CENTROAMERICA E NARCOTRAFFICO Reportage di Maurizio Campisi Pubblicato sulla rivista Narcomafie in differenti edizioni tra il 2010 e il 2011, a disposizione dei lettori nella versione completa sul sito www.mauriziocampisi.com La pubblicazione completa o parziale di questo reportage é permessa previo contatto con l’autore scrivendo a [email protected] CENTROAMERICA: UNO SGUARDO SULLA REGIONE La fila dei Tir in attesa è lunga almeno tre chilometri e noi la superiamo a passo d´uomo, su una strada così stretta che sembra portare a una spiaggia sperduta e non a un confine. Il posto di frontiera di Peñas Blancas è regno del caos. Non ci sono indicazioni e per svolgere le varie pratiche, bisogna affidarsi a uno dei tanti ragazzi che ciondolano in attesa di turisti sprovveduti. Per dieci dollari ti guidano nell’intricata selva di uffici e permessi, facendoti risparmiare tempo e fatica. Anche se gli uffici doganali sono immersi nel verde, sparsi in un rigoglioso bosco di piante tropicali, le file ed i controlli si sprecano, frutto dell´improvvisazione e delle installazioni fatiscenti. Vista da questo confine, la Costa Rica non sembra poi quell´esempio di efficacia che la contraddistingue tra i paesi latinoamericani. Dall’altra parte c’è il Nicaragua. Peñas Blancas è una frontiera calda, dove si registra il più grande movimento migratorio del Centroamerica ed è anche la frontiera da dove passano –celate nei container, nei Tir, nelle auto, nelle valigie- centinaia di pacchetti di cocaina in viaggio verso il Messico. Una dogana sempre in emergenza, come testimoniano i due agenti in tenuta nera che fermano la nostra macchina a pochi metri a pochi metri dalla barriera nicaraguense. Ci chiedono le generalità, le modalità del nostro viaggio, che cosa abbiamo fatto in Costa Rica. La sigla che portano sulla divisa indica che sono agenti della narcotici. Ci prendono i documenti con affabilità e li portano al dirigente che sta cinque passi più indietro, a godersi la fresca ombra di un albero. Gesticolano un attimo e poi il dirigente fa un cenno esplicito: possiamo andarcene. Sul lato nicaraguense, un´arida spianata polverosa che stride con l´esuberanza della natura del lato costaricano, ci spiegano il perchè dei controlli. Solo il giorno prima un fuoristrada con targa messicana è stato smontato e nell´assale sono stati trovati pacchetti di cocaina pura. Il conducente è sparito, approfittando di una disattenzione delle autorità, ma intanto ora controllano a fondo tutti quelli che arrivano con un fuoristrada, noi compresi. Josué, il ragazzino che ci racconta la storia, sorride quando spiega la fuga del messicano. ¨Qualcuno ha dimenticato di chiudere la porta della cella¨ ci dice con sarcasmo mentre lo accompagniamo a Rivas, il paesone –sole a picco e strade alberate- dove vive. Josué ci ha aiutato nella trafila al confine e ci spiega come i sequestri di droga siano diventati una consuetudine da qualche mese. ¨Prima erano solo i camionisti, ma ora anche gli autisti dei bus di linea si prestano al traffico¨. E non solo, ma anche studenti, casalinghe, commercianti, disoccupati a prestarsi a fare i corrieri. È come una febbre, una ricetta per uscire dalla povertà. Sono storie di normale amministrazione in un Centroamerica che è radicalmente cambiato negli ultimi dieci anni. L´infiltrazione del narcotraffico è stata costante, prima quasi dissimulata, poi sempre più consistente, sotto i colpi del cartello di Sinaloa che per primo ha compreso l´importanza dell´istmo centroamericano, di quell´imbuto geografico che divide la Colombia –dove si produce- dal Messico –dove si smercia e si dirige-. Tremila chilometri in linea d´aria dividono Bogotà dal distretto federale di Città del Messico. Nel mezzo ci sono sei nazioni, due oceani, una cordigliera, foreste, pianure e città, quarantuno milioni di persone. Gli emissari messicani hanno comperato ovunque terreni, case, aziende, negozi e sono penetrati a fondo nel tessuto sociale, trasformando le povere ma oneste periferie di Ciudad de