Stavo rovistando in uno scatolone, quando notai, lasciata in disparte, una
vecchia giacca. La presi in mano scrollandola, quando una foto sbiadita scivolò
dalla tasca. Avevo in mano anni di sorrisi, anni di felicità, anni di
spensieratezza: tenevo nel palmo la foto di classe anno 1991.
Era stata scattata durante la gita dell'ultimo anno: armoniosi colori e culture
diverse esplodevano nella fotografia, che avevo scattato io stessa. Amicizia e
felicità tenevano unite le più grandi differenze di cultura, religione e colore di
pelle.
Chissà dov'erano i miei compagni adesso?!? Se erano felici?!? Se alcuni erano
tornati nel proprio paese natale?!?...con molti eravamo rimasti in contatto,
altri, invece, non li sentivo più da anni...
E adesso scopriamo insieme cosa è successo ad ognuno di loro:
Io
La 3^ C
Konichiua
Silvia
Jamila
Ivàn
Nicolò Viola
Richard Daniele Mahaj
Beatrice
Geraldine
Juliana
Layla
Hilal
Kitua
Liu
Mattia
Mi chiamo Layla e vengo dal Marocco. Arrivai in Italia all'età di 14 anni e lasciai mia
mamma nel paese natale.
Ricordo quando,da piccola, l'aiutavo a svolgere i lavori domestici, e quanta felicità
c'era nel fare anche piccoli gesti, come trasportare il fieno per portarlo nella stalla.
Il mio paese è vicino a Casablanca, città affollata e assolata, ricca di luci, colori e
profumi.
Frequentai la scuola a Genova, ma sentivo la mancanza del mio paese anche se la mia
sorellina mi faceva divertire tanto da dimenticarlo.
Fui poi costretta a trasferirmi a Nava, paesino freddissimo, nel quale dovevo vivere
perchè mio padre avevo perso il lavoro.
Mia sorella maggiore scappò di casa dopo il primo mese di intense nevicate.
Durante la notte sognavo Casablanca e pensavo a mia mamma, che avevo perso perchè
mio padre si era risposato, per cui convivevo con la matrigna.
Oggi, sono una donna serena; ho finito l'IPC e ho da poco trovato lavoro come
commessa in un negozio di pelletteria. Vivo in un monolocale a Diano Marina, dove sole
e spiaggia mi ricordano la mia terra d'origine: guardo il mare e sono felice.
Mi chiamo Daniele, ho 32 anni, faccio l'impiegato e vivo in un piccolo appartamento di
Torino. Ricordo ancora con nostalgia i miei compagni delle medie: eravamo una classe
multietnica. Io andavo abbastanza d'accordo con tutti, ma all'inizio un gruppo di
ragazzi, di cui facevano parte i miei migliori amici, Richard e Nicolò, prendevano in giro
i bambini extracomunitari. Io non condividevo il loro atteggiamento, infatti, cercai di
persuaderli dicendo loro che in fondo eravamo tutti uguali. Ci misero un po' di tempo
ma, alla fine, capirono. Io riflettevo sempre sulle difficoltà di quei ragazzi che avevano
lasciato il loro paese, i loro amici e magari anche dei membri della loro famiglia. Tra i
miei compagni stranieri ce n'era una che stimavo molto: si chiamava Layla, veniva dal
Marocco e, nonostante fosse timida, aveva un carattere molto forte e dolce. Fin da
subito provai a legare con lei e, dopo un po' di esitazioni da parte sua, riuscimmo a
stringere una forte amicizia...ma forse per me era più di un'amica. Non riuscii mai a
rivelarle i miei sentimenti. Passammo comunque un felice anno di scuola insieme. La sua
diversità è stata fonte di ricchezza per me, da lei ho capito molte cose, soprattutto ho
imparato a rispettare le persone che provengono da paesi diversi dal mio e a non
diffidare della gente solo perchè ha un colore della pelle diverso.
Mi chiamo Kitua, provengo dal Niger, ma vivo in Italia da molto tempo: ho 33 anni e
sono felicemente sposato con 5 figli.
Ricordo che ambientarmi in questo paese,così ricco di delizie e di storia non era stato
facile, però col passare del tempo e con l'aiuto dei miei amici sono riuscito a superare
le difficoltà.
Ho trascorso dei bei momenti in Italia, ma non potrò mai scordare come vivevo nel mio
paese natale. Da bambino lavoravo con mio padre in una fabbrica molto lontano da casa
mia.
