Anno 6 - Numero 4 R i v i s t a d i C u l t u r a S t o r i a e Tr a d i z i o n i Ottobre - Dicembre 2010 Sommario In copertina Editoriale “Lomellina” particolare dell’opera Olio su tela Roberto Pelli (2010) Camminando tra i sentieri di polvere Sul nome Lomellina La Strada Regia tra romani e longobardi 3 di Maria Forni 4 di Carlo Montorsi 7 di Umberto De Agostino 9 Strade campestri di Mortara di Guido Giacomone 11 Il dolce andare in terra lomellina di Graziella Bazzan 14 Contadini d’altri tempi: Bastiano di Eufemia Marchis Magliano 16 Il medico di campagna di Nadia Farinelli 20 Sui sentieri del guado del fiume Sesia di Carmen Bortolas 22 Al balista di Giancarlo Costa 24 Premio di Poesia: 44 anni di successi 25 Tutti i premiati del Concorso di Fotografia 26 Câsinâ smintjâ In mès â pulvâr e ragnà â snâ va sutâ ‘l ciel â dlâ Lümlinâ. Smintjâ dâ temp, âg restâ immâ j ricord di mundin e di racolt. Oh rundâninâ, cun paiâ e fen fa ‘ncurâ ‘l nin in tlâ stalâ, duâ ‘l ghè lâ grûpjâ vöjâ. Restâ rentâ â cuj poc pâjsân câ gâ râstâ, rentâ âi sap e âj bâdì e tenâ int’ âl bèc, pâr pjâsè, un fjur âd primâverâ pâr lâ câsinâ smintjâ. da “Fuga al sole”, Giancarlo Costa (1990) EDITORIALE Dove si incontrano mondo agreste e sapere I La cultura che cresce tra i campi di Marta Costa l giardino dell’Eden non esiste soltanto nelle pagine del Libro della Genesi. In Lomellina basta spingersi a breve distanza da casa per trovarlo facilmente, una fortuna non da poco. Perché tra i campi anche ciò che può sembrare brutto, difficile, fastidioso, ha il suo romanticismo celestiale. Nebbia e zanzare comprese. È una dimensione a sé stante, quella agreste. Unica e così poco artificiosa da risultare ineffabile, da sfuggire alle parole, alle definizioni. Per capirla bisogna viverla. Gli artisti, i poeti e gli scrittori ne hanno fatto una malattia. Cercando, ognuno a proprio modo, di esprimere ciò che ricevevano dalla terra. Nessuno di loro, probabilmente, è mai riuscito a catturarne appieno l’essenza, ragione per cui il filone ispirato dalla campagna non può dirsi esaurito. Eppure la società di oggi, vittima semi-incolpevole degli idoli metropolitani celebrati a mezzo etere, a volte dà la sensazione di disinteressarsene. Salvo poi invocare il nume della saggezza contadina quando, spaesata dalla frenesia e dall’impoverimento culturale, sente il bisogno di punti di riferimento stabili. Pronti ad accogliere il “figliol prodigo” di turno, i polverosi sentieri che accarezzano piante e corsi d’acqua stanno lì ad aspettare. Il Vaglio ha voluto percorrerli. Lo ha fatto partendo dalla prospettiva letteraria, affidata all’autorevolezza di Maria Forni. Il suo contributo getta uno sguardo d’insieme sul realismo settentrionale del tardo Ottocento, la cosiddetta “linea lombarda”, focalizzandosi in particolare sulla Marchesa Colombi (pseudonimo d’arte di Maria Antonietta Torriani). Segue un documento di notevole interesse storico: un compendio esaustivo del saggio “Sul nome Lomellina”, ricerca pubblicata per la prima volta nel 1923 e ristampata nel 1950. L’autore, il professor Carlo Montorsi, raccolse con dovizia di dettagli le svariate teorie sull’origine “toponomastica” della terra tra Po, Ticino e Sesia. Mantenendosi in linea retta sul filone storiografico locale, ecco Umberto De Agostino a parlare della Strada Regia, antichissimo tragitto che collegava Ticinum (vale a dire Pavia) a Laumellum (Lomello). Guido Giacomone offre poi una particolareggiata ricognizione delle strade campestri che divagano lungo il perimetro di Mortara, le stesse su cui si imbastisce la trama della riflessione di Graziella Bazzan sul piacere di una passeggiata tra la natura. Scaturisce dalla memoria il racconto di Eufemia Marchis Magliano, in cui è tratteggiato il profilo di Bastiano, uomo semplice, laborioso, devoto. Un contadino. Nel senso più elevato che tale gratifica può rivestire. I medici condotti, figure annodate a doppio filo all’epoca che fu, scorrazzano indaffarati tra le righe che Nadia Farinelli ha voluto spendere sul loro prezioso (e rimpianto?) compito civile. Dal servizio a firma Carmen Bortolas, invece, emerge limpido uno scorcio suggestivo, che corre lungo il tragitto del Sesia a Candia Lomellina. Chiude questo numero del trimestrale “Al Balista”, una storia scritta da Giancarlo Costa. Buona lettura, e buona campagna. ottobre - dicembre 2010 3 & Cultura&& Letteratura Camminando tra i sentieri di polvere VISIONI E MEMORIE DI CAMPAGNA E state, calura, campagna: un esile gruppetto di bambine girovaga per i sentieri della frazione lomellina, inventando o ripetendo qualche gioco che ravvivi il silenzio e l’aria immobile della canicola. Intanto il piede nudo affonda con un brivido di piacere nella polvere, bianca e sottile come cipria, lasciando la sua orma piccola e decisa. Era questa la campagna, allora: verde intorno, frutta caduta dagli alberi offerta al nostro ghiotto desiderio e intorno il rumore dell’acqua, qualche richiamo di uccello e la rana e la cicala. Con l’avanzare dell’età, capita quel fenomeno chiamato della “presbiopia della memoria”, per cui “le cose dell’infanzia ritornano presenti con un’intensità che è dovuta al passaggio del tempo, alla prospettiva del tempo: più lontane sono e più ti precipitano addosso” (Camilleri). Soprattutto, torna la sensazione e la sua intensità ritrovata quasi annulla la malinconia. La campagna è stata uno dei temi essenziali delle espressioni e rappresentazioni artistico-letterarie, da sempre; non volendo in questa sede riandare troppo indietro nei secoli della storia letteraria, si lascerà da parte tutta l’atmosfera idillica e bucolica della poesia greco-latina e di quella posteriormente ispirata a essa nel tono e nei topoi, per scegliere invece una prospettiva più vicina a noi nella visione dei luoghi e dell’antropologia dell’ambiente campestre. In fondo il nostro Paese e la nostra zona furono per un non trascurabile lasso di tempo essenzialmente sede di una civiltà agricola, nel costume, nel linguaggio e nei rapporti sociali. Nel- Sul finire dell’Ottocento la rappresentazione letteraria della civiltà agricola caratterizzò una serie di scrittori, appartenenti alla cosiddetta “linea lombarda” 4 I L VA G L I O Lungo la strada vedi tra le siepi ridere a mazzi le vermiglie bacche Giovanni Pascoli l’ultimo scorcio del secolo XIX, la scelta di assumere come oggetto della propria rappresentazione letteraria la vita dei campi caratterizza una serie di scrittori che furono giustamente definiti come appartenenti alla “linea lombarda”; in verità, essa comprende anche numerosi esponenti piemontesi, in particolare di alcune zone del Piemonte fortemente limitrofe ad altre lombarde, zone cosiddette “ di frontiera”: si sa che la letteratura, soprattutto di tipo “periferico”, non sopporta nette linee di demarcazione, ma allarga il concetto di provincia al di là del fattore puramente anagrafico, per recuperare i contorni di un immaginario che in genere si pone come alternativo – quando non in contrasto – con il tipo di letteratura dominante nel paesaggio accademico o ufficiale. Così, mentre prevale nel gusto della critica e del pubblico una letteratura volta a osservare e celebrare i comportamenti e le azioni di una classe aristocratica, intenta a cogliere il godimento della vita e a celebrare la bellezza e un’esistenza “inimitabile”, numerosi scrittori lombardo-piemontesi di fine ‘800 rivolgono la loro attenzione alla campagna come luogo di disagio sociale e di lotta per la sopravvivenza, ma anche come sede di più autentiche situazioni, di più semplici e comuni affetti, di tenaci e insopprimibili speranze. Nasce una letteratura “in re”, una poetica degli oggetti (gli strumenti di lavoro, i modesti arredi domestici, i rustici ornamenti delle donne, gli zoccoli, e così continuando), che assumono il valore di testimonianze realistiche della vita delle classi subalterne, ma talvolta attraverso l’intensità dell’immagine concentrano in sé anche il valore di simbolo. Si comprende facilmente come, da queste premesse, il filone letterario di cui si parla leghi strettamente la descrizione del mondo campagnolo con una prospettiva di realismo, lontano dall’idillio e dalla trasfigurazione. Critici di grande autorevolezza come Dante Isella e Luciano Anceschi hanno messo in luce la particolare disposizione lombarda (in senso lato, naturalmente), a coinvolgere letteratura e realtà, avendo alle spalle la grande operazione di sintesi attuata da Alessandro Manzoni tra la tradizione letteraria e le istanze “popolari”, tra cattolicesimo e progressismo, tra realtà regionali e istanze nazionali e/o europee. Il realismo settentrionale del tardo ‘800, peraltro già anticipato dalla cosiddetta “letteratura Campagnola” e dalla stessa Scapigliatura, non può prescindere dalla lezione del Manzoni, che aveva mostrato, andando controcorrente come i suoi tardi seguaci, la via nuova: scegliere i protagonisti tra gli umili, tra i “volti nella folla”. Tuttavia si avverte la forte differenza del contesto storico-sociale: il Manzoni segnava un momento di speranza, di apertura, di inizio; gli scrittori della linea lombardo-piemontese dell’ultimo ‘800 esprimono una delusione per il corso degli eventi politico-sociali e assumono una difesa di realtà marginali e periferiche: non a caso tra di loro vi sono molte scrittrici, donne che iniziano a denunciare in modo inequivocabile la durezza della condizione femminile, ancora più dura nella civiltà contadina: basti citare le opere di Sibilla Aleramo (di Alessandria), Ada Negri (di Lodi), della Marchesa Colombi, nome d’arte di Maria Antonietta Torriani , novarese di nascita e milanese di adozione. Abbandonata la vita di provincia, Novara con le sue “strade bianche l’inverno di neve e l’estate di polvere”, la Torriani entra nei circoli culturali della Milano intellettuale, dove conosce, tra gli altri brillan- ti personaggi, il futuro fondatore del “Corriere della Sera”, Eugenio Torelli Viollier, che poco tempo dopo diventa suo marito. Giornalista, traduttrice, scrittrice in proprio, riscuote consensi e un grande successo, soprattutto coi racconti e romanzi nei quali intreccia vicende piccolo-borghesi o contadine, segnate da emarginazione, grigia quotidianità, sconfitte. Eppure la scrittura della Marchesa Colombi, “acuta psicologa del concreto” (Antonia Arslan), è pervasa anche da una sottile ironia e da una disposizione a cogliere le pur paradossali “consolazioni” che alla fine la vita riserva quasi a tutti. In questa sede, appare interessante soprattutto “In risaia. Racconto di Natale”, edito da Treves, Milano 1878. Il testo, come quasi tutte le opere dell’autrice, dopo il successo ottenuto presso i contemporanei, finì dimenticato, comune sorte a molte scrittrici, divenute chissà perché invisibili nel tempo, fino alla fortunata riscoperta. Nel nostro caso, la ricomparsa della scrittrice si deve a Italo Calvino, che la ripubblicò presso Einaudi nel 1973, con la collaborazione di Natalia Ginzburg. “In risaia” descrive, attraverso la vicenda della protagonista, una giovane contadina di nome Nanna, senza alcun tono idillico, ma piuttosto con acuto sguardo realistico, il duro lavoro delle mondariso nel novarese, denunciando la realtà dello sfruttamento dell’ opera femminile, pur con scrittura misurata e “col massimo dell’allegria