Gabriella Grieco
LA MORTE È UN’OPZIONE ACCETTABILE
Ai miei cari, a due e quattro zampe
Prologo
25 giugno 2005
Era una bella mattina di inizio estate, piacevolmente ventilata. Per tutto il tempo il sole era apparso e scomparso tra le
nuvole, creando giochi di ombre e chiaroscuri, ma la temperatura si era mantenuta elevata nonostante il vento di terra
che giungeva fresco dall’interno.
La città, più lunga che larga, si stendeva sulla costa per tutta
la sua lunghezza. Era come una ragazza addormentata, la testa incoronata di aspre rupi a picco sul mare, i piedi affondati
nella scura sabbia lavica delle spiagge, tutto il corpo accarezzato dalle onde della risacca e appoggiato di schiena alle
colline che si tingevano di blu all’orizzonte.
Tre persone avanzavano sullo stretto marciapiede che correva parallelo al lungomare: lei, corti capelli neri, minuta ma
con una bella pancia tonda da gravidanza inoltrata, camminava con aria serena e soddisfatta; lui, parecchio più alto di lei,
con le spalle leggermente curve e lo sguardo mite, l’affiancava
abbracciandola; la madre del ragazzo, anche lei alta, magra,
con lunghi capelli ramati, posava occhi colmi d’affetto ora
sull’uno e ora sull’altra.
Passeggiare era stato molto piacevole, ma la giovane donna
cominciava a essere stanca. Mentre camminavano alzò lo
sguardo sul compagno:
«Vuoi andare a vedere se è arrivata la carrozzina per il
bimbo?» chiese. «Noi intanto compriamo una brioche e ci
sediamo a mangiarla su una panchina.»
Fece una smorfietta colpevole, poi si guardò la pancia. Giusto pochi giorni prima la dottoressa Savinelli l’aveva rimproverata perché aveva messo su troppo peso.
«E dai, con la camminata di oggi le avrò pur bruciate le calorie di una brioscina! Prenderò la più piccola, promesso!»
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disse al ragazzo che la stava fissando con aria di rimprovero.
La donna più anziana intervenne prima che il figlio potesse
protestare:
«Stai tranquillo, ne mangiamo una in due. Tu vai pure.»
Lui lanciò un’occhiata d’intesa alla madre e indicando con
la mano la panchina ombreggiata al di là della strada disse:
«D’accordo, ci vediamo lì tra un quarto d’ora.»
«Bacetto!» ordinò la ragazza giocando a fare la bambina.
«Ma dai, il negozio è qui vicino, farò in un attimo» protestò lui indietreggiando, ma arrendendosi subito dopo di fronte
alla sua faccetta triste. Schioccò un rapido bacio sulla guancia
e aggiunse:
«Adesso andate o si farà tardi.»
Si allontanò a passo tranquillo mentre le due donne entravano nel bar poco distante, uscendone in meno di due minuti
con un sacchetto di carta. Si fermarono sul ciglio del marciapiede per attraversare. Il flusso di macchine era intenso, ma
non caotico.
All’improvviso accadde qualcosa. Nell’aria risuonarono prima delle grida, poi un tonfo sordo, infine uno schianto, e in
pochi secondi due corpi erano a terra, storti come pupazzi
abbandonati. Una grossa autovettura si era accartocciata
contro una delle palme che delimitavano la strada, un uomo
sospeso nel mezzo – dentro e fuori dalla macchina. Il sangue
in terra e sul parabrezza sembrava troppo poco per tutto quel
disastro.
Lui, la mano poggiata sulla maniglia della porta, il sorriso
della commessa già pronto ad accoglierlo, sentì il fracasso
delle lamiere, si voltò e si mise a correre verso la fonte del
rumore, terrorizzato all’idea che fossero coinvolte proprio
loro.
Non riuscì ad arrivare…
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Capitolo 1
Il reparto delle ombre
9 gennaio 2007
L’infermiera Antonella De Santis era appena arrivata per il
suo turno di assistenza ai malati.
Molti colleghi non apprezzavano quel reparto, lei invece
amava le sale tranquille e i pazienti silenziosi. Aveva sempre
avuto difficoltà a relazionarsi con gli altri, quindi giudicava
oltremodo piacevole poter interagire con individui in coma:
nessuno di loro l’avrebbe mai messa in imbarazzo con uno
sguardo cattivo o una frase poco felice. Donava la sua competenza e il suo affetto in maniera del tutto particolare, senza
mettere in gioco i sentimenti. Controllava i parametri, lavava i
pazienti, li massaggiava, muoveva loro gli arti per stimolare
i muscoli ed evitare che si atrofizzassero, e nel frattempo
chiacchierava a ruota libera, descrivendo la sua giornata, i
piccoli atti quotidiani, rivolgendo domande che – lo sapeva
bene – non avrebbero mai ricevuto risposte.
Aveva due pazienti preferiti, tra gli altri. Il primo era un ragazzo di neanche vent’anni che aveva concluso in ospedale
la sua prima uscita con la macchina nuova. Era un gran bel
ragazzo o meglio, lo era stato prima che una cicatrice gli deturpasse il viso. Padre e madre non si davano pace.
«Ma non è stata colpa tua» diceva spesso Antonella mentre
gli pettinava i capelli. Ormai nessuno si meravigliava più nel
sentirla dialogare coi pazienti. «Tu glielo diresti se potessi,
vero? Andavi piano, non sei uno di quei fanatici che giocano
a fare i duri. E la tua macchina poi! Mica una di quelle sportive, che come schiacci il pedale schizzano! Non è stata colpa
tua, semmai di quell’ubriaco che ti è venuto addosso a tutta
velocità e tu, ovvio, eri troppo inesperto, hai avuto paura, hai
sbagliato a sterzare e invece di scansarti ti sei fatto beccare in
pieno, poverino.»
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L’altra paziente era Isabella, una donna sui quarantacinque
anni dai lineamenti fini, il naso sottile e sempre più pronunciato per via del viso che si andava affilando col trascorrere
dei mesi, i lunghi capelli ramati ormai sul punto di ingrigirsi.
Eppure, quando il sole li colpiva di taglio filtrando attraverso
la finestra vicina, sembravano brillare di nuovo. Gli altri
infermieri avrebbero voluto tagliarli, non era semplice tenere in ordine dei capelli così lunghi in una paziente in quelle
condizioni, ma Antonella se ne era assunta la cura esclusiva
e con grande pazienza li spettinava per poi spazzolarli con
garbo. Infine li intrecciava per tenerli in ordine.
«Erano di un colore così bello quando sei arrivata qui, da
ragazza dovevi essere uno splendore! Però non vuoi che te li
taglino, vero? Sì, ti piacciono anche grigi, sono così… raffinati, eleganti. Se dovesse venire qualcuno già avrebbe difficoltà a riconoscerti: smagrita, pallida, coi capelli grigi. Coi
capelli corti non ti riconoscerebbe di certo. Tu li hai sempre
portati lunghi, vero? Non sei tipo da taglio sbarazzino, sei
troppo seria. Peccato che non venga mai nessuno a trovarti.»
Durante i primi mesi della sua degenza erano venute alcune persone, in realtà, perlopiù colleghi universitari e pochi
amici, ma non è facile far visita a un corpo inerte, parlare a
chi non risponde. Nel giro di pochissimo tempo le visite si
erano prima diradate e poi cessate del tutto. Un parente c’era,
ma nessuno l’aveva mai visto. Si trattava del figlio. Qualcuno aveva messo in giro la voce che fosse un poco di buono,
un carcerato, un tossicodipendente che aveva ammazzato due
persone durante una rapina finita male.
L’infermiera non ci poteva credere, una persona così fine,
così signorile, una professoressa universitaria (due lauree, mica una!) poteva mai avere un figlio del genere?
«Ne avrai passati di brutti momenti, con un ragazzo così. Ma
sono sicura che se quella macchina non ti avesse investito…
gli avresti impedito di ridursi in quel modo, dico bene?»
«Infermiera De Santis.»
Il richiamo la riscosse dalle sue fantasticherie. Era il dottor
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Melillo, neurologo del reparto, che passava per il giro pomeridiano.
«Buonasera, dottore. I pazienti sono stabili.»
«Li ha già controllati? Non è che si è fermata a parlare con i
suoi amici e ha dimenticato gli altri due?»
Il dottore la prendeva sempre in giro per quell’abitudine, ma
sapeva che era una persona coscienziosa e affidabile.
«Sì, certo, già fatto. Poi, non appena lei va via…»
«Lo so, lo so» la interruppe bonariamente. «Non appena volto
le spalle lei riprende a chiacchierare!»
Antonella arrossì mentre rispondeva:
«Sa benissimo che compio il mio dovere anche quando parlo
con loro.»
«Mia cara Antonella, come è facile metterla in imbarazzo!»
protestò l’altro in tono amichevole. «Non me ne voglia, a me
piace scherzare con lei proprio perché conosco la sua serietà
professionale.»
Il dottor Melillo sorrise, quindi riprese il giro in silenzio,
compiendo tutti i controlli di routine e senza registrare alcuna novità. Era proprio quello il dramma del reparto neurovegetativo: la totale mancanza di mutamenti. Le persone che
arrivavano avevano poche speranze di riprendersi. Certo, c’era
sempre la possibilità di un risveglio, ma piuttosto remota. Negli ultimi cinque anni nessuno era uscito sui suoi piedi da
quella stanza, quella in cui prestava servizio Antonella. Nelle
camere coi pazienti in coma superficiale o indotto farmacologicamente avvenivano spesso cambiamenti di condizione,
ma dal coma profondo ben pochi si svegliavano. Più spesso
si finiva per andar via al momento del decesso. Era molto
triste, e anche per questo in genere gli infermieri resistevano
per poco tempo. Un paio d’anni al massimo, ecco quanto
duravano, poi l’angoscia di prestare le cure a pazienti insensibili, immobili nei loro letti, incapaci di sorridere o ringraziare, li spingeva a chiedere il trasferimento. Solo lei prestava
servizio da un lustro e i colleghi si domandavano quanto ancora avrebbe resistito.
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Antonella però non dava segni di cedimento. A chi le chiedeva come facesse a trovare la forza di recarsi ogni giorno in
quella sorta di anticamera dell’obitorio, Antonella rispondeva sempre che stava aspettando che almeno uno di loro le
rispondesse. Ma non era vero, non era questo che avrebbe
dato un senso al suo lavoro. In realtà ogni giorno trascorso in
quella placida routine quietava la sua coscienza, a differenza
di altri non dimenticava mai di avere di fronte degli esseri
umani sfortunati e si adoperava al meglio per loro.
Quel giorno non era diverso dagli altri. Tornata sola, andò
a sedersi sulla poltroncina collocata nella saletta adiacente,
sfogliando un giornale in attesa del fisioterapista. Di norma
avrebbero dovuto essere costantemente presenti due infermieri, uno ogni due pazienti, ma gli ultimi tagli al budget avevano costretto l’ospedale a ridimensionare gli effettivi, per cui
veniva garantita la presenza continuativa di un infermiere col
supporto temporaneo del fisioterapista per le specifiche esigenze di riabilitazione.
Quei momenti, nell’intervallo tra la visita del medico e l’arrivo dello specialista, le erano particolarmente graditi. Un piacevole silenzio l’avvolgeva, a malapena disturbato dal ronzio
dei macchinari in funzione, apparecchiature che garantivano
il respiro e il nutrimento ai pazienti. Nessun altro suono
nella stanza, mentre la luce del giorno lentamente sfumava
nell’oscurità.
Sebbene fioco e incerto, dopo due anni di silenzio un mormorio improvviso giunse dal secondo letto a destra, quello vicino alla finestra.
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Capitolo 2
Ritorno alla vita
21 marzo 2009
Il primo giorno completamente suo! Aveva deciso da tempo
di riprendere in mano la sua vita con l’inizio della buona
stagione. In quella che lei definiva la vita precedente, le era
sempre piaciuta la primavera. Anche adesso, seppure con
prospettive diverse, rimaneva la sua stagione preferita.
Erano stati due anni interminabili. Non ricordava quasi nulla
del suo risveglio, solo una vaga idea di spaesamento e solitudine. Aveva aperto gli occhi in quello che aveva poi capito
essere un ospedale, senza sapere nulla di sé. La sua unica
consapevolezza era quella immanente, vissuta attimo per
attimo. Pochi istanti alla volta, frammentati da lunghe assenze, man mano accalcati in una memoria ogni giorno più
cosciente fino al completo ripristinarsi dei ricordi, alla disperata scoperta dell’accaduto.
Era sola. E da sola affrontò il lungo calvario della riabilitazione, gesti, parole e pensieri riacquistati lentamente, con
doloroso affanno.
Di questi due anni la cosa che più le era rimasta impressa
era la fatica: la fatica necessaria alla sua mente per risvegliarsi e ai suoi arti per riacquistare il pieno controllo del
movimento; la fatica di ricordare chi era e cosa faceva, chi
amava e chi le era indifferente; e connesso alla fatica, il dolore fisico e mentale.
