Vogliamo capire.
Senza retorica e senza delegare ad altri il compito di farlo per noi. Per capire occorre
regalare tempo ed energie allo studio e alla nostra voglia di rimanere umani.
Vogliamo capire perché non sempre ci viene detto tutto e soprattutto non sempre ci
viene detta la verità.
Sentiamo l’esigenza parole che ci aprano la mente, anche se fanno male. Abbiamo
l’esigenza di pensieri che non chiudano porte o alzino muri.
Piccoli strumenti per cominciare a interrogarci. Consapevoli di un limite; di essere schierati
dalla parte del dialogo, dell’accoglienza, della giustizia, della ricerca della verità.
Altrimenti non avrebbe senso fare tutto questo.
Altrimenti non saremo mai “sale e lievito” per questa terra. Non abbiamo la pretesa di
dare risposte a tutto su tutto; abbiamo però il desiderio di offrire l’opportunità ad ognuno
di non avere paure delle domande.
Certi che “Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non
disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi”.(2 Corinti 4, 8-9)
Cari fratelli e sorelle,
desidero esprimere il mio dolore per gli attacchi terroristici che nella tarda serata di venerdì hanno
insanguinato la Francia, causando numerose vittime. Al Presidente della Repubblica Francese e a
tutti i cittadini porgo l’espressione del mio fraterno cordoglio. Sono vicino in particolare ai familiari
di quanti hanno perso la vita e ai feriti.
Tanta barbarie ci lascia sgomenti e ci si chiede come possa il cuore dell’uomo ideare e realizzare
eventi così orribili, che hanno sconvolto non solo la Francia ma il mondo intero. Dinanzi a tali atti,
non si può non condannare l’inqualificabile affronto alla dignità della persona umana. Voglio
riaffermare con vigore che la strada della violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità e
che utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada è una bestemmia!
Vi invito ad unirvi alla mia preghiera: affidiamo alla misericordia di Dio le inermi vittime di questa
tragedia. La Vergine Maria, Madre di misericordia, susciti nei cuori di tutti pensieri di saggezza e
propositi di pace. A Lei chiediamo di proteggere e vegliare sulla cara Nazione francese, la prima
figlia della Chiesa, sull’Europa e sul mondo intero. Tutti insieme preghiamo un po’ in silenzio e poi
recitiamo l’Ave Maria.
[Ave Maria…]
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«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di
mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete
anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni
pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di
odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che
io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la
sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.
L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita
venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente
sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei
accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi
non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del
mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino.
Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni
giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché
no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».
3
Un venerdì sera d’autunno, con un tempo clemente. Fine settimana, tempo di uscite, momenti di
svago. La gioia di ritrovarsi tra amici, andare a un concerto, vedere una partita. Si sta insieme,
uomini e donne, tanti giovani. Piaceri diversi, secondo i gusti e la voglia, bere, fumare, ballare, stare
vicini, mescolarsi, sedursi, amarsi, insomma, andare gli uni incontro agli altri.
Basta mettere in fila queste parole semplici, per dire ciò che sentiamo tutti da ieri: ognuno di noi, i
nostri figli, i nostri genitori, i nostri amici, i nostri vicini, noi stessi, eravamo tutti nel mirino degli
assassini.
Perché il loro obiettivo non erano dei luoghi simbolici come negli attentati di gennaio, dei luoghi in
cui esprimere il loro odio per la libertà (Charlie Hebdo) o per gli ebrei (l’Hyper Cacher). Qualcuno
ha detto che i responsabili della carneficina di Parigi non avevano un obiettivo. È falso. Armati di
un’ideologia totalitaria, che usa la religione come pretesto per uccidere ogni forma di pluralità,
cancellare ogni diversità, negare l’individualità, avevano una missione: spaventare una società
che incarna l’ambizione opposta.
Al di là della Francia, della sua politica estera o di chi la governa, il loro obiettivo era l’ideale
democratico di una società libera, perché fondata sul diritto. Il diritto di avere diritti; la parità di
diritti, senza distinzione di origine, aspetto, credo; il diritto di farsi strada nella vita senza essere
inchiodati alla propria nascita o appartenenza. Una società di individui, in cui il “noi” è fatto di
infiniti “io” in relazione tra di loro. Una società di libertà individuali e diritti collettivi.
È questa società aperta che i terroristi vogliono chiudere. Il loro obiettivo è che la società si chiuda,
si ripieghi su se stessa, si divida, si rannicchi, si abbassi e si perda. È il nostro vivere insieme che
vogliono trasformare in una guerra intestina, una guerra contro noi stessi.
Quali che siano le circostanze, le epoche o le latitudini, il terrorismo scommette sempre sulla paura.
Non solo la paura che diffonde nella società, ma la politica della paura con cui lo stato reagisce:
4
una fuga in avanti dove al terrorismo segue la sospensione dei diritti democratici in una guerra
senza fine, senza fronti e senza limiti, senza altro obiettivo strategico che il suo perpetuarsi, in cui gli
attacchi e le risposte si alimentano a vicenda, le cause e gli effetti s’intrecciano all’infinito senza
che mai emerga una soluzione pacifica.
Per quanto doloroso, dobbiamo cercare di capire le ragioni del terrorismo. Per combatterlo
meglio, per non cadere nella sua trappola, per non dargli mai ragione, fosse pure per incoscienza
o cecità. Le profezie che si autoavverano sono il meccanismo su cui si basa la sua logica omicida:
provocare attraverso il terrore un caos ancora maggiore da cui trarre ulteriore rabbia, risentimento,
ingiustizia. Lo sappiamo per esperienza, abbiamo visto come la fuga in avanti statunitense dopo gli
attacchi del 2001 sia stata all’origine del disastro in Iraq, che ha generato il gruppo Stato islamico,
nato dalle macerie di uno stato distrutto e dalla disgregazione di una società violentata.
Riusciremo a imparare da questi errori catastrofici, o finiremo per ripeterli? Davanti a un pericolo
che riguarda tutti noi, non possiamo abbandonare il nostro futuro e la nostra sicurezza a chi ci
governa. Se è loro compito proteggerci, non dobbiamo però accettare che lo facciano contro di
noi, nonostante noi, senza di noi.
È sempre difficile formulare delle domande scomode all’indomani di eventi che colpiscono un
popolo intero, unito nella commozione e nello sgomento. Ma, collettivamente, non riusciremo a
resistere sul lungo periodo al terrore che ci sfida se non saremo padroni delle risposte che gli
verranno date. Se non siamo informati, consultati, mobilitati. Se ci viene negato il diritto di mettere
in discussione una politica estera di alleanze con regimi dittatoriali o oscurantisti (Egitto, Arabia
Saudita), una serie di avventure militari senza visione strategica (in particolare nel Sahel), le
innumerevoli norme di sicurezza che si moltiplicano inutilmente (e al tempo stesso minacciano le
nostre libertà), i discorsi politici miopi e di infimo livello (sull’islam in particolare) che dividono invece
di unire, che alimentano l’odio invece di rassicurare, che esprimono le paure dall’alto senza
mobilitare la società dal basso.
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Far fronte al terrorismo significa fare società, fare muro con tutto ciò che vogliono abbattere.
Difendere la nostra Francia arcobaleno, forte della sua diversità e della sua pluralità, questa
Francia capace di unirsi nel rifiuto del capro espiatorio e delle comode semplificazioni. Questa
Francia che nel 2015 ha tra i suoi eroi anche musulmani, così come atei, cristiani, ebrei, massoni,
agnostici, di tutte le provenienze, culture o fedi. La Francia di Ahmed Merabet, il poliziotto di
origine algerina ucciso di fronte alla sede di Charlie Hebdo. La Francia di Lassana Bathily, l’ex
immigrato irregolare originario del Mali che ha salvato molti ostaggi nell’Hyper Cacher. Questa
Francia rappresentata, nella lunga notte parigina del 13 novembre, dai tanti soccorritori, operatori
sanitari, medici, poliziotti, soldati, vigili del fuoco, dai tanti gesti di buona volontà, dalle mille
solidarietà figlie di questa diversità che fa la ricchezza della Francia. E anche la sua forza.
Nel Regno Unito, dopo gli attentati del 2005, la società si unì spontaneamente intorno allo slogan
lanciato su internet da un ragazzo: “We’re not afraid”, non abbiamo paura. In Spagna, dopo gli
attacchi del 2004, la società si strinse intorno a un simbolo: le mani alzate, con i palmi aperti,
disarmate, ma allo stesso tempo determinate.
No, non abbiamo paura. Tranne di noi stessi, se ci arrendiamo alla paura. Tranne dei nostri politici,
se ci inducono in errore e ci ignorano. Gli assassini vorrebbero chiudere la nostra società, noi ci
batteremo perché resti aperta, più che mai. Il simbolo di questo rifiuto potrebbero essere due mani
che si incontrano, si stringono e si fondono, tendendosi l’una verso l’altra.
Due mani incrociate.
(Traduzione di Chiara Nielsen)
tratto da http://www.internazionale.it/opinione/edwy-plenel/2015/11/15/parigi-terrorismo-paura
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Terrorismo e immigrazione. Di fronte alla tragedia di Parigi i gesuiti provano a dare risposte diverse
da quelle dure proposte da alcuni in queste ore. Frutto di una lettura coraggiosa, umana e
ragionevole insieme, sulla scia delle parole di papa Francesco. Sabato 14, nelle ore calde della
commozione, aprendo un seminario organizzato da tempo e dal titolo “Immigrazione e asilo: le
sfide del Mediterraneo”,
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(Qui la lo streaming dell’incontro http://livestream.com/laciviltacattolica/immigrazione ) presso la
sede della Civiltà Cattolica, Francesco Occhetta, scrittore della storica rivista, afferma con
nettezza: “davanti ai morti di Parigi e di quelli che li hanno preceduti negli ultimi attentati, in questo
clima di paura noi oggi potremmo rischiare di associare terrorismo con immigrazione; sarebbe la
trappola più grande a livello culturale e se cascassimo in questa trappola faremmo il gioco del
terrorismo.”. Ci sono diversi problemi, ammette Occhetta, (prevenzione, globalizzazione,
intelligenze e sicurezza, Siria, responsabilità dell’Occidente), che però richiedono tempi e contesti
diversi. Oggi abbiamo chiesto uno sforzo culturale più ampio: parlare di immigrazione e asilo, “una
dimensione più ampia che tocca la storia – dice il gesuita - processi immigratori inarrestabili, che
nella storia hanno già vissuto periodi molto simili. Quindi parlare di immigrazione significa affondare
l’analisi oltre la cronaca. Perché quando i popoli si muovono cambiano la storia e non solamente il
quotidiano”.
A introdurre con alcuni numeri di contesto è Sandra Sarti - Vice capogabinetto del ministero
dell'Interno, coordinatore dell’ufficio relazioni e Affari internazionali. “Il terrorismo, dice, ha
infangato il tema della migrazione. Il fenomeno migrazione include gente che cerca un rifugio,
che scappa dalla paura di situazioni insostenibili. Il terrorismo cerca solo la morte”. Sono le sue
prime parole di apertura “Nel Mediterraneo si sta riscrivendo la storia dell'Europa. Dal 2013
crescono gli sbarchi. Nel novembre del 2015 sono stati accolti 142.550 immigrati, non sono diminuiti,
ma si sono spostate le rotte: il Mediterraneo oggi lascia passare il 30% delle migrazioni irregolari e
non più quel 70-80% come era prima di quest’estate.”. E, con un accento di fierezza sull’operato
delle istituzioni del nostro Paese, sottolinea come sia “importante dire quanto lo Stato fa per terra e
per mare, dai militari, alla guardia costiera, alle Ong che continuano a cooperare per salvare vite
umane. Anche la marina mercantile, per fini umanitari raccoglie le persone e devia i propri
percorsi con svantaggi economici”. In 14 anni, dal 2000 al 2014, sono stati oltre 508.000 i migranti
sbarcati in modo irregolare in Italia, quindi un impatto diluito nel tempo, di fronte agli ultimi enormi
arrivi, obiettivamente inferiore a quello che è avvenuto questa estate”.
“Con Mare Nostrum – di cui tutta l’Europa ci riconosce il valore e i risultati - in 563 interventi si sono
salvati 101000 migranti soccorsi, di cui 12000 minori non accompagnati e 728 scafisti arrestati.” Poi
c’è stata Triton e l’evoluzione con gli accordi europei di cui la Sarti ha dato una veloce
ricostruzione. Insomma, dati rilevanti che danno dell’Italia un’immagine positiva ed efficiente,
mentre l’Europa sembrava spesso non voler capire (o capire in ritardo) e che si ostina a pensare
che il problema (vedi trattato di Dublino) sia solo dei Paesi di frontiera e che a loro spetta la ricerca
di soluzioni, con il parziale aiuto economico o della ricollocazione di quote di immigrati, favorita da
alcuni Paesi Ue.
“Ma se è vero che tanti passi sono stati fatti, ora - per padre Camillo Ripamonti presidente del
Centro Astalli http://centroastalli.it/ – bisogna superare questa visione in difesa. Dobbiamo
cambiare la prospettiva e passare a quella che considera il mondo come una Casa comune.”.
“Chi vuole percorrere la via dello scontro di civiltà – afferma con forza - sia sconfessato!” “Dopo
quello che abbiamo visto ieri sera può essere un affermazione irritante. Verrebbe da rispondere
colpo su colpo. Ma questa è una via perdente”, ribadisce. “La vera soluzione è l'accoglienza
accompagnata dall'integrazione: così si sconfigge la violenza dell'uomo contro l'uomo. Occorre
avere uno sguardo diverso. L'Italia sta compiendo un percorso difficoltoso, ma è l'unica via
lungimirante che ci permetterà di far convivere persone di diverse culture e religioni.” E conclude:
“Siamo stati tra i primi a soccorrere in mare, ma non basta più. È urgente creare delle vie sicure di
accesso all'Europa. Tanto i numeri ci confermano che le persone che scappano da situazioni di
guerre e di persecuzioni, in Europa arrivano lo stesso, rischiando e morendo. Allora non possiamo
più permetterci che si affidino ai trafficanti. Ci sono già delle vie concrete per poter fare questo
(rivedere le norme per i visti umanitari, o sul ricongiungimento familiare …), occorre non rimandare
più. La risposta dell'Europa è stata finora scomposta. Ci si è chiusi attraverso la logica del consenso
popolare. Non è la via che porterà l'Europa a un futuro fiorente. Le migrazioni fanno parte di tutta
la storia dei popoli e di tutte le culture. L'unica cosa su cui potremmo già intervenire, e invece su
cui siamo in ritardo, è la soluzione dei conflitti che generano queste migrazioni, ma purtroppo
anche su questo l'Europa nella sua politica internazionale, ha avuto un atteggiamento scomposto,
e non ha saputo affrontare con le dovute misure le guerre che sono alle nostre porte, pensiamo
alla Siria”. Infine: “dobbiamo valutare fino in fondo quali siano i Paesi considerati “sicuri” e dai quali
si scappa, per considerare le persecuzioni, anche personali, e garantire il riconoscimento delle
procedure di Asilo: “Sarebbe molto grave creare dei rifugiati di serie A e dei rifugiati di serie B”.
