Vogliamo capire. Senza retorica e senza delegare ad altri il compito di farlo per noi. Per capire occorre regalare tempo ed energie allo studio e alla nostra voglia di rimanere umani. Vogliamo capire perché non sempre ci viene detto tutto e soprattutto non sempre ci viene detta la verità. Sentiamo l’esigenza parole che ci aprano la mente, anche se fanno male. Abbiamo l’esigenza di pensieri che non chiudano porte o alzino muri. Piccoli strumenti per cominciare a interrogarci. Consapevoli di un limite; di essere schierati dalla parte del dialogo, dell’accoglienza, della giustizia, della ricerca della verità. Altrimenti non avrebbe senso fare tutto questo. Altrimenti non saremo mai “sale e lievito” per questa terra. Non abbiamo la pretesa di dare risposte a tutto su tutto; abbiamo però il desiderio di offrire l’opportunità ad ognuno di non avere paure delle domande. Certi che “Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi”.(2 Corinti 4, 8-9) Cari fratelli e sorelle, desidero esprimere il mio dolore per gli attacchi terroristici che nella tarda serata di venerdì hanno insanguinato la Francia, causando numerose vittime. Al Presidente della Repubblica Francese e a tutti i cittadini porgo l’espressione del mio fraterno cordoglio. Sono vicino in particolare ai familiari di quanti hanno perso la vita e ai feriti. Tanta barbarie ci lascia sgomenti e ci si chiede come possa il cuore dell’uomo ideare e realizzare eventi così orribili, che hanno sconvolto non solo la Francia ma il mondo intero. Dinanzi a tali atti, non si può non condannare l’inqualificabile affronto alla dignità della persona umana. Voglio riaffermare con vigore che la strada della violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità e che utilizzare il nome di Dio per giustificare questa strada è una bestemmia! Vi invito ad unirvi alla mia preghiera: affidiamo alla misericordia di Dio le inermi vittime di questa tragedia. La Vergine Maria, Madre di misericordia, susciti nei cuori di tutti pensieri di saggezza e propositi di pace. A Lei chiediamo di proteggere e vegliare sulla cara Nazione francese, la prima figlia della Chiesa, sull’Europa e sul mondo intero. Tutti insieme preghiamo un po’ in silenzio e poi recitiamo l’Ave Maria. [Ave Maria…] 2 «Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa. L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio». 3 Un venerdì sera d’autunno, con un tempo clemente. Fine settimana, tempo di uscite, momenti di svago. La gioia di ritrovarsi tra amici, andare a un concerto, vedere una partita. Si sta insieme, uomini e donne, tanti giovani. Piaceri diversi, secondo i gusti e la voglia, bere, fumare, ballare, stare vicini, mescolarsi, sedursi, amarsi, insomma, andare gli uni incontro agli altri. Basta mettere in fila queste parole semplici, per dire ciò che sentiamo tutti da ieri: ognuno di noi, i nostri figli, i nostri genitori, i nostri amici, i nostri vicini, noi stessi, eravamo tutti nel mirino degli assassini. Perché il loro obiettivo non erano dei luoghi simbolici come negli attentati di gennaio, dei luoghi in cui esprimere il loro odio per la libertà (Charlie Hebdo) o per gli ebrei (l’Hyper Cacher). Qualcuno ha detto che i responsabili della carneficina di Parigi non avevano un obiettivo. È falso. Armati di un’ideologia totalitaria, che usa la religione come pretesto per uccidere ogni forma di pluralità, cancellare ogni diversità, negare l’individualità, avevano una missione: spaventare una società che incarna l’ambizione opposta. Al di là della Francia, della sua politica estera o di chi la governa, il loro obiettivo era l’ideale democratico di una società libera, perché fondata sul diritto. Il diritto di avere diritti; la parità di diritti, senza distinzione di origine, aspetto, credo; il diritto di farsi strada nella vita senza essere inchiodati alla propria nascita o appartenenza. Una società di individui, in cui il “noi” è fatto di infiniti “io” in relazione tra di loro. Una società di libertà individuali e diritti collettivi. È questa società aperta che i terroristi vogliono chiudere. Il loro obiettivo è che la società si chiuda, si ripieghi su se stessa, si divida, si rannicchi, si abbassi e si perda. È il nostro vivere insieme che vogliono trasformare in una guerra intestina, una guerra contro noi stessi. Quali che siano le circostanze, le epoche o le latitudini, il terrorismo scommette sempre sulla paura. Non solo la paura che diffonde nella società, ma la politica della paura con cui lo stato reagisce: 4 una fuga in avanti dove al terrorismo segue la sospensione dei diritti democratici in una guerra senza fine, senza fronti e senza limiti, senza altro obiettivo strategico che il suo perpetuarsi, in cui gli attacchi e le risposte si alimentano a vicenda, le cause e gli effetti s’intrecciano all’infinito senza che mai emerga una soluzione pacifica. Per quanto doloroso, dobbiamo cercare di capire le ragioni del terrorismo. Per combatterlo meglio, per non cadere nella sua trappola, per non dargli mai ragione, fosse pure per incoscienza o cecità. Le profezie che si autoavverano sono il meccanismo su cui si basa la sua logica omicida: provocare attraverso il terrore un caos ancora maggiore da cui trarre ulteriore rabbia, risentimento, ingiustizia. Lo sappiamo per esperienza, abbiamo visto come la fuga in avanti statunitense dopo gli attacchi del 2001 sia stata all’origine del disastro in Iraq, che ha generato il gruppo Stato islamico, nato dalle macerie di uno stato distrutto e dalla disgregazione di una società violentata. Riusciremo a imparare da questi errori catastrofici, o finiremo per ripeterli? Davanti a un pericolo che riguarda tutti noi, non possiamo abbandonare il nostro futuro e la nostra sicurezza a chi ci governa. Se è loro compito proteggerci, non dobbiamo però accettare che lo facciano contro di noi, nonostante noi, senza di noi. È sempre difficile formulare delle domande scomode all’indomani di eventi che colpiscono un popolo intero, unito nella commozione e nello sgomento. Ma, collettivamente, non riusciremo a resistere sul lungo periodo al terrore che ci sfida se non saremo padroni delle risposte che gli verranno date. Se non siamo informati, consultati, mobilitati. Se ci viene negato il diritto di mettere in discussione una politica estera di alleanze con regimi dittatoriali o oscurantisti (Egitto, Arabia Saudita), una serie di avventure militari senza visione strategica (in particolare nel Sahel), le innumerevoli norme di sicurezza che si moltiplicano inutilmente (e al tempo stesso minacciano le nostre libertà), i discorsi politici miopi e di infimo livello (sull’islam in particolare) che dividono invece di unire, che alimentano l’odio invece di rassicurare, che esprimono le paure dall’alto senza mobilitare la società dal basso. 5 Far fronte al terrorismo significa fare società, fare muro con tutto ciò che vogliono abbattere. Difendere la nostra Francia arcobaleno, forte della sua diversità e della sua pluralità, questa Francia capace di unirsi nel rifiuto del capro espiatorio e delle comode semplificazioni. Questa Francia che nel 2015 ha tra i suoi eroi anche musulmani, così come atei, cristiani, ebrei, massoni, agnostici, di tutte le provenienze, culture o fedi. La Francia di Ahmed Merabet, il poliziotto di origine algerina ucciso di fronte alla sede di Charlie Hebdo. La Francia di Lassana Bathily, l’ex immigrato irregolare originario del Mali che ha salvato molti ostaggi nell’Hyper Cacher. Questa Francia rappresentata, nella lunga notte parigina del 13 novembre, dai tanti soccorritori, operatori sanitari, medici, poliziotti, soldati, vigili del fuoco, dai tanti gesti di buona volontà, dalle mille solidarietà figlie di questa diversità che fa la ricchezza della Francia. E anche la sua forza. Nel Regno Unito, dopo gli attentati del 2005, la società si unì spontaneamente intorno allo slogan lanciato su internet da un ragazzo: “We’re not afraid”, non abbiamo paura. In Spagna, dopo gli attacchi del 2004, la società si strinse intorno a un simbolo: le mani alzate, con i palmi aperti, disarmate, ma allo stesso tempo determinate. No, non abbiamo paura. Tranne di noi stessi, se ci arrendiamo alla paura. Tranne dei nostri politici, se ci inducono in errore e ci ignorano. Gli assassini vorrebbero chiudere la nostra società, noi ci batteremo perché resti aperta, più che mai. Il simbolo di questo rifiuto potrebbero essere due mani che si incontrano, si stringono e si fondono, tendendosi l’una verso l’altra. Due mani incrociate. (Traduzione di Chiara Nielsen) tratto da http://www.internazionale.it/opinione/edwy-plenel/2015/11/15/parigi-terrorismo-paura 6 Terrorismo e immigrazione. Di fronte alla tragedia di Parigi i gesuiti provano a dare risposte diverse da quelle dure proposte da alcuni in queste ore. Frutto di una lettura coraggiosa, umana e ragionevole insieme, sulla scia delle parole di papa Francesco. Sabato 14, nelle ore calde della commozione, aprendo un seminario organizzato da tempo e dal titolo “Immigrazione e asilo: le sfide del Mediterraneo”, 7 (Qui la lo streaming dell’incontro http://livestream.com/laciviltacattolica/immigrazione ) presso la sede della Civiltà Cattolica, Francesco Occhetta, scrittore della storica rivista, afferma con nettezza: “davanti ai morti di Parigi e di quelli che li hanno preceduti negli ultimi attentati, in questo clima di paura noi oggi potremmo rischiare di associare terrorismo con immigrazione; sarebbe la trappola più grande a livello culturale e se cascassimo in questa trappola faremmo il gioco del terrorismo.”. Ci sono diversi problemi, ammette Occhetta, (prevenzione, globalizzazione, intelligenze e sicurezza, Siria, responsabilità dell’Occidente), che però richiedono tempi e contesti diversi. Oggi abbiamo chiesto uno sforzo culturale più ampio: parlare di immigrazione e asilo, “una dimensione più ampia che tocca la storia – dice il gesuita - processi immigratori inarrestabili, che nella storia hanno già vissuto periodi molto simili. Quindi parlare di immigrazione significa affondare l’analisi oltre la cronaca. Perché quando i popoli si muovono cambiano la storia e non solamente il quotidiano”. A introdurre con alcuni numeri di contesto è Sandra Sarti - Vice capogabinetto del ministero dell'Interno, coordinatore dell’ufficio relazioni e Affari internazionali. “Il terrorismo, dice, ha infangato il tema della migrazione. Il fenomeno migrazione include gente che cerca un rifugio, che scappa dalla paura di situazioni insostenibili. Il terrorismo cerca solo la morte”. Sono le sue prime parole di apertura “Nel Mediterraneo si sta riscrivendo la storia dell'Europa. Dal 2013 crescono gli sbarchi. Nel novembre del 2015 sono stati accolti 142.550 immigrati, non sono diminuiti, ma si sono spostate le rotte: il Mediterraneo oggi lascia passare il 30% delle migrazioni irregolari e non più quel 70-80% come era prima di quest’estate.”. E, con un accento di fierezza sull’operato delle istituzioni del nostro Paese, sottolinea come sia “importante dire quanto lo Stato fa per terra e per mare, dai militari, alla guardia costiera, alle Ong che continuano a cooperare per salvare vite umane. Anche la marina mercantile, per fini umanitari raccoglie le persone e devia i propri percorsi con svantaggi economici”. In 14 anni, dal 2000 al 2014, sono stati oltre 508.000 i migranti sbarcati in modo irregolare in Italia, quindi un impatto diluito nel tempo, di fronte agli ultimi enormi arrivi, obiettivamente inferiore a quello che è avvenuto questa estate”. “Con Mare Nostrum – di cui tutta l’Europa ci riconosce il valore e i risultati - in 563 interventi si sono salvati 101000 migranti soccorsi, di cui 12000 minori non accompagnati e 728 scafisti arrestati.” Poi c’è stata Triton e l’evoluzione con gli accordi europei di cui la Sarti ha dato una veloce ricostruzione. Insomma, dati rilevanti che danno dell’Italia un’immagine positiva ed efficiente, mentre l’Europa sembrava spesso non voler capire (o capire in ritardo) e che si ostina a pensare che il problema (vedi trattato di Dublino) sia solo dei Paesi di frontiera e che a loro spetta la ricerca di soluzioni, con il parziale aiuto economico o della ricollocazione di quote di immigrati, favorita da alcuni Paesi Ue. “Ma se è vero che tanti passi sono stati fatti, ora - per padre Camillo Ripamonti presidente del Centro Astalli http://centroastalli.it/ – bisogna superare questa visione in difesa. Dobbiamo cambiare la prospettiva e passare a quella che considera il mondo come una Casa comune.”. “Chi vuole percorrere la via dello scontro di civiltà – afferma con forza - sia sconfessato!” “Dopo quello che abbiamo visto ieri sera può essere un affermazione irritante. Verrebbe da rispondere colpo su colpo. Ma questa è una via perdente”, ribadisce. “La vera soluzione è l'accoglienza accompagnata dall'integrazione: così si sconfigge la violenza dell'uomo contro l'uomo. Occorre avere uno sguardo diverso. L'Italia sta compiendo un percorso difficoltoso, ma è l'unica via lungimirante che ci permetterà di far convivere persone di diverse culture e religioni.” E conclude: “Siamo stati tra i primi a soccorrere in mare, ma non basta più. È urgente creare delle vie sicure di accesso all'Europa. Tanto i numeri ci confermano che le persone che scappano da situazioni di guerre e di persecuzioni, in Europa arrivano lo stesso, rischiando e morendo. Allora non possiamo più permetterci che si affidino ai trafficanti. Ci sono già delle vie concrete per poter fare questo (rivedere le norme per i visti umanitari, o sul ricongiungimento familiare …), occorre non rimandare più. La risposta dell'Europa è stata finora scomposta. Ci si è chiusi attraverso la logica del consenso popolare. Non è la via che porterà l'Europa a un futuro fiorente. Le migrazioni fanno parte di tutta la storia dei popoli e di tutte le culture. L'unica cosa su cui potremmo già intervenire, e invece su cui siamo in ritardo, è la soluzione dei conflitti che generano queste migrazioni, ma purtroppo anche su questo l'Europa nella sua politica internazionale, ha avuto un atteggiamento scomposto, e non ha saputo affrontare con le dovute misure le guerre che sono alle nostre porte, pensiamo alla Siria”. Infine: “dobbiamo valutare fino in fondo quali siano i Paesi considerati “sicuri” e dai quali si scappa, per considerare le persecuzioni, anche personali, e garantire il riconoscimento delle procedure di Asilo: “Sarebbe molto grave creare dei rifugiati di serie A e dei rifugiati di serie B”. 