Mi ricordo che, se non svolgevo il lavoro assegnato, mi picchiavano. Odiavo stare in
quel posto ma non avevo altra scelta. Per fortuna mio padre trovò il modo di uscire da
quella situazione, con mia madre e i miei 3 fratelli scappammo per cominciare una nuova
vita.
Arrivai in Italia a 12 anni e frequentai subito la scuola media; all'inizio non riuscivo a
comunicare con gli altri ragazzi della mia classe e quindi me ne stavo quasi sempre per
conto mio. Poi, dopo circa 6 mesi, con l'aiuto dei professori che mi aiutarono
nell'apprendimento della lingua italiana, sono riuscito a stringere delle amicizie con gli
altri ragazzi.
Ora mi ritengo un uomo molto fortunato soprattutto grazie alla mia famiglia.
Sono Silvia, una donna di trentadue anni.
In terza media ebbi dei problemi con il mio aspetto fisico; quando mi guardavo allo specchio vedevo solo una figura deforme,
dai fianchi troppo larghi e le cosce piene di cellulite. Mi paragonavo a tutte quelle mie amiche che, prive di sedere, brutte e
magre, piacevano lo stesso, magari solo perché si truccavano. Volevo somigliare a loro a tutti i costi, così decisi di mettermi
seriamente a dieta. Andai da un nutrizionista, che mi disse che non c'era bisogno di quella maledetta dieta che io volevo
affrontare per far sì che qualche stupido ragazzetto mi notasse. Sì, volevo essere notata!Cominciai a digiunare, anche a costo
di soffrire la fame, solo per uno sguardo in più. Persi più di cinque chili durante il primo mese, ma non lo ritenevo sufficiente;
mi vedevo ancora brutta e grassa, nonostante le persone che tenevano a me continuassero a dirmi che non era così. In otto
mesi arrivai a pesare solo trentacinque chili, a tredici anni. Quella cifra mi sembrava enorme, e continuava a non andarmi
bene. Durante il nono mese di digiuno spietato il mio stomaco cominciò a rifiutare il cibo di sua spontanea volontà. Cominciavo
ad essere contenta dei risultati ottenuti, ma decisi di andare avanti. Le mie amiche non mi riconoscevano più; non mangiavo, i
vestiti mi stavano larghi, e tutta la mia pancia era scomparsa, però i ragazzi cominciavano a guardarmi. Durante quei mesi mai
mi soffermai a pensare se quella fosse la strada giusta.Dopo poco cominciai ad avvertire i primi problemi; debolezza,
stanchezza, ritardi effettivi del ciclo mestruale. Non riuscivo più ad andare in palestra tutti i giorni, come mio solito. Non
riuscivo più muovermi, ero sempre più stanca e le mie giornate erano accompagnate dalla forte paura di ingrassare. La mia
magrezza era diventata un'ossessione.Si intravedevano le ossa sotto la mia pelle scarna, il mio viso una volta paffuto era
ormai scavato. Pesanti occhiaie mi accompagnavano giorno e notte, notte e giorno. Non riuscivo più a fermare quella bestia
che si era impossessata di me, che mi invadeva e che mi portavo sempre dietro. Non riuscivo più a fermare il mio rifiuto del
cibo. Mi resi conto di aver esagerato, ma ora non vedevo più via d'uscita, ora davanti a me correva solo un vicolo buio senza
bivi, dove non puoi decidere qual è la strada giusta e quale quella sbagliata, dove di strada ce n'è una sola: quella che
abbiamo deciso di percorrere fin dal principio, e che ora non possiamo più lasciare. Anche le sedute con lo psicologo non mi
aiutavano, né i continui incontri con medici, dietisti, nutrizionisti. Credevo che non sarei mai riuscita ad uscire fuori da quella
stramaledetta situazione, da quella strada sbagliata, ma mi sbagliavo. Con l'aiuto di esperti, di persone che mi volevano
realmente bene, riuscii a svincolarmi da quel demonio che mi aveva rubato la vita, gli anni più belli della mia gioventù.Ora sono
sposata, faccio un lavoro che mi soddisfa, ho dei figli che amo più di me stessa e ho finalmente capito che nella vita la
bellezza non è tutto, che quello che conta davvero sono i sentimenti e le emozioni che contraddistinguono ognuno di noi. Perché
ogni persona è unica.