Tutto aveva avuto un nuovo inizio da lì, da uno sguardo sul
mondo, occhi aperti a fissare il soffitto di una camera d’ospedale, dopo l’annullamento di sé concesso dal coma. Se avesse potuto scegliere, se qualcuno le avesse chiesto “pillola rossa o pillola blu?”, lei avrebbe certamente preso quella blu. Si
sarebbe riaddormentata, e fine della storia.
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Non era successo. Si era svegliata. E dopo il dolore, dopo lo
sconforto, attraverso la lenta risalita alla normalità era giunta
la decisione.
Avrebbe ottenuto giustizia.
All’inizio aveva lavorato quasi esclusivamente sulla ripresa
fisica, aiutata dai vari fisioterapisti e logopedisti, tutte persone
gentili e disponibili, indispensabili al corpo ma inutili alla
sua mente man mano che questa riacquistava memoria. Adesso occorreva lavorare su un altro fronte.
Ore sette e trenta, la suoneria della piccola sveglia emise solo un breve trillo prima che la sua mano la spegnesse, sfiorandola. Fu subito in piedi. Aveva tante cose da fare.
Nei lunghi mesi trascorsi in terapia aveva programmato i
passi necessari da compiere. Prima di tutto doveva sapere
con precisione cosa era successo. Doveva capire perché la
sua vita era andata in pezzi. La conoscenza era fondamentale, poiché fino a quel momento era riuscita a ottenere solo
frammenti dell’accaduto.
Camminò allora per strade mai percorse, visitò edifici ignoti,
frequentò persone che non aveva mai incontrato prima. Lesse vecchi articoli di giornale, resoconti morbosi e macabri
redatti per soddisfare l’insana curiosità della gente.
E adesso anche la sua.
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Capitolo 3
Passi necessari
Giugno 2009
Primo passo, la scoperta.
Le occorreva un esperto, ma a chi chiedere consiglio? Non
voleva rivolgersi ai suoi colleghi dell’Università, era convinta
che avrebbero solo tentato di dissuaderla, senza peraltro suggerirle nessun nome utile.
Un investigatore privato. O forse un avvocato. No, in questo
momento non le servivano consigli legali, bensì informazioni approfondite. Non aveva ottenuto grandi risultati con le sue
forze, ma almeno adesso sapeva cosa chiedere.
Aveva cercato un nome, uno qualsiasi, in internet. Una volta
avrebbe usato le Pagine Gialle, aveva un’età in cui l’utilizzo
di certi oggetti era ancora passato prossimo, ma da tempo
ormai si era modernizzata pure lei. La ricerca sul web era più
rapida, accurata e vasta. E in effetti anche più semplice che
sulle Pagine Gialle.
Non voleva un investigatore squallido, di quelli che tirano
a campare lucrando su vicende penose, le sarebbe piaciuto
uno di quei personaggi da romanzo, seri, corretti, molto professionali. Ma tant’è, occorre prendere dalla vita ciò che la
vita offre. Si era resa conto di non saper giudicare, dalle pagine pubblicitarie dei diversi siti, quale differenza ci fosse
tra i vari professionisti. Non erano poi molti, a dire il vero, e
offrivano più o meno i medesimi servizi. Aveva finito col
puntare il dito a caso, basandosi sui criteri della vicinanza e
della disponibilità immediata.
Al terzo tentativo aveva trovato un nome che sembrava rispondere alle sue esigenze. L’investigatore che aveva assunto
non si era mostrato neanche troppo sorpreso per la richiesta
avanzata e in un tempo ragionevolmente breve le aveva consegnato il resoconto di quanto era accaduto quattro anni prima,
insieme ai nomi che voleva.
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Secondo passo, la chiarificazione.
Dopo aver reperito le corrette informazioni e assolutamente
certa dei suoi argomenti, si era infine avviata con passo ormai
leggero da colui che avrebbe dovuto ascoltarla e porre rimedio. Invece era tornata a casa sentendosi tradita.
Le parole di quell’uomo continuavano a girarle in testa:
«È inutile, si rassegni. Chi vuole che le creda? A che pro
rivangare un passato che tutti hanno dimenticato? Dimentichi
anche lei, tanto…»
Forse era stata la coscienza sporca a parlare per l’avvocato,
la consapevolezza di non avere neanche lontanamente compiuto
il suo dovere. Oppure il desiderio di dimenticare quello spiacevole episodio. O forse l’uomo era semplicemente convinto
che suo figlio fosse davvero colpevole. Quel che è certo, si era
rifiutato di aiutarla.
Rientrando in casa chiuse la porta alle sue spalle e strinse con
forza il fascicolo che aveva preparato. “Se non vogliono
ascoltarmi” pensò arrabbiata, “posso comunque costringerli”.
Terzo passo, la ricerca.
L’investigatore Biagio Pagliaro era un uomo avido, insoddisfatto del suo lavoro e della sua vita. Da ragazzino voleva
entrare in polizia, attratto dal connubio tra potere e legalità
tipico delle forze dell’ordine, tuttavia non aveva la disciplina
necessaria per cominciare dal basso e obbedire agli ordini.
Nella sua vita aveva lasciato tutto a metà: voleva fare il poliziotto, ma dopo aver prestato il servizio di leva nell’Arma aveva lasciato perdere; aveva frequentato l’università, facoltà di
Giurisprudenza, ma non si era laureato, scoraggiato dalla
difficoltà di alcuni esami; aveva avuto un paio di ragazze,
ma non era mai stato seriamente intenzionato a impegnarsi e
le aveva mollate. Ora si ritrovava ad aver girato la boa dei
cinquant’anni da solo, senza famiglia, senza nessuno da poter chiamare davvero amico e con un lavoro che gli era venuto a noia. Gli piacevano solo i soldi, a prescindere dalla
loro provenienza. E adesso la strana tipa dell’altra volta si
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rifaceva viva, dopo tre mesi, con nuove richieste.
«I soldi non sono un problema» gli aveva risposto quando
lui aveva fatto presente la pericolosità e la natura poco lecita
dell’incarico, reclamando quindi un bel mucchietto di banconote.
Adorava quella frase!
La cosa più difficile era stata duplicare l’incartamento
conservato nell’archivio della polizia, ma “i soldi non sono un
problema” ed erano stati in due a guadagnarci, lui e lo sbirro
compiacente.
Lei ignorava se l’investigatore avesse avuto un pizzico di
umana comprensione nei suoi riguardi, o se avesse acconsentito per semplice avidità, però aveva svolto un buon lavoro. In
un paio di occasioni l’uomo era stato costretto a rasentare
l’illegalità, ma sostanziosi pagamenti avevano messo a tacere la sua e l’altrui coscienza.
Lo sapeva: il corruttore trova sempre il corruttibile, è solo
questione di prezzo.
Quarto passo, la preparazione.
Cinque mesi dopo aver ottenuto l’incartamento, la donna sostava di nuovo davanti al monitor del computer, in cerca di
aiuto e strategie. Indubbiamente internet era un’ottima fonte
di informazioni e materiale utile.
La sua azione prevedeva rimedi estremi per estremi mali e
nel web trovò un grande alleato. C’era tutto o quasi. Quello
che non aveva trovato in rete riuscì a procurarselo autonomamente. Era in possesso sia delle competenze tecniche necessarie alla preparazione degli elementi mancanti, sia del
luogo in cui metterli a punto grazie alle sue due lauree, una
in ingegneria biochimica e l’altra in elettronica: si trattava di
un piccolo laboratorio in cui lavorava un tempo per sporadiche forniture ad aziende specialistiche. I contatti con le
aziende erano cessati dal tempo dell’incidente, ma il laboratorio era suo – adiacente all’appartamento nel quale viveva – ed era rimasto intatto.
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I soldi non costituivano un problema, come ben sapeva
l’investigatore Pagliaro. Ne aveva a disposizione molti e molti
altri se li procurò vendendo tutti i suoi beni. Per quello che
aveva in programma, i beni materiali rappresentavano solo
un ostacolo.
Passò gli ultimi mesi a tagliare ogni legame residuo col
mondo. Fu semplice, dopotutto non intratteneva rapporti che
non fossero d’affari. Non ci sarebbe stato nessuno a preoccuparsi per lei.
Dopo aver venduto la casa si trasferì in un camper di seconda mano, con la sua nuova identità. Nulla la ricollegava
alla vita precedente.
Aveva solo un ultimo compito da adempiere prima di iniziare: andare al cimitero.
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Primo interludio
Una casa vuota
Dicembre 2008
Aveva tutto il tempo del mondo.
Era stata dimessa dall’ospedale, pronta a ultimare le terapie
in regime di Day Hospital.
Il Rettore della Facoltà era andato a trovarla. L’uomo era
stato molto gentile, molto corretto, ma le aveva fatto chiaramente capire che almeno per il momento non era il caso che
riprendesse l’insegnamento. Oh, certo, per il suo bene, per
consentirle una ripresa ottimale… ma non c’era anche un
certo imbarazzo nei suoi occhi, nel suo sguardo bruscamente
distolto dalla fotografia del figlio esposta con ostinato orgoglio sul marmo del caminetto? E non una domanda, non un
accenno a quanto era successo. Via, cancelliamo questo spiacevole episodio, ché prima verrà dimenticato prima potrà
tornare alla sua vita di sempre.
La visita si era conclusa con una certa freddezza. Aveva visto il Magnifico Rettore uscire dal cancello, certa che sarebbe stata l’ultima volta. La lettera di rinuncia alla cattedra
era già pronta sulla scrivania.
Aveva tutto il tempo del mondo… ma non aveva tempo da
perdere.
Tre anni e mezzo erano trascorsi dall’incidente, e più tempo
passava più difficile sarebbe stato ottenere dei risultati.
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Capitolo 4
Quinto passo, la costrizione
21 maggio 2012, ore 8. 30
Finalmente era pronta.
La sede del commissariato si trovava in un piccolo palazzo
a forma di elle, con il lato più corto che guardava il mare e
quello più lungo, con ingresso separato sulla facciata principale, riservato al Palazzo di Città. Sebbene fosse maggio
inoltrato, a quell’ora del mattino faceva ancora fresco e la
lunga giacchetta di tela della donna, abbottonata quasi fino
al collo, non destava alcun sospetto.
Isabella salì i tre gradini di marmo del palazzo e varcò con
passo tranquillo l’ingresso del commissariato, rivolgendo un
sorriso al piantone di guardia. “Se ti rivolgi a qualcuno sorridendo in modo gentile”, pensava, “e avanzi con l’aria sicura
di chi sa dove andare, difficilmente lo invogli a fare domande”.
Il suo aspetto mite le faceva gioco, inoltre. Era soltanto una
donna di mezza età ancora piacente, vestita con un semplice
tailleur con pantalone e mocassini di pelle scamosciata.
Sapeva perfettamente come raggiungere la sua destinazione, nei mesi precedenti si era recata più volte, a vario titolo,
nell’edificio. Portava una borsa a zainetto sulle spalle, non
piccola ma nemmeno tanto grande da destare sospetti e spingere il piantone a controllare. Si sa, le donne mettono di tutto
nelle loro borse…
Per sua fortuna il commissariato non presentava rivelatori
di metallo agli ingressi per il pubblico.
Aveva anche pensato a soluzioni alternative, ma era evidente
che nessuno si aspettava che entrassero cittadini armati proprio lì, nel tempio dei custodi della Legge.
Salì la rampa di scale che la portò al primo piano, inoltrandosi
nel corridoio scarsamente affollato. Il suo obiettivo era la
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quarta e ultima porta prima dell’ascensore sulla destra. Una
targhetta di plastica avvitata sul legno recava la scritta “Ispettore Capo Lamberti”.
Aveva fatto carriera, in quei sette anni.
Portava al collo un piccolo registratore vocale, seminascosto dalla giacca. Velocemente lo accese. Era predisposto per
mettersi in funzione al suono della voce e per andare in standby dopo dieci secondi di silenzio.
Bussò alla porta e si affacciò restando sulla soglia.
«Permesso?»
«Prego.»
L’uomo seduto alla scrivania rispose senza alzare lo sguardo
dalle carte che aveva davanti.
Isabella entrò nell’ufficio. Era una stanza piccola, sulla destra una parete ingiallita recava un orologio da muro e il
cartello “vietato fumare”; lungo la parete di sinistra si incontrava per prima cosa un piccolo tavolo ingombro di carte e
faldoni, poi un’ampia scrivania occupata da un uomo intento
a leggere dei documenti. Sul fondo, una finestra si affacciava sul mare increspato.
L’uomo aveva un viso regolare e privo di tratti distintivi.
Era alto, lo si intuiva anche da seduto, ma il suo restava un
viso anonimo.
