Anno 6 - Numero 4
R i v i s t a d i C u l t u r a S t o r i a e Tr a d i z i o n i
Ottobre - Dicembre 2010
Sommario
In copertina
Editoriale
“Lomellina”
particolare dell’opera
Olio su tela
Roberto Pelli (2010)
Camminando tra i sentieri di polvere
Sul nome Lomellina
La Strada Regia tra romani e longobardi
3
di Maria Forni
4
di Carlo Montorsi
7
di Umberto De Agostino
9
Strade campestri di Mortara
di Guido Giacomone 11
Il dolce andare in terra lomellina
di Graziella Bazzan 14
Contadini d’altri tempi: Bastiano
di Eufemia Marchis Magliano 16
Il medico di campagna
di Nadia Farinelli 20
Sui sentieri del guado del fiume Sesia
di Carmen Bortolas 22
Al balista
di Giancarlo Costa 24
Premio di Poesia: 44 anni di successi
25
Tutti i premiati del Concorso di Fotografia
26
Câsinâ smintjâ
In mès â pulvâr e ragnà
â snâ va sutâ ‘l ciel
â dlâ Lümlinâ. Smintjâ dâ temp,
âg restâ immâ j ricord
di mundin e di racolt.
Oh rundâninâ,
cun paiâ e fen
fa ‘ncurâ ‘l nin in tlâ stalâ,
duâ ‘l ghè lâ grûpjâ vöjâ.
Restâ rentâ â cuj poc pâjsân
câ gâ râstâ, rentâ âi sap e âj bâdì
e tenâ int’ âl bèc, pâr pjâsè,
un fjur âd primâverâ
pâr lâ câsinâ smintjâ.
da “Fuga al sole”,
Giancarlo Costa (1990)
EDITORIALE
Dove si incontrano mondo agreste e sapere
I
La cultura
che cresce
tra i campi
di
Marta Costa
l giardino dell’Eden non esiste soltanto
nelle pagine del Libro della Genesi. In Lomellina basta spingersi a breve distanza da
casa per trovarlo facilmente, una fortuna
non da poco. Perché tra i campi anche ciò
che può sembrare brutto, difficile, fastidioso, ha
il suo romanticismo celestiale. Nebbia e zanzare
comprese. È una dimensione a sé stante, quella
agreste. Unica e così poco artificiosa da risultare
ineffabile, da sfuggire alle parole, alle definizioni. Per capirla bisogna viverla. Gli artisti, i poeti
e gli scrittori ne hanno fatto una malattia. Cercando, ognuno a proprio modo, di esprimere ciò
che ricevevano dalla terra. Nessuno di loro, probabilmente, è mai riuscito a catturarne appieno
l’essenza, ragione per cui il filone ispirato dalla
campagna non può dirsi esaurito. Eppure la società di oggi, vittima semi-incolpevole degli idoli metropolitani celebrati a mezzo etere, a volte
dà la sensazione di disinteressarsene. Salvo poi
invocare il nume della saggezza contadina quando, spaesata dalla frenesia e dall’impoverimento
culturale, sente il bisogno di punti di riferimento
stabili.
Pronti ad accogliere il “figliol prodigo” di turno,
i polverosi sentieri che accarezzano piante e corsi
d’acqua stanno lì ad aspettare. Il Vaglio ha voluto
percorrerli. Lo ha fatto partendo dalla prospettiva
letteraria, affidata all’autorevolezza di Maria Forni. Il suo contributo getta uno sguardo d’insieme
sul realismo settentrionale del tardo Ottocento,
la cosiddetta “linea lombarda”, focalizzandosi in
particolare sulla Marchesa Colombi (pseudonimo
d’arte di Maria Antonietta Torriani).
Segue un documento di notevole interesse storico: un compendio esaustivo del saggio “Sul nome Lomellina”, ricerca pubblicata per la prima
volta nel 1923 e ristampata nel 1950. L’autore, il
professor Carlo Montorsi, raccolse con dovizia di
dettagli le svariate teorie sull’origine “toponomastica” della terra tra Po, Ticino e Sesia.
Mantenendosi in linea retta sul filone storiografico locale, ecco Umberto De Agostino a parlare
della Strada Regia, antichissimo tragitto che collegava Ticinum (vale a dire Pavia) a Laumellum
(Lomello).
Guido Giacomone offre poi una particolareggiata
ricognizione delle strade campestri che divagano
lungo il perimetro di Mortara, le stesse su cui si
imbastisce la trama della riflessione di Graziella Bazzan sul piacere di una passeggiata tra la
natura. Scaturisce dalla memoria il racconto di
Eufemia Marchis Magliano, in cui è tratteggiato
il profilo di Bastiano, uomo semplice, laborioso,
devoto. Un contadino. Nel senso più elevato che
tale gratifica può rivestire.
I medici condotti, figure annodate a doppio filo
all’epoca che fu, scorrazzano indaffarati tra le righe che Nadia Farinelli ha voluto spendere sul
loro prezioso (e rimpianto?) compito civile.
Dal servizio a firma Carmen Bortolas, invece,
emerge limpido uno scorcio suggestivo, che corre lungo il tragitto del Sesia a Candia Lomellina.
Chiude questo numero del trimestrale “Al Balista”, una storia scritta da Giancarlo Costa. Buona
lettura, e buona campagna.
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&
Cultura&&
Letteratura
Camminando
tra i sentieri
di polvere
VISIONI E MEMORIE DI CAMPAGNA
E
state, calura, campagna: un esile gruppetto di bambine girovaga per i sentieri della
frazione lomellina, inventando o ripetendo
qualche gioco che ravvivi il silenzio e l’aria
immobile della canicola. Intanto il piede
nudo affonda con un brivido di piacere nella polvere,
bianca e sottile come cipria, lasciando la sua orma piccola e decisa. Era questa la campagna, allora: verde intorno, frutta caduta dagli alberi offerta al nostro ghiotto
desiderio e intorno il rumore dell’acqua, qualche richiamo di uccello e la rana e la cicala. Con l’avanzare dell’età, capita quel fenomeno chiamato della “presbiopia
della memoria”, per cui “le cose dell’infanzia ritornano
presenti con un’intensità che è dovuta al passaggio del
tempo, alla prospettiva del tempo: più lontane sono e
più ti precipitano addosso” (Camilleri). Soprattutto, torna la sensazione e la sua intensità ritrovata quasi annulla
la malinconia.
La campagna è stata uno dei temi essenziali delle
espressioni e rappresentazioni artistico-letterarie, da
sempre; non volendo in questa sede riandare troppo
indietro nei secoli della storia letteraria, si lascerà da
parte tutta l’atmosfera idillica e bucolica della poesia
greco-latina e di quella posteriormente ispirata a essa
nel tono e nei topoi, per scegliere invece una prospettiva
più vicina a noi nella visione dei luoghi e dell’antropologia dell’ambiente campestre. In fondo il nostro Paese
e la nostra zona furono per un non trascurabile lasso
di tempo essenzialmente sede di una civiltà agricola,
nel costume, nel linguaggio e nei rapporti sociali. Nel-
Sul finire
dell’Ottocento
la rappresentazione
letteraria
della civiltà
agricola caratterizzò
una serie
di scrittori,
appartenenti
alla cosiddetta
“linea lombarda”
4
I L VA G L I O
Lungo la strada vedi tra le siepi
ridere a mazzi le vermiglie bacche
Giovanni Pascoli
l’ultimo scorcio del secolo XIX, la scelta di assumere
come oggetto della propria rappresentazione letteraria
la vita dei campi caratterizza una serie di scrittori che
furono giustamente definiti come appartenenti alla “linea lombarda”; in verità, essa comprende anche numerosi esponenti piemontesi, in particolare di alcune zone
del Piemonte fortemente limitrofe ad altre lombarde,
zone cosiddette “ di frontiera”: si sa che la letteratura,
soprattutto di tipo “periferico”, non sopporta nette linee
di demarcazione, ma allarga il concetto di provincia al
di là del fattore puramente anagrafico, per recuperare i
contorni di un immaginario che in genere si pone come
alternativo – quando non in contrasto – con il tipo di
letteratura dominante nel paesaggio accademico o ufficiale. Così, mentre prevale nel gusto della critica e del
pubblico una letteratura volta a osservare e celebrare i
comportamenti e le azioni di una classe aristocratica,
intenta a cogliere il godimento della vita e a celebrare la
bellezza e un’esistenza “inimitabile”, numerosi scrittori
lombardo-piemontesi di fine ‘800 rivolgono la loro attenzione alla campagna come luogo di disagio sociale e
di lotta per la sopravvivenza, ma anche come sede di più
autentiche situazioni, di più semplici e comuni affetti, di
tenaci e insopprimibili speranze. Nasce una letteratura
“in re”, una poetica degli oggetti (gli strumenti di lavoro, i modesti arredi domestici, i rustici ornamenti delle
donne, gli zoccoli, e così continuando), che assumono il
valore di testimonianze realistiche della vita delle classi
subalterne, ma talvolta attraverso l’intensità dell’immagine concentrano in sé anche il valore di simbolo.
Si comprende facilmente come, da queste premesse, il
filone letterario di cui si parla leghi strettamente la descrizione del mondo campagnolo con una prospettiva
di realismo, lontano dall’idillio e dalla trasfigurazione. Critici di grande autorevolezza come Dante Isella
e Luciano Anceschi hanno messo in luce la particolare
disposizione lombarda (in senso lato, naturalmente), a
coinvolgere letteratura e realtà, avendo alle spalle la
grande operazione di sintesi attuata da Alessandro Manzoni tra la tradizione letteraria e le istanze “popolari”,
tra cattolicesimo e progressismo, tra realtà regionali e
istanze nazionali e/o europee. Il realismo settentrionale
del tardo ‘800, peraltro già anticipato dalla cosiddetta
“letteratura Campagnola” e dalla stessa Scapigliatura,
non può prescindere dalla lezione del Manzoni, che
aveva mostrato, andando controcorrente come i suoi
tardi seguaci, la via nuova: scegliere i protagonisti tra
gli umili, tra i “volti nella folla”. Tuttavia si avverte la
forte differenza del contesto storico-sociale: il Manzoni
segnava un momento di speranza, di apertura, di inizio;
gli scrittori della linea lombardo-piemontese dell’ultimo ‘800 esprimono una delusione per il corso degli
eventi politico-sociali e assumono una difesa di realtà
marginali e periferiche: non a caso tra di loro vi sono
molte scrittrici, donne che iniziano a denunciare in modo inequivocabile la durezza della condizione femminile, ancora più dura nella civiltà contadina: basti citare
le opere di Sibilla Aleramo (di Alessandria), Ada Negri
(di Lodi), della Marchesa Colombi, nome d’arte di Maria Antonietta Torriani , novarese di nascita e milanese
di adozione. Abbandonata la vita di provincia, Novara
con le sue “strade bianche l’inverno di neve e l’estate
di polvere”, la Torriani entra nei circoli culturali della
Milano intellettuale, dove conosce, tra gli altri brillan-
ti personaggi, il futuro fondatore del “Corriere della
Sera”, Eugenio Torelli Viollier, che poco tempo dopo
diventa suo marito. Giornalista, traduttrice, scrittrice in
proprio, riscuote consensi e un grande successo, soprattutto coi racconti e romanzi nei quali intreccia vicende
piccolo-borghesi o contadine, segnate da emarginazione, grigia quotidianità, sconfitte. Eppure la scrittura della Marchesa Colombi, “acuta psicologa del concreto”
(Antonia Arslan), è pervasa anche da una sottile ironia e
da una disposizione a cogliere le pur paradossali “consolazioni” che alla fine la vita riserva quasi a tutti. In
questa sede, appare interessante soprattutto “In risaia.
Racconto di Natale”, edito da Treves, Milano 1878. Il
testo, come quasi tutte le opere dell’autrice, dopo il successo ottenuto presso i contemporanei, finì dimenticato,
comune sorte a molte scrittrici, divenute chissà perché
invisibili nel tempo, fino alla fortunata riscoperta. Nel
nostro caso, la ricomparsa della scrittrice si deve a Italo
Calvino, che la ripubblicò presso Einaudi nel 1973, con
la collaborazione di Natalia Ginzburg.