Sono na ta a Genova, una delle ci ttà più i mportanti di tu tta l'Italia. Adesso ho 32 anni, giro il mondo e sono
una stilista felicemente afferma ta, ma la mia vi ta non è sta ta tu tta rose e fiori. Da ba mbina ero felice,
solare, con dei geni tori e degli a mici unici, sembrava che dovessi avere il mondo a mia disposizione. La terza
media mi sembrava il periodo più bello della vi ta, avevo dei sogni, dei desideri e un sacco di persone intorno a
me che rendevano il tempo meraviglioso. Era una classe mul tietnica: ragazzi che provenivano da ogni parte del
mondo, nuove cul ture, nuove lingue, ma questo non faceva differenza, non contava. Anzi, meglio, contava, ma
in modo posi tivo, ogni giorno qualcuno di noi i mparava qualcosa di nuovo, di diverso, era questo il bello, ciò che
ci univa, la differenza. Amavo i miei geni tori, mia sorella e mio fra tello, al contrario di altri miei a mici;
erava mo una fa miglia felice, da loro ho i mpara to tanto e sono sta ta educa ta in modo splendido. Ma poi il
periodo nero è arriva to anche per me. Ho conosciu to un uomo, Riccardo, me ne sono inna mora ta e ci sia mo
sposa ti; era una favola, mi sentivo una principessa che era riusci ta ad ottenere tu tto ciò che aveva sempre
desidera to. Ma poi una sera d'inverno è vola to uno schiaffo. Poi sono arriva ti i calci, i pugni e le violenze di
ogni tipo. E tu tto questo, magari, perché quel giorno lui tornava a casa stanco o arrabbia to e l'oggetto di
sfogo ero io. Io, una donna che in poco tempo era diventa ta un gioca ttolo da usare a suo piaci mento.
Inizial mente lui il giorno dopo veniva da me, chiedendomi scusa, di perdonarlo; ogni vol ta io credevo che tu tto
ciò che era successo la sera pri ma fosse sta to colpa mia, che in un modo o nell'al tro me le fossi meri ta te
quelle ca ttiverie. Dopo un po' di tempo Riccardo smetté anche di chiedermi scusa. Subii per due anni la sua
ferocia, poi quasi all'i mprovviso capii che tu tto ciò che accadeva non era colpa mia e mi ribellai, capendo che
era un uomo violento. Andai alla polizia e lo denunciai. Non lo rividi mai più. Il male alla fine era arriva to anche
a me; per fortuna io sono riusci ta ad agguantarlo e a lasciarmelo alle spalle.
Sono Mariam, sono turca, ho 32 anni. Quando sono arrivata in Italia per la prima volta ne avevo dodici. Ricevetti la notizia
del nostro trasferimento da mio padre, una sera dopo cena; fui investita da una serie di diverse sensazioni complementari e
contrastanti: gioia, paura, curiosità, nostalgia. Quella notte pensai a tutti i pro e i contro che quel tipo di “partenza”
comportava. Primo, avrei lasciato tutti i miei amici o conoscenti, ma avrei fatto nuove amicizie là, eccetera eccetera... La
bilancia continuava a pendere verso i contro, la vera svolta fu il pensiero di una scuola. In Turchia frequentavo delle lezioni
con un maestro di Corano che mi insegnava a leggere e a scrivere, per volere di mio padre, ma il pensiero di andare in una
scuola, dove sarei stata con altri compagni e insegnanti, dove avrei potuto studiare anche la storia e la geografia, scienze
matematica, come i miei fratelli, era davvero stupendo!
Dopo un mese eravamo lì, ci eravamo trasferiti in una città chiamata Genova. Mio padre mi insegnò alcune parole in italiano:
“Io sono Mariam”, per presentarmi, “Salve” o “Ciao” per salutare, e, dopo due settimane, lui e mia mamma mi portarono a
visitare la mia nuova emozionante scuola.
Entrammo e un signore dal viso gentile, che mi disse di chiamarsi “preside”, ci venne incontro sorridendo e cominciò a
mostrarmi la scuola, la palestra, le varie aule di musica, arte e computer... ma tenne per ultima la mia classe. Quando aprì la
porta e io vidi una ventina di visi girati nella mia direzione, a scrutarmi attentamente, fui invasa da un incontenibile
imbarazzo e timidezza, quasi avessi voluto non essere mai arrivata in quel posto sconosciuto e ostile. Mi chiesero di
presentarmi, feci sfoggio delle piccole lezioni di mio padre e cominciai: “Io sono Mariam, felice di conoscervi”. La scolaresca
ricambiò il mio stentato sorriso, mi sembrò tutto un po' meno orribile. Mi diedero subito un posto a sedere vicino ad una
ragazza turca come me, che mi fece da “traduttrice” per tutto il giorno. Alla fine della mattinata ero così contenta che
volli immortalare i visi , ancora estranei ma quasi familiari e piacevoli dei miei compagni, così chiesi, anzi Hilal chiese, per
me, di poter scattare una foto dei miei compagni. Con il passare del tempo cominciai ad imparare anche l'italiano, non dico
che fu facile, anzi, ma mi divertii lo stesso un sacco! Cominciai anche a vestirmi come le ragazze “occidentali”, portavo
ormai quasi tutti i giorni i pantaloni, naturalmente con l'approvazione dei miei genitori; l'unico indumento che ancora mi
contraddistingueva era il velo.
