I RICORDI
BELLI
DEI NOSTRI
ANZIANI
Associazione Pro Loco e Comune di Capodiponte (BS)
Foto in copertina:
Archivio fotografico Ass. Proloco - Capo di Ponte anni ‘50
INDICE
LE TRADIZIONI ............................................................ pag. 4
Le rogazioni ............................................................ “ 4
I disciplini ................................................................ “ 6
Le missioni ............................................................... “
9
La Macchina delle Quarant’ore ............................. “ 11
Le processioni . ........................................................ “ 14
I MESTIERI E GLI ARTIGIANI ....................................... pag. 17
L’allevamento del baco da seta . ............................ “ 17
La coltivazione della canapa................................... “ 20
La lavorazione del ferro ......................................... “ 22
Il fabbro.................................................................... “ 25
Il maniscalco ............................................................ “ 27
La lavorazione del legno ........................................ “ 29
Le segherie............................................................... “ 29
Il bottaio................................................................... “ 30
Lo scalpellino (pica prède) ..................................... “ 31
I costruttori di ruote, carri (caradùr) e mobili ....... “ 33
La lavorazione del cuoio, il sellaio.......................... “ 34
I mulini...................................................................... “ 35
LUOGHI DI SOCIALIZZAZIONE E PASSATEMPO . ....... pag. 37
PERSONE LOCALI DA RICORDARE ............................. pag. 39
LE TRADIZIONI
LE ROGAZIONI
Le rogazioni hanno sicuramente origini molto antiche. Si
svolgevano nei tre giorni che precedevano l’Ascensione, che
cadeva sempre di giovedì. I motivi di questi riti erano la richiesta a Dio di proteggere le comunità da calamità naturali.
I riti consistevano in processioni che iniziavano alle 5 o 6 del
mattino. Si percorrevano le zone rurali del paese. Il corteo
partiva sempre dalla chiesa parrocchiale dove i fedeli, intonando il canto delle litanie dei santi, si avviavano verso le
mete prestabilite.
Il corteo era regolato da precise disposizioni: davanti a tutti
la croce, quindi gli uomini, poi i ragazzi, le Consorelle, le Figlie di Maria, il prete con i chierichetti e, per finire, le donne.
La parrocchia di Capo di Ponte al lunedì prevedeva il percorso: Via Briscioli, sottopasso ferroviario in località “Ràm”,
sosta per la benedizione, per proseguire per il “Roncofanì”
ed arrivare al Cimitero.
Il martedì si passava da Via Vittorio Emanuele (ora Via Italia)
fino al sottopasso ferroviario di S. Rocco e quindi alla chiesa.
Il mercoledì per Via Vittorio Emanuele fino all’altezza di casa
Zonta si imboccava la vecchia via Lìmit che conduceva alla
Chiesa delle Sante. Lungo i percorsi venivano effettuate le
soste per la benedizione e le invocazioni:
“A fulgore et tempestate”
(dalla folgore e dalla tempesta)
•4•
“A flagello terremotus”
(dal flagello del terremoto)
“A peste fame et bello”
(dalla peste dalla fame e dalla guerra)
alle quali i fedeli, inginocchiati, rispondevano:
“Libera nos Domine” (liberaci o Signore)
Alle invocazioni successive:
“Ut fructus terrae dare et conservare digneris”
(affinché Ti degni di darci e conservarci
i frutti della terra)
“Ut nos exaudire digneris”
(affinché Ti degni di esaudirci)
rispondevano:
“Te rogamus audi nos” (Ti preghiamo ascoltaci)
Anche Cemmo seguiva gli stessi criteri, ma naturalmente con
percorsi diversi transitando per la Rela, Via Convento, Località Prada. Le mete erano: il Cimitero, la Pieve e la Chiesa di
S. Maria.
La tradizione delle Rogazioni è ancora praticata con le stesse
mete: è solo stata abolita la processione.
•5•
I DISCIPLINI
Fu un movimento medievale laico sorto contemporaneamente a Capo di Ponte e Cemmo nel 1573. E’ stato presente
nelle nostre parrocchie fino agli anni ‘50.
L’ordine era una pia associazione, dotato di un proprio statuto e quanti ne facevano parte versavano una quota di
adesione che assieme ad altre elemosine veniva usata per
mantenere acceso il cero posto accanto al Santissimo e per
acquistare altri ceri e torce che venivano usati nelle processioni. Facevano inoltre celebrare una Messa all’anno per i
confratelli defunti.
A quanto si ricorda, i membri di questo movimento, nelle
nostre parrocchie, erano solo uomini. Vestivano un abito
bianco con il cordone rosso ai fianchi e sulle spalle una mantellina pure di colore rosso. Sul petto era posto un distintivo
in metallo sul quale era raffigurato l’ostensorio.
Il compito principale consisteva nell’accompagnare tutte le
Distintivi dei Disciplini
•6•
Raggio dei Disciplini portata nelle processioni
funzioni religiose con la presenza del Santissimo portando il
baldacchino, le lanterne e lo stendardo dell’ordine.
Un altro servizio importante era assistere gli ammalati e accompagnare il sacerdote quando portava il viatico agli infermi.
