Genova Insolita
Genova Insolita è un’iniziativa organizzata dalle volontarie del Servizio Civile Nazionale per
il progetto Arte, Natura e Scienza del Comune di Genova e coinvolge le biblioteche e i
musei presso cui le ragazze hanno prestato servizio durante l’anno 2014/2015. L’idea è
nata con l’obiettivo di suggerire ai cittadini nove itinerari alla scoperta di mete
inesplorate del territorio genovese, per valorizzare e promuovere il valore artistico,
naturalistico e scientifico celato intorno ad ogni sede di progetto, punto di partenza di
ciascun percorso.
Armatevi quindi di scarpe comode e preparatevi a partire!
Il percorso delle volontarie dei Servizi educativi e didattici del
Settore musei
Ciao! Siamo Francesca e Valentina.
Dal momento che il nostro percorso di Servizio Civile si è svolto a stretto contatto con i bambini
nell’ambito della didattica museale, abbiamo voluto proporre in linea con gli obiettivi del
progetto due attività rivolte espressamente a questi e, invece, una sola traccia d’itinerario
tematico. Pertanto, nelle pagine seguenti troverete:
Natura: Tanti “cieli in una stanza”
Scienza: “Tutto il tempo in una…mostra”
Arte: Non solo a Natale: una traccia di itinerario tematico sul presepe genovese
Buona visita!
Percorso I – Natura
Tanti “cieli in una stanza”
Non vi è dubbio che il cielo faccia parte del nostro immaginario. Gli artisti ne hanno da
sempre subito il fascino, si sono emozionati e hanno trasposto le loro sensazioni in colori
tenui e saturi, sfumature e forme variegate. Ma c’è di più: i pittori di fatto, spesso,
“fotografavano” i fenomeni atmosferici e ne registravano caratteristiche, dettagli,
manifestazioni con estrema precisione. Difficile dire se dietro la rappresentazione di un
fenomeno atmosferico vi fosse la piena consapevolezza del suo manifestarsi dal punto di
vista scientifico.
Ma cos’è il cielo?
Il cielo è l'atmosfera della Terra vista dalla superficie. Ma perché ci appare blu? La luce
solare è formata dalla sovrapposizione di onde elettromagnetiche di lunghezza diversa, che
i nostri occhi percepiscono come violetto, blu, verde, giallo/arancione, rosso. La luce blu,
avendo una lunghezza d’onda più breve, viene rifratta dalle piccole particelle degli strati
più alti dell’atmosfera, e si diffonde in tutte le direzioni. In alta montagna il colore azzurro
del cielo appare quindi più scuro a causa della minore densità dell’atmosfera; sulla Luna e
su tutti i corpi celesti, dove l’atmosfera manca del tutto, il “cielo” è perennemente nero e
le stelle visibili anche di giorno. E al tramonto? Quella calda sfumatura arancione che tanto
ispirò poeti e artisti, deve la sua natura alla luce del sole, che, per raggiungere i nostri occhi,
deve attraversare uno spessore maggiore di atmosfera rispetto a quando il sole è allo zenit
(mezzogiorno): la luce blu viene diffusa meno in aria e contemporaneamente la luce
rossa/arancione, di lunghezza d’onda maggiore si aggiunge alla diffusione espansa. Le
nuvole invece appaiono bianche perché le particelle che le compongono hanno dimensioni
maggiori rispetto a quelle dell'aria; perciò rifrangendo tutti i diversi colori della luce nello
stesso modo, ciò che risulta alla nostra visione è il bianco, inteso come somma delle
componenti
cromatiche.
2
Ma cosa sono le nuvole?
Forse non tutti sanno che le nuvole, masse di minute particelle d'acqua condensata e/o
cristalli di ghiaccio, sospese per galleggiamento nell'atmosfera e solitamente non a
contatto con il suolo, assumono diverse forme e consistenze. L'aspetto generale di una
nube è determinato dalla natura, grandezza, numero e distribuzione nello spazio delle
suddette particelle, ma anche dall'intensità e dal colore della luce ricevuta, dalla sorgente
di luce e, aspetto non secondario, dalla posizione relativa dell'osservatore.
Ma come si formano le nuvole?
Il riscaldamento solare stimola l'evaporazione dell'acqua presente sulla terra nei mari, nei
laghi, nei fiumi e in ogni altro specchio d’acqua, generando la condensazione del vapore
attorno ai nuclei di condensazione e di conseguenza la nuvola. Il fenomeno, per quanto
complesso, si può sintetizzare così:
L'irraggiamento solare aumenta la temperatura della superficie terrestre. Per conduzione
termica il suolo caldo scalda anche l'aria a contatto con esso. L'aria calda, più leggera di
quella fredda, tende a salire verso l’alto generando una corrente ascensionale e portando
con sé l'umidità contenuta. Nel suo movimento ascendente, l'aria si raffredda e raggiunge il
punto di saturazione del vapore. Questo grazie ai nuclei di condensazione si trasforma in
minuscole goccioline di acqua che galleggiano nell'aria, e che formano, per l'appunto, le
nubi. I nuclei di condensazione sono microparticelle di varia natura fortemente
igroscopiche, cioè aventi affinità con l'acqua, che entrano in gioco nei processi di
formazione, ovvero di condensazione, delle nubi in atmosfera. Se la temperatura è
particolarmente bassa, queste si trasformano in microscopici cristalli di ghiaccio.
Tipi di nubi
Nubi a sviluppo
orizzontale
Cirri (1)
Cirrostrati (3)
Nubi medie
Altostrati (5)
Cirrocumuli (2)
Altocumuli
lenticolari
Altocumuli
(4)
Nubi basse
Stratocumuli (6)
Strati (7) e
nembostrati (8)
Cumuli di bel
tempo
Cumuli (9)
Nubi alte
Nubi a sviluppo
verticale
Cumulonembo (10)
3
Per conoscere e distinguere le diverse tipologie di nuvola, nel XIX secolo è stato elaborato
un sistema di classificazione, basato fondamentalmente sull’altitudine che queste masse di
particelle raggiungono rispetto alla superficie terrestre, sulla loro consistenza e sulla forma.
Occhio ai cieli dipinti
I grandi maestri del passato hanno raffigurato le nuvole non in modo casuale, ma
riprendendo esattamente le diverse tipologie definite dalla scienza! Il nostro breve
percorso fra le opere delle Raccolte Frugone, attraversa paesaggi dipinti con uno sguardo
particolare e attento ai cieli. Li guarderemo con lo stupore che sempre l’arte genera, ma
anche con l’occhio analitico dello scienziato. La scoperta sarà un gioco divertente!