“In risaia” descrive, attraverso la vicenda della protagonista, una giovane contadina di nome Nanna, senza
alcun tono idillico, ma piuttosto con acuto sguardo
realistico, il duro lavoro delle mondariso nel novarese, denunciando la realtà dello sfruttamento dell’ opera
femminile, pur con scrittura misurata e “col massimo
dell’allegria poetica” (Italo Calvino) . La campagna è
descritta solo nelle sue linee essenziali, come luogo di
lavoro e di fatica, che iniziano dall’infanzia dei protagonisti: il realismo senza indulgenze liriche si manifesta
fin dall’incipit: C’era un cascinale tra Novara e Trecate, con un tenimento annesso coltivato a orto. Ci si
giungeva per un viale senza alberi costeggiato da una
siepe viva di robinie, che metteva nel cortile...
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Silvio Santagostino,
“Risaia” (1946)
Alcune scrittrici
denunciarono
la durezza
della condizione
femminile
nella vita
contadina:
tra queste figura
Maria Antonietta
Torriani, in arte
Marchesa Colombi
A destra di chi entrava passava una fonte, un canale
scoperto, che serviva a irrigare il terreno, a lavare
erbaggi e panni, a far diguazzare le oche.
Nanna, la protagonista , figlia dei contadini affittuari
di una parte del cascinale, aveva passata l’infanzia
a custodire le oche. Divenuta ragazza, nonostante la
non robustissima costituzione, decide di accettare il
lavoro di mondariso per accumulare la somma, non
disponibile in famiglia, necessaria a comprarsi l’argento, l’ornamento nuziale dei capelli, gli spilloni
della Lucia manzoniana
ancora in uso nelle campagne, anzi indispensabile dote per trovare un
marito. Ma il terribile
lavoro nelle acque malsane delle risaie, infestate da sanguisughe,
in un clima insalubre
e pesante (Non c’era
tempra robusta che
reggesse a quella vita...
A vederle tra le nebbie
del mattino avviarsi al
lavoro a due a due...) le
procura delle febbri per
cui viene ricoverata in ospedale. Dopo la malattia
lunghissima e una cura dolorosa, i bei capelli biondi
per ornare i quali aveva sopportato il lavoro spossante, le cadono per non ricrescere più: la crudele ironia
della sorte costringe Nanna a tenere sempre una pezzuola in testa, quella testa “spelata e lucida come un
ginocchio”. Ciò le guasta il carattere, trasformandola
in una zitella acida. In realtà ella prova un tumulto
di sentimenti contrastanti, espresso dall’autrice con
molta abilità nell’armonizzare in giusto equilibrio
gli elementi di pena presenti nel personaggio e gli
aspetti di cruda quotidianità colti con lucida e implacabile capacità di osservazione della realtà contadina, dove non c’è tempo né possibilità di indulgere ai
sentimenti che pure sono profondi. Non manca comunque una sorta di “lieto fine” : perdute le speranze
giovanili sul bel Gaudenzio, spavaldo dongiovanni
rusticano, superato l’odio verso tutti e la gelosia per
la bella cognata, nella notte di Natale, tra i riti della
messa, dei dolci cotti in casa e degli zoccoli posti
sulla finestra in attesa dei doni, dopo un drammatico
scatenarsi di conflitti familiari, Nanna ritrova la pace
del cuore. Finirà così con l’accettare la proposta affettuosa di matrimonio da parte di un vedovo, buon
uomo rimasto solo con una bambina a cui Nanna si
affeziona con trasporto. Il riassunto non rende ragione della complessità dell’intreccio, che, pur snodandosi nella semplice realtà della campagna novarese
di fine Ottocento, è ricco di sviluppi e di dinamiche
interne ai personaggi e alle loro relazioni. Ma per il
lettore di oggi “In risaia” riveste anche un interesse
storico (microstorico) offerto dai frequenti riferimenti, precisi e minuziosi, alla vita quotidiana della gente
dei campi, in un mirabile impasto di osservazioni che
A sinistra Italo Calvino,
a destra Maria Antonietta
Torriani, meglio nota
come Marchesa Colombi
Ada Negri presenta
una produzione
di brevi prose
d’arte, dove
la contemplazione
della campagna
si concentra
sull’aspetto
dei luoghi senza
la presenza di altre
figure umane
6
I L VA G L I O
documentano con puntigliosa esattezza le durissime
condizioni di vita delle genti contadine e, d’altro
canto, di momenti in cui una semplice ma autentica
allegria segna coi riti delle stagioni un’esistenza di
sacrificio, sorretta però dalla sicurezza della stabilità
della comunità che trova insieme la forza di vivere
e di alimentare qualche modesta gioia. Si pensi alle
serate passate in inverno da tutta la piccola comunità
nella stalla, dove i racconti, le notizie sugli avvenimenti paesani, le barzellette, un po’ di musica scandiscono l’esistere come membri di una “società”. Nella
stalla le donne e le fanciulle si dedicano ai lavori di
cucito (il corredo!), mentre si svolgono approcci e
corteggiamenti in un clima di attesa e di speranza.
Anche durante la dura “stagione” della monda del
riso, la musica è presente in chiave consolatoria, sia
perché le mondine, quando il lavoro diventa troppo
opprimente, intonano canti tradizionali, quasi a darsi
forza, sia perché spesso, nelle serate trascorse sull’aia
delle cascine, giunge un organetto o una fisarmonica
e si scatenano le danze. La vicenda è “attraversata”
dalla strada che unisce paesi e cascine e rappresenta
simbolicamente il lento ma continuo procedere della
vita in un mondo dai ristrettissimi confini, il cui massimo punto di riferimento e di progresso è la città di
Novara, dove ci si reca qualche volta per le occasioni
o gli acquisti importanti. La strada è percorsa a piedi
dai lavoranti e dalle lavoranti che si chiamano e si
aspettano per recarsi al luogo di lavoro, soprattutto
all’inizio della monda, quando le ragazze e le donne si trasferiscono letteralmente in un’altra sede. La
strada è pure il luogo dei carrettieri, che trasportano merci e persone, costituendo anche una sorta di
mezzo di comunicazione di notizie a e su parenti e
amici. Carrettiere è quel bel Gaudenzio di cui Nanna
è segretamente innamorata e che costituisce l’ammirazione di tutte le fanciulle del circondario. “Ah! Come cammina! Ecco; è così che debbono camminare i
signori di Novara.”, Nanna diceva tra sé.
Un’altra scrittrice coeva della Marchesa Colombi,
la poetessa Ada Negri, nata e vissuta fino alla prima giovinezza a Lodi e nella bassa lodigiana, mentre denuncia nelle sue opere poetiche, e soprattutto
in “Fatalità” (1892), le ingiuste condizioni di vita
nelle fabbriche e nelle campagne, presenta pure una
produzione di brevi prose d’arte, dove la contemplazione della sua campagna, filtrata anche attraverso
i ricordi dell’infanzia, si concentra sull’aspetto dei
luoghi, quasi in un contatto diretto tra il sentimento
dell’autrice tornata a rivedere i luoghi natii e la natura suggestiva e quieta, senza la presenza di altre
figure umane. “Le robinie che fanno siepe alla strada
maestra, in questo mese d’agosto, sono, per la siccità,
polverose sì da sembrar grigie....Basso il cielo, quasi
bianco, d’un bianco rovente di metallo in fusione.” “
Sì, confesso che respirai di gioia quando scopersi il
viottolo...Ho sempre voluto bene alle stradette perdute fra i campi, nella pianura. Vi si procede adagio e
in pace, godendo di un vasto giro d’orizzonte.” (dalla
raccolta “Le strade”)
Sul nome
Lomellina
Prof. Carlo Montorsi (pubblicato nel 1923 – ristampato nel 1950)
Nato da famiglia modenese a Sorrento nel 1887 e morto a Borgo San Siro nel 1957, Carlo Montorsi, professore di lettere laureato a Napoli, insegnò a Pavia, Stradella, Sassari, lungamente ad Alessandria e infine a Vigevano. Alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale aveva sposato
Ida Zanetti Cazzani, ultima discendente di una famiglia da cui per circa due secoli erano venuti i
tecnici, in quei tempi detti “ingegneri”, che a Borgo San Siro gestivano il patrimonio di terre e di
cascine dell’ospedale San Matteo di Pavia, allora proprietario di quasi tutto l’agro del paese. Restò
sempre molto legato al Borgo, dove risiedette stabilmente con la moglie dagli anni Quaranta in
avanti. “Sul nome Lomellina” è il titolo di un suo opuscolo, pubblicato nel 1923 e poi ristampato
nel 1950, da cui sono tratte le notizie che seguono.
Robi Ronza
S
i suol dare il nome di Lomellina alla fertilissima regione, del tutto piana, compresa tra
la Sesia, il Po e il Ticino, e limitata verso nord da una linea convenzionale, che passa
per Cassolo, Gravellona, Cilavegna, Albanese, Nicorvo, Robbio, Confienza e Palestro.
Ha una superficie di Kmq. 1242 e appartiene amministrativamente alla Lombardia (provincia di Pavia), ma fisicamente è piemontese, se si vuol vedere nel Ticino il confine
naturale.
Occorre però tener presente che oggi si suol chiamare “Circondario di Lomellina” il Circondario
di Mortara (i circondari sono stati aboliti nel 1926). Ma tale denominazione è alquanto impropria,
perché, pur comprendendo il Circondario di Mortara la massima parte della Lomellina, è pur vero
che di questa fanno parte senza dubbio i mandamenti di Sannazzaro dei Burgundi e di Cava Manara,
che dipendono amministrativamente dal Circondario di Pavia.
Il nome Lomellina deriva senza dubbio da Lomello. La fondazione di questa cittaduzza, la cui etimologia è tuttora incerta, non rimonta oltre il I° secolo A.C., essendo ricordata, per la prima volta,
da Tolomeo (II secolo D.C.).
Lomello è ricordata, dopo Tolomeo, da tutti gl’itinerari tramandatici dagli antichi, come mansio,
cioè come stazione importante dell’importantissima Strada Romana.
Con l’andar dei secoli, Lomello vede crescer naturalmente sempre più la propria importanza; ma
prima di trovar denominato da essa l’agro fertilissimo che la circonda bisogna giungere alla metà
dell’Evo medio e precisamente al secolo XI.
Lomello, che ora è un piccolo comune, fu invece, nell’antichità e nel Medio Evo, il centro più importante di detta regione.
Ma quando sorse il nome “Lomellina”?
Si può dire ch’esso incominciò a nascere nel secolo X. Infatti, in una carta dell’anno 913, che tratta
della cessione di un manso fatta da re Berengario I ad un Autberto Vicecomiti lo si dice situm de
Comitatu Laumellino. Qui però si tratta ancora d’una pura forma aggettivale ricavata dal nome
Laumellum ed affibbiata al comitatus, invece della forma latinamente più corretta di Laumellensis. Le due forme comitatus Laumellensis e comitatus Laumellinus si trovano ancora alternate in
documenti posteriori; ma non molto più tardi, e precisamente in un diploma dell’Imperatore Enrico
II dell’anno 1019, troviamo per la prima volta proprio denominata Laumella la regione su cui Lomello aveva giurisdizione.
Ma, alquanto più innanzi ricorre ancora la forma usuale in comitatu Laumellensi.
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Mappa
della Gallia Cisalpina
tratta dall’opera
“Geographia Antiqua”,
Christophorus Cellarius
(1638-1707)
Incomincia l’uso di denominare da Lomello la regione della quale questa gloriosa cittadina fu per
tanti secoli il maggior centro, è naturale ch’esso finisse per generalizzarsi e rimanere quindi definitivamente designato con nome di “Lomellina” dapprima il solo territorio del vetusto comitato di
Lomello e poi anche quello del limitrofo comitato di Bulgaria o Vigevanasco, dopo che le vicende
politiche ne accomuneranno le sorti, ma soprattutto dopo che i due territori verranno riuniti in
un’unica circoscrizione amministrativa, distinta precisamente col nome di “Lomellina”.
Infatti troviamo la subregione, di cui trattasi, sempre denominata Lomellina nel secolo XVI da Simone Del Pozzo, cancelliere del Comune di Vigevano nel 1549, nei seguenti passi “... Faccino Cane
del Borgo de S. Martino di Monferrato con li soi militi occupò la Lomellina, gettò a terra quasi tutte
le castella, et precipue delli conti della Laumellina e Confalonieri...” “Se li Homini de Mede, uilla
de Lomellina, per la prima non avessero tolto le arme in mane a defensarse e conservare quel grano
ecc... male staria la povera Laumellina...”.