8 Si dice d’accordo con il profilo dell’impegno del governo descritto dalla Sarti su questo fronte, ma con due perplessità non secondarie. Ad esprimerle è – in chiusura – Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia del primo governo Prodi e presidente della Corte costituzionale, e soprattutto rappresentante italiano della Commissione europea per i diritti umani: “Oltre ai ‘miracoli’ dei salvataggi in mare e la buona volontà e l’impegno c’è anche una buona dose di inefficienza esecutiva e penso alla lunghezza dei tempi di valutazione delle domande di asilo. E questo non dipende dalla politica, ma dall’esecuzione. E poi, e questo mi indigna particolarmente, c’è anche la corruzione che è arrivata ad inquinare l’aiuto umanitario alle persone più deboli”. Il giurista esprime poi anche una più forte preoccupazione: che il cambio di prospettiva invocato da Ripamonti vada in senso opposto, cioè un rafforzamento delle misure di contrasto all’immigrazione, sull’onda delle paure suscitate dagli attentati di Parigi. “Ho il timore che si sovrapponga la paura dell'immigrazione con quella del terrorismo, e le prime parole pronunciate ieri dopo gli attentati (dichiarazione di guerra, chiusura delle frontiere) sembrano andare in quella direzione. Ma non è quella la soluzione”, avverte il costituzionalista. “Gli attentatori sono francesi addestrati nei paesi stranieri. A chi dichiariamo guerra? All'Isis? Come l'11 settembre, quando abbiamo bombardato il deserto? Ormai siamo di fronte ad un terrorismo ‘glocale’”. E precisa: “Sì, penso che si debba lavorare sull'intelligence, su più strette misure di sicurezza, magari anche con limitazione, in un certa misura, di alcuni diritti, penso alla libertà di espressione sul web o i controlli in aeroporto. Ma bisogna non cadere nella trappola di alimentare le fabbriche della paura e arrivare allo scontro di civiltà che è proprio quello che vogliono i terroristi”. Uno degli assi fondamentali, per Flick, è un discorso di verità: capire chi sono e da dove vengono i migranti (riconsiderati nel quadro della “cultura dello scarto” di cui parla spesso papa Francesco) “e dare loro una mano a capire dove andranno. Sennò continueremo a coltivare l'illusione in chi parte di trovare qui un paradiso e in chi accoglie la paura di mettersi in casa criminali.” Il primo passo – per Flick - è avere la consapevolezza che la legislazione è abbastanza ambigua. Perché abbiamo tre categorie d’immigrati, i rifugiati, i richiedenti asilo e il ‘calderone’ dei migranti economici. Questo è ancora più complicato in un quadro europeo. Bisogna chiarire. Infine: “Dobbiamo prendere atto che la sequenza salvare la vita/accogliere/ integrare non si può spostare.” Dobbiamo superare una serie di luoghi comuni. Esempio: le migrazioni andrebbero viste non più come fattore di crisi, ma persino come opportunità di crescita per la nostra Europa in profonda crisi demografica. 9 “Dovremmo - conclude -, con tutta la calma e la pazienza possibile, cercare di coltivare la cultura non dell'appartenenza, ma della partecipazione, che ci dovrebbe portare ad affrontare in modo diverso il tema della Cittadinanza. Abbiamo una Costituzione affascinante, che dovremmo rileggere prima di riscriverla. All’art. 2 “ci ricorda che ci sono diritti inviolabili che vanno a braccetto con i doveri inderogabili di solidarietà. Tutti, e non solo i cittadini, hanno pari dignità sociale, perché dopo la guerra, la Shoah e tutto quello che l’uomo ha saputo ‘combinare’ si è messo al centro la persona e non più solo il cittadino”. Tratto da: http://www.vita.it/it/article/2015/11/15/i-gesuiti-associare-terrorismo-e-immigrazionesarebbe-una-trappola/137397/ 10 Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell' immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall' America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l' impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all' indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell' umanità, un' opera che sembra essere ancora di un' inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L' orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell' odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l' uccidere. «Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell' anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l' uomo non si metterà di sua volontà all' ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c' è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d' aver davanti prima dell' 11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all' inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati 11 di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un' altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d' impegnarsi solennemente con tutta l' umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un' arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l' orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L' arte di non essere governati: l' etica politica da Socrate a Mozart). L' autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all' Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all' uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all' esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell' uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull' isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l' Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell' innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l' ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c' è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell' evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L' attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l' atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell' Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell' 11 settembre non hanno attaccato l' America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation 12 del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l' ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l' anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell' Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l' elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il «contraccolpo» dell' attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall' installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l' Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell' Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l' analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c' è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L' occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d' anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d' essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l' Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri. A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull' Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d' essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell' Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l' India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall' Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell' oleodotto attraverso l' Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l' imminente attacco contro l' Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che nell' America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell' industria petrolifera con quelli dell' industria bellica combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all' interno del paese, in ragione dell' emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l' America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l' aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l' allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L' aver diviso il mondo in maniera - mi pare - «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l' America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando 13 tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l' aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d' aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell' establishment mediatico, c' è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l' America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell' America che per due volte ci ha salvato. Ma non c' era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l' angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l' Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l' arabo, oltre ai tanti che già studiano l' inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l' assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c' era ancora la Cnn era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell' incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all' accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l' uno disse all' altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d' accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può 14 voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all' orrore dell' olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l' alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l' uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l' uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l' evoluzione psichica dell' uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell' odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c' era da sperare: l' influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all' umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto». Per difendersi, Oriana, non c' è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c' è bisogno d' ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M' è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell' acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell' incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall' India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell' esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L' immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell' Afghanistan, ordina l' attacco alle Torri Gemelle; è l' ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l' uomo d' affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell' essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di 15 massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c' era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po' più di moralità. La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l' ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L' interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l' utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l' etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell' Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s' è «globalizzata», perché non ha resistito all' assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch' io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch' io ritirato, in una sorta di baita nell' Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d' erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte. La «Lettera da Firenze» di Tiziano Terzani è una risposta alla «Lettera da New York» di Oriana Fallaci pubblicata dal «Corriere della Sera», sabato 29 settembre 2011, con il titolo «La Rabbia e l' Orgoglio» Tratto da: http://archiviostorico.corriere.it/2001/ottobre/08/Sultano_San_Francesco_co_0_0110082774.shtml 16 Si entra in classe. Gli attentati di Parigi rimbalzano su tutto il web e nella testa dei ragazzi. Il ministro Giannini ha invitato tutte le scuole a parlarne. Ma come aiutare i ragazzi a orientarsi e capire? Un giornalista di lunga esperienza ha preparato un percorso di domande e risposte ad uso degli insegnanti e dei ragazzi «Porta Aperta deve essere anche la nostra risposta. Non possiamo restare indifferenti, paralizzati e chiuderci nelle nostre paure. Porte Aperte significa anche coinvolgere la cittadinanza, le famiglie. Le nostre scuole, le nostre università, i nostri centri di ricerca sono il primo luogo dove l'orrore può essere sconfitto»: così il ministro Giannini si è appellata a tutti gli insegnanti italiani. Nelle nostre scuole ci sono 302mila studenti musulmani, pari al 3,3% degli studenti. Sono aumentati di quasi 4 volte rispetto al 2001. Come spiegare in classe quello che è successo a Parigi, a Beirut, in Siria, in Africa? Come evitare che la diffidenza si insinui nel rapporto tra gli studenti italiani e quelli stranieri di religione musulmana, che gli siedono accanto? Qualche tempo fa su Vita un giornalista di grande esperienza, Alessandro Banfi, direttore di Tgcom24, ha scritto un vademecum per insegnanti e ragazzi: Partiamo dalla definizione. Isis significa Stato Islamico di Siria e Irak. In arabo si pronuncia “daesch”, se accendete Al Jazeera International e l’ascoltate per un po’, anche in inglese sentirete spesso citare questa parola araba. Isis è il primo nome di questa formazione che nasce proprio nel territorio fra la Siria e l’Irak. In una seconda fase, sulla base di una loro espansione militare, hanno deciso di chiamarsi solo Is, Stato islamico. Molti media americani, preferiscono questa seconda dicitura perché fa dimenticare l’Irak… Prendete Google Map e cercate Raccah, in Siria: è una delle due capitali di questo territorio interstatale. Adesso cercate le indicazioni stradali verso Mosul, in Irak. Ecco: questa fra le due “capitali” è la zona controllata militarmente dall’Isis e dove già oggi ha realizzato il regi me del Califfato. Questa (*vedi a pag. 20). è la cartina di propaganda dell’Isis e la potete trovare sulla rivista Oasis, una delle fonti sul Web che vi segnalo per capirci qualcosa, fondata dall’attuale cardinale di Milano, Angelo Scola. Sul sito www.oasiscenter.eu c’è un articolo fatto molto bene – domanda e risposta – che si intitola: “Lo Stato Islamico spiegato a mio figlio” (*vedi a pag. 20). Hanno preso degli esperti di Islam e di Isis e hanno fatto un approfondimento divulgativo. E pubblicano una cartina in cui si vedono le zone nere, vero obiettivo del Califfato. Tutto il Nordafrica, fino al Centrafrica (è diventata nelle ultime settimane ufficiale l’alleanza dell’Isis con gli estremisti di Boko Haram), e il Medio Oriente, ma anche i Balcani e tutta la Grecia fino a Trieste, le repubbliche caucasiche, la Georgia, l’Azerbaigian, il grande Kazachistan , Afghanistan e Pakistan fino ai confini di Cina e India. A occidente tutta la Spagna. Questa mappa