Di seguito abbiamo voluto proporre questo racconto di caccia scritto da Amadeo Bilò, famoso cacciatore professionista argentino che narrando le sue imprese di caccia lo si può collocare come uno dei principali artefici della diffusione ed esaltazione delle doti del Dogo Argentino nella sua qualità di cane per “caza maior” per eccellenza. . Questo racconto vorremmo fungesse da monito per tutti coloro che pensano che andare a caccia con il Dogo sia una pratica semplice dove le eventuali inesperienze e improvvisazioni del cacciatore siano sopperite dal coraggio e dalla determinazione che caratterizzano questa splendida razza canina; caratteristica che purtroppo, a volte, porta il cane a pagare per l’imperizia del cacciatore. Pubblicato per la prima volta negli anni sessanta sulla rivista argentina “Diana”, dispensa consigli sull’addestramento per fini venatori a chi volesse utilizzare il Dogo per la caccia e inoltre narra le vicende del famoso Day de Trevelin ed il fratello Dele, ancora cuccioloni, impegnati nella loro prima vera battuta di caccia. Monteria con Dogo Argentini Di Amadeo Biló Una delle cose basilari che ho imparato, nell’attività di cacciatore, è quella di non sottovalutare mai la combattività del cinghiale. Sebbene il Dogo Argentino possieda per natura una ammirabile combattività unita ad una gran dose di coraggio, sono convinto che il preparare bene una muta facendo si che i suoi elementi siano perfettamente affiatati nella lotta, riesca ad annullare quasi totalmente i fattori che possono portare a spiacevoli incidenti. Ho imparato anche che è necessario offrire al Dogo, nella sua ultima fase di addestramento, cinghiali esperti e di buon volume, offrendogli così la possibilità di acquisire esperienza attraverso una lotta reale sempre sotto il controllo dell'addestratore; cosicché l’esemplare apprenda l'importanza di mantenersi a debita distanza dalla bocca del verro. E’ comunque complicato fare assimilare al Dogo queste nozioni. Infatti essendo per natura indifferente al pericolo e alle tremende ferite che riceve, lo metteranno spesso in svantaggio sotto questo aspetto. Punirlo non servirebbe a nulla perché il suo istinto è troppo forte, ma la cosa logica sarà tentare di fargli fare il maggior numero di esperienze col minimo dei rischi. Ai miei Dogo, come ad altri, sono capitati incidenti a causa della mia inesperienza e della fretta che fecero in modo che la mia muta si trovasse in condizioni svantaggiose. Grazie a Dio non ho mai subito perdite, ma ho dovuto preoccuparmi per la guarigione dei miei cani feriti, cosa che mi riuscì grazie alla forza e alla tempra della razza. Durante il processo di convalescenza mi sentii come unico responsabile per avere abusato inconsciamente delle qualità del Dogo i cui limiti può segnarli solo la morte. Per farvi comprendere meglio il mio pensiero vi racconterò di una battuta affrettata, realizzata per catturare vivo un cinghiale maschio medio, tra settanta o cento chili, per utilizzarlo in addestramento. Nel raccontarvi ciò rimarcherò quali furono i miei errori che, sebbene a quel tempo non riuscii a capire, mi servono ora come esperienza. Avevo finito, a quei tempi, l' addestramento di due Dogo di undici mesi di età, con pratica nella lotta con cinghiali di aggressività nella media, per la quale avevano dimostrato caratteristiche notevoli salvo un piccolo dettaglio al quale non diedi importanza. Uno dei due, il migliore, era più veloce dell'altro, avendo dimostrato questa condizione speciale superando sempre in corsa tutti gli altri esemplari con ampio distacco. Se avessi avuto esperienza in queste cose avrei seguito le regole di Agustín Nores Martinez la cui opinione dimenticai nella circostanza, cioè avrei dovuto cercare