Procediamo con una selezione di opere che allena il nostro sguardo e sarà facile
successivamente proseguire affinando la capacità di contaminare arte e scienza.
Ne Il mattino di Antonio
Fontanesi, il cielo è
protagonista. In una
luminosa mattina di primavera, una
pastorella siede tranquilla su una
roccia, assorta nei suoi pensieri. Più
della metà della tela risulta occupata,
4
se non dominata, da un limpido cielo azzurro, animato all’orizzonte da morbide nubi
bianche. Il loro nome scientifico è Cirri: si tratta di nubi sottili e allungate, che appaiono
come delicati filamenti o strette bande, la cui colorazione varia dal bianco al biancastro.
Sono formate da cristalli di ghiaccio e risultano quindi trasparenti a causa della grande
dispersione dei cristalli stessi; la luce del Sole attraversa i cirri quasi senza alcuna
attenuazione e tale particolarità viene
fedelmente resa da Fontanesi.
Al limitare superiore della tela
appare, affusolato dal vento,
qualche Altocumulo. Queste
nubi medie, composte di fiocchi globulari
compatti estesi a tutto il cielo visibile,
appaiono ben delineate e marcate rispetto
ad un cielo sereno. Frequentemente
l'altocumulo si presenta come una serie
parallela di strisce compatte o formate da fiocchi allineati in ranghi dalla conformazione
ondosa. In altri casi gli altocumuli si alternano ad altostrati, oppure a fenomeni nuvolosi di
altitudine più elevata, quali cirrostrati.
Al centro del dipinto, troneggia
un Cumulo, una nube a piccolo
o medio sviluppo verticale, che
ha l’aspetto di una torretta o un cavolfiore,
con una base e una sommità piatta o
leggermente convessa, posta alla stessa
altitudine dei cumuli presenti nelle sue
vicinanze.
La pennellata densa, veloce e materica, che Eugenio
Gignous adotta per raffigurare Strada a Gignese mostra
in maniera precisa e puntuale i cosiddetti Cirri di bel
tempo, nubi che compaiono in situazioni di atmosfera
stabile e si distinguono per la ristretta estensione, la
struttura irregolare e il moto più lento. Al contrario, la
comparsa di cirri in gran numero e disposti a bande in
un cielo blu, annuncia generalmente l'arrivo di un
fronte caldo entro 15 ore, accompagnato da
precipitazioni spesso persistenti, oppure la fine di
5
un'attività temporalesca (in questo caso sono detti anche "falsi cirri"). Durante il crepuscolo
spesso assumono una colorazione rosata o rossastra a causa della rifrazione che subisce la
luce solare quando attraversa spessi strati di atmosfera.
In Vegetazione ligure a Riomaggiore di
Telemaco Signorini il mare azzurrissimo
degrada verso il cielo all’orizzonte.
Quest’ultimo è reso come un velo
continuo,
traslucido,
che
copre
parzialmente il cielo con nubi chiamate
Cirrostrati. Il loro spessore è molto
limitato e il colore è normalmente
biancastro e lattiginoso; talvolta è
possibile intravedere una trama fibrosa.
Nel caso in cui lo spessore sia ridotto ad un velo e la copertura si estenda a tutto il cielo
visibile il cirrostrato risulta difficile da discernere, attenuando solamente il colore azzurro
del cielo di giorno o rendendo lattiginoso il cielo di notte. Il cirrostrato si colora di tinte
cangianti che variano dal giallo al rosso, durante e immediatamente prima dell'alba come
del tramonto.
In Marina a Venezia di Guglielmo
Ciardi lo spazio è diviso
orizzontalmente in due zone che
creano due immagini pressoché
speculari; così come il mare
anche il cielo appare uniforme e
costituito
da
un
colore
predominante, il grigio-argento,
creando
suggestivi
effetti
atmosferici.
Quest’unità
cromatica rende perfettamente lo sviluppo orizzontale dello Strato, una nube bassa e
uniforme di colore variabile dal grigio chiaro fin quasi al bianco. A differenza dei
nembostrati, lo strato può dare origine a piogge o nevicate ma molto deboli, ha un
spessore minore, che spesso lascia trasparire la luce del Sole e della Luna, e una maggiore
uniformità.
6
Osserviamo ora attentamente il paesaggio
Torri a San Gimignano di Ferruccio Scattola.
Accanto alle tre tipologie fondamentali di
nubi (cirri, cumuli e strati) ben riconoscibili
per forma e dimensione, è identificabile una
variante ibrida, l’Altocumulo lenticolare.
Caratterizzate da forma a lente, queste nubi
sono spesso associate a onde orografiche
(mountain waves), fenomeni che possono
risultare molto pericolosi per il volo. Esse si
generano quando una corrente d'aria
incontra un rilievo o un sollevamento termico che devia verso l'alto il flusso. Questa
deviazione è di solito invisibile ad occhio nudo, ma nelle giuste condizioni atmosferiche può
venire evidenziata proprio dalla formazione di nubi lenticolari.
Quali nubi annunciano il cattivo tempo?
Quelle più vicine al livello del suolo, comunemente chiamate Strati e Cumuli; se le prime si
sviluppano orizzontalmente coprendo vaste porzioni di cielo e creando quell’effetto di
“cielo coperto”, ma piuttosto lattiginosa; le seconde sono più localizzate, ma proprio per il
loro sviluppo verticale risultano molto più spesse e scure, e quindi portatrici di pioggia.
In Monte Civetta di Francesco Sartorelli, troviamo Cumuli temporaleschi, che, come è tipico
dell’ambiente montano, possono indicare un repentino cambiamento del tempo.
7
Nel Lago del Mucrone nel biellese, di Lorenzo Delleani
splendida è la resa del riverbero luminoso che
attraverso lo specchio d’acqua riflette la nuvola scura
in alto a sinistra. Si tratta di un chiaro esempio di
Cumulonembo, una nube a forte sviluppo verticale
che si genera in condizioni di instabilità atmosferica.
Vista a distanza si presenta come una torre che dalla
base piatta e non molto alta dal suolo (mediamente
intorno ai 2000 m alle nostre latitudini) si erge per
alcuni chilometri, sino ad arrivare al limite della
troposfera ovvero, alle nostre latitudini, meno ai poli
e di più all'equatore. Raggiunto tale limite si espande
orizzontalmente e non più verticalmente, dando
luogo ad una sommità a forma di incudine. Nei
cumulonembi possono essere presenti i fulmini.