poetica” (Italo Calvino) . La campagna è descritta solo nelle sue linee essenziali, come luogo di lavoro e di fatica, che iniziano dall’infanzia dei protagonisti: il realismo senza indulgenze liriche si manifesta fin dall’incipit: C’era un cascinale tra Novara e Trecate, con un tenimento annesso coltivato a orto. Ci si giungeva per un viale senza alberi costeggiato da una siepe viva di robinie, che metteva nel cortile... ottobre - dicembre 2010 5 Silvio Santagostino, “Risaia” (1946) Alcune scrittrici denunciarono la durezza della condizione femminile nella vita contadina: tra queste figura Maria Antonietta Torriani, in arte Marchesa Colombi A destra di chi entrava passava una fonte, un canale scoperto, che serviva a irrigare il terreno, a lavare erbaggi e panni, a far diguazzare le oche. Nanna, la protagonista , figlia dei contadini affittuari di una parte del cascinale, aveva passata l’infanzia a custodire le oche. Divenuta ragazza, nonostante la non robustissima costituzione, decide di accettare il lavoro di mondariso per accumulare la somma, non disponibile in famiglia, necessaria a comprarsi l’argento, l’ornamento nuziale dei capelli, gli spilloni della Lucia manzoniana ancora in uso nelle campagne, anzi indispensabile dote per trovare un marito. Ma il terribile lavoro nelle acque malsane delle risaie, infestate da sanguisughe, in un clima insalubre e pesante (Non c’era tempra robusta che reggesse a quella vita... A vederle tra le nebbie del mattino avviarsi al lavoro a due a due...) le procura delle febbri per cui viene ricoverata in ospedale. Dopo la malattia lunghissima e una cura dolorosa, i bei capelli biondi per ornare i quali aveva sopportato il lavoro spossante, le cadono per non ricrescere più: la crudele ironia della sorte costringe Nanna a tenere sempre una pezzuola in testa, quella testa “spelata e lucida come un ginocchio”. Ciò le guasta il carattere, trasformandola in una zitella acida. In realtà ella prova un tumulto di sentimenti contrastanti, espresso dall’autrice con molta abilità nell’armonizzare in giusto equilibrio gli elementi di pena presenti nel personaggio e gli aspetti di cruda quotidianità colti con lucida e implacabile capacità di osservazione della realtà contadina, dove non c’è tempo né possibilità di indulgere ai sentimenti che pure sono profondi. Non manca comunque una sorta di “lieto fine” : perdute le speranze giovanili sul bel Gaudenzio, spavaldo dongiovanni rusticano, superato l’odio verso tutti e la gelosia per la bella cognata, nella notte di Natale, tra i riti della messa, dei dolci cotti in casa e degli zoccoli posti sulla finestra in attesa dei doni, dopo un drammatico scatenarsi di conflitti familiari, Nanna ritrova la pace del cuore. Finirà così con l’accettare la proposta affettuosa di matrimonio da parte di un vedovo, buon uomo rimasto solo con una bambina a cui Nanna si affeziona con trasporto. Il riassunto non rende ragione della complessità dell’intreccio, che, pur snodandosi nella semplice realtà della campagna novarese di fine Ottocento, è ricco di sviluppi e di dinamiche interne ai personaggi e alle loro relazioni. Ma per il lettore di oggi “In risaia” riveste anche un interesse storico (microstorico) offerto dai frequenti riferimenti, precisi e minuziosi, alla vita quotidiana della gente dei campi, in un mirabile impasto di osservazioni che A sinistra Italo Calvino, a destra Maria Antonietta Torriani, meglio nota come Marchesa Colombi Ada Negri presenta una produzione di brevi prose d’arte, dove la contemplazione della campagna si concentra sull’aspetto dei luoghi senza la presenza di altre figure umane 6 I L VA G L I O documentano con puntigliosa esattezza le durissime condizioni di vita delle genti contadine e, d’altro canto, di momenti in cui una semplice ma autentica allegria segna coi riti delle stagioni un’esistenza di sacrificio, sorretta però dalla sicurezza della stabilità della comunità che trova insieme la forza di vivere e di alimentare qualche modesta gioia. Si pensi alle serate passate in inverno da tutta la piccola comunità nella stalla, dove i racconti, le notizie sugli avvenimenti paesani, le barzellette, un po’ di musica scandiscono l’esistere come membri di una “società”. Nella stalla le donne e le fanciulle si dedicano ai lavori di cucito (il corredo!), mentre si svolgono approcci e corteggiamenti in un clima di attesa e di speranza. Anche durante la dura “stagione” della monda del riso, la musica è presente in chiave consolatoria, sia perché le mondine, quando il lavoro diventa troppo opprimente, intonano canti tradizionali, quasi a darsi forza, sia perché spesso, nelle serate trascorse sull’aia delle cascine, giunge un organetto o una fisarmonica e si scatenano le danze. La vicenda è “attraversata” dalla strada che unisce paesi e cascine e rappresenta simbolicamente il lento ma continuo procedere della vita in un mondo dai ristrettissimi confini, il cui massimo punto di riferimento e di progresso è la città di Novara, dove ci si reca qualche volta per le occasioni o gli acquisti importanti. La strada è percorsa a piedi dai lavoranti e dalle lavoranti che si chiamano e si aspettano per recarsi al luogo di lavoro, soprattutto all’inizio della monda, quando le ragazze e le donne si trasferiscono letteralmente in un’altra sede. La strada è pure il luogo dei carrettieri, che trasportano merci e persone, costituendo anche una sorta di mezzo di comunicazione di notizie a e su parenti e amici. Carrettiere è quel bel Gaudenzio di cui Nanna è segretamente innamorata e che costituisce l’ammirazione di tutte le fanciulle del circondario. “Ah! Come cammina! Ecco; è così che debbono camminare i signori di Novara.”, Nanna diceva tra sé. Un’altra scrittrice coeva della Marchesa Colombi, la poetessa Ada Negri, nata e vissuta fino alla prima giovinezza a Lodi e nella bassa lodigiana, mentre denuncia nelle sue opere poetiche, e soprattutto in “Fatalità” (1892), le ingiuste condizioni di vita nelle fabbriche e nelle campagne, presenta pure una produzione di brevi prose d’arte, dove la contemplazione della sua campagna, filtrata anche attraverso i ricordi dell’infanzia, si concentra sull’aspetto dei luoghi, quasi in un contatto diretto tra il sentimento dell’autrice tornata a rivedere i luoghi natii e la natura suggestiva e quieta, senza la presenza di altre figure umane. “Le robinie che fanno siepe alla strada maestra, in questo mese d’agosto, sono, per la siccità, polverose sì da sembrar grigie....Basso il cielo, quasi bianco, d’un bianco rovente di metallo in fusione.” “ Sì, confesso che respirai di gioia quando scopersi il viottolo...Ho sempre voluto bene alle stradette perdute fra i campi, nella pianura. Vi si procede adagio e in pace, godendo di un vasto giro d’orizzonte.” (dalla raccolta “Le strade”) Sul nome Lomellina Prof. Carlo Montorsi (pubblicato nel 1923 – ristampato nel 1950) Nato da famiglia modenese a Sorrento nel 1887 e morto a Borgo San Siro nel 1957, Carlo Montorsi, professore di lettere laureato a Napoli, insegnò a Pavia, Stradella, Sassari, lungamente ad Alessandria e infine a Vigevano. Alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale aveva sposato Ida Zanetti Cazzani, ultima discendente di una famiglia da cui per circa due secoli erano venuti i tecnici, in quei tempi detti “ingegneri”, che a Borgo San Siro gestivano il patrimonio di terre e di cascine dell’ospedale San Matteo di Pavia, allora proprietario di quasi tutto l’agro del paese. Restò sempre molto legato al Borgo, dove risiedette stabilmente con la moglie dagli anni Quaranta in avanti. “Sul nome Lomellina” è il titolo di un suo opuscolo, pubblicato nel 1923 e poi ristampato nel 1950, da cui sono tratte le notizie che seguono. Robi Ronza S i suol dare il nome di Lomellina alla fertilissima regione, del tutto piana, compresa tra la Sesia, il Po e il Ticino, e limitata verso nord da una linea convenzionale, che passa per Cassolo, Gravellona, Cilavegna, Albanese, Nicorvo, Robbio, Confienza e Palestro. Ha una superficie di Kmq. 1242 e appartiene amministrativamente alla Lombardia (provincia di Pavia), ma fisicamente è piemontese, se si vuol vedere nel Ticino il confine naturale. Occorre però tener presente che oggi si suol chiamare “Circondario di Lomellina” il Circondario di Mortara (i circondari sono stati aboliti nel 1926). Ma tale denominazione è alquanto impropria, perché, pur comprendendo il Circondario di Mortara la massima parte della Lomellina, è pur vero che di questa fanno parte senza dubbio i mandamenti di Sannazzaro dei Burgundi e di Cava Manara, che dipendono amministrativamente dal Circondario di Pavia. Il nome Lomellina deriva senza dubbio da Lomello. La fondazione di questa cittaduzza, la cui etimologia è tuttora incerta, non rimonta oltre il I° secolo A.C., essendo ricordata, per la prima volta, da Tolomeo (II secolo D.C.). Lomello è ricordata, dopo Tolomeo, da tutti gl’itinerari tramandatici dagli antichi, come mansio, cioè come stazione importante dell’importantissima Strada Romana. Con l’andar dei secoli, Lomello vede crescer naturalmente sempre più la propria importanza; ma prima di trovar denominato da essa l’agro fertilissimo che la circonda bisogna giungere alla metà dell’Evo medio e precisamente al secolo XI. Lomello, che ora è un piccolo comune, fu invece, nell’antichità e nel Medio Evo, il centro più importante di detta regione. Ma quando sorse il nome “Lomellina”? Si può dire ch’esso incominciò a nascere nel secolo X. Infatti, in una carta dell’anno 913, che tratta della cessione di un manso fatta da re Berengario I ad un Autberto Vicecomiti lo si dice situm de Comitatu Laumellino. Qui però si tratta ancora d’una pura forma aggettivale ricavata dal nome Laumellum ed affibbiata al comitatus, invece della forma latinamente più corretta di Laumellensis. Le due forme comitatus Laumellensis e comitatus Laumellinus si trovano ancora alternate in documenti posteriori; ma non molto più tardi, e precisamente in un diploma dell’Imperatore Enrico II dell’anno 1019, troviamo per la prima volta proprio denominata Laumella la regione su cui Lomello aveva giurisdizione. Ma, alquanto più innanzi ricorre ancora la forma usuale in comitatu Laumellensi. ottobre - dicembre 2010 7 Mappa della Gallia Cisalpina tratta dall’opera “Geographia Antiqua”, Christophorus Cellarius (1638-1707) Incomincia l’uso di denominare da Lomello la regione della quale questa gloriosa cittadina fu per tanti secoli il maggior centro, è naturale ch’esso finisse per generalizzarsi e rimanere quindi definitivamente designato con nome di “Lomellina” dapprima il solo territorio del vetusto comitato di Lomello e poi anche quello del limitrofo comitato di Bulgaria o Vigevanasco, dopo che le vicende politiche ne accomuneranno le sorti, ma soprattutto dopo che i due territori verranno riuniti in un’unica circoscrizione amministrativa, distinta precisamente col nome di “Lomellina”. Infatti troviamo la subregione, di cui trattasi, sempre denominata Lomellina nel secolo XVI da Simone Del Pozzo, cancelliere del Comune di Vigevano nel 1549, nei seguenti passi “... Faccino Cane del Borgo de S. Martino di Monferrato con li soi militi occupò la Lomellina, gettò a terra quasi tutte le castella, et precipue delli conti della Laumellina e Confalonieri...” “Se li Homini de Mede, uilla de Lomellina, per la prima non avessero tolto le arme in mane a defensarse e conservare quel grano ecc... male staria la povera Laumellina...”