propagandistica esprime molto più delle parole, la terribile minaccia di dominio militare e territoriale, spiega il genocidio che si sta 17 diffondendo dall’Irak e dalla Siria e arriva, nelle aspirazioni dei terroristi, fino al Mediterraneo, al Mar Nero e al Mar Caspio. Il punto in comune è tragico: entrambe sono invenzioni occidentali. Nel loro inizio. Al Qaeda è una sigla inventata dagli americani. Vuol dire la rete, ed era un network islamico patriottico, all’origine anti sovietico, finanziato dalla Cia. Osama Bin Laden, dieci anni prima delle torri gemelle era un agente della Cia che aveva messo su Al Qaeda come rete patriottica islamica anti Milosevic. L’Isis nasce anche grazie all’incoraggiamento occidentale in chiave anti-Assad, il dittatore siriano. Contro il quale ancora un anno e mezzo fa gli Usa volevano fare la guerra. L’Occidente ha sempre un nemico, presentato come il nuovo Hitler, contro il quale tessere alleanze diciamo spregiudicate. L’Isis si sviluppa come patriottismo islamico antisiriano in una terra di nessuno. Terra di nessuno che per anni e anni è stata alimentata prima dalla guerra Iran-Irak, pensate quanti anni fa, e poi dalla guerra americana e la destituzione di Saddam Hussein. Il guaio è che dopo quella guerra non si è formato un Irak, in grado non dico di essere una democrazia, ma di mantenere una convivenza ordinata. Se vi ricordate, insieme al dittatore, fu spazzata via tutta la classe dirigente, il famoso mazzo di carte di Bush… Il quotidiano Libero aveva regalato il mazzo di carte con 54 grandi leader ricercati in tutto il mondo, iracheni, di cui molti erano cristiani. Fu completamente tagliata la testa di quella struttura statale… Un grande giornalista italo svizzero, Marcello Foa, ha un Blog in Italia molto seguito (blog.ilgiornale.it/foa/ ), ancora nel dominio del Giornale.it, perché aveva lavorato con Montanelli. Foa è uno dei pochi che ha ricordato, con dettagli, l’appoggio americano alla nascita dell’Isis. La differenza fondamentale è che mentre Al Qaeda faceva gli attentati spedendo le persone spesso dal Medio Oriente, l’idea dell’Isis è conquistare territorialmente questa parte del mondo e creare il Califfato islamico. Che cos’è il Califfato islamico? La cosa mostruosa, e giustamente gli studiosi di Islam più seri lo mettono in luce, è che nella tradizione islamica il Califfato rappresenta un momento illuminato, ad esempio nell’alto Medio Evo. Se studiate la storia di Gerusalemme scoprite come i primi che hanno, non dico praticato la tolleranza religiosa, ma hanno cominciato a non uccidere quelli delle altre religioni, furono proprio loro i Califfi. Il Califfato rappresenta nella storia un esempio di tolleranza, di civiltà, di multiculturalità; non si uccidevano gli ebrei e i cristiani sotto gli Omayaddi. Ecco perché è ancora più mostruosa la caricatura che ne viene fatta dall’Isis. Il Califfato come conquista territoriale, dove loro conquistano il territorio, impongono la loro legge e vengono uccisi e schiavizzati cristiani, sciiti – musulmani sciiti – yazidi, curdi, ecc. e tutti coloro che sono diversi da loro. L’Isis si rifà al Wahabismo. È una corrente di pensiero della fne dell’800, sunnita, (perché l’Islam è diviso in tradizioni sciita e sunnita, sia etnicamente che religiosamente) che è un modo di interpretare ideologicamente e politicamente il Corano. D’altra parte la fne dell’800 è una stagione in cui le ideologie cercano di laicizzare le religioni. Theodor Herlz fonda il sionismo nel 1897, cioè lancia l’idea che Israele può diventare uno Stato. Prima non c’era quell’idea. Non si tratta di vera religione. Non si tratta di Islam, di Corano. È un’ideologia politica che usa la religione per un progetto di egemonia militare, territoriale, economica e politico-giudiziaria. Qualcuno dice simmetricamente uguale al sionismo israeliano. Purtroppo nell’Islam non esiste un’autorità spirituale unica. Ma la più grande Università 18 islamica, quella di Al Azhar, ha emesso a più riprese dichiarazioni e sentenze contro l’Isis e l’uso della religione, condannando il terrorismo. Il presidente egiziano Al Sisi, prima dei fatti di Parigi e di Tunisi, ha pronunciato uno storico discorso proprio ad Al Azhar, in cui ha chiesto alla cultura islamica di tutto il mondo di reagire al terrorismo compiuto in nome di Allah e del Corano. La regina Ranja di Giordania in una dichiarazione pubblica ha lanciato un appello perché non si usi più l’aggettivo islamico parlando dei terroristi dell’Isis. Si fa sempre il paragone, in parte fondato, che una sconftta culturale e “sociale” del terrorismo islamista può avvenire solo “all’interno” della sinistra islamica, un po’ come capitò per le nostre Brigate Rosse e la sinistra. Secondo tutti gli analisti le fonti di denaro sono tre: l’aiuto di Stati arabi come il Qatar, il contrabbando del petrolio estratto dai numerosi pozzi conquistati, la vendita clandestina, anche qui internazionale, di opere d’arte depredate da musei e luoghi di culto, sempre nelle zone sotto il loro controllo. Prima fonte: i vicini consenzienti. Il governo di Baghdad (quello ufficiale rimasto) ha stimato in 2 miliardi di dollari il capitale “liquido” che farebbe dell’Isis, il gruppo terrorista più ricco del pianeta. Maurizio Molinari nel suo instant book appena uscito, Il Califfato del terrore, scrive: «I fondi raccolti in Qatar hanno consentito all’Isis di acquistare armamenti dell’ex Europa dell’Est con sede in Turchia». A noi occidentali pare abnorme che capitali del Qatar comprino i grattacieli nel centro di Milano e insieme finanzino il terrorismo. Ma non bisogna dimenticare che questi donatori, di fede sunnita, vogliono finanziare chi combatte il nemico sciita (Iran) e l’odiato Assad (Siria). Seconda fonte: l’oro nero. Il 22 settembre scorso il Financial Times è uscito con una pagina intera intitolata “Fueling Isis Inc”, che potremo tradurre: “Rifornendo di benzina l’Isis spa”. Un titolo ironico, molto inglese. Che cosa viene fuori? Nel territorio conquistato ci sono molti pozzi di petrolio, la cui estrazione è semplice. L’Isis vende i suoi barili al mercato nero attraverso i contrabbandieri turchi. I turchi sono molto esperti, la Turchia è geograficamente limitrofa ed è governata da Erdogan, leader molto ambiguo nei confronti dell’Isis. Storicamente i turchi sono dei formidabili contrabbandieri e hanno fatto mercato nero di petrolio già durante la guerra Iran-Irak, quella degli anni ’80. Il paradosso è che quando voi andate a fare benzina tranquilli e sereni, magari state finanziando l’Isis. Capite? Il mondo è piccolo, più di quanto pensiate, perché i contrabbandieri turchi comprano dai miliziani migliaia di barili di petrolio greggio e li vendono a prezzo scontato alle grandi multinazionali. Terza fonte: le opere trafugate. Tutti hanno visto nei video girati dai terroristi con la distruzione delle sta - tue assiro babilonesi dell’antica Ninive del museo di Mosul. Ma quella è soprattutto propaganda. Gli esperti stimano che nel mercato nero delle opere d’arte i traffici illegali dell’Isis abbiano fruttato all’organizzazione terroristica almeno 36 milioni di dollari. Irina Bobkova, direttore generale dell’Unesco, ha detto che saccheggi, distruzioni, depredazioni sono una vera e propria «pulizia etnico-culturale di stampo barbarico». Dall’inizio delle operazioni militari contro il Califfato da parte degli americani di metà settembre 2014, non si può certo dire che l’Isis abbia perso territori o forza. La domanda, nel nostro mondo, è sempre la stessa: si vuole combattere davvero il terrorismo islamico? Il Re Abdullah di Giordania ha lanciato una vendetta militare di 72 ore, dopo la sadica uccisione pubblica del pilota giordano catturato dai terroristi, e quell’operazione di ritorsione ha ridotto del 20 per cento la forza mi - litare dell’Isis. Quando gli egiziani, a loro volta, hanno reagito alla de - capitazione dei cittadini copti, l’ambasciatore del Qatar al Cairo è stato richiamato in patria, in clamoroso segno di protesta. L’Isis oggi non ha aerei. Secondo la maggior parte dei servizi militari, il loro esercito conta sui 30-40mila 19 miliziani, di cui almeno 3mila di provenienza occidentale, i cosiddetti “foreign fighters”. Giovani, spesso di seconda generazione e che lasciano il loro Paese: Francia (1050), Regno Unito (750), Germania (600), Belgio (400) per unirsi alla guerra del Califfato. I miliziani hanno molti pick up e kalashnikov e qualche migliaia di carri armati, sottratti agli eserciti dell’Irak e della Siria. I miliziani del Cali fato sono grandi comunicatori globali. Fabbricano video delle loro terribili esecuzioni, che mostrano anche in pubblico. Il filmato del pilota giordano bruciato vivo nelle gabbia è stato proiettato nella piazza principale di Raccah di fronte ad una grande folla. In quel caso la modalità dell’esecuzione era stata decisa in base ad un referendum popolare via internet. Usano infatti il web e i social network con grande facilità e naturalezza. I video, confezionati in stile hollywoodiano, hanno sempre un carattere sadico, molto ostentato. La maggior parte dei mass media occidentali non mostra mai i video, quantomeno nel - la loro interezza cruenta e crudele, ma ne dà sempre notizia e gli stessi video sono sempre disponibili in rete. C’è un dibattito in Occidente su come e quanto dare spazio nei nostri strumenti di comunicazione ai messaggi dell’Isis, ma lo “staccare la spina” appare quanto mai velleitario, soprattutto nel mondo dei new media. La rivista dell’Isis in lingua inglese si chiama “Dabiq”. Dabiq è una città del Nord dell’Irak dove, secondo una certa interpretazione della religione islamica, ci sarà la fine del mondo, al termine di una battaglia finale (vinta) contro i crociati. Insomma, l’Armageddon islamico. È un fatto che quando i miliziani dell’Isis nella loro campagna militare hanno raggiunto la città di Dabiq hanno fatto un’enorme festa. Partendo da qui lo studioso Graeme Wood ha scritto un lungo saggio sulla rivista americana The Atlantic (theatlantic.com) in cui sostiene il carattere profondamente apocalittico dell’Islam stesso. Tesi cui ha risposto un’altra grande rivista americana, New Republic (newrepublic.com), sostenendo che il millenarismo e l’Apocalisse non sono affatto islamici. Semmai sono un problema occidentale e specificamente americano. Fra i video più conosciuti dell’Isis ce n’è uno che sembra il film La grande bellezza, per dire quante in - quadrature o fre della città eterna, che però si conclude col fotomontaggio della bandiera nera issata su San Pietro. Memorabile il messaggio via twitter, legato all’ingresso in Libia: «Siamo a sud di Roma». I tifosi ro - manisti hanno messo uno striscione di risposta ironica, che è insieme critico verso i calciatori giallorossi: «Se arriva l’Isis a Roma, pareggia». Tratto da: http://www.vita.it/it/article/2015/11/16/prof-ma-cose-questo-isis/137402/ 20 MD: In Iraq è in atto un genocidio, da parte delle milizie sunnite dello Stato islamico, ai danni delle minoranze religiose e di chiunque non si riconosca nella loro versione di Islam. La causa immediata di questo genocidio è la guerra in Siria che è cominciata nel 2011 per rovesciare Asad. Nelle file dell’opposizione siriana infatti hanno prevalso i gruppi più fondamentalisti, appoggiati anche da molti combattenti stranieri. Ma la guerra è potuta transitare dalla Siria all’Iraq con grande facilità perché questo Paese non si è mai veramente stabilizzato dopo il rovesciamento di Saddam Hussein da parte degli americani. Più in profondità, esiste nella regione una secolare rivalità tra sunniti e sciiti, due tipi diversi di Islam, che in Iraq sono numericamente quasi alla pari. E qui entrano in gioco anche gli interessi dei Paesi vicini, in particolare dell’Iran sciita e dei sunniti wahhabiti dell’Arabia Saudita, che cercano di sfruttare questa rivalità per fini politici. L’ideologia wahhabita-saudita, dal XVIII secolo in avanti, è un grave fattore di destabilizzazione, perché insegna un Islam duro e puro che si proclama come l’unico autentico. MB: Il califfato è un’istituzione classica dell’Islam. Letteralmente il termine califfo (khalîfa) indica colui che succede a Maometto nella guida della comunità islamica per “salvaguardare la religione e gestire gli affari terreni”. Dopo i primi califfi, definiti i “ben guidati”, il califfato ha assunto prima con la dinastia omayyade (661-750), e soprattutto con quella abbaside (750- 1258) - i 21 caratteri di un impero multietnico e multi-religioso a vocazione universale. In epoca moderna, dopo l’abolizione del califfato ottomano nel 1924, califfato è diventato sinonimo di “Stato islamico”. L’organizzazione dello Stato islamico incarna nel modo più radicale il mito della costruzione di un’entità politica fondata su un’interpretazione rigorista della Legge islamica, un’entità che probabilmente non è mai esistita nei termini in cui è proposta oggi. MB: Lo Stato Islamico non è mai stato un affiliato di Al-Qaida anche se al momento della sua costituzione in Iraq (2006) al-Qaida ne ha sostenuto le attività. È stata la guerra in Siria a spezzare la loro alleanza, tanto che oggi sono due soggetti concorrenti. Lo Stato Islamico punta all’istituzione immediata di un’entità politica in cui si applichi la sharî’a e vengano eliminate tutte le forme di Islam che divergano dalla sua visione rigorista. I sostenitori di Al-Qaida pensano invece a un’istituzione più graduale del califfato. Inoltre, mentre Al-Qaida ha agito e agisce soprattutto a livello globale con operazioni terroristiche spettacolari anche in Occidente (tra tutte la distruzione delle torri gemelle) e la creazione di molti fronti locali, lo Stato Islamico punta invece a concentrare gli sforzi sull’istituzione di uno Stato dotato di una propria capacità di espansione. MB: Lo Stato Islamico copre un territorio a cavallo tra Siria e Iraq che conta circa 4 milioni di abitanti, è sicuramente dotato di molti mezzi tecnologici ed economici, impossibili senza ingenti finanziamenti esterni. Lo dimostrano le sue capacità propagandistiche e mediatiche e le sue dotazioni militari, al momento superiori sia a quelle delle forze governative irachene che a quelle dei combattenti curdi (peshmerga). Per fare solo un esempio, ha appena conquistato una base militare siriana grazia anche all’uso di droni. L’ambizione dello Stato islamico è sicuramente la creazione di un’entità statuale territoriale stabile in grado di pesare politicamente sulla scena mediorientale e di agire sull’immaginario dei militanti jihadisti di tutto il mondo. MB: Lo Stato Islamico è sostenuto da una giovane generazione di jihadisti di varia provenienza. Tra i suoi detrattori vi sono invece gli ideologi jihadisti della vecchia generazione, che fanno riferimento ad Al-Qaida, gli ideologi musulmani riconducibili all’esperienza dei Fratelli Musulmani (al momento molto più concentrati sulla questione palestinese) e i musulmani che non si riconoscono in un’interpretazione radicale e violenta dell’Islam. Ma, nonostante le tante opposizioni che lo Stato islamico incontra nello stesso mondo islamico (non mancano infatti singole prese di distanza), soprattutto le autorità religiose musulmane non riescono a pronunciarsi in modo unitario. MD: È un fatto che questi militanti si dichiarano musulmani, così si vede già nell’aggettivo “islamico” usato per definire il loro Stato. Molti altri musulmani ritengono che il loro comportamento sia un tradimento dell’autentica fede islamica. Ma le autorità religiose non possono limitarsi a dire "quelli non sono veri musulmani": è troppo poco. Devono dissociarsi chiaramente da questi comportamenti, contrastarli e soprattutto mostrare dove e perché i miliziani di IS sbagliano. Molti in Europa si lamentano della difficoltà a orientarsi tra i vari interlocutori islamici. Un modo molto semplice per farlo è vedere che cosa dicono o non dicono sulla vicenda irachena. 