Si presume che all’origine del movimento ci fosse, fra i compiti principali, quello dell’attenzione ai bisogni dei più poveri. A Capo di Ponte si ricorda che per la raccolta di fondi
da destinare a tale scopo negli ultimi anni si effettuava la
raccolta e la vendita del fieno che i proprietari e mezzadri
dei terreni lasciavano appositamente nei campi dopo ogni
taglio dell’erba.
La sede dei disciplini a Capo di Ponte era situata nel locale
dove ora è posto il Compianto, chiamata per l’appunto la
“Disciplina”.
•7•
Stendardo dell’ordine dei disciplini di Capo di Ponte.
•8•
LE MISSIONI
Nel passato, quando la parrocchia era la culla dei cristiani
e la vita del paese era scandita dal suono delle campane,
quando la vita era statica e il cambiamento costituiva un’eccezione, ecco la proposta della “Missione” come momento
nuovo per un cammino rinnovato dell’intera comunità: da
una fede abitudinaria e devozionistica ad una fede autentica, illuminata, matura e generosa.
Le missioni si tenevano solitamente ogni 10 anni e duravano
una decina di giorni.
La dimensione missionaria di “apostolato” era affidata a dei
“Padri” appositamente chiamati che operavano sulla base
del mandato loro affidato.
I più anziani di Capo di Ponte ricordano che l’intensità della
predicazione trovava il punto culminante nello scontro
che si teneva in chiesa, ogni
sera, alla presenza di tutto il
popolo del paese, fra i due
predicatori (sacerdoti) che intrattenevano i fedeli con autentiche dispute sulla fede.
Uno dei sacerdoti, definito
“L’inesperto“ e che rappresentava in sostanza il popolo,
provocava il secondo sacerdote definito “Il Maestro” che
rispondeva e spiegava la vera
e autentica Fede Cristiana.
Il dialogo/scontro tra i due
Pulpito in legno
sacerdoti avveniva al centro
•9•
della chiesa: uno dei due si poneva sul pulpito principale posto in alto fra gli altari di S. Vittorino e della Madonna, l’altro sul pulpito più piccolo situato fra gli altari di S. Giuseppe
e l’Addolorata.
Le missioni a Capo di Ponte sono state fatte nel 1947 e poi
nel 1970 dai Padri Passionisti coordinati da Padre Pier Luigi,
straordinario oratore e trascinatore di fedeli.
Le ultime, nel 1981, sono state tenute dai Padri Oblati.
Posa della croce al cimitero al termine delle missioni del 1970
Archivio fotografico Ass. Pro Loco
• 10 •
LA MACCHINA DELLE QUARANT’ORE
A CAPO DI PONTE
Il bisogno comunitario d’una esteriore manifestazione di fede
eucaristica portò i nostri avi alla realizzazione di un apparato
grandioso in legno interamente decorato in oro con alla sommità una grande raggiera ove porre Gesù eucaristico.
La macchina veniva innalzata ogni anno grazie all’impegno
di molte persone che vi dedicavano giornate intere. La fastosità della macchina era ulteriormente impreziosita dagli
ornamenti floreali e dalle candele di cera che rimanevano
sempre accese.
• 11 •
Oggi si dice che quella fastosità distogliesse facilmente i fedeli da un intimo raccoglimento (chi contava le candele, chi
osservava se qualche candela si spegneva perché consumata,
chi ancora seguiva il sacrista mentre provvedeva alla sostituzione…).
Le Quarant’ore duravano quaranta ore esatte. Il periodo di
svolgimento era inserito prima della Santa Pasqua ed era
motivo per assolvere al precetto pasquale della confessione
e della comunione. La partecipazione era numerosa.
L’esposizione del santissimo iniziava di buon mattino e terminava alla sera con la predica tenuta da un valente oratore
appositamente invitato.
Durante la predica il Santissimo veniva coperto da un telo di
raso bianco che veniva calato meccanicamente da dietro la
grande macchina. Seguiva il canto solenne delle litanie (cosiddette belle) e la deposizione.
Durante l’esposizione del Santissimo ogni ordine e congregazione si alternava per l’adorazione. Vi partecipavano i disciplini, i ragazzi e gli uomini e le donne dell’Azione Cattolica:
le piccolissime figlie di Maria (bambine fino agli otto anni),
le beniamine (ragazze dagli otto ai tredici anni), le ragazze,
le giovani, le madri.
Pure le scuole elementari effettuavano l’ora di adorazione.
Le rappresentanze femminili dovevano portare il velo, bianco per le giovani, nero per le madri e le anziane. Davanti a
Gesù Eucaristico tutti effettuavano la genuflessione con le
due ginocchia.
Le Quarant’ore si concludevano con la solenne processione
seguendo il tradizionale percorso: dalla Chiesa Parrocchiale
lungo via Italia, ritorno verso piazza Roma, via Briscioli e rientro verso la chiesa per la solenne benedizione.
Il corteo era rigorosamente ordinato con in testa la Croce
• 12 •
cui seguiva il corpo bandistico locale, gli uomini, i giovani, i
ragazzi, le congregazioni con gli stendardi.
I disciplini portavano il baldacchino e le torce accanto al santissimo. Li seguivano gli ordini religiosi, le giovani e le madri.
Era grande la partecipazione del popolo, così come l’impegno delle famiglie per addobbare finestre, porte e portoni
delle abitazioni.
Telo bianco montato sulla macchina per coprire il Santissimo.