Per finire la storia clicca sul testo
Pian piano mi accorsi che anche molte ragazze turche o di etnia mussulmana come me, pur avendo ormai
passato l'età, non lo indossavano. Le invidiavo, non lo nego, sarebbe piaciuto anche a me provare la sensazione
di avere i capelli sciolti sulle spalle anche in pubblico, ma non avevo osato parlarne a mio padre per paura che
si arrabbiasse.
Giorno dopo giorno cresceva dentro me il desiderio di essere come le altre, come una pianta ben curata. E una
mattina, mentre andavo a scuola, feci quella che allora mi parve una ribellione gravissima: mi tolsi il velo nelle
vicinanze del plesso scolastico, sperando che nessun conoscente potesse vedermi. Ai mie compagni raccontai
di avere il permesso; solo alla mia amica più intima dissi, a mezze parole, che lo facevo di nascosto. Lei mi
trattava da eroina, parlando dell'emancipazione delle donne. Io però non mi sentivo per niente un'eroina,
piuttosto una latitante che cerca di sfuggire alla giustizia. Questa storia andò avanti per più di due mesi, tra
rimorsi, libertà rubata e sensi di colpa. Nessuno avrebbe mai sospettato nulla se un giorno a scuola non mi
fossi sentita male e fossi svenuta. Chiamarono a casa e arrivarono i miei genitori, non feci in tempo a
rimettermi il velo che mio padre entrò ansimante nella stanza. Probabilmente pensò che me l'avessero tolto le
professoresse per mettermi il ghiaccio, ma quando chiese di riaverlo per farmi uscire dall'edificio, furente
mi domandò spiegazioni. Andai diligentemente a prenderlo, ben ripiegato in fondo allo zaino. Mio padre non
esplose subito in un grido di rabbia, come avrei immaginato, ma trattenne l'ira per il viaggio in macchina, dove
mi sgridò per venti minuti di seguito. Una volta a casa si calmò un po' e chiese ai miei fratelli di uscire dalla
stanza per parlare da solo con me e la mamma. Gli spiegai del mio desiderio, gli chiesi se avesse potuto
esaudirlo: avrei voluto non portare più il velo in pubblico, se non per le feste comandate, e infine domandai il
suo perdono. Dopo avermi ascoltata andò a discutere in cucina con mia madre; li sentii discutere per ore, ma
della loro conversazione carpii solo queste parole di mia madre: “Non siamo più in Turchia, non c'è nulla di
male, siamo in Europa, dobbiamo saperci adattare. Questo non significa perdere le nostre tradizioni e usanze,
nostra figlia continuerà a pregare, a parlare turco, anche se veste come le altre ragazze”. La mattina dopo
non andai a scuola, anche se il medico aveva detto che era stato solo un calo di zuccheri. Rimasi a casa e i miei
genitori mi dissero che avrebbero appoggiato la mia scelta, a patto che non mentissi più e che mettessi il velo
durante le feste e le preghiere. Al colmo della felicità li abbracciai e promisi loro che non li avrei più delusi.
Dopo le medie frequentai le scuole superiori e ora sono diventata segretaria in uno studio commercialistico.
Mi chiamo Nicolò e ho 32 anni. Lavoro come architetto e vivo insieme alla mia
famiglia in una villetta a nord di Genova. Ho due gemelline vivaci e solari come me
quando avevo la loro età.
Guardare la fotografia mi fa tornare indietro nel tempo, qua ndo avevo tredici
anni e frequentavo la 3°C, una classe multietnica, ragazze e ragazzi originali con
tradizioni, culture, religioni diversi.
All’inizio non avevo capito la grande fortuna di avere compa gni provenienti da
stati differenti infatti li prendevo in giro per il loro colore della pelle e per le
difficoltà di lingua.
Poi il mio amico Daniele mi aiutò a capire che non siamo diversi anzi
uguali………dentro………nel cuore.