22 MD: L’Islam non chiama alla violenza indiscriminata, ma non insegna neppure la non-violenza. Nasce come una predicazione militante, in cui il credente è chiamato a un impegno personale per attuare la volontà di Dio sulla terra, con il rischio però di sostituirsi a Lui. Sorgono infatti due questioni: la prima è se la volontà di Dio si lascia conoscere con certezza fino ai dettagli dell’organizzazione politica di uno Stato. La seconda è sul metodo: che fare con chi si oppone a questo progetto? Tutta la questione del jihad si può ricondurre all'ampiezza dell'autorizzazione all'uso della violenza: è ammessa solo per la legittima difesa o anche per attacchi offensivi? È incoraggiante che molti fedeli musulmani in Occidente e nei Paesi a maggioranza musulmana parlino dell'Islam come di una religione pacifica, ma occorre riconoscere che la questione non è risolta a livello delle fonti. Basta andare su un sito jihadista per rendersene conto. 23 MB: Da molti anni ormai il jihadismo esercita un macabro fascino globale. Il combattente jihadista gode in certi ambienti di un grande prestigio, sia quando cade come “martire”, sia nella versione del reduce del jihad, che per alcuni rappresenta una forma di iniziazione all’Islam più autentico. In questo momento il prestigio di IS supera quello di altri movimenti jihadisti e sembra aver scalzato anche quello di Al-Qaida, che dopo la morte di Bin Laden si è ristrutturata su molti fronti locali ma ha perso molta incisività dal punto di vista mediatico. Naturalmente il jihad recluta più facilmente tra persone che vivono situazioni di disorientamento o disagio, non solo economico, ma anche identitario o psicologico. Tuttavia è difficile ridurre la militanza jihadista a pure categorie sociologiche. Resta la zona d’ombra del richiamo che può esercitare la violenza in sé anche sui più insospettabili, in questo caso assumendo la forma della guerra santa. MD: Sì, c'è all’opera un elemento nuovo: l’assassinio esibito sui media, pensiamo al video della decapitazione del giornalista americano James Foley. La violenza è un virus molto contagioso: all'inizio si traveste di obiettivi politici ("creare uno Stato islamico"), ma più cresce, più sfugge al controllo di chi la pratica e diventa un fine in sé stesso ("uccidere per il gusto di uccidere"). L’esibizione mediatica accelera questo contagio con il pericolo di un’escalation ulteriore della violenza. MD: Certamente ci sono molti motivi politici ed economici che spiegano la guerra attuale in Iraq e Siria. Ma questo non deve portare a sottovalutare l'elemento religioso. Molti dicono che le guerre hanno sempre ragioni economiche, travestite da motivazioni religiose o ideologiche. Non è vero. Le motivazioni religiose sono una forza primaria, tanto quanto i fattori economici o strategici. Inoltre insistere solo sulle cause politico-sociali può portare a sottovalutare o cancellare la responsabilità morale del singolo. MB: Naturalmente più IS avanza più sarà difficile fermarlo. Da un lato è necessaria un’azione politica immediata che contempli anche l’uso della forza. Più il fronte internazionale a protezione delle vittime di IS sarà ampio e multilaterale, più avrà possibilità di successo non solo dal punto di vista militare ma anche della legittimità giuridica. Lo Stato Islamico segna il punto più alto della minaccia jihadista, che dispone ora di una base territoriale e di una dimensione politica effettiva. Ma allo stesso tempo potrebbe rappresentarne la crisi, perché molti musulmani ora lo contestano e ne subiscono direttamente la violenza. Sconfiggerlo sarebbe un segno di speranza per gli stessi musulmani, ma l’impresa ha una dimensione culturale ed educativa ben più importante di quella strategica e militare. MD: La vicenda dello Stato islamico insegna per l'ennesima volta agli occidentali, ma anche ad alcune potenze mediorientali, che non è possibile usare i fondamentalisti islamici per ottenere risultati politici. Gli americani ci hanno provato in Afghanistan e Libia e sono stati a un passo dal rifarlo un anno fa in Siria. Ma i fondamentalisti religiosi obbediscono a logiche proprie: l'alleanza con loro è sempre a tempo e alla lunga controproducente. 24 MB: Se si guarda alla storia dell’emigrazione dal Medio Oriente, è difficile pensare a un ritorno dei profughi nei territori d’origine. Perché ciò avvenga probabilmente non basterà ristabilire delle condizioni minime di sicurezza, impresa già di per sé difficile, ma occorrerà un ripensamento radicale delle istituzioni politiche ed economiche su cui si sono retti molti Paesi del Medio Oriente. MB: Il cristiano, diceva il teologo Balthasar, si distingue anche perché è “inerme”. I cristiani sono una componente sociale e culturale fondamentale del Medio Oriente, ma non dispongono di un peso politico autonomo e sono rimasti schiacciati dalla complessa, e spietata, situazione politica della regione. Inoltre l’Europa è incastrata in una crisi che non è solo economica e sembra renderla incapace di agire. Gli Stati Uniti di Obama non brillano per le scelte di politica estera, anche se una certa titubanza è comprensibile dopo gli anni dell’ “esportiamo la democrazia”. MD: Siamo all’ “ultima chiamata” per tutta la cristianità irachena. I cristiani sono un fattore di pluralismo in Medio Oriente. Se scompaiono, il Medio Oriente sarà più povero. E la maggiore omogeneità non ridurrà il conflitto perché, cacciati i non-musulmani e i musulmani "eretici" o tiepidi, ci sarà sempre qualcuno “più fondamentalista di me”. È una rincorsa senza fine, che rischia di annegare l'intera regione nel sangue. Papa Francesco nei suoi interventi pubblici continua a richiamare l’attenzione su questa ferita. Già adesso chiunque può lascia il Medio Oriente perché in molte regioni sta diventando impossibile vivere, anche per i musulmani. MB: I musulmani che vivono tra noi si distinguono per tanti ragioni, come l’etnia o l’origine nazionale: per esempio l’Islam vissuto in Marocco è diverso da quello asiatico o da quello mediorientale. Ma molti musulmani hanno ormai perso il legame con l’Islam del Paese o della cultura di provenienza dando vita a un “Islam globale”, secondo l’espressione dello studioso francese Olivier Roy. È difficile perciò offrire ricette per affrontare il fenomeno islamico in generale. Da un lato è sempre più necessario crescere in una conoscenza approfondita dell’Islam e delle sue molteplici forme, che fanno ormai parte, volenti o nolenti, delle nostre società; dall’altro vale per i musulmani ciò che vale per ogni uomo: la conoscenza non può prescindere dall’incontro con un’esistenza concreta. MB: Occorre lasciarsi provocare dalle loro richieste, che mettono in discussione modalità di gestione della sfera pubblica ormai inadeguate e quindi costringono a mettersi tutti in gioco per rigenerare la nostra vita sociale. Ma per garantire la convivenza pacifica e costruttiva tra persone diverse è necessario che tutti riconoscano che vivere insieme è di per sé un bene. Tratto da: http://www.oasiscenter.eu/it/articoli/religioni-e-spazio-pubblico/2014/08/26/lo-statoislamico-spiegato-a-mio-figlio 25 Gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi e nella sua periferia devono essere analizzati come un colpo senza precedenti al cuore dell’Europa, il cui impatto va ben al di là della Francia stessa. In effetti per lo Stato Da’esh (acronimo arabo di Stato islamico in Iraq e Siria, ndr), impropriamente chiamato «Stato Islamico», si tratta di infliggere il massimo della violenza possibile in seno al principale paese occidentale che si impegna in maniera attiva affinché la Siria non sia condannata all’inquietante alternativa tra la dittatura di Bashar al-Assad e l’autoproclamato «califfato» di Abu Bakr al-Baghdadi. È questa possibilità di una «terza via» per la Siria, per il mondo arabo e il mondo musulmano, e quindi di un’Europa in pace duratura con la sponda sud del Mediterraneo, quello che hanno voluto distruggere i commando terroristici quella sera. Abu Mus’ab al-Zarqawi, quando nel 2004 divenne il leader (in arabo “emiro”) del ramo iracheno di al-Qa’eda, sapeva che avrebbe potuto contare sul sostegno multiforme di Bashar al-Assad e della sua intelligence. La dittatura siriana puntò allora sull’insurrezione anti-americana in Iraq per stabilirvi le truppe occidentali e allontanarle dal proprio paese. Inoltre, i diversi centri di potere della polizia politica di Damasco hanno raccolto profitti considerevoli nel patrocinio della guerriglia infiltrata attraverso la frontiera siro-irachena. È così che la « filiera Buttes Chaumont » (ha indottrinato alcuni degli assalitori degli attentati di gennaio a Parigi, ndr), che inviava volontari francesi in Iraq attraverso la Siria, si è potuta sviluppare. Questa filiale è stata smantellata nel 2005 dalla giustizia francese, ma molti jihadisti francesi hanno potuto così stringere legami stabili con Zarqawi e il suo gruppo. È il caso di Boubaker al-Hakim tenuto prigioniero per sei anni in Francia che, alla sua liberazione nel 2011, si è stabilito in Tunisia e vi ha fondato il braccio armato del gruppo jihadista Ansar al-Shari’a (“i partigiani della Shari’a”). Così come è il caso dei fratelli Sherif e Said Kouachi che collaborarono regolarmente con il braccio yemenita di al-Qa’eda. Tutti questi estremisti hanno seguito da vicino la trasformazione di al-Qa’eda in Iraq, dopo la morte di Zarqawi nel 2006, in «Stato Islamico». Abu Bak al-Baghdadi si è messo a capo dello «Stato Islamico in Iraq» nel 2010. I territori controllati allora dai jihadisti in Iraq si riducono drasticamente e ci è voluto tutto il sostegno dell’apparato di sicurezza nella vicina Siria per impedire che lo «Stato Islamico in Iraq» non venisse eliminato. Lo scoppio della sollevazione democratica in Siria nella primavera del 2011 ha offerto un’opportunità storica ai jihadisti iracheni: in effetti Assad decise di liberare in massa detenuti jihadisti in modo che andassero a gonfiare le fila dei partigiani di Baghdadi. È così che emerge nell’aprile 2013 lo «Stato Islamico in Iraq e in Siria», conosciuto, sotto il suo acronimo arabo, come Da’esh. Insediatosi nella città di Raqqa, appena sopra il corso dell’Eufrate, Da’esh gode ampiamente della ritirata americana dell’agosto 2013: l’amministrazione Obama, dopo aver dichiarato che l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Assad rappresenta una 26 «linea rossa», decide di rimanere passivo nonostante l’utilizzo sistematico di agenti chimici alla periferia di Damasco. Così la Francia, in prima linea nel sostegno occidentale alla rivoluzione siriana, è stata abbandonata nel momento della verità dagli Stati Uniti. Questo abbandono americano ha prodotto un picco nelle partenze per il jihad nel mondo intero, poiché Da’esh si pone come unico difensore autentico dei musulmani a dispetto di una comunità internazionale che li ha abbandonati alla mercé di Damasco. Baghdadi e Assad si rinforzano l’un l’altro e, per di più si trattano con ostentato riguardo: tutti i territori conquistati dai jihadisti sono stati disputati alle forze rivoluzionarie e mai al regime ba’athista. Questa «terza via» difesa dalla Francia, tra Bashar al-Assad e Abu Bakr al-Baghdadi, la espone in primo luogo al pericolo della presa di ostaggi da parte di Da’esh in Siria. Uno dei carcerieri, il francese Mehdi Nemmuoche, è stato inviato da Da’esh in Belgio nel maggio 2014. Dopo aver ucciso quattro persone al museo ebraico di Bruxelles, è stato fermato a Marsiglia in possesso un arsenale da guerra. Ma non è che una prima allerta, seguita nel gennaio 2015 da tre attentati a Parigi e nella sua periferia che hanno causato 17 morti (contro Charlie Hebdo, un supermercato cacher e un poliziotto). La scelta dei bersagli è meno importante della volontà di suscitare cieche rappresaglie contro i musulmani di Francia. Per Da’esh, si tratta non soltanto di dimostrare l’inutilità della «terza via» difesa in Siria da Parigi, ma anche di far crollare il modello di coesistenza repubblicano, laddove la Francia presenta le comunità musulmane ed ebraiche più importanti d’Europa. Tale strategia del terrore è stata sconfitta dalla mobilitazione cittadina dell’11 gennaio 2015, in cui milioni di francesi sono scesi per le strade di Parigi e della provincia. È questo contro-modello offerto dalla Francia all’Europa che i terroristi hanno voluto colpire nuovamente il 13 novembre 2015. Ed è anche questa «terza via» per la Siria che hanno voluto sotterrare. Bashar al-Assad non si è ingannato nell’ostentare la sua soddisfazione all’indomani degli attentati di Parigi, di cui ha imputato responsabili le autorità francesi. Questa convergenza tra i centri di potere di Damasco e gli assassini di Da’esh deve essere ben ponderata se vogliamo trarre tutte le lezioni dalla tragedia di Parigi. Tratto da: http://www.oasiscenter.eu/it/articoli/jihadismo-e-violenza/2015/11/18/lo-stato-islamicocontro-la-terza-via 27 Dopo gli attentati di Parigi di venerdì 13 novembre la Francia ha iniziato a bombardare Isis a Raqqa. Ecco come sono ripartite sul campo le fazioni che combattono in Siria e chi le sostiene. La recente decisione russa