Questo nome dunque rimase ed è con esso denominato ancora oggi un territorio di Kmq.1242.35
di superficie, intendendosi per Lomellina tutto il territorio racchiuso tra la Sesia, il Po e il Ticino e
il confine settentrionale convenzionale già indicato, non esclusi i due mandamenti di Cava Manara
e di Sannazzaro dei Burgundi, che dipendono amministrativamente dall’ex circondario di Pavia,
eccetto l’estremo angolo sud-est tra Po e Ticino, che fu sempre alle dipendenze di Pavia.
Nel 1723, in seguito ad un riordinamento delle provincie promulgato negli “Stati di S.M. di qua dal
mare”, la Lomellina fu eretta in provincia, detta di Lumellina con capoluogo Mortara.
L’antica e gloriosa Lomello venne soppiantata come residenza dell’autorità, da Mortara.
Durante la dominazione francese Lomello e la Lomellina fecero parte del dipartimento d’Agogna
con capoluogo Novara, mentre Vigevano diventava sede dell’autorità amministrativa e giudiziaria;
finchè, nel 1814, regnando in Piemonte Vittorio Emanuele I, ad un nuovo riordinamento amministrativo dello Stato, l’odierna Lomellina fu divisa ancora in due provincie: provincia di Mortara e di
Vigevano. Nel 1815 la suddetta ripartizione provinciale fu ancora modificata, assegnando il mandamento di Robbio a Mortara e riducendo i mandamenti dipendenti dalla provincia di Vigevano. Tre
anni dopo il Vigevanasco cessa d’esser provincia a sé per venire incorporato definitivamente nella
“provincia di Lumellina” dipendente dal Senato di Piemonte e dalla Divisione di Novara.
Agro Lomellino oggi è tutto il territorio compreso tra l’attuale confine nord amministrativo dell’ex
Circondame di Mortara, il Ticino, il Po e la Sesia, escluso soltanto l’angolo sud-est, cioè il così detto
Siccomario, che si estende da Sommo Lomellina a Pavia.
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I L VA G L I O
&
Cultura&&
Storia
La Strada Regia
tra romani
e longobardi
LA “STRA PAVESA” COLLEGAVA TICINUM A LAUMELLUM
O
di Umberto De Agostino
ggi appare come una strada campestre
qualunque, senza identità, che corre fra
risaie e cavi irrigui, ma in realtà si tratta di uno dei percorsi più carichi di storia della Lomellina, già noto ai tempi
dell’Impero romano. È la Strada Regia, o Regina, che
da “Ticinum” (Pavia) giungeva a “Duriæ” (Dorno) e
a “Laumellum” (Lomello) proseguendo per “Cuttiae”
(Cozzo), dove si divideva in due tronchi: uno diretto
a Torino e al passo del Monginevro, l’altro a Vercelli,
Ivrea, Aosta e poi ai passi del Grande e Piccolo San
Bernardo. A livello locale, il percorso è noto con il
termine dialettale di “Strà pavesa”. È opportuno ricordare che duemila anni fa, da un punto di vista amministrativo, la Lomellina dipendeva da “Ticinum”: a
testimonianza di questo legame, a Lomello fu ritrovata un’epigrafe che ricorda Iulius Pertinax, esponente
della tribù “Papiria”, cui fra il 42 e il 41 avanti Cristo
sono ascritti i cittadini di “Ticinum”.
Il centro più importante lungo questa direttrice, su cui
transitarono milioni di soldati, di mercanti e di pellegrini, era senz’altro Lomello. Gli antichi itinerari
indicano “Laumellum” come “mansio” a una distanza
da “Ticinum” fra 20 e 21 miglia romane (un miglio
romano era pari a 1.478,50 metri). In particolare, si ricordano la Tavola Peutingeriana, documento del XIII
secolo che riproduce una più antica carta romana, i
vasi di VicareIIo, piccoli vasi d’argento che riportano
le diverse tappe del percorso da Roma a Cadice. Poi
c’è l’“Itinerarium Antonini”, che individua la strada
come un tratto della via di comunicazione da Milano alle Gallie, e l’“Itinerarium Burdigalense” che, nel
delineare il percorso da Bordeaux a Gerusalemme,
segnala l’esistenza di “Duriæ”, individuata come una
Busto di Marco Aurelio Antonio Caracalla
“mutatio”, luogo di posta dove era possibile cambiare i cavalli, e di “Laumellum”, come una “mansio”
che aveva il suo fulcro dove ora sorge la basilica di
Santa Maria. Il termine latino “mansio” significa sosta, fermata: vi era tutto ciò che serviva per ospitare
magistrati, legionari, commercianti e, spesso, anche
imperatori. Qui si trovavano almeno quaranta cavalli
di ricambio e poi veicoli di ogni sorta, magazzini, caserme e carpenterie.
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Il centro
più importante
lungo la Strada
Regia era
“Laumellum”,
“mansio”
indicata
a una distanza
da “Ticinum”
fra 20 e 21
miglia romane
Il Battistero
di San Giovanni
ad Fontes
a Lomello,
monumento
sacro di origine
longobarda
A testimonianza
della strada
romana furono
trovati due rocchi
di colonne miliari:
uno dedicato
all’imperatore
Marco Aurelio
Caracalla,
l’altro a Flavio
Magno Magnenzio
10
Al mantenimento della “mansio” contribuiva la città
vicina più rilevante, in questo caso “Ticinum”.
Nel 1893 alcuni tratti della strada romana furono
scoperti a Lomello, in località Chiesuolo, poco lontano dalla basilica di Santa Maria Maggiore: questo
tronco di strada, probabilmente, si dirigeva verso
la porta delle mura tardoromane scoperte negli anni Ottanta a Villa Maria, costeggiando l’attuale via
Circonvallazione.
A testimonianza della strada romana furono trovati
due rocchi di colonne miliari reimpiegate in edifici
medievali: uno dedicato all’imperatore Marco Aurelio Antonino Caracalla (211-217), l’altro a Flavio
Magno Magnenzio, imperatore d’Occidente considerato usurpatore (350-353).
Lo scrittore Ammiano Marcellino (330-400) racconta un viaggio di nozze avvenuto nel 355: «Unitasi
la giovane Elena, sorella di Costanzo II, al Cesare
(Giuliano) con il vincolo matrimoniale e preparato
tutto ciò che richiedeva la fretta della partenza, Giuliano con una piccola scorta uscì da Milano alle calende di dicembre (il 1° dicembre) e, accompagnato
dall’imperatore fino a un luogo noto per due colonne, situato tra Lomello e Pavia, giunse direttamente
a Torino».
Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, lo
storico longobardo Paolo Diacono racconta che Teodolinda si recò da Pavia a Lomello per incontrare
Agilulfo, il promesso sposo che veniva a prendere il
posto del defunto re Autari. Ed è fuori di dubbio che
la carismatica regina dei Longobardi ricalcò, secoli
I L VA G L I O
dopo, le orme dei legionari di Roma.
Mille anni più tardi, nelle mappe catastali sabaude l’itinerario è noto come Strada Reale da Casale
Monferrato a Pavia, mentre nei documenti ufficiali
di metà Ottocento la strada è definita «selvatica».
Ma nulla rimaneva più dell’antico splendore.
La regina Teodolinda, illustrazione
tratta dalle Cronache di Norimberga (1493)
&
Cultura&&
Topografia
“Plan de la Ville
de Mortara”,
Sébastien de Pontault,
1676-94
Strade campestri
di Mortara
I
UNA RETE DI CIRCA OTTANTA CHILOMETRI INTORNO ALLA CITTÀ
di Guido Giacomone
l nostro punto di partenza non può che essere
la Mappa dell’Assedio del 1658, la più antica
rappresentazione del territorio di Mortara. Punto di partenza ma anche punto di arrivo, perchè
la mappa fotografa una situazione di equilibrio pressochè perfetto, cristallizzatasi gradualmente
nel corso di secoli ma destinata a essere ben presto
sconvolta in modo radicale. A metà del XVII secolo
la viabilità era tutta rurale: non c’era distinzione tra
direttrici principali e strade di campagna, e dalle due
porte della città si dipartiva una raggiera di tracciati
diretti in ogni direzione, uno per ogni località posta
a breve o a media distanza da Mortara; questi erano
poi variamente interconnessi da tronchi viari erratici,
buona parte dei quali risaliva probabilmente all’alto
medioevo, prima che il nucleo urbano (formatosi verosimilmente tra il XII e il XIII secolo) si imponesse
come polo gravitazionale delle comunicazioni locali.
Cent’anni dopo - testimoni le splendide mappe del
Catasto Sabaudo - la distinzione tra viabilità principale e viabilità campestre era già nettamente delineata
ed era iniziato quel processo irreversibile che avrebbe
condotto all’attuale frazionamento della rete viaria
rurale in tanti spicchi delimitati dalle varie statali e
provinciali che convergono sulla città.
Non bisogna pensare che la realizzazione delle moderne direttrici di traffico abbia significato una semplice sovrapposizione di queste ultime al tessuto viario preesistente. In realtà una nuova strada tende a fare
il vuoto intorno a sè, spezzando i vecchi collegamenti
e riannodandoli in forma quasi sempre molto più semplificata. Un isolamento che ha favorito una diversa
evoluzione delle reti viarie interne ad ognuno degli
spicchi in cui la raggiera delle arterie principali divide
il territorio.
ottobre - dicembre 2010
A metà
del Seicento
la viabilità
era completamente
rurale: ancora
non esisteva
distinzione
tra direttrici
principali
e percorsi
di campagna
11
“Dichiarazione
della Piazza
di Mortara”,
Giovan Battista Sesti,
1707
L’area compresa
tra la strada
per Lomello
e la provinciale
diretta a Pavia
è intersecata
da una fitta rete
di strade campestri,
effetto del repentino
passaggio dal bosco
alla risaia
12
Per quanto riguarda la parte meridionale del Comune, più che di evoluzione bisognerebbe in effetti parlare di involuzione, e questo vale soprattutto per la
zona compresa fra le strade per Casale e per Olevano, ormai completamente destinata agli insediamenti
produttivi. Trascurabile è la viabilità rurale nel minuscolo triangolo compreso fra la strada per Casale e
quella per Vercelli; scheletrica ma funzionale è invece
la rete di strade campestri dell’area compresa tra le
strade per Olevano e per Lomello, giacchè connette
efficacemente il piccolo numero di cascine presenti,
ed altrettanto efficacemente va a raccordarsi con le
strade rurali che uniscono il territorio di Olevano a
quello di Cergnago. Su queste tre zone non merita aggiungere altro; per entrare veramente nel cuore della
campagna di Mortara e rendersi conto della ricchezza
della sua rete viaria bisogna portarsi al di là dello
stradone per Lomello; la
vasta area compresa tra
questo e la provinciale
per Pavia è attraversata da una rete di strade
campestri estremamente
complessa, tanto che si
stenta a riconoscervi un
qualche criterio di funzionalità. Tutto questo ha
un perchè: questa zona
è stata risificata in tempi
decisamente recenti ed
è passata in poco più di
un secolo dal bosco alla
risaia (quando altrove la
transizione è stata mediata da un periodo più o
meno lungo di seminativo asciutto); in essa sussistono dunque tronconi
a volte incoerenti della
viabilità più antica mentre l’inevitabile processo
di semplificazione della rete dovuto ai riaccorpamenti fondiari e alla conseguente privatizzazione delle
strade procede in modo molto graduale ma inesorabile. Nonostante i parecchi e preoccupanti sintomi di
degrado, la zona resta tra le più belle del territorio e
specialmente la sua porzione più orientale, solcata da
interminabili sentieri che si addentrano nel silenzio
di una campagna spopolata, sa esercitare una malìa
che rasenta il timor panico. Se sul lato sud le strade di
quest’area convergono per congiungersi con le strade
campestri di Cergnago, su quello orientale non esiste
un collegamento con il territorio di Tromello, mentre
a ponente, in prossimità dell’Arbogna, la presenza ormai plurisecolare di grandi proprietà e di importanti
cascine situate nell’area golenale del torrente e da lungo tempo votate alla risicoltura ha portato allo sviluppo
di un notevole complesso di strade private che di fatto
impedisce il collegamento con la parte sudoccidentale
I L VA G L I O
del territorio comunale. Al contrario, sul lato nord la
zona è ottimamente collegata con l’area delle Frazioni
Orientali, vale a dire il settore compreso tra lo stradone di Pavia e quello per Vigevano. La connessione tra
i due ambiti è fornita principalmente dall’alzaia del
Canale e dalla strada comunale delle Frazioni, che
raccordano trasversalmente gli interminabili tracciati
delle strade vicinali che dalla città si dirigono correndo grosso modo parallele verso le frazioni di Mortara,
di Gambolò e di Vigevano. Complessa, articolata e
funzionale, la viabilità rurale di questo settore è organizzata in modo esemplare. È un impianto perfetto
che si è andato formando e consolidando nel corso
dei secoli ed ha trovato una garanzia di durevolezza
proprio nella presenza delle frazioni e nella persistenza attorno ad esse della piccola proprietà agraria, che
rende tuttora indispensabile una valida rete di
strade consortili. È ancora l’alzaia del Canale
a fornire il solo collegamento efficace tra l’area
delle frazioni e il settore
compreso tra le strade
per Vigevano e per Parona. Questo possiede al
suo interno una viabilità
rurale di tutto rispetto
che ha il suo punto di
forza nel fascio di strade
parallele che scandisce
l’estensione
boschiva
retrostante la Medaglia.