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Si dice d’accordo con il profilo dell’impegno del governo descritto dalla Sarti su questo fronte, ma
con due perplessità non secondarie. Ad esprimerle è – in chiusura – Giovanni Maria Flick, ex
ministro della Giustizia del primo governo Prodi e presidente della Corte costituzionale, e
soprattutto rappresentante italiano della Commissione europea per i diritti umani: “Oltre ai
‘miracoli’ dei salvataggi in mare e la buona volontà e l’impegno c’è anche una buona dose di
inefficienza esecutiva e penso alla lunghezza dei tempi di valutazione delle domande di asilo. E
questo non dipende dalla politica, ma dall’esecuzione. E poi, e questo mi indigna particolarmente,
c’è anche la corruzione che è arrivata ad inquinare l’aiuto umanitario alle persone più deboli”.
Il giurista esprime poi anche una più forte preoccupazione: che il cambio di prospettiva invocato
da Ripamonti vada in senso opposto, cioè un rafforzamento delle misure di contrasto
all’immigrazione, sull’onda delle paure suscitate dagli attentati di Parigi. “Ho il timore che si
sovrapponga la paura dell'immigrazione con quella del terrorismo, e le prime parole pronunciate
ieri dopo gli attentati (dichiarazione di guerra, chiusura delle frontiere) sembrano andare in quella
direzione. Ma non è quella la soluzione”, avverte il costituzionalista. “Gli attentatori sono francesi
addestrati nei paesi stranieri. A chi dichiariamo guerra? All'Isis? Come l'11 settembre, quando
abbiamo bombardato il deserto? Ormai siamo di fronte ad un terrorismo ‘glocale’”. E precisa: “Sì,
penso che si debba lavorare sull'intelligence, su più strette misure di sicurezza, magari anche con
limitazione, in un certa misura, di alcuni diritti, penso alla libertà di espressione sul web o i controlli in
aeroporto. Ma bisogna non cadere nella trappola di alimentare le fabbriche della paura e arrivare
allo scontro di civiltà che è proprio quello che vogliono i terroristi”.
Uno degli assi fondamentali, per Flick, è un discorso di verità: capire chi sono e da dove vengono i
migranti (riconsiderati nel quadro della “cultura dello scarto” di cui parla spesso papa Francesco)
“e dare loro una mano a capire dove andranno. Sennò continueremo a coltivare l'illusione in chi
parte di trovare qui un paradiso e in chi accoglie la paura di mettersi in casa criminali.”
Il primo passo – per Flick - è avere la consapevolezza che la legislazione è abbastanza ambigua.
Perché abbiamo tre categorie d’immigrati, i rifugiati, i richiedenti asilo e il ‘calderone’ dei migranti
economici. Questo è ancora più complicato in un quadro europeo. Bisogna chiarire.
Infine: “Dobbiamo prendere atto che la sequenza salvare la vita/accogliere/ integrare non si può
spostare.” Dobbiamo superare una serie di luoghi comuni. Esempio: le migrazioni andrebbero viste
non più come fattore di crisi, ma persino come opportunità di crescita per la nostra Europa in
profonda crisi demografica.
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“Dovremmo - conclude -, con tutta la calma e la pazienza possibile, cercare di coltivare la cultura
non dell'appartenenza, ma della partecipazione, che ci dovrebbe portare ad affrontare in modo
diverso il tema della Cittadinanza. Abbiamo una Costituzione affascinante, che dovremmo
rileggere prima di riscriverla. All’art. 2 “ci ricorda che ci sono diritti inviolabili che vanno a braccetto
con i doveri inderogabili di solidarietà. Tutti, e non solo i cittadini, hanno pari dignità sociale, perché
dopo la guerra, la Shoah e tutto quello che l’uomo ha saputo ‘combinare’ si è messo al centro la
persona e non più solo il cittadino”.
Tratto da: http://www.vita.it/it/article/2015/11/15/i-gesuiti-associare-terrorismo-e-immigrazionesarebbe-una-trappola/137397/
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Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame
austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il
panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di
tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi
nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già
grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell'
immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall' America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma
è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una
corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come
ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l' impressione di stare in un mondo assolutamente diverso
dal tuo. Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori
che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri.
Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra
morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione. Il tuo sfogo mi
ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e
taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all' indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale,
alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un
assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le
parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi
giorni dell' umanità, un' opera che sembra essere ancora di un' inquietante attualità. Pensare quel
che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua
brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi
inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L' orrore indicibile è appena
cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di
ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole,
pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia
dell' odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende
pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l' uccidere.
«Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza
delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell' anima di
Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l' uomo non si metterà di sua volontà all' ultimo posto fra le altre
creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di
questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di
offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna
militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero
che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c' è
stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa. Quel che
ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo
di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo
in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d' aver davanti
prima dell' 11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all'
inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono
tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali.
Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra
disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora
dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati
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di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza
del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - ora in
Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora
più orribile e poi un' altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di
chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di
poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.
Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari,
armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d' impegnarsi solennemente con tutta l'
umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità.
Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio
morale - di per sé un' arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l' orrore
indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un
bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in
Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart
(L' arte di non essere governati: l' etica politica da Socrate a Mozart). L' autore è Ekkehart
Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all' Università di Berlino. La
affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal
superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni
miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all' uomo la necessità
di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma
Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è
anche una protezione -, lo condanna all' esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è
degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una
funzione determinante nella formazione dell' uomo occidentale perché col suo mettere sulla
scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue
possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della
violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi
occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni
ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te,
Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni
giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si
fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in
Giappone, sull' isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero
addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di
andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l' Imperatore. I kamikaze mi interessano perché
vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell' innaturale atto che è il suicidio e che cosa
potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi
moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'
ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di
condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si
risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia
umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c' è raramente una correlazione diretta e
precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono,
assieme a quell' evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di
effetti. L' attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti
antecedenti. Certo non è l' atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la
conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è
neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica
formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell' Università di Berkeley, un uomo certo
non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione
completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell' 11 settembre non hanno attaccato l' America:
hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation
12
del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l' ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l' anno scorso (in
Italia edito da Garzanti ndr) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo
«contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell' Unione
Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni
militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto
della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l' elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di
Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei
quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa,
in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il «contraccolpo»
dell' attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di
questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito
dall' installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle
truppe americane nella penisola araba, in particolare l' Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'
Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava
gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si
spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto
sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l' analisi di Chalmers Johnson, è
evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c' è, a
parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare
nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è
stata la trappola. L' occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza
economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una
ventina d' anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d' essere coinvolti
nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più
disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo
comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo
così anche l' Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal
presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri. A proposito del petrolio,
Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo
sull' Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto
d' essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di
metano e petrolio dell' Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte,
improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l' India e da lì nei paesi del Sud Est
Asiatico. Il tutto senza dover passare dall' Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel
1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al
Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera
americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col
Turkmenistan a costruire quell' oleodotto attraverso l' Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i
discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l' imminente attacco contro l'
Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È
per questo che nell' America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la
combinazione fra gli interessi dell' industria petrolifera con quelli dell' industria bellica combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per
limitare all' interno del paese, in ragione dell' emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle
straordinarie libertà che rendono l' America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo
americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l' aggettivo
«codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi
programmi e l' allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno
aumentato queste preoccupazioni. L' aver diviso il mondo in maniera - mi pare - «talebana», fra
«quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da
caccia alle streghe di cui l' America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando
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tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o
loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo
attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello
stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra
cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l' aria ai nostri polmoni. Io
non pretendo affatto d' aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non
faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre
delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell' establishment
mediatico, c' è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l' America ci mettesse già
paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica
nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell' America che per due volte ci
ha salvato. Ma non c' era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i
politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l'
angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un
piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini,
una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici. Siamo
fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume,
abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche
grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto
«a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said,
professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali
uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel
semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come
la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani
da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro
quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo
semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione
di religione, anche che cosa è l' Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da
te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l' arabo, oltre ai
tanti che già studiano l' inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo
nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che
parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla
in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di
soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti
valgono di più di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne
vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il
suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per
andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a
malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro.
Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l' assedio di Damietta in Egitto, amareggiato
dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa
battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne
catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c' era ancora la Cnn era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell' incontro. Certo fu
particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al
mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all' accampamento dei crociati. Mi
diverte pensare che l' uno disse all' altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il
Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d' accordo sul messaggio che il poverello
di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che,
siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di
buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può
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voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi
eravamo ragazzi? Riguardo all' orrore dell' olocausto atomico pose una bella domanda: «La
sindrome da fine del mondo, l' alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l' uomo
più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo
rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l' uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein
nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l' evoluzione psichica dell' uomo in
modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell' odio e della distruzione?» Freud si
prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c' era da sperare: l' influsso di due fattori
- un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe
dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud
gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però
sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua
casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all' umanità un ultimo appello
per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto». Per difendersi,
Oriana, non c' è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c' è
bisogno d' ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M' è sempre
piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della
non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500
persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante,
sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell' acqua ad affogare per salvare
gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore
della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che
sono il frutto dell' incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I
gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di
tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni
e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle
contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della
Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall' India agli americani,
ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una
come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare
una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga
portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile
dell' esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un
terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L' immagine del terrorista che ora ci
viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana
nelle montagne dell' Afghanistan, ordina l' attacco alle Torri Gemelle; è l' ingegnere-pilota, islamista
fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che
con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però
accettare che per altri il «terrorista» possa essere l' uomo d' affari che arriva in un paese povero del
Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica
chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in
un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che
ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione
di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in
operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente
portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non
essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio
solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte
anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da
debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell' essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di
sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però
sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di
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massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si
debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il
cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c' era scritto sullo
striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse
quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si
preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po' più di
moralità. La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando
vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo
perché ora tornano comodi, è solo l' ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta
il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti,
per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di
legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il
paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha
ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la
messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L'
interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington
riscopre l' utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni
economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di
nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel
mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà
ricongiungersi con l' etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a
Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo,
questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell'
Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città
bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola
e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo,
perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno
attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s' è «globalizzata», perché non ha resistito all'
assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni
da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica,
un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A
tanti negozi di moda. Credimi, anch' io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch' io ritirato, in una
sorta di baita nell' Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da
solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro,
col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La
natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci
anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi
altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza
come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai
davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d' erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà
anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è
dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.
La «Lettera da Firenze» di Tiziano Terzani è una risposta alla «Lettera da New York» di Oriana
Fallaci pubblicata dal «Corriere della Sera», sabato 29 settembre 2011, con il titolo «La Rabbia
e l' Orgoglio»
Tratto da:
http://archiviostorico.corriere.it/2001/ottobre/08/Sultano_San_Francesco_co_0_0110082774.shtml
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Si entra in classe. Gli attentati di Parigi rimbalzano su tutto il web e nella testa dei ragazzi. Il ministro
Giannini ha invitato tutte le scuole a parlarne. Ma come aiutare i ragazzi a orientarsi e capire? Un
giornalista di lunga esperienza ha preparato un percorso di domande e risposte ad uso degli
insegnanti e dei ragazzi
«Porta Aperta deve essere anche la nostra risposta. Non possiamo restare indifferenti, paralizzati e
chiuderci nelle nostre paure. Porte Aperte significa anche coinvolgere la cittadinanza, le famiglie.
Le nostre scuole, le nostre università, i nostri centri di ricerca sono il primo luogo dove l'orrore può
essere sconfitto»: così il ministro Giannini si è appellata a tutti gli insegnanti italiani.
Nelle nostre scuole ci sono 302mila studenti musulmani, pari al 3,3% degli studenti. Sono aumentati
di quasi 4 volte rispetto al 2001. Come spiegare in classe quello che è successo a Parigi, a Beirut, in
Siria, in Africa? Come evitare che la diffidenza si insinui nel rapporto tra gli studenti italiani e quelli
stranieri di religione musulmana, che gli siedono accanto?
Qualche tempo fa su Vita un giornalista di grande esperienza, Alessandro Banfi, direttore di
Tgcom24, ha scritto un vademecum per insegnanti e ragazzi:
Partiamo dalla definizione. Isis significa Stato Islamico di Siria e Irak. In arabo si pronuncia “daesch”,
se accendete Al Jazeera International e l’ascoltate per un po’, anche in inglese sentirete spesso
citare questa parola araba. Isis è il primo nome di questa formazione che nasce proprio nel
territorio fra la Siria e l’Irak. In una seconda fase, sulla base di una loro espansione militare, hanno
deciso di chiamarsi solo Is, Stato islamico. Molti media americani, preferiscono questa seconda
dicitura perché fa dimenticare l’Irak… Prendete Google Map e cercate Raccah, in Siria: è una
delle due capitali di questo territorio interstatale. Adesso cercate le indicazioni stradali verso Mosul,
in Irak. Ecco: questa fra le due “capitali” è la zona controllata militarmente dall’Isis e dove già oggi
ha realizzato il regi me del Califfato.
Questa (*vedi a pag. 20). è la cartina di propaganda dell’Isis e la potete trovare sulla rivista Oasis,
una delle fonti sul Web che vi segnalo per capirci qualcosa, fondata dall’attuale cardinale di
Milano, Angelo Scola. Sul sito www.oasiscenter.eu c’è un articolo fatto molto bene – domanda e
risposta – che si intitola: “Lo Stato Islamico spiegato a mio figlio” (*vedi a pag. 20). Hanno preso
degli esperti di Islam e di Isis e hanno fatto un approfondimento divulgativo. E pubblicano una
cartina in cui si vedono le zone nere, vero obiettivo del Califfato. Tutto il Nordafrica, fino al
Centrafrica (è diventata nelle ultime settimane ufficiale l’alleanza dell’Isis con gli estremisti di Boko
Haram), e il Medio Oriente, ma anche i Balcani e tutta la Grecia fino a Trieste, le repubbliche
caucasiche, la Georgia, l’Azerbaigian, il grande Kazachistan , Afghanistan e Pakistan fino ai confini
di Cina e India. A occidente tutta la Spagna. Questa mappa propagandistica esprime molto più
delle parole, la terribile minaccia di dominio militare e territoriale, spiega il genocidio che si sta
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diffondendo dall’Irak e dalla Siria e arriva, nelle aspirazioni dei terroristi, fino al Mediterraneo, al Mar
Nero e al Mar Caspio.
Il punto in comune è tragico: entrambe sono invenzioni occidentali. Nel loro inizio. Al Qaeda è una
sigla inventata dagli americani. Vuol dire la rete, ed era un network islamico patriottico, all’origine
anti sovietico, finanziato dalla Cia. Osama Bin Laden, dieci anni prima delle torri gemelle era un
agente della Cia che aveva messo su Al Qaeda come rete patriottica islamica anti Milosevic. L’Isis
nasce anche grazie all’incoraggiamento occidentale in chiave anti-Assad, il dittatore siriano.