di impegnarsi militarmente in Siria sta riportando l’attenzione sul conflitto che da quattro anni infiamma il Paese mediorientale e sembra aver messo fine a quella condizione di stallo che ne ha determinato le dinamiche sino a questo momento. In tale contesto è fondamentale capire quali sono, dove operano e da chi sono sostenuti i protagonisti del conflitto. Il regime di Assad è sostenuto internazionalmente dalla Russia e dall’Iran. Sul campo operano gli effettivi dell’esercito governativo siriano, varie milizie legate al presidente e le milizie di Hezbollah e di altri gruppi sciiti. La Russia, che dispone in Siria dell’importante porto di Tartus (l’unico sbocco sul Mediterraneo per la flotta militare russa), ha finora colpito soprattutto le zone occupate dai ribelli, in particolare l'area compresa tra Idlib e Aleppo, recentemente conquistata dalla coalizione formata da Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham. Le forze del regime di Bashar al-Assad sono concentrate lungo una dorsale che corre da sud a nord e controllano i territori che guardano al Libano e al Mar Mediterraneo e includono le città di Damasco, Homs, Hama e Latakia. Nei mesi passati, diverse fonti sottolineavano la debolezza dell’esercito siriano, ridotto ormai alla metà della sua forza originale (300.000 uomini) e limitato dalla presenza sempre più rilevante di soldati di leva. Il presidente siriano ha potuto ovviare a parte di queste criticità grazie alla messa in campo di milizie irregolari (le famigerate Forze di Difesa Nazionale) e, soprattutto, al supporto di forze esterne, come quelle di Hezbollah. A sostegno di Assad operano altri gruppi poco conosciuti, di estrazione sunnita, alawita, curda e cristiana. Tra queste si possono menzionare la Muqawama Suriya, la Liwa’ Dir’ al-Sahel e Dir’ alWatan. Hezbollah è la principale milizia sciita impegnata in Siria. Essa giustifica il suo intervento come jihad difensivo per la protezione del santuario di Sayyida Zaynab a Damasco e per combattere le forze takfîrî, cioè i gruppi sunniti estremisti che accusano i musulmani devianti, e in particolare gli sciiti, di miscredenza. Sostenuta dall’Iran, coordina altri gruppi sciiti presenti sul territorio, tra i quali vi sono anche contingenti iracheni e addirittura pakistani. Hezbollah opera principalmente nei territori confinanti con il Libano da Qalamoun a Homs. A livello internazionale, le principali forze che operano per la caduta di Assad sono l’Arabia Saudita, la Turchia, il Qatar e gli Stati Uniti. Esse sostengono sul campo una molteplicità di attori che si distinguono sia sotto il profilo tattico-strategico che per quello ideologico-politico. L’Arabia Saudita è il principale fornitore di aiuti militari e finanziari di diversi gruppi ribelli, e in particolare di 28 quelli salafiti. Gli Stati Uniti forniscono assistenza militare a diverse formazioni ribelli, non escluse quelle islamiste e jihadiste. La CIA ha lanciato un programma di addestramento mirato di 5000 ribelli anti-Assad, poi fallito. Partendo dalle realtà non collegabili a ISIS, la formazione sicuramente più nota è Jabhat al-Nusra. Costola siriana di al-Qaida, essa opera nella regione di Idlib, lungo il corridoio che separa Hama e Homs, nei pressi di Damasco e sul fronte meridionale, in particolare sulle alture del Golan. È sostenuta e finanziata dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e da altri Paesi del Golfo. Meno noto di al-Nusra, esso rappresenta in realtà il movimento di opposizione forse più importante per effettivi e partecipazione popolare. Di ispirazione salafita, punta al rovesciamento del regime di Assad per istituire uno Stato fondato sulla sharî‘a, tanto che dottrinalmente non è facile distinguerlo da Jabhat al-Nusra, anche se a differenza di quest’ultima non è classificata dagli USA come organizzazione terroristica. Opera nelle aree di Aleppo, Idlib, Homs e Hama. Nel 2012 Ahrar al-Sham ha dato vita al Fronte Islamico Siriano, un sigla in cui sono confluite diverse milizie affini, tra cui Jaysh al-Islam, forza che agisce principalmente a Damasco e Liwa’ al-Tawhid, impegnata soprattutto a Aleppo. È sostenuta finanziariamente dai Paesi del Golfo. È una coalizione jihadista che agisce nella Siria settentrionale autonomamente da altri gruppi come ISIS, Jabhat al-Nusra o Ahrar al-Sham. È formata dalla Harakat Fajr al-Sham e dalla Harakat Sham al-Islam. Originariamente ne faceva parte anche il Jaysh al-Muhajirin wa-l-Ansar, che forniva alla coalizione i contingenti più cospicui, ma se ne è recentemente distaccato per unirsi a Jabhat al-Nusra. Prima di questa scissione, Jaysh al-Muhajirin era collegata tramite il suo leader Salah al-Din al-Shisani all’emirato del Caucaso ed era composta soprattutto da combattenti caucasici. Ora è invece perlopiù formata da militanti arabi ed è guidata da un saudita. All’inizio della rivolta siriana è stato il braccio armato della Rivoluzione. È composto da formazioni di estrazione esclusivamente siriana e in particolare da disertori dell’esercito governativo. Non essendo classificato come gruppo estremista è destinatario di finanziamenti internazionali, ma è difficile valutare la sua reale capacità operativa. Davanti a una tale complessità ed eterogeneità di gruppi combattenti, il fronte delle opposizioni ha cercato di creare delle ‘camere operative’ con lo scopo di aggregare differenti formazioni all’interno di fronti specifici, ritrovando nell’opposizione al regime di Assad il comune denominatore. Queste sinergie operative sono emerse anche in funzione anti-ISIS, come dimostrato nel dicembre 2013 nel nord-ovest della Siria quando le forze di diverse formazioni confluite nell’“Esercito Islamico” (Jaysh al-Islam) riuscirono a infliggere gravi perdite alle forze del Califfo. Su questa linea è anche interessante ricordare la creazione dell’“Esercito della Conquista” (Jaysh alFatah) grazie a cui diversi gruppi si sono coalizzati, in particolare Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham, riuscendo a creare e mantenere una zona di influenza nel contesto di Idlib. 29 Esistono infine altri due attori rilevanti del conflitto civile siriano che però si distinguono rispetto alle precedenti formazioni per specificità ideologiche e strategiche: l’ala militare del PYD (Partito dell’Unità Democratica, secondo alcuni diretta emanazione del PKK) e ISIS. Per quanto concerne la prima formazione, le forze curde si sono distinte sul campo riuscendo a bloccare l’avanzata di ISIS nel gennaio del 2015 a Kobane e tuttora controllano due ampie sacche a nord della Siria con lo scopo finale di unificare l’intera regione di Rojava, ad oggi interrotta nella sua parte centrale. Infine, presenti sul territorio siriano fin dall’inverno del 2013, le forze di ISIS hanno il loro punto nevralgico nella città di Raqqa. Nonostante si insista a comparare ISIS a uno stato con frontiere e un territorio ben delimitato, la sua presenza in Siria si articola piuttosto lungo corridoi strategici, che permettono i collegamenti con le città irachene occupate (Ramadi e Mosul in particolare) e con le altre aree siriane sotto controllo (tra cui Palmyra e parzialmente Deir ez-Zor) o attacco (tra cui Aleppo e Damasco). Tratto da: http://www.oasiscenter.eu/it/articoli/rivoluzioni-arabe/2015/10/14/chi-%C3%A8-chi-in-siria 30 Oltre 13mila attentati, 32mila morti e 67 Paesi colpiti. E’ la lunga scia di sangue del terrorismo globale, che ha raggiunto livelli record dalla caduta delle Torri Gemelle. Nonostante gli investimenti senza precedenti (53 miliardi in tutto il mondo), gli attacchi sono aumentati dell’80%. Lo certifica il Global terrorism index*. 31 32 Il 78% delle vittime si concentra in 5 Paesi: Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria. L’attentato più sanguinoso è avvenuto a Badush, in Iraq, nel giugno del 2014: 670 persone uccise. Malgrado l’impatto mediatico, il numero di morti in Occidente è solo il 2,6% del totale. Il 70% di questi attacchi è portato a termine da “lupi solitari”. MAPPA: GLI ATTENTATI DEL 2014 Boko Haram è l’organizzazione terroristica più spietata. Nel macabro conteggio globale ha causato 6.644 morti, superando anche l’Isis (6.073 morti). Poi i talebani (3.477 vittime). A seguire i pastori Fulani (1.229 vittime tra Nigeria e Repubblica Centrafricana) e Al-Shabaab (1.021 morti in Gibuti, Etiopia, Kenya e Somalia). BOKO HARAM E ISIS (ISIL IN INGLESE) A CONFRONTO 33 L’“inferno” è in Medio Oriente: Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria sono gli stati più pericolosi. Seguono poi Somalia e Ucraina. Nella classifica dei Paesi a “impatto terrorismo zero” c’è tanta America Latina: Costa Rica, Cuba, El Salvador, Guyana, Panama e Uruguay. Fra i Paesi più sicuri in assoluto, fra gli altri, ci sono anche Giappone, Sud Corea, Vietnam, Lituania, Lettonia, Polonia e Finlandia. *Il global terrorism index misura l’impatto del terrorismo attraverso un coefficiente, calcolato in base agli attacchi negli ultimi 5 anni. In testa alla classifica i Paesi con l’indice più alto e quindi più pericolosi. Tratto da: http://www.lastampa.it/2015/11/17/medialab/webdocauto/le-nazioni-messesotto-scacco-dal-terrorismo-wiylwsUHsagEZxoni7KyAN/datajournalism.html 34 Di fronte alla strage di Parigi, il primo atteggiamento giusto è dolore e lutto per le vittime assieme a tutta la nostra solidarietà e commozione per un paese fratello e una città simbolo della convivenza e dei valori europei. Subito dopo, è opportuna la più totale e ferma condanna per tali barbari attentati che nulla può – nemmeno indirettamente – giustificare. È indispensabile essere uniti nel ripudio assoluto del jihadismo e del terrorismo islamico contemporanei, chiedendo a tutti, musulmani inclusi, di far propria una incondizionata e radicale riprovazione. Infine occorre mettere in campo tutta l’intelligenza, la lucidità e la calma possibili, al fine di capire ciò che sta accedendo per trovare le misure adeguate. È da irresponsabili mettersi a gridare o agitarsi senza criterio: occorre prima pensare e comprendere bene. Se i barbari sono tra noi, c’è un’origine di tale vicenda, una sua evoluzione e – speriamo presto – un rimedio. Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmanistanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in movimento. Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is). Igor Man li chiamava “la peste del nostro secolo”. In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti. L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci per spingerci fuori dal Medio Oriente, che rappresenta la vera posta in gioco. Si tratta di una sorta di “guerra dei Trent’anni islamica”, in cui siamo coinvolti a causa della nostra (antica) presenza in quelle aree e dei nostri stessi interessi. L’ideologia di Daesh è sempre stata chiara su questo punto: creare uno Stato laddove gli Stati precedenti sono stati creati dagli stranieri quindi sono “impuri”. L’Is sta combattendo un conflitto per il potere legittimandosi con l’arma della “vera religione”. Concorre ad affermarsi presso la Umma musulmana (la “casa dell’islam”, che include le comunità musulmane all’estero) quale unico vero e legittimo rappresentante dell’Islam contemporaneo. Questo nel linguaggio islamico si chiama fitna: una scissione, uno scisma nel mondo islamico. Per capirci: una guerra politica nella religione, che manipola i segni della religione, così come i nazisti usavano segni pagani mescolati a finzioni cristiane. Infatti l’Is, come alQaida, uccide soprattutto musulmani e attacca chiunque si intromette in tale conflitto. Per chi ha la memoria corta: al-Qaida chiedeva la cacciata delle basi Usa dall’Arabia Saudita e puntava a prendersi quello Stato (o alternativamente il Sudan e poi l’Afghanistan in combutta coi talebani). Daesh pretende di più: conquistare “cuori e menti” della Umma; esigere la fine di ogni coinvolgimento occidentale e russo in Siria e Iraq; creare un nuovo Stato laddove esisteva l’antico califfato: la Mesopotamia. Geopoliticamente c’è una novità: al-Qaida si muoveva in una situazione in cui gli Stati erano ancora relativamente forti; l’Is approfitta della loro fragilità nel mondo liquido, in cui saltano le frontiere. In sintesi: non esiste lo scontro tra civiltà ma c’è uno scontro dentro una civiltà, in corso da molto tempo. Per utilizzare un linguaggio da web: oggi nella Umma il potere è contendibile. A partire da tale fatto incontestabile, due questioni si impongono all’Occidente e alla Russia. La prima è esterna e riguarda la presenza (politica, economica e militare) in Medio Oriente: se e come starci. La seconda è interna: come difendere le nostre democrazie, basate sulla convivenza tra diversi, allorquando i musulmani qui residenti sono coinvolti in tale brutale contesa? Come preservare la nostra civiltà dai turbamenti violenti della civiltà vicina? Se ci limitiamo a perdere la testa, invocando vendetta senza capire il contesto, infilandoci senza riflessione sempre di più nel pantano mediorientale e utilizzando lo stesso linguaggio bellicoso dei terroristi, non facciamo niente di buono. Potremmo anzi concedere allo Stato Islamico la resa del “nostro” modello di convivenza, per entrare nel “loro” clima di guerra. 