La griglia di strade regolarmente distanziate (una
ogni duecentocinquanta
metri) trova origine in
una grandiosa riorganizzazione della trama poderale (verosimilmente
legata alla lottizzazione
e alla vendita di un vasto patrimonio fondiario) avvenuta probabilmente tra
Sei e Settecento e che ha lasciato segni profondi in
estese porzioni del territorio nordorientale del nostro
comune, dalla depressione dell’Arbogna alla dorsale della Medaglia e sino alla conca della Cattanea.
Ovviamente la cadenzata ripartizione dei coltivi in
queste aree si lascia riconoscere soltanto nelle mappe, ma alla Medaglia essa assume eccezionalmente
un’evidenza monumentale apprezzabile anche esteticamente proprio nel susseguirsi dei lunghi corridoi
rettilinei che si addentrano nella fitta massa alberata.
Dalla Medaglia si raggiunge comodamente la vicina
Parona, mentre non esiste un valido collegamento con
l’area compresa tra le strade per Parona e per Novara.
Questa possiede una rete viaria non molto sviluppata
ma ben connessa con le strade campestri di Albonese, Cilavegna e Parona (particolarmente interessante
e a tratti anche molto bello è il percorso che risale il
Cavo Plezza verso il confine con Albonese). Problematico si è fatto invece il collegamento con la città
a causa della privatizzazione delle strade gravitanti
sulla Manfredda, che costituisce un punto di passaggio obbligato. Relativamente agevole è il passaggio
da quest’area a quella posta al di là della strada per
Novara: esiste un collegamento diretto tra i due settori, ma è situato all’altezza dello stabilimento della
Ciba e quindi in una posizione un po’ troppo periferica perchè si possa parlare di effettiva comodità. La
zona compresa tra le strade per Novara e per Vercelli possiede una rete di strade campestri che sebbene
piuttosto rarefatta rispetto alla sua estensione è ben
articolata e indubbiamente funzionale alla circolazione all’interno del proprio ambito, ma sostanzialmente
poco comunicante con l’esterno. Di fatto l’area è ben
collegata solamente con la città; a nord è possibile
raggiungere Albonese ma seguendo un tracciato meno lineare di quel che sarebbe lecito attendersi, mentre
non c’è un collegamento diretto con la pur vicina Nicorvo. A sud c’è l’area industriale, mentre a ponente
una barriera meno vistosa ma non meno efficace è
costituita dalle golene antiche e recenti dell’Agogna.
In effetti, se si esamina questa zona su di una buona
mappa ci si rende conto che a determinare la struttura
della sua viabilità rurale sono stati in larga misura i
successivi spostamenti (prevalentemente verso nord)
del punto in cui l’antica direttrice Piacenza-Ivrea (la
Via Francigena, per definirla con un’espressione oggi di moda) guadava il torrente. Della vetusta arteria
rimane il troncone mutilo che conduce alla Bellardona, e a sud di questo si incontra solamente la strada
che costeggia il Gianolo, più qualche frammento di
una viabilità che già nei secoli scorsi risultava piuttosto elementare. A nord, invece, si può notare come
dallo snodo della Madonna del Campo si diparta un
ventaglio di tracciati che con diversa inclinazione si
dirigono verso ponente, disuguali per lunghezza ma
tutti immancabilmente troncati. Questi monconi sono
raccordati da rettifili più recenti e ne risulta, come s’è
detto, una discreta rete viaria che permette di apprezzare un paesaggio poco appariscente ma a cui dona un
certo fascino il gioco dei modesti saliscendi che volta
a volta allarga o restringe l’orizzonte (notevole è ad
esempio l’insolita veduta di Mortara dall’alto che si
può godere percorrendo la strada del Cocco, che arriva a toccare i 115 metri, in assoluto il punto più alto
del territorio comunale).
ottobre - dicembre 2010
Le fotografie
illustrano alcuni
passaggi campestri
Il punto più alto
del territorio
comunale
si incontra
percorrendo
la strada del Cocco,
che arriva a toccare
i 115 metri.
Da lì è possibile
ammirare un’insolita
veduta di Mortara
13
&
Cultura&&
Ricordi
Il dolce andare
in terra
lomellina
P
“
La camminata
è il mezzo ideale
per esplorare
la campagna,
respirarne
il verde,
tra strade sterrate,
filari di pioppi,
specchi d’acqua
che riflettono
il cielo
14
A PASSEGGIO TRA NATURA, STORIA, SENTIMENTO...
di Graziella Bazzan
roseguiva il suo cammino guardando
a terra e buttando con un piede verso il
muro i ciottoli che facevano d’inciampo
nel sentiero”.
Il sentiero in questione è di manzoniana
memoria, più o meno simile ai sentieri di casa nostra, nella campagna lomellina. Basta deviare di poco
dalle strade statali o provinciali per trovarsi tra ciuffi
d’erba arruffati, vecchie mura e rivi d’acqua. Sentieri
di campagna, muti spettatori di un mondo passato,
scandito da ritmi biologici e stagionali, che emanano
un richiamo a un tempo semplice e nostalgico, sentieri da ripercorrere per ritrovare ricordi che il ritmo
assillante del nostro vivere ha offuscato. La campagna d’estate è una calda tavolozza cromatica di colori
ma mantiene il suo fascino anche quando la nebbia
comincia a imperare e stringe strane alleanze con lo
smog della città; rogge, cavi, canali e colatori l’attraversano, i suoi sentieri aperti al vento e al sole, passano tra campi di grano e mais (la Lomellina, come
ci ricorda la storia, era ai tempi dei Visconti e degli
Sforza il granaio del ducato di Milano).
Il walking, ovvero la camminata nostrana, è l’ideale
per esplorare a piedi la natura, per respirarne il verde
che costeggia strade sterrate e argini di torrenti, tra
filari di pioppi che si piegano al vento proteggendo
culture e riso, con specchi d’acqua che riflettono il
cielo, agreste surrogato del mare nostrum. Garzaie,
macchie di verde, memoria delle antiche paludi sono
per la nostra terra testimonianza del suo territorio; la
Lomellina è ricca di tesori ambientali che si possono
ammirare solo scegliendo di muoversi nel suo interno
in modo ecologico, perché solo così si crea un rapporto diretto con lo spazio e con il tempo, rapporto
I L VA G L I O
stimolante che consente di apprezzare pienamente
dettagli, atmosfere, giochi di luce e di colori.
Chi ama la natura, oltre ai piedes-calcantes, può fare
uso di qualsiasi altro mezzo che gli permetta di staccarsi dalle strade più battute e di infilarsi, con disinvoltura, in sentieri sterrati, lontani dal traffico, questo
è il modo migliore per prendere atto di ciò che ci circonda e che difficilmente si nota quando percorriamo
le strade, perché deformato dalla velocità dei mezzi
di trasporto.
Attraverso sentieri, a piedi o in bicicletta, si possono raggiungere cascine e corti, ovattate di nebbia o
schiacciate dal sole della canicola, patrimonio rurale
della nostra terra; per alcune di loro c’è stato il recupero da parte di privati per uso abitativo e resistono all’assedio del cemento come ultimo baluardo di
quella civiltà contadina che si identificò per secoli nel
territorio e le cui origini si sono perse in epoche remote. Altre, monumenti all’eternità e alla solitudine,
tendono a perdersi nell’oblio.
Quando la vegetazione si fa più intensa e i pioppeti
più fitti, quasi a barriera, tra antichi silenzi i resti delle isolate cascine che hanno respirato quella cultura
contadina, da sempre grande madre di questa terra,
emergono assopiti come lucertole al sole, vegliati da
gatti inselvatichiti, solitari pellegrini di un incanto ritrovato.
Tra le vecchie mura di mattoni sgretolati, le stalle
vuote e dimenticate, i tetti sfondati, le aie assolate
ingombre di rottami di ogni genere, coperti dalla polvere del tempo, c’è, per chi la sa cogliere, della poesia
unita ad un’alchimia di storie e credenze di quella natura che si allontana sempre più dai comuni orizzonti. Una fauna ricca di mammiferi, numerose specie
ittiche (tipiche dell’acqua dolce), volatili stanziali e
migratori, rane e nelle afose sere d’estate, quando dai
campi si alza il velo di umidità, anche moscerini e
zanzare che non concedono tregua: questa è la dolce pianura che riesce ancora a smorzare certi ritmi
frenetici, questo “l’è un canton dal mond, un tocc
ad tera, inscufià da una nebia fina fina, ...un toc ad
tera cas ciama Lomellina ca sa svigia cun l’or dal su
dentar i riseer, incurnisà dai gab longa a la riva, in t’
l’eterna pasiensa d’un’attesa...”
Un angolo di mondo dove è bello vagabondare tra
gli ampi spazi assolati, rinfrescati qua e là dal verde,
lasciandosi portare un poco dal caso, tra le sfumature
acquerellate delle risaie.
Dolce è l’abbandono ai suoi silenzi profondi, lungo
i sentieri della Via Francigena dove il passo rallenta
fino a fermarsi davanti alle piccole chiese campestri,
solitarie e lineari come un disegno a china.
Tornano alla mente le processioni votive in mezzo alla campagna con le lucciole che illuminavano il cammino, i fioretti purificatori, le penitenze santificanti,
i ceri, i canti. Rivedo una bambina che con l’allegria
della sua età, passava le giornate quasi interamente all’aria aperta, scorrazzando in bicicletta , con la
borraccia dell’acqua a tracolla, alla scoperta di nuove
passeggiate; per lei la campagna è sempre stata un
cantiere di divertimenti, un’occasione continua per
imparare.
Ogni pedalata era come voltare una pagina e pagina
dopo pagina imparava a leggere i segni dell’uomo e
della natura sul territorio scoprendo i segreti dei torrenti che come architetti lo modellavano definendone
i caratteri condizionando così la presenza di piante e
animali.
I sentieri che le si aprivano davanti, tra infinite suggestioni e i mille colori che i suoi occhi catturavano
avidamente, mutavano di giorno in giorno.
La meta erano le grandi cascine che tanto l’affascinavano, la Cassagalla, poi un po’ più in là, verso Olevano la Pinchiarola, la Burattina, la Vascona e oltre
ancora, verso Zeme, la Marza.
Le gambe indolenzite al rientro a casa ma pronta a
ripartire il giorno dopo, c’era dell’altro da vedere ed
ecco a sinistra, verso Cergnago, la Cantalupa poi
continuando a pedalare verso San Giorgio, la cascina
Erbamara, ex monastero medioevale quindi Campalestro. Ansiosa di crescere, con la fame incalzante dei
bambini, che non lascia requie, si arrendeva ad un
panino con il salame, tra nugoli di mosche mentre
raggiungeva, pedalando tranquillamente, la frazione
della Madonna del Campo o la cascina Medaglia oppure la suggestiva Chiesa di Sant’Albino dove poi si
è sposata.