L’ampio spessore impedendo il filtrare della luce
provoca il peculiare colore cupo; sulla tela di Delleani il grigio plumbeo annuncia dunque un
temporale imminente.
Troviamo questi tipi di nubi in altri dipinti della collezione, quali
Paesaggio marino di Leonardo Bistolfi
(cumulonembo – stratocumuli); Alberi in fiore
di Eugenio Gignous (stratocumuli); Campo di
San Maurizio, la brughiera, di Giacomo Grosso
(cumulonembo – stratocumuli o altostrati) e
La betulla, di Bartolomeo Bezzi (altostrato).
In Bricole di Pietro Fragiacomo i due elementi
protagonisti
sembrano
congiungersi
all’orizzonte, distinti solo dalla diversa
consistenza della pennellata: piatta e distesa
per lo specchio d’acqua quasi immobile, più
corposa per il cielo. In esso i nembi
emergono dallo sfondo soltanto per la
densità della materia di cui sono composti. Il
Nembostrato è, infatti, una nube a grande
sviluppo orizzontale, di colore grigiastro - nero, la classica nube da maltempo non
temporalesco così come appare anche in Poesia invernale di Bartolomeo Bezzi. Di solito i
8
nembostrati portano precipitazioni di intensità moderata o abbondante, seppur non ai
livelli di quelle prodotte dai cumulonembi, a cui si associano anche manifestazioni
temporalesche.
Il fenomeno atmosferico è
ritratto con cura eccezionale
nella Via ferrata di Tammar
Luxoro. Sembra strano vedere
nella stessa tela la compresenza
di due differenti condizioni del
cielo: una porzione cupa
all’estrema sinistra, un’altra luminosa dalla parte opposta. Si tratta in realtà di una
riproduzione fedele: il cumulonembo infatti, è una nube temporalesca imponente, a
sviluppo verticale e perciò localizzata, la cui struttura non impedisce di intravedere un
orizzonte sereno a pochi chilometri di distanza, come raffigurato sulla tela. Sotto il
cumulonembo impazzano le raffiche discendenti, masse d’aria fredda e pesante che si
muovono verso il suolo. Sono evidenti soffermandosi sulla direzione dello sbuffo di fumo
che, uscendo dalla locomotiva, invece di disperdersi viene spinto a terra. Proprio lo scontro
tra queste correnti e quelle calde ascendenti, possono generare la grandine.
Che cos’è la grandine?
Quando le correnti ascensionali in un Cumulonembo sono abbastanza forti si forma la
grandine; in questo caso accade che un primo nucleo di ghiaccio viene trasportato in su e
in giù nella nube, dove si fonde con altri piccoli aggregati di ghiaccio e gocce d'acqua per
poi ricongelarsi nuovamente e diventare sempre più grande. Quando le correnti non
riescono più a sollevare e trattenere i pezzi di ghiaccio, perché divenuti troppo pesanti,
questi cadono a terra; gli aggregati di particelle ghiacciate che non riescono a fondersi
prima di arrivare al suolo causano spesso notevoli danni sia nelle campagne (coltivazioni,
frutteti, ecc.) che nei centri urbani (alle abitazioni così come ai mezzi di trasporto). È più
probabile che la grandine cada d'estate, nonostante sia formata da ghiaccio, essendo una
conseguenza dell'afa. Durante e dopo una grandinata la temperatura si abbassa
rapidamente (anche di dieci gradi in mezz'ora) perché il ghiaccio solido per trasformarsi in
acqua sottrae calore all'ambiente, con la possibilità a volte di generare trombe d'aria. La
base del cumulonembo è scura, a volte quasi nera, con sfumature che possono andare dal
verde al giallo soprattutto quando causa la formazione di grandine.
9
BIBLIOGRAFIA
Un Museo in mostra. Due secoli di storia artistica nelle collezioni della Galleria d’Arte Moderna di
Genova, catalogo della mostra a cura di M. F. Giubilei, (Genova, Palazzo Ducale 20 febbraio-16
maggio 1999), Umberto Allemandi & co., Torino, 1999.
S. Junaković, L. Mercalli, B. Tognolini, Cieli. Segni, parole, scienza e altro per un gioco ad arte, M. F.
Giubilei e S. Maione (a cura di), Artebambini, Bologna, 2009.
Maria Flora Giubilei (a cura di). Prefazione di Fernando Mazzocca Raccolte Frugone. Catalogo
generale delle opere. Musei e collezioni della città di Genova, Silvana Editoriale, Milano, 2004.
A. A. V. V., Galleria d’Arte Moderna di Genova con opere della Collezione Wolfson. Guida, M. F.
Giubilei (a cura di), Maschietto Editore, Firenze, 2004.
A. A. V. V., Galleria d’Arte Moderna di Genova. Repertorio generale delle opere, M. F. Giubilei (a
cura di), Maschietto Editore, Firenze, 2004, vol. I-II.
A. Perniola, Filosofisica, Ottimilibri, Santeramo in Colle (BA), 2014.
10
Percorso II – Scienza
Tutto il tempo … in una “mostra”
L’uomo del passato che viveva immerso nella natura, assoggettato completamente alle sue
leggi, si abituò da sempre a un’attenta osservazione dei fenomeni naturali. Così la necessità
di prevedere, se non di controllare, i ritmi giornalieri e annui della natura con cui doveva
ogni giorno confrontarsi, lo ha spinto, nel corso della storia, a servirsi dei movimenti del
Sole e dei corpi celesti per misurare il tempo. Ha seguito i ritmi naturali fissandoli nel ciclo
delle stagioni e nel suo avvicendarsi temporale cui ha legato e condizionato
l’organizzazione delle sue attività: agricoltura, allevamento, viaggi, vita quotidiana.
Il primo orologio è stato probabilmente
originato dall’osservazione della propria
ombra e dalla sperimentazione di quanto
accade conficcando un semplice bastone
in uno spiazzo di terra. L’ombra del
bastone, molto lunga nel momento in cui il
sole sorge all’orizzonte, si accorcia a poco
a poco; raggiunta una lunghezza minima a
metà del giorno (a mezzogiorno), l’ombra
riprende ad allungarsi, fino al momento
del tramonto del Sole. Potrebbe nascere
da
questa
osservazione
la prima
meridiana.