Isabella diede un opportuno colpetto di tosse e girò silenziosamente la chiave nella serratura, senza che il poliziotto – ancora a capo chino – si accorgesse di nulla. Subito dopo si
avvicinò alla scrivania e impugnò la Beretta semiautomatica
che portava appesa all’interno della giacca con una cinghietta di
pelle. Aveva studiato a lungo prima di scegliere quale arma
procurarsi, poi a casa si era allenata per verificarne maneggevolezza e impugnabilità. Non aveva mai posseduto una pistola, voleva essere certa di adoperare quella più adatta alla sua
mano e di acquisire la giusta confidenza. Esercitandosi in luoghi isolati era giunta al punto di riconoscerla come una sua
estensione: in questo modo avrebbe dimostrato di saperla
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usare e di non avere alcun timore nel farlo.
Non disse nulla, aspettando che il poliziotto la guardasse
per la prima volta.
«Prego, si sieda» disse lui mentre richiudeva la cartellina.
«Mi dica pure…»
Alzò finalmente lo sguardo e sobbalzò alla vista della pistola puntata contro di lui.
Isabella temeva che la sua voce tremasse. Nella sua vita
non aveva mai avuto a che fare con la violenza, per cui ora
interpretava un ruolo che non le era di certo congeniale, ma la
sua vita era profondamente cambiata e lei di sicuro non era
la stessa persona di sette anni prima. La voce le uscì aspra e
tagliente, persino tranquilla.
«Sta’ zitto e fai come ti dico.»
Anche la sua mano era ferma mentre reggeva l’arma.
Aggiunse:
«Alza le braccia e incrocia le mani dietro la nuca.»
«Cosa… cosa vuole?»
Il poliziotto era sconcertato, non avrebbe mai creduto possibile una cosa del genere lì, al commissariato. Era una squilibrata? Sembrava troppo calma. Una terrorista, allora?
Lei sembrò intercettare quelle riflessioni:
«Non muoverti e non parlare. Non pensare neppure.»
Sfilò lo zainetto dalla spalla, lo aprì con la mano libera e ne
tirò fuori un paio di manette e una fascia elastica per capelli.
Posò i due oggetti sul ripiano della scrivania.
«Prendi lentamente con la mano sinistra le manette e la fascia,
poi rimettiti nella posizione di prima, mani dietro la testa.»
Una volta che l’uomo ebbe eseguito gli ordini ingiunse ancora:
«Ora alzati in piedi e allontanati dalla sedia. Cammina lungo
la parete. Okay, fermo e faccia al muro.»
Stava bene attenta a tenersi a distanza dall’ispettore. Non aveva idea di come avrebbe potuto reagire e certo non era in
grado di sostenere uno scontro fisico. Per il momento l’uomo
sembrava accondiscendente, ma era logico pensare che stesse
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prendendo le misure per capire con chi avesse a che fare.
«Qualsiasi cosa abbia in mente» le disse mentre volgeva il
viso contro la parete, «sta commettendo una sciocchezza. Si
rende conto che siamo circondati da poliziotti e che non
appena capiranno cosa sta succedendo interverranno? Che
speranze crede di avere contro un intero commissariato? Le
spareranno senza esitare. Vuole forse morire così?»
Cercava di spaventarla, ma non ebbe successo.
«La morte è un’opzione prevista e accettabile» rispose lei
con gelida calma. «Ora inginocchiati.»
Alla sua esitazione nell’obbedire aggiunse:
«Posso anche spararti a una gamba e ottenere lo stesso risultato. Scegli tu.»
Il poliziotto iniziava ad avvertire l’approssimarsi della paura.
Non riusciva a catalogare la donna. La calma del suo tono di
voce contrastava con la pericolosità del suo comportamento.
Si inginocchiò.
«Allarga le gambe, sì, come nei film.»
Aveva preparato ogni parola, ogni mossa. Non poteva rischiare una reazione improvvisa. Conservare il controllo era fondamentale quanto tenere sotto tiro il prigioniero.
«Ora mettiti la fascia sul viso e copriti gli occhi.»
«Maledizione, ma che vuoi da me?» protestò mentre obbediva, conscio di consegnare la propria vita nelle mani di quella
pazza.
«Porta le braccia dietro la schiena e ammanettati. E stringi
bene!»
A casa aveva provato, si poteva fare.
Solo dopo che Lamberti si fu stretto le manette ai polsi, si
avvicinò per controllare. Appoggiò la canna della pistola sulla
sua nuca, vide le spalle dell’uomo contrarsi al tocco del metallo, e si chinò a esaminare i polsi. Come prevedibile, le
manette erano molto lente. Gliele strinse con forza senza
commentare.
«In piedi» ordinò. «Non ti muovere.»
Lo perquisì in cerca della pistola d’ordinanza.
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«Non sono armato. Quando sono in ufficio tengo la pistola
nella scrivania. Controlla pure se vuoi, sta nel primo cassetto.»
In effetti non aveva armi addosso, l’unico rigonfiamento
era riconducibile al cellulare, che lei prese e ripose nella tasca sinistra del suo pantalone. Poi Isabella indietreggiò fino
alla sedia su cui aveva posato lo zainetto, lo aprì e ne estrasse una cintura di tipo militare, alla quale aveva legato sei
piccole cariche esplosive e un ricevitore elettronico di impulsi.
Pose la cintura esplosiva sul ripiano, infilò nuovamente la mano nella borsa e prese una fascetta di plastica da cablaggio.
Tornò vicino al prigioniero ormai inoffensivo, lo afferrò per
un braccio e lo spintonò fino alla scrivania.
Lui tentò di farla ragionare:
«Senti, siamo ancora in tempo per tornare indietro. Facciamo finta che non sia successo nulla. Nessuno si è fatto male,
non è stato sparato nemmeno un colpo. No?»
«C’è una sedia dietro di te, siediti» gli intimò come se non
avesse sentito una parola. Lui obbedì in silenzio. Isabella si
portò alle sue spalle, infilò la fascetta tra le sbarre dello schienale e bloccò la catena delle manette. In questo modo l’uomo non poteva nemmeno alzarsi in piedi.
Si voltò verso la finestra. Per il momento non c’era nessuno
che potesse vedere cosa stava succedendo, ma non poteva
rischiare. Tirò giù le veneziane, girando le lamelle orizzontali
in modo che precludessero completamente la visuale della
stanza. Poi tornò vicino all’uomo legato, prese la cintura con
l’esplosivo e gliela passò attorno alla vita, serrandola ben
stretta sulla pancia.
Lamberti, ancora bendato, si agitò.
«Che stai facendo?» le chiese.
Lei lo ignorò. Prese dallo zainetto un oggetto dalla forma
sottile, lungo una decina di centimetri e simile a un accendino. Soltanto allora gli tolse la benda dagli occhi.
L’uomo valutò velocemente la situazione e deglutì due
volte prima di riuscire ad articolare una frase.
«Cristo santo, che cosa vuoi farmi?»
23
«Vedi questo arnese? È un detonatore a pressione o meglio,
a cessazione di pressione. Ora io lo collego elettronicamente
al ricevitore di impulsi che ho posizionato sulla cintura, in
questo modo.»
Premette il primo di due bottoncini, che si illuminò di una
lucina rossa. Impugnò bene lo strumento con la mano sinistra,
stringendolo fra le quattro dita.
«Poi schiaccio questo pulsante in cima al detonatore e…»
«No!» la interruppe spaventato Lamberti tentando inutilmente
di alzarsi. «Non lo fare!»
La luce rossa sul ricevitore prese a lampeggiare.
«Non temere, non è ancora giunto il momento» e gli mostrò
il detonatore, il pollice saldamente premuto sul pulsante.
«D’ora in poi, l’esplosivo brillerà solo se verrà meno la pressione del mio dito. L’idea me l’ha data un film che piaceva
tanto a mio figlio.»
Lo sguardo vagò per un breve attimo nel vuoto.
«Ti rendi conto di cosa significa, ispettore?»
«Sì, non sono un idiota. Se qualcuno fa irruzione, io sono
morto» rispose lui con voce tremante.
«Non solo questo. Pensaci bene. Se i tuoi colleghi mi dovessero sparare, e mi uccidessero sul colpo, il mio dito non sarebbe più in tensione e… boom! Se qualcuno avesse la bella
idea di usare un gas… stesso risultato. Boom. Capisci, occorre
un atto di volontà per mantenere schiacciato il pulsante.»
«Ma si può sapere che cazzo vuoi da me? Chi sei, una cazzo
di terrorista o cosa?»
«Voglio giustizia. E il turpiloquio non mi fa nessuna impressione.»
«Giustizia? Per cosa? Ma se neanche ti conosco!» esclamò
l’uomo con voce alterata dalla paura e dalla rabbia.
«Io sì» rispose lei fissandolo sprezzante negli occhi. «E
abbassa la voce, se non vuoi che qualcuno interrompa la nostra chiacchierata. Perché in quel caso…»
«Sì, lo so. Boom.»
«Già.»
24
Tranquilla, seduta alla scrivania al posto del poliziotto,
Isabella si accese una sigaretta. Sorrise tra sé, osservando il
cartello “vietato fumare” esposto sulla parete. Stava
commettendo un altro reato.
Silenzio. Lamberti ascoltava il ticchettio dell’orologio, riflettendo per cercare una via d’uscita da quella situazione,
ma più ci pensava più gli sembrava che la donna avesse preparato un ottimo piano. L’unica sua argomentazione, alquanto
patetica, era che sarebbero morti entrambi, ma questa evenienza non sembrava incuterle timore.
Lui ne aveva di paura invece, anche perché si rendeva
perfettamente conto che la faccenda, così come era messa,
non poteva finire che male, a meno di una resa. Se i colleghi
fossero stati costretti all’irruzione…
Voglio giustizia. Che diavolo intendeva dire? Lui era sicuro
di non averla mai incontrata, ma nel suo lavoro era facile
inimicarsi qualcuno. E cosa stava aspettando adesso? Perché
diavolo non avanzava le sue richieste? Decise di chiederglielo:
«Non dovresti dire cosa vuoi, adesso? Che so… centomila
euro, un elicottero, una pizza…»
Cercava di celare la paura dietro l’ironia.
«Centomila euro? Ritieni di valere tanto? Ti sopravvaluti» lo
apostrofò lei. «Non sottovalutare me, piuttosto, solo perché
non agisco come un duro di Hollywood o solo perché sono
una donna.»
Spense la sigaretta per terra, ormai i posacenere erano introvabili negli uffici pubblici. Infine rivelò la verità:
«Spiacente, non voglio soldi.»
Guardò l’ora. Mancava poco per l’entrata in scena del secondo attore.
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Capitolo 5
Cassandra
21 maggio 2012, ore 09. 45
Lo squillo del telefono risuonò puntuale nel bar alle 9.45,
come ogni mattina. L’anziano proprietario, una figura caratteristica del quartiere coi suoi imponenti baffoni brizzolati
e la pancia altrettanto imponente, rispose quasi subito.
«Bar Verdi, buongiorno!»
«Buongiorno Giuseppe, sono l’ispettore Tardio, ci fa portare
su due caffè, una brioche liscia e una con crema?»
«Certo ispettore, mando subito mia nipote. Arrivederci.»
Il barista riattaccò e preparò il vassoio. Il suo bar prendeva
praticamente tutte le ordinazioni del commissariato, situato
com’era a pochi metri dal palazzo. A seconda dell’ora in cui
risuonava lo squillo, poteva dire chi era e cosa voleva ancora
prima di rispondere.
In genere nel bar lo aiutava un ragazzo per fare le consegne, ma dall’inizio della settimana aveva preso servizio anche
sua nipote Cassandra, una ragazza sui sedici anni. Sedici
anni e sette mesi, ci teneva lei a precisare, desiderosa di crescere come tutti gli adolescenti. Per quest’anno aveva praticamente finito la scuola ed era impaziente di guadagnarsi la
sua paghetta estiva.
Il vecchio Giuseppe aveva brontolato un poco.
«Questa scuola finisce ogni anno più presto!»
«E su, nonno, ho finito tutte le interrogazioni» aveva protestato la ragazzina. «Ormai è solo una perdita di tempo!»
Ma era contento di avere vicino la sua nipotina. Stava crescendo troppo per i suoi gusti, e sempre più in fretta, per cui
già immaginava il giorno in cui Cassandra non avrebbe più
trovato il tempo per stare nel bar, preferendogli uno dei ragazzi
che andavano appresso ai suoi capelli rossi e agli occhi verdi.
Le porse il vassoio con le ordinazioni.
27
«Vai al primo piano, stanze tre e…»
«E quattro. Ispettori Tardio e Lamberti. Lo so, nonno. Vado
e vengo!»
Afferrato il vassoio, la ragazza si allontanò a passo svelto.
Giuseppe si incantò nel guardarle i capelli rossi. Che bella che
era sua nipote!
Attraversata la strada, Cassandra salutò il piantone ed entrò
nel palazzo. Prese l’ascensore, il vassoio era pesante, e salì
al primo piano. Come d’abitudine, uscita dall’ascensore si
diresse a sinistra. Arrivando da quella direzione ci si imbatteva innanzitutto nella stanza numero quattro, ma sapeva che
doveva bussare prima alla tre, dall’ispettore Tardio, poi insieme sarebbero andati nell’ufficio di Lamberti. I due ispettori
prendevano sempre il caffè insieme.