In questi anni ho avuto dei problemi ma grazie ai miei compagni di classe e alla
consapevolezza delle loro sofferenze, ho capito che grande fortuna è nascere in
un paese come il mio. Questo mi ha aiutato ad affrontare le difficoltà della vita.
Sono Hilal e vengo da un piccolo villaggio della Turchia. Quando avevo 7anni la mia famiglia si è
trasferita qui in Italia per problemi economici. All’inizio mi sentivo molto triste e sola nonostante la
presenza dei miei due fratelli minori che cercavano in tutti i modi di tirarmi su il morale. Poi ho
frequentato le elementari. All’inizio avevo qualche difficoltà di lingua ma grazie all’aiuto di un
insegnante sono riuscita a superarle e sono addirittura diventata la prima della classe!!!
In questi tempi ho conosciuto molti amici che ormai mi vogliono bene e mi aiutano nei momenti di
solitudine. Spesso ci incontravamo al Sabato pomeriggio e facevamo lunghe passeggiate, osservando
la meravigliosa costa ligure.
Mio padre fin da piccola mi ha sempre obbligata ad indossare il velo ma quando sono arrivata in
Italia ho deciso di indossarlo solamente durante le feste religiose.
Ora ho 33 anni e sono laureata in medicina e sto cercando un posto come dottoressa. Ho scelto
questo lavoro perché mi piace stare a contatto con la gente e amo curare, quando è possibile, le
persone che hanno problemi di salute. Sono felicemente sposata con un uomo che mi vuole
sinceramente bene. Sono da poco mamma di un bambino molto dolce di nome Yildiz, che in italiano
significa “stella”. Ho scelto questo nome per accordarlo con il mio che vuol dire “luna” per vivere
sempre insieme nell’universo affascinante che ci unisce nel legame più profondo della vita cioè quello
tra madre e figlio.
Sono una donna di trentadue anni, felicemente sposata, ho due figli che mi hanno cambiato la vita. Hanno
annullato i brutti ricordi e le difficoltà incontrate nell'adolescenza.
Da ragazza ero una promessa del nuoto, vincevo le prime gare ma, a quindici anni, non riuscii più ad
allenarmi bene e ad andare forte in gara. Senza più risultati non volli più andare in piscina e anche il mio
fisico ne risentì: da longilinea divenni subito robustella e non mi piacevo più. Tenevo al mio fisico più di
qualunque altra cosa e a quell'età pensavo solo al look, alla moda e agli amici. Notai subito che la mia
pancia cominciava a gonfiarsi, le mie cosce si notavano un po' di più e il viso tendeva ad arrotondarsi. Non
volevo accettare questi cambiamenti, rivolevo la mia corporatura di prima; i brutti commenti e il
rifiuto dei ragazzi mi tormentavano. I giorni passavano lentamente e con noia, trascorrevo ore a
piangere, a guardare le vecchie foto dove avevo ancora il mio fantastico fisico..che ora non avevo più.
Pensavo a come potesse cambiare così velocemente la vita di una persona: da piccola credevo di poter
diventare la campionessa del mondo, di firmare gli autografi ai miei tifosi, ma tutto in poco tempo svanì, i
sogni si trasformarono in incubi: la campionessa del mondo divenne una povera ragazza emarginata.
Furono i miei amici a svegliarmi da quell'incubo, uno stupido tormento da adolescente. Mi fecero capire che
il fisico non è la cosa più importante nella vita, che quello che conta è quello che si è dentro.Devo
ringraziare soprattutto loro se ora sono qui, anche se un po' robusta. Vicino a me ci sono persone che mi
vogliono bene, ho la vita davanti e sono capace di affrontare il futuro.
Io sono Richard, figlio di un imprenditore di Parigi. Fino ai miei dodici anni ho vissuto in Francia con la mia famiglia,
poi ci siamo dovuti trasferire a causa del lavoro di mio padre in Italia, in una piccola cittadina chiamata Genova,
poco lontana da Nizza. Sono stato iscritto in una scuola pubblica; era uno schifo. Quella scuola non possedeva un
minimo di raffinatezza! Nessun campo da tennis privato, o piscine.. era un incubo per me! E poi, quelle stupide aule
tutte sporche, fetide, penose, con banchi luridi e le sedie ricoperte di incisioni e scritte, completamente sfasciate.
Le finestre non si potevano aprire, a meno che non si volesse rischiare la morte. Durante la prima mattinata passata
là dentro credevo di impazzire; infatti andai subito a lamentarmi con mio padre, che si scusò e mi disse che sarebbe
stato ancora per poco, finché non avesse trovato una scuola privata che potesse accogliermi.