L'uomo può aver cominciato a misurare il tempo «per scopi pratici». Un popolo che, da
cacciatore-raccoglitore, diventa sedentario, legato, quindi, alla terra e ai suoi prodotti, ha
bisogno di avere un riferimento temporale: non tutti i frutti e gli ortaggi sono seminabili e
coltivabili in tutte le stagioni (oggi le moderne serre stravolgono completamente questo
principio). Si sarà reso necessario di conseguenza avere una nozione di «tempo», partendo
dal dato oggettivo ed evidente che le stagioni si avvicendano ciclicamente - primavera,
estate, autunno, inverno e poi via, il giro riprende, sempre nello stesso modo. Conoscere il
ciclo delle stagioni e la sua durata, permette di fare previsioni, di conoscere il momento
buono per la semina e, di conseguenza, di calcolare quello in cui essa renderà frutto.
11
Un’evoluzione del semplice bastone conficcato a terra, fu
dunque la meridiana. Esistono molti tipi di meridiane, verticali
o a parete, orizzontali da giardino, equinoziali, portatili, ecc.
Noi per comodità diremo semplicemente che la meridiana è
un orologio solare, ovvero uno strumento che fornisce l'ora
del giorno in base alla posizione dell'ombra proiettata su un
piano esposto al sole, detto quadrante, da un'asta, chiamata
già nel mondo greco gnomone o stilo. L'asta che produce
l'ombra, di solito costituita da una freccia metallica, è disposta
parallelamente all'asse terrestre e orientata verso il polo
celeste; il quadrante invece, costituito da una superficie piana
su cui sono tracciate semirette corrispondenti alle ore del
giorno, deve tenere conto della latitudine del luogo. Per
ricavare l'ora del fuso dall'indicazione di una meridiana,
bisogna ricorrere a tabelle che tengono conto della variabilità
della velocità apparente del Sole rispetto alla Terra. Si dice che
i primi a realizzare meridiane precise e perfettamente
funzionanti siano stati i Cinesi, più di 5000 anni fa (III
millennio a.C.). Ben presto si comprese che per misurare con
maggior precisione l’accorciarsi e il successivo allungarsi
dell’ombra, era opportuno disporre di un bastone molto
lungo. Gli obelischi dei caldei e degli egizi terminavano per
questo motivo in una punta ed erano molto alti. Per i caldei gli
obelischi erano veri e propri gnomoni, mentre per gli egizi
erano simboli solari, che venivano innalzati davanti ai templi e
solo talvolta funzionavano come stilo per la lettura delle ore.
L’uomo quindi misura il tempo per motivi pratici, ovvero per
l’agricoltura.
Con un bastone, uno stilo o un obelisco, la lettura esatta dell’ora risultava, tuttavia, sempre
difficile e approssimativa. Forse anche per questo ai tempi dei Greci e dei Romani la
giornata veniva suddivisa in quattro parti principali. In particolare, per quanto riguarda il
lavoro il giorno andava dall’alba a metà mattina (hora tertia), da metà mattina a
mezzogiorno (hora sexta), da mezzogiorno a metà pomeriggio (hora nona), da metà
pomeriggio al tramonto. Anche la notte veniva divisa in quattro parti, sulla base dei quattro
12
turni di guardia a cui le sentinelle della città erano chiamate a presiedere, dandosi il cambio
ogni 3 ore. Possiamo dire che questo modo di suddividere il giorno era funzionale, ma
sicuramente non aveva alcuna base scientifica: infatti dal momento che durante l’estate il
Sole resta sopra l’orizzonte per un periodo molto più lungo rispetto all’inverno e si rendeva
necessario cambiare la durata del tempo dedicato al lavoro, o ai turni di guardia, da una
stagione all’altra.
L’uomo quindi misura il tempo per motivi pratici, ovvero per il
lavoro (in bottega, nei cantieri, ecc.) e per i turni di guardia.
Per i marinai, agricoltori e pastori greci e romani, l’osservazione di giorno dell’altezza del
Sole, di notte di alcune stelle o della Luna rendeva possibile un’indicazione sia pur
approssimativa dell’ora. All’uomo comune dell’antichità, insomma, poco importava di
conoscere con esattezza l’ora, il minuto e il secondo: non esistevano orari precisi come per
noi oggi quali l’ora di partenza e arrivo dei treni, di inizio e fine dei turni di lavoro, dei film
al cinema, della scuola etc. Gli astronomi però sentirono l’esigenza di trovare un metodo
più preciso, che permettesse di determinare le ore del giorno anche quando il cielo era
coperto di nubi, o durante la notte, quando l’assenza del Sole impediva di utilizzare le
meridiane.
C’era però anche un’altra esigenza, ovvero quella di determinare con esattezza la durata
degli intervalli temporali. A questo scopo furono presto messi a punto veri e propri semplici
strumenti.
Il più antico è uno strumento ad acqua: la clessidra: da un
contenitore colmo, con un forellino verso il fondo, l’acqua
sgocciolava molto lentamente in un recipiente sottostante.
Quest’ultimo si riempiva a
poco a poco ed era dotato
di una graduazione che
consentiva
di
leggere
quanta
acqua
era
sgocciolata, cioè quanto
tempo era passato. In
alternativa, nel recipiente
che riceveva l’acqua si metteva un galleggiante;
questo si sollevava a poco a poco, abbassando un
contrappeso esterno, che serviva come indicatore
del
tempo
trascorso.
13
Ma la clessidra ad acqua aveva un grave inconveniente: se la temperatura scendeva sotto
lo zero, l’acqua si trasformava in ghiaccio e l’orologio si bloccava. Nei paesi del
Mediterraneo questo avviene raramente, ma andando verso Nord nel continente europeo
le temperature invernali scendevano spesso sotto lo zero.
Bisognava quindi trovare un sistema diverso, in grado di funzionare
anche in tali condizioni. Così la clessidra ad acqua si trasformò in
clessidra a sabbia (o clepsamìa). Due coni con il vertice in comune
attraversato da un piccolo forellino permettono il defluire di granelli
sottili di sabbia dal recipiente superiore verso quello inferiore; la
lettura del tempo si compie su uno dei recipienti. La cosa
importantissima è capovolgere al momento giusto la clessidra, quando
tutta la sabbia è scesa nel recipiente inferiore, senza anticipare, ne
ritardare l’operazione.
Sia la clessidra che la clepsamìa erano funzionali ad un uso
scientifico, in quanto segnavano intervalli costanti di tempo. Se
appositamente modificate, lo sgocciolio dell’acqua veniva
regolato attraverso un rubinetto, la clessidre a sabbia invece
venivano modificate con strati di cera depositati sulla superficie interna,
potevano servire anche nella vita di tutti i giorni.
Meridiane e clessidre permettevano di misurare il tempo, ma avevano dei limiti, che
furono superati dagli orologi meccanici. Col vantaggio che, dotati di una «sveglia», non
dovevano essere sorvegliati continuamente; inoltre
funzionavano sia di giorno che di notte.