35 Occorre innanzitutto proteggere la nostra convivenza interna e la qualità della nostra democrazia. Serve più intelligence e una maggiore opera di contrasto coordinata tra polizie, soprattutto nell’ambito delle collettività immigrate di origine arabo-islamiche, che rappresentano un’importante posta in gioco del terrorismo islamico. Da notare anche che tali attentati si moltiplicano proprio mentre lo Stato Islamico perde terreno in Siria. Contemporaneamente occorre conservare il nostro clima sociale il più sereno possibile. Mantenere la calma significa non cedere ai richiami dell’odio che bramerebbero vendetta, che per rancore trasformerebbero le nostre città in ghetti contrapposti, seminando cultura del disprezzo e inimicizia. Le immagini del britannico che spinge la ragazza velata sotto la metro di Londra fanno il gioco di Daesh. Sarebbe da apprendisti stregoni incoscienti rendere incandescente il nostro clima sociale, provocare risentimenti eccetera. Così regaliamo il controllo delle comunità islamiche occidentali ai terroristi, cedendo alla loro logica dell’odio proprio in casa nostra. Per dirla col linguaggio politico italiano: mostrarci più forti del loro odio non è buonismo complice, è parte della sfida. Il “cattivismo” diventa invece oggettivamente complice perché appunto fa il gioco dello Stato Islamico. In secondo luogo, dobbiamo darci una politica comune sulla guerra di Siria, vero crogiuolo dove si formano i terroristi. Imporre la tregua e il negoziato è una priorità strategica. Solo la fine di quel conflitto potrà aiutarci. Aggiungere guerra a guerra produce solo effetti devastanti, come pensa papa Francesco sulla Siria. Finora abbiamo commesso molti errori: l’Occidente si è diviso, alcuni governi si sono schierati, altri hanno silenziosamente fornito armi, altri ancora hanno avuto atteggiamenti ondivaghi, non si è parlato con una sola voce agli Stati vicini a Siria e Iraq eccetera. L’Italia ha dichiarato da oltre due anni che Iran (ricordate ciò che disse Emma Bonino prima di Ginevra II?) e Russia (ricordate le accuse a Federica Mogherini di essere filorussa?) andavano coinvolti nella soluzione. Matteo Renzi l’ha più volte ripetuto, facendone una politica. In parlamento se n’è dibattuto. Non siamo stati ascoltati, almeno finora. Tuttavia (finalmente!) le riunioni di Vienna con Russia e Iran possono far ben sperare: oggi tutti ci danno ragione. Meglio tardi che mai: il governo italiano è totalmente impegnato nella riuscita di un reale accordo. Nel nostro paese ci sono stati anche paralleli sforzi di pace e dialogo: dalle riunioni di Sant’Egidio con l’opposizione siriana non violenta, all’appello per Aleppo di Andrea Riccardi, all’ascolto dei leader cristiani di quell’area. La fine della guerra in Siria (e nell’immediato il suo contenimento) è il vero modo per togliere acqua al pesce terrorista. Senza zone fuori controllo ove prosperare, il jihadismo perderebbe la maschera. In terzo luogo, dobbiamo occuparci con urgenza del resto del quadro geopolitico mediterraneo: laLibia, che è per noi prioritaria (e in cui almeno si è frenato il conflitto armato mediante l’embargo delle armi); lo Yemen; la stabilizzazione dell’Iraq; le fragilità di Libano, Egitto e Tunisia… Anche se tali crisi sono in parte legate, vanno assolutamente tenute distinte. L’Is vorrebbe invece saldarle in un unico enorme conflitto (la sua propaganda è chiara), allo scopo di mostrarsi più potente di quello che è. In tale impegno occorrono alleanze forti con gli Stati islamici cosiddetti moderati: un modo per trattenere anche loro dal cadere (o essere trascinati) nella trappola del jihadismo che li vuole portare sul proprio terreno. Ogni conflitto mediorientale e mediterraneo ha una propria via di composizione e occorre fare lo sforzo di compiere tale lavoro simultaneamente. In altre parole: restare in Medio Oriente comporta un impegno politico a vasto raggio e continuo. È prioritario entrare dentro la spirale dei foreign fighters per prosciugarne le fonti. Ho recentemente scritto un libro su tale fenomeno. Qui aggiungo solo che non sarei sorpreso che tra gli attentatori di 36 Parigi ci fossero vecchie conoscenze della polizia francese. Esistono antiche filiere degli anni Novanta, mai del tutto distrutte, che si riattivano in appoggio a chi pare egemone sul campo. Qualcuno può essere un combattente straniero di ritorno: il problema è capire la genesi del fenomeno. Ma non ce ne sarebbe nemmeno tanto bisogno: attentati di questo tipo possono essere compiuti da chiunque. Si è parlato di lupi solitari; qui siamo in presenza di un branco. Un ristorante, una trattoria, uno stadio, una sala di concerti non rappresentano reali obiettivi sensibili, segno che non occorre particolare addestramento. Sorprende piuttosto che dispongano di armi da guerra, non così facili da reperire in Francia. In Italia sappiamo che le mafie ne sono provviste ma anche molto gelose. Combattere il fenomeno foreign fighters corrisponde a coinvolgere le comunità islamiche e non spingerle verso l’uscita. Tutto ciò va fatto contemporaneamente. Gridare “siamo in guerra!” senza capire quale sia questa guerra, invocando irresponsabili atti di vendetta e reazioni armate, ci fa cadere nell’imboscata jihadista. Proprio lì lo Stato Islamico vuole portarci, per mettere le mani sull’islam europeo ma soprattutto su quello mediorientale. Vuole dividere il terreno in due schieramenti contrapposti, giocando sul fatto che per riflesso i musulmani saranno fatalmente attirati dalla sua parte. Per tale motivo la propaganda dell’Is (come quella di al-Qaeda prima) tira continuamente in ballo l’Occidente: in realtà sta parlando alla Umma islamica per farla reagire. Intraprendere tutto ciò non è facile ma necessario. Contenere e spegnere la guerra di Siria è il solo modo per prosciugare il lago terrorista. Sarà operazione lunga e complessa, ci saranno altri attentati, ma è una strada vincente alla lunga. Certo si tratta di far dialogare nemici acerrimi, di dare un posto a tavola a gente che non ci piace (Assad e i suoi) o a formazioni ribelli ambigue, ma è l’unico modo. Andare in Siria in ordine sparso è al contrario la via per compiacere Daesh e i suoi strateghi: un Occidente e una Russia divisi su tutto favoriscono chi sta creando uno “Stato” alternativo. Si tratta di una vecchia lezione della storia. L’operazione militare europea diretta, boots on the ground, è dunque necessaria? Non sembra, e comunque non ora: sarebbe andare allo sbaraglio. Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è che ribelli siriani e milizie di Assad – assieme ai rispettivi alleati – capiscano che il nemico comune esiste, si siedano e parlino. Lo Stato Islamico furbescamente si presenta alla Umma come “diverso”: non alleato con nessuno, patriottico, anti-neocolonialista, no-global, non inquinato da interessi stranieri e puramente islamico, duro ma nazionale (nel senso che patria e nazione hanno per l’islam politico). In questo modo mette a repentaglio la sopravvivenza e gli interessi di tutti: dell’Occidente, della Russia, di Assad, dei ribelli, dei curdi e delle altre minoranze. Gli unici ad averlo apparentemente capito sono i curdi: c’è un solo nemico comune, sorto nel vuoto di potere. Il negoziato parte da questa consapevolezza e per questo deve coinvolgere anche russi e iraniani. L’obiettivo minimo è una tregua immediata; quello massimo un patto per il futuro della Siria. Solo a queste condizioni si potrà mettere in piedi un’operazione internazionale di terra, che miri a stabilizzare il paese e a mettere l’Is spalle al muro. Solo così si potrà svelare cos’è veramente l’Is: una cricca di ex militari iracheni e fanatici jihadisti che vengono dal passato e che hanno approfittato delle nostre divisioni. Il vuoto della politica, si sa, genera mostri. A meno – sarebbe l’altra soluzione – di non lasciare tutto e ritirarsi. Andarcene totalmente dal Medio Oriente, rinunciare tutti a ogni interesse e presenza, abbandonare i mediorientali al loro dramma. Qualcuno lo pensa, qualcuno lo dice. 37 Se ce ne andassimo dal Medio Oriente, gli attentati in Europa smetterebbero subito, probabilmente. D’altro canto le vittime in quella regione sarebbero ancora maggiori. Lasceremmo il lago jihadista diventare un mare. E questa non è un’opzione. Tratto da: http://www.limesonline.com/parigi-il-branco-di-lupi-lo-stato-islamico-e-quello-chepossiamo-fare/87990 38 Francia sconvolta, di nuovo sotto attacco, in un modo che nessuno osava immaginare: sette attentati terroristici nella città di Parigi. Un centinaio di persone sono state uccise dai terroristi nel teatro Bataclan; 40 allo Stade de France, mentre era in corso l'amichevole FranciaGermania, a causa di tre esplosioni, di cui una innescata da un attentatore suicida. Altri attacchi, uno a colpi di Kalashnikov davanti a un ristorante del X Arrondissement, e l'altro in Rue de Charonne, nell'XI Arrondissement, hanno causato altre vittime e diversi feriti. Sparavano inneggiando ad Allah, hanno raccontato dei testimoni. "Lascia esterrefatti come i governi occidentali non abbiano subito realizzato che l'offensiva antiIsis in Iraq e Siria avrebbe avuto come conseguenza immediata un aumento repentino degli attentati in Europa e negli Stati Uniti" dice a ilsussidiario.net il generale Carlo Jean poco dopo mezzanotte, mentre arriva la notizia che Hollande ha decretato la chiusura delle frontiere e lo stato di emergenza. Il sussidiario aveva raggiunto Jean già nel pomeriggio di ieri, per un commento — che riportiamo al termine di questo ultimo aggiornamento — agli ultimi eventi bellici nel quadrante di Siria e Iraq, in particolare la presa di Sinjar da parte delle forze curde con il supporto dell'aviazione americana. "L'Isis oggi è in grosse difficoltà nelle sue zone chiave e per mantenere il prestigio che gli procura reclutamenti e finanziamenti aumenterà le azioni all'esterno del califfato". E ancora: "Non è da escludere il pericolo di attentati in Europa, perché l'Isis bisogno di atti eclatanti per mantenere il prestigio agli occhi dei tanti fanatici che lo sostengono in tutto il mondo". Era chiaro, anche se non vogliamo crederlo. Per mantenere alto il suo profilo comunicativo, lo stato islamico doveva fare attentati sui corpi deboli, in particolare in Europa. Sì. Infatti è impossibile, in uno stato democratico e così aperto, proteggere tutti gli obiettivi. Nel momento in cui ne proteggi uno, ne lasci sguarniti altri. Perché verosimilmente in Francia i terroristi sono meglio organizzati. E quindi possono agire subito, quando vogliono. In Italia, per esempio, il controllo è maggiore. Certo, certo. Ma siamo un paese più sicuro anche perché c'è una parte del paese che è in mano alla criminalità organizzata, in cui i terroristi oggi, come le Brigate rosse ieri, non hanno o non hanno avuto spazio. Il terrorismo è terrorismo. Generalmente lo stato islamico era più orientato sui regimi arabi che non sul nemico esterno, come al Qaeda, ma quando si volge al nemico esterno usa le stesse tecniche e tattiche. Vuole che glielo dica? Contrattaccare, bombardare immediatamente e senza remore. E' evidente: occorre bombardare massicciamente lo stato islamico, subito. Siamo ridotti a questo? Lo dice la storia militare. Se non ci piace la seconda parola, tratteniamo almeno la lezione della 39 prima. Occorre ripristinare il concetto proprio di von Clausewitz di punto culminante della vittoria, quando il rapporto di forze iniziale si rovescia e diviene favorevole al contrattacco. Fare più paura dei terroristi. Non è possibile parlare di pace senza parlare di guerra, questa è la realtà. Ma ciò che davvero lascia esterrefatti, è come i governi occidentali non abbiano subito realizzato che l'offensiva antiIsis in Iraq e Siria avrebbe avuto come conseguenza immediata un aumento repentino degli attentati in Europa e negli Stati Uniti. Non capire queste cose vuol dire ormai essere fuori da ogni cultura strategica. (Di seguito l'intervista realizzata nel pomeriggio di ieri, ndr) L'attacco congiunto di forze aeree americane e delle forze di terra dei peshmerga curdi ha ottenuto un risultato finalmente importante nella sanguinosa guerra contro lo stato islamico. Lo sottolinea a ilsussidiario.net Carlo Jean, spiegando che "la liberazione della città di Sinjar significa aver spezzato in due la via di rifornimento che collegava fino a oggi i territori occupati dall'Isis in Siria e Iraq. Adesso per l'Isis diventa tutto più difficile". Lo ha sottolineato anche il presidente americano Obama, dicendo che gli Stati Uniti "hanno fermato l'avanzata dell'Isis in Iraq". A questo punto i più ottimisti parlano di un passo decisivo verso la liberazione di Mosul. Secondo Carlo Jean però questi successi seppur importanti comportano il rischio di attentati terroristici in Europa: "Lo abbiamo già visto nel Sinai e nelle scorse ore a Beirut: per mantenere alto il suo prestigio e continuare a convincere nuovi miliziani e ottenere finanziamenti, l'Isis punterà adesso a gesti eclatanti in Europa". I bombardamenti americani e l'attacco di terra dei curdi hanno ottenuto la liberazione della città di Sinjar, cosa che significa interrompere di fatto la comunicazione tra Mosul in Iraq e Raqqa in Siria, quella via di rifornimento logistico che ha permesso fino a oggi il travaso di forze dalla Siria all'Iraq e viceversa. Assolutamente sì. Adesso l'Isis non può più utilizzare questo grosso asse di comunicazione. Dovrà ricorrere a strade secondarie oppure a sud risalendo la valle dell'Eufrate, ma questo significa una grossa difficoltà nei rifornimenti. E' stato un obiettivo molto importante dal punto di vista strategico. Non era necessario, sul terreno c'erano i curdi con il sostegno di forze speciali americane che ormai sono presenti in Iraq anche a terra oltre che con l'uso dell'aviazione. L'obbiettivo era comunque militarmente limitato, quello di spezzare l'asse dell'Isis, ed è stato ottenuto. In realtà l'Isis ha già perso parecchi comandanti, almeno un terzo di loro sono stati eliminati. L'unico modo che hanno per entrare nello stato islamico è passare dalla Turchia, significa che gli americani hanno sicuramente stretto accordi con Ankara. L'Isis ha un effettivo di circa 25/30mila uomini, che sono indispensabili per mantenere l'occupazione nelle zone controllate, ma ne perde circa un migliaio al mese. 40 L'intervento russo in Siria ha raddrizzato abbastanza la sorte delle forze di Assad creando le condizioni per un negoziato a cui partecipino le forze governative e i gruppi ribelli non estremisti. I russi infatti bombardano soprattutto gli insorti sunniti più che lo stato islamico. Indebolendo gli altri insorti creano le condizioni per un negoziato. L'Isis oggi è in grosse difficoltà nelle sue zone chiave e per mantenere il prestigio che gli procura reclutamenti e finanziamenti aumenterà le azioni all'esterno del califfato. Non è da escludere il pericolo di attentati in Europa, perché l'Isis bisogno di atti eclatanti per mantenere il prestigio agli occhi dei tanti fanatici che lo sostengono in tutto il mondo. Quello che è successo a Beirut così come l'attentato all'aereo russo nel Sinai dimostra questa nuova attività terroristica fuori della Siria e dell'Iraq. Lo è già. Ci sono le milizie di Hezbollah che combattono da sempre in Siria e i sunniti che appoggiano gli insorti sunniti e sicuramente sono un tramite per il rifornimento di armi da parte di paesi come Qatar, Arabia Saudita e Emirati arabi. Tratto da: http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2015/11/14/COSA-C-E-DIETRO-GLI-ATTENTATI-APARIGI-E-BATACLAN-Jean-la-crisi-dell-Isis-in-Siria-e-Iraq/655367/ 41 Soldati in Mali, durante l'operazione "Serval" Ecco puntuali i due caccia francesi, appena decollati dall’aeroporto di Niamey. Ogni mattina volano verso Nord, risvegliano in una manciata di minuti tutta la provincia