Come sempre bussò da Tardio.
«Caffè!» annunciò da dietro la porta, che si aprì dopo due
secondi. Ne uscì un uomo sui trentacinque anni, tarchiato,
con una pronunciata stempiatura. La bocca troppo larga, con
le labbra carnose, e gli occhi sporgenti le avevano sempre dato
l’idea di un rospo. Non le era simpatico, non lasciava mai
neanche la mancia, ma il lavoro è lavoro.
«Oh, bene, ti stavo aspettando, andiamo» disse precedendola. Cassandra alle sue spalle fece una smorfia. La stava
aspettando? Ma se era stata un fulmine! Niente da fare, quel
tizio le era davvero antipatico.
Tardio bussò rapido alla porta del collega, la aprì e fece
contemporaneamente un passo indietro per consentire alla
ragazza di entrare, seguendola a ruota. Non era cavalleria, sapeva che Cassandra non sarebbe riuscita ad aprirla con quel
vassoio ingombrante.
Pochi minuti prima Isabella aveva tirato fuori dalla borsa altre
due paia di manette e una cintura pronta all’uso, mettendo tutto
sul tavolo più piccolo vicino all’ingresso. Aveva poi raccomandato a Lamberti il silenzio e si era piazzata nell’angolo
dietro la porta impugnando la sua Beretta, in attesa.
28
Sentì la voce squillante della barista annunciare il caffè
poco più avanti e girò la chiave nella serratura. Quando
l’uomo abbassò la maniglia, dunque, la porta si aprì senza problemi. Fu un attimo. Cassandra avanzò di pochi passi prima
di rendersi conto che qualcosa non andava, bloccandosi praticamente nello stesso momento in cui anche Tardio realizzava ciò che stava vedendo. Isabella chiuse la porta alle loro
spalle e parlò:
«C’è una pistola puntata contro di voi… Fermo!» esclamò
rivolta all’uomo, che aveva accennato a voltarsi mentre la
mano si alzava istintivamente per afferrare l’arma.
«Antonio, no!»
Nonostante il divieto di aprire bocca, l’ispettore Lamberti
non riuscì a trattenersi. Il tono e lo sguardo del collega legato
alla sedia convinsero il nuovo arrivato a non reagire. Alzò le
braccia in segno di resa, mentre gli occhi saettavano da una
parte all’altra della stanza per valutare la situazione.
«Okay, okay, non mi muovo.»
La cintura legata alla vita dell’amico parlava chiaro, anche
se non aveva ancora notato il detonatore in mano alla donna.
Lamberti emise un sospiro di sollievo. Se Tardio avesse
reagito e fosse riuscito a colpirla…
«Incrocia le mani sulla nuca e fai tre passi avanti, con calma»
intimò Isabella con tono deciso. Il nuovo ospite obbedì in
silenzio.
Cassandra intanto si teneva stretta al vassoio, se avesse
mollato la presa ci sarebbe caduta assieme.
«Tu, posa quell’affare sul tavolo. Senza farlo cadere e senza
far rumore.»
La voce della donna sciolse l’incanto e con movimenti esitanti la ragazza sistemò il vassoio dove le era stato detto. Non
aveva fatto caso alla strana cintura sul ripiano di formica,
ma se anche l’avesse vista non l’avrebbe riconosciuta per
quel che era.
Cassandra era impaurita ma allo stesso tempo eccitata. Che
avventura! Già immaginava di raccontarla su Facebook.
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«Bene così» proseguì Isabella. Poi ordinò all’uomo di mettere le mani dietro alla schiena e alla giovane barista di mettergli
le manette. «Come ti chiami, ragazza?»
In realtà conosceva benissimo il suo nome.
«Cassandra. Io… non mi faccia del male, per favore» rispose intimorita. Aveva notato anche lei le cinture con l’esplosivo, e cominciava a spaventarsi per davvero. Isabella rimase impassibile: le ordinò di prendere la cintura e di stringerla
attorno alla vita di Tardio. L’uomo fu poi fatto sedere alla sinistra di Lamberti, e immobilizzato da Cassandra dietro precise indicazioni. Tra i due aveva posto una terza sedia.
«Posso andare adesso?» chiese con poche speranze la ragazza. «Il nonno si preoccuperà se non mi vede tornare.»
Era una domanda stupida, se ne rendeva conto da sola, ma
forse lei l’avrebbe lasciata andare, non c’entrava niente con
quei due, era solo la ragazza del bar.
Ovviamente Isabella non glielo consentì:
«Mi dispiace, Cassandra, ma non posso lasciarti andare. Mi
servi qua.»
«Già» intervenne Lamberti. «Sei un’ottima merce di scambio,
ragazzina.»
Cassandra lo fissò sconcertata, non capiva. Isabella richiamò la sua attenzione:
«Vai a sederti là per terra.»
Le indicò un angolino sotto la finestra, vicino al termosifone.
«Prendi!» disse ancora, e le lanciò il cuscino che stava su
una sedia. «Mettiti comoda, potresti rimanere qui a lungo.
Prendi anche queste» aggiunse porgendole il terzo paio di
manette che aveva portato con sé.
«No, per favore! Per favore!» singhiozzò. «Non le voglio
mettere.»
«Aggancia un braccialetto al tubo del termosifone e l’altro
mettilo al polso.»
La guardò con una certa dolcezza.
«Mi spiace. Non voglio farti del male, ma sei coinvolta anche
tu. La tua presenza è importante.»
30
Aveva il suo piano, e non prevedeva che lei restasse a lungo
in quella stanza. Certo, il rischio era comunque presente e
tuttavia non aveva trovato alternative.
Si avvicinò a Tardio, gli tolse pistola e cellulare, lasciandoli
sul ripiano della scrivania, poi mostrò anche a lui il detonatore che stringeva tra le dita e gli spiegò il funzionamento.
Doveva essere certa che tutti avessero ben compreso il rischio di compiere mosse false.
All’improvviso l’inconfondibile vibrazione di un cellulare
risuonò nel silenzio. Proveniva dall’angolo sotto la finestra.
Cassandra esitò un attimo, poi lo prese dalla tasca posteriore
dei jeans e stava quasi per rispondere quando la donna glielo
tolse bruscamente di mano.
Sul display apparve il nome del chiamante. Era il vecchio
Giuseppe, evidentemente in cerca della nipote.
Era sul punto di buttarlo per terra, ma Cassandra la fermò
con una vocina spaventata:
«La prego, non me lo rompa, è nuovissimo!»
Isabella interruppe la chiamata e lo soppesò per qualche
istante nella mano, indecisa. Poi lo aprì, tolse la batteria
dall’interno e poggiò anche quello sulla scrivania, seguita
dallo sguardo timoroso della ragazza.
«Avresti dovuto consegnarmelo subito.»
«Io… non pensavo…»
«Che qualcuno ti avrebbe chiamato? O che me ne sarei
accorta? Non prendermi in giro, ragazzina!» la apostrofò con
durezza. Lei si tirò le ginocchia sotto il mento e nascose il
viso tra le gambe, stringendosi nelle spalle.
Intanto il vecchio barista era sempre più preoccupato. La
nipote lo canzonava spesso per questa sua caratteristica, e
sicuramente anche stavolta lo avrebbe preso in giro perché si
era subito allarmato, eppure non poteva farci niente. Lei doveva solo attraversare e consegnare i caffè, di norma ci metteva quindici minuti al massimo, ma erano quasi tre quarti
d’ora che si era allontanata.
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Stavolta poi gli sembrava incredibile che Cassandra gli
avesse addirittura riattaccato il telefono in faccia. Non lo faceva mai, sapeva che lui si agitava e quindi rispondeva sempre,
magari sbuffando, ma rispondeva. Adesso il telefono risultava perfino irraggiungibile.
In breve non ce la fece più. A costo di farsi ridere dietro, doveva andare a controllare di persona. Si tolse il grembiulino
bianco che indossava sempre nel bar, si asciugò in fretta le
mani e si rivolse al ragazzo che lavorava con lui.
«Senti, io vado un attimo di fronte. Pensaci tu al bar,
okay?»
«Certamente signor Giuseppe, non si preoccupi. Vedrà che
Cassandra si è fermata a chiacchierare con qualche amico
incontrato per strada.»
Ma stava parlando al vuoto: l’anziano era già uscito in tutta
fretta dal bar.
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Capitolo 6
Insolite richieste
21 maggio 2012, ore 10. 30
Nell’ufficio di Lamberti il pesante silenzio venne interrotto
da una domanda della donna.
«Il vostro superiore è il commissario Frangipane?»
«Sì» risposero i due quasi contemporaneamente.
«Questo telefono funziona anche da interfono, suppongo»
proseguì lei guardando Lamberti, che le rispose di sì con un
cenno della testa. «E come si fa?»
«Basta premere il pulsante col doppio zero in alto a destra
sul tastierino, poi comporre il numero dell’interno con cui si
vuole comunicare.»
«Qual è l’interno di Frangipane?»
«Due uno zero.»
«Si può inserire il vivavoce?»
«Sì.»
«In che modo?»
«Tasto rosso sulla sinistra. Quando è abbassato c’è il vivavoce. Per escluderlo, si preme di nuovo.»
«Bene. Va inserito prima o dopo aver composto il numero?»
«È indifferente.»
«Ascoltatemi bene, allora. Tra poco chiamerò il vostro
commissario. Lamberti, sarai tu a parlare. Io non dirò nulla e
anche voi due dovrete stare nel più assoluto silenzio, è chiaro?»
Fissò alternativamente gli altri ostaggi ma soffermò lo sguardo
su Cassandra:
«Specialmente tu» aggiunse allora. «Non fare la stupida,
altrimenti…»
«Starò zitta, promesso» pigolò lei.
«Cosa vuoi che dica?» le chiese incerto Lamberti.
«Dirai che sei stato sequestrato e chiarirai bene la tua posizione. Cerca di essere molto convincente riguardo l’esplosi33
vo e il funzionamento del detonatore, se vuoi evitare decisioni affrettate da parte dei tuoi superiori. Non dovrai dire né
che sono una donna, né che sono sola.»
«Lo scopriranno comunque» intervenne l’altro, «e presto si
accorgeranno anche della nostra assenza.»
«A tempo debito» ribatté Isabella, «e comunque non sono
affari che ti riguardano.»
Si rivolse nuovamente a Lamberti:
«Parlerai di un non meglio specificato gruppo di persone
che ti tiene in ostaggio. Non farai alcun accenno alla presenza del tuo collega e della ragazza, non darai informazioni
e non risponderai a nessuna domanda senza prima chiedermi
il permesso. È tutto chiaro?»
Lamberti tirò un grosso respiro prima di rispondere.
«Sì, è tutto chiaro.»
«Perfetto. Dopo aver chiarito la situazione al commissario
ti darò questo foglio» aggiunse Isabella mostrando una pagina di quaderno battuta a macchina, «che tu dovrai leggere.
Ci sono scritte le mie richieste. Quelle che volevi prima»
concluse ironicamente.
«Va bene.»
Oramai rispondeva in tono monocorde, sapeva di non avere scelta.
Isabella raccomandò agli altri due di tacere, schiacciò il tasto del vivavoce, poi il doppio zero e compose il numero
dell’interno. Il telefono squillò due volte prima che nella
cornetta risuonasse una voce maschile.
«Frangipane» dichiarò la voce restando in attesa.
Lamberti lanciò un’occhiata al collega.
«Commissario, sono Lamberti.»
«Dimmi» rispose laconico, distratto dal fascicolo che aveva davanti agli occhi.
«Io…»
Si interruppe. Non era semplice raccontare una cosa del genere. Poi riprese a parlare:
«C’è un problema, commissario.»
34
«Ti sto ascoltando, parla» rispose l’altro, cogliendo una strana inflessione nella voce di Lamberti. In quel momento entrò
nella stanza di Frangipane un uomo in divisa, il commissario
gli fece segno di chiudere alla svelta la porta. Si trattava del
suo vice, Laurenzi.
«Lamberti, qual è di preciso il problema?»
«Io… sono stato sequestrato. Al momento sono tenuto prigioniero sotto la minaccia di armi e di esplosivi.»
Il commissario coprì il microfono con la mano e sussurrò
velocemente al suo vice:
«C’è un casino, ascolta anche tu» e inserì il vivavoce prima
di rispondere, sforzandosi di conservare un tono tranquillo.
«Aspetta, Lamberti, mi stai dicendo che dei banditi ti tengono in ostaggio?»
«Esattamente.»
«Quanti sono?»
Come gli era stato ordinato, l’ispettore guardò Isabella prima di rispondere. Lei fece un cenno eloquente con la mano.
«Non ho il permesso di rispondere a questa domanda, signore. Non ancora.»