Ne è passato di tempo, la bambina è cresciuta e ora,
mentre scrive, con nostalgia riassapora il dolce andare che la campagna e i suoi sentieri, percorsi tante
volte in bicicletta con suo padre, le hanno lasciato,
quei sentieri che sono una sorta di via preferenziale
verso il cuore della nostra terra.
ottobre - dicembre 2010
Francesco Mazzucchi
pittore santangelese
(1896 - 1967)
“Cascinale”
Tra le vecchie mura
di mattoni, le stalle
vuote e dimenticate,
i tetti sfondati,
le aie assolate
coperte
dalla polvere
del tempo, c’è, per
chi la sa cogliere,
un’alchimia
di storie e credenze
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Cultura&&
Memoria
Contadini
d’altri tempi:
Bastiano
UNA STORIA DI VITA E AFFETTI NELLA LOMELLINA CHE FU
L
Gli sposi
Maria e Bastiano
Bastiano nasce
in una famiglia
di contadini
nell’anno 1852.
Frequenta la terza
elementare quando
il padre, Giovanni,
segue il consiglio
del maestro
e lo fa entrare
in seminario
16
di Eufemia Marchis Magliano
a campagna, il suo fascino, la tradizione, la saggezza dei vecchi, la gioia del
raccolto, la fatica,  il duro lavoro, la
rassegnazione di fronte all’ineluttabilità
di certi avvenimenti... Questo ed altro
ancora nella vita del contadino Bastiano, un uomo
profondamente buono, un figlio, un marito, un padre
– anche di un figlio non nato da lui e dalla moglie
– eccezionale, capace di trasmettere, soprattutto con
l’esempio, l’amore per la terra, la dedizione alla famiglia, l’onestà, il rispetto verso tutto e tutti.
Il suo nome, Sebastiano, era lo stesso del nonno; era
tradizione, segno di continuazione della famiglia, ripetere il nome dell’avo paterno per il primo dei nipoti.
Tutti lo chiamavano Bastiano, proprio come il nonno.
In Bastiano riconosciamo il modus vivendi dei nostri
lavoratori della terra del contado, i contadini appunto,
quando si tirava avanti con pochi mezzi, ma con dignità, quando si dava credito alla saggezza dei vecchi,
depositari dell’esperienza, quando si credeva nella
vera solidarietà, quando si apprezzava la riservatezza
ed il pudore delle fanciulle. La storia di Bastiano ci fa
ricordare quanto bene possa albergare nel cuore degli
esseri umani, come la vita possa essere vissuta senza
la spasmodica ricerca del benessere materiale ad ogni
costo, della notorietà a qualunque prezzo, del divertimento in quei paradisi artificiali che distruggono nel
corpo e nell’anima tanti giovani d’oggi. Il paradiso,
finchè siamo in vita, è nel nostro cuore, come lo fu
in quello di Bastiano. Nasce nel 1852, in quella parte
del regno di Sardegna ai confini dell’impero AustroUngarico, teatro, pochi anni prima, delle battaglie fra
gli eserciti dei piemontesi e degli austriaci. Una zona
in cui esistono ampi possedimenti dati in affitto o a
I L VA G L I O
mezzadria da facoltosi proprietari; la maggior parte
dei contadini è composta da salariati, ma non manca
la classe dei piccoli proprietari formata da giornalieri,
massari, bovari che, in anni caratterizzati dal disgregarsi delle proprietà nobiliari ed ecclesiastiche, sono
riusciti, grazie ad una rigidissima economia, a crearsi
il piccolo capitale sufficiente ad acquistare modesti
poderi. Il padre di Bastiano, Giovanni, è uno di questi: ha una casetta, qualche campo e, insieme alla sua
famiglia, conduce una vita serena con quello che produce la sua terra.
Il ragazzino sta frequentando la terza elementare, saltuariamente, quando non deve essere adibito a lavoretti affidatigli dal padre, allorché il maestro convoca
Giovanni: “Vostro figlio Bastiano è intelligente, ha
tanta voglia di imparare, peccato questo andare e venire a scuola! Parlatene al parroco, vedete se può darvi una mano per farlo accogliere in seminario. Avete
altri figli che lavoreranno la terra come voi, questo
ragazzo ha tutti i numeri per diventare un buon prete, è buono, timorato di Dio, gli piace studiare... E
poi, pensateci bene, avrà un avvenire sicuro, godrà di
qualche lascito, magari diventerà parroco...”
Giovanni dopo molte incertezze sue e della moglie,
accetta il consiglio del maestro ed il figliolo, come
altri ragazzini del paese, entra in seminario. Col passare degli anni, però, nonostante gli ottimi risultati
nello studio, nonostante la sua seria fede religiosa,
si fa strada in lui il desiderio di tornare in famiglia.
Quante volte prova nostalgia per la sua casa, per la vita a contatto con la natura! Quante volte gli sovviene
il profumo della terra appena arata, degli alberi fioriti
in primavera, dell’erba appena tagliata, il cri-cri dei
grilli, il frinire delle cicale nell’afa estiva, il gorgheg-
gio degli usignoli, i chicchirichì del gallo all’alba,
l’abbaiare di Fido! Ricorda i giochi nell’aia con i
fratelli, le veglie invernali con i vicini, i giorni della trebbiatura... e i racconti del nonno sulle masche,
quegli esseri dispettosi che appaiono improvvisamente ed in forme diverse nelle notti scure, oppure sulla
guerra del 1848- 49, in cui lui, come tanti contadini,
aveva combattuto come fante riservista nell’esercito
piemontese. Caro nonno, come si infervorava quando descriveva la carica spettacolare dei leggendari
squadroni di cavalleggeri che a Mortara, nel marzo
1849, erano riusciti a fermare e a contrattaccare gli
austriaci! E come ne erano affascinati i nipotini! Come mancava al giovane seminarista il calore della sua
famiglia patriarcale, con il nonno Bastiano che organizzava il lavoro dei campi, nonna Carolina quello di
casa, il padre, gran lavoratore di poche parole, severo
con i figli, la mamma sempre indaffarata, che trovava
il tempo di coccolare un po’ i bambini, la zia zitella
che, a quarant’anni, aspetta ancora il marito!
Ha solo sedici anni, ma quale determinazione in quella testa dura da campagnolo! Abbandona il seminario
e sceglie un’esistenza fatta di sacrifici, lavorando con
il padre, poi, come bracciante, nella tenuta di un possidente che necessitava di giovani forti, volonterosi,
docili. Dopo anni di risparmi, considera che è ormai
tempo, per lui, di metter su famiglia. Ha trentadue anni ed un gruzzolo sufficiente a rilevare il piccolo podere del vecchio zio Carlo, i cui figli hanno scelto la
via dell’emigrazione in Argentina. È ora di guardarsi
intorno, cercarsi una moglie senza l’aiuto del bacialè,
il sensale dei matrimoni cui si rivolgono alcuni suoi
amici. Sceglie Maria, una bella ragazza di poco più di
vent’anni, dagli occhi verdi come l’erba appena nata,
i capelli come il grano maturo, due graziose fossette sulle guance, il personale svelto e flessuoso. Una
giovane che lavora in campagna come un uomo e fa
anche le stagioni da mondina. L’aveva notata alla festa del paese, le domeniche seguenti aveva cercato lo
sguardo di lei all’uscita dalla messa granda, finchè,
una bella sera d’autunno, quando nell’aia di un vicino
si era raccolto un bel gruppo di persone per sfogliare
le pannocchie di granoturco, era riuscito a scambiare qualche timida parola con lei “...se tu... se i tuoi...
se..., insomma... io avrei intenzioni serie...”.
Il sorriso della ragazza al suo farfugliare, l’avvampare del suo viso, convincono Bastiano che potrà, a
buona ragione, chiederla in sposa. Secondo le regole,
ben inteso.
Scelto il momento opportuno, si rivolge al padre.
“Vorrei sposarmi, fra un anno o poco più, dopo che
barba Carlo mi ha venduto il suo podere promesso da
tempo. Ho i soldi da parte, non ho bisogno di nessuno.
Ho messo gli occhi addosso a Maria, la figlia di Pinot,
è più giovane di me di un bel po’, ma non guasta. È
una brava ragazza, me lo ha detto anche il parroco, ed
io sono forte, il lavoro duro non mi fa paura. Andate
da Pinot, cercate di combinare il matrimonio, sono
quasi sicuro che Maria è ben disposta.”
Giovanni non se lo fa dire due volte. Finalmente si
decide, quel benedetto figliolo! La domenica seguente, quando, come al solito, gli uomini, dopo l’ite, missa est e la benedizione del prete, escono dalla chiesa
e sostano sul sagrato a crocchi per parlare del più e
del meno, Giovanni si avvicina a Pinot e gli chiede
l’appuntamento desiderato.  Dopo una quindicina di
giorni avviene l’incontro.
ottobre - dicembre 2010
Francesco Mazzucchi
“Seminatore di riso”
Il richiamo
della vita
di campagna
è troppo forte:
a sedici anni
torna a casa
e sceglie
un’esistenza
fatta di sacrifici
lavorando
come bracciante
17
Francesco Mazzucchi
“La stalla”
Bastiano sposa
Maria in una fresca
domenica di marzo.
I due iniziano
un’esistenza
ricca d’affetto,
di reciproco rispetto,
ognuno con i compiti
tradizionali
della famiglia
contadina
18
Giovanni fa presente la situazione finanziaria del figlio, quindi, tra un bicchiere e l’altro del buon vino
sturato per l’occasione, visto che Maria aveva già
dichiarato al padre: “Quello che va bene per voi, va
bene per me”, è concordata la dote della sposa, un bel
comò pieno di biancheria, e si decide il tempo del fidanzamento.
I promessi sposi possono incontrarsi nella casa di lei
alla presenza di una persona autorevole della famiglia.
Mai soli! “La paglia accanto al foglio si accende!”
sentenzia Pinot. E s’accendono sì, il cuore ed i sensi
del giovanotto  anche se a debita distanza da quel fior
di ragazza! Anche lei è presa da quel bell’uomo alto,
biondo così educato che quando riesce a sciogliere la
timidezza parla come un libro stampato!   
Intanto il podere è comprato, la casa è arredata del
necessario. Bastiano, facendo mille economie, riesce
ad acquistare due mucche, una capra, qualche gallina.
Tutto è pronto per il matrimonio che si celebra un anno e mezzo dopo, in una fresca mattina di marzo, alla
messa granda.
Gli sposi con il vestito nuovo di colore scuro, i parenti
con l’abito da festa. Poi il gran pranzo a casa della
famiglia di Maria;  vengono serviti piatti speciali ove,
cosa davvero non abituale, abbonda la carne cucinata
in vari modi secondo antiche ricette. La sera, la sposina prende possesso della sua nuova casa con il rituale
d’uso: l’offerta da parte della suocera sulla porta dell’abitazione, di un mestolo, augurio di buon successo
come massaia accorta e coscienziosa.
Bastiano e Maria iniziano quella che sarà un’esistenza ricca d’affetto, di reciproco rispetto, ognuno con i
compiti tradizionali del marito e della moglie contadini: a lui la cura degli animali della stalla, i duri lavori
dei campi, i rapporti con gli acquirenti dei suoi prodotti, gli acquisti necessari per le coltivazioni, a lei la
cura dei figli, l’espletamento del lavoro domestico, la
gestione degli animali da cortile e dei bachi da seta-.
I L VA G L I O
Nascono due bimbe, Rosina e Ginèt. Gli anni trascorrono serenamente, anche se i problemi non mancano,
un anno la moria delle galline, un altro la siccità, un
altro ancora violente grandinate che distruggono tutto il granturco. Si tira avanti con poco e di poco. E’
accolto in famiglia con affetto Pinot, vedovo e solo,
gli altri figli hanno scelto strade diverse lontano dalla
loro vecchia casa. Lui dà una mano come può ed ama
passare il tempo con le bambine ed insegnare loro i
proverbi della saggezza contadina.
Nel 1893, terza gravidanza di Maria. Si spera in un
maschietto, continuatore del cognome della famiglia,
braccio destro del padre, erede del piccolo podere. La
nascita è prevista per dicembre, e, pochi giorni prima
di Natale, si attende ancora il lieto evento. Fa molto freddo in un inverno purtroppo senza neve “Sut la
fioca pan, sut el giass, fam”, commenta Pinot mentre
osserva i rami degli alberi che, coperti di galaverna,
sembrano pizzi leggiadri ed i vetri delle finestre ricamati da arabeschi di ghiaccio. È pomeriggio, Maria
sferruzza un golfino per il nascituro, Bastiano impaglia una sedia, Pinot intreccia foglie di pannocchie
per il lavoro che sta compiendo il genero, Rosina e
Ginèt giocano con una pupattola di pezza. Dal paese
giungono i rintocchi della campana che invita i fedeli
alla novena di Natale. Dalla casa nessuno s’avventura
per la strada che conduce alla chiesa, occorre stare accanto a Maria giunta agli ultimi giorni di gestazione.