. Questo nome dunque rimase ed è con esso denominato ancora oggi un territorio di Kmq.1242.35 di superficie, intendendosi per Lomellina tutto il territorio racchiuso tra la Sesia, il Po e il Ticino e il confine settentrionale convenzionale già indicato, non esclusi i due mandamenti di Cava Manara e di Sannazzaro dei Burgundi, che dipendono amministrativamente dall’ex circondario di Pavia, eccetto l’estremo angolo sud-est tra Po e Ticino, che fu sempre alle dipendenze di Pavia. Nel 1723, in seguito ad un riordinamento delle provincie promulgato negli “Stati di S.M. di qua dal mare”, la Lomellina fu eretta in provincia, detta di Lumellina con capoluogo Mortara. L’antica e gloriosa Lomello venne soppiantata come residenza dell’autorità, da Mortara. Durante la dominazione francese Lomello e la Lomellina fecero parte del dipartimento d’Agogna con capoluogo Novara, mentre Vigevano diventava sede dell’autorità amministrativa e giudiziaria; finchè, nel 1814, regnando in Piemonte Vittorio Emanuele I, ad un nuovo riordinamento amministrativo dello Stato, l’odierna Lomellina fu divisa ancora in due provincie: provincia di Mortara e di Vigevano. Nel 1815 la suddetta ripartizione provinciale fu ancora modificata, assegnando il mandamento di Robbio a Mortara e riducendo i mandamenti dipendenti dalla provincia di Vigevano. Tre anni dopo il Vigevanasco cessa d’esser provincia a sé per venire incorporato definitivamente nella “provincia di Lumellina” dipendente dal Senato di Piemonte e dalla Divisione di Novara. Agro Lomellino oggi è tutto il territorio compreso tra l’attuale confine nord amministrativo dell’ex Circondame di Mortara, il Ticino, il Po e la Sesia, escluso soltanto l’angolo sud-est, cioè il così detto Siccomario, che si estende da Sommo Lomellina a Pavia. 8 I L VA G L I O & Cultura&& Storia La Strada Regia tra romani e longobardi LA “STRA PAVESA” COLLEGAVA TICINUM A LAUMELLUM O di Umberto De Agostino ggi appare come una strada campestre qualunque, senza identità, che corre fra risaie e cavi irrigui, ma in realtà si tratta di uno dei percorsi più carichi di storia della Lomellina, già noto ai tempi dell’Impero romano. È la Strada Regia, o Regina, che da “Ticinum” (Pavia) giungeva a “Duriæ” (Dorno) e a “Laumellum” (Lomello) proseguendo per “Cuttiae” (Cozzo), dove si divideva in due tronchi: uno diretto a Torino e al passo del Monginevro, l’altro a Vercelli, Ivrea, Aosta e poi ai passi del Grande e Piccolo San Bernardo. A livello locale, il percorso è noto con il termine dialettale di “Strà pavesa”. È opportuno ricordare che duemila anni fa, da un punto di vista amministrativo, la Lomellina dipendeva da “Ticinum”: a testimonianza di questo legame, a Lomello fu ritrovata un’epigrafe che ricorda Iulius Pertinax, esponente della tribù “Papiria”, cui fra il 42 e il 41 avanti Cristo sono ascritti i cittadini di “Ticinum”. Il centro più importante lungo questa direttrice, su cui transitarono milioni di soldati, di mercanti e di pellegrini, era senz’altro Lomello. Gli antichi itinerari indicano “Laumellum” come “mansio” a una distanza da “Ticinum” fra 20 e 21 miglia romane (un miglio romano era pari a 1.478,50 metri). In particolare, si ricordano la Tavola Peutingeriana, documento del XIII secolo che riproduce una più antica carta romana, i vasi di VicareIIo, piccoli vasi d’argento che riportano le diverse tappe del percorso da Roma a Cadice. Poi c’è l’“Itinerarium Antonini”, che individua la strada come un tratto della via di comunicazione da Milano alle Gallie, e l’“Itinerarium Burdigalense” che, nel delineare il percorso da Bordeaux a Gerusalemme, segnala l’esistenza di “Duriæ”, individuata come una Busto di Marco Aurelio Antonio Caracalla “mutatio”, luogo di posta dove era possibile cambiare i cavalli, e di “Laumellum”, come una “mansio” che aveva il suo fulcro dove ora sorge la basilica di Santa Maria. Il termine latino “mansio” significa sosta, fermata: vi era tutto ciò che serviva per ospitare magistrati, legionari, commercianti e, spesso, anche imperatori. Qui si trovavano almeno quaranta cavalli di ricambio e poi veicoli di ogni sorta, magazzini, caserme e carpenterie. ottobre - dicembre 2010 9 Il centro più importante lungo la Strada Regia era “Laumellum”, “mansio” indicata a una distanza da “Ticinum” fra 20 e 21 miglia romane Il Battistero di San Giovanni ad Fontes a Lomello, monumento sacro di origine longobarda A testimonianza della strada romana furono trovati due rocchi di colonne miliari: uno dedicato all’imperatore Marco Aurelio Caracalla, l’altro a Flavio Magno Magnenzio 10 Al mantenimento della “mansio” contribuiva la città vicina più rilevante, in questo caso “Ticinum”. Nel 1893 alcuni tratti della strada romana furono scoperti a Lomello, in località Chiesuolo, poco lontano dalla basilica di Santa Maria Maggiore: questo tronco di strada, probabilmente, si dirigeva verso la porta delle mura tardoromane scoperte negli anni Ottanta a Villa Maria, costeggiando l’attuale via Circonvallazione. A testimonianza della strada romana furono trovati due rocchi di colonne miliari reimpiegate in edifici medievali: uno dedicato all’imperatore Marco Aurelio Antonino Caracalla (211-217), l’altro a Flavio Magno Magnenzio, imperatore d’Occidente considerato usurpatore (350-353). Lo scrittore Ammiano Marcellino (330-400) racconta un viaggio di nozze avvenuto nel 355: «Unitasi la giovane Elena, sorella di Costanzo II, al Cesare (Giuliano) con il vincolo matrimoniale e preparato tutto ciò che richiedeva la fretta della partenza, Giuliano con una piccola scorta uscì da Milano alle calende di dicembre (il 1° dicembre) e, accompagnato dall’imperatore fino a un luogo noto per due colonne, situato tra Lomello e Pavia, giunse direttamente a Torino». Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, lo storico longobardo Paolo Diacono racconta che Teodolinda si recò da Pavia a Lomello per incontrare Agilulfo, il promesso sposo che veniva a prendere il posto del defunto re Autari. Ed è fuori di dubbio che la carismatica regina dei Longobardi ricalcò, secoli I L VA G L I O dopo, le orme dei legionari di Roma. Mille anni più tardi, nelle mappe catastali sabaude l’itinerario è noto come Strada Reale da Casale Monferrato a Pavia, mentre nei documenti ufficiali di metà Ottocento la strada è definita «selvatica». Ma nulla rimaneva più dell’antico splendore. La regina Teodolinda, illustrazione tratta dalle Cronache di Norimberga (1493) & Cultura&& Topografia “Plan de la Ville de Mortara”, Sébastien de Pontault, 1676-94 Strade campestri di Mortara I UNA RETE DI CIRCA OTTANTA CHILOMETRI INTORNO ALLA CITTÀ di Guido Giacomone l nostro punto di partenza non può che essere la Mappa dell’Assedio del 1658, la più antica rappresentazione del territorio di Mortara. Punto di partenza ma anche punto di arrivo, perchè la mappa fotografa una situazione di equilibrio pressochè perfetto, cristallizzatasi gradualmente nel corso di secoli ma destinata a essere ben presto sconvolta in modo radicale. A metà del XVII secolo la viabilità era tutta rurale: non c’era distinzione tra direttrici principali e strade di campagna, e dalle due porte della città si dipartiva una raggiera di tracciati diretti in ogni direzione, uno per ogni località posta a breve o a media distanza da Mortara; questi erano poi variamente interconnessi da tronchi viari erratici, buona parte dei quali risaliva probabilmente all’alto medioevo, prima che il nucleo urbano (formatosi verosimilmente tra il XII e il XIII secolo) si imponesse come polo gravitazionale delle comunicazioni locali. Cent’anni dopo - testimoni le splendide mappe del Catasto Sabaudo - la distinzione tra viabilità principale e viabilità campestre era già nettamente delineata ed era iniziato quel processo irreversibile che avrebbe condotto all’attuale frazionamento della rete viaria rurale in tanti spicchi delimitati dalle varie statali e provinciali che convergono sulla città. Non bisogna pensare che la realizzazione delle moderne direttrici di traffico abbia significato una semplice sovrapposizione di queste ultime al tessuto viario preesistente. In realtà una nuova strada tende a fare il vuoto intorno a sè, spezzando i vecchi collegamenti e riannodandoli in forma quasi sempre molto più semplificata. Un isolamento che ha favorito una diversa evoluzione delle reti viarie interne ad ognuno degli spicchi in cui la raggiera delle arterie principali divide il territorio. ottobre - dicembre 2010 A metà del Seicento la viabilità era completamente rurale: ancora non esisteva distinzione tra direttrici principali e percorsi di campagna 11 “Dichiarazione della Piazza di Mortara”, Giovan Battista Sesti, 1707 L’area compresa tra la strada per Lomello e la provinciale diretta a Pavia è intersecata da una fitta rete di strade campestri, effetto del repentino passaggio dal bosco alla risaia 12 Per quanto riguarda la parte meridionale del Comune, più che di evoluzione bisognerebbe in effetti parlare di involuzione, e questo vale soprattutto per la zona compresa fra le strade per Casale e per Olevano, ormai completamente destinata agli insediamenti produttivi. Trascurabile è la viabilità rurale nel minuscolo triangolo compreso fra la strada per Casale e quella per Vercelli; scheletrica ma funzionale è invece la rete di strade campestri dell’area compresa tra le strade per Olevano e per Lomello, giacchè connette efficacemente il piccolo numero di cascine presenti, ed altrettanto efficacemente va a raccordarsi con le strade rurali che uniscono il territorio di Olevano a quello di Cergnago. Su queste tre zone non merita aggiungere altro; per entrare veramente nel cuore della campagna di Mortara e rendersi conto della ricchezza della sua rete viaria bisogna portarsi al di là dello stradone per Lomello; la vasta area compresa tra questo e la provinciale per Pavia è attraversata da una rete di strade campestri estremamente complessa, tanto che si stenta a riconoscervi un qualche criterio di funzionalità. Tutto questo ha un perchè: questa zona è stata risificata in tempi decisamente recenti ed è passata in poco più di un secolo dal bosco alla risaia (quando altrove la transizione è stata mediata da un periodo più o meno lungo di seminativo asciutto); in essa sussistono dunque tronconi a volte incoerenti della viabilità più antica mentre l’inevitabile processo di semplificazione della rete dovuto ai riaccorpamenti fondiari e alla conseguente privatizzazione delle strade procede in modo molto graduale ma inesorabile. Nonostante i parecchi e preoccupanti sintomi di degrado, la zona resta tra le più belle del territorio e specialmente la sua porzione più orientale, solcata da interminabili sentieri che si addentrano nel silenzio di una campagna spopolata, sa esercitare una malìa che rasenta il timor panico. Se sul lato sud le strade di quest’area convergono per congiungersi con le strade campestri di Cergnago, su quello orientale non esiste un collegamento con il territorio di Tromello, mentre a ponente, in prossimità dell’Arbogna, la presenza ormai plurisecolare di grandi proprietà e di importanti cascine situate nell’area golenale del torrente e da lungo tempo votate alla risicoltura ha portato allo sviluppo