Passò il primo mese, e forse fu il più lungo della mia vita.
Restavo seduto lì, su quel banco che cercavo di non toccare; ma era talmente stretto che, per non sfiorarlo
nemmeno, dovevo restare immobile per ore.
Dopo quel maledetto primo mese mio padre non riuscì a trovare nessuna scuola privata che avesse posto; mi comunicò
che sarei dovuto rimanere lì fino a quando non avessi terminato la terza media. Cercavo di non avere contatti con i
miei compagni, molto ottusamente li pensavo stupidi, poveri zoticoni. Non avevo problemi con la lingua; già da quando
vivevo in Francia ne parlavo quattro, oltre il francese: l'italiano, lo spagnolo, il tedesco e, ovviamente, l'inglese.
Dopo un po' di tempo cominciai a frequentare due ragazzi della mia classe: Nicolò e Daniele; diventammo molto amici
e mi fecero capire che in fondo gli altri ragazzi non erano così diversi da me.
Compresi che non erano i soldi a fare la differenza, provavamo tutti le stesse emozioni, soffrivamo ugualmente
tutti.
Non ho una marea di amici, ma tante persone che mi sono grate per quello che faccio: da più di tre anni mi dedico
al volontariato, aiutando tante persone che non hanno la mia stessa fortuna!
Mi chiamo Mattia ho 32 anni e sono italiano, nella foto ne avevo 13, facevo terza media e avevo alcuni
problemi con i compagni della mia classe: molti di loro non mi consideravano e mi prendevano in giro.
Ero emarginato e per questo non volevo più andare a scuola, avevo paura che un giorno o l'altro, i miei
“amici” sarebbero arrivati perfino a picchiarmi. Avevo provato a parlarne con i miei insegnanti, ma loro
non avevano prestato attenzione alle mie parole, anzi, avevano continuato a ripetermi che i mie
compagni facevano di tutto per essere miei amici e che era la mia arroganza a allontanarli. La mia
famiglia non mi ascoltava, molte volte anche loro ripetevano il solito discorso che ormai avevo sentito
troppe volte.
I miei problemi purtroppo non riguardavano solo i miei amici, ma anche i miei genitori, che erano stati
sempre molto freddi nei miei confronti e, da quando ero molto piccolo, mi avevano sempre lasciato a
casa con una tata..... Nel poco tempo che trascorrevamo insieme non mi ascoltavano anzi spesso,
senza giri di parole, mi dicevano che erano troppo occupati per affrontare i miei problemi da
adolescente. Ero fermamente convinto che un giorno sarebbe cambiato tutto e questa convinzione mi
dava la forza per andare avanti, per proseguire nonostante le difficoltà e le amarezze.
Oggi sono sposato e ho due bellissimi figli con i quali ho instaurato un buon rapporto. Le difficoltà che
ho incontrato da figlio mi hanno reso un padre migliore.
Ho 34 anni e mi chiamo Ivàn, abito in Italia da ormai 23 anni, adesso vivo a Imperia ed ho un
negozio di CD musicali. Gli ultimi periodi passati in Perù furono i più movimentati e i più dolorosi e
purtroppo sono gli ultimi ricordi che ho del mio paese e della mia vita laggiù.
In Perù vivevo una vita difficile rispetto a quella degli adolescenti italiani, quelle esperienze
hanno segnato il mio carattere e i miei pensieri sulla vita. Laggiù noi, in ogni quartiere,
formavamo dei gruppi, o meglio dire delle bande; questa era un' antica consuetudine. Mi ricordo
ancora della mia banda chiamata Latin Kings; con i compagni trascorrevo le giornate, mi divertivo,
condividevo i momenti brutti e quelli importanti, e insieme ci consolavamo, facevamo baldoria e ci
picchiavamo tra bande avversarie. Era la mia seconda famiglia. Queste immagini mi si parano
davanti agli occhi: non posso dimenticare il mio passato, le mie origini e i miei amici. Mi chiedo:
chissà che fine avranno fatto? Saranno rimasti quei teppisti che erano da ragazzi o saranno
diventati brave persone? In Italia, mi sono fatto nuovi amici, nuovi compagni. Apprezzo questa
nuova vita più tranquilla ed agiata ma non dimenticherò mai la mia terra natale.
Sono una ragazza peruviana ormai adulta di 35 anni, nata a Lima il 14 gennaio 1975.
La mia era una famiglia povera, emigrata in Italia nel tentativo di cambiare il proprio destino. Dopo
aver attraversato l'Atlantico arrivammo a Genova, una cittadina nel Nord Italia. Avevo solo 12 anni.