“Preghiamo qui, tutti insieme, preghiamo la madre di
Gesù perché aiuti la nostra Maria,” consiglia Bastiano. Giunge la sera, si accende il lume e Maria scodella
una calda minestra di riso e fagioli, quindi nonno e
bimbe si recano a dormire nella stalla dove sono stati 
approntati comodi giacigli. Fa così freddo nelle stanze da letto! Per marito e moglie è sufficiente il letto
riscaldato dalla brace del previ.  Prima di coricarsi le
bimbe recitano il ben, la preghiera serale suggerita dal
nonno: “Mi am mett en stu lett cun cinc angiulin, du ai
Ferdinando Bialetti,
“La risaia”
piè, tri al cussin e am racumand a Gesù Bambin”.
La mattina dopo, solita sveglia prima dell’alba. Occorre badare alle mucche, dar loro il cibo, mungerle,
occuparsi delle galline... “Penso io a tutto” dice l’uomo alla sua donna, “resta in casa, non prendere freddo. Non devi stancarti, domani verrà da noi tua sorella
Cesira e ci sarà un bel daffare a preparare il pranzo
di Natale!” Ma proprio la mattina di Natale, quando
tutto è già pronto per il pranzo natalizio, mentre c’è
grande allegria nelle bimbe che fanno festa ai doni
che Gesù Bambino ha posto sulle loro coperte la notte precedente, un pacchetto di caramelle, frutta secca,
qualche dolcino, Maria avverte i sintomi del parto
imminente:” Bastiano, andate a chiamare la signora
Delina, ci siamo.” Non occorre molto tempo all’uomo
per tornare accompagnato dalla signora Delina. Lei,
mandati via dalla cucina uomini e bimbe, si occupa di
Maria sistemata sul sofà , Cesira pone in bell’ordine
sulla madia le fasce, i pannolini di lino e tutto l’occorrente per il nascituro e mette un pentolone d’acqua sul
fuoco. Ore d’ansia che non sembrano passare più. Poi,
Bastiano può tornare. “Allora?”, chiede con il cuore
in gola. “Un maschietto, un bel maschietto ma... c’è
qualcosa che non va”, sussurra Delina a bassa voce affinché Maria, stremata dal lungo travaglio, non senta.
“Vedremo domani, vado a dire al medico che venga
a visitarlo”. Il  neonato, fasciato di tutto punto, è posto nella culla che dondola piano piano accanto alla
mamma.
Il buon pranzo di Natale è messo da parte. Il piccolo
avvicinato al seno della madre succhia un poco, troppo poco. Cesira e Bastiano passano la notte in cucina,
svegli. Anche il nonno, nella stalla con le bambine,
non chiude occhio.
Il giorno seguente il vecchio medico del paese, sempre pronto ad accorrere per chi ha bisogno di lui, senza orari, senza giorni di vacanza, arriva presto. Dopo
un attento esame del neonato scuote il capo: “Questa
creatura non vivrà, questo angioletto andrà in paradiso. Fatelo battezzare in fretta. Non posso far niente
per lui, mi dispiace brava gente, mi dispiace proprio”.
Giovannino, così è chiamato il bimbo al battesimo,
muore due giorni dopo. Quanti neonati muoiono in
quegli anni! C’è un gran dolore nella casa, un gran
rimpianto per quell’esserino che non ha avuto la possibilità di vivere. Maria guarda il suo seno turgido di
latte: “Tutto questo ben di Dio... E il mio fiulin...”. Bastiano non parla, vorrebbe consolare in qualche modo
Maria, ma non ce la fa. Ci riesce Cesira, almeno un
po’: “Prendi un bambino a balia! Nostra cugina l’ha
fatto ed è stato un bene per lei e la famiglia. Potresti
tenere fra le braccia una creaturina che ha bisogno di
te, ti ci affezionerai. Oltretutto, quel latte che Nostro
Signore ti ha dato porterà danaro... sai, pagano bene...
forse il medico conosce qualche mamma che non può
allattare, parlatene a lui!”
Così, nella modesta casa di Bastiano entrò un angioletto, si chiamava proprio Angiolino, un bellissimo
bambino biondo, paffutello, nato due giorni prima
da un’attrice che recitava nel teatro della città. La sua
mamma non può né allattare, né legare il neonato alla
vita randagia delle compagnie drammatiche. Torna il
sorriso nella piccola casa: Angiolino, affamato, succhia con avidità dal seno di Maria che lo guarda con
tenerezza, già lo ama come un figlio suo. Anche Bastiano si affeziona subito al bambino. Lo terrà con sé,
sempre. Perché la mamma di Angiolino morirà presto
e nessuno dei parenti di lei vorrà o potrà occuparsi del
bambino. Non lo affiderà ad un orfanotrofio, lo considererà sempre parte della sua famiglia, anche dopo
la morte di Maria, anche quando avrà altri figli dalla
sua seconda moglie. Con l’affetto, l’esempio, la forza
di carattere, i sani principi inculcati, ne farà un uomo
onesto, tenace, coraggioso, che metterà a buon profitto le sue doti naturali e l’educazione del suo papà
bailo.
ottobre - dicembre 2010
Nella casa
di Bastiano
entra un bimbo
di nome Angiolino,
figlio di un’attrice
che recitava
nel teatro
della città. Lo terrà
con sé sempre,
considerandolo
parte della famiglia
19
&
Cultura&&
Lavoro
Il medico
di campagna
“ARTE PIÙ MISERA, ARTE PIÙ ROTTA, NON C’È DEL MEDICO CHE VA IN CONDOTTA”
I
Ogni tre anni
il Comune bandiva
il concorso
per la scelta
del medico: questi
era obbligato,
a fronte
di un modesto
compenso, a curare
un lungo elenco
di cittadini
20
di Nadia Farinelli
l medico condotto, prima figura laica deputata
alla diagnosi e alla cura delle malattie, fu un’invenzione italiana. Già prima del XIII secolo,
molti comuni, spinti da esigenze sanitarie e da
carità cristiana, cominciarono ad assumere dei
medici, che venivano stipendiati per assistere gratuitamente i poveri della città.
Il termine “condotto” infatti vuol proprio dire “assunto”, “stipendiato”.
Progressivamente in Italia si diffuse la pratica della
condotta piena, cioè dell’assunzione di un medico a
tempo pieno, con stipendio fisso, senza limiti di orario, con obbligo di assistenza gratuita a tutti, senza ferie, senza pensione. Questo stato giuridico fu esteso a
tutta l’Italia unificata alla fine dell’Ottocento, quando
si istituì l’obbligo per i Comuni di avere un medico
condotto e una levatrice residenti, di cui furono a poco
a poco regolamentati diritti e doveri. Tra questi vi
era l’impossibilità per il medico condotto (soprattutto
quello di piccoli comuni di campagna) di incrementare il suo reddito con la libera professione, incompatibile con la condotta piena. Dunque si può ben dire
che il lavoro di medico di campagna di fine Ottocento
fosse un lavoro duro e poco retribuito, anche se le entrate erano arrotondate con i doni di natura offerti dai
contadini.
Ogni tre anni il Comune bandiva il concorso per la ricerca del suo medico: scelto da un comitato costituito
dai cittadini più abbienti, era obbligato, a fronte di un
modesto compenso fisso, a curare gratuitamente sempre e comunque, per ventiquattro ore su ventiquattro, i
cittadini iscritti in un lungo elenco stilato dal comitato
stesso.
Il rapporto con la popolazione era spesso difficile, anche perché la medicina popolare aveva un’impostazione diversa rispetto a quella ufficiale, con principi
basati sulla natura e sulla ritualità.
La medicina ufficiale vedeva la malattia come qual-
I L VA G L I O
cosa che aggrediva la persona dall’esterno, mentre
la medicina popolare considerava il malanno come
proveniente dall’interno e, per certi versi con un’intuizione modernissima, favorito da una caduta delle
difese dell’organismo. Ciò permetteva al male di avere il sopravvento e di “possedere” la persona, da cui i
vari riti contro le possessioni, il malocchio, le fatture,
i demoni, eccetera. Il condotto, a lungo andare, doveva assumere nella comunità una sorta di ruolo di
pastore di anime laico, non di rado in concorrenza con
il parroco.
Non tutti i neo-laureati in Medicina potevano mirare
alla carriera universitaria: le cattedre erano poche e
difficili da ottenere. La condotta era spesso l’unica alternativa a disposizione.
Il poeta dell’ Ottocento Arnaldo Fusinato (il nome è
meno noto della sua famosa ode “A Venezia”, per intenderci, “Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte
sventola bandiera bianca”) ha scritto una deliziosa
poesia a rime baciate dal titolo “Il Medico Condotto”,
dedicata all’amico Leonzio Sartori, medico di campagna di un paesino delle prealpi venete.
Ci ha lasciato in questo modo un ritratto ironico, ma
fedele, del personaggio, mai sicuro di passare una notte intera nel suo letto, in ogni stagione, senza gloria
e senza fortuna. Su e giù per i sentieri di campagna,
con il suo vecchio cavallo, per visitare persone spesso burbere e diffidenti, in virtù di quel poco denaro
per il quale il contadino considerava il condotto una
sorta di suo salariato. L’armamentario terapeutico a
disposizione del medico era estremamente scarso e
alla prima insoddisfazione del paziente, la minaccia
era quella di non essere riconfermato per il triennio
successivo. I buoni risultati invece erano il più delle
volte attribuiti solo ed esclusivamente ad un intervento soprannaturale. La condizione del medico condotto
italiano, descritta magistralmente dai versi di Fusinato, è stata tale fino a non molti anni fa.
Theophrastus Bombast von Hohenheim (1493 - 1541),
meglio conosciuto come Paracelso
I versi di Arnaldo
Fusinato
Caro Leonzio, col tuo perdono,
Questo mestissimo salmo t’intuono:
- Arte più misera, arte più rotta
Non c’è del Medico che va in Condotta.
“Reumatismo,
gotta e sciatica
delle povere genti
di campagna”
Il medico più famoso del Cinquecento,
Theophrastus Bombast von Hohenheim (1493
- 1541), meglio conosciuto come Paracelso,
riteneva che le malattie facessero parte della
natura, proprio come l’uomo, e che nel mondo vegetale si potessero facilmente riconoscere
rapporti e analogie di forma, colore e consistenza tra gli organi umani colpiti e le piante destinate a guarirli.
Per esempio i tuberi nodosi del colchico ricordavano le dita deformate dei gottosi e per questo potevano essere ritenute un utile ingrediente
per la cura della gotta stessa.
Dalle nostre parti il reumatismo era sinonimo
di dolori articolari e muscolari e solitamente se
ne attribuiva la causa all’umidità delle nostre
campagne.
In caso di artrite alle mani il salice e la regina
dei prati, proprio perchè crescevano in luoghi
umidi, potevano servire per combattere le “patologie da umidità”.
Queste teorie, scientificamente arbitrarie, hanno rivelato alcune felici coincidenze. Infatti il
principio attivo del colchico è la colchicina, sostanza specifica per l’accesso di gotta, mentre
le altre due piante contengono salicilati, da cui
è ricavata l’aspirina, ancora oggi usata per alleviare il dolore di “malattie cui le povere genti di
campagna sono molto soggette”.
Come la libera luce del sole,
Ciascun ti cerca, ciascun ti vuole!
Col mattutino canto del gallo
Balzi dal letto, monti a cavallo,
E senza tregua, senza respiro
Come la Posta sei sempre in giro;
Via per il monte, giù per la valle,
Su pei fienili, dentro le stalle,
Simbolo vero del moto eterno
Sei sempre in gambe la state e il verno.
Oh! Non è dunque senza ragione
S’io ti ripeto questa canzone:
- Arte più misera, arte più rotta…
E’ mezzanotte - per le contrade
A fiocchi a fiocchi la neve cade Tu fra le coltri stanco e beato
Della tua sposa ti corichi allato;
Ammorzi il lume…ma sul più bello
Odi un tintinno di campanello:
- Chi è là che suona? - Son io Dottore!
- Cosa volete? - Mia figlia muore.
- Ora non posso, sono occupato!
- Ella è pagato, Ella è pagato!