Spiegò minuziosamente la sua situazione, poi aggiunse che
si trovava nel suo ufficio e che nessuno avrebbe dovuto tentare di entrarvi. In caso contrario sarebbe morto, aggiunse con
un singulto malamente camuffato.
Frangipane era esterrefatto. Mai gli era capitato di dover
affrontare un’emergenza del genere.
«Va bene» sospirò. «Di’ ai tuoi sequestratori di stare tranquilli
e di non fare nulla di azzardato. Nessuno deve morire, non
qui nel mio commissariato, intesi?»
Tra una parola e l’altra scrisse velocemente delle istruzioni
per Laurenzi. Attraverso il foglio di carta che passò al vice,
ordinò che l’agente Bruno venisse messo di piantone davanti
all’ufficio di Lamberti, in modo da non far entrare nessuno.
Ovviamente Bruno doveva restare all’oscuro dell’intera
faccenda e non mettere piede all’interno della stanza.
Laurenzi fece un cenno col capo, uscì silenziosamente e si
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avvicinò a un uomo in divisa.
«Vieni con me» gli disse, e si diresse nel suo ufficio seguito dal poliziotto. «Vai subito di guardia davanti all’ufficio
dell’ispettore capo Lamberti. Nessuno deve entrare o si deve
avvicinare a quella porta, capito? E non fare domande»
aggiunse brusco, prevenendolo. «Esegui l’ordine immediatamente e non ti muovere di là fin quando io o il commissario
non te lo diciamo. Vai!»
«Sissignore» rispose Bruno, e si allontanò di corsa.
«Chi è che comanda? Voglio parlare con lui» continuò
Frangipane. Stavolta Lamberti non aveva bisogno di chiedere indicazioni alla donna.
«No, mi è stato detto che dovete comunicare tramite me. È
stato messo in funzione il vivavoce, tutti possono sentire ciò
che stiamo dicendo.»
«D’accordo. Farò come vogliono, per adesso. Posso sapere
il motivo di questa azione? Quali sono le loro richieste?»
Al momento non c’era bisogno di mostrare i muscoli, ma i
due poliziotti sequestrati conoscevano bene le procedure e
sapevano che quell’apparente docilità era solo temporanea.
Isabella tese il foglio di carta perché venisse letto ad alta
voce, cosa che Lamberti fece subito. Erano pretese davvero
insolite.
«Commissario, leggo testualmente: si richiede che vengano
subito convocate in commissariato due persone, il giudice
Attilio Benincasa e il vicecommissario James Zambelli del
commissariato del quartiere Contrada.»
I due poliziotti si guardarono: che c’entrava Zambelli?
Anche Cassandra sussultò nel sentire quel nome. James
Zambelli. Jimmy. Proprio lui? Si sentì avvolgere da una calda
e rilassante sensazione di tranquillità. Se c’era Jimmy, lei
non avrebbe corso alcun pericolo, ne era certa.
Lamberti continuò la lettura:
«Avete un’ora a partire da questo momento per farli arrivare qui. Quando saranno fisicamente presenti chiamate l’interno
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di questo ufficio.»
Al termine della frase, senza lasciare tempo di ribattere, Isabella interruppe la chiamata. Adesso occorreva attendere.
Era tranquilla. Sebbene avesse imposto un limite di tempo
al funzionario, non aveva fretta. In caso di necessità poteva
resistere per delle ore con il pollice ripiegato sul detonatore.
Ne era sicura, si era allenata a lungo con le hand grip proprio per rinforzare la muscolatura e i tendini che sarebbero
stati sottoposti a quello sforzo inusuale.
Aveva l’intera situazione sotto controllo.
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Capitolo 7
Trambusto
21 maggio 2012, ore 10. 45
Giuseppe attraversò di corsa la strada e in un attimo fu nel
palazzo di fronte. Per prima cosa chiese all’uomo di guardia
se avesse visto entrare sua nipote. Il piantone ricordava benissimo di averla salutata all’ingresso, ma non sapeva dire
se fosse uscita o meno dall’edificio. Poiché il vecchio era
assai turbato gli consigliò di recarsi di persona dagli ispettori
che avevano fatto l’ordinazione, e chiedere notizie direttamente a loro.
Si avviò a passo di carica al primo piano, ma era arrivato a
malapena all’ingresso del corridoio che fu fermato dall’agente
Bruno.
«Lei di qua non può passare.»
Arrestò la sua avanzata gentilmente, ma con assoluta
fermezza.
«Perché?»
Giuseppe si guardava intorno allungando il collo mentre
parlava, ma non vedeva la ragazza da nessuna parte. Precisò
allora:
«Voglio solo chiedere all’ispettore Tardio se mia nipote è
venuta a portargli il caffè. Mi faccia entrare, per favore.»
«Spiacente, l’ispettore non è nel suo ufficio e lei non può andare oltre.»
L’agente Bruno fu irremovibile.
Il vecchio barista si allontanò per cercare qualche poliziotto
disponibile ad aiutarlo. Era successo di sicuro qualcosa.
Dopo la telefonata bruscamente interrotta, il commissario
Frangipane si attivò senza perdere tempo. Per prima cosa
ordinò che tutti gli ispettori si recassero immediatamente nel
suo ufficio; poi, avendo deciso che per quanto strana la richiesta dei rapitori andava giocoforza esaudita, preparò due
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biglietti per il magistrato e per Zambelli e ordinò a due agenti
di consegnarli di persona. Nei foglietti parlò di convocazione senza spiegarne le ragioni, limitandosi a porre l’accento
sull’assoluta necessità e sull’urgenza della cosa.
Intanto Laurenzi era rientrato e stava ascoltando gli ordini
del suo superiore e amico. Da non credersi. Non aveva precedenti la tracotanza e l’audacia di questi… cosa? Delinquenti
comuni? Sovversivi? Sicuramente dei professionisti, almeno
a giudicare dalla freddezza con cui si stavano muovendo.
Il funzionario tamburellava nervosamente le dita sulla scrivania, in attesa. Tempo pochi minuti e arrivarono in quattro,
tre uomini e una donna, guardandosi l’un l’altro e chiedendosi
il perché di quella improvvisa riunione generale.
Il commissario Elio Frangipane li scrutò uno a uno mentre
entravano. Erano tutti bravi poliziotti. Mancava solo Lamberti,
ovviamente. No, non era esatto, mancava anche…
«Un momento, non vedo Tardio, non ha ricevuto il mio ordine?» chiese senza rivolgersi a nessuno in particolare.
«Veramente, dottore, stamattina non l’ho ancora visto»
raccontò uno degli uomini che aveva di fronte. «Qualcuno di
voi gliel’ha detto?»
«Io sono andato a chiamarlo nella sua stanza, ma non c’era»
rispose un collega, un piccoletto dalla faccia arcigna. «A
proposito, commissario, c’è l’agente Bruno davanti all’ufficio del collega Lamberti che…»
«Sì, l’ho mandato io, proprio di questo dobbiamo parlare»
lo interruppe Laurenzi, che stava in piedi alle spalle del
commissario, appoggiato con la schiena al muro.
«È mai possibile che quell’uomo stia sempre da un’altra
parte?» si innervosì il commissario, che non aveva molta stima né per Tardio né per Lamberti. «Qualcuno lo chiami al
cellulare e gli dica di presentarsi da me. Subito!»
Intanto nell’ufficio-denunce si stava svolgendo una piccola
discussione tra il barista Giuseppe e Ferzi, l’agente incaricato
di raccogliere le segnalazioni di scomparsa. Il primo voleva
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a tutti i costi avviare la pratica denunciando la sparizione di
sua nipote Cassandra, il secondo cercava di farlo ragionare
spiegandogli che scomparsa e ritardo erano cose ben diverse. La discussione stava per degenerare quando vennero
interrotti da un altro poliziotto, all’affannosa ricerca dell’ispettore Tardio.
«Ma che vi prende?» domandò Ferzi con un mezzo sorriso.
«A quanto pare oggi scompaiono tutti!»
Nella stanza numero quattro il silenzio fu nuovamente
interrotto da uno squillo. Questa volta a suonare era chiaramente il telefonino di Tardio, dalla scrivania sulla quale era
stato appoggiato.
Isabella allungò una mano, lo afferrò e rivolse il display nella
direzione del legittimo proprietario, in modo che leggesse il
numero del chiamante.
«Chi è?» domandò lei.
«Un collega.»
L’uomo si agitò invano sulla sedia, tentando di trovare una
posizione più comoda. Quella stupida ragazzina non gli aveva
lasciato la minima possibilità di allentare la stretta delle manette.
Guardò la sua carceriera con aria di sfida:
«Pensavi che non si accorgessero della mia assenza? Te
l’avevo detto.»
Costituiva una piccola rivincita, per lui, poterlo constatare.
Inutile, ma pur sempre una rivincita.
«Ah sì?» chiese lei con aria noncurante. E mentre gli squilli
continuavano a risuonare nell’aria lei si alzò, raggiunse il vassoio del bar, prese uno dei due bicchieri colmi d’acqua e con
deliberata lentezza lasciò scivolare il cellulare al suo interno.
«Ops. Mi è caduto. Pazienza, non potrai rispondere.»
L’ultimo squillo affogò nell’acqua che penetrava all’interno
dell’apparecchio. Piccole bolle salirono in superficie.
Cassandra si lasciò sfuggire una risatina nervosa, subito
repressa dall’occhiataccia del poliziotto.
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«Elio, la chiamata è stata interrotta» annunciò Laurenzi a
Frangipane. «Sta succedendo qualcosa di strano.»
In quel momento rientrò nella stanza l’ispettore che era stato
mandato in cerca del collega scomparso.
«Sono d’accordo con te, e non solo per quanto riguarda
Tardio.»
«Che vuoi dire?»
«Non lo so, forse non c’entra nulla ma… avete presente il
bar qui di fronte?»
«Il bar Verdi? Certo.»
«Giù nell’atrio c’è il proprietario che sta dando di matto,
dice che sua nipote è venuta qua in commissariato per consegnare le ordinazioni di Tardio e Lamberti e non è più tornata.
Pare che il piantone l’abbia vista entrare ma non uscire. Sembra
scomparsa, proprio come…»
«Tardio, già» intervenne il commissario.
«E se fossero insieme?» si chiese ad alta voce Laurenzi.
Frangipane si alzò e iniziò a camminare pensieroso davanti
ai suoi uomini. Si fermò all’improvviso, alzando la testa per
fissarli bene in volto prima di parlare. Aveva preso una decisione.
«Allora» esordì, «la situazione è questa ed è grave: l’ispettore capo Lamberti in questo momento è tenuto in ostaggio
nel suo ufficio da un numero imprecisato di persone. Non
sappiamo quale sia il loro obiettivo né tanto meno perché
abbiano scelto un’azione così insensata. Per il momento
manterremo una strategia cauta, in attesa di avere ulteriori
elementi dato che attualmente sappiamo solo quello che il
vostro collega, chiaramente minacciato, ci ha detto.»
E spiegò a tutti le caratteristiche del sequestro.
«Ho già richiesto la presenza del giudice e del vicecommissario» continuò, «ma prima che arrivino voglio sapere con quanti terroristi abbiamo a che fare.»
Seguì una breve pausa per riorganizzare le idee, poi si rivolse al sottoposto più basso:
«Rescigno, fai chiudere tutti gli ingressi. Da questo momento
nessuno deve uscire o entrare senza che tu l’abbia auto42
rizzato. Avverti i tuoi uomini.»
«Sissignore!»
«Rossi…»
«Agli ordini commissario.»
«Tu, De Luca e la Barbato controllate le registrazioni delle
telecamere e prendete nota di tutti coloro che sono entrati e
usciti finora. Fate un elenco di tutti gli ingressi, depennate
coloro che sono usciti o che usciranno dopo aver ricevuto il
permesso da Rescigno, controllate la posizione di quelli che
sono ancora dentro e portatemi in ufficio la lista di tutti coloro che, pur risultando presenti nel palazzo, non siete riusciti a individuare. Al lavoro!»
«Buona idea» approvò Laurenzi. «Il risultato di questa scrematura dovrebbe fornirci il numero e il volto dei banditi.»
«E anche degli ostaggi» aggiunse Frangipane.
«Cosa intendi dire?»
«Io non credo che Tardio e la ragazzina del bar siano fuggiti
insieme, ti pare?» rispose con un sorriso sghembo. «La vedo
un’ipotesi poco realistica. A me sembra molto più probabile
che siano stati presi pure loro in ostaggio, anche se ne ignoriamo il motivo.»
Il commissario aveva ripreso i suoi andirivieni con le mani
incrociate dietro la schiena. Era un’abitudine che lo aiutava
a riflettere.
«Penso tu abbia ragione» affermò il vice, la fronte corrugata. «Non credi però che sia il caso di piazzare un gruppo
davanti all’ufficio di Lamberti? Certamente non per fare
irruzione, solo per tenere sotto controllo l’ambiente. Bruno
non basta.»