• 13 •
LE PROCESSIONI
In passato le processioni che si svolgevano nelle nostre parrocchie erano numerose.
A Cemmo, oltre alle tradizionali processioni del Corpus Domini e delle Rogazioni, si tenevano quelle per la Festa di Tutti Santi, della Madonna di Settembre, per S. Antonio, per
San Luigi, per San Giovanni Bosco.
Per Santa Elisabetta ci si recava alla chiesetta di S. Maria.
A Pescarzo nei periodi di persistente e prolungata siccità gli
abitanti ricorrevano alla processione con il “Cristo Deposto”
portato per le vie del paese.
Gli anziani sono testimoni che ad ogni processione, durante
o al termine della stessa, la pioggia arrivava in abbondanza…
Processione in occasione delle missioni del 1970 a Capo di Ponte.
Archivio fotografico Ass. Pro Loco
• 14 •
Archivio fotografico Maffessoli Tommaso
• 15 •
Stendardo delle Madri Cattoliche di Capo di Ponte
Stendardo usato nelle processioni a Capo di Ponte
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I MESTIERI E GLI ARTIGIANI
Tempo fa, quando non esistevano le grosse industrie, tutti
quelli che producevano beni da porre in vendita erano artigiani. Non c’erano macchine particolari e tutto veniva costruito a mano o quasi nelle botteghe o nei laboratori. Gli
oggetti venivano sempre fabbricati con l’uso di tecniche tramandate di generazione in generazione.
I nostri padri, e ancora di più i nostri nonni, ricordano la vita
di paese senza rombi di motori, clacson assordanti, stridìi di
freni e sgommate, sibili di sirene lontane.
Chiudiamo gli occhi e proviamo ad immaginarla anche noi.
Sentiremo lo scalpiccìo dei cavalli, lo stridore delle ruote dei
carri, il fischiettare del falegname, il sordo battere del martello sull'incudine.
Ma che cosa rimane della vita di un tempo?
È scomparso un esercito di mestieri, di cui resta solo qualche
testimonianza in ingiallite riproduzioni d'epoca. Su quali attività si basava l'artigianato di una volta?
Siamo andati alla riscoperta di alcuni mestieri.
L’ALLEVAMENTO DEL BACO DA SETA
Il nostro paese ha vissuto in passato l’esperienza della produzione del filato da immettere sul mercato per fare la seta.
Il processo principale era l'allevamento del baco da seta,
assai diffuso in Valle Camonica. A Cemmo e Capo di Ponte esistevano molte piantagioni di gelso di proprietà delle
famiglie Visnenza, Sgabussi, Cattane, Milesi e Tempini. Nel
periodo primaverile si compravano i “semi” che le donne av• 17 •
Il baco da seta
Un bozzolo
volgevano in una pezzuola di lana, perché stessero al caldo.
Dopo alcuni giorni le uova si schiudevano e nascevano dei
piccoli bruchi neri, che venivano collocati in un cesto assieme
alle foglie di gelso tagliate minutamente. Le larve si nutrivano delle foglie per cinque giorni e poi s’addormentavano.
Quando si svegliavano, cambiavano la pelle e riprendevano
a mangiare le foglie fresche di gelso raccolte dalle numerose
piante di “mùr” (more) esistenti.
I bruchi continuavano a cambiare vestito, mangiavano e dormivano fino a diventare sempre più grossi. Nel frattempo
erano collocati su un'intelaiatura a più piani in attesa della
formazione del bozzolo.
Il filo che formava il bozzolo era molto lungo. Quando il
bozzolo era completo, si procedeva alla raccolta e quindi si
passava alla lavorazione per ricavarne il filo di seta.
I bozzoli venivano selezionati: quelli venuti male venivano
scartati perché avrebbero dato origine a seta di qualità scadente, i più belli venivano messi da parte perché dopo alcuni
• 18 •
giorni vi sarebbe nata una bella farfalla (detta Caalèr). La vita
della farfalla era assai breve e moriva dopo avere deposto le
uova che venivano conservate per la successiva annata.
A parte la seta, che richiedeva un processo particolare di filatura, tutte le altre fibre venivano filate in casa dalle donne.
L’attività del bacco da seta coinvolgeva famiglie intere assai
capaci ed esperte nella lavorazione.
Le larve mentre mangiano le foglie di gelso
• 19 •
LA COLTIVAZIONE DELLA CANAPA
La canapa veniva coltivata prevalentemente a Cemmo. È stata una materia prima essenziale per l'uomo per centinaia di
anni. La canapa è una fibra molto simile al lino, ma, a differenza di questo, possiede una maggiore capacità di resistenza. Il ciclo della pianta di canapa, dalla coltura alla raccolta,
alla lavorazione delle fibre, alla realizzazione del filato e
quindi del tessuto era eseguito prevalentemente dalle donne. La produzione doveva soddisfare il fabbisogno famigliare in tempi in cui c’era scarsa circolazione di denaro, i mercati erano lontani e l’economia del paese era un’economia di
sussistenza. La millenaria arte della tessitura ha nel tipico ed
antico telaio a mano, che ricalca forme e funzionamento rimasti immutati nel tempo, il suo elemento più caratteristico
e rappresentativo. Con esso avveniva la trasformazione della
materia prima, la fibra tessile, in prodotto finito: il tessuto.