per quel Dogo un compagno con le stesse caratteristiche, cercando di non metterlo a rischio di un confronto solitario con la preda. L'uscita per cacciare la feci con questi due Dogo come integranti di una muta di quattro. Dopo un viaggio di oltre 300 chilometri e del riposo obbligato, il giorno dopo eravamo in condizione di cacciare. Selliamo di buon mattino i cavalli e prepariamo gli elementi necessari per legare la supposta preda e l’indispensabile per trascorrere qualche giorno all’aperto. Liberiamo i cani che inquieti sembravano indovinare il nostro destino, ed iniziammo la marcia per la polverosa strada che ci portava nei posti abituali del cinghiale. La muta, formata come dissi da quattro Dogo, aveva questo ordine di capacità: Pampero, di proprietà di Agustín Nores Martinez che me l'aveva lasciato dopo essere partito per un viaggio in Europa perchè non perdesse l’allenamento durante la sua lunga assenza. Questo Dogo era accreditato come il più esperto con il puma sul campo o in gabbia e ne aveva avuto la meglio molte volte, in alcune delle quali io avevo avuto il piacere di fare da spettatore. Anche i suoi attacchi contro il Cinghiale erano molto numerosi. La sua fama parlava ben chiaro sulle sue capacità. Era il più abile del gruppo. Day era il secondo. Esemplare di undici mesi, molto veloce nella corsa e rapido nell’azione. La fiducia che mi dava Pampero, giustificava il suo impiego a quell’età. Dele, fratello del precedente, un po' più basso di taglia, meno veloce, ma tremendamente efficace nella lotta, era il numero tre. Completava il gruppo Lenga una cagna figlia di uno dei migliori Dogo Argentini del mondo, Kob, che aveva ereditato le caratteristiche fondamentali da suo padre. Con la muta dinnanzi ai nostri cavalli ci stavamo avvicinando al posto dove dovevamo incontrare un uomo pratico nel seguire le tracce e conoscitore della zona. Il posto era vicino ad un guado del fiume il cui attraversamento era necessario. Il tracciatore era accompagnato da un levriero, o per meglio dire un esemplare incrociato con un levriero che, secondo il suo padrone, aveva un olfatto altamente allenato per il cinghiale. Avevamo bisogno non di un animale di tale caratteristica per la sua funzione, bensì per il suo latrato, poiché in caso di scontro avremmo avuto la possibilità di ubicarne rapidamente il luogo, come si sa, il Dogo è silenzioso, non abbaia sulla traccia ed è capace di morire nella lotta senza alcun rumore oltre a quello del suo respiro. Insieme al mio amico Roberto García completavamo il gruppo di tre cacciatori con cinque cani e riprendemmo la marcia in direzione della costa. Arrivammo sulla riva del fiume alla ricerca del guado che ci permettesse l’attraversamento. Il sole nascosto dietro le nuvole non ci era favorevole nel freddo regnante in quella mattina di giugno. Le piccole pozzanghere di acqua gelata suonavano sotto gli zoccoli dei cavalli. Iniziamo quel guado seguiti della nostra muta trascinata dalla corrente. Solo il "mezzo galgo" era un po restio ad entrare in acqua. Lo giustificammo, perché non era gradevole nuotare con tanto freddo. A volte i nostri cavalli perdevano l’appoggio e l'acqua ci arrivava alle gambe che cercavamo di mettere all’asciutto piegando le ginocchia sulle nostre cavalcature. Riusciamo ad arrivare sul bordo opposto, dove asciughiamo le nostre assiderate gambe. Rifocilliamo nuovamente la muta ed ordiniamo il piano di caccia. Qui commisi il mio primo sbaglio che, se avessimo trovato la preda, ci avrebbe lasciato in svantaggio. Roberto, accompagnato dall’esperto tracciatore, uscì insieme a "Lenga" e "Pampero" cercando tracce del cinghiale che, sicuramente al tramonto, avrebbe attraversato il fiume alla ricerca di boschi e della macchia