di un notevole complesso di strade private che di fatto impedisce il collegamento con la parte sudoccidentale I L VA G L I O del territorio comunale. Al contrario, sul lato nord la zona è ottimamente collegata con l’area delle Frazioni Orientali, vale a dire il settore compreso tra lo stradone di Pavia e quello per Vigevano. La connessione tra i due ambiti è fornita principalmente dall’alzaia del Canale e dalla strada comunale delle Frazioni, che raccordano trasversalmente gli interminabili tracciati delle strade vicinali che dalla città si dirigono correndo grosso modo parallele verso le frazioni di Mortara, di Gambolò e di Vigevano. Complessa, articolata e funzionale, la viabilità rurale di questo settore è organizzata in modo esemplare. È un impianto perfetto che si è andato formando e consolidando nel corso dei secoli ed ha trovato una garanzia di durevolezza proprio nella presenza delle frazioni e nella persistenza attorno ad esse della piccola proprietà agraria, che rende tuttora indispensabile una valida rete di strade consortili. È ancora l’alzaia del Canale a fornire il solo collegamento efficace tra l’area delle frazioni e il settore compreso tra le strade per Vigevano e per Parona. Questo possiede al suo interno una viabilità rurale di tutto rispetto che ha il suo punto di forza nel fascio di strade parallele che scandisce l’estensione boschiva retrostante la Medaglia. La griglia di strade regolarmente distanziate (una ogni duecentocinquanta metri) trova origine in una grandiosa riorganizzazione della trama poderale (verosimilmente legata alla lottizzazione e alla vendita di un vasto patrimonio fondiario) avvenuta probabilmente tra Sei e Settecento e che ha lasciato segni profondi in estese porzioni del territorio nordorientale del nostro comune, dalla depressione dell’Arbogna alla dorsale della Medaglia e sino alla conca della Cattanea. Ovviamente la cadenzata ripartizione dei coltivi in queste aree si lascia riconoscere soltanto nelle mappe, ma alla Medaglia essa assume eccezionalmente un’evidenza monumentale apprezzabile anche esteticamente proprio nel susseguirsi dei lunghi corridoi rettilinei che si addentrano nella fitta massa alberata. Dalla Medaglia si raggiunge comodamente la vicina Parona, mentre non esiste un valido collegamento con l’area compresa tra le strade per Parona e per Novara. Questa possiede una rete viaria non molto sviluppata ma ben connessa con le strade campestri di Albonese, Cilavegna e Parona (particolarmente interessante e a tratti anche molto bello è il percorso che risale il Cavo Plezza verso il confine con Albonese). Problematico si è fatto invece il collegamento con la città a causa della privatizzazione delle strade gravitanti sulla Manfredda, che costituisce un punto di passaggio obbligato. Relativamente agevole è il passaggio da quest’area a quella posta al di là della strada per Novara: esiste un collegamento diretto tra i due settori, ma è situato all’altezza dello stabilimento della Ciba e quindi in una posizione un po’ troppo periferica perchè si possa parlare di effettiva comodità. La zona compresa tra le strade per Novara e per Vercelli possiede una rete di strade campestri che sebbene piuttosto rarefatta rispetto alla sua estensione è ben articolata e indubbiamente funzionale alla circolazione all’interno del proprio ambito, ma sostanzialmente poco comunicante con l’esterno. Di fatto l’area è ben collegata solamente con la città; a nord è possibile raggiungere Albonese ma seguendo un tracciato meno lineare di quel che sarebbe lecito attendersi, mentre non c’è un collegamento diretto con la pur vicina Nicorvo. A sud c’è l’area industriale, mentre a ponente una barriera meno vistosa ma non meno efficace è costituita dalle golene antiche e recenti dell’Agogna. In effetti, se si esamina questa zona su di una buona mappa ci si rende conto che a determinare la struttura della sua viabilità rurale sono stati in larga misura i successivi spostamenti (prevalentemente verso nord) del punto in cui l’antica direttrice Piacenza-Ivrea (la Via Francigena, per definirla con un’espressione oggi di moda) guadava il torrente. Della vetusta arteria rimane il troncone mutilo che conduce alla Bellardona, e a sud di questo si incontra solamente la strada che costeggia il Gianolo, più qualche frammento di una viabilità che già nei secoli scorsi risultava piuttosto elementare. A nord, invece, si può notare come dallo snodo della Madonna del Campo si diparta un ventaglio di tracciati che con diversa inclinazione si dirigono verso ponente, disuguali per lunghezza ma tutti immancabilmente troncati. Questi monconi sono raccordati da rettifili più recenti e ne risulta, come s’è detto, una discreta rete viaria che permette di apprezzare un paesaggio poco appariscente ma a cui dona un certo fascino il gioco dei modesti saliscendi che volta a volta allarga o restringe l’orizzonte (notevole è ad esempio l’insolita veduta di Mortara dall’alto che si può godere percorrendo la strada del Cocco, che arriva a toccare i 115 metri, in assoluto il punto più alto del territorio comunale). ottobre - dicembre 2010 Le fotografie illustrano alcuni passaggi campestri Il punto più alto del territorio comunale si incontra percorrendo la strada del Cocco, che arriva a toccare i 115 metri. Da lì è possibile ammirare un’insolita veduta di Mortara 13 & Cultura&& Ricordi Il dolce andare in terra lomellina P “ La camminata è il mezzo ideale per esplorare la campagna, respirarne il verde, tra strade sterrate, filari di pioppi, specchi d’acqua che riflettono il cielo 14 A PASSEGGIO TRA NATURA, STORIA, SENTIMENTO... di Graziella Bazzan roseguiva il suo cammino guardando a terra e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano d’inciampo nel sentiero”. Il sentiero in questione è di manzoniana memoria, più o meno simile ai sentieri di casa nostra, nella campagna lomellina. Basta deviare di poco dalle strade statali o provinciali per trovarsi tra ciuffi d’erba arruffati, vecchie mura e rivi d’acqua. Sentieri di campagna, muti spettatori di un mondo passato, scandito da ritmi biologici e stagionali, che emanano un richiamo a un tempo semplice e nostalgico, sentieri da ripercorrere per ritrovare ricordi che il ritmo assillante del nostro vivere ha offuscato. La campagna d’estate è una calda tavolozza cromatica di colori ma mantiene il suo fascino anche quando la nebbia comincia a imperare e stringe strane alleanze con lo smog della città; rogge, cavi, canali e colatori l’attraversano, i suoi sentieri aperti al vento e al sole, passano tra campi di grano e mais (la Lomellina, come ci ricorda la storia, era ai tempi dei Visconti e degli Sforza il granaio del ducato di Milano). Il walking, ovvero la camminata nostrana, è l’ideale per esplorare a piedi la natura, per respirarne il verde che costeggia strade sterrate e argini di torrenti, tra filari di pioppi che si piegano al vento proteggendo culture e riso, con specchi d’acqua che riflettono il cielo, agreste surrogato del mare nostrum. Garzaie, macchie di verde, memoria delle antiche paludi sono per la nostra terra testimonianza del suo territorio; la Lomellina è ricca di tesori ambientali che si possono ammirare solo scegliendo di muoversi nel suo interno in modo ecologico, perché solo così si crea un rapporto diretto con lo spazio e con il tempo, rapporto I L VA G L I O stimolante che consente di apprezzare pienamente dettagli, atmosfere, giochi di luce e di colori. Chi ama la natura, oltre ai piedes-calcantes, può fare uso di qualsiasi altro mezzo che gli permetta di staccarsi dalle strade più battute e di infilarsi, con disinvoltura, in sentieri sterrati, lontani dal traffico, questo è il modo migliore per prendere atto di ciò che ci circonda e che difficilmente si nota quando percorriamo le strade, perché deformato dalla velocità dei mezzi di trasporto. Attraverso sentieri, a piedi o in bicicletta, si possono raggiungere cascine e corti, ovattate di nebbia o schiacciate dal sole della canicola, patrimonio rurale della nostra terra; per alcune di loro c’è stato il recupero da parte di privati per uso abitativo e resistono all’assedio del cemento come ultimo baluardo di quella civiltà contadina che si identificò per secoli nel territorio e le cui origini si sono perse in epoche remote. Altre, monumenti all’eternità e alla solitudine, tendono a perdersi nell’oblio. Quando la vegetazione si fa più intensa e i pioppeti più fitti, quasi a barriera, tra antichi silenzi i resti delle isolate cascine che hanno respirato quella cultura contadina, da sempre grande madre di questa terra, emergono assopiti come lucertole al sole, vegliati da gatti inselvatichiti, solitari pellegrini di un incanto ritrovato. Tra le vecchie mura di mattoni sgretolati, le stalle vuote e dimenticate, i tetti sfondati, le aie assolate ingombre di rottami di ogni genere, coperti dalla polvere del tempo, c’è, per chi la sa cogliere, della poesia unita ad un’alchimia di storie e credenze di quella natura che si allontana sempre più dai comuni orizzonti. Una fauna ricca di mammiferi, numerose specie ittiche (tipiche dell’acqua dolce), volatili stanziali e migratori, rane e nelle afose sere d’estate, quando dai campi si alza il velo di umidità, anche moscerini e zanzare che non concedono tregua: questa è la dolce pianura che riesce ancora a smorzare certi ritmi frenetici, questo “l’è un canton dal mond, un tocc ad tera, inscufià da una nebia fina fina, ...un toc ad tera cas ciama Lomellina ca sa svigia cun l’or dal su dentar i riseer, incurnisà dai gab longa a la riva, in t’ l’eterna pasiensa d’un’attesa...” Un angolo di mondo dove è bello vagabondare tra gli ampi spazi assolati, rinfrescati qua e là dal verde, lasciandosi portare un poco dal caso, tra le sfumature acquerellate delle risaie. Dolce è l’abbandono ai suoi silenzi profondi, lungo i sentieri della Via Francigena dove il passo rallenta fino a fermarsi davanti alle piccole chiese campestri, solitarie e lineari come un disegno a china. Tornano alla mente le processioni votive in mezzo alla campagna con le lucciole che illuminavano il cammino, i fioretti purificatori, le penitenze santificanti, i ceri, i canti. Rivedo una bambina che con l’allegria della sua età, passava le giornate quasi interamente all’aria aperta, scorrazzando in bicicletta , con la borraccia dell’acqua a tracolla, alla scoperta di nuove passeggiate; per lei la campagna è sempre stata un cantiere di divertimenti, un’occasione continua per imparare. Ogni pedalata era come voltare una pagina e pagina dopo pagina imparava a leggere i segni dell’uomo e della natura sul territorio scoprendo i segreti dei torrenti che come architetti lo modellavano definendone i caratteri condizionando così la presenza di piante e animali. I sentieri che le si aprivano davanti, tra infinite suggestioni e i mille colori che i suoi occhi catturavano avidamente, mutavano di giorno in giorno. La meta erano le grandi cascine che tanto l’affascinavano, la Cassagalla, poi un po’ più in là, verso Olevano la Pinchiarola, la Burattina, la Vascona e oltre ancora, verso Zeme, la Marza. Le gambe indolenzite al rientro a casa ma pronta a ripartire il giorno dopo, c’era dell’altro da vedere ed ecco a sinistra, verso Cergnago, la Cantalupa poi continuando a pedalare verso San Giorgio, la cascina