È fatto apposta. Stiamo parlando di Giulietta e Romeo. E comunque Panella non è un poeta, è un meraviglioso scrittore per la musica e con la musica va ascoltato. Ricordo un gioco che facevo da ragazzino: prima di Sanremo i giornali pubblicavano i testi delle canzoni che avrebbero partecipato al festival. Li leggevo e cercavo di capire come sarebbero state le musiche. Impossibile. Quelle parole senza musica erano orribili». Da adolescente amava Sanremo? «Accidenti se mi piaceva. Sono arrivato in Italia, da Saigon, quando avevo dieci anni. In casa si ascoltava l’opera. Il mio primo incontro con la musica leggera è stato il festival». A Saigon — oggi Ho Chi Minh City — Cocciante non è più tornato. «Quando avrei voluto non si poteva, c’era la guerra. Adesso ho qualcosa che mi blocca. Forse la paura di vedere la città troppo diversa da come la ricordo. Due film mi hanno fatto tornare la nostalgia: Indocina, ma soprattutto L’amante, la storia di Marguerite Duras. Da quel film uscivano gli odori, i sapori, usciva la luce che ha illuminato la mia infanzia. Di Saigon, dopo cinquant’anni, ho un ricordo ancora chiarissimo: dalla Cattedrale, percorrendo la rue Catinat, saprei perfettamente come tornare a casa». Tornare a casa, oggi, vuole dire tornare a Dublino. Lì vive da anni con sua moglie (e manager) Cathy e con David, il loro figlio sedicenne. «L’Irlanda mi piace moltissimo. È in realtà un paese del sud: il calore della gente, l’energia delle sue musiche popolari. C’è in Irlanda un rispetto per tutta la musica, dal rock al folk, senza snobismi. Da Dublino non vorrei mai spostarmi. Questa è la prima volta dopo anni che la lascio per così tanto tempo. Ma nei miei progetti c’è quello di sparire del tutto, di non essere più un “fatto fisico”, di esserci soltanto attraverso la musica». Lo sguardo azzurro, quasi trasparente, si è fatto sottile, appuntito, penetrante. Anche se, in trentacinque anni di carriera, Cocciante ci ha abituati all’evanescenza, il concetto merita comunque una spiegazione. E mentre parla ci viene in mente la sua prima apparizione in pubblico come “cantautore”. Inverno 1973, Roma, Teatro dei Satiri. Sul palco Carlo Massarini presenta tre giovani di scomparire? «A cambiarmi è stata la grande scoperta di una novità in me. Io sono un cantante. Un cantautore, se vogliamo. Ho fatto Bella senz’anima, poi Margherita, poi Cervo a primaverae tutte le altre. Cominciare è facile; difficile è continuare, soprattutto restando per anni allo stesso livello. Puoi avere un colpo di fortuna al momento giusto, puoi avere la faccia giusta. Hai il look, ma le mode passano. E ti dici: che faccio adesso? Io ho avuto la fortuna di non avere un look, né la faccia giusta. Aznavour aveva forse la faccia giusta? E la Piaf? Ce l’aveva la Piaf? La mia ambizione non è mai stata quella di apparire in pubblico. Però volevo esprimermi. Sei introverso, ma hai comunque bisogno di dire qualcosa. È arrivato il successo, ma detestavo essere considerato una star. Tanto che a un certo punto ho avuto bisogno di tornare a vivere normalmente. Il divismo uccide. Io non sono caduto nella trappola. Me ne sono andato dall’Italia. Sono francese a metà — mia madre era francese — e mia moglie è francese. Ho scelto Parigi. E lì, senza più problemi di popolarità; lì, quasi alla fine di una carriera — almeno così mi sentivo — ho scoperto che potevo fare altro, e che questo altro mi piaceva moltissimo». Il resto è noto: Cocciante ha aperto uno dei suoi «cassetti perenni» zeppi di melodie («Ne ho ancora a centinaia, chissà dove finiranno») ed è uscita Notre Dame de Paris. «Ho riscoperto una espressione popolare come l’opera e le ho dato una vita nuova. Questo mi ha permesso di unire le mie due anime: quella classica, fatta di pura melodia, e l’altra, quella che graffia, moderna, sempre rivolta al futuro. Il successo di Notre Dameha dimostrato che avevo ragione: si può fare un’opera con il linguaggio di oggi, ma non destabilizzante per un pubblico popolare. Senza scenografie, ma con eleganza». Il turno di registrazione è finito. La “session” avrebbe dovuto concludersi alle sette, invece è la mezzanotte passata. Si entra in sala e non si sa mai quando si esce, è normale. Per questo il bar degli Air Studios è aperto ventiquattro ore su ventiquattro. «Continuiamo a parlare al bar» dice infatti Cocciante. Anche la loquacità è cosa nuova. Sembra esausto, ma ha ancora troppe cose da dire e, soprattutto, ha come un’urgenza di dirle. Gli argomenti si accavallano, uno insegue l’altro. C’era stato il concerto al Colosseo, il 16 settembre del 2005, per soli trecento invitati (e grandi schermi fuori): quel concerto è il debutto del suo impegno decennale con l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (alla quale andrà un euro su ogni biglietto venduto per la nuova opera, fino al 2015). Al Colosseo aveva cantato Giulietta e Romeo da solo, voce e pianoforte. Poi erano arrivate le audizioni per trovare i cantanti. «Quando abbiamo fatto quelle per Notre Dame era stato un disastro. Non si trovava nessuno. Per Giulietta e Romeo abbiamo avuto mi- gliaia di provini. La cosa più strana? Erano tutti cantanti giovanissimi, anche di quattordici anni. La più straordinaria? I loro curricula. In molti era scritto: dopo aver visto Notre Dame ho deciso di cantare». Ma, in fondo, i suoi aspiranti cantanti sono quelli che oggi non comprano più i dischi, che pretendono di scaricarli gratis dalla rete e che quindi la danneggiano. «È un periodo di passaggio. Chi ha la mia età è legato al formato. A noi piace avere in mano l’oggetto disco. I ragazzi se ne fregano. Anche nella musica vedo una transizione. I grandi vecchi spesso mi deludono e nella rabbia dei giovani non trovo verità. Hanno troppo benessere e, se non ce l’hanno, il vero scopo è quello di raggiungerlo. Noi ci battevamo per ottenere altre cose». Del suo progetto di eclissi totale ha già calcolato tempi, modi e luoghi? «Decidere di comporre opere popolari e di non interpretarle implica una sparizione. Già mi sto eclissando, quindi. Dove? Senz’altro a Dublino. Quando sono lì mi concentro bene, passo intere giornate a immaginare. In fondo l’arte è questo per me: ho sempre l’idea che gli uomini abbiano dei sogni, e che li vorrebbero vedere realizzati. Gli unici che riescano a dare forma ai sogni sono gli artisti. E quando un sogno, un pensiero, un’idea, si materializzano, che bella cosa. Quando, con due sole linee, un pittore ti fa capire un concetto, quando con poche note un compositore ti tocca il cuore, questo è l’artista. È tutto e niente. L’evoluzione del mondo passa attraverso l’arte. È un motore spirituale enorme. Penso a Mozart e Rossini, spesso lievi eppure così potenti. Dopo tanti drammi in musica, dopo Notre Dame e Giulietta e Romeo, mi piacerebbe fare qualcosa di più allegro. Un’opera buffa, per esempio. Anzi, lo decido in questo momento: credo proprio che la farò». ‘‘ LAURA PUTTI Repubblica Nazionale