Telaio di filatura
• 20 •
Presente in quasi tutte le famiglie, esso era opera dell’abilità
costruttiva e dell’esperienza. Il processo di lavorazione della
canapa dopo la raccolta prevedeva che essa fosse messa in
ammollo e poi maciullata per separare la fibra dal legno con
un attrezzo chiamato “gràmola”. Le fasi successive, fatte con
grande pazienza e competenza, consistevano nella filatura
per preparare il fuso, le matasse e l’allestimento del telaio.
L’operazione finale più impegnativa e lunga era la tessitura
per la realizzazione e confezionamento di lenzuola, asciugamani, ecc…
Donna che fila
Piante di canapa
• 21 •
LA LAVORAZIONE DEL FERRO
All’economia valligiana ha contribuito molto l’attività mineraria e metallurgica. Sul territorio di Capo di Ponte vi erano
abbondanti miniere di ferro, situate sul Monte Garzeto (di
proprietà di G. Gregorini), in località Botticina (di proprietà
di F. Zitti), in località Romita (di proprietà di B. Visnenza). La
lavorazione della materia prima ha consentito l’attivazione
di forni e fucine. Negli anni seguenti il 1800 era molto attivo
a Cemmo in località “Fùren” un forno fusorio (di cui erano
proprietari gli Zitti) che produceva, quando necessario, pure
bombe per l’artiglieria.
Ingresso alle miniere del ferro
• 22 •
Le principali fonti di lavoro erano tuttavia le fucine che costruivano attrezzi forgiati a mano: secchielli, badili, padelle,
zappe, mazze, leve.
L’interno di una fucina
Produzione di badili
• 23 •
Le più numerose si trovavano in località “Sante”: pare fossero 11. Nel 1900 alcune erano gestite da un certo Rusconi che
cessò l’attività prima della seconda guerra mondiale. Passarono con ogni probabilità agli Zitti e, quindi, ai Grassi, ai
Bona (Umì), ai Franzoni, ai Bontempi, ai Silistrini, agli Ercoli
(gli ultimi quattro cognomi rivelano la provenienza da Bienno) e ai Grola.
Più a valle vi erano i Bona (Gianìno) che producevano prevalentemente chiodi, in particolare quelli per ferrare i cavalli.
Avevano pure l’esclusiva per la fornitura all’esercito militare
delle “shapète” necessarie per la protezione delle punte degli scarponi.
In località Mulini lavoravano invece i Salari (Cudighì).
Tutte le fucine ed i magli erano azionati grazie all’acqua
captata dal torrente Re, che passava di fucina in fucina, attraversava la sede ferroviaria e la strada statale 42 mediante
due sifoni e finiva nel fiume Oglio. Tutte queste fucine cessarono la produzione quando la Società Bresciana, nel 1940,
ebbe l’esclusiva per l’utilizzo dell’acqua.
• 24 •
IL FABBRO
Il fabbro, nella sua bottega, arroventava il ferro alla “forgia” per dargli la forma desiderata. Creava oggetti di ferro o
acciaio utilizzando attrezzi a mano per martellare, curvare,
tagliare o comunque dare forma al metallo.
Costruiva, in questo modo, serrature e relative chiavi, che,
pur essendo rudimentali, erano molto funzionanti. Costruiva cancelli, inferriate, griglie, e ringhiere dalle forme molto
belle senza usare le moderne saldature.
Lavori all’incudine
Realizzava pure ferri da cavallo che venivano usati dal maniscalco. Costruiva i cerchi delle ruote dei carri e gli attrezzi
di lavoro dei contadini. L’officina del fabbro era attrezzatissima: la “forgia” per riscaldare il ferro, il “bancone” come
tavolo di lavoro, l’incudine sulla quale dare forma al ferro
ed una parete adorna di tenaglie, lame, pinze e punteruoli
vari.
I fabbri erano artigiani con caratteristiche diverse, ma dotati
di grande fantasia e bravura.
• 25 •
Officina “Bona“
in via S. Bartolmeo
Interno dell’officina
di un fabbro
Cancello d’ingresso al Cimitero
di Capo di Ponte
• 26 •
A Capo di Ponte si ricordano i Geròsa in
via Briscioli, i Bona in
Via Vittorio Emanuele
(oggi Via Italia), i Silistrini (Pitàca) alle Sante, i Bona di via San
Bartolomeo e i Bona di
Piazza Roma (Umì); a
Cemmo i Panto.
È giusto ricordare che
Bona Giovanni (Gianìno) realizzò il cancello
d’ingresso al nostro cimitero senza l’utilizzo
di saldature.
IL MANISCALCO
Maniscalco deriva dal tedesco “marahskalk” che significa
servo di cavalli. Il tramonto del cavallo nel lavoro agricolo e
nei trasporti segna anche la progressiva scomparsa di questa
tipica figura di artigianato dei nostri paesi.
L’arte di sistemare gli zoccoli dei cavalli, ferrarli e pulirli significava ridare al cavallo la sicurezza per il lavoro. L'arte del
maniscalco si sovrapponeva in parte a quella del fabbro; i
ferri venivano infatti forgiati al momento, e su misura. L'atto
dell'adattamento e dell'applicazione del ferro non esauriva
il compito del maniscalco; infatti, un’importante fase della
ferratura era il “pareggio”, che consisteva nell'esportazione
dell'eccessiva crescita delle varie parti dello zoccolo.