semidesertica di Tillabéri. E scendono a bombardare il Mali intorno alla città orientale di Ménaka esattamente come stanno facendo in Siria, oppure inceneriscono nel Sahara qualche convoglio di jihadisti inquadrato dalle telecamere dei droni. Che grande opportunità offre il terrorismo. Grazie alla diffusione dello Stato islamico, di Al-Qaeda nel Maghreb islamico, di Boko Haram, le varie sigle del terrore contemporaneo, la Francia ha riconquistato posizioni che in Africa aveva perso da più di quarant’anni. Non è un buon auspicio. Perché si rischia il modello Iraqistan: la destabilizzazione permanente come in Iraq e in Afghanistan, lungo una fascia di migliaia di chilometri e centinaia di milioni di abitanti che con poche soluzioni di continuità ormai attraversa il pianeta dall’Est della Mauritania fino al Pakistan. Con l’operazione “Serval”, i soldati di Parigi hanno spaccato in due il Mali consegnando per ora il Nord ai tuareg, senza che il governo di Bamako potesse reagire. E con l’operazione “Barkhane” hanno rioccupato il Nord del Niger, il Paese più povero al mondo, il primo Stato africano che si incontra a Sud dell’Italia dopo la distruzione della Libia. Duecento militari di François Hollande si sono insediati accanto ai colleghi nigerini nella base di Madama, un fortino coloniale francese costruito nel 1937 sulla sabbia rossa a cento chilometri dall’attuale frontiera libica. E la notte del 7 aprile i paracadutisti lanciati sul deserto hanno preso il controllo del passo di Salvador, punto in cui convergono le piste e i confini di Niger, Libia e Algeria. La richiesta di Parigi è di annientare i combattenti in transito, distruggere i nascondigli di munizioni e carburante, arrestare i trafficanti di armi e droga. I militari francesi però non hanno ricevuto l’ordine di bloccare chi guadagna dai traffici di persone: così oltre duemila migranti a settimana, come li ha calcolati l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, circa diecimila al mese, possono superare tranquillamente i posti 42 di controllo e proseguire il viaggio fino ai barconi che li porteranno in Italia. Da Madama i francesi li lasciano passare. Da Ventimiglia no. La Francia è venuta quaggiù per rioccupare militarmente i territori in cui nell’ultimo decennio si erano insediati Paesi concorrenti. Sono regioni ricchissime di materie prime, comprese incredibili riserve d’oro a pochi centimetri sotto la sabbia. Al Mali e al Niger la Cina ha regalato importanti infrastrutture come ponti e strade, mentre dal Sahara ha cominciato a estrarre petrolio, che raffina a Zinder ed esporta. Il Canada tra il 2006 e il 2009 ha provato a contrastare ai francesi il monopolio nello sfruttamento dell’uranio nigerino, con cui la Francia produce il trenta per cento della propria energia elettrica. E per ultima in Niger è atterrata la Turchia, per partecipare alla corsa alle risorse minerarie del Sahara, di cui le potenze globali grandi e piccole si sono accorte. È evidente che Hollande non sia preoccupato dell’incolumità degli africani. A certi livelli gli interessi minerari e geopolitici sono più forti della sensibilità umana. Abbattere il regime di Tripoli violando la risoluzione dell’Onu che limitava l’intervento alla protezione di Bengasi, come ha denunciato JeanPierre Chevènement, già ministro francese della Difesa e dell’Interno, è stato come tirare al biliardo. Gli storici diranno se la carambola militare e sociale che è ricaduta sul Sahara, sul Mediterraneo e sull’Europa meridionale fosse premeditata da Parigi. Quando nel marzo 2011 Sarkozy impone agli alleati l’attacco a Tripoli, i primi a essere travolti sono proprio gli interessi italiani in Libia. E forse non a caso. Gli strateghi francesi non avevano mai digerito l’accordo di Bengasi del 2008 tra Gheddafi e Berlusconi sulla riparazione dei danni coloniali provocati dall’occupazione italiana: 5 miliardi in 25 anni da versare al regime, per ovvie ragioni ora sospesi. Un pessimo precedente, secondo Parigi. Se le ex colonie francesi pretendessero risarcimenti con la stessa proporzione, risolveremmo il problema dell’emigrazione africana in Europa. Ma la Francia sarebbe in bancarotta. Gheddafi in quei mesi gioca su più tavoli. Lavora segretamente anche per Parigi. In Niger tra il 2006 e il 2009 arma la rivolta dei tuareg contro il presidente Mamadou Tandja che minaccia il monopolio francese sull’uranio. Poi si presenta a Niamey, la capitale, a proporre la pace e ad aprire la strada a Sarkozy quando, dopo tre anni di guerra e di morti, la Francia ottiene dal Niger il secondo giacimento di uranio più grande al mondo. Pochi mesi dopo il presidente Tandja viene punito e rovesciato da un golpe. E sempre nel 2010 Nouri Mesmari, il capo del 43 protocollo di Gheddafi, lascia la Libia e fugge con la famiglia a Parigi. È con lui che i servizi segreti francesi organizzano la rivolta di Bengasi contro il Colonnello. Di fronte alla fine evidente, il figlio di Gheddafi, Saif al-Islami, accusa Sarkozy di avere incassato dal padre fondi neri per la sua elezione all’Eliseo nel 2007 e ne chiede la restituzione. Si parla di 50 milioni. Ma ormai proprio da Bengasi divampa la primavera “fabriqué en France”. Il 19 marzo 2011 parte l’attacco che secondo la risoluzione dell’Onu deve limitarsi a proteggere la città della Cirenaica dalla vendetta del dittatore. E che Sarkozy spinge fino al rovesciamento del regime. Sulla storia dei fondi neri sono in corso a Parigi varie inchieste che coinvolgono l’ex presidente, il ministro dell’Interno Claude Guéant, e alcuni funzionari. Il testimone chiave dell’indagine, Gheddafi, viene ucciso il 20 ottobre 2011. Mentre gli 007 francesi e italiani corrono a mettere al sicuro il suo archivio: certe carte rimaste segrete qualche scandalo potrebbero provocarlo anche a Roma. Da allora ogni mossa, ogni dettaglio visti da qui, in Niger, sembrano rispecchiare il piano delle “Repubbliche del Sahara”. È il progetto coloniale che gli strateghi francesi da sessant’anni minacciano di recuperare dal cassetto ogni volta che sentono in crisi il loro dominio: una confederazione di Stati indipendenti da affidare ai nomadi tuareg che attraverserebbe il Nord del Mali, il Nord del Niger e anche il Fezzan, nel Sud della Libia dove oggi continuano i combattimenti. Attraverso l’accordo di pace, firmato il 20 giugno con il governo del Mali, i tuareg riuniti nel Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma) ottengono la costituzione di assemblee regionali, l’inclusione dei combattenti in una forza armata per il Nord, l’amnistia per i ribelli e nuovi programmi per la sicurezza e lo sviluppo. Devono però rinunciare all’autonomia. È la quarta rivolta dall’indipendenza del Mali nel 1960 che finisce più o meno allo stesso modo. Dall’accordo, steso nei mesi scorsi con la benedizione dell’Algeria, altra potenza regionale, sono esclusi i gruppi islamisti di “Ansar Dine” e del “Movimento per l’unicità e il jihad nell’Africa Occidentale”. Vedremo quanto reggerà e come risponderanno i terroristi. Anche perché da fine agosto gli stessi tuareg del Cma non partecipano più ai lavori del comitato che dovrebbe consolidare la pace. Non bisogna dimenticare che queste erano zone relativamente stabili, prima della distruzione della Libia. I tuareg, chiamati da Gheddafi in sua difesa, dopo la disfatta ritornano in Mali carichi di armi e cominciano la loro guerra alleandosi con il peggio dell’islamismo militante. Conquistano le città di Kidal, Gao e Timbuctu consegnandole poi agli estremisti che impongono la legge coranica e demoliscono monumenti. Quando i fanatici decidono di varcare il fiume Niger e puntare sulla capitale Bamako, le Nazioni unite forniscono il supporto giuridico e tra gennaio 2013 e luglio 2014 la 44 Francia risponde con l’operazione “Serval”. Il pericoloso embrione di califfato viene così per il momento sconfitto. Pensate che Hollande abbia poi restituito il territorio riconquistato al legittimo titolare, cioè al governo di Bamako? No. I francesi affidano il Sahara agli stessi tuareg del “Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad” che avevano attaccato l’esercito maliano e aperto la strada agli islamisti. Gli stessi con cui oggi Bamako, per scarsità di mezzi, è costretta a condividere la pace: dopo aver addirittura ringraziato Parigi per la terapia militare contro i terroristi. Una storiella diffusa nel Sahel racconta che per un medico i malati guariti sono soldi persi, anche i malati morti lo sono: «Perché il medico continui a guadagnare, bisogna mantenere il malato in stretta agonia controllata». E l’agonia del Mali è la ragione che spinge migliaia di ragazzi a imbarcarsi verso l’Italia: tanto da essere il secondo gruppo più numeroso dopo gli eritrei. Boko Haram è l’altro movimento terroristico che dal Nord della Nigeria minaccia il Niger e soprattutto la regione in cui la Cina ha trivellato pozzi di petrolio e costruito una raffineria. Al confine con il lago Ciad, l’esercito di Niamey è impegnato dall’inizio dell’anno in un confronto con la guerriglia. La capacità militare della setta terroristica si è rafforzata grazie all’arrivo di armi pesanti dalla Libia. Secondo fonti di intelligence nigeriane, per lungo tempo i terroristi sarebbero stati addestrati in Ciad. E avrebbero goduto della copertura di uomini vicini al presidente ciadiano Idriss Déby Itno. Contemporaneamente, grazie alla lotta ufficiale contro Boko Haram, il presidente Déby Itno si è riscattato da anni di isolamento: tanto che la Francia ha installato il comando militare di “Barkhane”, l’operazione che dall’agosto 2014 ha sostituito la missione “Serval”, proprio a N’Djamena e non a Niamey. Un modo per controllare da vicino l’ambiguo alleato: in una terra di caldo e miraggi, la realtà non è mai come appare. In questo risiko, l’Italia non c’è. Dall’11 al 14 maggio Niamey ospitava il vertice dei Paesi del G5Sahel, l’alleanza antiterrorismo che comprende Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Arrivano in quei giorni anche i ministri dell’Interno di Francia (ovviamente) e Spagna. Discutono di come fermare gli emigranti, di sbarchi in Europa. Cioè di noi. Il ministro Angelino Alfano non è nemmeno invitato. Gli Stati Uniti al momento inseguono a distanza. E si accontentano di un avamposto per i loro droni nell’aeroporto di Agadez, la porta del Sahara. Mentre Boko Haram cerca di reclutare giovani disoccupati nella povertà dei villaggi rurali e nelle baraccopoli del Niger. Se aderisci, ti offrono una 45 moto cinese da 300 euro e 500 mila franchi, circa settecento euro. Non tutti diventeranno terroristi. Ma in questo modo la rete di comunicazione e supporto si allarga. Per un ragazzo che mangia sabbia dalla nascita, in un Paese dove il settanta per cento della popolazione ha meno di 25 anni, diventa difficile spiegare che Boko Haram è un nemico. Non è però impossibile. Basterebbe forse affrontare i predicatori sullo stesso terreno offrendo qualcosa in più: due moto e mille euro. Soprattutto creando le condizioni per far crescere l’economia. Questa sarebbe vera sicurezza. L’operazione “Barkhane” impiega 3.000 soldati francesi, 20 elicotteri, 400 tra camion e veicoli blindati, 7 aerei da trasporto, 6 caccia e 4 droni: quanti posti di lavoro sicuri si sarebbero potuti creare con la stessa spesa? 46 L’unico vero argine contro l’islamismo in Niger è per ora l’Islam tollerante di questo straordinario Paese. Prima dell’estate il Consiglio superiore della comunicazione, l’autorità che tutela la libertà e l’indipendenza dei mezzi d’informazione, ha respinto la domanda per l’apertura di cinque radio presentata a Niamey dall’associazione “Jama’at Islamique Ahmadiyya”: perché l’etere è di tutti mentre, spiega il vice presidente del Consiglio della comunicazione, Ali Sountalma Ousseini, quella è «un’associazione a carattere confessionale con l’obiettivo di propagandare l’Islam interpretato dal fondatore del movimento di Ahmadiyya e dai suoi califfi». Con una norma così laica, perfino “Radio Maria” sarebbe fuorilegge. Fabrizio Gatti ha scritto da inviato nella provincia di Tillabéri, in Niger. Tratto da: http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/10/02/news/africa-dovebombarda-hollande-1.232674 Vi è un filo rosso che lega gli assurdi attentati di Parigi la guerra dell'Isis, il pensiero economico e la finanza. Per trovarlo occorre farsi delle domande, magari partendo da pagina 8 del Sole24ore di ieri; una pagina dedicata al finanziamento dell'Isis. Su una stima di circa 700milioni di euro l'anno di entrate del califfato le donazioni contribuiscono per il 6%, le tasse interne per il 14% i saccheggi per il 14,5% ed il petrolio per ben il 65,5%. Di queste voci due (petrolio e donazioni, il 70%) dipendono in buona parte da scambi economico finanziari con il resto del mondo. Non solo si spostano tra i 50 e i 100 milioni di barili all'anno (piuttosto ingombranti), ma si eseguono pagamenti ingenti e trasferimenti finanziari importanti. Non c'è dietro un complotto: è la normalità. Ogni giorno compriamo prodotti che non sappiamo e non siamo in grado di sapere dove sono stati realmente prodotti e in quali condizioni sociali ed ambientali. Ogni giorno, anche i nostri soldi, si possono trovare a girare in un mercato globale in cui i paradisi fiscali ed il sistema finanziario ombra sono la norma, se non altro per la percentuale elevatissima di scambi trattati. Allora questo strabismo economico finanziario che ci fa condannare l'Isis, ma non ci fa vedere come è ben inserito negli scambi economici, non è un accidente casuale, una dabbenaggine dell'occidente, od una astuzia dell'Isis stesso. È conseguenza del modo con cui facciamo funzionare la finanza e l'economia.Le valutiamo quasi esclusivamente su parametri di creazione di valore economico e le lasciamo molto opache sulla conseguenze non economiche delle azioni economiche, sulla capacità di seguire il filo dello creazioni e gestione delle merci, come di seguire i passaggi finanziari (ancorché avvengano via computer interconnessi). Il nostro sistema economico ed ancor più la finanza che lo controlla è reticente su valutazioni sociali ambientali e culturali rispetto all'oggetto delle attività economiche e finanziarie. Se i cittadini potessero scegliere facilmente (ad esempio grazie ad informazioni sulla produzione di CO2 di strumenti finanziari e merci) come indirizzare l'economia verso un futuro di riduzione di cambiamenti climatici utilizzerebbero questa possibilità forzando una riconversione ecologica. Se la finanza fosse