che coprivano l’isolotto in cui probabilmente trovava rifugio l’animale. Da parte mia, uscii in direzione contraria con Day e Dele. Eravamo così in grado di circondare l'isolotto in tutto il suo perimetro, e ricongiungendoci, essere in grado di valutare le dimensioni dell’esemplare dal volume delle tracce trovate. Volemmo guadagnare tempo e dividemmo la muta e questo fu un errore. Da un qualunque cespuglio poteva sbucare all’improvviso un verro maschio di grandi dimensioni, avrebbe potuto ferire seriamente i miei cucciolonie e inoltre risultava così impossibile prendere l’animale vivo, poiché sarebbe stato necessario il nostro intervento armato per evitare mali maggiori. In una parola, sarebbe fallito il nostro intento. Per fortuna, ciò non successe. Malgrado andammo molto vicino a tale possibilità. Quasi alle tre del pomeriggio e quando lo stomaco reclamava la nostra attenzione, trovai una traccia di cinghiale abbastanza grande. Per mia gioia la traccia era fresca, poiché la brina del mattino era sotto l’impronta dell’animale uscito dall’acqua alla ricerca di riparo nel centro dell'isola. Le piccole pozzanghere che riempivano i bordi della traccia ci segnavano il suo passaggio come il suo ruzzolone in un cespuglio dove si sentiva ancora il suo forte odore. Seguivo il passo guardando sempre sul fango tentando di trovare tracce d’entrata nella macchia, ma trovai solo uscite. Proseguendo la marcia non tardai ad incontrare i mie compagni d’avventura. Essi avevano trovato tracce anche nella sponda opposta. Orme grandi benché vecchie perché lasciate il giorno precedente. Pertanto, per nostra fortuna, l'animale di cui avevo visto le impronte, stava ancora nell'isola. Senza accendere il fuoco, ma solo con insaccato e pane, ingannammo lo stomaco. Sistemiamo le cavalcature, tutto nel più assoluto silenzio e torniamo in direzione delle tracce. Una volta sul posto cominciamo a seguirle. Il cinghiale non sembrava essere molto grande forse raggiungeva i 100 chili, ma evidentemente, conosceva il suo mestiere di fuggiasco. Era entrato in un grosso canale pieno d’acqua attraversandolo e cambiando direzione con il proposito di depistarci. Il canale aveva pareti di quasi tre metri di altezza, quasi impossibili da scalare. Lo seguimmo per poter continuare il pedinamento. Continuiamo a seguire il canale per quasi una lega fino ad arrivare a 300 metri da una macchia, dove moriva il canale. Per quella direzione andavano le orme del nostro cinghiale, e si avvicinava la fine del pomeriggio. Controllammo il terreno nella direzione delle impronte e ci scoraggiammo un po' notando che finivano dove iniziavano cespugli molto fitti che ostacolavano la tracciatura. Di fronte avevamo due boschetti. Uno grande sulla destra ed un altro di minor dimensioni alla sinistra. Probabilmente nel primo si trovava già il cinghiale allertato dal vento soave che ci era sfavorevole. I cespugli fitti della macchia più grande coprivano una porzione di terreno di più di trecento metri di lunghezza e qualcosa in meno in larghezza. Il boschetto piccolo copriva una superficie di venti metri per dieci. Il tracciatore indica che il suo cane tira in direzione dei cespugli grandi. Roberto di sua iniziativa ed insieme ai Dogo vi si dirige. Rimango per un attimo disorientato, mi limito a richiamare Day già davanti al gruppo. Senza pensare lo dirigo, con il vento a favore, a poca distanza dal boschetto piccolo. In un attimo il cane sente l’odore del selvatico e piomba nel boschetto. Le mie grida e la mia corsa dietro a Day allertarono il resto della muta che reagì più rapidamente di Roberto ed il tracciatore. Ma erano oramai a più di 200 metri. Nel lasso di tempo necessario per raggiungerlo il mio buon Day poteva essere ferito