Al suon di questa voce fatale
Alzi la testa dal capezzale,
E mentre in fretta ti vai vestendo
Fra le bestemmie ruggir t’intendo:
- Arte più misera, arte più rotta…
Per additarti l’aspro cammino
St’altro va innanzi col lanternino:
Il gel t’agghiaccia le dita e il naso,
Ma non fa caso, ma non fa caso;
Stufa ambulante ti sorge a lato
La dolce antifona del sei pagato!
E allor che fatte cinque o sei miglia
Trovar ti credi morta la figlia,
Misericordia! Che cosa vedi?
La moribonda ch’è bella e in piedi!
- Essa è guarita, grazie al Signore,
Felice notte, signor Dottore.
Come la statua del Convitato
Tu resti muto pietrificato,
Mentre all’orecchio t’odi ronzare
Questo terribile intercalare:
- Arte più misera, arte più rotta…
Tragge d’autunno dalla vicina
Città in campagna qualche Damina?
Te fortunato sei volte e sette!
Puoi farle il quarto nel suo Tresette.
Ma se dal placido chilo si desta
Con un insolito peso alla testa,
Non darti affanno, si chiamerà
L’illustre medico della città:
Oh! Le tue mani son troppo vili
Per toccar polsi così gentili.
Che se ti salti la mosca al naso
Guardati bene dal farne caso;
I Deputati sono galanti
Colle signore che portan guanti,
E potrian dirti, Leonzio mio:
- Scorso è il triennio, vada con Dio.
Allor ridendo verrei bel bello
A gorgheggiarti quel ritornello:
- Arte più misera, arte più rotta…
Se a far la visita tardi mezz’ora,
Ti mandan subito alla malora;
Se qualcheduno cui duole un dente,
Sente rispondersi: eh! Non è niente,
E’ bell’e buono, Dottor mio caro,
Di dirti in faccia: Ella è un somaro!
Ordini a caso qualche sciroppo,
O qualche pillola che costi troppo?
E’ tutto inutile, ragion non vale,
Tu sei d’accordo collo speziale:
Se tu guarisci qualche ammalato
E’ Maria Vergine che l’ha salvato;
Ma per disgrazia s’egli ti muore
T’urlano dietro: - Can d’un Dottore!
Oh! Ma finiamola la lunga istoria,
E il salmo termini con questo Gloria:
- Arte più misera, arte più rotta
Non c’è del Medico che va in Condotta!
***
ottobre - dicembre 2010
21
&
Cultura&&
Itinerari
Sui sentieri
del guado
del fiume Sesia
C
Il cammino
sulla via del Sesia
parte dal centro
di Candia Lomellina,
in piazza
San Carlo
Borromeo,
a lui dedicata
per il suo
passaggio
avvenuto nel 1578
22
UN PERCORSO D’ARTE E DI... PESCA!
di Carmen Bortolas
’era una volta un territorio abitato da
popolani, dove l’acqua era l’elemento
predominante, acqua proveniente dal
Sesia. Il fiume che invadeva tutto, ma
che subì notevoli trasformazioni nel
corso dei secoli, restringendosi dal suo letto e lasciando cosi spazio a terreni fertili adatti alla coltivazione del riso, del grano e del mais. Trasformando
il paese di pescatori in un paese agricolo. Tale luogo
era, ed è, Candia Lomellina, il cui nome originario
“candida laumellorum” sembra dovuto alle immense
praterie di candidi gigli selvatici che in primavera ricoprivano le zone umide intorno al nucleo cittadino,
ancora oggi visibili in alcune zone, e anche raffigurati nello stemma come simbolo di candore, onestà,
fama, con il motto “candida ut lilium”. È un territorio
di confine tra le regioni Piemonte e Lombardia, sede
di continue battaglie per la conquista del territorio
perché situato da sempre in posizione strategica di
collegamento. Appartenne ai marchesi del Monferrato, ai Visconti, al duca di Savoia, agli Sforza, a
Carlo V, agli Arcimboldi, ai Gallarati-Scotti, e - con
l’arrivo di Napoleone - ai Confalonieri; in seguito ai
Bergamasco, Mauri e Marchetti.
Il cammino sulla via del Sesia parte dal centro, in
piazza San Carlo, a lui dedicata per il suo passaggio
e sosta nel 1578. È stata eretta in suo onore una stele
costituita da una colonna di granito con al suo apice una croce in bronzo detta “rulin”. Zona di ritrovo
degli anziani per “lavare i panni”, il rulin ha assunto
un significato scaramantico come simbolo di difesa
del centro abitato dalle furie dei temporali e dell’acqua del Sesia, infatti quando fu abbattuto per cercare
di riallineare tutta la piazza, nell’autunno ci fu una
I L VA G L I O
grande esondazione, che portò gli abitanti a richiederne la ricostruzione.
Costeggiando i resti della vecchia prigione, ci troviamo in un’area dal fascino particolare: siamo in via
Peschiera, un tempo antico borgo popolare abitato da
barcaioli e pescatori. Qui infatti scorreva il fiume. Le
abitazioni sono costruite a corte lunga interna, l’acqua è presente a 70-100 centimetri nel sottosuolo.
Nel 1241 e stata edificata la chiesa di San Michele
Arcangelo che custodisce opere pittoriche eseguite
dal Lanino e dal Moncalvo, nelle cappelle dell’Annunciazione e della Madonna del Rosario, patrona
del paese. L’esterno è sovrastato da un’opera in mosaico: Madonna con bambino con giglio in mano,
san Michele e san Domenico, dello scultore locale
Narciso Cassino.
Camminando tra il viale dei tigli (1940) e il parco
San Michele (1999), odori e profumi di piante e fiori
si intersecano e inebriano ricordando il vecchio campo sportivo qui esistente.
Ci addentriamo in una strada sterrata, la strada Sant’Anna, con la presenza di una cappelletta dedicata
alla santa, di proprietà privata, con affreschi del XVI
secolo. La cappelletta è messa a guardia e protezione
dell’accesso alle vie del guado del fiume e nell’aperta
campagna. Strada del baraccone, strada della Stracciona, della cascina Natta e siamo sull’argine maestro. Scendiamo dall’argine e percorriamo un ponte
in assitto dove scorre una lanca, siamo in zona torrette, in area golenale, con terreni di scarsa produttività
agricola oggi piantumata con pioppi. Siamo nella
campagna selvatica tra gaggie e arbusti, tra canti e
suoni di animali, tra vecchie baracche dei pescatori
dove si mangiava il pesce fritto appena pescato, oggi
trasformate in luoghi di banchetti eno-gastronomici
del territorio.
Ecco una visione di un angolo incantato e fatato.
L’immensità del luogo, il silenzio infinito, i colori
accesi e spenti: dal verde dei salici a quello dell’acqua da fiume, gli isolotti di sabbia, l’Isolone e l’isola dal “capaster”, dove nidificano e riposano uccelli
rapaci notturni. Nel punto di distesa, in cui il fiume
Sesia affluisce nel Po, riferimento della pericolosità dell’avanzare delle acque durante l’esondazione
dei fiumi. Tanta acqua, poca acqua proveniente dal
Sesia, con carattere torrentizio per la sua rapidità di
crescita in volume in poco tempo, le sue forme sinuose, come un serpente che si gonfia a dismisura
quando mangia. Così il Sesia, alla mercè dei capricci
di Giove Pluvio, quando scende dal cielo con i suoni
del suo ticchettio delle gocce d’acqua, assume forme, volume, suoni e colori che solo la vista attesta
pericolo imminente.
Sulle acque di questo strano fiume amico-nemico
dell’uomo, navigavano lupi di fiume, con l’utilizzo
dei barcé. Barche in legno a fondo piatto da utilizzarsi con un remo lungo biforcuto, anticamente usato
per dragare il fiume e trasportare le persone e legnami da un riva all’altra.
I lupi di fiume son personaggi unici; ricordiamo
l’amico “Siunin” Giovanni Pietrasanta, agile e leggero come una libellula, e l’artista Giovanni Conti,
solitario pescatore e creativo.
Attualmente ancora in attività l’ottantaduenne spericolato “Cicot il guerriero”, Attilio Cicottino, ana-
graficamente registrato come barcaiolo, personaggio
di carisma, fantasia, allegria. Con l’arte di creare dal
niente scherzi e battute per tutti, con l’amore della pesca sul fiume, come terra d’acqua conquistata
con capacità, di lottare e intervenire nel salvataggio
delle persone durante le alluvioni. Tutto ciò assieme
al vulcanico amico ultrasettantenne “Cri” Giovanni
Crivelli , che dall’arte di battere il ferro per forgiarlo
e creare il tutto si traforma in abile conduttore di barcé e attento conoscitore della flora e fauna del territorio golenale. Ogni dettaglio del verde e degli animali
è sotto il suo attento controllo.
L’arte dei barcé come conoscenza e uso, viene ricordata da 16 anni dalla Pro loco Candia che organizza
l’ultima domenica di agosto, la gara dei barcé, regata
su 1500 metri con barca spinta da un lungo remo con
unico rematore in piedi.
Risalendo il fiume sempre sulla sponda sinistra si
raggiungono i piloni del ponte del Sesia, connessione tra Piemonte e Lombardia. Seguiamo e troviamo
i sabbioni e il bosco della frazione Terrasa, dove c’è
il santuario della Beata Vergine delle Grazie, elevato
a protezione delle continue alluvioni che hanno interessato questa area. All’interno esiste una Madonna
che si e salvata, durante un’esondazione distruttiva
dell’altra frazione di Candia, la Villata. Questa Madonna è stata ricordata con la celebrazione di una
messa solenne, da parte della Protezione civile, per
aver salvato ancora una volta l’abitato nell’alluvione
del 2000.
ottobre - dicembre 2010
Narciso Cassino,
“Sesia”
Da 16 anni
a questa parte
l’arte dei barcé
viene ricordata
dalla Pro loco,
che l’ultima
domenica di agosto
organizza
una regata
con barca spinta
da un lungo remo
23
Al balista
L’inventore di storie paradossali
U
di Giancarlo Costa (1923 – 1996)
n uomo dormiva nel suo casotto di legno
presso la chiusa della Agogna a Velezzo Lomellina. Dato che era un giramondo notturno, non vi stupirete se dico che erano le sedici
pomeridiane e l’uomo continuava a dormire.
Dovette svegliarsi: il pavimento di assi del casotto rapidamente stava crollando. Poi rovinò del tutto, non si era
trattato dell’opera demolitrice di qualche aggeggio meccanico. Infatti attraverso il buco appena aperto, uscirono
due tassi baffuti con musi sporchi di terra che guardarono
l’addormentato, e dopo un breve scambio di unghiate, per
la conquista del foro d’uscita, i due tassi sbuffando se ne
andarono.
Ma cosa c’era all’origine di quella insolita
demolizione?Accadde che proprio nel sottosuolo del casotto era venuto a trovarsi il punto di congiunzione dei due
tratti di galleria scavati dai tassi, in cerca di pannocchie di
granoturco. Dal momento in cui quell’individuo così strano
mi raccontò questa storia, decisi di essere suo amico e confidente. Dato che gli accadevano fatti così incredibili, io non
volevo perderne di nessuno il sapore.
Mario, un amico mio, adottò una posizione di ascolto simile
alla mia, curioso e divertito dalla fantasia del raccontare in
quell’uomo stravagante. Mario ed io eravamo una mattina
di agosto seduti all’”angurièra dal Pinotu” intenti a consumare una colazione a base di meloni e salam in t’la duia,
quando il “dormiente del casotto” irruppe in mezzo a noi.
Per quanto allegro e scanzonato in apparenza, il suo modo
di fare tradiva una certa agitazione. Gli era capitato ancora
una volta una cosa “mastodontica”.
Stava nella sua casa, deciso a mettere in ordine i suoi
dipinti (perché, ho dimenticato di dire che il nostro uomo
era un imbianchino estroso), quando accadde una cosa
terrificante.
E cosa accadde? Gli chiedemmo.
“Un turbine si è abbattuto sulla mia casa. Ho sentito un
soffio impetuoso e vorticoso aprire il portone, irrompere nel
cortile ed infilare la stalla e poi l’urlo infernale… All’inizio era come il grido di rabbia di una fiera. Poi l’ambiente
cominciò a tremare. Le porte, le finestre e i muri vibravano
sotto l’impulso martellante del grande ululato.