Contro il quale ancora un anno e mezzo fa gli Usa volevano fare la guerra. L’Occidente ha sempre
un nemico, presentato come il nuovo Hitler, contro il quale tessere alleanze diciamo spregiudicate.
L’Isis si sviluppa come patriottismo islamico antisiriano in una terra di nessuno. Terra di nessuno che
per anni e anni è stata alimentata prima dalla guerra Iran-Irak, pensate quanti anni fa, e poi dalla
guerra americana e la destituzione di Saddam Hussein. Il guaio è che dopo quella guerra non si è
formato un Irak, in grado non dico di essere una democrazia, ma di mantenere una convivenza
ordinata. Se vi ricordate, insieme al dittatore, fu spazzata via tutta la classe dirigente, il famoso
mazzo di carte di Bush… Il quotidiano Libero aveva regalato il mazzo di carte con 54 grandi leader
ricercati in tutto il mondo, iracheni, di cui molti erano cristiani. Fu completamente tagliata la testa
di quella struttura statale… Un grande giornalista italo svizzero, Marcello Foa, ha un Blog in Italia
molto seguito (blog.ilgiornale.it/foa/ ), ancora nel dominio del Giornale.it, perché aveva lavorato
con Montanelli. Foa è uno dei pochi che ha ricordato, con dettagli, l’appoggio americano alla
nascita dell’Isis. La differenza fondamentale è che mentre Al Qaeda faceva gli attentati spedendo
le persone spesso dal Medio Oriente, l’idea dell’Isis è conquistare territorialmente questa parte del
mondo e creare il Califfato islamico. Che cos’è il Califfato islamico? La cosa mostruosa, e
giustamente gli studiosi di Islam più seri lo mettono in luce, è che nella tradizione islamica il Califfato
rappresenta un momento illuminato, ad esempio nell’alto Medio Evo. Se studiate la storia di
Gerusalemme scoprite come i primi che hanno, non dico praticato la tolleranza religiosa, ma
hanno cominciato a non uccidere quelli delle altre religioni, furono proprio loro i Califfi. Il Califfato
rappresenta nella storia un esempio di tolleranza, di civiltà, di multiculturalità; non si uccidevano gli
ebrei e i cristiani sotto gli Omayaddi. Ecco perché è ancora più mostruosa la caricatura che ne
viene fatta dall’Isis. Il Califfato come conquista territoriale, dove loro conquistano il territorio,
impongono la loro legge e vengono uccisi e schiavizzati cristiani, sciiti – musulmani sciiti – yazidi,
curdi, ecc. e tutti coloro che sono diversi da loro.
L’Isis si rifà al Wahabismo.
È una corrente di pensiero della fne dell’800, sunnita, (perché l’Islam è diviso in tradizioni sciita e
sunnita, sia etnicamente che religiosamente) che è un modo di interpretare ideologicamente e
politicamente il Corano. D’altra parte la fne dell’800 è una stagione in cui le ideologie cercano di
laicizzare le religioni. Theodor Herlz fonda il sionismo nel 1897, cioè lancia l’idea che Israele può
diventare uno Stato. Prima non c’era quell’idea. Non si tratta di vera religione. Non si tratta di Islam,
di Corano. È un’ideologia politica che usa la religione per un progetto di egemonia militare,
territoriale, economica e politico-giudiziaria. Qualcuno dice simmetricamente uguale al sionismo
israeliano. Purtroppo nell’Islam non esiste un’autorità spirituale unica. Ma la più grande Università
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islamica, quella di Al Azhar, ha emesso a più riprese dichiarazioni e sentenze contro l’Isis e l’uso
della religione, condannando il terrorismo. Il presidente egiziano Al Sisi, prima dei fatti di Parigi e di
Tunisi, ha pronunciato uno storico discorso proprio ad Al Azhar, in cui ha chiesto alla cultura
islamica di tutto il mondo di reagire al terrorismo compiuto in nome di Allah e del Corano. La regina
Ranja di Giordania in una dichiarazione pubblica ha lanciato un appello perché non si usi più
l’aggettivo islamico parlando dei terroristi dell’Isis. Si fa sempre il paragone, in parte fondato, che
una sconftta culturale e “sociale” del terrorismo islamista può avvenire solo “all’interno” della
sinistra islamica, un po’ come capitò per le nostre Brigate Rosse e la sinistra.
Secondo tutti gli analisti le fonti di denaro sono tre: l’aiuto di Stati arabi come il Qatar, il
contrabbando del petrolio estratto dai numerosi pozzi conquistati, la vendita clandestina, anche
qui internazionale, di opere d’arte depredate da musei e luoghi di culto, sempre nelle zone sotto il
loro controllo. Prima fonte: i vicini consenzienti. Il governo di Baghdad (quello ufficiale rimasto) ha
stimato in 2 miliardi di dollari il capitale “liquido” che farebbe dell’Isis, il gruppo terrorista più ricco
del pianeta. Maurizio Molinari nel suo instant book appena uscito, Il Califfato del terrore, scrive: «I
fondi raccolti in Qatar hanno consentito all’Isis di acquistare armamenti dell’ex Europa dell’Est con
sede in Turchia». A noi occidentali pare abnorme che capitali del Qatar comprino i grattacieli nel
centro di Milano e insieme finanzino il terrorismo. Ma non bisogna dimenticare che questi donatori,
di fede sunnita, vogliono finanziare chi combatte il nemico sciita (Iran) e l’odiato Assad (Siria).
Seconda fonte: l’oro nero. Il 22 settembre scorso il Financial Times è uscito con una pagina intera
intitolata “Fueling Isis Inc”, che potremo tradurre: “Rifornendo di benzina l’Isis spa”. Un titolo ironico,
molto inglese. Che cosa viene fuori? Nel territorio conquistato ci sono molti pozzi di petrolio, la cui
estrazione è semplice. L’Isis vende i suoi barili al mercato nero attraverso i contrabbandieri turchi. I
turchi sono molto esperti, la Turchia è geograficamente limitrofa ed è governata da Erdogan,
leader molto ambiguo nei confronti dell’Isis. Storicamente i turchi sono dei formidabili
contrabbandieri e hanno fatto mercato nero di petrolio già durante la guerra Iran-Irak, quella degli
anni ’80. Il paradosso è che quando voi andate a fare benzina tranquilli e sereni, magari state
finanziando l’Isis. Capite? Il mondo è piccolo, più di quanto pensiate, perché i contrabbandieri
turchi comprano dai miliziani migliaia di barili di petrolio greggio e li vendono a prezzo scontato alle
grandi multinazionali. Terza fonte: le opere trafugate. Tutti hanno visto nei video girati dai terroristi
con la distruzione delle sta - tue assiro babilonesi dell’antica Ninive del museo di Mosul. Ma quella è
soprattutto propaganda. Gli esperti stimano che nel mercato nero delle opere d’arte i traffici
illegali dell’Isis abbiano fruttato all’organizzazione terroristica almeno 36 milioni di dollari. Irina
Bobkova, direttore generale dell’Unesco, ha detto che saccheggi, distruzioni, depredazioni sono
una vera e propria «pulizia etnico-culturale di stampo barbarico».
Dall’inizio delle operazioni militari contro il Califfato da parte degli americani di metà settembre
2014, non si può certo dire che l’Isis abbia perso territori o forza. La domanda, nel nostro mondo, è
sempre la stessa: si vuole combattere davvero il terrorismo islamico? Il Re Abdullah di Giordania ha
lanciato una vendetta militare di 72 ore, dopo la sadica uccisione pubblica del pilota giordano
catturato dai terroristi, e quell’operazione di ritorsione ha ridotto del 20 per cento la forza mi - litare
dell’Isis. Quando gli egiziani, a loro volta, hanno reagito alla de - capitazione dei cittadini copti,
l’ambasciatore del Qatar al Cairo è stato richiamato in patria, in clamoroso segno di protesta. L’Isis
oggi non ha aerei. Secondo la maggior parte dei servizi militari, il loro esercito conta sui 30-40mila
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miliziani, di cui almeno 3mila di provenienza occidentale, i cosiddetti “foreign fighters”. Giovani,
spesso di seconda generazione e che lasciano il loro Paese: Francia (1050), Regno Unito (750),
Germania (600), Belgio (400) per unirsi alla guerra del Califfato. I miliziani hanno molti pick up e
kalashnikov e qualche migliaia di carri armati, sottratti agli eserciti dell’Irak e della Siria.
I miliziani del Cali fato sono grandi comunicatori globali. Fabbricano video delle loro terribili
esecuzioni, che mostrano anche in pubblico. Il filmato del pilota giordano bruciato vivo nelle
gabbia è stato proiettato nella piazza principale di Raccah di fronte ad una grande folla. In quel
caso la modalità dell’esecuzione era stata decisa in base ad un referendum popolare via internet.
Usano infatti il web e i social network con grande facilità e naturalezza. I video, confezionati in stile
hollywoodiano, hanno sempre un carattere sadico, molto ostentato. La maggior parte dei mass
media occidentali non mostra mai i video, quantomeno nel - la loro interezza cruenta e crudele,
ma ne dà sempre notizia e gli stessi video sono sempre disponibili in rete. C’è un dibattito in
Occidente su come e quanto dare spazio nei nostri strumenti di comunicazione ai messaggi
dell’Isis, ma lo “staccare la spina” appare quanto mai velleitario, soprattutto nel mondo dei new
media.
La rivista dell’Isis in lingua inglese si chiama “Dabiq”. Dabiq è una città del Nord dell’Irak dove,
secondo una certa interpretazione della religione islamica, ci sarà la fine del mondo, al termine di
una battaglia finale (vinta) contro i crociati. Insomma, l’Armageddon islamico. È un fatto che
quando i miliziani dell’Isis nella loro campagna militare hanno raggiunto la città di Dabiq hanno
fatto un’enorme festa. Partendo da qui lo studioso Graeme Wood ha scritto un lungo saggio sulla
rivista americana The Atlantic (theatlantic.com) in cui sostiene il carattere profondamente
apocalittico dell’Islam stesso. Tesi cui ha risposto un’altra grande rivista americana, New Republic
(newrepublic.com), sostenendo che il millenarismo e l’Apocalisse non sono affatto islamici. Semmai
sono un problema occidentale e specificamente americano.
Fra i video più conosciuti dell’Isis ce n’è uno che sembra il film La grande bellezza, per dire quante
in - quadrature o fre della città eterna, che però si conclude col fotomontaggio della bandiera
nera issata su San Pietro. Memorabile il messaggio via twitter, legato all’ingresso in Libia: «Siamo a
sud di Roma». I tifosi ro - manisti hanno messo uno striscione di risposta ironica, che è insieme critico
verso i calciatori giallorossi: «Se arriva l’Isis a Roma, pareggia».
Tratto da: http://www.vita.it/it/article/2015/11/16/prof-ma-cose-questo-isis/137402/
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MD: In Iraq è in atto un genocidio, da parte delle milizie sunnite dello Stato islamico, ai danni delle
minoranze religiose e di chiunque non si riconosca nella loro versione di Islam. La causa immediata
di questo genocidio è la guerra in Siria che è cominciata nel 2011 per rovesciare Asad. Nelle file
dell’opposizione siriana infatti hanno prevalso i gruppi più fondamentalisti, appoggiati anche da
molti combattenti stranieri. Ma la guerra è potuta transitare dalla Siria all’Iraq con grande facilità
perché questo Paese non si è mai veramente stabilizzato dopo il rovesciamento di Saddam Hussein
da parte degli americani. Più in profondità, esiste nella regione una secolare rivalità tra sunniti e
sciiti, due tipi diversi di Islam, che in Iraq sono numericamente quasi alla pari. E qui entrano in gioco
anche gli interessi dei Paesi vicini, in particolare dell’Iran sciita e dei sunniti wahhabiti dell’Arabia
Saudita, che cercano di sfruttare questa rivalità per fini politici. L’ideologia wahhabita-saudita, dal
XVIII secolo in avanti, è un grave fattore di destabilizzazione, perché insegna un Islam duro e puro
che si proclama come l’unico autentico.
MB: Il califfato è un’istituzione classica dell’Islam. Letteralmente il termine califfo (khalîfa) indica
colui che succede a Maometto nella guida della comunità islamica per “salvaguardare la
religione e gestire gli affari terreni”. Dopo i primi califfi, definiti i “ben guidati”, il califfato ha assunto prima con la dinastia omayyade (661-750), e soprattutto con quella abbaside (750- 1258) - i
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caratteri di un impero multietnico e multi-religioso a vocazione universale. In epoca moderna,
dopo l’abolizione del califfato ottomano nel 1924, califfato è diventato sinonimo di “Stato
islamico”. L’organizzazione dello Stato islamico incarna nel modo più radicale il mito della
costruzione di un’entità politica fondata su un’interpretazione rigorista della Legge islamica,
un’entità che probabilmente non è mai esistita nei termini in cui è proposta oggi.
MB: Lo Stato Islamico non è mai stato un affiliato di Al-Qaida anche se al momento della sua
costituzione in Iraq (2006) al-Qaida ne ha sostenuto le attività. È stata la guerra in Siria a spezzare la
loro alleanza, tanto che oggi sono due soggetti concorrenti. Lo Stato Islamico punta all’istituzione
immediata di un’entità politica in cui si applichi la sharî’a e vengano eliminate tutte le forme di
Islam che divergano dalla sua visione rigorista. I sostenitori di Al-Qaida pensano invece a
un’istituzione più graduale del califfato. Inoltre, mentre Al-Qaida ha agito e agisce soprattutto a
livello globale con operazioni terroristiche spettacolari anche in Occidente (tra tutte la distruzione
delle torri gemelle) e la creazione di molti fronti locali, lo Stato Islamico punta invece a concentrare
gli sforzi sull’istituzione di uno Stato dotato di una propria capacità di espansione.
MB: Lo Stato Islamico copre un territorio a cavallo tra Siria e Iraq che conta circa 4 milioni di
abitanti, è sicuramente dotato di molti mezzi tecnologici ed economici, impossibili senza ingenti
finanziamenti esterni. Lo dimostrano le sue capacità propagandistiche e mediatiche e le sue
dotazioni militari, al momento superiori sia a quelle delle forze governative irachene che a quelle
dei combattenti curdi (peshmerga). Per fare solo un esempio, ha appena conquistato una base
militare siriana grazia anche all’uso di droni. L’ambizione dello Stato islamico è sicuramente la
creazione di un’entità statuale territoriale stabile in grado di pesare politicamente sulla scena
mediorientale e di agire sull’immaginario dei militanti jihadisti di tutto il mondo.
MB: Lo Stato Islamico è sostenuto da una giovane generazione di jihadisti di varia provenienza. Tra i
suoi detrattori vi sono invece gli ideologi jihadisti della vecchia generazione, che fanno riferimento
ad Al-Qaida, gli ideologi musulmani riconducibili all’esperienza dei Fratelli Musulmani (al momento
molto più concentrati sulla questione palestinese) e i musulmani che non si riconoscono in
un’interpretazione radicale e violenta dell’Islam. Ma, nonostante le tante opposizioni che lo Stato
islamico incontra nello stesso mondo islamico (non mancano infatti singole prese di distanza),
soprattutto le autorità religiose musulmane non riescono a pronunciarsi in modo unitario.