seriamente. Mi maledissi intimamente per la mia incoscienza. Arrivai col mio cavallo di corsa sul margine del bosco. Sentii un lamento spento che mi gelò il sangue. Era Day, già in lotta col cinghiale, solo, senza nessun aiuto oltre ai suoi undici mesi di età ed il suo tremendo coraggio. Impaurito, scesi dal cavallo alla ricerca del mio Dogo. Quello che vidi rimarrà per molto tempo impresso nella mia memoria. Magari è quel ricordo che mi obbliga a guardare costantemente il mio Day con un'ammirazione infinita. Il cinghiale, nascosto in un anfratto del terreno, offriva al Dogo solo la sua testa “armata”, Day l'aveva afferrato all'orecchio e tirava con forza per farlo uscire dalla sua tana, mentre riceveva morsi nel petto, sul collo e alla spalla. Il sangue bagnava il suo manto bianco gocciolando al suolo. Il cinghiale lanciava sbuffi impressionanti. Quando alzai la rivoltella per ammazzarlo, sentii un colpo da dietro contro le gambe che mi fece cadere a terra, morto dallo spavento. Grazie a Dio non era un altro cinghiale, bensì Pampero che arrivava. Me lo confermarono Dele e Lenga che mi passarono sopra, lasciandomi senza gli occhiali. In mezzo alla mia miopia, riuscii ad ascoltare Roberto che mi domandava se stavo bene e senza aspettare risposta arrivò al posto di combattimento con la macchina fotografica in piena azione. Pampero e Day tirarono fuori con la forza il cinghiale assieme a Dele e Lenga. I dogo lo immobilizzarono e noi lo rovesciammo al suolo, gli legai la bocca e Roberto fece la stessa cosa con le zampe. Incominciammo a staccare i cani dalla preda che, indifferenti alle nostre manovre, continuavano a morderlo duramente. Cercai di staccare per primo Day, ma le mie mani si riempirono di sangue. Il mio nervosismo contagiò il mio cane che sembrava incredibilmente infuriato. Tranquillizzandolo con la voce riuscii a staccarlo e lo presi in braccio. I miei vestiti si tinsero di rosso. Lo lasciai infagottato ai piedi di un salice vicino e ritornai sul posto per staccare gli altri. Roberto aveva staccato già Pampero e Lenga, io finii con Dele e dopo li legammo tutti allo stesso salice per mezzo di un laccio. Non avevo il coraggio di andare da Day per controllarne le ferite. Mi immaginavo già la quantità e la gravità di ferite che poteva avere e mi ritenevo colpevole della brutta organizzazione della cattura, evitavo le spiegazioni di Roberto che, con buona volontà, voleva giustificarmi incolpando il tracciatore. Arrivai vicino a Day. Era coricato, stava leccandosi le ferite. Sentendomi vicino, si alzò accusando dolore alla zampa anteriore sinistra. Muoveva la coda, felice di sentirmi vicino, allungando la testa per ricevere le carezze che conosceva, indifferente al dolore, non dando importanza all’accaduto. Lo coricai. Sommessamente si lasciò controllare. Avevo immaginato delle brutte ferite ma non credevo che fossero così gravi. Per un momento pensai che Day non avrebbe mai più cacciato. Il cinghiale lo aveva colpito duramente. Quello che riuscivo a vedere era, probabilmente, il primo morso ricevuto. Contrariamente a quello che suppone la maggioranza della gente, il cinghiale non morde di fianco usando i canini. Lo fa quasi sempre frontalmente, con un angolo di quarantacinque gradi, utilizzando le difese più sviluppate. Ha, in questa tattica, un potere di penetrazione straordinario. Day venne morso nella punta della spalla sinistra. I denti del cinghiale arrivarono a toccargli l'osso, strappandogli carne e pelle, tutto d'un colpo. Il buco che aveva lasciato, era tremendo, grande quanto il palmo di una mano. Si poteva notare perfettamente la formazione muscolare interna dell'animale. Simile ferita ci sprofondò nella disperazione. Il sangue che perdeva, lavava tutta la sua