Non si sa come e quando sia nato l’orologio meccanico.
Certamente, prima del Trecento nei monasteri esistevano
i cosiddetti svegliatori o svegliarini, costituiti da una
ridotta serie di ingranaggi che venivano trascinati da un
peso, sostenuto da una corda che si avvolgeva su un
tamburo cilindrico. Via via che il peso scendeva, gli
ingranaggi ruotavano; a intervalli prestabiliti, nel corso
delle ventiquattro ore di un giorno, un dispositivo
semplicissimo,costituito da una serie di pioli fissati su
rotismi oppure direttamente sulla fune, andava a
scuotere una campanella, svegliando così i monaci. Per la
ricarica era necessario riavvolgere la corda che
14
sorreggeva il peso sul tamburo cilindrico. Per l’uso specifico dei monasteri, dove le ore
delle preghiere sono stabilite da una «regola» molto precisa, gli svegliarini risultavano
molto efficaci.
Nel Quattrocento, nonostante la maggior parte della
popolazione fosse ancora dedita all’agricoltura e quindi non
avesse un particolare interesse alla scansione precisa delle
ore, lo svegliarino uscì dai monasteri, e i primi orologi
meccanici iniziarono a comparire sulle torri comunali e sui
campanili di alcune città. Si trattava, in realtà, di meccanismi
che riproducevano con pochi miglioramenti quelli degli
svegliarini. I primi orologi da torre non avevano un
quadrante, ma si limitavano a battere le ore su una
campana. Le campane successivamente diventarono due,
permettendo così di scandire anche le mezze ore, attraverso
suoni diversi e una messaggio di tipo sonoro. Solo più avanti furono introdotti i quadranti
per una lettura anche visiva.
Dalle torri e dai campanili l’orologio scese nelle case. I primi a possederlo furono i sovrani, i
nobili, le famiglie più ricche. Naturalmente bisognava costruire orologi con ingranaggi più
piccoli e sostituire i pesi con un’altra sorgente di energia che mettesse in moto rotismi di
dimensioni ridotte. A questo scopo intorno al 1400 venne introdotta la molla, che però
aveva il difetto di scaricarsi con grande regolarità. Anche la precisione non era ancora
totale, l’importante era comunque possedere un orologio, che all’epoca rappresentava un
vero e proprio status symbol. Gli orologi finirono così col diventare oggetti ornamentali da
fare ammirare agli ospiti e pertanto, più interessanti se arricchiti da meccanismi stravaganti
piuttosto che precisi. Per es. tra XVII e XVIII secolo, grande fascino esercitarono gli orologi
notturni, quelle pendole cioè per la lettura notturna, dotate di cifre orario leggibili in
trasparenza mediante una fonte di luce racchiusa entro la loro cassa.
L’uomo quindi misura il tempo con orologi che costituiscono uno
status symbol, da esibire per il loro valore estetico, come accade
oggi con gli orologi da polso.
Si racconta che nel 1583 Galileo Galilei, mentre assisteva ad una funzione religiosa nel
Duomo di Pisa, annoiandosi, avesse iniziato ad osservare l’oscillare del lampadario.
Realizzando che il movimento era sempre uguale a sé stesso, teorizzò il cosiddetto
15
isocronismo del pendolo: la durata dell’oscillazione di un pendolo resta costante e dipende
soltanto dalla lunghezza del pendolo stesso. Ciò diede una svolta decisiva alla storia degli
orologi, poiché l’isocronia venne sfruttata come unità di misura per calcolare il regolare
trascorrere del tempo con sempre maggiore precisione.
Anni dopo Galileo (1657), l’olandese Christiaan
Huygens, che lavorava all’osservatorio di Parigi,
inventò lo scappamento ad ancora, che andava a
sostituire quello a verga. Lo scappamento è un
meccanismo inserito fra la sorgente di energia e
l’elemento di controllo della regolarità di andamento
dell’orologio, l’isocronoia del pendolo. In sua assenza
gli ingranaggi ruoterebbero velocemente fino a
scaricare il motore. Negli orologi a pendolo, se nel
caso dello scappamento a verga, la ruota di
scappamento veniva ingranata da una semplice
asticella uncinata - la verga appunto, nella nuova
versione di Huygens, l’ancora ingrana la ruota di
scappamento trascinata da un peso, e le consente di
avanzare un dente alla volta ad ogni oscillazione del
pendolo, ribloccandola subito dopo. In questo modo si
ottimizzava l’impiego di energia, a vantaggio di una maggiore precisione della misurazione.
Proprio il doppio movimento dello scappamento ad ancora produce il caratteristico tic tac
dell’orologio.
Ma Huygens non si fermò qua: gli orologi a pendolo,
infatti, funzionavano esclusivamente in posizione fissa;
voleva costruire orologi portatili in grado di funzionare
in qualsiasi condizione. Propose dunque l’uso di una
molla a spirale al posto dei pesi e l’impiego di un
bilanciere a spirale che andava così a sostituire il
pendolo, permettendo la miniaturizzazione di tutti gli ingranaggi.
Nel 1800 in Europa e negli USA si delineò uno sconvolgimento delle caratteristiche della
vita umana: le macchine iniziarono a prendere il sopravvento sull’energia muscolare degli
animali e degli uomini, cominciò a svilupparsi l’industria e i ritmi di lavoro divennero più
serrati. Se al contadino l’orologio poteva interessare relativamente perché il suo lavoro
restava legato al ciclo del Sole, per chi lavorava nell’industria la scansione della giornata
divenne
essenziale.
Nasce
così
l’industria
dell’orologio.
16
L’uomo quindi misura il tempo per motivi pratici, ovvero per il
lavoro in fabbrica quando «il tempo è denaro».
Per rispondere all’esigenza di conoscere l’ora in tempo reale, la
ricerca si orientò sempre più verso la creazione di orologi portatili
e da tasca, dotati di una catenella e di quadrante protetto da un
coperchio. La cassa poteva essere realizzata in metalli preziosi e
artigianalmente lavorata. Anche il quadrante era spesso decorato e
personalizzato, smaltato e variamente rifinito.