Panamá, San José, Managua in giungle di violenza gratuita e regolamenti di conti, alla pari delle città del Triangolo nord, quello formato da Guatemala, El Salvador e Honduras. Un´occhiata ai dati della criminalità nei paesi centroamericani dimostra un drammatico aumento nel numero di omicidi negli ultimi cinque anni, con una costante che fotografa il cambiamento: nella media attuale, la metà dei delitti è da addurre al narcotraffico. Il Triangolo nord è la regione più pericolosa del mondo. L´Honduras conta con uno dei più alti indici di omicidi del pianeta, 58 ogni 100.000 abitanti, seguito a ruota da El Salvador (52) e Guatemala (48). Stanno meglio gli altri tre paesi della regione: Panama (19 ogni 100.000), Nicaragua con 13 e Costa Rica con 11. Per comprendere la portata di questi dati, la media dell´Unione Europea è di 8 omicidi ogni 100.000 abitanti, quello del Centroamerica è di 30, più alto di quello del Sudamerica (27). San Pedro Sula, Honduras, un milione di abitanti, è la seconda città più pericolosa del mondo, dopo la tristemente famosa Ciudad Juárez. L´unica differenza con la metropoli messicana è che di San Pedro Sula non se ne occupa nessuno. Situata nella valle del Sula, la regione che produce il 55% del prodotto interno lordo dell´Honduras, la città si è adagiata nell´emergenza, quasi che convivere con la criminalità sia parte della quotidianità. Le ville delle persone agiate sono dei bunker protetti giorno e notte da filo spinato e guardie armate sino ai denti; sui tetti dei centri commerciali stazionano agenti privati con fucili automatici e, nonostante i larghi corsi alberati –i boulevard- sono pochi quelli che si avventurano a passeggiare, per paura ai sequestri e agli assalti. La città ha conosciuto una crescita veloce e disordinata con gli stabilimenti della maquila, lo sfruttamento ha fatto crescere i risentimenti e allargato la frattura tra le fasce sociali. San Pedro Sula è oggi il regno delle pandillas. Se ne contano a decine ed ognuna ha frazionato la città in piccoli feudi, chiedendo dazio per le attività criminali che si svolgono nel loro territorio. La società civile è nelle loro mani: a morire è infatti la gente comune, il panettiere o l´autista di bus che non si piegano all´estorsione di quei pochi pesos guadagnati con fatica con un lavoro onesto. I pandilleros sono i referenti locali dei narco, la bassa manovalanza che svolge i lavori sporchi, dallo spaccio all´assassinio. Sul viso, sul collo, sulle braccia portano la marca di appartenenza alla loro banda, la mara come viene chiamata in riferimento alle marabuntas, le voraci formiche tropicali che al loro passaggio distruggono ogni forma di vegetazione. La loro presenza e il loro moltiplicarsi garantisce ai narcos una presenza capillare sul territorio dei paesi del Triangolo nord centroamericano: Guatemala, El Salvador, Honduras. Il loro agire, il loro vivere, il delinquire come azione fine a sè stessa, è stato documentato dal francese Christian Poveda, nel film ¨La vida loca¨, presentato lo scorso anno al festival di San Sebastián. Poveda, primo giornalista a convivere quotidianamente con la realtà delle maras, è stato ucciso a San Salvador lo scorso settembre, pagando con la vita le conseguenze di quanto aveva rivelato nel suo documentario. La stretta relazione tra narco e maras è a conoscenza delle autorità, ma resta ancora da mappare quanto a fondo questa convivenza sia radicata. Per il momento, è sicura la collaborazione degli Zetas, il braccio armato del cartello del Golfo, con le pandillas di San Salvador i cui membri sono usati anche per operazioni militari nel centro del Petén, la giungla guatemalteca. L´attuale strategia dei narco è quella di esportare alle città ancora relativamente calme del Nicaragua, del Costa Rica e di Panama il modello del Triangolo nord. I pandilleros sono criminali e sono affidabili: al momento di entrare nel gruppo firmano un patto di sangue indissolubile e la lealtà è il collante che li unisce tra di loro fino alla morte. Se le