All'inizio non cominciai subito a studiare, ma avevo un sogno: diventare geometra, ma per realizzarlo
erano necessari molti soldi. Per questo decisi di andare a lavorare illegalmente per una ditta di
vestiario: lavoravo 12 ore al giorno, perché, come diceva il mio capo, le mie dita erano abili e
riuscivo a produrre velocemente molti vestiti.
Dopo tre anni avevo imparato a parlare in italiano e iniziai a frequentare la scuola media inferiore,
classe terza. Quando superai l'esame mi iscrissi alla scuola superiore che fin da piccola aveva
sognato di frequentare: l'istituto tecnico per geometri.
Il primo anno di scuola fu molto duro per me perché non avevo mai fatto disegno tecnico,ma
nonostante tutto, il mio desiderio era più forte delle difficoltà.
Dopo 5 anni riuscii a diplomarmi e poi andai all'università per laurearmi e avere un futuro migliore.
All'università ho conosciuto l'uomo della mia vita, con il quale mi sono sposata; peruviano anche lui.
Mi ha aiutato ad aprire un mio studio; per pagarlo abbiamo fatto molti sacrifici.
Adesso la mia vita è perfetta vivo bene con i miei figli e mio marito.
Ho trentatre anni, vivo in Italia da quando ne avevo tredici. Appena arrivata dal Congo fui iscritta alla
classe terza media. Era stato terribile abbandonare i miei vecchi amici, la mia casa e adattarmi alle nuove
abitudini. Non capivo quasi nulla della lingua italiana e in classe c'erano molti alunni extracomunitari con cui
era difficilissimo comunicare.Molti di loro mi prendevano in giro per il colore della pelle, mi gridavano di
tornare al mio paese, oppure mi ignoravano semplicemente. Io davanti a loro avevo sempre cercato di
nascondere il mio dispiacere, ma dentro di me soffrivo. L'unica persona con cui riuscivo a confidarmi, a
stare bene, e a sentirmi quella di una volta era Chaula, una ragazza messicana, extracomunitaria come me.
Quando eravamo insieme riuscivamo a superare tutto, eravamo unite, ed era proprio questa la nostra
forza. Quando Chaula era assente da scuola, io non mi riconoscevo più, mi sentivo debole e sola... Chaula,
per me, era veramente importante.Poi un giorno persi le speranze di crescere insieme a lei: soffriva di un
brutto male e non ce l'aveva fatta. I dottori non si erano accorti di niente e questo le costò la vita, quella
vita che da quell'istante cambiò anche la mia. Con mio grande stupore, dopo la morte di Chaula, i miei
compagni mi stettero vicino aiutandomi nel superare quel brutto momento.Chaula mi aveva lasciato dei
ricordi indelebili e il suo diario, in cui aveva scritto tutte le esperienze vissute insieme a me. Ed è proprio
grazie a quel diario che sono riuscita ad andare avanti e a ricordarla per la persona splendida che era.
Sono Liu e vengo dal villaggio di Xizhou, in Cina. Sono arrivato in Italia nel 1988, all'età di
10 anni. Al momento del trasferimento ero ancora troppo piccola per capire dove mi
trovavo, poi con il tempo i miei genitori mi raccontarono la storia dall'inizio, e mi spiegarono
che ci eravamo trasferiti per motivi economici. Dopo qualche tempo, mio padre riuscì a
trovare lavoro, così all'età di 7 anni, i miei genitori mi permisero di frequentare la scuola.
All'inizio avevo paura di non riuscire ad imparare in fretta, e di non essere accettata dai
compagni.Alla fine dell'anno scolastico invece, avevo raggiunto una buona media e avevo
trovato molti amici che mi volevano bene, nonostante avessi tradizioni e un credo religioso
differente dal loro.Ora ho 32 anni, sono laureata e ho trovato posto in una scuola, poiché ,
secondo me, l'istruzione è un fattore molto importante nella vita dei ragazzi. Sono contenta
di aver scelto come paese d'adozione l'Italia perché qui ho trovato quelle opportunità che
nel mio paese non avrei potuto avere.
Mi chiamo Konichiua, ho 32 anni, provengo dal Marocco e ora vivo a Genova con
mio marito e i miei figli.
Ho vissuto nel mio paese fino all'età di 11 anni; prima di trasferirmi in Italia
vivevo in casa di mio padre, ma non essendo una figlia legittima, subivo
maltrattamenti e ingiustizie di ogni genere. Venivo maltrattata anche dalle mie
sorelle legittime perché ero ritenuta diversa da loro e qualsiasi pretesto andava
bene perché mi picchiassero.