Negli anni ’90 del novecento vi fu una vera e propria svolta con la diffusione degli orologi al
quarzo. Il quarzo è un minerale dotato di proprietà piezoelettrica: comprimendo o
esercitando una trazione su una sbarretta di quarzo, sulle facce opposte di questo cristallo
si manifestano fenomeni elettrici che scompaiono
non appena cessa la sollecitazione. Si verifica però
anche il fenomeno inverso: applicando cariche
elettriche opposte alle due facce de cristallo, il
quarzo si contare e si dilata. Se l’esperimento
viene compiuto utilizzando una corrente alternata,
il quarzo oscilla con la stessa frequenza della
corrente. Come il pendolo oscilla con una
frequenza che dipende dalla sua lunghezza,
altrettanto succede dunque a una sbarretta di quarzo. Per controllare la regolarità di
andamento dell’orologio, come si usa un pendolo si può impiegare un cristallo di quarzo.
L’orologio a quarzo che noi portiamo al polso, contiene una sbarretta che oscilla 32.768
volte al secondo.
Gli orologi al quarzo possono essere analogici o digitali.
Quelli analogici sono normali orologi con quadrante tradizionale e
lancette, due o più indicatori uno più corto per indicare le ore,
l’altro più lungo per indicare i minuti. Talvolta è presente
l’indicatore
che
segna
i
secondi.
17
Gli orologi digitali invece, nati tra 1960-1970, sono privi di
lancette, in quanto indicano il tempo mediante cifre (digits, in
inglese): l’ora e i minuti appaiono scritti in forma numerica in un
apposito riquadro.
Ultima tappa del nostro viaggio è il cellulare. Negli
ultimi tempi, infatti, questo piccolo oggetto è andato a
racchiudere in sé molte funzioni, ultima delle quali
quella per cui nasce, telefonare. Con il cellulare oggi,
possiamo scattare fotografie, scrivere e mail, guardare
film, navigare su internet, sentire la musica, ecc., ecco
perché non sorprende che esso funga anche da
orologio portatile. Certamente questo strumento ha
sostituito, almeno nelle giovani generazioni l’orologio
da polso assumendone anche il valore di status
symbol.
BIBLIOGRAFIA
A. A. V. V., Il tempo e gli orologi, Rizzoli, Milano, 1992.
A. A. V. V., Oggi andiamo al museo. Museo Luxoro, Sagep, Genova, 1991.
G. Biavati, Gli orologi del Museo Luxoro, in “Bollettino dei Musei Civici Genovesi”, III, 7-8-9, Sagep,
Genova, 1981.
C. Galassi (a cura di), Museo Giannettino Luxoro, Nuova Alfa Editoriale, Genova, 1993.
A. A. V. V., Gli Orologi antichi, Fratelli Melita editori, Milano, 1991.
18
Percorso III – Arte
Non solo a Natale: una traccia di itinerario tematico sul presepe genovese
Villa Luxoro e il museo
La Villa, progettata dall’ing.
Pietro Luxoro come casa di
vacanza per sé e i suoi
fratelli Giuseppe e Matteo
in un terreno in splendida
posizione nella zona di
Capolungo, fu donata al
Comune di Genova nel
1946 da Matteo, ultimo
erede della famiglia per la
morte precoce del nipote
Giannettino durante la
Grande Guerra.
L’imponente edificio, ultimato nel 1903, richiama chiaramente motivi dell’architettura
tardo barocca, per allinearsi allo stile delle ville più antiche che la precedono lungo la costa
(Villa Gropallo, Villa Serra, Villa Grimaldi). La struttura si compone di due piani estesi da un
sottotetto superiore e da un seminterrato presenta sulle facciate specchiature ed
architetture a trompe l’oeil. Completa la facciata a mare una loggia angolare rivestita di
“laggioni” - mattonelle policrome peculiari della tradizione ligure – con mensoloni
sottotetto ornati da elaborati motivi fitomorfi. L’integrazione all’ambiente circostante per
mezzo del revival architettonico, coinvolge anche gli ambienti interni realizzati dai
decoratori Angelo Accorsi, Vittorio Gamba e Filippo Tami, su progetto di Pietro Luxoro, e
contamina ispirazioni quattrocentesche e seicentesche alle contemporanee influenze
neorococò. La passione per il collezionismo dei fratelli Luxoro, li portò ad arricchire la villa
di arredi, opere d’arte e oggetti di arti decorative, acquistati nel corso degli anni sul
mercato antiquario, trasformandola in una vera e propria “casa-museo” borghese di
stampo ottocentesco.
Fra i tre fratelli Matteo sviluppò un a vera e propria passione per le figure da presepe
storiche e, tra il 1912 e il 1927, acquistò gruppi di figure, abiti ricamati e accessori e
complementi di ogni tipo. Proprio lui, nel testamento del 1945, legò la proprietà al Comune
di Genova con il vincolo di aprirla al pubblico, affinché le raccolte in essa contenute fossero
accessibili alla cittadinanza, ponendo fra le condizioni che il nascituro museo fosse
intitolato a Giannettino, il nipote morto in guerra. L’allestimento museale della Villa fu
curato dall’allora Direttore dell’Ufficio di Belle Arti Orlando Grosso, che tentò di mediare la
sistemazione tra un’organizzazione scientificamente rigorosa e il rispetto di quell’estetica
19
tipica della casa genovese di inizio XX secolo, così cara al donatore. Il compito non fu
affatto facile, soprattutto quando scelte selettive improntate alla valutazione della qualità
artistica di fatto impoverivano il carattere della dimora; la soluzione fu quindi di destinare a
deposito e alloggio del custode gli ambienti del sottotetto, destinando all’esposizione i due
piani nobili. Per facilitarne la comprensione, là si collocarono le opere più significative,
raggruppate secondo i nuclei delle diverse raccolte e attorniate da preziosi arredi,
rispettando in tal modo il gusto sovrabbondante di fin de siècle
Il presepe a figure mobili di tradizione genovese
Nel giorno di Natale del
1610, nella cappella della
Croce della chiesa di Monte
Oliveto
a
Multedo, fu
esposto per la prima volta
un presepe, andato poi
disperso,
di
figure
a
manichino in legno scolpito
e policromato vestiti con
abiti in tessuto, con scene
rappresentanti
il
ciclo
natalizio dall’adorazione dei
pastori e dei Magi alla
presentazione di Gesù al
tempio.