Erbamara, ex monastero medioevale quindi Campalestro. Ansiosa di crescere, con la fame incalzante dei bambini, che non lascia requie, si arrendeva ad un panino con il salame, tra nugoli di mosche mentre raggiungeva, pedalando tranquillamente, la frazione della Madonna del Campo o la cascina Medaglia oppure la suggestiva Chiesa di Sant’Albino dove poi si è sposata. Ne è passato di tempo, la bambina è cresciuta e ora, mentre scrive, con nostalgia riassapora il dolce andare che la campagna e i suoi sentieri, percorsi tante volte in bicicletta con suo padre, le hanno lasciato, quei sentieri che sono una sorta di via preferenziale verso il cuore della nostra terra. ottobre - dicembre 2010 Francesco Mazzucchi pittore santangelese (1896 - 1967) “Cascinale” Tra le vecchie mura di mattoni, le stalle vuote e dimenticate, i tetti sfondati, le aie assolate coperte dalla polvere del tempo, c’è, per chi la sa cogliere, un’alchimia di storie e credenze 15 & Cultura&& Memoria Contadini d’altri tempi: Bastiano UNA STORIA DI VITA E AFFETTI NELLA LOMELLINA CHE FU L Gli sposi Maria e Bastiano Bastiano nasce in una famiglia di contadini nell’anno 1852. Frequenta la terza elementare quando il padre, Giovanni, segue il consiglio del maestro e lo fa entrare in seminario 16 di Eufemia Marchis Magliano a campagna, il suo fascino, la tradizione, la saggezza dei vecchi, la gioia del raccolto, la fatica, il duro lavoro, la rassegnazione di fronte all’ineluttabilità di certi avvenimenti... Questo ed altro ancora nella vita del contadino Bastiano, un uomo profondamente buono, un figlio, un marito, un padre – anche di un figlio non nato da lui e dalla moglie – eccezionale, capace di trasmettere, soprattutto con l’esempio, l’amore per la terra, la dedizione alla famiglia, l’onestà, il rispetto verso tutto e tutti. Il suo nome, Sebastiano, era lo stesso del nonno; era tradizione, segno di continuazione della famiglia, ripetere il nome dell’avo paterno per il primo dei nipoti. Tutti lo chiamavano Bastiano, proprio come il nonno. In Bastiano riconosciamo il modus vivendi dei nostri lavoratori della terra del contado, i contadini appunto, quando si tirava avanti con pochi mezzi, ma con dignità, quando si dava credito alla saggezza dei vecchi, depositari dell’esperienza, quando si credeva nella vera solidarietà, quando si apprezzava la riservatezza ed il pudore delle fanciulle. La storia di Bastiano ci fa ricordare quanto bene possa albergare nel cuore degli esseri umani, come la vita possa essere vissuta senza la spasmodica ricerca del benessere materiale ad ogni costo, della notorietà a qualunque prezzo, del divertimento in quei paradisi artificiali che distruggono nel corpo e nell’anima tanti giovani d’oggi. Il paradiso, finchè siamo in vita, è nel nostro cuore, come lo fu in quello di Bastiano. Nasce nel 1852, in quella parte del regno di Sardegna ai confini dell’impero AustroUngarico, teatro, pochi anni prima, delle battaglie fra gli eserciti dei piemontesi e degli austriaci. Una zona in cui esistono ampi possedimenti dati in affitto o a I L VA G L I O mezzadria da facoltosi proprietari; la maggior parte dei contadini è composta da salariati, ma non manca la classe dei piccoli proprietari formata da giornalieri, massari, bovari che, in anni caratterizzati dal disgregarsi delle proprietà nobiliari ed ecclesiastiche, sono riusciti, grazie ad una rigidissima economia, a crearsi il piccolo capitale sufficiente ad acquistare modesti poderi. Il padre di Bastiano, Giovanni, è uno di questi: ha una casetta, qualche campo e, insieme alla sua famiglia, conduce una vita serena con quello che produce la sua terra. Il ragazzino sta frequentando la terza elementare, saltuariamente, quando non deve essere adibito a lavoretti affidatigli dal padre, allorché il maestro convoca Giovanni: “Vostro figlio Bastiano è intelligente, ha tanta voglia di imparare, peccato questo andare e venire a scuola! Parlatene al parroco, vedete se può darvi una mano per farlo accogliere in seminario. Avete altri figli che lavoreranno la terra come voi, questo ragazzo ha tutti i numeri per diventare un buon prete, è buono, timorato di Dio, gli piace studiare... E poi, pensateci bene, avrà un avvenire sicuro, godrà di qualche lascito, magari diventerà parroco...” Giovanni dopo molte incertezze sue e della moglie, accetta il consiglio del maestro ed il figliolo, come altri ragazzini del paese, entra in seminario. Col passare degli anni, però, nonostante gli ottimi risultati nello studio, nonostante la sua seria fede religiosa, si fa strada in lui il desiderio di tornare in famiglia. Quante volte prova nostalgia per la sua casa, per la vita a contatto con la natura! Quante volte gli sovviene il profumo della terra appena arata, degli alberi fioriti in primavera, dell’erba appena tagliata, il cri-cri dei grilli, il frinire delle cicale nell’afa estiva, il gorgheg- gio degli usignoli, i chicchirichì del gallo all’alba, l’abbaiare di Fido! Ricorda i giochi nell’aia con i fratelli, le veglie invernali con i vicini, i giorni della trebbiatura... e i racconti del nonno sulle masche, quegli esseri dispettosi che appaiono improvvisamente ed in forme diverse nelle notti scure, oppure sulla guerra del 1848- 49, in cui lui, come tanti contadini, aveva combattuto come fante riservista nell’esercito piemontese. Caro nonno, come si infervorava quando descriveva la carica spettacolare dei leggendari squadroni di cavalleggeri che a Mortara, nel marzo 1849, erano riusciti a fermare e a contrattaccare gli austriaci! E come ne erano affascinati i nipotini! Come mancava al giovane seminarista il calore della sua famiglia patriarcale, con il nonno Bastiano che organizzava il lavoro dei campi, nonna Carolina quello di casa, il padre, gran lavoratore di poche parole, severo con i figli, la mamma sempre indaffarata, che trovava il tempo di coccolare un po’ i bambini, la zia zitella che, a quarant’anni, aspetta ancora il marito! Ha solo sedici anni, ma quale determinazione in quella testa dura da campagnolo! Abbandona il seminario e sceglie un’esistenza fatta di sacrifici, lavorando con il padre, poi, come bracciante, nella tenuta di un possidente che necessitava di giovani forti, volonterosi, docili. Dopo anni di risparmi, considera che è ormai tempo, per lui, di metter su famiglia. Ha trentadue anni ed un gruzzolo sufficiente a rilevare il piccolo podere del vecchio zio Carlo, i cui figli hanno scelto la via dell’emigrazione in Argentina. È ora di guardarsi intorno, cercarsi una moglie senza l’aiuto del bacialè, il sensale dei matrimoni cui si rivolgono alcuni suoi amici. Sceglie Maria, una bella ragazza di poco più di vent’anni, dagli occhi verdi come l’erba appena nata, i capelli come il grano maturo, due graziose fossette sulle guance, il personale svelto e flessuoso. Una giovane che lavora in campagna come un uomo e fa anche le stagioni da mondina. L’aveva notata alla festa del paese, le domeniche seguenti aveva cercato lo sguardo di lei all’uscita dalla messa granda, finchè, una bella sera d’autunno, quando nell’aia di un vicino si era raccolto un bel gruppo di persone per sfogliare le pannocchie di granoturco, era riuscito a scambiare qualche timida parola con lei “...se tu... se i tuoi... se..., insomma... io avrei intenzioni serie...”. Il sorriso della ragazza al suo farfugliare, l’avvampare del suo viso, convincono Bastiano che potrà, a buona ragione, chiederla in sposa. Secondo le regole, ben inteso. Scelto il momento opportuno, si rivolge al padre. “Vorrei sposarmi, fra un anno o poco più, dopo che barba Carlo mi ha venduto il suo podere promesso da tempo. Ho i soldi da parte, non ho bisogno di nessuno. Ho messo gli occhi addosso a Maria, la figlia di Pinot, è più giovane di me di un bel po’, ma non guasta. È una brava ragazza, me lo ha detto anche il parroco, ed io sono forte, il lavoro duro non mi fa paura. Andate da Pinot, cercate di combinare il matrimonio, sono quasi sicuro che Maria è ben disposta.” Giovanni non se lo fa dire due volte. Finalmente si decide, quel benedetto figliolo! La domenica seguente, quando, come al solito, gli uomini, dopo l’ite, missa est e la benedizione del prete, escono dalla chiesa e sostano sul sagrato a crocchi per parlare del più e del meno, Giovanni si avvicina a Pinot e gli chiede l’appuntamento desiderato. Dopo una quindicina di giorni avviene l’incontro. ottobre - dicembre 2010 Francesco Mazzucchi “Seminatore di riso” Il richiamo della vita di campagna è troppo forte: a sedici anni torna a casa e sceglie un’esistenza fatta di sacrifici lavorando come bracciante 17 Francesco Mazzucchi “La stalla” Bastiano sposa Maria in una fresca domenica di marzo. I due iniziano un’esistenza ricca d’affetto, di reciproco rispetto, ognuno con i compiti tradizionali della famiglia contadina 18 Giovanni fa presente la situazione finanziaria del figlio, quindi, tra un bicchiere e l’altro del buon vino sturato per l’occasione, visto che Maria aveva già dichiarato al padre: “Quello che va bene per voi, va bene per me”, è concordata la dote della sposa, un bel comò pieno di biancheria, e si decide il tempo del fidanzamento. I promessi sposi possono incontrarsi nella casa di lei alla presenza di una persona autorevole della famiglia. Mai soli! “La paglia accanto al foglio si accende!” sentenzia Pinot. E s’accendono sì, il cuore ed i sensi del giovanotto anche se a debita distanza da quel fior di ragazza! Anche lei è presa da quel bell’uomo alto, biondo così educato che quando riesce a sciogliere la timidezza parla come un libro stampato! Intanto il podere è comprato, la casa è arredata del necessario. Bastiano, facendo mille economie, riesce ad acquistare due mucche, una capra, qualche gallina. Tutto è pronto per il matrimonio che si celebra un anno e mezzo dopo, in una fresca mattina di marzo, alla messa granda. Gli sposi con il vestito nuovo di colore scuro, i parenti con l’abito da festa. Poi il gran pranzo a casa della famiglia di Maria; vengono serviti piatti speciali ove, cosa davvero non abituale, abbonda la carne cucinata in vari modi secondo antiche ricette. La sera, la sposina prende possesso della sua nuova casa con il rituale d’uso: l’offerta da parte della suocera sulla porta dell’abitazione, di un mestolo, augurio di buon successo come massaia accorta e coscienziosa. Bastiano e Maria iniziano quella che sarà un’esistenza ricca d’affetto, di reciproco rispetto, ognuno con i compiti tradizionali del marito e della moglie contadini: a lui la cura degli animali della stalla, i duri lavori dei campi, i rapporti con gli acquirenti dei suoi prodotti, gli acquisti necessari per le coltivazioni, a lei la cura dei figli, l’espletamento del lavoro domestico, la gestione degli animali da cortile e dei bachi da seta-. I L VA G L I O Nascono due bimbe, Rosina e Ginèt. Gli anni trascorrono serenamente, anche se i problemi non mancano, un anno la moria delle galline, un altro la siccità, un altro ancora violente grandinate che distruggono tutto il granturco. Si tira avanti con poco e di poco. E’ accolto in famiglia con affetto Pinot, vedovo e solo, gli altri figli hanno scelto strade diverse lontano dalla loro vecchia casa. Lui dà una mano come può ed ama passare il tempo con le bambine ed insegnare loro i proverbi della saggezza contadina. Nel 1893, terza gravidanza di Maria. Si