Maniscalco al lavoro
• 27 •
Il maniscalco doveva avere una vasta conoscenza sui comportamenti del cavallo.
Lavorava curvo, dietro il deretano dell'animale, ma, anche
se era preso dal lavoro, stava molto attento a balzare di lato
appena notava un minimo movimento, ed evitare qualche
calcione che ogni tanto l'animale dava gratuitamente fuori
programma e questo accadeva spesso nei giorni di maggio
quando l’animale era in calore.
Il lavoro iniziava di buon mattino e lo si sentiva bene per quel
battere il martello mentre sistemava le staffe agli zoccoli. Si
avvertiva nell’aria pure l’odore acre degli zoccoli bruciati dal
ferro rovente che veniva applicato su di essi.
Fuori dalla sua bottega egli metteva un ferro di cavallo, non
per scaramanzia, ma come insegna. Forse, se ci fosse oggi,
metterebbe un'insegna luminosa con la scritta "scarpe per
gli animali".
L’ultimo maniscalco, Tosi di Cemmo, esercitava la sua professione in Vicolo Parolari e ancora oggi c’è chi ricorda che
il giorno del mercato si metteva a lavorare vicino al lavatoio
di Vicolo Parolari poiché molti venivano da fuori paese con il
cavallo per farlo appunto ferrare.
Per il trasporto delle merci i quadrupedi equini sono stati sostituiti lentamente dai mezzi meccanici. È raro vedere un cavallo tirare l’aratro, un asino o un mulo tirare un carretto.
• 28 •
LA LAVORAZIONE DEL LEGNO
Ancora oggi, nonostante la disponibilità di altri materiali,
il legno continua ad essere impiegato in grandi quantità
nell'edilizia, per la costruzione di mobili e per ricavare prodotti utili all'uomo, quali la carta e tutti gli altri materiali
cellulosici. Il legname, il cui consumo in questi ultimi anni si
è attenuato ma non soppresso dall'introduzione di materie
alternative, rappresenta tuttora una materia prima fondamentale di bilancio delle economie nazionali. Questa importante risorsa ha trovato nel passato grande utilizzo in molte
attività artigianali locali.
LE SEGHERIE
A Capo di Ponte sono esistite quattro segherie: la prima, risalente agli inizi del 1900 e situata in Via Colombera, era quella di Lascioli Luigi e Paolo (la Ràsega) ai quali sono succeduti
Lascioli Antonio e Lascioli Giovan Maria; poi vi era quella
di Maffessoli (Silistrini) passata negli anni ‘50 alla famiglia
Baisotti e quella di Apolone. Tutte attualmente hanno cessato l’attività. Tuttavia sono
state una vera risorsa, infatti molti lavoratori hanno
potuto usufruire di queste
opportunità occupazionali. È interessante ricordare
che le segherie dei Lascioli e
dell’Apolone in origine erano azionate dall’acqua che
scendeva dalle Sante dopo
avere alimentato le fucine
mentre le altre funzionavaInterno di una vecchia segheria
no con energia elettrica.
• 29 •
IL BOTTAIO
Il bottaio era uno di quei mestieri che veniva considerato
privilegiato e di difficile esecuzione.
Il procedimento di lavorazione era fatto necessariamente a
mano e consisteva nel sistemare delle listelle di legno, di preferenza castagno, o rovere (per le botti che dovevano contenere vini o liquori pregiati).
Queste listelle di legno, “doghe”, potevano avere dimensione diversa in funzione delle grandezza della botte che si doveva costruire, il lavoro cominciava col sistemare ogni doga,
perfettamente piallata, in una forma circolare al cui interno
c'era una fonte di calore (con fuoco o brace).
La doga era normalmente più larga nella parte centrale e
più stretta alle estremità e il numero delle doghe variava
in funzione della capienza della costruenda botte. Il calore
sprigionato dalla fonte di calore serviva a creare il vapore
necessario a rendere il legno più duttile ed elastico alla lavo-
Vecchie botti
• 30 •
razione e facilitare la necessaria curvatura delle doghe, inoltre era essenziale per liberare il tannino dal legno, sostanza
che avrebbe danneggiato facilmente il vino. Per completare
il lavoro occorrevano sei cerchi di ferro di diversa dimensione e due coperchi che avevano il diametro della dimensione del foro finale della botte. L’arte magica del bottaio era
quella di far aderire le doghe l'una all'altra tenendole unite
con i cerchi metallici posti all'esterno senza l'uso di collanti,
ottenendo dei contenitori che non facevano perdere il liquido contenuto. Purtroppo la moderna tecnologia ed il ricorso
massiccio a contenitori di acciaio e di vetroresina stanno facendo scomparire la magia di un mestiere affascinante.
L’ultimo artigiano che eseguiva botti è stato Giovan Maria
Rivetta (Brìca). Aveva il laboratorio in Via Briscioli.
LO SCALPELLINO (PICA PRÈDE)
Lo scalpellino lavorava blocchi di pietra da utilizzare per abitazioni, sentieri e marciapiedi. Svolgeva prevalentemente il
lavoro in botteghe artigiane e all'aria aperta, esposti al rumore, alla polvere, a condizioni climatiche variabili. Per lo
svolgimento della sua attività utilizzava martello e scalpello.