A questa data dunque è attestata la produzione delle figure a manichino, più diffusa a
Genova, rispetto a quella di figure interamente scolpite e policromate e l’uso di allestire
all’interno del presepe scene, che scandivano la successione cronologica degli eventi
legati alla nascita di Cristo. Una tradizione non documentata continua ad attribuire la
maggior parte dei presepi settecenteschi pervenutici al grande maestro Anton Maria
Maragliano (Genova 1664- 1739), notissimo per la produzione di gruppi di grande
dimensione e per “maestose macchine” processionali. Dalle testimonianze giunteci sembra
inoltre che la produzione su vasta scala di presepi lignei abbia preso campo a Genova
soprattutto a partire dal quinto decennio del Settecento, ad opera degli epigoni del
Maragliano, teoria che peraltro pare pienamente confermata dai pezzi pervenutici, in gran
parte databili a partire dalla metà del secolo e certamente memori, in modo più o meno
stringente, degli esempi della scultura lignea del maestro.
Il nucleo storico di figurine del presepe è costituito da oltre 350 pezzi, di cui oggi è visibile
una parte con un allestimento che, negli anni, ha integrato pezzi provenienti da altre
20
collezioni e sviluppato un taglio fortemente didattico, attribuendo alle diverse vetrine un
carattere tematico.
Presepe a sagome dipinte
Alternativa al presepe scultoreo, la produzione di figure dipinte su carta e cartone e
successivamente scontornate, finalizzata all’allestimento di presepi, si sviluppa
parallelamente nella Germania cattolica e in ambito lombardo, a partire dal XVIII secolo. In
Liguria questo tipo di produzione fu utilizzata piuttosto nell’ambito delle macchine effimere
per gli apparti ecclesiastici e nelle coeve realizzazioni scenografiche teatrali.
Tra gli artisti attivi in questo campo, degno di nota è Francesco Londonio (Milano 17231783), autore di scene di genere e scenografo al Teatro della Scala.
A questa tradizione si rifà in parte l’esemplare conservato al Museo Luxoro nel quale la
struttura delle figure dipinte su carta applicata a cartone e sorrette sul retro da filamenti
metallici richiama il linguaggio stilistico di Landonio.
Giunto nelle collezioni Luxoro in forma incompleta – mancano due fra i protagonisti della
Natività -, il complesso è costituito da 19 figure dipinte ad olio, e, nell’allestimento
proposto in museo, presenta scenograficamente l’adorazione dei Magi: i tre magi,
contraddistinti dal turbante coronato, sono accompagnati da paggi, da soldati con cavalli e
cammelli, da figure di popolani e pastori e da pecore. Non mancano due piccole quinte
raffiguranti panneggi e doni. Sormonta il corteo un gloria di angeli in volo recanti il
tradizionale cartiglio.
All’interno della serie si individuano tre diverse mani: alla prima è riconducibile la figura di
San Giuseppe caratterizzata da un chiaroscuro più intenso e da una pennellata più corposa;
alla seconda spetta la figura del giovane Zampognaro, realizzata invece con campiture più
sfumate e delicate, e una marcata attenzione ai dettagli ispirata ai modi di Londonio. Le
restanti figure si attribuiscono ad un terzo artista dai modi più accademici e fedeli
all’immagine del presepe tradizionale.
Il complesso è stato valorizzato attraverso l’esposizione permanente al pubblico solo nel
Dicembre del 1991, grazie anche alla realizzazione della moderna struttura scenografica
appositamente progettata per uno spazio di risulta, adiacente la grande sala espositiva in
cui sono collocate le collezioni presepiali, difficilmente sfruttabile altrimenti.
21
Tipologie e Tecniche del Presepe Barocco
Pienamente allineato al clima seicentesco, il presepe barocco abbandona la scarna
essenzialità
dei presepi quattro/cinquecenteschi e si caratterizza per un’esasperata
attenzione al dato realistico, tanto nella resa dei personaggi - manichini lignei, con occhi di
vetro e abiti in tessuto, talvolta con parrucche di stoppa -, quanto nelle soluzioni
coreografiche e scenografiche sempre più articolate e ricche di personaggi. Dalla figura
interamente intagliata in legno, o modellata in terracotta o stucco e policromata, si passa al
manichino ligneo snodato, più rispondente ad esigenze espressive e di allestimento. Le
figure a manichino poi consentivano una maggiore rapidità di esecuzione e,
conseguentemente, costi più contenuti; erano infatti scolpite con cura e policromate solo
le parti visibili, non coperte dagli abiti, mentre il manichino si caratterizzava per una
esecuzione rozza attento soprattutto alle proporzioni e alla funzionalità delle articolazioni,
inoltre rispondevano meglio alle nuove esigenze spettacolari del presepe barocco,
rendendo possibile, attraverso la semplice sostituzione degli abiti o degli accessori, una
continua intercambiabilità dei personaggi e la conseguente trasformazione delle soluzioni
coreografiche.
Oggetto di devozione nonché artistico svago per nobili e ricchi borghesi, divenne strumento
suggestivo capace di coinvolgere emotivamente i fedeli, anche i più umili ed analfabeti,
rendendoli partecipi degli eventi rappresentati. Il presepe a figure mobili si diffuse quasi
contemporaneamente in Europa in tutti i paesi di tradizione cattolica. Molto spesso si
trattava di una successione di scene che comprendeva tutto il ciclo legato all’infanzia di
Gesù Bambino (Natività, Adorazione dei pastori, Adorazione dei Magi, Circoncisione, Strage
degli Innocenti, Fuga in Egitto), e che veniva allestito nel periodo compreso tra
l’Immacolata (8 Dicembre) e la Candelora (2 Febbraio).
Struttura a manichino
Le dimensioni variavano di massima tra i 25 e i 65 cm. Testa e busto venivano intagliati in
un unico blocco di legno (in genere tiglio) e policromati fino al collo. Il busto del manichino
maschile era caratterizzato da un’anatomia molto semplificata, quello femminile
presentava una forma particolare fortemente ristretta dalle spalle alla vita, dove terminava
con una punta allungata, e si espandeva posteriormente nei fianchi, secondo i dettami
della moda del tempo, che modellava il corpo femminile con busti irrigiditi da stecche
lignee. Due fori cilindrici all’altezza delle spalle e altri due nel piano di sezione del tronco
consentivano l’inserimento degli arti, dotati di snodi a disco alle spalle, ai gomiti, al bacino
e alle ginocchia. L’esecuzione più convenzionale e talvolta quasi grossolana, soprattutto
nelle gambe e nelle calzature, lascia supporre che questo completamento fosse affidato ai
garzoni di bottega. Le figure erano generalmente dotate di una base lignea intagliata a
22
simulare un piccolo scoglio colorato in verde e bruno
che veniva ricoperta e camuffata dal muschio che, nella
finzione scenica, alternandosi con la sabbia sostituiva il
fondo erboso del paesaggio naturale d’insieme
costituito prevalentemente da carta roccia, sughero,
arbusti. Alla testina ancora grezza venivano applicati, in
cavità opportunamente predisposte, piccoli occhi vitrei,
rifiniti con palpebre in stucco, successivamente il
“personaggio” realizzato dall’intagliatore veniva
completato dall’intervento del coloritore, al quale era
affidata la stesura delle lacche, che dovevano
specificarne ulteriormente il “carattere”: un incarnato
pallido, quasi eburneo, per i personaggi sacri (Gesù, la
Vergine, San Giuseppe, gli Angeli) a sottolinearne la
nobiltà; un rosa più acceso con sfumature sulle gote o
sul mento per i personaggi generici; un incarnato più
scuro, per i pastori rustici. Tonalità più scure, fino al
nero dei mori erano riservate invece al variegato e multietnico corteo dei Magi.