All'età di 11 anni io, mia madre e mio zio Riu siamo arrivati a bordo di una nave
petroliera, come clandestini, a Genova dove ho potuto frequentare la scuola
media.
I miei compagni mi hanno aiutato ad adattarmi alla nuova vita.
Ora, poiché non dimentico i momenti difficili vissuti da bambina, lavoro in
una casa-famiglia che accoglie orfani e bambini abbandonati dai genitori
Non erano anni felici quelli che mi portavo addosso nella fotografia; Avevo tredici anni ed ero forse la più piccola nella mia
classe.
Piccola e sola, immigrata in questo paese, l'Italia, come una merce.Il Brasile era la mia vita: la mia terra, il mio mare, il mio
profumo.La prima volta che arrivai in Italia ero solo una bambina. Non capivo perché poco prima il cuore di mia madre aveva
cessato di battere. L'ultima cosa che mi disse fu "siga o seu caminho" che significa vai per la tua strada, poi si addormentò
per sempre. Non ebbi tanto tempo per conoscerla bene, perciò il ricordo che oggi ho di lei è molto sfuocato; non ho neanche
una sua foto. Ma un figlio alcune cose le sente sempre. E quella poca vita con lei mi è bastata per capire quanto fosse dolce,
sincera e buona. Era una donna forte, ricordo questo.Non si faceva mai mettere i piedi in testa da nessuno: lei sì che andava
per la sua strada.
Mio padre chissà dove si trova. Ci abbandonò appena io nacqui. Sono cresciuta senza un padre e senza una madre, tra le mani
di tante persone, sbattuta in tanti istituti Italiani.Quando compii diciotto anni, iniziai a frequentare brutte amicizie.Presi una
strada sbagliata. Feci uso di droghe, che sciocca ero forse convinta di riavere la mia vita gioiosa di quando ero una bambina di
otto anni?
Nei momenti di estasi ritornavo alla mia terra e c'era mia madre; c'era mia nonna.Giocavo e crescevo; riuscivo a superare gli
otto anni felicemente, cosa non accaduta nella realtà! Ma perché.. Perché non sono potuta essere anche io una figlia? Dopo
quel periodo, dove ero caduta in quell'oscuro mondo, sono stata per tre anni in una comunità per ristabilirmi o meglio provare
quel sinonimo da me mai conosciuto: vita. Ora ho trentadue anni. Le delusioni in amore non sono mancate. Una volta incontrai
un uomo, credetti che fosse l'amore della mia vita. Promise di riportarmi in Brasile per vivere felicemente.Invece mi portò in
un mondo tremendo come quello della droga: dove la casa delle ragazze è la strada. Mia madre mi aveva detto di seguire la
mia strada ma non di fermarmi in quel modo.Denunciai quel "fasullo" principe azzurro e misi fine ad un grande giro di
prostituzione. Ora sono felice. Ho una famiglia: una figlia diversamente abile che ha due anni. L'amerò anche quando ne avrà
otto, quattordici, ventiquattro e trentacinque! Porterò avanti quell'amore che mia madre aveva dentro per me e mi ha
trasmesso quando quella mattina di tanti anni fa si è addormentata tra le mie braccia, mentre le accarezzavo i capelli,
piangendo e preoccupandomi che non si svegliasse più.. Ma così fu.
Mi chiamo Mahaj, ho 32 anni e vivo in Italia da molto tempo. Quando mi
trasferii dall'India andai ad abitare in uno dei tanti vicoli malfamati di Genova.
A causa delle mie origini venivo sempre preso in giro dai miei compagni. Nella
classe che frequentavo, la III C, c'erano molti extracomunitari e persino loro
non mi accettavano. Solo una ragazza italiana di nome Silvia mi rispettava per
quello che ero, e per questo stringemmo subito amicizia. Per me lei era una
persona molto speciale, tanto da essermene innamorato e anche lei provava gli
stessi sentimenti per me, glielo si leggeva dallo sguardo. Purtroppo i miei
genitori non la accettarono perché desideravano una ragazza che avesse le
stesse nostre origini. In quegli anni capii che cosa volevo diventare: desideravo
fare il veterinario per aiutare gli animali in difficoltà, ma anche viaggiare per
conoscere le meraviglie del mondo. Non ho mai perso la speranza e il destino mi
ha premiato. Oggi sia io che Silvia siamo due persone realizzate. I nostri destini
si sono separati, ma siamo sempre rimasti in contatto.
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