MD: È un fatto che questi militanti si dichiarano musulmani, così si vede già nell’aggettivo
“islamico” usato per definire il loro Stato. Molti altri musulmani ritengono che il loro comportamento
sia un tradimento dell’autentica fede islamica. Ma le autorità religiose non possono limitarsi a dire
"quelli non sono veri musulmani": è troppo poco. Devono dissociarsi chiaramente da questi
comportamenti, contrastarli e soprattutto mostrare dove e perché i miliziani di IS sbagliano. Molti in
Europa si lamentano della difficoltà a orientarsi tra i vari interlocutori islamici. Un modo molto
semplice per farlo è vedere che cosa dicono o non dicono sulla vicenda irachena.
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MD: L’Islam non chiama alla violenza indiscriminata, ma non insegna neppure la non-violenza.
Nasce come una predicazione militante, in cui il credente è chiamato a un impegno personale
per attuare la volontà di Dio sulla terra, con il rischio però di sostituirsi a Lui. Sorgono infatti due
questioni: la prima è se la volontà di Dio si lascia conoscere con certezza fino ai dettagli
dell’organizzazione politica di uno Stato. La seconda è sul metodo: che fare con chi si oppone a
questo progetto? Tutta la questione del jihad si può ricondurre all'ampiezza dell'autorizzazione
all'uso della violenza: è ammessa solo per la legittima difesa o anche per attacchi offensivi? È
incoraggiante che molti fedeli musulmani in Occidente e nei Paesi a maggioranza musulmana
parlino dell'Islam come di una religione pacifica, ma occorre riconoscere che la questione non è
risolta a livello delle fonti. Basta andare su un sito jihadista per rendersene conto.
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MB: Da molti anni ormai il jihadismo esercita un macabro fascino globale. Il combattente jihadista
gode in certi ambienti di un grande prestigio, sia quando cade come “martire”, sia nella versione
del reduce del jihad, che per alcuni rappresenta una forma di iniziazione all’Islam più autentico. In
questo momento il prestigio di IS supera quello di altri movimenti jihadisti e sembra aver scalzato
anche quello di Al-Qaida, che dopo la morte di Bin Laden si è ristrutturata su molti fronti locali ma
ha perso molta incisività dal punto di vista mediatico. Naturalmente il jihad recluta più facilmente
tra persone che vivono situazioni di disorientamento o disagio, non solo economico, ma anche
identitario o psicologico. Tuttavia è difficile ridurre la militanza jihadista a pure categorie
sociologiche. Resta la zona d’ombra del richiamo che può esercitare la violenza in sé anche sui più
insospettabili,
in
questo
caso
assumendo
la
forma
della
guerra
santa.
MD: Sì, c'è all’opera un elemento nuovo: l’assassinio esibito sui media, pensiamo al video della
decapitazione del giornalista americano James Foley. La violenza è un virus molto contagioso:
all'inizio si traveste di obiettivi politici ("creare uno Stato islamico"), ma più cresce, più sfugge al
controllo di chi la pratica e diventa un fine in sé stesso ("uccidere per il gusto di uccidere").
L’esibizione mediatica accelera questo contagio con il pericolo di un’escalation ulteriore della
violenza.
MD: Certamente ci sono molti motivi politici ed economici che spiegano la guerra attuale in Iraq e
Siria. Ma questo non deve portare a sottovalutare l'elemento religioso. Molti dicono che le guerre
hanno sempre ragioni economiche, travestite da motivazioni religiose o ideologiche. Non è vero.
Le motivazioni religiose sono una forza primaria, tanto quanto i fattori economici o strategici. Inoltre
insistere solo sulle cause politico-sociali può portare a sottovalutare o cancellare la responsabilità
morale del singolo.
MB: Naturalmente più IS avanza più sarà difficile fermarlo. Da un lato è necessaria un’azione
politica immediata che contempli anche l’uso della forza. Più il fronte internazionale a protezione
delle vittime di IS sarà ampio e multilaterale, più avrà possibilità di successo non solo dal punto di
vista militare ma anche della legittimità giuridica. Lo Stato Islamico segna il punto più alto della
minaccia jihadista, che dispone ora di una base territoriale e di una dimensione politica effettiva.
Ma allo stesso tempo potrebbe rappresentarne la crisi, perché molti musulmani ora lo contestano e
ne subiscono direttamente la violenza. Sconfiggerlo sarebbe un segno di speranza per gli stessi
musulmani, ma l’impresa ha una dimensione culturale ed educativa ben più importante di quella
strategica e militare.
MD: La vicenda dello Stato islamico insegna per l'ennesima volta agli occidentali, ma anche ad
alcune potenze mediorientali, che non è possibile usare i fondamentalisti islamici per ottenere
risultati politici. Gli americani ci hanno provato in Afghanistan e Libia e sono stati a un passo dal
rifarlo un anno fa in Siria. Ma i fondamentalisti religiosi obbediscono a logiche proprie: l'alleanza
con loro è sempre a tempo e alla lunga controproducente.
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MB: Se si guarda alla storia dell’emigrazione dal Medio Oriente, è difficile pensare a un ritorno dei
profughi nei territori d’origine. Perché ciò avvenga probabilmente non basterà ristabilire delle
condizioni minime di sicurezza, impresa già di per sé difficile, ma occorrerà un ripensamento
radicale delle istituzioni politiche ed economiche su cui si sono retti molti Paesi del Medio Oriente.
MB: Il cristiano, diceva il teologo Balthasar, si distingue anche perché è “inerme”. I cristiani sono
una componente sociale e culturale fondamentale del Medio Oriente, ma non dispongono di un
peso politico autonomo e sono rimasti schiacciati dalla complessa, e spietata, situazione politica
della regione. Inoltre l’Europa è incastrata in una crisi che non è solo economica e sembra
renderla incapace di agire. Gli Stati Uniti di Obama non brillano per le scelte di politica estera,
anche se una certa titubanza è comprensibile dopo gli anni dell’ “esportiamo la democrazia”.
MD: Siamo all’ “ultima chiamata” per tutta la cristianità irachena. I cristiani sono un fattore di
pluralismo in Medio Oriente. Se scompaiono, il Medio Oriente sarà più povero. E la maggiore
omogeneità non ridurrà il conflitto perché, cacciati i non-musulmani e i musulmani "eretici" o
tiepidi, ci sarà sempre qualcuno “più fondamentalista di me”. È una rincorsa senza fine, che rischia
di annegare l'intera regione nel sangue. Papa Francesco nei suoi interventi pubblici continua a
richiamare l’attenzione su questa ferita. Già adesso chiunque può lascia il Medio Oriente perché in
molte regioni sta diventando impossibile vivere, anche per i musulmani.
MB: I musulmani che vivono tra noi si distinguono per tanti ragioni, come l’etnia o l’origine
nazionale: per esempio l’Islam vissuto in Marocco è diverso da quello asiatico o da quello
mediorientale. Ma molti musulmani hanno ormai perso il legame con l’Islam del Paese o della
cultura di provenienza dando vita a un “Islam globale”, secondo l’espressione dello studioso
francese Olivier Roy. È difficile perciò offrire ricette per affrontare il fenomeno islamico in generale.
Da un lato è sempre più necessario crescere in una conoscenza approfondita dell’Islam e delle
sue molteplici forme, che fanno ormai parte, volenti o nolenti, delle nostre società; dall’altro vale
per i musulmani ciò che vale per ogni uomo: la conoscenza non può prescindere dall’incontro con
un’esistenza concreta.
MB: Occorre lasciarsi provocare dalle loro richieste, che mettono in discussione modalità di
gestione della sfera pubblica ormai inadeguate e quindi costringono a mettersi tutti in gioco per
rigenerare la nostra vita sociale. Ma per garantire la convivenza pacifica e costruttiva tra persone
diverse è necessario che tutti riconoscano che vivere insieme è di per sé un bene.
Tratto da: http://www.oasiscenter.eu/it/articoli/religioni-e-spazio-pubblico/2014/08/26/lo-statoislamico-spiegato-a-mio-figlio
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Gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi e nella sua periferia devono essere analizzati come un
colpo senza precedenti al cuore dell’Europa, il cui impatto va ben al di là della Francia stessa. In
effetti per lo Stato Da’esh (acronimo arabo di Stato islamico in Iraq e Siria, ndr), impropriamente
chiamato «Stato Islamico», si tratta di infliggere il massimo della violenza possibile in seno al
principale paese occidentale che si impegna in maniera attiva affinché la Siria non sia
condannata all’inquietante alternativa tra la dittatura di Bashar al-Assad e l’autoproclamato
«califfato» di Abu Bakr al-Baghdadi. È questa possibilità di una «terza via» per la Siria, per il mondo
arabo e il mondo musulmano, e quindi di un’Europa in pace duratura con la sponda sud del
Mediterraneo, quello che hanno voluto distruggere i commando terroristici quella sera.
Abu Mus’ab al-Zarqawi, quando nel 2004 divenne il leader (in arabo “emiro”) del ramo iracheno di
al-Qa’eda, sapeva che avrebbe potuto contare sul sostegno multiforme di Bashar al-Assad e della
sua intelligence. La dittatura siriana puntò allora sull’insurrezione anti-americana in Iraq per stabilirvi
le truppe occidentali e allontanarle dal proprio paese. Inoltre, i diversi centri di potere della polizia
politica di Damasco hanno raccolto profitti considerevoli nel patrocinio della guerriglia infiltrata
attraverso la frontiera siro-irachena.
È così che la « filiera Buttes Chaumont » (ha indottrinato alcuni degli assalitori degli attentati di
gennaio a Parigi, ndr), che inviava volontari francesi in Iraq attraverso la Siria, si è potuta
sviluppare. Questa filiale è stata smantellata nel 2005 dalla giustizia francese, ma molti jihadisti
francesi hanno potuto così stringere legami stabili con Zarqawi e il suo gruppo. È il caso di Boubaker
al-Hakim tenuto prigioniero per sei anni in Francia che, alla sua liberazione nel 2011, si è stabilito in
Tunisia e vi ha fondato il braccio armato del gruppo jihadista Ansar al-Shari’a (“i partigiani della
Shari’a”). Così come è il caso dei fratelli Sherif e Said Kouachi che collaborarono regolarmente con
il braccio yemenita di al-Qa’eda. Tutti questi estremisti hanno seguito da vicino la trasformazione di
al-Qa’eda in Iraq, dopo la morte di Zarqawi nel 2006, in «Stato Islamico».
Abu Bak al-Baghdadi si è messo a capo dello «Stato Islamico in Iraq» nel 2010. I territori controllati
allora dai jihadisti in Iraq si riducono drasticamente e ci è voluto tutto il sostegno dell’apparato di
sicurezza nella vicina Siria per impedire che lo «Stato Islamico in Iraq» non venisse eliminato. Lo
scoppio della sollevazione democratica in Siria nella primavera del 2011 ha offerto un’opportunità
storica ai jihadisti iracheni: in effetti Assad decise di liberare in massa detenuti jihadisti in modo che
andassero a gonfiare le fila dei partigiani di Baghdadi.
È così che emerge nell’aprile 2013 lo «Stato Islamico in Iraq e in Siria», conosciuto, sotto il suo
acronimo arabo, come Da’esh. Insediatosi nella città di Raqqa, appena sopra il corso dell’Eufrate,
Da’esh gode ampiamente della ritirata americana dell’agosto 2013: l’amministrazione Obama,
dopo aver dichiarato che l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Assad rappresenta una
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«linea rossa», decide di rimanere passivo nonostante l’utilizzo sistematico di agenti chimici alla
periferia di Damasco.
Così la Francia, in prima linea nel sostegno occidentale alla rivoluzione siriana, è stata
abbandonata nel momento della verità dagli Stati Uniti. Questo abbandono americano ha
prodotto un picco nelle partenze per il jihad nel mondo intero, poiché Da’esh si pone come unico
difensore autentico dei musulmani a dispetto di una comunità internazionale che li ha
abbandonati alla mercé di Damasco. Baghdadi e Assad si rinforzano l’un l’altro e, per di più si
trattano con ostentato riguardo: tutti i territori conquistati dai jihadisti sono stati disputati alle forze
rivoluzionarie e mai al regime ba’athista.
Questa «terza via» difesa dalla Francia, tra Bashar al-Assad e Abu Bakr al-Baghdadi, la espone in
primo luogo al pericolo della presa di ostaggi da parte di Da’esh in Siria. Uno dei carcerieri, il
francese Mehdi Nemmuoche, è stato inviato da Da’esh in Belgio nel maggio 2014. Dopo aver
ucciso quattro persone al museo ebraico di Bruxelles, è stato fermato a Marsiglia in possesso un
arsenale da guerra. Ma non è che una prima allerta, seguita nel gennaio 2015 da tre attentati a
Parigi e nella sua periferia che hanno causato 17 morti (contro Charlie Hebdo, un supermercato
cacher e un poliziotto).
La scelta dei bersagli è meno importante della volontà di suscitare cieche rappresaglie contro i
musulmani di Francia. Per Da’esh, si tratta non soltanto di dimostrare l’inutilità della «terza via»
difesa in Siria da Parigi, ma anche di far crollare il modello di coesistenza repubblicano, laddove la
Francia presenta le comunità musulmane ed ebraiche più importanti d’Europa. Tale strategia del
terrore è stata sconfitta dalla mobilitazione cittadina dell’11 gennaio 2015, in cui milioni di francesi
sono scesi per le strade di Parigi e della provincia.
È questo contro-modello offerto dalla Francia all’Europa che i terroristi hanno voluto colpire
nuovamente il 13 novembre 2015. Ed è anche questa «terza via» per la Siria che hanno voluto
sotterrare. Bashar al-Assad non si è ingannato nell’ostentare la sua soddisfazione all’indomani degli
attentati di Parigi, di cui ha imputato responsabili le autorità francesi. Questa convergenza tra i
centri di potere di Damasco e gli assassini di Da’esh deve essere ben ponderata se vogliamo trarre
tutte le lezioni dalla tragedia di Parigi.
Tratto da: http://www.oasiscenter.eu/it/articoli/jihadismo-e-violenza/2015/11/18/lo-stato-islamicocontro-la-terza-via
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Dopo gli attentati di Parigi di venerdì 13 novembre la Francia ha iniziato a bombardare Isis a
Raqqa. Ecco come sono ripartite sul campo le fazioni che combattono in Siria e chi le sostiene.
La recente decisione russa di impegnarsi militarmente in Siria sta riportando l’attenzione sul conflitto
che da quattro anni infiamma il Paese mediorientale e sembra aver messo fine a quella condizione
di stallo che ne ha determinato le dinamiche sino a questo momento. In tale contesto è
fondamentale capire quali sono, dove operano e da chi sono sostenuti i protagonisti del conflitto.
Il regime di Assad è sostenuto internazionalmente dalla Russia e dall’Iran. Sul campo operano gli
effettivi dell’esercito governativo siriano, varie milizie legate al presidente e le milizie di Hezbollah e
di altri gruppi sciiti. La Russia, che dispone in Siria dell’importante porto di Tartus (l’unico sbocco sul
Mediterraneo per la flotta militare russa), ha finora colpito soprattutto le zone occupate dai ribelli,
in particolare l'area compresa tra Idlib e Aleppo, recentemente conquistata dalla coalizione
formata da Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham.