Era indispensabile avere un senso artistico pratico, ottima
manualità e resistenza fisica. Lo scalpellino, per la stessa natura del mestiere, era legato al cavapietre, che gli estraeva
la pietra da lavorare. Sul "banco" da tagliare venivano praticati dei buchi dove venivano inserite "zeppe" di legno e di
acciaio, sulle quali si batteva sopra con la mazza, fino a che
la pressione non provocava la rottura completa del masso
designato. Lo scalpellino lavorava anche, come è ovvio, in
collaborazione con il muratore.
• 31 •
L’ultimo scalpellino a Capo di Ponte è stato Paolo Ruggeri
delle Sante.
Scalpellini al lavoro
Archivio fotografico Ass. Pro Loco
• 32 •
I COSTRUTTORI DI RUOTE, CARRI
(DETTI CARADÙR) E MOBILI
Per il trasporto delle merci i quadrupedi equini utilizzavano
dei carri di vari dimensioni a secondo del trasporto e percorso che effettuavano. Questi mezzi cosi importanti nel passato lentamente sono stati sostituiti dai mezzi meccanici.
È raro vedere un animale tirare l’aratro o un carretto. Tutti
i carri venivano costruiti a mano nelle botteghe o nei laboratori. Gli oggetti venivano sempre fabbricati con l’uso di
tecniche tramandate di generazione in generazione.
Gli artigiani che si sono distinti nella costruzione di ruote e
carri sono stati: Turetti Angelo (Mehsèda) che lavorava nel
cortile di casa in Via Italia e Maffessoli Battista (Panto) che
aveva il laboratorio al piano terra di via Vittorio Emanuele
(attuale sede di Pietro Barbèr). Vi erano poi i falegnami Maffessoli Battista (Mùscol), Bottanelli Paolo (Paulì) e Priuli Antonio con il fratello che costruivano mobili, porte e… bare
da morto. La lavorazione del legno è stata una delle prime
dell’uomo. Oggi si fa un uso maggiore di materiali compositi
come il compensato, il truciolato e il cartonfibra, prodotti che
non si deformano
con la stessa facilità del legno.
Presso i falegnami sono passati
molti apprendisti e lavoratori
che hanno imparato e praticato
l’arte.
• 33 •
LA LAVORAZIONE DEL CUOIO, IL SELLAIO
La bottega del sellaio era frequentata da mulattieri e contadini. Oggi le botteghe dei sellai sono ormai chiuse, perché
con l'introduzione delle macchine, non serve più la forza
delle cavalcature.
Il sellaio fabbricava selle per le bestie da soma e dovevano
servire sia come sella vera e propria sia come struttura di appoggio e sostegno per i carichi che la bestia doveva trasportare. Costruiva pure funi, corde, collane e briglie, ciascuna
con funzioni proprie, per assicurare il carico e impartire a
distanza i comandi all’animale. A volte, a seconda del carico
da trasportare le selle da porre sul dorso dell’animale potevano essere di legno imbottito di paglia.
L’ultimo sellaio di Capo di Ponte è stato Maffessoli Stefano
(Calabrès) con la bottega in Via Vittorio Emanuele (ora Via
Italia).
• 34 •
I MULINI
Nel territorio di Capo di Ponte sorgevano due mulini alimentati ad acqua: uno si trovava in località Sante (vicino alla famiglia dei Grola), ed era di proprietà della famiglia Martinazzoli (Ré), mentre quello in via San Bartolomeo si trovava
in località Mulini (Mulì) e produceva anche la pasta ed era
gestito dai Bonomelli (Ginì). La pasta veniva consegnata ai
commercianti in grandi ceste. Nel 1930 si incendiò e venne
ricostruito. Mediamente vi lavoravano 5 persone.
Anche a Cemmo, nelle vicinanze del ponte Pontèra, vi erano
due mulini: quello di Tosi (Criilì) e dell’Odelli (Mulinèr dé Dò);
Macina di granito
Mulino e fucina di Via
S. Bartolomeo (dei Bonomelli)
• 35 •
Ruota del mulino
erano alimentati dal torrente Clegna ed hanno funzionato
fino agli anni ‘90. Tutti i mulini erano in grado di macinare
frumento, grano saraceno e mais.
Archivio fotografico Associazione Pro Loco
• 36 •
LUOGHI DI SOCIALIZZAZIONE E PASSATEMPO
I luoghi di socializzazione più comuni nelle nostre comunità
erano le piazze, soprattutto nelle serate estive.
In ogni Piazza, seduti sulle panche in legno o pietra poste
agli angoli delle case, uomini e donne si riposavano e dialogavano. I bambini giocavano nelle viuzze in giochi sempre improvvisati, ma coinvolgenti (a nascondino, a sgarèla,
a pila).
Per le donne c'era inoltre un’altra opportunità per “aggiornarsi” su “fatti e misfatti”: quella del ritrovarsi a fare il bucato presso i lavatoi o nel fiume Oglio sulle pietre approntate a
mo’ di “banco di lavoro” che brillavano come specchi tanto
era intenso il loro strofinare per lavare la biancheria.
Ognuna andava col suo recipiente carico di bucato ed il proprio pezzo di sapone (ricavato da grassi animali e privo di
profumazione).