«Pensaci tu» acconsentì Frangipane passando una mano tra
i capelli. «Sai perfettamente come condurre la cosa. Dopo
torna a riferire, per favore.»
«Vado!»
Al commissariato di Contrada c’erano pochi poliziotti in
servizio. Era un piccolo commissariato di quartiere, una sede distaccata addetta perlopiù a pratiche amministrative e ai
43
piccoli reati della cosiddetta microcriminalità.
Chi finiva lì non aveva grandi prospettive di carriera, tanto
che essere assegnati a quella sede significava in genere aver
commesso qualche errore o aver dato fastidio a qualche personalità di spicco. Il vicecommissario Zambelli invece era arrivato a Contrada su esplicita richiesta di trasferimento, per
giunta dalla sede ben più importante annessa al Palazzo di
Città, suscitando uno scontato clamore. Possibile che un
giovane e brillante funzionario avesse rinunciato a una sicura carriera per infognarsi in quel posto senza prospettive? Le
chiacchiere furono molte, ma l’ostinato silenzio di James
Zambelli, il suo lavoro sempre preciso e corretto e la professionalità mostrata fecero sì che si spegnessero poco alla
volta. Gli uomini in servizio, quasi tutti ormai oltre la mezza
età e alquanto sfiduciati, si abituarono presto al suo carattere
taciturno ma temperato da una gentile mitezza, decisamente
insolita in un poliziotto, e in breve smisero di porsi domande
sul suo trasferimento.
Zambelli, che doveva il suo nome straniero alla madre britannica, era un funzionario serio che lavorava senza mai
pretendere dagli altri più di quanto pretendesse da se stesso,
ed era piacevole averci a che fare. Quella mattina era appena
rientrato nel suo ufficio e stava proprio allora iniziando a
studiare le carte che si erano accumulate sulla scrivania,
quando venne avvicinato da un agente mandato dal dottor
Frangipane. Gli fu consegnata una breve lettera, inoltre, che
tradiva l’urgenza della convocazione.
Zambelli non gradiva l’idea di tornare nel luogo dal quale,
anni prima, si era volutamente allontanato, ma Frangipane
era il suo diretto superiore e non poteva di certo rifiutare.
Chiamò il viceispettore di turno e lo avvertì che stava nuovamente per uscire, senza poter indicare l’ora del rientro.
«Pensa tu a tutto, Errico» aggiunse infine. «Io sarò comunque reperibile al cellulare, ma se potessi evitare di chiamarmi…»
«Non si preoccupi, dottore» gli rispose l’uomo con la mas44
sima tranquillità.
Difficilmente ci sarebbe stata un’emergenza.
Zambelli venne accompagnato dall’agente fino alla sede
principale e qui ottenne il via libera di Rescigno. L’aria era
ormai calda e un piacevole odore di salmastro s’insinuava
tra gli angoli delle strade vicine. A passo svelto salì i tre scalini di marmo ma fu costretto a bloccarsi dinanzi al piantone,
che gli impedì l’accesso fin quando non mostrò il biglietto
di convocazione di Frangipane, nonché il nullaosta di Rescigno.
Zambelli fiutò immediatamente l’agitazione che si respirava all’interno dell’edificio. Si diresse dunque verso l’ascensore e salì fino al secondo piano. Bussò alla porta di Frangipane, attese il suo avanti ed entrò.
Il commissario stava parlando al telefono, gli fece cenno di
accomodarsi e continuò a parlare:
«Okay, ho capito» disse rivolgendosi alla persona dall’altro
parte del cavo. «Comunque tu non ti muovere dal tribunale e
non appena ti è possibile fai consegnare il biglietto. Prova a
chiamare la segretaria, ci sarà qualcuno a cui rivolgersi per
far arrivare al giudice una comunicazione urgente, ti pare?
Soltanto, non creare confusione, agisci in fretta ma con
buonsenso, mi raccomando, non vogliamo allarmare mezzo
mondo. E fammi sapere quanto prima.»
Riattaccò il telefono con un sospiro e alzò gli occhi verso
Zambelli, che attendeva in silenzio. Il commissario si alzò in
piedi, fece il giro della scrivania e gli tese la mano per salutarlo.
«Il vicecommissario Zambelli, suppongo.»
Al cenno affermativo dell’altro, Frangipane ringraziò il
collega per la solerzia dimostrata e si rammaricò di dovergli
stringere la mano per la prima volta in una situazione
d’emergenza. Zambelli aveva ottenuto il trasferimento giusto
una settimana prima che Frangipane gli subentrasse, quindi
non si erano mai incontrati.
45
«Come posso rendermi utile?» chiese il vicecommissario.
«Abbiamo un grave problema, e tu purtroppo sei coinvolto.»
«E in che modo?»
«Ti spiego la situazione.»
Frangipane riassunse le vicende e passò le scarne informazioni in suo possesso.
«Quindi hanno chiesto specificatamente di me e di questo
magistrato?»
«Sì, ti fa venire in mente qualcosa?»
«No, non mi pare» rispose scuotendo la testa. «Così su due
piedi non posso esserne certo, ma non mi sembra di aver avuto mai rapporti con questo… come hai detto che si chiama?»
«Benincasa.»
«Con questo giudice Benincasa. A meno che non si tratti di
rapporti sporadici e lontani nel tempo. In ogni caso, sentiamo cosa hanno da dire i sequestratori.»
In quel momento risuonarono dei colpetti alla porta e subito dopo entrò di gran lena l’ispettrice Barbato, seguita
dall’addetto alle telecamere di sicurezza.
«Dottore, abbiamo ultimato le ricerche» disse la donna, per
poi fermarsi all’improvviso nel notare la presenza di un estraneo. Frangipane interpretò correttamente la sua esitazione e
la rassicurò confermandole l’identità dell’uomo presente
nell’ufficio. Lei fece un rapido movimento di saluto con la
testa, poi continuò:
«Dall’esame delle riprese abbiamo stabilito che si sono persi
i riferimenti di sole quattro persone entrate nell’edificio
dalle cinque di questa mattina.»
Porse al commissario il breve elenco che avevano stilato e
proseguì leggendone una copia:
«L’ispettore capo Lamberti, entrato alle otto di oggi. L’ispettore Tardio, entrato alle 8.25, le cui ultime notizie certe risalgono, secondo quanto dichiarato dal Verdi Giuseppe
dell’omonimo bar, alle 9.45, ora in cui pare abbia telefonato
al bar per ordinare caffè e brioche come quasi tutte le mattine, dopodiché più nulla. Una donna sconosciuta, dall’appa46
rente età di cinquant’anni, entrata alle 8.30 e attualmente
introvabile. Bono Cassandra del bar Verdi…»
L’ispettrice si interruppe nel vedere il brusco sobbalzo di
Zambelli.
«Che succede?» gli chiese Frangipane.
«La conosco» rispose il vicecommissario. «La conosco bene. Ma vada pure avanti, e perdoni l’interruzione.»
La Barbato cercò lo sguardo del diretto superiore, incassando un cenno d’assenso.
«Sì, dunque… Bono Cassandra del bar Verdi. L’ingresso risale alle 9.50, è entrata col vassoio delle ordinazioni ma non
ci risulta che sia uscita, ed è tuttora irreperibile. Possiamo
escludere l’ulteriore presenza di persone estranee non identificate.»
«È incredibile!» sbottò il commissario. «Questo significa
che dovrebbe esistere un solo sequestratore. Anzi, una sola
sequestratrice, se prendiamo per buona l’ipotesi che nessuno
sia riuscito a intrufolarsi nell’edificio di nascosto.»
«Abbiamo una foto» intervenne il tecnico della sicurezzavideo. Gliela porse continuando a parlare:
«Ho isolato i fotogrammi in cui appariva la donna sconosciuta ripresa al suo ingresso nel palazzo. È in bianco e nero
e non è proprio perfetta, come può notare, ma il viso si
distingue a sufficienza per un’eventuale identificazione.»
Zambelli si avvicinò per vedere la foto, ma quel volto non
gli diceva nulla. Apparteneva a una donna non più giovane,
dai tratti affilati, gli angoli della bocca piegati verso l’alto in
un sorriso evidentemente rivolto all’agente di guardia.
«Non la conosco» affermò.
«Chiamiamola» decise Frangipane. «Il giudice Benincasa è
ancora impegnato in tribunale e per il momento non può venire, intanto cominciamo a valutare le sue carte.»
Compose il numero interno dell’ufficio di Lamberti.
47
Secondo interludio
L’allenamento
1 aprile 2010
Riprendersi la vita di ogni giorno era stato difficile. Aveva
trasformato i piccoli gesti quotidiani in altrettante conquiste,
e alla fine ce l’aveva fatta. Poteva di nuovo parlare, scrivere,
studiare e lavorare. Non aveva più quei vuoti improvvisi,
quella consapevolezza di una cosa che avrebbe dovuto sapere e non rammentava, una persona che avrebbe dovuto
conoscere e che invece le appariva estranea.
Adesso però veniva la parte più dura.
Aveva sempre avuto cura del suo corpo, non per la bellezza
– che reputava un vezzo effimero – ma per la forma fisica.
Prima dell’incidente i suoi muscoli erano scattanti, gambe
allenate e braccia forti. E dopo aver restituito tono ed elasticità alla sua mente, era giunta l’ora di risanare anche il corpo.
Non le piaceva sentirsi così debole e fiacca. Aveva ripreso a
frequentare la palestra praticando gradualmente allenamenti
sempre più intensi sotto la guida della sua vecchia allenatrice.
Era necessario che lei riacquistasse la sua forza.
La montagna la chiamava, aveva un compito da portare a
termine, una promessa da mantenere.
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Capitolo 8
Lo scambio
21 maggio 2012, ore 11. 10
Isabella sedeva, scrutando di tanto in tanto i suoi prigionieri.
Attendeva la telefonata del commissario da un momento
all’altro, ma non era in ansia. La decisione era stata presa
tanto tempo prima. La scelta, in fondo, non dipendeva da lei.
Esistevano due possibilità e per ognuna aveva pronto un finale.
Quando il telefono suonò, dopo aver attivato il vivavoce
lasciò che ancora una volta fosse Lamberti a rispondere.
«Lamberti, sono Frangipane.»
Ci fu giusto un attimo di silenzio. Presagì che il commissario avesse delle novità, poi l’uomo riprese a parlare:
«Prima di tutto voglio sapere come state tu, l’ispettore Tardio
e Cassandra Bono.»
A quelle parole Isabella fece il gesto di applaudire. Cassandra
invece venne fuori dal torpore: allora sapevano che anche lei
era chiusa in quella maledetta stanza!
«Inoltre» proseguì Frangipane, «esigo di parlare direttamente con la donna che vi tiene in ostaggio.»
I due prigionieri si guardarono l’un l’altro; da una parte c’era
il timore che una presa di posizione netta facesse perdere la
calma alla donna, dall’altra si rendevano conto che quella
era la strategia suggerita dalle procedure.
«Complimenti commissario!» esordì Isabella. Non si era
infuriata affatto, anzi, sembrava che la cosa la divertisse. «Mi
fa piacere constatare che la polizia sa agire velocemente e
bene, quando si tratta dei suoi uomini. È stata un’ottima prova
di efficienza, davvero. Ma lei vuole notizie sulle persone presenti, ritengo per assicurarsi che siano tutti vivi… finora.»
Il tono tranquillo ma glaciale con cui terminò la frase, quel
“finora” pronunciato dopo una lievissima esitazione, fu fin
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troppo esplicito e un brivido corse lungo la schiena dei sequestrati.
«Prego signori, rispondete pure» aggiunse lei, facendo cenno
a Cassandra di parlare per prima. «La precedenza alle signore, vi pare?»
«Io sto bene ma… voglio tornare a casa… per favore.»
«Va bene, basta così.»
Isabella diede brevemente la parola a Tardio, poi riprese in
mano la situazione.
«Commissario, io ho fatto delle richieste. Sono arrivate le
persone che vi ho indicato?»
«Il vicecommissario Zambelli è presente.»
«Jimmy!»
L’improvvisa esclamazione di Cassandra interruppe bruscamente la frase di Frangipane, ma venne prontamente zittita
da Isabella.
«Silenzio!» ordinò.
Zambelli aveva sempre aiutato Cassandra, sin da quando
lei era solo una bambina. Stavolta però la situazione era diversa.
«Continui» ordinò la donna.
«Ho cercato di contattare il giudice, ma al momento non ho
avuto successo. Il dottor Benincasa è impegnato in un’udienza
in tribunale, tra poco però ci sarà un’interruzione e potremo…»
«Allora mi chiamerà quando sarà arrivato. A dopo.»
«Aspetti!» la bloccò Frangipane.
«Cosa c’è?»
«Come può vedere io sto cercando di venirle incontro, e
anche il dottor Zambelli è qui per lo stesso motivo. Lei però
deve dimostrarci la sua volontà di collaborare, la sua disponibilità a…»
«Volete che io rilasci un ostaggio, vero? Magari la ragazza,
che non c’entra niente.»