Le forze del regime di Bashar al-Assad sono concentrate lungo una dorsale che corre da sud a
nord e controllano i territori che guardano al Libano e al Mar Mediterraneo e includono le città di
Damasco, Homs, Hama e Latakia.
Nei mesi passati, diverse fonti sottolineavano la debolezza dell’esercito siriano, ridotto ormai alla
metà della sua forza originale (300.000 uomini) e limitato dalla presenza sempre più rilevante di
soldati di leva. Il presidente siriano ha potuto ovviare a parte di queste criticità grazie alla messa in
campo di milizie irregolari (le famigerate Forze di Difesa Nazionale) e, soprattutto, al supporto di
forze esterne, come quelle di Hezbollah.
A sostegno di Assad operano altri gruppi poco conosciuti, di estrazione sunnita, alawita, curda e
cristiana. Tra queste si possono menzionare la Muqawama Suriya, la Liwa’ Dir’ al-Sahel e Dir’ alWatan.
Hezbollah è la principale milizia sciita impegnata in Siria. Essa giustifica il suo intervento come jihad
difensivo per la protezione del santuario di Sayyida Zaynab a Damasco e per combattere le forze
takfîrî, cioè i gruppi sunniti estremisti che accusano i musulmani devianti, e in particolare gli sciiti, di
miscredenza. Sostenuta dall’Iran, coordina altri gruppi sciiti presenti sul territorio, tra i quali vi sono
anche contingenti iracheni e addirittura pakistani. Hezbollah opera principalmente nei territori
confinanti con il Libano da Qalamoun a Homs.
A livello internazionale, le principali forze che operano per la caduta di Assad sono l’Arabia
Saudita, la Turchia, il Qatar e gli Stati Uniti. Esse sostengono sul campo una molteplicità di attori che
si distinguono sia sotto il profilo tattico-strategico che per quello ideologico-politico. L’Arabia
Saudita è il principale fornitore di aiuti militari e finanziari di diversi gruppi ribelli, e in particolare di
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quelli salafiti. Gli Stati Uniti forniscono assistenza militare a diverse formazioni ribelli, non escluse
quelle islamiste e jihadiste. La CIA ha lanciato un programma di addestramento mirato di 5000
ribelli anti-Assad, poi fallito.
Partendo dalle realtà non collegabili a ISIS, la formazione sicuramente più nota è Jabhat al-Nusra.
Costola siriana di al-Qaida, essa opera nella regione di Idlib, lungo il corridoio che separa Hama e
Homs, nei pressi di Damasco e sul fronte meridionale, in particolare sulle alture del Golan. È
sostenuta e finanziata dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e da altri Paesi del Golfo.
Meno noto di al-Nusra, esso rappresenta in realtà il movimento di opposizione forse più importante
per effettivi e partecipazione popolare. Di ispirazione salafita, punta al rovesciamento del regime
di Assad per istituire uno Stato fondato sulla sharî‘a, tanto che dottrinalmente non è facile
distinguerlo da Jabhat al-Nusra, anche se a differenza di quest’ultima non è classificata dagli USA
come organizzazione terroristica. Opera nelle aree di Aleppo, Idlib, Homs e Hama. Nel 2012 Ahrar
al-Sham ha dato vita al Fronte Islamico Siriano, un sigla in cui sono confluite diverse milizie affini, tra
cui Jaysh al-Islam, forza che agisce principalmente a Damasco e Liwa’ al-Tawhid, impegnata
soprattutto a Aleppo. È sostenuta finanziariamente dai Paesi del Golfo.
È una coalizione jihadista che agisce nella Siria settentrionale autonomamente da altri gruppi
come ISIS, Jabhat al-Nusra o Ahrar al-Sham. È formata dalla Harakat Fajr al-Sham e dalla Harakat
Sham al-Islam. Originariamente ne faceva parte anche il Jaysh al-Muhajirin wa-l-Ansar, che forniva
alla coalizione i contingenti più cospicui, ma se ne è recentemente distaccato per unirsi a Jabhat
al-Nusra. Prima di questa scissione, Jaysh al-Muhajirin era collegata tramite il suo leader Salah al-Din
al-Shisani all’emirato del Caucaso ed era composta soprattutto da combattenti caucasici. Ora è
invece perlopiù formata da militanti arabi ed è guidata da un saudita.
All’inizio della rivolta siriana è stato il braccio armato della Rivoluzione. È composto da formazioni di
estrazione esclusivamente siriana e in particolare da disertori dell’esercito governativo. Non
essendo classificato come gruppo estremista è destinatario di finanziamenti internazionali, ma è
difficile valutare la sua reale capacità operativa.
Davanti a una tale complessità ed eterogeneità di gruppi combattenti, il fronte delle opposizioni
ha cercato di creare delle ‘camere operative’ con lo scopo di aggregare differenti formazioni
all’interno di fronti specifici, ritrovando nell’opposizione al regime di Assad il comune
denominatore. Queste sinergie operative sono emerse anche in funzione anti-ISIS, come dimostrato
nel dicembre 2013 nel nord-ovest della Siria quando le forze di diverse formazioni confluite
nell’“Esercito Islamico” (Jaysh al-Islam) riuscirono a infliggere gravi perdite alle forze del Califfo. Su
questa linea è anche interessante ricordare la creazione dell’“Esercito della Conquista” (Jaysh alFatah) grazie a cui diversi gruppi si sono coalizzati, in particolare Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham,
riuscendo a creare e mantenere una zona di influenza nel contesto di Idlib.
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Esistono infine altri due attori rilevanti del conflitto civile siriano che però si distinguono rispetto alle
precedenti formazioni per specificità ideologiche e strategiche: l’ala militare del PYD (Partito
dell’Unità Democratica, secondo alcuni diretta emanazione del PKK) e ISIS. Per quanto concerne
la prima formazione, le forze curde si sono distinte sul campo riuscendo a bloccare l’avanzata di
ISIS nel gennaio del 2015 a Kobane e tuttora controllano due ampie sacche a nord della Siria con
lo scopo finale di unificare l’intera regione di Rojava, ad oggi interrotta nella sua parte centrale.
Infine, presenti sul territorio siriano fin dall’inverno del 2013, le forze di ISIS hanno il loro punto
nevralgico nella città di Raqqa. Nonostante si insista a comparare ISIS a uno stato con frontiere e
un territorio ben delimitato, la sua presenza in Siria si articola piuttosto lungo corridoi strategici, che
permettono i collegamenti con le città irachene occupate (Ramadi e Mosul in particolare) e con
le altre aree siriane sotto controllo (tra cui Palmyra e parzialmente Deir ez-Zor) o attacco (tra cui
Aleppo e Damasco).
Tratto da: http://www.oasiscenter.eu/it/articoli/rivoluzioni-arabe/2015/10/14/chi-%C3%A8-chi-in-siria
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Oltre 13mila attentati, 32mila morti e 67 Paesi colpiti. E’ la lunga scia di sangue del terrorismo
globale, che ha raggiunto livelli record dalla caduta delle Torri Gemelle. Nonostante gli
investimenti senza precedenti (53 miliardi in tutto il mondo), gli attacchi sono aumentati
dell’80%. Lo certifica il Global terrorism index*.
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Il 78% delle vittime si concentra in 5 Paesi: Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria. L’attentato
più sanguinoso è avvenuto a Badush, in Iraq, nel giugno del 2014: 670 persone uccise. Malgrado
l’impatto mediatico, il numero di morti in Occidente è solo il 2,6% del totale. Il 70% di questi
attacchi è portato a termine da “lupi solitari”.
MAPPA: GLI ATTENTATI DEL 2014
Boko Haram è l’organizzazione terroristica più spietata. Nel macabro conteggio globale ha
causato 6.644 morti, superando anche l’Isis (6.073 morti). Poi i talebani (3.477 vittime). A seguire i
pastori Fulani (1.229 vittime tra Nigeria e Repubblica Centrafricana) e Al-Shabaab (1.021 morti in
Gibuti, Etiopia, Kenya e Somalia).
BOKO HARAM E ISIS (ISIL IN INGLESE) A CONFRONTO
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L’“inferno” è in Medio Oriente: Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria sono gli stati più pericolosi.
Seguono poi Somalia e Ucraina. Nella classifica dei Paesi a “impatto terrorismo zero” c’è tanta
America Latina: Costa Rica, Cuba, El Salvador, Guyana, Panama e Uruguay. Fra i Paesi più sicuri in
assoluto, fra gli altri, ci sono anche Giappone, Sud Corea, Vietnam, Lituania, Lettonia, Polonia e
Finlandia.
*Il global terrorism index misura l’impatto del terrorismo attraverso un coefficiente, calcolato in
base agli attacchi negli ultimi 5 anni. In testa alla classifica i Paesi con l’indice più alto e quindi più
pericolosi.
Tratto da: http://www.lastampa.it/2015/11/17/medialab/webdocauto/le-nazioni-messesotto-scacco-dal-terrorismo-wiylwsUHsagEZxoni7KyAN/datajournalism.html
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Di fronte alla strage di Parigi, il primo atteggiamento giusto è dolore e lutto per le vittime assieme a
tutta la nostra solidarietà e commozione per un paese fratello e una città simbolo della convivenza
e dei valori europei.
Subito dopo, è opportuna la più totale e ferma condanna per tali barbari attentati che nulla può –
nemmeno indirettamente – giustificare.
È indispensabile essere uniti nel ripudio assoluto del jihadismo e del terrorismo islamico
contemporanei, chiedendo a tutti, musulmani inclusi, di far propria una incondizionata e radicale
riprovazione.
Infine occorre mettere in campo tutta l’intelligenza, la lucidità e la calma possibili, al fine di capire
ciò che sta accedendo per trovare le misure adeguate. È da irresponsabili mettersi a gridare o
agitarsi senza criterio: occorre prima pensare e comprendere bene. Se i barbari sono tra noi, c’è
un’origine di tale vicenda, una sua evoluzione e – speriamo presto – un rimedio.
Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i
musulmanistanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che
risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli
interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran,
paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in
movimento.
Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono
ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad
islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is). Igor Man li chiamava “la peste del
nostro secolo”.
In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo
che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti.
L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci per spingerci fuori dal Medio Oriente, che
rappresenta la vera posta in gioco. Si tratta di una sorta di “guerra dei Trent’anni islamica”, in cui
siamo coinvolti a causa della nostra (antica) presenza in quelle aree e dei nostri stessi interessi.
L’ideologia di Daesh è sempre stata chiara su questo punto: creare uno Stato laddove gli Stati
precedenti sono stati creati dagli stranieri quindi sono “impuri”.
L’Is sta combattendo un conflitto per il potere legittimandosi con l’arma della “vera
religione”. Concorre ad affermarsi presso la Umma musulmana (la “casa dell’islam”, che include le
comunità musulmane all’estero) quale unico vero e legittimo rappresentante dell’Islam
contemporaneo. Questo nel linguaggio islamico si chiama fitna: una scissione, uno scisma nel
mondo islamico. Per capirci: una guerra politica nella religione, che manipola i segni della
religione, così come i nazisti usavano segni pagani mescolati a finzioni cristiane. Infatti l’Is, come alQaida, uccide soprattutto musulmani e attacca chiunque si intromette in tale conflitto.
Per chi ha la memoria corta: al-Qaida chiedeva la cacciata delle basi Usa dall’Arabia Saudita e
puntava a prendersi quello Stato (o alternativamente il Sudan e poi l’Afghanistan in combutta coi
talebani). Daesh pretende di più: conquistare “cuori e menti” della Umma; esigere la fine di ogni
coinvolgimento occidentale e russo in Siria e Iraq; creare un nuovo Stato laddove esisteva l’antico
califfato: la Mesopotamia.
Geopoliticamente c’è una novità: al-Qaida si muoveva in una situazione in cui gli Stati erano
ancora relativamente forti; l’Is approfitta della loro fragilità nel mondo liquido, in cui saltano le
frontiere. In sintesi: non esiste lo scontro tra civiltà ma c’è uno scontro dentro una civiltà, in corso da
molto tempo. Per utilizzare un linguaggio da web: oggi nella Umma il potere è contendibile.
A partire da tale fatto incontestabile, due questioni si impongono all’Occidente e alla Russia.
La prima è esterna e riguarda la presenza (politica, economica e militare) in Medio Oriente: se e
come starci. La seconda è interna: come difendere le nostre democrazie, basate sulla convivenza
tra diversi, allorquando i musulmani qui residenti sono coinvolti in tale brutale contesa? Come
preservare la nostra civiltà dai turbamenti violenti della civiltà vicina? Se ci limitiamo a perdere la
testa, invocando vendetta senza capire il contesto, infilandoci senza riflessione sempre di più nel
pantano mediorientale e utilizzando lo stesso linguaggio bellicoso dei terroristi, non facciamo
niente di buono. Potremmo anzi concedere allo Stato Islamico la resa del “nostro” modello di
convivenza, per entrare nel “loro” clima di guerra.
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Occorre innanzitutto proteggere la nostra convivenza interna e la qualità della nostra democrazia.
Serve più intelligence e una maggiore opera di contrasto coordinata tra polizie, soprattutto
nell’ambito delle collettività immigrate di origine arabo-islamiche, che rappresentano
un’importante posta in gioco del terrorismo islamico. Da notare anche che tali attentati si
moltiplicano proprio mentre lo Stato Islamico perde terreno in Siria. Contemporaneamente occorre
conservare il nostro clima sociale il più sereno possibile. Mantenere la calma significa non cedere
ai richiami dell’odio che bramerebbero vendetta, che per rancore trasformerebbero le nostre città
in ghetti contrapposti, seminando cultura del disprezzo e inimicizia. Le immagini del britannico che
spinge la ragazza velata sotto la metro di Londra fanno il gioco di Daesh.
Sarebbe da apprendisti stregoni incoscienti rendere incandescente il nostro clima sociale,
provocare risentimenti eccetera. Così regaliamo il controllo delle comunità islamiche occidentali ai
terroristi, cedendo alla loro logica dell’odio proprio in casa nostra. Per dirla col linguaggio politico
italiano: mostrarci più forti del loro odio non è buonismo complice, è parte della sfida. Il
“cattivismo” diventa invece oggettivamente complice perché appunto fa il gioco dello Stato
Islamico.
In secondo luogo, dobbiamo darci una politica comune sulla guerra di Siria, vero crogiuolo dove si
formano i terroristi. Imporre la tregua e il negoziato è una priorità strategica. Solo la fine di quel
conflitto potrà aiutarci. Aggiungere guerra a guerra produce solo effetti devastanti, come pensa
papa Francesco sulla Siria. Finora abbiamo commesso molti errori: l’Occidente si è diviso, alcuni
governi si sono schierati, altri hanno silenziosamente fornito armi, altri ancora hanno avuto
atteggiamenti ondivaghi, non si è parlato con una sola voce agli Stati vicini a Siria e Iraq eccetera.