pandillas sono diventate i referenti naturali dei narcos nelle realtà metropolitane, nelle zone rurali la situazione è anche peggiore. È fuori da occhi indiscreti, infatti, che avvengono gli spostamenti dei carichi, che si immagazzina e si occulta la droga. La logistica viene assicurata dalle comunità isolate, dove lo Stato è assente e dove la natura ha creato ostacoli insormontabili. Gli indigeni, abbandonati spesso alla propria sorte, hanno cominciato a riconoscere un nuovo padrone, tanto generoso quanto temibile. L´impatto del narcotraffico sulle comunità indigene e sull´ambiente è letale. Soprattutto la costa atlantica, inaccessibile per la sua morfologia in molte zone, si è rivelata un rifugio invalicabile. I cartelli operano indisturbati nel Darién panamense, nella province di Limón e Talamanca in Costa Rica, nella Mosquitia nicaraguense ed honduregna, nel Petén in Guatemala. Lungo millecinquecento chilometri di costa non esistono strade, ma solo canali, foreste, mangrovie e mare, tanto mare. Le comunicazioni avvengono solo su questi sentieri d´acqua o per via aerea. In questi desolati paraggi, il narcotraffico ha trasformato le comunità indigene in vassalli, rivoluzionando le relazioni della vita quotidiana, stravolgendo la normalità, creando improbabili fortune dal giorno alla notte. Pacifiche famiglie di pescatori o di agricoltori sono oggi utilizzate nell´economia del narcotraffico, occupate nello stoccaggio, nel trasporto, nello spaccio e anche nella produzione. Infatti, sebbene in Centroamerica non si produca la foglia di coca, i cartelli hanno destinato varie zone alla coltivazione della marijuana, che dai monti di Talamanca (tra Panama e Costa Rica) si riversa sul resto del Centroamerica. La cannabis centroamericana non ha la stessa qualità di quella colombiana, ma ha un uso pratico, quello di gonfiare i carichi. Interi villaggi sono coinvolti. I narcos armano e alimentano. Gli indigeni di Talamanca ricevono una diaria in natura ogni 50 libbre di marijuana consegnate: riso, zucchero, caffè, sale e pasta, con un premio ai più meritevoli, che consiste in scatole di tonno e latte in polvere. La libbra di marijuana è come la moneta sonante: un machete costa 3 libbre, una confezione di pile, 10 libbre, una carabina è uguale a 40 libbre. Lo Stato è lontano e agli indigeni viene detto di coltivare cannabis, un’offerta fatta con il kalashnikov in mano che non si può rifiutare. Armi e cibo, dicevamo, ma soprattutto armi. A Walpa Siksa, agli inizi di dicembre 2009, una unità della marina nicaraguense accorsa per investigare l´atterraggio di fortuna di un aereo leggero ha subito l´imboscata degli abitanti del villaggio, con il bilancio di due morti e cinque feriti. Walpa Siksa è un punto sperduto nei Caraibi nicaraguensi, vicino a Prinzapolka, uno degli avamposti atlantici dell´epica lotta di Sandino contro i marines. Le famiglie che vivono qui –dell´etnia miskitosi sono sempre interessate alla pesca, gente pacifica con il solo assillo del mare e delle sue bizze. Nessuno si aspettava un cambiamento tanto repentino. Dopo i fatti di dicembre, si è scoperto che tutti gli uomini abili avevano ricevuto in dotazione un AK-47: sono diventati soldati dei narcos, con il compito di difendere i carichi di droga che giungono qui in aereo o in motoscafo da altri imbarchi del Centroamerica. Quando l´esercito è intervenuto per stanare i responsabili dell´agguato, ha trovato il villaggio vuoto: tutti gli uomini si erano dati alla macchia nella foresta. La vicenda di Walpa Siksa ha acceso finalmente il dibattito sulla condizione indigena. I Caraibi nicaraguensi e honduregni sono luoghi da sempre in fermento, non a caso la etnia miskitos che lí vive ha sempre fatto la guerra fin dai tempi dei conquistadores a qualsiasi forma di colonizzazione. Ancora a inizio del XX secolo, i Miskitos eleggevano un proprio monarca e tuttora oggi hanno un pretendente al trono, Norton Cuthbert Clarence. Sergio Ramírez, scrittore, vicepresidente del Nicaragua a metà degli anni Ottanta, oggi