spera in un maschietto, continuatore del cognome della famiglia, braccio destro del padre, erede del piccolo podere. La nascita è prevista per dicembre, e, pochi giorni prima di Natale, si attende ancora il lieto evento. Fa molto freddo in un inverno purtroppo senza neve “Sut la fioca pan, sut el giass, fam”, commenta Pinot mentre osserva i rami degli alberi che, coperti di galaverna, sembrano pizzi leggiadri ed i vetri delle finestre ricamati da arabeschi di ghiaccio. È pomeriggio, Maria sferruzza un golfino per il nascituro, Bastiano impaglia una sedia, Pinot intreccia foglie di pannocchie per il lavoro che sta compiendo il genero, Rosina e Ginèt giocano con una pupattola di pezza. Dal paese giungono i rintocchi della campana che invita i fedeli alla novena di Natale. Dalla casa nessuno s’avventura per la strada che conduce alla chiesa, occorre stare accanto a Maria giunta agli ultimi giorni di gestazione. “Preghiamo qui, tutti insieme, preghiamo la madre di Gesù perché aiuti la nostra Maria,” consiglia Bastiano. Giunge la sera, si accende il lume e Maria scodella una calda minestra di riso e fagioli, quindi nonno e bimbe si recano a dormire nella stalla dove sono stati approntati comodi giacigli. Fa così freddo nelle stanze da letto! Per marito e moglie è sufficiente il letto riscaldato dalla brace del previ. Prima di coricarsi le bimbe recitano il ben, la preghiera serale suggerita dal nonno: “Mi am mett en stu lett cun cinc angiulin, du ai Ferdinando Bialetti, “La risaia” piè, tri al cussin e am racumand a Gesù Bambin”. La mattina dopo, solita sveglia prima dell’alba. Occorre badare alle mucche, dar loro il cibo, mungerle, occuparsi delle galline... “Penso io a tutto” dice l’uomo alla sua donna, “resta in casa, non prendere freddo. Non devi stancarti, domani verrà da noi tua sorella Cesira e ci sarà un bel daffare a preparare il pranzo di Natale!” Ma proprio la mattina di Natale, quando tutto è già pronto per il pranzo natalizio, mentre c’è grande allegria nelle bimbe che fanno festa ai doni che Gesù Bambino ha posto sulle loro coperte la notte precedente, un pacchetto di caramelle, frutta secca, qualche dolcino, Maria avverte i sintomi del parto imminente:” Bastiano, andate a chiamare la signora Delina, ci siamo.” Non occorre molto tempo all’uomo per tornare accompagnato dalla signora Delina. Lei, mandati via dalla cucina uomini e bimbe, si occupa di Maria sistemata sul sofà , Cesira pone in bell’ordine sulla madia le fasce, i pannolini di lino e tutto l’occorrente per il nascituro e mette un pentolone d’acqua sul fuoco. Ore d’ansia che non sembrano passare più. Poi, Bastiano può tornare. “Allora?”, chiede con il cuore in gola. “Un maschietto, un bel maschietto ma... c’è qualcosa che non va”, sussurra Delina a bassa voce affinché Maria, stremata dal lungo travaglio, non senta. “Vedremo domani, vado a dire al medico che venga a visitarlo”. Il neonato, fasciato di tutto punto, è posto nella culla che dondola piano piano accanto alla mamma. Il buon pranzo di Natale è messo da parte. Il piccolo avvicinato al seno della madre succhia un poco, troppo poco. Cesira e Bastiano passano la notte in cucina, svegli. Anche il nonno, nella stalla con le bambine, non chiude occhio. Il giorno seguente il vecchio medico del paese, sempre pronto ad accorrere per chi ha bisogno di lui, senza orari, senza giorni di vacanza, arriva presto. Dopo un attento esame del neonato scuote il capo: “Questa creatura non vivrà, questo angioletto andrà in paradiso. Fatelo battezzare in fretta. Non posso far niente per lui, mi dispiace brava gente, mi dispiace proprio”. Giovannino, così è chiamato il bimbo al battesimo, muore due giorni dopo. Quanti neonati muoiono in quegli anni! C’è un gran dolore nella casa, un gran rimpianto per quell’esserino che non ha avuto la possibilità di vivere. Maria guarda il suo seno turgido di latte: “Tutto questo ben di Dio... E il mio fiulin...”. Bastiano non parla, vorrebbe consolare in qualche modo Maria, ma non ce la fa. Ci riesce Cesira, almeno un po’: “Prendi un bambino a balia! Nostra cugina l’ha fatto ed è stato un bene per lei e la famiglia. Potresti tenere fra le braccia una creaturina che ha bisogno di te, ti ci affezionerai. Oltretutto, quel latte che Nostro Signore ti ha dato porterà danaro... sai, pagano bene... forse il medico conosce qualche mamma che non può allattare, parlatene a lui!” Così, nella modesta casa di Bastiano entrò un angioletto, si chiamava proprio Angiolino, un bellissimo bambino biondo, paffutello, nato due giorni prima da un’attrice che recitava nel teatro della città. La sua mamma non può né allattare, né legare il neonato alla vita randagia delle compagnie drammatiche. Torna il sorriso nella piccola casa: Angiolino, affamato, succhia con avidità dal seno di Maria che lo guarda con tenerezza, già lo ama come un figlio suo. Anche Bastiano si affeziona subito al bambino. Lo terrà con sé, sempre. Perché la mamma di Angiolino morirà presto e nessuno dei parenti di lei vorrà o potrà occuparsi del bambino. Non lo affiderà ad un orfanotrofio, lo considererà sempre parte della sua famiglia, anche dopo la morte di Maria, anche quando avrà altri figli dalla sua seconda moglie. Con l’affetto, l’esempio, la forza di carattere, i sani principi inculcati, ne farà un uomo onesto, tenace, coraggioso, che metterà a buon profitto le sue doti naturali e l’educazione del suo papà bailo. ottobre - dicembre 2010 Nella casa di Bastiano entra un bimbo di nome Angiolino, figlio di un’attrice che recitava nel teatro della città. Lo terrà con sé sempre, considerandolo parte della famiglia 19 & Cultura&& Lavoro Il medico di campagna “ARTE PIÙ MISERA, ARTE PIÙ ROTTA, NON C’È DEL MEDICO CHE VA IN CONDOTTA” I Ogni tre anni il Comune bandiva il concorso per la scelta del medico: questi era obbligato, a fronte di un modesto compenso, a curare un lungo elenco di cittadini 20 di Nadia Farinelli l medico condotto, prima figura laica deputata alla diagnosi e alla cura delle malattie, fu un’invenzione italiana. Già prima del XIII secolo, molti comuni, spinti da esigenze sanitarie e da carità cristiana, cominciarono ad assumere dei medici, che venivano stipendiati per assistere gratuitamente i poveri della città. Il termine “condotto” infatti vuol proprio dire “assunto”, “stipendiato”. Progressivamente in Italia si diffuse la pratica della condotta piena, cioè dell’assunzione di un medico a tempo pieno, con stipendio fisso, senza limiti di orario, con obbligo di assistenza gratuita a tutti, senza ferie, senza pensione. Questo stato giuridico fu esteso a tutta l’Italia unificata alla fine dell’Ottocento, quando si istituì l’obbligo per i Comuni di avere un medico condotto e una levatrice residenti, di cui furono a poco a poco regolamentati diritti e doveri. Tra questi vi era l’impossibilità per il medico condotto (soprattutto quello di piccoli comuni di campagna) di incrementare il suo reddito con la libera professione, incompatibile con la condotta piena. Dunque si può ben dire che il lavoro di medico di campagna di fine Ottocento fosse un lavoro duro e poco retribuito, anche se le entrate erano arrotondate con i doni di natura offerti dai contadini. Ogni tre anni il Comune bandiva il concorso per la ricerca del suo medico: scelto da un comitato costituito dai cittadini più abbienti, era obbligato, a fronte di un modesto compenso fisso, a curare gratuitamente sempre e comunque, per ventiquattro ore su ventiquattro, i cittadini iscritti in un lungo elenco stilato dal comitato stesso. Il rapporto con la popolazione era spesso difficile, anche perché la medicina popolare aveva un’impostazione diversa rispetto a quella ufficiale, con principi basati sulla natura e sulla ritualità. La medicina ufficiale vedeva la malattia come qual- I L VA G L I O cosa che aggrediva la persona dall’esterno, mentre la medicina popolare considerava il malanno come proveniente dall’interno e, per certi versi con un’intuizione modernissima, favorito da una caduta delle difese dell’organismo. Ciò permetteva al male di avere il sopravvento e di “possedere” la persona, da cui i vari riti contro le possessioni, il malocchio, le fatture, i demoni, eccetera. Il condotto, a lungo andare, doveva assumere nella comunità una sorta di ruolo di pastore di anime laico, non di rado in concorrenza con il parroco. Non tutti i neo-laureati in Medicina potevano mirare alla carriera universitaria: le cattedre erano poche e difficili da ottenere. La condotta era spesso l’unica alternativa a disposizione. Il poeta dell’ Ottocento Arnaldo Fusinato (il nome è meno noto della sua famosa ode “A Venezia”, per intenderci, “Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”) ha scritto una deliziosa poesia a rime baciate dal titolo “Il Medico Condotto”, dedicata all’amico Leonzio Sartori, medico di campagna di un paesino delle prealpi venete. Ci ha lasciato in questo modo un ritratto ironico, ma fedele, del personaggio, mai sicuro di passare una notte intera nel suo letto, in ogni stagione, senza gloria e senza fortuna. Su e giù per i sentieri di campagna, con il suo vecchio cavallo, per visitare persone spesso burbere e diffidenti, in virtù di quel poco denaro per il quale il contadino considerava il condotto una sorta di suo salariato. L’armamentario terapeutico a disposizione del medico era estremamente scarso e alla prima insoddisfazione del paziente, la minaccia era quella di non essere riconfermato per il triennio successivo. I buoni risultati invece erano il più delle volte attribuiti solo ed esclusivamente ad un intervento soprannaturale. La condizione del medico condotto italiano, descritta magistralmente dai versi di Fusinato, è stata tale fino a non molti anni fa. Theophrastus Bombast von Hohenheim (1493 - 1541), meglio conosciuto come Paracelso I versi di Arnaldo Fusinato Caro Leonzio, col tuo perdono, Questo mestissimo salmo t’intuono: - Arte più misera, arte più rotta Non c’è del Medico che va in Condotta. “Reumatismo, gotta e sciatica delle povere genti di campagna” Il medico più famoso del Cinquecento, Theophrastus Bombast von Hohenheim (1493 - 1541), meglio conosciuto come Paracelso, riteneva che le malattie facessero parte della natura, proprio come l’uomo, e che nel mondo vegetale si potessero facilmente riconoscere rapporti e analogie di forma, colore e consistenza tra gli organi umani colpiti e le piante destinate a guarirli. Per esempio i tuberi nodosi del colchico ricordavano le dita deformate dei gottosi e per questo potevano essere ritenute un utile ingrediente per la cura della gotta stessa. Dalle nostre parti il reumatismo era sinonimo di dolori articolari e muscolari e solitamente se ne attribuiva la causa all’umidità delle nostre campagne. In caso di artrite alle mani il salice e la regina dei prati, proprio perchè crescevano in luoghi umidi, potevano servire per combattere le “patologie da umidità”. Queste teorie, scientificamente arbitrarie, hanno rivelato alcune felici coincidenze. Infatti il principio attivo del colchico è la colchicina, sostanza specifica per l’accesso di gotta, mentre le altre due piante contengono salicilati, da cui è ricavata l’aspirina, ancora oggi usata per alleviare il dolore di “malattie cui le povere genti di campagna sono molto soggette”. Come la libera luce del sole, Ciascun ti cerca, ciascun