L’Italia ha dichiarato da oltre due anni che Iran (ricordate ciò che disse Emma Bonino prima di
Ginevra II?) e Russia (ricordate le accuse a Federica Mogherini di essere filorussa?) andavano
coinvolti nella soluzione. Matteo Renzi l’ha più volte ripetuto, facendone una politica. In
parlamento se n’è dibattuto. Non siamo stati ascoltati, almeno finora. Tuttavia (finalmente!) le
riunioni di Vienna con Russia e Iran possono far ben sperare: oggi tutti ci danno ragione. Meglio
tardi che mai: il governo italiano è totalmente impegnato nella riuscita di un reale accordo.
Nel nostro paese ci sono stati anche paralleli sforzi di pace e dialogo: dalle riunioni di Sant’Egidio
con l’opposizione siriana non violenta, all’appello per Aleppo di Andrea Riccardi, all’ascolto dei
leader cristiani di quell’area. La fine della guerra in Siria (e nell’immediato il suo contenimento) è il
vero modo per togliere acqua al pesce terrorista. Senza zone fuori controllo ove prosperare,
il jihadismo perderebbe la maschera.
In terzo luogo, dobbiamo occuparci con urgenza del resto del quadro geopolitico
mediterraneo: laLibia, che è per noi prioritaria (e in cui almeno si è frenato il conflitto armato
mediante l’embargo delle armi); lo Yemen; la stabilizzazione dell’Iraq; le fragilità di Libano, Egitto e
Tunisia…
Anche se tali crisi sono in parte legate, vanno assolutamente tenute distinte. L’Is vorrebbe invece
saldarle in un unico enorme conflitto (la sua propaganda è chiara), allo scopo di mostrarsi più
potente di quello che è. In tale impegno occorrono alleanze forti con gli Stati islamici cosiddetti
moderati: un modo per trattenere anche loro dal cadere (o essere trascinati) nella trappola del
jihadismo che li vuole portare sul proprio terreno. Ogni conflitto mediorientale e mediterraneo ha
una propria via di composizione e occorre fare lo sforzo di compiere tale lavoro simultaneamente.
In altre parole: restare in Medio Oriente comporta un impegno politico a vasto raggio e continuo.
È prioritario entrare dentro la spirale dei foreign fighters per prosciugarne le fonti. Ho recentemente
scritto un libro su tale fenomeno. Qui aggiungo solo che non sarei sorpreso che tra gli attentatori di
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Parigi ci fossero vecchie conoscenze della polizia francese. Esistono antiche filiere degli anni
Novanta, mai del tutto distrutte, che si riattivano in appoggio a chi pare egemone sul campo.
Qualcuno può essere un combattente straniero di ritorno: il problema è capire la genesi del
fenomeno. Ma non ce ne sarebbe nemmeno tanto bisogno: attentati di questo tipo possono
essere compiuti da chiunque.
Si è parlato di lupi solitari; qui siamo in presenza di un branco. Un ristorante, una trattoria, uno
stadio, una sala di concerti non rappresentano reali obiettivi sensibili, segno che non occorre
particolare addestramento. Sorprende piuttosto che dispongano di armi da guerra, non così facili
da reperire in Francia. In Italia sappiamo che le mafie ne sono provviste ma anche molto gelose.
Combattere il fenomeno foreign fighters corrisponde a coinvolgere le comunità islamiche e non
spingerle verso l’uscita.
Tutto ciò va fatto contemporaneamente. Gridare “siamo in guerra!” senza capire quale sia questa
guerra, invocando irresponsabili atti di vendetta e reazioni armate, ci fa cadere nell’imboscata
jihadista. Proprio lì lo Stato Islamico vuole portarci, per mettere le mani sull’islam europeo ma
soprattutto su quello mediorientale. Vuole dividere il terreno in due schieramenti contrapposti,
giocando sul fatto che per riflesso i musulmani saranno fatalmente attirati dalla sua parte.
Per tale motivo la propaganda dell’Is (come quella di al-Qaeda prima) tira continuamente in ballo
l’Occidente: in realtà sta parlando alla Umma islamica per farla reagire. Intraprendere tutto ciò
non è facile ma necessario.
Contenere e spegnere la guerra di Siria è il solo modo per prosciugare il lago terrorista. Sarà
operazione lunga e complessa, ci saranno altri attentati, ma è una strada vincente alla lunga.
Certo si tratta di far dialogare nemici acerrimi, di dare un posto a tavola a gente che non ci piace
(Assad e i suoi) o a formazioni ribelli ambigue, ma è l’unico modo.
Andare in Siria in ordine sparso è al contrario la via per compiacere Daesh e i suoi strateghi: un
Occidente e una Russia divisi su tutto favoriscono chi sta creando uno “Stato” alternativo. Si tratta
di una vecchia lezione della storia.
L’operazione militare europea diretta, boots on the ground, è dunque necessaria? Non sembra, e
comunque non ora: sarebbe andare allo sbaraglio. Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è che
ribelli siriani e milizie di Assad – assieme ai rispettivi alleati – capiscano che il nemico comune esiste,
si siedano e parlino. Lo Stato Islamico furbescamente si presenta alla Umma come “diverso”: non
alleato con nessuno, patriottico, anti-neocolonialista, no-global, non inquinato da interessi stranieri
e puramente islamico, duro ma nazionale (nel senso che patria e nazione hanno per l’islam
politico). In questo modo mette a repentaglio la sopravvivenza e gli interessi di tutti:
dell’Occidente, della Russia, di Assad, dei ribelli, dei curdi e delle altre minoranze. Gli unici ad
averlo apparentemente capito sono i curdi: c’è un solo nemico comune, sorto nel vuoto di potere.
Il negoziato parte da questa consapevolezza e per questo deve coinvolgere anche russi e iraniani.
L’obiettivo minimo è una tregua immediata; quello massimo un patto per il futuro della Siria. Solo a
queste condizioni si potrà mettere in piedi un’operazione internazionale di terra, che miri a
stabilizzare il paese e a mettere l’Is spalle al muro. Solo così si potrà svelare cos’è veramente l’Is:
una cricca di ex militari iracheni e fanatici jihadisti che vengono dal passato e che hanno
approfittato delle nostre divisioni.
Il vuoto della politica, si sa, genera mostri. A meno – sarebbe l’altra soluzione – di non lasciare tutto
e ritirarsi. Andarcene totalmente dal Medio Oriente, rinunciare tutti a ogni interesse e presenza,
abbandonare i mediorientali al loro dramma. Qualcuno lo pensa, qualcuno lo dice.
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Se ce ne andassimo dal Medio Oriente, gli attentati in Europa smetterebbero subito,
probabilmente. D’altro canto le vittime in quella regione sarebbero ancora maggiori.
Lasceremmo il lago jihadista diventare un mare. E questa non è un’opzione.
Tratto da: http://www.limesonline.com/parigi-il-branco-di-lupi-lo-stato-islamico-e-quello-chepossiamo-fare/87990
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Francia sconvolta, di nuovo sotto attacco, in un modo che nessuno osava immaginare: sette
attentati terroristici nella città di Parigi. Un centinaio di persone sono state uccise dai terroristi nel
teatro Bataclan; 40 allo Stade de France, mentre era in corso l'amichevole FranciaGermania, a
causa di tre esplosioni, di cui una innescata da un attentatore suicida. Altri attacchi, uno a colpi di
Kalashnikov davanti a un ristorante del X Arrondissement, e l'altro in Rue de Charonne, nell'XI
Arrondissement, hanno causato altre vittime e diversi feriti. Sparavano inneggiando ad Allah,
hanno raccontato dei testimoni. "Lascia esterrefatti come i governi occidentali non abbiano subito
realizzato che l'offensiva antiIsis in Iraq e Siria avrebbe avuto come conseguenza immediata un
aumento repentino degli attentati in Europa e negli Stati Uniti" dice a ilsussidiario.net il generale
Carlo Jean poco dopo mezzanotte, mentre arriva la notizia che Hollande ha decretato la chiusura
delle frontiere e lo stato di emergenza. Il sussidiario aveva raggiunto Jean già nel pomeriggio di ieri,
per un commento — che riportiamo al termine di questo ultimo aggiornamento — agli ultimi eventi
bellici nel quadrante di Siria e Iraq, in particolare la presa di Sinjar da parte delle forze curde con il
supporto dell'aviazione americana. "L'Isis oggi è in grosse difficoltà nelle sue zone chiave e per
mantenere il prestigio che gli procura reclutamenti e finanziamenti aumenterà le azioni all'esterno
del califfato". E ancora: "Non è da escludere il pericolo di attentati in Europa, perché l'Isis bisogno
di atti eclatanti per mantenere il prestigio agli occhi dei tanti fanatici che lo sostengono in tutto il
mondo".
Era chiaro, anche se non vogliamo crederlo. Per mantenere alto il suo profilo comunicativo, lo
stato islamico doveva fare attentati sui corpi deboli, in particolare in Europa.
Sì. Infatti è impossibile, in uno stato democratico e così aperto, proteggere tutti gli obiettivi. Nel
momento in cui ne proteggi uno, ne lasci sguarniti altri.
Perché verosimilmente in Francia i terroristi sono meglio organizzati. E quindi possono agire subito,
quando vogliono. In Italia, per esempio, il controllo è maggiore.
Certo, certo. Ma siamo un paese più sicuro anche perché c'è una parte del paese che è in mano
alla criminalità organizzata, in cui i terroristi oggi, come le Brigate rosse ieri, non hanno o non hanno
avuto spazio.
Il terrorismo è terrorismo. Generalmente lo stato islamico era più orientato sui regimi arabi che non
sul nemico esterno, come al Qaeda, ma quando si volge al nemico esterno usa le stesse tecniche
e tattiche.
Vuole che glielo dica? Contrattaccare, bombardare immediatamente e senza remore.
E' evidente: occorre bombardare massicciamente lo stato islamico, subito. Siamo ridotti a questo?
Lo dice la storia militare. Se non ci piace la seconda parola, tratteniamo almeno la lezione della
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prima. Occorre ripristinare il concetto proprio di von Clausewitz di punto culminante della vittoria,
quando il rapporto di forze iniziale si rovescia e diviene favorevole al contrattacco.
Fare più paura dei terroristi. Non è possibile parlare di pace senza parlare di guerra, questa è la
realtà. Ma ciò che davvero lascia esterrefatti, è come i governi occidentali non abbiano subito
realizzato che l'offensiva antiIsis in Iraq e Siria avrebbe avuto come conseguenza immediata un
aumento repentino degli attentati in Europa e negli Stati Uniti. Non capire queste cose vuol dire
ormai essere fuori da ogni cultura strategica.
(Di seguito l'intervista realizzata nel pomeriggio di ieri, ndr)
L'attacco congiunto di forze aeree americane e delle forze di terra dei peshmerga curdi ha
ottenuto un risultato finalmente importante nella sanguinosa guerra contro lo stato islamico. Lo
sottolinea a ilsussidiario.net Carlo Jean, spiegando che "la liberazione della città di Sinjar significa
aver spezzato in due la via di rifornimento che collegava fino a oggi i territori occupati dall'Isis in
Siria e Iraq. Adesso per l'Isis diventa tutto più difficile". Lo ha sottolineato anche il presidente
americano Obama, dicendo che gli Stati Uniti "hanno fermato l'avanzata dell'Isis in Iraq". A questo
punto i più ottimisti parlano di un passo decisivo verso la liberazione di Mosul. Secondo Carlo Jean
però questi successi seppur importanti comportano il rischio di attentati terroristici in Europa: "Lo
abbiamo già visto nel Sinai e nelle scorse ore a Beirut: per mantenere alto il suo prestigio e
continuare a convincere nuovi miliziani e ottenere finanziamenti, l'Isis punterà adesso a gesti
eclatanti in Europa".
I bombardamenti americani e l'attacco di terra dei curdi hanno ottenuto la liberazione della città
di Sinjar, cosa che significa interrompere di fatto la comunicazione tra Mosul in Iraq e Raqqa in
Siria, quella via di rifornimento logistico che ha permesso fino a oggi il travaso di forze dalla Siria
all'Iraq e viceversa.
Assolutamente sì. Adesso l'Isis non può più utilizzare questo grosso asse di comunicazione. Dovrà
ricorrere a strade secondarie oppure a sud risalendo la valle dell'Eufrate, ma questo significa una
grossa difficoltà nei rifornimenti. E' stato un obiettivo molto importante dal punto di vista strategico.
Non era necessario, sul terreno c'erano i curdi con il sostegno di forze speciali americane che
ormai sono presenti in Iraq anche a terra oltre che con l'uso dell'aviazione. L'obbiettivo era
comunque militarmente limitato, quello di spezzare l'asse dell'Isis, ed è stato ottenuto.
In realtà l'Isis ha già perso parecchi comandanti, almeno un terzo di loro sono stati eliminati.
L'unico modo che hanno per entrare nello stato islamico è passare dalla Turchia, significa che gli
americani hanno sicuramente stretto accordi con Ankara. L'Isis ha un effettivo di circa 25/30mila
uomini, che sono indispensabili per mantenere l'occupazione nelle zone controllate, ma ne perde
circa un migliaio al mese.
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L'intervento russo in Siria ha raddrizzato abbastanza la sorte delle forze di Assad creando le
condizioni per un negoziato a cui partecipino le forze governative e i gruppi ribelli non estremisti. I
russi infatti bombardano soprattutto gli insorti sunniti più che lo stato islamico. Indebolendo gli altri
insorti creano le condizioni per un negoziato.
L'Isis oggi è in grosse difficoltà nelle sue zone chiave e per mantenere il prestigio
che gli procura reclutamenti e finanziamenti aumenterà le azioni all'esterno del
califfato.
Non è da escludere il pericolo di attentati in Europa, perché l'Isis bisogno di atti eclatanti per
mantenere il prestigio agli occhi dei tanti fanatici che lo sostengono in tutto il mondo. Quello che è
successo a Beirut così come l'attentato all'aereo russo nel Sinai dimostra questa nuova attività
terroristica fuori della Siria e dell'Iraq.
Lo è già. Ci sono le milizie di Hezbollah che combattono da sempre in Siria e i sunniti che
appoggiano gli insorti sunniti e sicuramente sono un tramite per il rifornimento di armi da parte di
paesi come Qatar, Arabia Saudita e Emirati arabi.
Tratto da: http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2015/11/14/COSA-C-E-DIETRO-GLI-ATTENTATI-APARIGI-E-BATACLAN-Jean-la-crisi-dell-Isis-in-Siria-e-Iraq/655367/
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Soldati in Mali, durante l'operazione "Serval" Ecco puntuali i due caccia francesi, appena decollati
dall’aeroporto di Niamey. Ogni mattina volano verso Nord, risvegliano in una manciata di minuti
tutta la provincia semidesertica di Tillabéri. E scendono a bombardare il Mali intorno alla città
orientale di Ménaka esattamente come stanno facendo in Siria, oppure inceneriscono nel Sahara
qualche convoglio di jihadisti inquadrato dalle telecamere dei droni. Che grande opportunità offre
il terrorismo. Grazie alla diffusione dello Stato islamico, di Al-Qaeda nel Maghreb islamico, di Boko
Haram, le varie sigle del terrore contemporaneo, la Francia ha riconquistato posizioni che in Africa
aveva perso da più di quarant’anni. Non è un buon auspicio. Perché si rischia il modello Iraqistan:
la destabilizzazione permanente come in Iraq e in Afghanistan, lungo una fascia di migliaia di
chilometri e centinaia di milioni di abitanti che con poche soluzioni di continuità ormai attraversa il
pianeta dall’Est della Mauritania fino al Pakistan.