membro della Commissione Latinoamericana sulla droga e la democrazia, dice a Narcomafie: ¨il rischio nei Caraibi è che i narcos giungano al punto di finanziare un movimento armato di carattere indipendentista. La polizia e l´esercito non riescono ad esercitare il controllo su una regione così estesa, povera e abbandonata. I cartelli possono approfittare il malcontento che già esiste da parte delle minoranze¨. I narcos sono sempre un passo avanti: a sostenerlo non è un osservatore qualunque, ma la Dea. Quando il lavoro di investigazione ha portato a scoprire le varie rotte, i cartelli sono già altrove ad organizzare una nuova logistica. I cartelli si muovono su due direttrici fondamentali: la prima è quella di assicurare le rotte, l´altra è il controllo delle autorità. Esercitare il potere sui centri abitati è di grande importanza: in questa maniera si mantiene la manodopera e la logistica. Ciò nonostante, il vero obiettivo dei narcos è la seconda direttrice, quella che consente il controllo delle autorità che rappresentano lo Stato. La rete di corruzione su politici, polizia e magistrati permette di operare con la massima tranquillità per lunghi periodi, con la conseguente prosperità degli affari. La corruzione nei paesi centroamericani è una questione di cultura, radicata nella società, figlia della Storia impregnata di abusi e prevaricazioni. I dati di Transparency International, l´organismo che funziona da barometro della corruzione pubblica, dimostrano non solo come i paesi centroamericani (con l’esclusione della Costa Rica) siano al fondo della classifica nel continente, ma indicano anche come la percezione della popolazione sulla corruttibilità dei funzionari pubblici superi la percentuale d´allarme del 35%, con Nicaragua e Honduras a chiudere questa speciale classifica. La facilità con cui i narcos si impiantano nelle realtà locali è disarmante. Le attività a delinquire di Silvio Montaño, un cittadino colombiano che chiese ed ottenne nel 1999 il permesso di soggiorno in Costa Rica, sono durate anni prima di essere scoperte. Nonostante fosse schedato dalla polizia colombiana che lo legava al cartello di Cali, nessuno pensò di verificare la sua fedina penale. Montaño ha avuto tutto il tempo di organizzare una rete che dal suo paese natale trasportava droga attraverso Panama e poi, dai porti costaricani di Puntarenas (sul Pacifico) e di Limón (sull´Atlantico), inviava i carichi in Honduras e quindi negli Stati Uniti. Montaño è stato arrestato solo nel gennaio 2010, durante uno dei suoi viaggi a Cali. Una storia simile a quella di un altro colombiano, Héctor Martínez Quinto, tra gli autori dell´eccidio di Bojayá del maggio 2002, dove le Farc uccisero 110 abitanti (in maggioranza donne e bambini) di quella cittadina del Chocó. Anche Martínez Quinto viveva a Puntarenas grazie ad un permesso di soggiorno concesso da qualche funzionario pubblico accomodante. Nell´anonimato in questa città portuaria aveva approntato una rete di contrabbando di armi e di droga, avvalendosi dell´aiuto di alcuni pescatori della zona. Estraditato in Colombia nel 2006, Martínez Quinto ha ricevuto una condanna di 36 anni di carcere. Sono personaggi come Montaño e Martínez Quinto gli inviati che i cartelli di Cali o di Medellín utilizzano per tirare le fila a Panama, in Costa Rica ed in Nicaragua, i tre paesi dove i carichi giocoforza devono essere ricevuti. Sia i fuoribordo che gli aerei –o i piccoli sommergibili- hanno un´autonomia che li può portare solo un migliaio di chilometri lontano dalla Colombia. È in questi paesi che la droga viene presa in consegna e trasportata in luoghi sicuri prima di riprendere il viaggio verso nord. Dal confine di Peñas Blancas il territorio diventa esclusività dei messicani. L´infiltrazione del cartello di Sinaloa in Nicaragua è stato oggetto negli ultimi anni di forti polemiche. Giudici accomodanti, processi brevi e squinternati ed un confuso sistema giudiziario hanno garantito ai messicani delle deboli sentenze che hanno gettato un´ombra