zampa ed al contatto si congelava in una massa oscura e inerme. Il mio occorrente per pronto soccorso poco serviva in questo caso, perché non potevo riempire un simile buco e nemmeno allungare la pelle. Cercai di fermare l'emorragia e dopo procedetti a cucire gli altri tagli, otto in totale, che adornavano il suo petto e il collo. Ci limitammo ad aspettare i risultati del trattamento. Dopo controllammo anche il resto della muta che, fortunatamente, non presentava ferite. Controllammo anche il cinghiale che si rigirò furioso sentendoci vicino. Anche egli era ferito, specialmente nell'orecchio presogli da Day. Lo curammo bene e lo coprimmo con coperte per evitare che si muovesse troppo. La notte si avvicinava. Era impossibile attraversare nuovamente il fiume. Saremmo arrivati troppo tardi e siccome non c'era luna, non potevamo calcolare esattamente il guado, correndo il rischio di essere trascinati dalla corrente. Decidiamo di passare la notte nel campo. Accendemmo un fuoco per scaldarci, il freddo aumentava. Incominciava a gelare. Dissellando, cominciamo a preparare il necessario. Day, intanto, continuava a perdere sangue, ed io le speranze di salvarlo. Aveva la zampa anteriore quasi immobilizzata. Ogni volta mi convincevo più di che se fosse sopravissuto, non avrebbe potuto recuperare mai i muscoli che gli aveva strappato il cinghiale con il suo morso. Senza volerlo, in un istante di fretta e mancanza di organizzazione, avevo perduto un esemplare eccellente. Mangiammo in silenzio filetto alla griglia, accompagnato da vino e pane. La tristezza era condivisa anche da Roberto che amava molto Day. Se nei nostri ricordi di caccia esistevano altre notti tristi, credo che nessuna poteva paragonarsi a quella. Aumentava il freddo, avvicinai i cani a Day e mi coricai tra essi, cercando di trasmettergli un po' di calore. Roberto aumentò il fuoco che rimase acceso tutta la notte. Così ci sorprese la mattina, che ci permise di contemplare la natura circostante imbiancata per la gelata. Eravamo infreddoliti ma, grazie a Dio, il mio dogo era vivo. Di tanto in tanto il cinghiale emetteva qualche sbuffo e dalle sue coperte usciva un filo di vapore che si alzava nell'aria. Day, coricato, rimaneva quieto. Lo copriamo con altre coperte e l'avviciniamo più al fuoco. Pampero appoggiava su di lui la testa, tentando di restituirgli il caldo che fuggiva dalla sua ferita. Verso le dieci selliamo i cavalli. La ferita di Day era uguale, ma almeno aveva cessato di sanguinare. Alzandolo gli rimase penzoloni una massa sanguinante che supponemmo fosse carne. Era, in realtà, sangue coagulato che tagliammo con un coltello. Prepariamo il ritorno. Prima carichiamo il cinghiale sul cavallo del tracciatore che iniziò la marcia sottomettendo l'inquieta bestia. Caricai nel mio cavallo Day che non ne voleva sapere di restare fermo. Arriviamo al fiume avvolto in una tenda di vapore, provocato dalla gelata che si andava alzando. Fu un guado difficile. L'acqua ci lavò un'altra volta le gambe col suo freddo glaciale. La nostra preoccupazione ci rese indifferenti. Se qualcuno sentì la crudezza del clima non fece di ciò alcuna menzione. Arriviamo alla base verso le 4 del pomeriggio. Roberto si alternò col tracciatore per sistemare il cinghiale che si rigirava continuamente. Sistemiamo anche i dogo, specialmente Day, dentro l'estancia. Indossammo vestiti asciutti e dopo i saluti, partiamo in velocità per casa dove arrivammo già di buon mattino. Sistemiamo i cani nei loro canili ed il cinghiale nel recinto che avevamo preparato. Day lo portammo dentro casa e mentre riceveva gli sguardi di ammirazione della mia gente, chiamammo subito un veterinario. Quando arrivò e dopo averlo visitato, le sue parole ci tranquillizzarono. Day