Con l’operazione “Serval”, i soldati di Parigi hanno spaccato in due il Mali consegnando per ora il
Nord ai tuareg, senza che il governo di Bamako potesse reagire. E con l’operazione “Barkhane”
hanno rioccupato il Nord del Niger, il Paese più povero al mondo, il primo Stato africano che si
incontra a Sud dell’Italia dopo la distruzione della Libia. Duecento militari di François Hollande si
sono insediati accanto ai colleghi nigerini nella base di Madama, un fortino coloniale francese
costruito nel 1937 sulla sabbia rossa a cento chilometri dall’attuale frontiera libica. E la notte del 7
aprile i paracadutisti lanciati sul deserto hanno preso il controllo del passo di Salvador, punto in cui
convergono le piste e i confini di Niger, Libia e Algeria. La richiesta di Parigi è di annientare i
combattenti in transito, distruggere i nascondigli di munizioni e carburante, arrestare i trafficanti di
armi e droga.
I militari francesi però non hanno ricevuto l’ordine di bloccare chi guadagna dai traffici di
persone: così oltre duemila migranti a settimana, come li ha calcolati l’Organizzazione
internazionale per le migrazioni, circa diecimila al mese, possono superare tranquillamente i posti
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di controllo e proseguire il viaggio fino ai barconi che li porteranno in Italia. Da Madama i francesi li
lasciano passare. Da Ventimiglia no.
La Francia è venuta quaggiù per rioccupare militarmente i territori in cui nell’ultimo decennio si
erano insediati Paesi concorrenti. Sono regioni ricchissime di materie prime, comprese incredibili
riserve d’oro a pochi centimetri sotto la sabbia. Al Mali e al Niger la Cina ha regalato importanti
infrastrutture come ponti e strade, mentre dal Sahara ha cominciato a estrarre petrolio, che raffina
a Zinder ed esporta. Il Canada tra il 2006 e il 2009 ha provato a contrastare ai francesi il monopolio
nello sfruttamento dell’uranio nigerino, con cui la Francia produce il trenta per cento della propria
energia elettrica. E per ultima in Niger è atterrata la Turchia, per partecipare alla corsa alle risorse
minerarie del Sahara, di cui le potenze globali grandi e piccole si sono accorte.
È evidente che Hollande non sia preoccupato dell’incolumità degli africani. A certi livelli gli interessi
minerari e geopolitici sono più forti della sensibilità umana. Abbattere il regime di Tripoli violando la
risoluzione dell’Onu che limitava l’intervento alla protezione di Bengasi, come ha denunciato JeanPierre Chevènement, già ministro francese della Difesa e dell’Interno, è stato come tirare al
biliardo. Gli storici diranno se la carambola militare e sociale che è ricaduta sul Sahara, sul
Mediterraneo e sull’Europa meridionale fosse premeditata da Parigi.
Quando nel marzo 2011 Sarkozy impone agli alleati l’attacco a Tripoli, i primi a essere travolti sono
proprio gli interessi italiani in Libia. E forse non a caso. Gli strateghi francesi non avevano mai
digerito l’accordo di Bengasi del 2008 tra Gheddafi e Berlusconi sulla riparazione dei danni
coloniali provocati dall’occupazione italiana: 5 miliardi in 25 anni da versare al regime, per ovvie
ragioni ora sospesi. Un pessimo precedente, secondo Parigi. Se le ex colonie francesi
pretendessero risarcimenti con la stessa proporzione, risolveremmo il problema dell’emigrazione
africana in Europa. Ma la Francia sarebbe in bancarotta. Gheddafi in quei mesi gioca su più tavoli.
Lavora segretamente anche per Parigi.
In Niger tra il 2006 e il 2009 arma la rivolta dei tuareg contro il presidente Mamadou Tandja che
minaccia il monopolio francese sull’uranio. Poi si presenta a Niamey, la capitale, a proporre la
pace e ad aprire la strada a Sarkozy quando, dopo tre anni di guerra e di morti, la Francia ottiene
dal Niger il secondo giacimento di uranio più grande al mondo. Pochi mesi dopo il presidente
Tandja viene punito e rovesciato da un golpe. E sempre nel 2010 Nouri Mesmari, il capo del
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protocollo di Gheddafi, lascia la Libia e fugge con la famiglia a Parigi. È con lui che i servizi segreti
francesi organizzano la rivolta di Bengasi contro il Colonnello. Di fronte alla fine evidente, il figlio di
Gheddafi, Saif al-Islami, accusa Sarkozy di avere incassato dal padre fondi neri per la sua elezione
all’Eliseo nel 2007 e ne chiede la restituzione. Si parla di 50 milioni. Ma ormai proprio da Bengasi
divampa la primavera “fabriqué en France”. Il 19 marzo 2011 parte l’attacco che secondo la
risoluzione dell’Onu deve limitarsi a proteggere la città della Cirenaica dalla vendetta del dittatore.
E che Sarkozy spinge fino al rovesciamento del regime.
Sulla storia dei fondi neri sono in corso a Parigi varie inchieste che coinvolgono l’ex presidente, il
ministro dell’Interno Claude Guéant, e alcuni funzionari. Il testimone chiave dell’indagine,
Gheddafi, viene ucciso il 20 ottobre 2011. Mentre gli 007 francesi e italiani corrono a mettere al
sicuro il suo archivio: certe carte rimaste segrete qualche scandalo potrebbero provocarlo anche
a Roma. Da allora ogni mossa, ogni dettaglio visti da qui, in Niger, sembrano rispecchiare il piano
delle “Repubbliche del Sahara”. È il progetto coloniale che gli strateghi francesi da sessant’anni
minacciano di recuperare dal cassetto ogni volta che sentono in crisi il loro dominio: una
confederazione di Stati indipendenti da affidare ai nomadi tuareg che attraverserebbe il Nord del
Mali, il Nord del Niger e anche il Fezzan, nel Sud della Libia dove oggi continuano i combattimenti.
Attraverso l’accordo di pace, firmato il 20 giugno con il governo del Mali, i tuareg riuniti nel
Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma) ottengono la costituzione di assemblee
regionali, l’inclusione dei combattenti in una forza armata per il Nord, l’amnistia per i ribelli e nuovi
programmi per la sicurezza e lo sviluppo. Devono però rinunciare all’autonomia. È la quarta rivolta
dall’indipendenza del Mali nel 1960 che finisce più o meno allo stesso modo. Dall’accordo, steso
nei mesi scorsi con la benedizione dell’Algeria, altra potenza regionale, sono esclusi i gruppi islamisti
di “Ansar Dine” e del “Movimento per l’unicità e il jihad nell’Africa Occidentale”. Vedremo quanto
reggerà e come risponderanno i terroristi. Anche perché da fine agosto gli stessi tuareg del Cma
non partecipano più ai lavori del comitato che dovrebbe consolidare la pace.
Non bisogna dimenticare che queste erano zone relativamente stabili, prima della distruzione della
Libia. I tuareg, chiamati da Gheddafi in sua difesa, dopo la disfatta ritornano in Mali carichi di armi
e cominciano la loro guerra alleandosi con il peggio dell’islamismo militante. Conquistano le città
di Kidal, Gao e Timbuctu consegnandole poi agli estremisti che impongono la legge coranica e
demoliscono monumenti. Quando i fanatici decidono di varcare il fiume Niger e puntare sulla
capitale Bamako, le Nazioni unite forniscono il supporto giuridico e tra gennaio 2013 e luglio 2014 la
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Francia risponde con l’operazione “Serval”. Il pericoloso embrione di califfato viene così per il
momento sconfitto.
Pensate che Hollande abbia poi restituito il territorio riconquistato al legittimo titolare, cioè al
governo di Bamako? No. I francesi affidano il Sahara agli stessi tuareg del “Movimento nazionale
per la liberazione dell’Azawad” che avevano attaccato l’esercito maliano e aperto la strada agli
islamisti. Gli stessi con cui oggi Bamako, per scarsità di mezzi, è costretta a condividere la pace:
dopo aver addirittura ringraziato Parigi per la terapia militare contro i terroristi. Una storiella diffusa
nel Sahel racconta che per un medico i malati guariti sono soldi persi, anche i malati morti lo sono:
«Perché il medico continui a guadagnare, bisogna mantenere il malato in stretta agonia
controllata». E l’agonia del Mali è la ragione che spinge migliaia di ragazzi a imbarcarsi verso
l’Italia: tanto da essere il secondo gruppo più numeroso dopo gli eritrei.
Boko Haram è l’altro movimento terroristico che dal Nord della Nigeria minaccia il Niger e
soprattutto la regione in cui la Cina ha trivellato pozzi di petrolio e costruito una raffineria. Al
confine con il lago Ciad, l’esercito di Niamey è impegnato dall’inizio dell’anno in un confronto con
la guerriglia. La capacità militare della setta terroristica si è rafforzata grazie all’arrivo di armi
pesanti dalla Libia. Secondo fonti di intelligence nigeriane, per lungo tempo i terroristi sarebbero
stati addestrati in Ciad. E avrebbero goduto della copertura di uomini vicini al presidente ciadiano
Idriss Déby Itno. Contemporaneamente, grazie alla lotta ufficiale contro Boko Haram, il presidente
Déby Itno si è riscattato da anni di isolamento: tanto che la Francia ha installato il comando
militare di “Barkhane”, l’operazione che dall’agosto 2014 ha sostituito la missione “Serval”, proprio
a N’Djamena e non a Niamey. Un modo per controllare da vicino l’ambiguo alleato: in una terra di
caldo e miraggi, la realtà non è mai come appare.
In questo risiko, l’Italia non c’è. Dall’11 al 14 maggio Niamey ospitava il vertice dei Paesi del G5Sahel, l’alleanza antiterrorismo che comprende Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad.
Arrivano in quei giorni anche i ministri dell’Interno di Francia (ovviamente) e Spagna. Discutono di
come fermare gli emigranti, di sbarchi in Europa. Cioè di noi. Il ministro Angelino Alfano non è
nemmeno invitato.
Gli Stati Uniti al momento inseguono a distanza. E si accontentano di un avamposto per i loro droni
nell’aeroporto di Agadez, la porta del Sahara. Mentre Boko Haram cerca di reclutare giovani
disoccupati nella povertà dei villaggi rurali e nelle baraccopoli del Niger. Se aderisci, ti offrono una
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moto cinese da 300 euro e 500 mila franchi, circa settecento euro. Non tutti diventeranno terroristi.
Ma in questo modo la rete di comunicazione e supporto si allarga. Per un ragazzo che mangia
sabbia dalla nascita, in un Paese dove il settanta per cento della popolazione ha meno di 25 anni,
diventa difficile spiegare che Boko Haram è un nemico. Non è però impossibile. Basterebbe forse
affrontare i predicatori sullo stesso terreno offrendo qualcosa in più: due moto e mille euro.
Soprattutto creando le condizioni per far crescere l’economia. Questa sarebbe vera sicurezza.
L’operazione “Barkhane” impiega 3.000 soldati francesi, 20 elicotteri, 400 tra camion e veicoli
blindati, 7 aerei da trasporto, 6 caccia e 4 droni: quanti posti di lavoro sicuri si sarebbero potuti
creare con la stessa spesa?
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L’unico vero argine contro l’islamismo in Niger è per ora l’Islam tollerante di questo straordinario
Paese. Prima dell’estate il Consiglio superiore della comunicazione, l’autorità che tutela la libertà e
l’indipendenza dei mezzi d’informazione, ha respinto la domanda per l’apertura di cinque radio
presentata a Niamey dall’associazione “Jama’at Islamique Ahmadiyya”: perché l’etere è di tutti
mentre, spiega il vice presidente del Consiglio della comunicazione, Ali Sountalma Ousseini, quella
è «un’associazione a carattere confessionale con l’obiettivo di propagandare l’Islam interpretato
dal fondatore del movimento di Ahmadiyya e dai suoi califfi». Con una norma così laica, perfino
“Radio Maria” sarebbe fuorilegge.
Fabrizio Gatti ha scritto da inviato nella provincia di Tillabéri, in Niger.
Tratto da: http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/10/02/news/africa-dovebombarda-hollande-1.232674
Vi è un filo rosso che lega gli assurdi attentati di Parigi la guerra dell'Isis, il pensiero economico e la
finanza. Per trovarlo occorre farsi delle domande, magari partendo da pagina 8 del Sole24ore di
ieri; una pagina dedicata al finanziamento dell'Isis. Su una stima di circa 700milioni di euro l'anno di
entrate del califfato le donazioni contribuiscono per il 6%, le tasse interne per il 14% i saccheggi per
il 14,5% ed il petrolio per ben il 65,5%. Di queste voci due (petrolio e donazioni, il 70%) dipendono in
buona parte da scambi economico finanziari con il resto del mondo. Non solo si spostano tra i 50 e
i 100 milioni di barili all'anno (piuttosto ingombranti), ma si eseguono pagamenti ingenti e
trasferimenti finanziari importanti.
Non c'è dietro un complotto: è la normalità. Ogni giorno compriamo prodotti che non sappiamo e
non siamo in grado di sapere dove sono stati realmente prodotti e in quali condizioni sociali ed
ambientali. Ogni giorno, anche i nostri soldi, si possono trovare a girare in un mercato globale in cui
i paradisi fiscali ed il sistema finanziario ombra sono la norma, se non altro per la percentuale
elevatissima di scambi trattati. Allora questo strabismo economico finanziario che ci fa
condannare l'Isis, ma non ci fa vedere come è ben inserito negli scambi economici, non è un
accidente casuale, una dabbenaggine dell'occidente, od una astuzia dell'Isis stesso.
È conseguenza del modo con cui facciamo funzionare la finanza e l'economia.Le valutiamo quasi
esclusivamente su parametri di creazione di valore economico e le lasciamo molto opache sulla
conseguenze non economiche delle azioni economiche, sulla capacità di seguire il filo dello
creazioni e gestione delle merci, come di seguire i passaggi finanziari (ancorché avvengano via
computer interconnessi). Il nostro sistema economico ed ancor più la finanza che lo controlla è
reticente su valutazioni sociali ambientali e culturali rispetto all'oggetto delle attività economiche e
finanziarie.
Se i cittadini potessero scegliere facilmente (ad esempio grazie ad informazioni sulla produzione di
CO2 di strumenti finanziari e merci) come indirizzare l'economia verso un futuro di riduzione di
cambiamenti climatici utilizzerebbero questa possibilità forzando una riconversione ecologica. Se
la finanza fosse meno opaca nelle sue filiere globali sicuramente sarebbe possibile boicottare il
finanziamento dell'Isis.
Nonostante la sovra regolamentazione del sistema bancario alla fine quello che continua a
mancare è una maggiore trasparenza su dove come si muovono i soldi e cosa producono. E' un
idea della finanza etica che forse merita approfondire.