oscura sull´indipendenza di giudizio della magistratura nicaraguense. L´impressione della gente comune è che i soldi comprino tutto, comprese le coscienze, senza importare credo politico e rivoluzioni recenti e future. I padroni delle rotte del Centroamerica vengono da nord, dallo stato di Sinaloa. Situato a nordovest in relazione alla capitale, Ciudad de México, Sinaloa possiede 656 chilometri di costa sul Pacifico e confina con Sonora, lo stato da cui passano i due traffici più redditizi per i cartelli: quello della droga e quello delle persone. Una posizione strategica, a ridosso dell´oceano e del deserto che è stata approfittata alla fine degli anni Ottanta da Joaquín Guzmán Loera, conosciuto come ¨El Chapo¨, il piccoletto, transfuga del cartello di Guadalajara. 56 anni, con una taglia di 5 milioni di dollari sulla testa ed un´evasione da pellicola nel 2001, il ¨Chapo¨ Guzmán è una di quelle figure che alimentano l´immaginario popolare, al punto da ispirare corridos e di valersi dell´appellativo di Robin Hood messicano. La fantasia della gente vola molto in alto, visto che questo Robin Hood è crudele e sanguinario: nell´ultimo anno, la lotta per il controllo dello stato di Chihuahua è costata quasi tremila vittime, una media di otto morti al giorno. Nonostante sia formato da vari capi locali, il cartello di Sinaloa è il ¨Chapo¨. Lo ha fondato, lo ha diretto e continua a guidarlo dai suoi nascondigli avvalendosi anche della gran fortuna accumulata che, secondo ¨Forbes¨, equivale a mille milioni di dollari. Le sue decisioni sono state finora azzeccatissime. È stato il ¨Chapo¨, infatti, ad estendere il potere del cartello di Sinaloa a nord, nello stato di Sonora, fino ai confini con l´Arizona ed il New Mexico ed è stato sempre lui a comprendere l´importanza di un´alleanza con i colombiani, trasformando il Centroamerica in una conquista dove i suoi concorrenti sono rimasti indietro. Come in un gioco di risiko, il ¨Chapo¨ ha costruito il corridoio perfetto che unisce la Colombia agli Stati Uniti passando per Centroamerica e Messico. Da un paio di anni a questa parte, il cartello del Golfo e Los Zetas stanno cercando di recuperare il tempo perduto. L´offensiva si svolge soprattutto in Guatemala, l´ultimo anello della catena prima dell´ingresso dei carichi di droga in Messico. I regolamenti di conti sono all´ordine del giorno, al puro stile messicano: sparatorie in pieno giorno e decine di morti, mentre i cartelli reclutano sfacciatamente nuovi adepti attraverso annunci sulle radio private e organizzano campi di addestramento nella foresta. Seimila morti ammazzati nel corso dell’anno, 7000 milioni di dollari di fatturato annuale, 800 piste d’atterraggio illegali, decine di ingressi illegali in una frontiera che è un colabrodo: la situazione del Guatemala è quella di un paese nelle mani del narcotraffico. Il ¨Chapo¨ Guzmán ha sempre avuto un interesse particolare per questo Paese, che è la porta d´ingresso della droga che proviene dalla Colombia. Proprio in Guatemala è stato arrestato nel 1993 e sempre qui, al riparo dalle faide nel suo paese natale, si dice che si ritiri per sfuggire alla caccia che gli viene data dalle autorità messicane. ¨La presenza del narco non ha fatto che crescere negli ultimi anni¨ conferma Edelberto Torres-Rivas, sociologo guatemalteco, autore negli anni Sessanta di un classico della sociologia latinoamericana, ¨Interpretación del desarrollo social centroamericano¨. ¨Quella guatemalteca è diventata ormai una società vassalla del narco, che compie le cinque funzioni di dipendenza a questo traffico: il transito, il consumo, il riciclaggio dei proventi, la produzione (di amapola, ndr) e il magazzinaggio¨. Una denuncia che chiama direttamente in causa la giovane democrazia guatemalteca: tutta questa infiltrazione sarebbe stata impossibile senza la diretta responsabilità delle istituzioni. La rotta terrestre della droga segue il lungo serpente della Interamericana, la mitica strada che attraversa tutto il continente, da Prudhoe