ti vuole! Col mattutino canto del gallo Balzi dal letto, monti a cavallo, E senza tregua, senza respiro Come la Posta sei sempre in giro; Via per il monte, giù per la valle, Su pei fienili, dentro le stalle, Simbolo vero del moto eterno Sei sempre in gambe la state e il verno. Oh! Non è dunque senza ragione S’io ti ripeto questa canzone: - Arte più misera, arte più rotta… E’ mezzanotte - per le contrade A fiocchi a fiocchi la neve cade Tu fra le coltri stanco e beato Della tua sposa ti corichi allato; Ammorzi il lume…ma sul più bello Odi un tintinno di campanello: - Chi è là che suona? - Son io Dottore! - Cosa volete? - Mia figlia muore. - Ora non posso, sono occupato! - Ella è pagato, Ella è pagato! Al suon di questa voce fatale Alzi la testa dal capezzale, E mentre in fretta ti vai vestendo Fra le bestemmie ruggir t’intendo: - Arte più misera, arte più rotta… Per additarti l’aspro cammino St’altro va innanzi col lanternino: Il gel t’agghiaccia le dita e il naso, Ma non fa caso, ma non fa caso; Stufa ambulante ti sorge a lato La dolce antifona del sei pagato! E allor che fatte cinque o sei miglia Trovar ti credi morta la figlia, Misericordia! Che cosa vedi? La moribonda ch’è bella e in piedi! - Essa è guarita, grazie al Signore, Felice notte, signor Dottore. Come la statua del Convitato Tu resti muto pietrificato, Mentre all’orecchio t’odi ronzare Questo terribile intercalare: - Arte più misera, arte più rotta… Tragge d’autunno dalla vicina Città in campagna qualche Damina? Te fortunato sei volte e sette! Puoi farle il quarto nel suo Tresette. Ma se dal placido chilo si desta Con un insolito peso alla testa, Non darti affanno, si chiamerà L’illustre medico della città: Oh! Le tue mani son troppo vili Per toccar polsi così gentili. Che se ti salti la mosca al naso Guardati bene dal farne caso; I Deputati sono galanti Colle signore che portan guanti, E potrian dirti, Leonzio mio: - Scorso è il triennio, vada con Dio. Allor ridendo verrei bel bello A gorgheggiarti quel ritornello: - Arte più misera, arte più rotta… Se a far la visita tardi mezz’ora, Ti mandan subito alla malora; Se qualcheduno cui duole un dente, Sente rispondersi: eh! Non è niente, E’ bell’e buono, Dottor mio caro, Di dirti in faccia: Ella è un somaro! Ordini a caso qualche sciroppo, O qualche pillola che costi troppo? E’ tutto inutile, ragion non vale, Tu sei d’accordo collo speziale: Se tu guarisci qualche ammalato E’ Maria Vergine che l’ha salvato; Ma per disgrazia s’egli ti muore T’urlano dietro: - Can d’un Dottore! Oh! Ma finiamola la lunga istoria, E il salmo termini con questo Gloria: - Arte più misera, arte più rotta Non c’è del Medico che va in Condotta! *** ottobre - dicembre 2010 21 & Cultura&& Itinerari Sui sentieri del guado del fiume Sesia C Il cammino sulla via del Sesia parte dal centro di Candia Lomellina, in piazza San Carlo Borromeo, a lui dedicata per il suo passaggio avvenuto nel 1578 22 UN PERCORSO D’ARTE E DI... PESCA! di Carmen Bortolas ’era una volta un territorio abitato da popolani, dove l’acqua era l’elemento predominante, acqua proveniente dal Sesia. Il fiume che invadeva tutto, ma che subì notevoli trasformazioni nel corso dei secoli, restringendosi dal suo letto e lasciando cosi spazio a terreni fertili adatti alla coltivazione del riso, del grano e del mais. Trasformando il paese di pescatori in un paese agricolo. Tale luogo era, ed è, Candia Lomellina, il cui nome originario “candida laumellorum” sembra dovuto alle immense praterie di candidi gigli selvatici che in primavera ricoprivano le zone umide intorno al nucleo cittadino, ancora oggi visibili in alcune zone, e anche raffigurati nello stemma come simbolo di candore, onestà, fama, con il motto “candida ut lilium”. È un territorio di confine tra le regioni Piemonte e Lombardia, sede di continue battaglie per la conquista del territorio perché situato da sempre in posizione strategica di collegamento. Appartenne ai marchesi del Monferrato, ai Visconti, al duca di Savoia, agli Sforza, a Carlo V, agli Arcimboldi, ai Gallarati-Scotti, e - con l’arrivo di Napoleone - ai Confalonieri; in seguito ai Bergamasco, Mauri e Marchetti. Il cammino sulla via del Sesia parte dal centro, in piazza San Carlo, a lui dedicata per il suo passaggio e sosta nel 1578. È stata eretta in suo onore una stele costituita da una colonna di granito con al suo apice una croce in bronzo detta “rulin”. Zona di ritrovo degli anziani per “lavare i panni”, il rulin ha assunto un significato scaramantico come simbolo di difesa del centro abitato dalle furie dei temporali e dell’acqua del Sesia, infatti quando fu abbattuto per cercare di riallineare tutta la piazza, nell’autunno ci fu una I L VA G L I O grande esondazione, che portò gli abitanti a richiederne la ricostruzione. Costeggiando i resti della vecchia prigione, ci troviamo in un’area dal fascino particolare: siamo in via Peschiera, un tempo antico borgo popolare abitato da barcaioli e pescatori. Qui infatti scorreva il fiume. Le abitazioni sono costruite a corte lunga interna, l’acqua è presente a 70-100 centimetri nel sottosuolo. Nel 1241 e stata edificata la chiesa di San Michele Arcangelo che custodisce opere pittoriche eseguite dal Lanino e dal Moncalvo, nelle cappelle dell’Annunciazione e della Madonna del Rosario, patrona del paese. L’esterno è sovrastato da un’opera in mosaico: Madonna con bambino con giglio in mano, san Michele e san Domenico, dello scultore locale Narciso Cassino. Camminando tra il viale dei tigli (1940) e il parco San Michele (1999), odori e profumi di piante e fiori si intersecano e inebriano ricordando il vecchio campo sportivo qui esistente. Ci addentriamo in una strada sterrata, la strada Sant’Anna, con la presenza di una cappelletta dedicata alla santa, di proprietà privata, con affreschi del XVI secolo. La cappelletta è messa a guardia e protezione dell’accesso alle vie del guado del fiume e nell’aperta campagna. Strada del baraccone, strada della Stracciona, della cascina Natta e siamo sull’argine maestro. Scendiamo dall’argine e percorriamo un ponte in assitto dove scorre una lanca, siamo in zona torrette, in area golenale, con terreni di scarsa produttività agricola oggi piantumata con pioppi. Siamo nella campagna selvatica tra gaggie e arbusti, tra canti e suoni di animali, tra vecchie baracche dei pescatori dove si mangiava il pesce fritto appena pescato, oggi trasformate in luoghi di banchetti eno-gastronomici del territorio. Ecco una visione di un angolo incantato e fatato. L’immensità del luogo, il silenzio infinito, i colori accesi e spenti: dal verde dei salici a quello dell’acqua da fiume, gli isolotti di sabbia, l’Isolone e l’isola dal “capaster”, dove nidificano e riposano uccelli rapaci notturni. Nel punto di distesa, in cui il fiume Sesia affluisce nel Po, riferimento della pericolosità dell’avanzare delle acque durante l’esondazione dei fiumi. Tanta acqua, poca acqua proveniente dal Sesia, con carattere torrentizio per la sua rapidità di crescita in volume in poco tempo, le sue forme sinuose, come un serpente che si gonfia a dismisura quando mangia. Così il Sesia, alla mercè dei capricci di Giove Pluvio, quando scende dal cielo con i suoni del suo ticchettio delle gocce d’acqua, assume forme, volume, suoni e colori che solo la vista attesta pericolo imminente. Sulle acque di questo strano fiume amico-nemico dell’uomo, navigavano lupi di fiume, con l’utilizzo dei barcé. Barche in legno a fondo piatto da utilizzarsi con un remo lungo biforcuto, anticamente usato per dragare il fiume e trasportare le persone e legnami da un riva all’altra. I lupi di fiume son personaggi unici; ricordiamo l’amico “Siunin” Giovanni Pietrasanta, agile e leggero come una libellula, e l’artista Giovanni Conti, solitario pescatore e creativo. Attualmente ancora in attività l’ottantaduenne spericolato “Cicot il guerriero”, Attilio Cicottino, ana- graficamente registrato come barcaiolo, personaggio di carisma, fantasia, allegria. Con l’arte di creare dal niente scherzi e battute per tutti, con l’amore della pesca sul fiume, come terra d’acqua conquistata con capacità, di lottare e intervenire nel salvataggio delle persone durante le alluvioni. Tutto ciò assieme al vulcanico amico ultrasettantenne “Cri” Giovanni Crivelli , che dall’arte di battere il ferro per forgiarlo e creare il tutto si traforma in abile conduttore di barcé e attento conoscitore della flora e fauna del territorio golenale. Ogni dettaglio del verde e degli animali è sotto il suo attento controllo. L’arte dei barcé come conoscenza e uso, viene ricordata da 16 anni dalla Pro loco Candia che organizza l’ultima domenica di agosto, la gara dei barcé, regata su 1500 metri con barca spinta da un lungo remo con unico rematore in piedi. Risalendo il fiume sempre sulla sponda sinistra si raggiungono i piloni del ponte del Sesia, connessione tra Piemonte e Lombardia. Seguiamo e troviamo i sabbioni e il bosco della frazione Terrasa, dove c’è il santuario della Beata Vergine delle Grazie, elevato a protezione delle continue alluvioni che hanno interessato questa area. All’interno esiste una Madonna che si e salvata, durante un’esondazione distruttiva dell’altra frazione di Candia, la Villata. Questa Madonna è stata ricordata con la celebrazione di una messa solenne, da parte della Protezione civile, per aver salvato ancora una volta l’abitato nell’alluvione del 2000. ottobre - dicembre 2010 Narciso Cassino, “Sesia” Da 16 anni a questa parte l’arte dei barcé viene ricordata dalla Pro loco, che l’ultima domenica di agosto organizza una regata con barca spinta da un lungo remo 23 Al balista L’inventore di storie paradossali U di Giancarlo Costa (1923 – 1996) n uomo dormiva nel suo casotto di legno presso la chiusa della Agogna a Velezzo Lomellina. Dato che era un giramondo notturno, non vi stupirete se dico che erano le sedici pomeridiane e l’uomo continuava a dormire. Dovette svegliarsi: il pavimento di assi del casotto rapidamente stava crollando. Poi rovinò del tutto, non si era trattato dell’opera demolitrice di qualche aggeggio meccanico. Infatti attraverso il buco appena aperto, uscirono due tassi baffuti con musi sporchi di terra che guardarono l’addormentato, e dopo un breve scambio di unghiate, per la conquista del foro d’uscita, i due tassi sbuffando se ne andarono. Ma cosa c’era all’origine di quella insolita demolizione?Accadde che proprio nel sottosuolo del casotto era venuto a trovarsi il punto di congiunzione dei due tratti di galleria scavati dai tassi, in cerca di pannocchie di granoturco. Dal momento in cui quell’individuo così strano mi raccontò questa storia, decisi di essere suo amico e confidente. Dato che gli accadevano fatti così incredibili, io non volevo perderne di nessuno il sapore. Mario, un amico mio, adottò una posizione di ascolto simile alla mia, curioso e divertito dalla fantasia del raccontare in quell’uomo stravagante. Mario ed io eravamo una mattina di agosto seduti all’”angurièra dal Pinotu” intenti a consumare una colazione a base di meloni e salam in t’la duia, quando il “dormiente del casotto” irruppe in mezzo a noi. Per quanto allegro e scanzonato in apparenza, il suo modo di fare tradiva una certa agitazione. Gli era capitato ancora una volta una cosa “mastodontica”. Stava nella sua casa, deciso a mettere