Altrimenti resterà sempre è molto più facile per l'Isis gestire scambi per centinaia di milioni di dollari
con il nemico che per un solo migrante economico raggiungere i nostri paesi
Tratto da: http://www.bancaetica.it/blog/per-fermare-leconomia-del-terrore
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Un giorno dopo l’attentato di Parigi, il valore delle azioni delle aziende che producono armi è
lievitato fino a tre punti percentuale. Dal 2001 ad oggi, la spesa militare mondiale è aumentata del
50%
Mentre Hollande giura vendetta e guerra all’Isis aziende come la Raytheon Company, Northnop
Grumman Corporation, Lockheel Martin Corporation, General Dynamics, Booz Allen Hamilton
Holding vedono lievitare il valore delle loro azioni.
Queste sono tra le più importati aziende di produzione attive nel campo aereospaziale e nella
difesa: in parole povere producono armi.
Appena un giorno dopo gli attentati di venerdì sera a Parigi, hanno visto crescere il valore delle
loro azioni di quasi tre punti percentuali. Non fa eccezione Thales, azienda di produzione francese,
anche lei arriva quasi al 3%.
«Anche Finmeccanica, azienda italiana», spiega Francesco Vignarca, coordinatore nazionale rete
italiana per il disarmo, «oggi ha avuto una crescita del 3%».
La tendenza, però, pare essere la stessa dopo l’11 settembre 2001.
«Il sistema finanziario funziona così: l’importate è fare profitto. E il profitto non guarda ai diritti delle
persone; il conflitto, la percezione del conflitto, in molti casi viene interpretata come un business».
La reazione dei mercati, pare quindi essere “classica”, nessuna novità sorprendente. «Dall’undici
settembre ad oggi», spiega Vignarca, «la spesa militare mondiale è aumentata del 50%. Le
aziende producono armi che nella maggior parte dei casi non le usano “in casa propria”, ma le
rivendono a quegli stessi paesi con cui entrano in conflitto».
Tratto da: http://www.vita.it/it/article/2015/11/17/per-qualcuno-sono-un-business/137428/
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Le guerre sono sempre state combattute da molti poveri, giovani e innocenti inviati a morire da
pochi ricchi, potenti, colpevoli, che non morivano in quelle guerre da loro stessi volute e alimentate
dai loro interessi. Questa verità, antica e profonda, oggi è meno evidente ma non meno vera.
Siamo realmente dentro una guerra mondiale, diversa dalle guerre del Novecento ma non meno
drammatica. Una guerra che non si sa bene quando e dove sia iniziata, quando, dove e come
finirà. È una guerra liquida in una società liquida. Sono (quasi) invisibili gli interessi in gioco, non
sappiamo bene chi la vuole, chi ci guadagna, chi non vuole che finisca. Questa incapacità di
capire, presente in tutte le guerre complesse, è particolarmente forte in questa guerra, che non
deve però esimerci dallo sforzo di pensare, e poi combattere soprattutto le tesi false e ideologiche
che ci stanno inondando all’indomani della strage di Parigi.
Una tesi molto popolare è quella che individua nella religione, e in particolare nella natura
intrinsecamente violenta dell’islam, la principale, se non unica, ragione di questa guerra. Una tesi,
questa, tanto diffusa quanto sbagliata. Il Corano ha una sua ambivalenza riguardo alla violenza, lo
sappiamo. Ci sono passaggi dove invita alla «guerra santa». Ma c’è anche una versione del
fratricidio tra Caino e Abele che più della Bibbia ebraico-cristiana, parla forte di non violenza. Nel
racconto coranico i due fratelli parlano nei campi. Abele intuisce che Caino sta levando la sua
mano contro di lui per ucciderlo, e gli dice: «Anche se userai la tua mano per uccidermi, io non
userò la mia mano per ucciderti» ("Il sacro Corano", al-Ma’idah: Sura 5,28).
Abele presentato come il primo non-violento della storia, che muore per non diventare esso stesso
assassino. Nel Corano c’è anche questo.
È un fatto, però, che oggi l’islam vive una stagione difficile. Sette fondamentaliste usano pezzi del
Corano per plagiare giovani, vittime e carnefici di un sogno-incubo folle nel quale sono caduti.
Prede finite nella trappola del cacciatore di "martiri" da usare per scopi dove il Corano è
semplicemente il laccio della trappola. Per combattere questa malattia che oggi si è insidiata nel
cuore dell’islam e che lo sta minando dal di dentro, è necessario rafforzare le difese immunitarie
per sostenere l’organismo, che nel suo insieme è sano ma sta soffrendo. È lo stesso corpo che deve
espellere con maggiore decisione il virus che è entrato, resistere contro quelle cellule impazzite che
lo stanno indebolendo, infliggendogli molto dolore. Ma tutti gli amanti della vita devono aiutare
l’islam a farcela. Nell’epoca della globalizzazione, non può farcela da solo.
Al tempo stesso, non dobbiamo essere così ingenui da dimenticare che in questa guerra gli aspetti
economici in gioco sono enormi. Non a caso i terroristi belgi di Parigi venivano dalla cittadina più
povera del Belgio, con una disoccupazione giovanile attorno al 50%. La prima guerra del Golfo del
1991 non fu certo originata dalla prevenzione del fondamentalismo.
In questi mesi si parla molto delle armi che alimentano questa guerra. Occorre parlarne ancora di
più, perché è un elemento decisivo. Proprio pochi giorni fa da Cagliari sono partiti missili verso la
Siria, prodotti e venduti da imprese italiane. L’Italia, assieme alla Francia, è tra i maggiori esportatori
di armi da guerra nelle regioni arabe, nonostante ci sia nel nostro Paese una legge del 1990 che
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vieterebbe la vendita di armi a Paesi in guerra. I politici che piangono, magari sinceramente, e
dichiarano lotta senza quartiere al terrorismo, sono gli stessi che non fanno nulla per ridurre l’export
di armi, e che difendono queste industrie nazionali che muovono grosse quote di Pil e centinaia di
migliaia di posti di lavoro.
Una moratoria internazionale seria che imponesse un divieto assoluto di vendita di armi ai Paesi in
guerra, non segnerebbe certo la fine del califfato e del terrorismo, ma sarebbe una mossa decisiva
nella direzione giusta. Non si può nutrire il male che si vuol combattere. Noi lo stiamo facendo, e da
molti anni. Non ce ne accorgiamo finché qualche scheggia di quelle guerre non arriva dentro le
nostre case e uccide i nostri figli. In realtà sappiamo che finché l’economia e il profitto saranno le
parole ultime delle scelte politiche, poteri così forti che nessuna politica riesce a frenare,
continueremo a piangere per lutti che contribuiamo a provocare.
Il presidente francese Hollande ha sbagliato a parlare di «vendetta» all’indomani della strage, e
poi a perpetrarla bombardando domenica la roccaforte del califfato in Siria, rispondendo col
sangue ad altro sangue. Questa è soltanto la legge di Lamek, precedente la stessa "legge del
taglione". La vendetta non deve mai essere la reazione dei popoli civili, neanche dopo una delle
notti più buie della storia recente dell’Europa. La sconfitta più grande sarebbe far tornare parole
come «vendetta» nel lessico delle nostre democrazie, che le hanno eliminate dopo millenni di
civiltà, di sangue, dolore.
Infine dobbiamo sostenere, seriamente e decisamente, chi sta osando la pace e il dialogo in
questi tempi così difficili. In primis papa Francesco, che non può restare solo né l’unica voce a
chiedere la pace e la non-violenza. Se gridassimo in milioni che l’unica risposta alla morte è la vita,
e lo dicessimo insieme ai tanti musulmani feriti e straziati come noi, se facessimo sentire nelle strade,
nei social, davanti ai Parlamenti, il nostro "no" alla produzione e vendita delle nostre armi a chi le
usa per uccidere e ucciderci, allora forse le parole profetiche di Francesco troverebbero un’eco
più grande. Potrebbero avere la forza di muovere persino i bassi interessi economici, che sempre
più controllano e dominano il mondo, le religioni, la vita.
Tratto da: http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/strage-parigi-basta-armare-laguerra.aspx
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Un nuovo carico di bombe MK-80 prodotte in Sardegna è stato consegnato in Arabia Saudita. Il
cargo 747 partito questa notte dall’aeroporto di Cagliari - un aeroporto civile – è atterrato poco
prima delle 10 in Arabia Saudita.Dalla rotta (non si riesce a tracciare completamente la fase finale
del percorso) sembra proprio che la destinazione sia Ta’if, città sede di una base militare saudita,
esattamente come già successo lo scorso 29 ottobre. Si tratta di ordigni prodotti a Domusnovas
dalla RWM Italia, inviati a un Paese che – dice Francesco Vignarca, coordinatore della Rete
Italiana per il Disarmo «è evidentemente in guerra e viola i diritti civili, quindi secondo la legge 185
le armi all’Arabia Saudita non le potremmo vendere, è una violazione della legge».
Non è nemmeno la prima volta che accade. «È la terza volta, dopo la spedizione via mare di
maggio e quella aerea, sempre dall’aeroporto civile di Cagliari, della notte del 29 ottobre scorso.
Questa volta però è la peggiore», continua Vignarca. Peggiore su due fronti, uno di politica interna
e uno di dato di realtà.
Dove saranno usate le bombe, infatti, è facile immaginarlo: Yemen. Le Nazioni Unite da mesi
riferiscono che in Yemen è in corso una “catastrofe umanitaria” senza precedenti, con oltre 6mila
morti di cui più della metà tra la popolazione civile, 21 milioni di persone, pari all’80% della
popolazione, che necessitano di aiuti umanitari e 6 milioni di persone bisognose di assistenza di
primo soccorso immediata. Nelle zone abitate da civili in Yemen sono stati ritrovati ordigni
inesplosi esportati proporio dalla RWM Italia e sganciati dalla Royal Saudi Air Force», riferisce
Giorgio Beretta dell’Osservatorio OPAL di Brescia: «È un conflitto senza alcun mandato delle Nazioni
Unite e proprio l’altro ieriil Consiglio europeo si è dichiarato estremamente preoccupato per
l'impatto delle ostilità in corso in Yemen, inclusi i bombardamenti e gli attacchi indiscriminati contro
le infrastrutture civili, in particolare le strutture sanitarie e le scuole. Questo nuovo carico di bombe,
dopo quello partito a fine ottobre, dimostra l’urgenza dell’Arabia Saudita di ricevere forniture da
impiegare prontamente in Yemen». Già, perché se a maggio gli ordigni potevano viaggiare per
mare (costa meno ma ci vuole più tempo), queste ultime due spedizioni estremamente ravvicinate
sono state fatte via aereo, con costi maggiori ma una velocità di consegna estrema: «Non
possiamo che immaginare un’urgenza di utilizzarle», sottolinea con preoccupazione Vignarca.
E veniamo al dato di politica interna. Questa terza spedizione è peggio delle altre perché questa
volta tutti sapevano prima, incluso che non ha il Governo, fatto nulla per fermarla. Ieri mattina
infatti l'onorevole Mauro Pili, che era stato informato dell’imminente spedizione, ha informato sia le
reti che si occupano di questi temi sia il Parlamento, che stava esaminando il decreto di proroga
delle missioni internazionali, presentando un ordine del giorno: «L’ordine del giorno è stato respinto.
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Hanno votato a favore tutte le opposizioni, mentre il Governo ha dato parere contrario e quindi è
stato bocciato», spiega Pili. «Chiedevo di non autorizzare il trasbordo in base al fatto che l’Italia
non è stata coinvolta da nessun organismo internazionale in Yemen e che anzi questo conflitto è
avversato dall’Onu. Il Governo ha avallato con la sua posizione – è un dato politico rilevantissimo,
perché mai si era espresso prima su questo – sta avallando l’attacco allo Yemen con i 4mila civili
morti e il milione e mezzo di sfollati. L’Italia da oggi sta appoggiano un conflitto non autorizzato e
anzi condannato dalle organizzazioni internazionali. A questo punto l’aeroporto civile di Cagliari
l’Italia diventa un bersaglio possibile del terrorismo, un aeroporto civile utilizzato per due volte per
un trasbordo militare, è una cosa che non si è mai sentita, di una gravità inaudita». (qui lo
stenografico della seduta di ieri, con il Sottosegretario di Stato per la difesa Domenico Rossi che a
proposito dell'odg di Pili si limita a dire «Infine, il Governo non accetta l’ordine del giorno Pili n.
9/3393- A/51» e la votazione con 103 sì e 221 no).
Pili racconta anche i retroscena della spedizione: «La spedizione era prevista già per alcuni giorni
fa, l’hanno rinviata per non farla coincidere con il viaggio del premier in Arabia Saudita.
Ovviamente anche ora hanno tentato di nasconderla: dall’Azerbaijan sono arrivati due cargo, uno
su Malpensa e uno su Cagliari e questo secondo non era leggibile». Un dato interessante: anche
durante il volo di ritorno, ci spiega Vignarca, il cargo 747 ha spento i transponder, sopra i cieli
dell’Egitto.
«Ci rivolgiamo ancora una volta al Governo, che finora non ha risposto all’appello che la nostra
Rete ha diffuso nei giorni scorsi insieme ad Amnesty International e Opal Brescia, affinché si fermino
questi spedizioni di armi e morte. Numerose interrogazioni parlamentari sono già state presentate
nel corso degli ultimi mesi, ma senza alcun tipo di risposta. Consideriamo grave il silenzio del
Governo e ancora più grave è il fatto che si vadano a fomentare conflitti in un'area altamente
rischiosa come quella mediorientale», conclude Vignarca.
Tratto da: http://www.vita.it/it/article/2015/11/19/litalia-invia-bombe-in-arabia-saudita-con-lavallodel-governo/137451/
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Il Messaggio di Papa Francesco
Pag. 2
LE VITTIME
Pag. 3
Non avrete mai il mio odio
RIFLESSIONI
pag. 3
Pag. 4
La paura è la nostra nemica
pag. 4
I gesuiti: “associare terrorismo e immigrazione sarebbe
una trappola”
pag. 7
Il Sultano e San Francesco
pag. 11
L’ISIS
Pag. 17
Ma cos’è questo ISIS?
pag. 17
Lo Stato Islamico spiegato a mio figlio
pag. 21
Lo Stato Islamico contro la “Terza Via”
pag. 26
Chi è chi in Siria
pag. 28
La mappa delle vittime del terrorismo: ecco i Paesi più e
meno pericolosi
pag. 31
LA POLITICA
Pag. 34
Parigi: il branco di lupi, lo Stato Islamico e quello che
possiamo fare
pag. 34
Attacco alla Francia: cosa c’è dietro gli attentati
e Bataclan
pag. 39
Africa, dove bombarda François Hollande
pag. 42
L’ECONOMIA
Pag. 48
Per fermare l’economia del terrore
pag. 47
Parigi, exploit dei produttori di armi
pag. 48
Il male che anche noi nutriamo: basta armare la guerra
pag. 49
L’Italia invia bombe in Arabia Saudita, con l’avallo del Governo
pag. 51
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