si sarebbe rimesso totalmente. A poco a poco si sarebbero riformati nuovi tessuti muscolari riempendo nuovamente quel buco impressionante. Day, effettivamente, si riprese. Chi vide la ferita tremenda che subì, non la dimenticherà mai, né arriverà a spiegarsi come sopportò tale punizione senza lasciare la sua preda. Era poco più di un cucciolo, ma possedeva già il coraggio e tutte le eccellenti qualità della sua razza, comprovato da ciò che era successo. Ci permise di imparare cose fondamentali, imponendoci da allora, un comportamento più ragionevole e sensato. Se avessi operato più saggiamente durante la battuta di caccia non sarebbe successo quello che sopportò il mio dogo. Day pagò, con le sue ferite, la nostra indisciplina e versò il suo sangue solo per la nostra fretta. Nel momento in cui il dubbio mi assalì, quando richiamai Day per controllare il bosco piccolo, mi sbagliai chiaramente. La maniera di agire era un’altra. Bisognava richiamare tutta la muta, seguendo i passi del tracciatore e di Roberto. Cioè, mantenendo tutta la muta insieme. Ci sbagliammo anche quando attraversammo il fiume al nostro arrivo. Si divise la muta "per guadagnare tempo", questo non ha senso. Il tempo non ha valore quando si rischia la vita del tuo cane. A causa della mia inesperienza portai allo sbaraglio i miei dogo cuccioli, quelli che senza l’intervento puntuale di Pampero avrebbero potuto subire serie ferite o peggio essere uccisi. Il fattore sorpresa è fondamentale in queste azioni. Il cinghiale può stare dove meno lo aspetti o trovarsi in compagnia. È fondamentale mantenersi uniti durante la cerca onde evitare che il cacciatore si trovi senza cani adeguati al momento del bisogno, l'azione può finire in un vero massacro dentro la macchia. Quando non si usano Dogo Argentini, il cinghiale che non è bloccato ma solo stuzzicato, si trasforma in padrone della situazione. Il cavallo che monta il cacciatore lo comprende e tenta di mantenere una prudente distanza sbuffando nervosamente. Conosco più di un caso dove il cacciatore cercò di richiamare i suoi cani, confuso nella baraonda della lite che si sviluppa sotto uno spessore impenetrabile di fitta vegetazione che, a volte, raggiunge tale altezza che copre la nostra cavalcatura. Chi pensa di poter vedere un cinghiale in quelle condizioni si sbaglia. Sentirà il rumore, l'immaginerà o noterà un’ombra che passa sotto il cavallo senza però vederlo. Rischiando di essere disarcionato dal proprio cavallo, vivrà una sensazione di terrore che difficilmente dimenticherà. In questi posti, la presa del cinghiale è cosa seria. I cani comuni rimangono uccisi con facilità, i cavalli tagliati, il cacciatore disorientato, senza sapere dove sparare e molto propenso a confondere i cani con il suo nervosismo. La gente del posto non si arrischia facilmente ad entrare nella macchia di questo tipo. Non si vede mai esattamente quello che succede, anche se si è a pochi centimetri dell'azione; a meno che non si usino i Dogo Argentini. Con un'altra razza è inutile tentare. Si può riuscire a catturare piccoli cinghiali o se ne cattura qualcuno di grandi dimensioni ad un elevato costo di sangue e tempo. Il mio errore, nei confronti di Day significò per me una tremenda amarezza. Se Pampero l’avesse aiutato da principio, sarebbe successa un'altra cosa e sicuramente questo racconto non sarebbe stato necessario. Ogni volta che entriamo in una folta macchia ci rinfreschiamo la memoria guardando Day. Il suo petto porta una medaglia incancellabile. E’ il prezzo della nostra fretta. Il suo sangue versato durante chilometri che sembravano interminabili ci insegna, da allora, la disciplina del “Saper Cacciare”. SI RINGRAZIA ANDREA PANCALDI PER LA TRADUZIONE E LA CONCESSIONE!