Luoghi caratteristici d’incontro estivi a Capo di Ponte erano
la Réla e il Funtanì de Piè dove ci si trovava per bere l’acqua
fresca, per le merende, per ballare, per giocare a nascondino
dietro i grossi tronchi di castagno.
Sul sagrato della chiesa delle Sante si poteva fare visita al
sasso con impresse le mani delle Sante nonché al sepolcro
con le statue di legno del Mazzoni di Brescia attualmente
collocate, dopo il restauro, presso la chiesa Parrocchiale di
Capo di Ponte.
A Cemmo i luoghi d’incontro erano: al Calderù presso le cascate in cima al paese, al fiume Oglio per le nuotate nei Gòi.
Molto frequentate erano le case delle Suore per le ragazze e
quelle dei Curati per i ragazzi.
Frequenti erano anche i giochi in piazza, sia a Capo di Ponte
che a Cemmo.
• 37 •
Come non ricordare le partite a pallamano o a tamburello
che si svolgevano alla domenica, di pomeriggio, dopo la dottrina in chiesa? A Capo di Ponte si giocava in piazza, dalla
fontana della Farmacia fino al bar Cumilì. I giocatori non
erano solo quelli locali, ma provenivano pure dai paesi vicini.
Si tenevano sfide tra i vari paesi della zona con grande partecipazione di spettatori.
Altri luoghi di intrattenimento erano le osterie dove predominavano i giochi delle carte e della “Mùra”. I più anziani ricordano che esistevano a Capo di Ponte ben 32 osterie
comprese quelle con il patentino stagionale. Pure a Cemmo
le dispute avvenivano nella piazza della Chiesa e nelle vie
adiacenti.
Nella stagione invernale il più tradizionale luogo d’incontro
di quasi tutte le famiglie era la stalla.
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PERSONE LOCALI
DA RICORDARE
LAFFRANCHI PIETRO
Costruttore di Cattedrali in terra
d’Africa.
Fratel Laffranchi Pietro è nato a
Cemmo il 15 Aprile 1899. Ancora giovanissimo ha risposto alla
chiamata della patria prendendo
parte alla prima guerra mondiale
e ricevendo alla fine la Croce al
merito. Con lo stesso slancio ha
poi risposto all’invito del Signore che lo ha chiamato al servizio
nella congregazione missionaria
dei Comboniani. Figlio di onesti lavoratori, con la formazione
scolastica elementare e molto
amore per il lavoro, nel 1925 entrò nel Noviziato dove nel 1928 emise la professione religiosa. Da casaro a cuoco della grossa comunità Comboniana si
improvvisò pure muratore. Le sue qualità di costruttore non
passarono inosservate e i superiori lo incoraggiarono a seguire per corrispondenza un corso di edilizia per diventare
capomastro.
Eccolo iniziare la sua straordinaria carriera di costruttore di
Cattedrali in terra d’Africa. Il suo capolavoro fu la cattedrale
• 39 •
realizzata in stile romanico nella città di Khartoum, in Sudan. Accanto alla cattedrale realizzò il campanile più alto di
tutti gli edifici della città, alto 46 metri e per realizzarlo in
tutta tranquillità lontano dagli occhi indiscreti fece lavorare
gli operai all’interno del campanile e quindi senza impalcature esterne. Nei 29 anni trascorsi in terra d’Africa ha realizzato 30 grandi opere tra chiese, seminari e scuole. È morto
a Khartoum nel 1961. Aveva 62 anni. Gli ultimi 24 anni li ha
trascorsi in Africa senza mai tornare in Italia e lì è sepolto.
Primo grande lavoro di Padre Laffranchi:
la Cattedrale di Khartoum
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MURACHELLI PADRE FELICE
Archivio di Maffessoli Tommaso
Felice Murachelli, nato a Cemmo il 18 novembre 1912, viene
ordinato sacerdote nel 1935.
È quindi parroco a Cané e poi parroco di Cevo nel difficile
periodo della seconda guerra mondiale.
Qui fece costruire, l’8 dicembre 1943, un monumento al Cuore Immacolato di Maria. Dal 1945 è stato padre oblato presso il Santuario delle Grazie di Brescia. Morì a Cemmo il 14
febbraio 1993. Molto noto per le pubblicazioni storiche sulle
chiese e le opere d’arte, sui santuari e sul culto praticato nei
vari secoli.
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TEMPINI DON OTTAVIO
Archivio di Maffessoli Tommaso
Il Prof. Don Ottavio Tempini nacque a Capo di Ponte l’11
aprile 1880. Compiuti gli studi liceali e ginnasiali presso gli
istituti di Bergamo e Pavia si iscrisse alla facoltà di Lettere e
Filosofia presso l’Università di Bologna dove ebbe come docenti Giosuè Carducci e il filosofo Acri. Nel 1903 conseguì la
Laurea ed iniziò la carriera universitaria. Nel 1907, attratto
dalla vita religiosa, cominciò gli studi teologici presso il seminario di Brescia. Nel 1913 venne ordinato sacerdote.
Era attento all’opera dei salesiani e si dedicò con grande zelo
all’istruzione dei giovani.
Fu un insegnante molto preparato, un uomo di grande cultura e un sacerdote molto aperto. Fu pure intelligente cultore
di musica ed autore di composizioni musicali per pianoforte:
strumento che suonava perfettamente.