Cassandra alzò la testa dal suo angolino, incredula. Possibile che quell’incubo stesse per finire?
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«Sì, appunto, e lei avrebbe comunque due ostaggi in mano.
Sarebbe una dimostrazione di buona volontà da parte sua,
signora…? Mi dice il suo nome, visto che lei conosce il
mio?»
Se la donna avesse accettato di fornire un nome, anche fittizio, Frangipane avrebbe ottenuto un piccolo successo. Avrebbe
infatti dimostrato che la sequestratrice accettava l’instaurarsi
di un rapporto meno rigido.
«Il mio nome non ha importanza» rispose secca Isabella, che
comprendeva perfettamente il significato di quella domanda.
«Le sia ben chiara una cosa, commissario: che questa vicenda
si concluda bene o male, per me non ha nessuna importanza.
Quale che sia il finale, io otterrò ciò che voglio. Ho già
messo in conto la mia morte, è un prezzo che sono disposta
a pagare. Lei invece cosa è disposto a offrirmi per la vita di
queste persone?»
Silenzio. Isabella continuò:
«Se vuole assicurarsi la vita di Cassandra, povera piccola
innocente» e pronunciò queste parole con altera ironia, «me
ne offra una in cambio.»
Fece una pausa calcolata, per dare maggiore risalto alla sua
proposta:
«Voglio Zambelli.»
Le due parole calarono con forza nell’attonita quiete dell’ufficio di Frangipane, quindi risuonò il clic della cornetta. La
comunicazione era stata interrotta.
La richiesta della donna era giunta del tutto inaspettata.
Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una simile proposta. E tuttavia, mentre Frangipane e Laurenzi erano concordi
nel sostenere l’inaccettabilità dello scambio di persona,
considerata anche l’assenza di garanzie in merito al rilascio
dell’ostaggio, Zambelli in cuor suo aveva già deciso. Nonostante l’elevata possibilità di non uscirne vivo, riteneva di
non avere scelta. Se era lui che la sequestratrice voleva al
posto di Cassandra, avrebbe accettato. Ignorava se la donna
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avesse programmato tutto o se si trattasse di semplice casualità, e in fondo non gli importava. Per lui non faceva alcuna
differenza.
«Non se ne parla nemmeno» sbottò il commissario nell’udire la sua decisione. «È inammissibile che un funzionario di
polizia si consegni nelle mani di una delinquente, fosse anche
per salvare la vita di un ostaggio giovane e piacente.»
«Conosco quella ragazza da quando lei aveva tre anni e io
ventuno» ribatté con calma Zambelli, senza scomporsi di fronte
alle insinuazioni del commissario. «Non aveva nemmeno
cinque anni quando i suoi genitori morirono. Divenne la migliore amica di mia sorella, era più il tempo che passava a
casa nostra di quello che passava col nonno al quale venne
affidata. È praticamente cresciuta sotto i nostri occhi, quasi
come un’altra figlia per i miei genitori e un’altra sorella per
me. Poi lei è cresciuta e dopo qualche tempo io mi sono trasferito. È vero, l’ho persa di vista. Ma resta sempre una seconda sorella, per me.»
Tolse la giacca, si slacciò la fondina con la pistola e posò
tutto su una sedia. Guardò i due funzionari negli occhi e
chiese:
«Se si trattasse di un vostro familiare, esitereste?»
La risposta echeggiò, muta, nel silenzio della stanza.
Zambelli sorrise e cavò di tasca il cellulare, porgendolo poi
al commissario. Gli dispiaceva perderlo, aveva i numeri delle
persone più care in rubrica. Aprì la porta dicendo:
«Restate al vostro posto, conosco la strada.»
Nessuno ebbe la forza di fermarlo.
C’era molta gente nel corridoio, poliziotti in divisa e uomini in borghese. Molti probabilmente si ricordavano di lui,
ma nessuno lo fermò. Forse gli leggevano negli occhi una
determinazione cui cedere il passo.
Era quasi arrivato alla porta di Lamberti quando l’agente
Bruno arrestò la sua avanzata. Lo conosceva, era già là ai
tempi in cui Zambelli prestava servizio come ispettore capo,
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ma gli ordini ricevuti erano chiari e gli si parò davanti.
«Nessuno può entrare nell’ufficio di Lamberti, mi dispiace» disse semplicemente.
«Io sì. Mi attendono» rispose lui.
Davanti alla porta si fece il segno della croce, tirò un profondo respiro e bussò. Bruno capì che stavolta era il caso di
farsi da parte.
«Sono James Zambelli» disse infine il vicecommissario.
«Sono disarmato.»
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Capitolo 9
Il giudice
21 maggio 2012, ore 11. 30
L’udienza era appena terminata e il giudice Benincasa stava posando la toga nella stanza che usava come ufficio quando
era in tribunale. Un poliziotto bussò alla porta e una volta
entrato gli consegnò il biglietto di Frangipane.
«È urgente» disse.
Benincasa lo lesse in pochi secondi. Senza dire una parola
si affacciò sull’uscio di una stanzetta secondaria e si rivolse
alla sua segretaria, intenta a riordinare dei documenti.
«Signora Teresa, per cortesia, mi occorrono i dati relativi
alle mie cause. Me li recuperi immediatamente.»
La donna si girò verso l’archivio, aprì un cassetto dello schedario e ne estrasse due custodie di plastica rigida.
«Ecco qua. C’è un cd in ogni custodia, sono divisi per anni,
dal ‘98 al 2005 e dal 2006 al 2012. Il secondo cd è aggiornato
all’ultima causa chiusa.»
La sua segretaria gli piaceva per due qualità: l’accuratezza
e la discrezione.
«Mi accompagni» ordinò infine all’agente in attesa.
Il commissario Frangipane si fece incontro a Benincasa con
la mano tesa.
«La ringrazio signor giudice, si accomodi pure nel mio ufficio. Il mio vice, Laurenzi, ci aspetta. È davvero una gran brutta
storia.»
Lo ragguagliò sugli avvenimenti, senza tralasciare nulla ma
senza perdersi in chiacchiere inutili. Il giudice aprì la sua borsa
portadocumenti e tirò fuori un computer portatile.
«Una presa per l’alimentazione?» chiese dunque, lasciando
che fosse Laurenzi ad attaccare la spina. «Ho già ordinato
una batteria nuova, ma deve ancora arrivarmi» spiegò ai due
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uomini che lo guardavano incuriositi. «Il computer l’ho
portato per ogni evenienza, insieme ai dischetti. Se qualcuno
ce l’ha con me, di solito, è per via del mio lavoro. Nel portatile e nei cd c’è tutta la mia vita professionale, tutte le cause
che ho affrontato nella veste di pubblico ministero prima e
di giudice poi. Potrebbero rivelarsi utili» aggiunse con una
certa esitazione.
«Non sappiamo ancora per quale motivo è stata richiesta la
sua presenza, ma ha avuto un’ottima idea. Probabilmente ha
ragione lei, e i suoi cd saranno preziosi per capire con chi
abbiamo a che fare.»
«Pronti a telefonare?» chiese Laurenzi.
A Isabella fu sufficiente sentire i colpi alla porta per capire,
prima ancora che Zambelli parlasse, che il pesce aveva
abboccato all’amo. Lasciò cadere a metà della stanza la chiave delle manette; in quella posizione Cassandra, che pure era
legata solo per un braccio, non poteva prenderla. Raggiunse
l’uscio, fece girare la chiave nella serratura e dischiuse la porta
tirandola leggermente a sé. Parlò a voce bassa ma udibile:
«Metta le mani dietro la testa. Entri lentamente.»
Zambelli fece come gli era stato detto e per entrare sospinse
di poco la porta col piede. Non appena ebbe varcato la soglia, gli fu chiesto di avanzare di tre passi senza voltarsi e la
porta venne chiusa silenziosamente. Il rumore della chiave
che girava nella serratura risuonò nelle orecchie come una
specie di condanna.
«Jimmy!»
La voce di Cassandra, più sottile del solito per via della paura, lo colpì come una stilettata. Le sorrise di sfuggita, giusto
per tranquillizzarla, riservando ai colleghi della polizia
un’occhiata nervosa. I due uomini ricambiarono lo sguardo
in silenzio. C’era ben poco da dire e certo non era tempo di
convenevoli, eppure un attento osservatore avrebbe notato
qualcosa di strano nel loro scrutarsi. Si conoscevano di sicuro.
Zambelli vedeva le cinture con le cartucce di esplosivo
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attorno al corpo dei due uomini. Era una discreta quantità,
più che sufficiente a distruggere ogni cosa nella stanza. Ogni
cosa e ogni persona.
«Vede quella chiave per terra?» gli chiese all’improvviso la
donna. Lui fece un cenno affermativo con la testa. «La sospinga col piede in direzione della ragazza. Cassandra, tu
prendi la chiave e liberati.»
Lei eseguì gli ordini ma i sensi di colpa già la stavano divorando. Se Jimmy, il suo Jimmy, era lì… era solo per metterla
in salvo. Si stava sacrificando per lei.
«Ora mettigli le manette come hai fatto prima con l’altro,
le braccia dietro la schiena.»
Cassandra si avvicinò a testa bassa, senza avere il coraggio
di guardare Jimmy negli occhi, ma quando gli fu proprio di
fronte gli si lanciò contro e lo abbracciò forte, singhiozzando.
Lui non si mosse, non abbassò le braccia per confortarla e
stringerla come avrebbe voluto. Le mormorò piano:
«Sssh. Sta’ buona. È tutto a posto. Adesso fai come ti ha detto,
coraggio.»
Fu lui a suggerirle in quale modo muoversi. Le parlava come se di fronte avesse una bambina, e in quel momento la
rivedeva davvero com’era un tempo, piccola e spaurita.
Il primo braccialetto si strinse al polso destro, l’acciaio gelido a mordere la carne.
«Non mi fai male, stringi anche l’altro. Brava, così.»
Ora capiva come dovevano sentirsi i delinquenti quando il
metallo gli si serrava ai polsi, ma Zambelli era riuscito nel
suo intento: vedendo lui così tranquillo, Cassandra si era
calmata e non piangeva più. L’uomo si voltò verso Isabella:
«Ora la faccia andare.»
Non era una preghiera, ma un ordine.
«Tra poco» rispose lei con calma. «Deve finire il suo lavoro, poi le consentirò di uscire. Terrò fede alla mia parola»
precisò con una dignità che il poliziotto non si sarebbe
aspettato da una criminale. Eppure, stranamente, sentiva che
stava affermando il vero.
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Isabella si rivolse quindi alla ragazza:
«A te non l’ho fatta indossare, ma lui deve: prendi la cintura che sta sulla scrivania e allacciagliela in vita.»
«No!» esclamò la ragazzina scuotendo la testa, i suoi capelli
una cascata di fuoco. Zambelli la rimproverò dolcemente:
«Cassie, prendila. Voglio che tu vada via, e se non obbedisci da qui non uscirai mai. Non mi accadrà niente, te lo prometto.»
Terminò la frase a bassa voce sapendo benissimo che anche
lei era cosciente della menzogna. I due poliziotti sbuffarono,
ma vennero ignorati. Infine anche Zambelli si ritrovò incatenato alla sedia, quella centrale, un po’ più indietro rispetto
alle altre. Ordinò nuovamente alla donna di lasciar andare la
ragazza e Isabella questa volta non fece obiezioni. Cassandra non le serviva più.
In suo pugno, solo i colpevoli ad affrontare il giudizio.
«Ora puoi andare, ma non dimenticare cosa stringo nella
mano e ricordalo pure a chi ti interrogherà» le intimò mostrando il detonatore. «Se viene a mancare la pressione basta
una frazione di secondo e boom!» aggiunse minacciosa.
«Vattene, adesso.»
Cassandra annuì, sussurrò un “grazie” all’amico e riprese a
piangere silenziosamente.
Era quasi giunta alla porta quando si fermò, si girò verso
Isabella e chiese esitante:
«Posso… posso riavere il mio cellulare? È nuovo…»
Zambelli sorrise, nonostante tutto.
Quando la porta dell’ufficio di Lamberti si aprì, le armi dei
poliziotti stipati in corridoio si alzarono all’unisono contro
la persona che stava uscendo. Fu solo un attimo, capirono
subito che quella ragazzina col volto bagnato era l’ostaggio
liberato.
L’accompagnarono dall’ispettrice Barbato che si prese cura
di lei interrogandola gentilmente, senza forzature, attraverso
domande precise, mirate. Occorreva capire che tipo fosse la
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sequestratrice e di quali armi disponesse. Cassandra confermò
la presenza dell’esplosivo e del detonatore, spiegando il
meccanismo relativo alla pressione sul pulsante.
Finalmente andarono a chiamare il nonno, tenuto a forza in
un’altra stanza per impedirgli di fare qualche follia, e li lasciarono tornare a casa. Durante il tragitto Cassandra non
smise di piangere neanche un istante: lei era libera, ma che
ne sarebbe stato di Jimmy?