Si trattava senza dubbio di un animale selvaggio. Quando
i suoi urli scatenati si tradussero in un immenso boato, non
ebbi più alcun dubbio: era l’orso glaciale lomellino. Nei
tempi passati il suo urlo aveva fatto tremare le cascine, di-
24
I L VA G L I O
strutto boschi e raccolti, scardinato le chiuse dell’Agogna.
Cosa sarebbe successo oggi, con questo bestione antidiluviano che minacciava la tranquillità agreste della Lomellina? –La catastrofe” esclamò il nostro amico stravolto.
Ogni giorno ci raccontava nuove spaventose avventure
dell’orso glaciale lomellino e Mario e io lo aspettavamo
anelanti di ascoltare la sua storia e lo salutavamo ansiosi di sentire nuovi sviluppi della vicenda, finchè un giorno
il nostro uomo con un furbesco sorriso affermò: “Il grave
pericolo che incombeva sulla Lomellina è stato risolto. Una
società di elicotteri ha accettato di trasportare l’orso glaciale lomellino in un luogo più adatto e l’avrebbe lasciato
cadere in una sperduta gola delle Alpi. Le grandi pinete lo
avrebbero nutrito. Non ci sarebbe stato nessun pericolo di
fuga. Di lì avrebbe continuato a far rintronare la terra col
suo terribile ululato.”
Mario e io lo ascoltavamo scoppiando dalle risa e con gli
occhi lucidi dalle lacrime. Allora il nostro amico passò ad
un altro argomento e ci raccontò di quella volta quando si
era recato alla stazione ferroviaria per andare a Milano a
tinteggiare il Duomo e il ferroviere lo convinse invece ad
andare a Valmadonna, a bere l’acqua perché lo trovava un
po’ “ingiallito” e c’era pericolo che morisse…
Egli andò davvero alle fonti di Valmadonna e fu tanta l’acqua da lui bevuta, che alla sera tutti i pozzi erano rimasti
asciutti.
Poi ci raccontava di quella volta in cui si trovò “per curiosità” ad una fiera-mercato di animali bovini a Moncalvo
e, nell’alzare la mano, per scacciare un’ape molesta, un
mediatore gli aggiudicò per dieci milioni di lire mucche e
torelli che un macellaio di Novi Ligure aveva contrattato a
nove milioni e vedendosi così soffiare da lui l’affare. “Dovetti – diceva ridacchiando – scappare tra mucche e torelli,
destreggiandomi come un torero, per sfuggire il macellaio
che mi rincorreva furente e minaccioso”.
Adesso “al balista”, come amichevolmente lo chiamavamo,
non può più raccontare le storie dell’orso glaciale lomellino, né alcun’altra storia. E’ morto oggi nel suo casotto di
legno presso la chiusa dell’Agogna di Velezzo Lomellina.
Questo lomellino autentico, inventore di storielle ineguagliabili, non è più. Quest’uomo insostituibile ha una modesta tomba là, in fondo al piccolo cimitero. Sulla nuda lapide
appena nome e cognome. Ma io e Mario abbiamo colmato
la lacuna scrivendovi sotto: “ Qui giace un lomellino che
tutti i giorni sapeva regalare ore di ineffabile serenità”.
&
Cultura&&
Circolo
Un momento
della cerimonia
di premiazione
Premio di Poesia:
44 anni di successi
È
LO SCORSO 24 SETTEMBRE SI È TENUTO IL GRAN FINALE
Maurizio Gramegna, di Cigognola, il trionfatore assoluto del 44esimo Premio Nazionale di Poesia Città di Mortara, appuntamento promosso dal Circolo Culturale
Lomellino Giancarlo Costa (con il contributo di Comune, Provincia e Comitato organizzatore) e
divenuto, nel corso della sua lunga storia, momento immancabile nel cartellone della Sagra del Salame d’Oca.
La giuria, composta da Mirella Bersini, Antonella Ferrara, Maria Forni, Marco Leva e Giuseppina Morone (e
fino allo scorso anno dalla compianta Lilia Camussoni),
ha individuato nei versi di “È stato un arrampicarsi…”
il componimento meritevole del primo premio nella
sezione principale, vale a dire tema libero. Al poeta
oltrepadano, nel corso della cerimonia di premiazione
dello scorso venerdì 24 settembre, al teatro Angelicum
di piazza Olivelli, è stata consegnata la splendida scultura realizzata appositamente per il concorso dall’artista
sartiranese Beppe Pasciutti. Viene da molto più lontano, e precisamente da Ancona, la seconda classificata
Fulvia Marconi, autrice di “Un cesto di more e fiori”.
Sul terzo gradino del podio è invece salita Egizia Malatesta, di Massa, con la poesia “La bambola bambina”.
Premi speciali per: Marco Bruna di Milano (“Si fa spazio l’ombra..”), Martino Consoli di Milano (“Luglio in
seconda classe”), Maria Rosa Dell’Angelo di Vignale
Monferrato (“Pioggia d’estate”), Fulvio Fedele di Alessandria (“Soffio minore”), Roberto Gennaro di Genova
(“L’amore fenice”), Sara Rodolao di Imperia (“Latte di
mandorle - A mia madre”), Rodolfo Vettorello di Milano (“La vecchia madia”) ed Elena Zucchini di Genova
(“Pur se la notte avanza”). Ad aggiudicarsi la prima
piazza nella sezione “Poesia sulla Lomellina - Premio
Giancarlo Costa” è stato il milanese Fabiano Braccini
con le liriche di “Lomellina velata di Bruma”. L’argento e il bronzo sono stati rispettivamente assegnati a
Mariapia Florio di Castello d’Agogna (“Dolce Lomellina”) e all’ottimo poeta locale Italo Rubini (“Autunno
Lomellino”). Tutte le poesie in lingua, nella serata finale, hanno trovato verbo nelle corde vocali di Lorella Carisio, al leggio dell’Angelicum. Nella sezione dialettale,
da sempre apprezzata dagli spettatori della cerimonia
conclusiva (grazie a un lettore d’eccezione come Marco
Fleba), si è imposta Maria Quinale, di Lomello, con la
poesia “Spegg”. Alle sue spalle un vero professionista
della parola, Luigi Balocchi. Nella veste di poeta dialettale ha scodellato i versi di “Pastrugn ad tera”. Terza
Tiziana Salè con “I feri a l’aria bona”. Quattro i componimenti segnalati: “Al muschin” di Graziella Bazzan,
“Al barbon dal venerdì” di Giorgio Bottigella, “Barlik”
di Daniele Guglielminetti (tutti e tre di Mortara) e “La
cà in dua son nasu” dell’alagnese Angela Fullone.
ottobre - dicembre 2010
25
&
Cultura&&
Circolo
Tutti i premiati
del Concorso
di Fotografia
T
OTTIMO AFFLUSSO DI PUBBLICO PER LA 15ESIMA EDIZIONE
rasformare il movimento, la luce, il fluire
temporale in un’immagine. Fissa. Immortale, come lo è l’arte nei suoi risvolti
trascendenti. La fotografia, uno dei più
grandi prodigi nella storia dell’umanità,
a Mortara è davvero di casa. E ciò grazie all’attivo
Gruppo Fotoamatori del Circolo Culturale Lomellino
Giancarlo Costa, da 15 anni a questa parte promotore di un concorso ad hoc che non ha mai mancato di
colpire nel segno, in termini qualitativi e quantitativi.
“Erica”, premio unico sezone “Ritratto”
di STEFANIA RICCI FRABATTISTA
“New York”, primo premio sezione “Tema libero”
di LAURA CASERIO
“Bike Wash”, primo premio sezione “Motori, che passione”
di DAVIDE CAMPINI
“Appunti di Lomellina, premio unico sezione “La nostra Lomellina”
di MARIO MOTTA
26
I L VA G L I O
Se per il primo dei due aspetti parla la magnificenza
degli scatti in gara (esposti in una mostra durante l’ultima Sagra del Salame d’Oca), il secondo necessita di
qualche delucidazione numerica: 104 gli autori della
sezione “Tema libero” (per un totale di 382 opere), 49
quelli della categoria “Ritratto” (172 lavori), 36 quelli
della sezione “Motori che passione!” (137 le fotografie), mentre la sezione “La nostra Lomellina” ha visto
la partecipazione di 26 autori con 80 opere. La giuria
(composta da Augusto De Bernardi, Dario De Salvador, Antonio Mangiarotti, Mirella Vecchi, Marta Costa, Paolo e Roberto Destori) ha decretato quale foto
da primo premio nella sezione “Tema libero” l’opera
“New York” della vigevanese Laura Caserio, seguita in graduatoria da Virgilio Gottardi di Como con
“Ginnastica Ritmica” e Giulio Montini di Rho con “Il
mondo di Beppe”. Nella sezione “Ritratto” ad imporsi è stata Stefania Ricci Frabattista di Ferrara, autrice
dello scatto “Erica”. Viene da Cassolnovo il vincitore
della categoria “La nostra Lomellina”: è Mario Motta,
con l’opera “Appunti di Lomellina”. In cima al podio
della sezione “Motori che passione!” è salito invece
Davide Campini di Mombercelli, in provincia di Asti,
grazie all’opera “Bike Wash”. Seconda e terza piazza
per Giuseppe Grolla (di Tronzano, Vercelli) con “Sogno di gioventù” e Augusto Debernardi (di Fontaneto
Po) con “Pilota e motorista”. Tanti gli appassionati di
fotografia (e naturalmente anche i curiosi o gli amanti
del bello in generale) che hanno ammirato le pregevolissime opere del concorso nella mostra allestita a
Palazzo Cambieri, lo stesso edificio in cui domenica
26 settembre (giornata principale della Sagra) si sono
tenute le premiazioni. Appuntamento rinnovato all’anno prossimo.
Scuola Civica Musicale • Mortara
Piazza Guida 8 - 27036 Mortara (Pavia)
telefono: 0384.99370
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per il nuovo anno scolastico 2010/2011
Dal 16 al 30 ottobre
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dell’iconografia
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(Sede del Circolo, via Bertolli 3, Mortara)
Dal 6 al 27 novembre
(dalle 10 alle 12 - dalle 16 alle 19)
Collettiva di pittori contemporanei
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Tanti i corsi a disposizione. In più, in base
alle specifiche richieste, possono esserne
attivati di nuovi: questo grazie a un corpo
docenti altamente qualificato. Perché da noi
il protagonista è l’utente.
E si merita il miglior palcoscenico.
La Scuola Civica è una palestra
per il talento, il trampolino
di lancio per “saltare” dalla passione
al successo.
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DEL CIRCOLO CULTURALE LOMELLINO
GIANCARLO COSTA
Dal 4 al 23 dicembre
(dalle 10 alle 12 - dalle 16 alle 19)
“Lomellibro”
Mostra - editoria locale
a cura di Elena Signorelli
(Sede del Circolo, via Bertolli 3, Mortara)
26 dicembre 2010
(ore 17,15)
Gli amici per un amico
Anno 6 - Numero 4
Ottobre - Dicembre 2010
Reg. Trib. di Vigevano
n. 158/05 Reg. Vol. - n. 1/05 Reg. Periodici
Direttore responsabile
Marta Costa
Elenco speciale
Albo professionale dei Giornalisti di Milano
Coordinamento
Sandro Passi
Hanno collaborato a questo numero
Graziella Bazzan
Carmen Bortolas
Umberto De Agostino
Nadia Farinelli
Maria Forni
Guido Giacomone
Eufemia Marchis Magliano
(La collaborazione è a titolo gratuito)
Concerto di Santo Stefano
(Auditorium Città di Mortara)
In copertina
“Lomellina” (particolare)
Roberto Pelli,
(2010)
MORTARA ON STAGE
2010-2011
Editore
Circolo Culturale Lomellino Giancarlo Costa
via XX Settembre, 70 - 27036 Mortara (PV)
Coordinamento editoriale
Alberto Paglino
Realizzazione grafica
& Impaginazione
2009.2010
MORTARA
30 ottobre 2010
ore 21
Ada Rovatti Band
Green factor (jazz/celtic)
Special guest:
Rob Thomas, violino
20 novembre 2010
ore 21
Orchestra
I Virtuosi di Firenze
Vittorio Ceccanti, direttore
Duccio Ceccanti, violino
e violino elettrico
9 dicembre 2010
ore 21
Cochi e Renato
“Una coppia infedele”
Info: 0382.800765 - [email protected]
Stampa
La Terra Promessa
Via E.Fermi, 24
28100 Novara
INFO: 0384.91249
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Anno 6 - Numero 4 Ottobre - Dicembre 2010