Ricorrenti sono le tipologie dei personaggi che si ripetevano da un presepe all’altro,
secondo un copione ben preciso: la contadinella sorridente, il mendicante lacero con la
stampella, lo zampognaro con le gote gonfie, i soldati, i mori.
Un’attenzione a parte meritano gli animali alla cui realizzazione si dedicavano
probabilmente artefici specializzati. Sono figure interamente scolpite e policromate, rese
espressive dagli occhi in pasta vitrea, intagliate con grande cura nei dettagli anatomici e in
diverse posizioni: al passo e rampanti i cavalli, talvolta accosciate le pecore, carichi gli asini,
sempre invece poco oggettivamente rappresentati i cammelli probabilmente a causa di una
conoscenza solo per via indiretta mediata dalla letteratura e dall’iconografia ad essa
collegata.
Nel presepe l’abbigliamento delle figurine è un elemento molto importante. Il costume,
insieme ai tratti somatici del volto, definisce la tipologia del soggetto; esso costituisce un
codice i cui dati permettono allo spettatore l’identificazione dei vari personaggi nel
contesto
della
scenografia
presepiale.
23
Gli abbigliamenti originali sono pervenuti oggi solo in parte per l’usura che subirono col
passare del tempo quell’usura a cui sono sottoposti tutti i tessili, con relativi danni dovuti
alla luce, alla polvere, ai parassiti. Fonti tradizionali non documentate, vogliono i costumi
cuciti dalle stesse dame della nobiltà, a sottolineare il carattere di rito domestico
dell’allestimento del presepe. In realtà sembrerebbe più logico supporre l’intervento di
artigiani operanti per le Confraternite delle Casacce data l’affinità dei manufatti prodotti,
nonché il lavoro delle monache di quegli Ordini che, all’inizio dell’Ottocento, ereditarono
gran parte dei presepi nobiliari. I personaggi più importanti di solito presentano costumi
ricchissimi: fra tutti, quello della Vergine - coronata in argento per essere stata designata
regina di Genova - in raso bianco o rosso con vistosi ricami in fili d’oro e argento corredato
da un mantello in seta azzurra. Color porpora e di foggia talare, anch’esso corredato di
mantello, l’abito di San Giuseppe, cui, secondo la tradizione tramandata dai vangeli apocrifi
si attribuisce il bastone fiorito in giglio realizzato in seta o in argento. Maestosi sono poi gli
abiti dei magi dei quali spiccano i preziosi mantelli in velluto e in seta rifiniti con galloni
dorati ed ermellino e ricamati in filo d’oro e d’argento. Coerenti con essi sono quelli dei
paggi del corteo e il loro ricco corredo. Alla moda infine, gli abiti delle figure non popolari:
marsine, panciotti, camicie in lino e braghe in seta per gli uomini, abiti scollati e riccamente
ricamati e adorni di pizzo per le donne. Vanno infine ricordati come parte dei costumi, i
gioielli: le piccole collane di corallo ed i pendenti di filigrana tipicamente liguri. Molto legati
alla tradizione genovese anche i materiali adoperati per gli abiti dei popolani: contadini,
pastori, venditori ambulanti, “besagnine” –termine dialettale per indicare le ortolane che
scendevano dai campi lungo il Bisagno per vendere i loro prodotti ai mercati-, zampognari,
mendicanti, questi ultimi due tipi in genere scalzi. Troviamo il panno, il fustagno, le tele di
canapa, cotone e lino rigate o quadrettate, le “mezzelane”, le saie, ossia i diagonali di
cotone blu antenate dei blue jeans; l’abbigliamento delle figurine presepiali funge dunque
da importante documentazione dell’uso di numerosi tessuti caratteristici della più nota
tradizione della Repubblica genovese. A completamento di costumi così dettagliati non
mancano accessori ad hoc: turibolo, navicella per incenso, spade e corone in ferro o
argento
per
il
corteo dei magi, i
cui cavalli rampanti
presentano anche
ricche gualdrappe e
bardature in cuoio e
velluto ricamato a
filo d’oro; lance,
alabarde e scudi per
paggi ed armigeri;
bastoni
per
i
24
pastori; vari strumenti musicali per zampognari e musici; ceste in vimini con variopinti
prodotti per contadine; bisacce, ciotole e stampelle per i mendicanti.
BIBLIOGRAFIA
A.A.V.V., Oggi andiamo al museo. Museo Luxoro, SAGEP EDITORI, Genova, 1991.
A. Bettanini, D.Moreno, Il presepe genovese, SAGEP EDITORI, Genova, 1970.
G.Biavati, G.Sommariva, L’antico presepe genovese, Compagnia di Librai, Genova, 1993.
M. Cataldi Gallo (a cura di), Il presepe della Madonnetta. Storia e restauro, LumiereArt, Sagl
(Lugano), 2005.
M. Fochessati, G.Franzone (a cura di), Dalla città al Museo. Percorsi nella Genova dell’Ottocento e
del Novecento tra storia, arte e architettura, SAGEP EDITORI, Genova, 2014.
C. Galassi (a cura di), Museo Giannettino Luxoro, Nuova Alfa Editoriale, Genova, 1993.
I profili del Presepe. Le sagome dipinte del Museo Luxoro, catalogo di mostra a cura di C.Galassi,
(Genova Nervi, Museo Giannettino Luxoro, 21 dicembre 1991-29 febbraio 1992), Editoria Brigati
Glauco, Genova, 1991.
G. Sommariva, Presepi di ieri e di oggi, in «La Casana» XLII n.3-4, 2000, pp.60-65.
Testi a cura di Valentina Pestarino e Francesca Moretti, volontarie del Servizio Civile Nazionale, progetto
“Arte Natura e Scienza”, anno 2014/2015.
25
Scarica

Il percorso delle volontarie dei Servizi educativi e