meno opaca nelle sue filiere globali sicuramente sarebbe possibile boicottare il finanziamento dell'Isis. Nonostante la sovra regolamentazione del sistema bancario alla fine quello che continua a mancare è una maggiore trasparenza su dove come si muovono i soldi e cosa producono. E' un idea della finanza etica che forse merita approfondire. Altrimenti resterà sempre è molto più facile per l'Isis gestire scambi per centinaia di milioni di dollari con il nemico che per un solo migrante economico raggiungere i nostri paesi Tratto da: http://www.bancaetica.it/blog/per-fermare-leconomia-del-terrore 47 Un giorno dopo l’attentato di Parigi, il valore delle azioni delle aziende che producono armi è lievitato fino a tre punti percentuale. Dal 2001 ad oggi, la spesa militare mondiale è aumentata del 50% Mentre Hollande giura vendetta e guerra all’Isis aziende come la Raytheon Company, Northnop Grumman Corporation, Lockheel Martin Corporation, General Dynamics, Booz Allen Hamilton Holding vedono lievitare il valore delle loro azioni. Queste sono tra le più importati aziende di produzione attive nel campo aereospaziale e nella difesa: in parole povere producono armi. Appena un giorno dopo gli attentati di venerdì sera a Parigi, hanno visto crescere il valore delle loro azioni di quasi tre punti percentuali. Non fa eccezione Thales, azienda di produzione francese, anche lei arriva quasi al 3%. «Anche Finmeccanica, azienda italiana», spiega Francesco Vignarca, coordinatore nazionale rete italiana per il disarmo, «oggi ha avuto una crescita del 3%». La tendenza, però, pare essere la stessa dopo l’11 settembre 2001. «Il sistema finanziario funziona così: l’importate è fare profitto. E il profitto non guarda ai diritti delle persone; il conflitto, la percezione del conflitto, in molti casi viene interpretata come un business». La reazione dei mercati, pare quindi essere “classica”, nessuna novità sorprendente. «Dall’undici settembre ad oggi», spiega Vignarca, «la spesa militare mondiale è aumentata del 50%. Le aziende producono armi che nella maggior parte dei casi non le usano “in casa propria”, ma le rivendono a quegli stessi paesi con cui entrano in conflitto». Tratto da: http://www.vita.it/it/article/2015/11/17/per-qualcuno-sono-un-business/137428/ 48 Le guerre sono sempre state combattute da molti poveri, giovani e innocenti inviati a morire da pochi ricchi, potenti, colpevoli, che non morivano in quelle guerre da loro stessi volute e alimentate dai loro interessi. Questa verità, antica e profonda, oggi è meno evidente ma non meno vera. Siamo realmente dentro una guerra mondiale, diversa dalle guerre del Novecento ma non meno drammatica. Una guerra che non si sa bene quando e dove sia iniziata, quando, dove e come finirà. È una guerra liquida in una società liquida. Sono (quasi) invisibili gli interessi in gioco, non sappiamo bene chi la vuole, chi ci guadagna, chi non vuole che finisca. Questa incapacità di capire, presente in tutte le guerre complesse, è particolarmente forte in questa guerra, che non deve però esimerci dallo sforzo di pensare, e poi combattere soprattutto le tesi false e ideologiche che ci stanno inondando all’indomani della strage di Parigi. Una tesi molto popolare è quella che individua nella religione, e in particolare nella natura intrinsecamente violenta dell’islam, la principale, se non unica, ragione di questa guerra. Una tesi, questa, tanto diffusa quanto sbagliata. Il Corano ha una sua ambivalenza riguardo alla violenza, lo sappiamo. Ci sono passaggi dove invita alla «guerra santa». Ma c’è anche una versione del fratricidio tra Caino e Abele che più della Bibbia ebraico-cristiana, parla forte di non violenza. Nel racconto coranico i due fratelli parlano nei campi. Abele intuisce che Caino sta levando la sua mano contro di lui per ucciderlo, e gli dice: «Anche se userai la tua mano per uccidermi, io non userò la mia mano per ucciderti» ("Il sacro Corano", al-Ma’idah: Sura 5,28). Abele presentato come il primo non-violento della storia, che muore per non diventare esso stesso assassino. Nel Corano c’è anche questo. È un fatto, però, che oggi l’islam vive una stagione difficile. Sette fondamentaliste usano pezzi del Corano per plagiare giovani, vittime e carnefici di un sogno-incubo folle nel quale sono caduti. Prede finite nella trappola del cacciatore di "martiri" da usare per scopi dove il Corano è semplicemente il laccio della trappola. Per combattere questa malattia che oggi si è insidiata nel cuore dell’islam e che lo sta minando dal di dentro, è necessario rafforzare le difese immunitarie per sostenere l’organismo, che nel suo insieme è sano ma sta soffrendo. È lo stesso corpo che deve espellere con maggiore decisione il virus che è entrato, resistere contro quelle cellule impazzite che lo stanno indebolendo, infliggendogli molto dolore. Ma tutti gli amanti della vita devono aiutare l’islam a farcela. Nell’epoca della globalizzazione, non può farcela da solo. Al tempo stesso, non dobbiamo essere così ingenui da dimenticare che in questa guerra gli aspetti economici in gioco sono enormi. Non a caso i terroristi belgi di Parigi venivano dalla cittadina più povera del Belgio, con una disoccupazione giovanile attorno al 50%. La prima guerra del Golfo del 1991 non fu certo originata dalla prevenzione del fondamentalismo. In questi mesi si parla molto delle armi che alimentano questa guerra. Occorre parlarne ancora di più, perché è un elemento decisivo. Proprio pochi giorni fa da Cagliari sono partiti missili verso la Siria, prodotti e venduti da imprese italiane. L’Italia, assieme alla Francia, è tra i maggiori esportatori di armi da guerra nelle regioni arabe, nonostante ci sia nel nostro Paese una legge del 1990 che 49 vieterebbe la vendita di armi a Paesi in guerra. I politici che piangono, magari sinceramente, e dichiarano lotta senza quartiere al terrorismo, sono gli stessi che non fanno nulla per ridurre l’export di armi, e che difendono queste industrie nazionali che muovono grosse quote di Pil e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Una moratoria internazionale seria che imponesse un divieto assoluto di vendita di armi ai Paesi in guerra, non segnerebbe certo la fine del califfato e del terrorismo, ma sarebbe una mossa decisiva nella direzione giusta. Non si può nutrire il male che si vuol combattere. Noi lo stiamo facendo, e da molti anni. Non ce ne accorgiamo finché qualche scheggia di quelle guerre non arriva dentro le nostre case e uccide i nostri figli. In realtà sappiamo che finché l’economia e il profitto saranno le parole ultime delle scelte politiche, poteri così forti che nessuna politica riesce a frenare, continueremo a piangere per lutti che contribuiamo a provocare. Il presidente francese Hollande ha sbagliato a parlare di «vendetta» all’indomani della strage, e poi a perpetrarla bombardando domenica la roccaforte del califfato in Siria, rispondendo col sangue ad altro sangue. Questa è soltanto la legge di Lamek, precedente la stessa "legge del taglione". La vendetta non deve mai essere la reazione dei popoli civili, neanche dopo una delle notti più buie della storia recente dell’Europa. La sconfitta più grande sarebbe far tornare parole come «vendetta» nel lessico delle nostre democrazie, che le hanno eliminate dopo millenni di civiltà, di sangue, dolore. Infine dobbiamo sostenere, seriamente e decisamente, chi sta osando la pace e il dialogo in questi tempi così difficili. In primis papa Francesco, che non può restare solo né l’unica voce a chiedere la pace e la non-violenza. Se gridassimo in milioni che l’unica risposta alla morte è la vita, e lo dicessimo insieme ai tanti musulmani feriti e straziati come noi, se facessimo sentire nelle strade, nei social, davanti ai Parlamenti, il nostro "no" alla produzione e vendita delle nostre armi a chi le usa per uccidere e ucciderci, allora forse le parole profetiche di Francesco troverebbero un’eco più grande. Potrebbero avere la forza di muovere persino i bassi interessi economici, che sempre più controllano e dominano il mondo, le religioni, la vita. Tratto da: http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/strage-parigi-basta-armare-laguerra.aspx 50 Un nuovo carico di bombe MK-80 prodotte in Sardegna è stato consegnato in Arabia Saudita. Il cargo 747 partito questa notte dall’aeroporto di Cagliari - un aeroporto civile – è atterrato poco prima delle 10 in Arabia Saudita.Dalla rotta (non si riesce a tracciare completamente la fase finale del percorso) sembra proprio che la destinazione sia Ta’if, città sede di una base militare saudita, esattamente come già successo lo scorso 29 ottobre. Si tratta di ordigni prodotti a Domusnovas dalla RWM Italia, inviati a un Paese che – dice Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo «è evidentemente in guerra e viola i diritti civili, quindi secondo la legge 185 le armi all’Arabia Saudita non le potremmo vendere, è una violazione della legge». Non è nemmeno la prima volta che accade. «È la terza volta, dopo la spedizione via mare di maggio e quella aerea, sempre dall’aeroporto civile di Cagliari, della notte del 29 ottobre scorso. Questa volta però è la peggiore», continua Vignarca. Peggiore su due fronti, uno di politica interna e uno di dato di realtà. Dove saranno usate le bombe, infatti, è facile immaginarlo: Yemen. Le Nazioni Unite da mesi riferiscono che in Yemen è in corso una “catastrofe umanitaria” senza precedenti, con oltre 6mila morti di cui più della metà tra la popolazione civile, 21 milioni di persone, pari all’80% della popolazione, che necessitano di aiuti umanitari e 6 milioni di persone bisognose di assistenza di primo soccorso immediata. Nelle zone abitate da civili in Yemen sono stati ritrovati ordigni inesplosi esportati proporio dalla RWM Italia e sganciati dalla Royal Saudi Air Force», riferisce Giorgio Beretta dell’Osservatorio OPAL di Brescia: «È un conflitto senza alcun mandato delle Nazioni Unite e proprio l’altro ieriil Consiglio europeo si è dichiarato estremamente preoccupato per l'impatto delle ostilità in corso in Yemen, inclusi i bombardamenti e gli attacchi indiscriminati contro le infrastrutture civili, in particolare le strutture sanitarie e le scuole. Questo nuovo carico di bombe, dopo quello partito a fine ottobre, dimostra l’urgenza dell’Arabia Saudita di ricevere forniture da impiegare prontamente in Yemen». Già, perché se a maggio gli ordigni potevano viaggiare per mare (costa meno ma ci vuole più tempo), queste ultime due spedizioni estremamente ravvicinate sono state fatte via aereo, con costi maggiori ma una velocità di consegna estrema: «Non possiamo che immaginare un’urgenza di utilizzarle», sottolinea con preoccupazione Vignarca. E veniamo al dato di politica interna. Questa terza spedizione è peggio delle altre perché questa volta tutti sapevano prima, incluso che non ha il Governo, fatto nulla per fermarla. Ieri mattina infatti l'onorevole Mauro Pili, che era stato informato dell’imminente spedizione, ha informato sia le reti che si occupano di questi temi sia il Parlamento, che stava esaminando il decreto di proroga delle missioni internazionali, presentando un ordine del giorno: «L’ordine del giorno è stato respinto. 51 Hanno votato a favore tutte le opposizioni, mentre il Governo ha dato parere contrario e quindi è stato bocciato», spiega Pili. «Chiedevo di non autorizzare il trasbordo in base al fatto che l’Italia non è stata coinvolta da nessun organismo internazionale in Yemen e che anzi questo conflitto è avversato dall’Onu. Il Governo ha avallato con la sua posizione – è un dato politico rilevantissimo, perché mai si era espresso prima su questo – sta avallando l’attacco allo Yemen con i 4mila civili morti e il milione e mezzo di sfollati. L’Italia da oggi sta appoggiano un conflitto non autorizzato e anzi condannato dalle organizzazioni internazionali. A questo punto l’aeroporto civile di Cagliari l’Italia diventa un bersaglio possibile del terrorismo, un aeroporto civile utilizzato per due volte per un trasbordo militare, è una cosa che non si è mai sentita, di una gravità inaudita». (qui lo stenografico della seduta di ieri, con il Sottosegretario di Stato per la difesa Domenico Rossi che a proposito dell'odg di Pili si limita a dire «Infine, il Governo non accetta l’ordine del giorno Pili n. 9/3393- A/51» e la votazione con 103 sì e 221 no). Pili racconta anche i retroscena della spedizione: «La spedizione era prevista già per alcuni giorni fa, l’hanno rinviata per non farla coincidere con il viaggio del premier in Arabia Saudita. Ovviamente anche ora hanno tentato di nasconderla: dall’Azerbaijan sono arrivati due cargo, uno su Malpensa e uno su Cagliari e questo secondo non era leggibile». Un dato interessante: anche durante il volo di ritorno, ci spiega Vignarca, il cargo 747 ha spento i transponder, sopra i cieli dell’Egitto. «Ci rivolgiamo ancora una volta al Governo, che finora non ha risposto all’appello che la nostra Rete ha diffuso nei giorni scorsi insieme ad Amnesty International e Opal Brescia, affinché si fermino questi spedizioni di armi e morte. Numerose interrogazioni parlamentari sono già state presentate nel corso degli ultimi mesi, ma senza alcun tipo di risposta. Consideriamo grave il silenzio del Governo e ancora più grave è il fatto che si vadano a fomentare conflitti in un'area altamente rischiosa come quella mediorientale», conclude Vignarca. Tratto da: http://www.vita.it/it/article/2015/11/19/litalia-invia-bombe-in-arabia-saudita-con-lavallodel-governo/137451/ 52 Il Messaggio di Papa Francesco Pag. 2 LE VITTIME Pag. 3 Non avrete mai il mio odio RIFLESSIONI pag. 3 Pag. 4 La paura è la nostra nemica pag. 4 I gesuiti: “associare terrorismo e immigrazione sarebbe una trappola” pag. 7 Il Sultano e San Francesco pag. 11 L’ISIS Pag. 17 Ma cos’è questo ISIS? pag. 17 Lo Stato Islamico spiegato a mio figlio pag. 21 Lo Stato Islamico contro la “Terza Via” pag. 26 Chi è chi in Siria pag. 28 La mappa delle vittime del terrorismo: ecco i Paesi più e meno pericolosi pag. 31 LA POLITICA Pag. 34 Parigi: il branco di lupi, lo Stato Islamico e quello che possiamo fare pag. 34 Attacco alla Francia: cosa c’è dietro gli attentati e Bataclan pag. 39 Africa, dove bombarda François Hollande pag. 42 L’ECONOMIA Pag. 48 Per fermare l’economia del terrore pag. 47 Parigi, exploit dei produttori di armi pag. 48 Il male che anche noi nutriamo: basta armare la guerra pag. 49 L’Italia invia bombe in Arabia Saudita, con l’avallo del Governo pag. 51 53