Si impegnò in politica, nel Partito Popolare, a fianco dell’amico don Carlo Comensoli. Nel 1981 l’Amministrazione Comunale ha intitolato a suo nome la Biblioteca Civica.
Don Ottavio Tempini morì ad Alassio il 23 gennaio 1945.
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FRATELLI BONA
La famiglia Bona è molto nota per avere ispirato e realizzato
l’istituto Fratelli Bona fu Benedetto.
I fratelli Bona Angelina (maestra) deceduta nel 1923, Vittorino (farmacista) deceduto nel 1924 e Giacomo (impiegato)
deceduto nel 1962 insieme con don Giuseppe deceduto nel
1964, hanno ideato e realizzato nel nostro comune un “ricovero” per l’accoglienza degli infermi, dei più bisognosi e
degli abbandonati.
Tutta la pratica relativa all’acquisto dei terreni (nel 1929) alla
progettazione e la costruzione dell’importante opera, ultimata nel 1931, è stata seguita dal Cav. Giacomo.
Dopo la pratica per erigere l’Istituzione ad Ente Morale, in
data 23 maggio 1932 l’Istituto viene aperto ufficialmente
per l’attività di assistenza secondo i desideri dei fondatori.
L’incarico di dirigere e servire l’Istituto è stato affidato alle
suore Comboniane.
Questa importante entità sociale continua la sua opera nel
rispetto delle volontà testamentarie e delle norme di legge
che regolano tali istituzioni per essere al passo con le attuali
esigenze.
FAMIGLIA AGOSTANI
Di questa illustre famiglia Capontina si ricorda in particolare l’ultima componente, la signora Lavinia, che lasciò le sue
sostanze (terreni e immobili di Via S. Martino) al Seminario
Vescovile di Brescia con l’impegno di aiutare in particolare
le vocazione sacerdotali locali. L’immobile (conosciuto come
Villa Sacro Cuore) in seguito è stato ritirato dalla parrocchia
di Capo di Ponte per realizzare l’Oratorio.
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RIZZI FORTUNATO
Archivio di Maffessoli Tommaso
Nato a Capo di Ponte nel 1880, si laureò all’università di Bologna discutendo la tesi col poeta Giosuè Carducci.
Si perfezionò in letteratura italiana a Firenze. Iniziò la carriera di insegnante al ginnasio di Sarzana per poi passare a
Parma come insegnante e preside.
Andato in pensione continuò a studiare ed a realizzare opere letterarie di vasta risonanza e notorietà.
Collaborò come giornalista con i principali quotidiani e riviste. Ha scritto molte poesie ispirate alla Patria ed alla sua
Valle Camonica. Grande merito gli viene attribuito per aver
salvato e reso decoroso il Monastero di S. Salvatore.
È morto a Parma Il 3 febbraio 1965.
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BONOMELLI DON ANTONIO CANDIDO
Archivio fotografico di Maffessoli Tommaso
Nato a Capo di Ponte nel 1895. Ordinato sacerdote nel 1921.
Nel 1931 viene inviato in Bulgaria quale addetto all’opera
italiana “Pro Oriente” e per ricoprire l’importante incarico di
segretario della Nunziatura Apostolica. Fu confessore della
regina Giovanna, la consorte del Re Boris. Godette dell’amicizia del defunto Papa Giovanni XXIII, allora Arcivescovo e
Delegato Apostolico in Bulgaria. Nel 1936 è in Africa Orientale presso l’ospedale da campo di Gondar (in Etiopia) dove
viene decorato della croce al valor militare. Nel 1941 è fatto
prigioniero a Cheren (in Eritrea). La prigionia dura fino al
1946, anno in cui fu chiamato in servizio come cappellano
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militare preso la Guardia di Finanza di Genova, poi a Messina e a Como. È morto il 16 marzo 1963.
Don Antonio Candido Bonomelli in Bulgaria
con il futuro Papa Giovanni XXIII
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PROF. DON LUIGI BRESCIANELLI
Nato a Capo di Ponte nel 1848. Ordinato sacerdote nel 1871.
È stato parroco a Malonno per 10 anni.
Grazie alla sua straordinaria preparazione teologica fu chiamato a Brescia per insegnare Teologia Morale e poi come
rettore del Seminario. È stato paziente ed erudito ricercatore delle comuni memorie in particolare nello studio sulle
origini delle famiglie. È morto nel 1917.
La raccolta dei suoi elaborati è oggetto di interesse per gli
studenti universitari che devono preparare delle tesi di laurea.
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Questo lavoro è il frutto di alcuni incontri nel corso dei quali gli anziani
hanno voluto condividere i loro ricordi belli.
L’iniziativa è stata proposta dall’Assessorato ai Servizi Sociali attraverso
la partecipazione ad un bando promosso dalla Comunità Montana di
Valle Camonica ed è stato presentato
a luglio 2008 durante un momento di
festa insieme agli anziani di altri comuni vicini.
Alcune persone si sono trovate presso
la sede degli anziani e pensionati di
Via Briscioli per iniziare un cammino
di ricerca e raccolta di testimonianze
sugli eventi e mestieri del passato che
non esistono più o si sono profondamente trasformati. Sono semplici e
brevi ricordi, sicuramente incompleti,
ma che riportano la nostra memoria
al vissuto degli anni passati.
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I RICORDI BELLI DEI NOSTRI ANZIANI