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Capitolo 10
Il processo
21 maggio 2012, ore 12. 00
Isabella tornò a occupare la sua sedia e accese un’altra sigaretta, scrutando gli uomini che aveva di fronte. Poteva leggere
la paura sui loro volti, tenuta tuttavia a freno dalla speranza
che è figlia dell’inconsapevolezza. Ancora non avevano idea
del perché si trovassero lì. Era giunto il momento di metterli
al corrente.
Si accertò che il registratore fosse in funzione e lo appoggiò
sul tavolo davanti a lei, poi compose il numero di Frangipane e inserì il vivavoce. Il commissario rispose subito.
«Il giudice Benincasa è arrivato?»
«È qui, vicino a me.»
«Ottimo. Inserisca il vivavoce, voglio che possa sentire quello
che diremo.»
«Sono Benincasa, la sto ascoltando» intervenne una voce
sconosciuta.
«Ottimo» ripeté nuovamente Isabella.
Seguirono alcuni secondi di silenzio, durante i quali la donna
parve raccogliere le idee, concentrandosi su ciò che stava per
dire. Poi la sua voce risuonò sicura e tranquilla:
«Oggi, 21 maggio 2012, sono davanti a me, ospiti involontari
e riluttanti, il vicecommissario James Zambelli, l’ispettore
capo Carmine Lamberti e l’ispettore Antonio Tardio, stimati
tutori dell’ordine. Il mio nome…»
I tre sequestrati e i funzionari nell’altra stanza drizzarono
le orecchie.
«Il mio nome lo pronuncerò in ultimo, a suggello di tutto ciò
che sarà stato detto e rivelato.»
Il giudice e il commissario si guardarono perplessi. Era tutto
molto strano. Risultava evidente, dal modo di parlare, dal tono tranquillo e assertivo, dalle stesse parole adoperate, che
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la sequestratrice non era una delinquente. Sembrava più che
altro una persona bene istruita, abituata a parlare in pubblico. Ma allora che ci faceva con armi e cariche esplosive?
«Dottor Benincasa, la invito a tornare indietro nel tempo, al
mese di giugno di sette anni fa, esattamente al 25 giugno…»
Isabella parlava senza distogliere lo sguardo dai suoi prigionieri. Un’ombra sembrò passare fugace sul volto dei due
ispettori. Zambelli non mosse un muscolo.
«Ci fu una rapina al piccolo ufficio postale di via Porto, una
rapina finita male, ricorda? I giornali dell’epoca ne parlarono diffusamente perché ebbe un epilogo davvero tragico.
Persero la vita un uomo anziano e il suo nipotino di due anni.»
«Ricordo, sì» rispose il giudice, «ma non capisco dove vuole
arrivare.»
Intanto cercava tra i file del suo computer quelli relativi al
2005.
«Capirà. Il rapinatore, descritto da numerosi testimoni come
un uomo alto, con una pistola a canna corta, un berretto rosso a visiera che gli nascondeva il volto e un paio di occhiali
da sole, entrò nell’ufficio postale scarsamente affollato e puntò
la pistola contro i presenti. I resoconti non sono chiari nello
spiegare come sia accaduto, ma a un tratto l’uomo anziano
sembrò scagliarsi contro il rapinatore come se avesse voluto
aggredirlo. Considerando che tra le braccia stringeva il nipote, è assai più probabile che abbia perso l’equilibrio per
via di un mancamento. Il ladro sparò, trafiggendo nonno e
nipote. Morirono entrambi sul colpo. L’uomo fuggì via.»
Lamberti e Tardio si scambiarono un’occhiata rapidissima,
che non passò inosservata all’occhio indagatore di Isabella.
«Anch’io ricordo quella tragedia, ma lei che ruolo ha in
tutto questo?» intervenne Frangipane. Rammentava bene i
parenti di quei due poveretti, la vecchia moglie dell’uomo e
anche i genitori del bambino, ma non poteva esserci nessuna
attinenza con la donna che stava parlando. A giudicare dalla
foto estratta dal filmato delle telecamere, era troppo giovane
per essere la moglie del vecchio e troppo vecchia per essere
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la mamma del bambino. «E comunque il rapinatore fu arrestato subito dopo» concluse Frangipane.
«Già. Il giudice Benincasa lo condannò a ventisette anni di
carcere dopo un processo per direttissima.»
Intanto Benincasa, dopo una rapida ricerca, aveva individuato la causa cui faceva riferimento la donna. L’imputato si
chiamava Danilo Antinori, ventiquattro anni, giudicato per
omicidio volontario.
«È vero, ecco qua, sto rileggendo gli atti» rispose mentre era
ancora concentrato sullo schermo del computer. «Fu tutto
regolare, mi pare. Mi dia il tempo di controllare meglio.»
«Certo.»
Lei non aveva fretta.
Ci furono lunghi minuti di silenzio mentre il giudice riguardava con attenzione i dati che gli scorrevano davanti agli
occhi, affiancato dal commissario. Il registratore andò in
stand-by.
«Sì, infatti.»
Il sensore di voce rimise in moto il piccolo apparecchio.
«Il colpevole fu arrestato pochi secondi dopo aver commesso l’omicidio, praticamente in flagranza di reato. Non ammise
mai la sua colpa, è vero, tuttavia non fornì nemmeno una
prova solida in sua difesa. Parlò di tragica coincidenza, di
scambio di persona, ma l’avvocato dell’accusa sostenne che
l’Antinori avesse approfittato della vicina presenza di alcuni
congiunti per inscenare una situazione ambigua e costruirsi
un alibi. Nessuno depose in sua difesa. Non c’erano dubbi sulla
colpevolezza e considerando i suoi precedenti la condanna
fu adeguata al reato. Anzi, forse avrebbe meritato l’ergastolo. In piena coscienza posso dirle che fu un giusto processo
con una giusta sentenza.»
«Di questo sono convinta, giudice» ribatté con freddezza la
donna. «Lei non ha colpe. Altrimenti, glielo assicuro, anche lei
si troverebbe qui, legato a una sedia con indosso cartucce di
esplosivo. In qualche modo sarei riuscita ad averla mio ospite.»
Un brivido partì dalla nuca del giudice e scivolò in fretta
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lungo la schiena. Quale inferno aveva attraversato quella
donna per diventare così spietata?
In quel momento Zambelli comprese che il sequestro di
Cassandra non era stato un evento casuale. La donna aveva
sicuramente pianificato il rapimento della ragazzina per ottenere il suo sacrificio. Si chiese per quanto tempo fosse stato
tenuto d’occhio, e con quanto impegno quella donna avesse
frugato nei recessi della sua vita.
«Se il processo è stato regolare» proseguì Benincasa, «non
capisco davvero cosa vuole da noi, signora.»
«Voglio ciò che è venuto a mancare. Signor giudice, io voglio solo giustizia.»
«Quale che sia il torto che crede di aver subito» intervenne
Frangipane, «non è certo così che potrà avere giustizia. Basta, sono stanco di stare a sentire le sue farneticazioni e le
sue minacce! Esigo che lasci liberi i miei uomini, poi potremo parlare.»
Benincasa lo guardò confuso, ma il commissario scosse la
testa: era solo un tentativo.
«La scelta è solo sua, commissario. Se non vuole darmi altro
tempo, per me va bene lo stesso.»
Le parole uscivano dalla bocca di Isabella con la tranquillità
di sempre, sembrava che nulla potesse scalfirne la fermezza.
Ogni piccola frase, ogni affermazione della donna pesavano
come piombo su una nuvola di incertezza. Proseguì dicendo:
«Quando ho dato inizio a questa cosa, avevo ben chiaro che
ci sarebbero state solo due opzioni: la giustizia o la vendetta.
Lei ora sta scegliendo la seconda. D’accordo, per me va bene ugualmente. Farò detonare l’esplosivo. Se non posso avere
giustizia, allora avrò vendetta. Era una possibilità già prevista e non ho nulla in contrario.»
Un ghigno sarcastico attraversò il volto del commissario.
«Ma così salterà in aria anche lei. Ha davvero intenzione di
morire? Non le credo.»
«Ciò che crede lei non ha nessuna importanza. Ciò che
credo io è che se questo è il prezzo, sono disposta a pagarlo.»
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Nessuno riuscì più a rispondere, né i due funzionari né gli
ostaggi che ancora non si erano resi conto del repentino
peggioramento della situazione.
«Le chiedo soltanto» proseguì Isabella con la stessa, gelida
calma, «di sgombrare il corridoio qui fuori, sono sicura che
è pieno di gente. Non vorrei coinvolgere degli innocenti.»
Si rivolse agli uomini che la fissavano allibiti:
«Se credete in un qualche dio, vi concedo del tempo per
pregare. Per quanto mi riguarda, ho smesso di aspettarmi misericordia e conforto dagli dei tanti anni fa.»
Guardò l’orologio che aveva al polso e proseguì:
«Avete due minuti per le vostre preghiere.»
«No, maledizione, non puoi farci questo, stronza di merda!»
inveì Lamberti agitandosi sulla sedia, cercando inutilmente
di strappare la fascetta che lo teneva bloccato.
«Cazzo, non ti conosciamo nemmeno, figlia di puttana, ma
chi cazzo sei?» tuonò anche Tardio, confondendo le sue imprecazioni con quelle del collega.
Zambelli non parlava, sentiva in bocca il sapore rancido della
paura, come un rigurgito di cibo guasto, e il rimbombo del
cuore nelle orecchie. La ragione gli diceva che non era possibile che tutto finisse così, sicuramente era una minaccia
rivolta ai suoi avversari per innervosirli, ma dentro di sé non
aveva dubbi che la donna avrebbe prima o poi compiuto
quel gesto folle. Cercava di ricordare le preghiere che aveva
imparato da bambino, ma gli venivano in mente solo parole
sparse, inutili sbocconcellature di preghiere. Chiuse gli occhi,
sperando che lo scoppio giungesse tanto rapido da non soffrire, e prima di perdere la sua dignità come gli uomini che
aveva accanto.
Trascorsero attimi agghiaccianti. La donna era davvero
pronta a morire per ottenere vendetta.
Benincasa decise di intervenire. Frangipane aveva valutato
male la determinazione della donna, alzare i toni dello scontro
si era rivelato deleterio e aveva messo in pericolo la vita degli ostaggi.
«Per favore, non lo faccia. Ritiene di aver subito un’ingiu67
stizia? Ebbene, parliamone.»
Il giudice credeva di aver capito la donna. La sua non era una
vuota minaccia, era davvero disposta a morire. Era convinta
di aver subito un grave torto e ascoltarla risultava necessario. Sapeva bene che nessuno si spinge oltre certi limiti se non
per follia o disperazione, e quella donna tutto sembrava fuorché
una pazza esaltata. Il suo non era fanatismo, ma freddo calcolo.
«La prego» insisté Benincasa, avvertendo su di sé lo sguardo
colmo di riprovazione del commissario. Sapeva anche lui
che era vietato implorare un sequestratore, onde evitare di
metterlo in una posizione di forza, ma la donna era già abbastanza determinata e a nulla sarebbe servito intimorirla.
Finalmente Isabella ruppe il suo silenzio:
«D’accordo.»
Il giudice si voltò a prendere una bottiglietta d’acqua che
qualcuno, forse Laurenzi, aveva messo sul tavolo. Bevve una
lunga sorsata, quindi spronò la donna:
«Parli, l’ascolto.»
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Indice
Prologo
Capitolo 1 - Il reparto delle ombre
Capitolo 2 - Ritorno alla vita
Capitolo 3 - Passi necessari
Primo interludio - Una casa vuota
Capitolo 4 - Quinto passo, la costrizione
Capitolo 5 - Cassandra
Capitolo 6 - Insolite richieste
Capitolo 7 - Trambusto
Secondo interludio - L’allenamento
Capitolo 8 - Lo scambio
Capitolo 9 - Il giudice
Capitolo 10 - Il processo
Capitolo 11 - Il racconto
Terzo interludio - La tomba
Capitolo 12 - La prova
Capitolo 13 - Il terzo colpevole
Capitolo 14 - La decisione
Capitolo 15 - La resa
Quarto interludio - Nuova vita per una vecchia casa
Capitolo 16 - La fuga
Capitolo 17 - Il cimitero
Capitolo 18 - Verso la montagna
Capitolo 19 - I resti mortali di Danilo Antinori
Quinto interludio - Preparativi
Capitolo 20 - Il nido dell’aquila
Capitolo 21 - La strategia dell’attesa
Capitolo 22 - L’ultimo atto
Capitolo 23 - Una lunga, infelicissima notte
Capitolo 24 - La verità
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© 2013 I sognatori, Lecce
ISBN 978-88-95068-28-2
Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione totale o parziale
senza previa autorizzazione dell'editore.
Per contattare la casa editrice I sognatori,
consultare il sito internet:
www.casadeisognatori.com
Copertina di Francesca Santamaria
finito di stampare
nel mese di novembre 2013
presso Digital Print srl
Segrate (MI)
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