in ordine i suoi dipinti (perché, ho dimenticato di dire che il nostro uomo era un imbianchino estroso), quando accadde una cosa terrificante. E cosa accadde? Gli chiedemmo. “Un turbine si è abbattuto sulla mia casa. Ho sentito un soffio impetuoso e vorticoso aprire il portone, irrompere nel cortile ed infilare la stalla e poi l’urlo infernale… All’inizio era come il grido di rabbia di una fiera. Poi l’ambiente cominciò a tremare. Le porte, le finestre e i muri vibravano sotto l’impulso martellante del grande ululato. Si trattava senza dubbio di un animale selvaggio. Quando i suoi urli scatenati si tradussero in un immenso boato, non ebbi più alcun dubbio: era l’orso glaciale lomellino. Nei tempi passati il suo urlo aveva fatto tremare le cascine, di- 24 I L VA G L I O strutto boschi e raccolti, scardinato le chiuse dell’Agogna. Cosa sarebbe successo oggi, con questo bestione antidiluviano che minacciava la tranquillità agreste della Lomellina? –La catastrofe” esclamò il nostro amico stravolto. Ogni giorno ci raccontava nuove spaventose avventure dell’orso glaciale lomellino e Mario e io lo aspettavamo anelanti di ascoltare la sua storia e lo salutavamo ansiosi di sentire nuovi sviluppi della vicenda, finchè un giorno il nostro uomo con un furbesco sorriso affermò: “Il grave pericolo che incombeva sulla Lomellina è stato risolto. Una società di elicotteri ha accettato di trasportare l’orso glaciale lomellino in un luogo più adatto e l’avrebbe lasciato cadere in una sperduta gola delle Alpi. Le grandi pinete lo avrebbero nutrito. Non ci sarebbe stato nessun pericolo di fuga. Di lì avrebbe continuato a far rintronare la terra col suo terribile ululato.” Mario e io lo ascoltavamo scoppiando dalle risa e con gli occhi lucidi dalle lacrime. Allora il nostro amico passò ad un altro argomento e ci raccontò di quella volta quando si era recato alla stazione ferroviaria per andare a Milano a tinteggiare il Duomo e il ferroviere lo convinse invece ad andare a Valmadonna, a bere l’acqua perché lo trovava un po’ “ingiallito” e c’era pericolo che morisse… Egli andò davvero alle fonti di Valmadonna e fu tanta l’acqua da lui bevuta, che alla sera tutti i pozzi erano rimasti asciutti. Poi ci raccontava di quella volta in cui si trovò “per curiosità” ad una fiera-mercato di animali bovini a Moncalvo e, nell’alzare la mano, per scacciare un’ape molesta, un mediatore gli aggiudicò per dieci milioni di lire mucche e torelli che un macellaio di Novi Ligure aveva contrattato a nove milioni e vedendosi così soffiare da lui l’affare. “Dovetti – diceva ridacchiando – scappare tra mucche e torelli, destreggiandomi come un torero, per sfuggire il macellaio che mi rincorreva furente e minaccioso”. Adesso “al balista”, come amichevolmente lo chiamavamo, non può più raccontare le storie dell’orso glaciale lomellino, né alcun’altra storia. E’ morto oggi nel suo casotto di legno presso la chiusa dell’Agogna di Velezzo Lomellina. Questo lomellino autentico, inventore di storielle ineguagliabili, non è più. Quest’uomo insostituibile ha una modesta tomba là, in fondo al piccolo cimitero. Sulla nuda lapide appena nome e cognome. Ma io e Mario abbiamo colmato la lacuna scrivendovi sotto: “ Qui giace un lomellino che tutti i giorni sapeva regalare ore di ineffabile serenità”. & Cultura&& Circolo Un momento della cerimonia di premiazione Premio di Poesia: 44 anni di successi È LO SCORSO 24 SETTEMBRE SI È TENUTO IL GRAN FINALE Maurizio Gramegna, di Cigognola, il trionfatore assoluto del 44esimo Premio Nazionale di Poesia Città di Mortara, appuntamento promosso dal Circolo Culturale Lomellino Giancarlo Costa (con il contributo di Comune, Provincia e Comitato organizzatore) e divenuto, nel corso della sua lunga storia, momento immancabile nel cartellone della Sagra del Salame d’Oca. La giuria, composta da Mirella Bersini, Antonella Ferrara, Maria Forni, Marco Leva e Giuseppina Morone (e fino allo scorso anno dalla compianta Lilia Camussoni), ha individuato nei versi di “È stato un arrampicarsi…” il componimento meritevole del primo premio nella sezione principale, vale a dire tema libero. Al poeta oltrepadano, nel corso della cerimonia di premiazione dello scorso venerdì 24 settembre, al teatro Angelicum di piazza Olivelli, è stata consegnata la splendida scultura realizzata appositamente per il concorso dall’artista sartiranese Beppe Pasciutti. Viene da molto più lontano, e precisamente da Ancona, la seconda classificata Fulvia Marconi, autrice di “Un cesto di more e fiori”. Sul terzo gradino del podio è invece salita Egizia Malatesta, di Massa, con la poesia “La bambola bambina”. Premi speciali per: Marco Bruna di Milano (“Si fa spazio l’ombra..”), Martino Consoli di Milano (“Luglio in seconda classe”), Maria Rosa Dell’Angelo di Vignale Monferrato (“Pioggia d’estate”), Fulvio Fedele di Alessandria (“Soffio minore”), Roberto Gennaro di Genova (“L’amore fenice”), Sara Rodolao di Imperia (“Latte di mandorle - A mia madre”), Rodolfo Vettorello di Milano (“La vecchia madia”) ed Elena Zucchini di Genova (“Pur se la notte avanza”). Ad aggiudicarsi la prima piazza nella sezione “Poesia sulla Lomellina - Premio Giancarlo Costa” è stato il milanese Fabiano Braccini con le liriche di “Lomellina velata di Bruma”. L’argento e il bronzo sono stati rispettivamente assegnati a Mariapia Florio di Castello d’Agogna (“Dolce Lomellina”) e all’ottimo poeta locale Italo Rubini (“Autunno Lomellino”). Tutte le poesie in lingua, nella serata finale, hanno trovato verbo nelle corde vocali di Lorella Carisio, al leggio dell’Angelicum. Nella sezione dialettale, da sempre apprezzata dagli spettatori della cerimonia conclusiva (grazie a un lettore d’eccezione come Marco Fleba), si è imposta Maria Quinale, di Lomello, con la poesia “Spegg”. Alle sue spalle un vero professionista della parola, Luigi Balocchi. Nella veste di poeta dialettale ha scodellato i versi di “Pastrugn ad tera”. Terza Tiziana Salè con “I feri a l’aria bona”. Quattro i componimenti segnalati: “Al muschin” di Graziella Bazzan, “Al barbon dal venerdì” di Giorgio Bottigella, “Barlik” di Daniele Guglielminetti (tutti e tre di Mortara) e “La cà in dua son nasu” dell’alagnese Angela Fullone. ottobre - dicembre 2010 25 & Cultura&& Circolo Tutti i premiati del Concorso di Fotografia T OTTIMO AFFLUSSO DI PUBBLICO PER LA 15ESIMA EDIZIONE rasformare il movimento, la luce, il fluire temporale in un’immagine. Fissa. Immortale, come lo è l’arte nei suoi risvolti trascendenti. La fotografia, uno dei più grandi prodigi nella storia dell’umanità, a Mortara è davvero di casa. E ciò grazie all’attivo Gruppo Fotoamatori del Circolo Culturale Lomellino Giancarlo Costa, da 15 anni a questa parte promotore di un concorso ad hoc che non ha mai mancato di colpire nel segno, in termini qualitativi e quantitativi. “Erica”, premio unico sezone “Ritratto” di STEFANIA RICCI FRABATTISTA “New York”, primo premio sezione “Tema libero” di LAURA CASERIO “Bike Wash”, primo premio sezione “Motori, che passione” di DAVIDE CAMPINI “Appunti di Lomellina, premio unico sezione “La nostra Lomellina” di MARIO MOTTA 26 I L VA G L I O Se per il primo dei due aspetti parla la magnificenza degli scatti in gara (esposti in una mostra durante l’ultima Sagra del Salame d’Oca), il secondo necessita di qualche delucidazione numerica: 104 gli autori della sezione “Tema libero” (per un totale di 382 opere), 49 quelli della categoria “Ritratto” (172 lavori), 36 quelli della sezione “Motori che passione!” (137 le fotografie), mentre la sezione “La nostra Lomellina” ha visto la partecipazione di 26 autori con 80 opere. La giuria (composta da Augusto De Bernardi, Dario De Salvador, Antonio Mangiarotti, Mirella Vecchi, Marta Costa, Paolo e Roberto Destori) ha decretato quale foto da primo premio nella sezione “Tema libero” l’opera “New York” della vigevanese Laura Caserio, seguita in graduatoria da Virgilio Gottardi di Como con “Ginnastica Ritmica” e Giulio Montini di Rho con “Il mondo di Beppe”. Nella sezione “Ritratto” ad imporsi è stata Stefania Ricci Frabattista di Ferrara, autrice dello scatto “Erica”. Viene da Cassolnovo il vincitore della categoria “La nostra Lomellina”: è Mario Motta, con l’opera “Appunti di Lomellina”. In cima al podio della sezione “Motori che passione!” è salito invece Davide Campini di Mombercelli, in provincia di Asti, grazie all’opera “Bike Wash”. Seconda e terza piazza per Giuseppe Grolla (di Tronzano, Vercelli) con “Sogno di gioventù” e Augusto Debernardi (di Fontaneto Po) con “Pilota e motorista”. Tanti gli appassionati di fotografia (e naturalmente anche i curiosi o gli amanti del bello in generale) che hanno ammirato le pregevolissime opere del concorso nella mostra allestita a Palazzo Cambieri, lo stesso edificio in cui domenica 26 settembre (giornata principale della Sagra) si sono tenute le premiazioni. Appuntamento rinnovato all’anno prossimo. Scuola Civica Musicale • Mortara Piazza Guida 8 - 27036 Mortara (Pavia) telefono: 0384.99370 [email protected] www.scuolamusicalemortara.it Non solo didattica Un’offerta completa novità in arrivo Musical per bambini! SONO APERTE LE ISCRIZIONI per il nuovo anno scolastico 2010/2011 Dal 16 al 30 ottobre Suggestioni nel mondo sacro dell’iconografia Personale di Marta Popescu Janu (Sede del Circolo, via Bertolli 3, Mortara) Dal 6 al 27 novembre (dalle 10 alle 12 - dalle 16 alle 19) Collettiva di pittori contemporanei Collezioni private (Sede del Circolo, via Bertolli 3, Mortara) RIVISTA DI CULTURA, STORIA E TRADIZIONI Tanti i corsi a disposizione. In più, in base alle specifiche richieste, possono esserne attivati di nuovi: questo grazie a un corpo docenti altamente qualificato. Perché da noi il protagonista è l’utente. E si merita il miglior palcoscenico. La Scuola Civica è una palestra per il talento, il trampolino di lancio per “saltare” dalla passione al successo. TRIMESTRALE DEL CIRCOLO CULTURALE LOMELLINO GIANCARLO COSTA Dal 4 al 23 dicembre (dalle 10 alle 12 - dalle 16 alle 19) “Lomellibro” Mostra - editoria locale a cura di Elena Signorelli (Sede del Circolo, via Bertolli 3, Mortara) 26 dicembre 2010 (ore 17,15) Gli amici per un amico Anno 6 - Numero 4 Ottobre - Dicembre 2010 Reg. Trib. di Vigevano n. 158/05 Reg. Vol. - n. 1/05 Reg. Periodici Direttore responsabile Marta Costa Elenco speciale Albo professionale dei Giornalisti di Milano Coordinamento Sandro Passi Hanno collaborato a questo numero Graziella Bazzan Carmen Bortolas Umberto De Agostino Nadia Farinelli Maria Forni Guido Giacomone Eufemia Marchis Magliano (La collaborazione è a titolo gratuito) Concerto di Santo Stefano (Auditorium Città di Mortara) In copertina “Lomellina” (particolare) Roberto Pelli, (2010) MORTARA ON STAGE 2010-2011 Editore Circolo Culturale Lomellino Giancarlo Costa via XX Settembre, 70 - 27036 Mortara (PV) Coordinamento editoriale Alberto Paglino Realizzazione grafica & Impaginazione 2009.2010 MORTARA 30 ottobre 2010 ore 21 Ada Rovatti Band Green factor (jazz/celtic) Special guest: Rob Thomas, violino 20 novembre 2010 ore 21 Orchestra I Virtuosi di Firenze Vittorio Ceccanti, direttore Duccio Ceccanti, violino e violino elettrico 9 dicembre 2010 ore 21 Cochi e Renato “Una coppia infedele” Info: 0382.800765 - [email protected] Stampa La Terra Promessa Via E.Fermi, 24 28100 Novara INFO: 0384.91249