in Alaska a Ushuaia in Argentina (con una sola interruzione nel Darién panamense). È una strada che ispira sogni on the road, baciata dal sole e da panorami mozzafiato. Ma in Centroamerica è anche la strada dei confini caldi, in costante emergenza per il traffico di droga e di armi e della tratta delle persone. Sono una manciata di posti di frontiera: Paso Canoas (Panama-Costa Rica), Peñas Blancas (Costa RicaNicaragua), El Espino (Nicaragua-Honduras), El Amatillo (Honduras-El Salvador), Las Chinampas (El Salvador-Guatemala) e La Mesilla (Guatemala-Chiapas). Si somigliano tutti, immersi nel disordine e nell´improvvisazione, contenitori eterogenei e caotici di merci e persone dove solo all´occhio inesperto del turista risulta che le cose avvengano per caso. Il punto d´entrata, naturalmente, è Panama, come ci spiega Roberto Solorzano, l´ex direttore della Dis, il servizio d´intelligenza costaricano. ¨Per i trasporti terrestri, il porto d´ingresso è Colón. Da lì i carichi proseguono sui Tir attraverso l´intero istmo centroamericano¨. Colón non è solo il punto d´entrata, ma anche l´anello debole del già fragile sistema dei controlli doganali. È quasi impossibile verificare la natura della mercanzia contenuta nelle migliaia di container che giungono nel suo porto. Da lì la cocaina (pura o in pasta) può proseguire il suo viaggio in differenti forme, occultata direttamente nelle merci, ma anche in incavi e contenitori celati nei telai e nella carrozzeria dei convogli. Il traffico pesante, in una regione dove è quasi inesistente l´infrastruttura ferroviaria, si muove sulle strade, su una trafficatissima Interamericana su cui è difficile operare un effettivo controllo. I sequestri avvengono soprattutto per il lavoro svolto dall´intelligenza, grazie all´alleanza che unisce la Dea con le polizie centroamericane. Il lavoro si avvale delle strutture che operano via terrestre, aerea e marittima. I radar sono situati in posti strategici, sulle alture, mentre sul mare le vedette statunitensi percorrono continuamente i due oceani tra la Colombia e il Messico. Si tratta di un´impresa costosa, sia in termini economici che di mobilitazione di uomini. Solo nelle acque costaricane, gli Usa investono nelle operazioni circa trenta milioni di euro all´anno. Una cifra, questa, che esula dall´investimento diretto stabilito dagli accordi del plan Mérida, il progetto triennale di 1600 milioni di dollari che il Congresso degli Stati Uniti sta inviando nella regione per combattere il narcotraffico. Niente soldi in bigliettoni o armi: i fondi sono utilizzati in operazioni, addestramenti, logistica e materiale non bellico. Nel 2009 il Messico ha ricevuto 400 milioni di dollari, mentre la porzione toccata a Centroamerica, Belize, Haiti e Repubblica Dominicana è stata molto minore: 65 milioni di dollari, una cifra che ha fatto storcere il naso alle autorità di questi paesi. Troppo poco, infatti, per potere incidere e potere fare veramente qualcosa, visti gli alti costi operativi e delle attrezzature. Un aiuto, poi, che risulta anche vincolato dal buon comportamento dei governi: il golpe in Honduras è infatti costato fino all´esecuzione delle elezioni presidenziali la sospensione dei fondi per questo paese. La domanda che tutti si pongono è se il Centroamerica sia destinato a diventare un nuovo Messico. I segnali ci sono, ma è poi nell´interesse dei cartelli creare le condizioni per una società condizionata dal narco? ¨I nostri paesi sono un ponte¨ ci dice Sergio Ramírez. ¨Il Messico lo era in passato ed è diventato quello che è oggi perchè si è trasformato in un mercato. Noi non abbiamo i numeri per diventare un mercato. Quello che dobbiamo temere realmente noi centroamericani è il futuro dello Stato, la sua integrità ed indipendenza¨. Un punto su cui è d´accordo anche Torres Rivas: ¨Uno Stato che si debilita, perchè le sue istituzioni sono penetrate dagli interessi criminali, rischia davvero di trasformarsi in un Narcostato¨. Il Centroamerica forse negli anni a venire non diventerà il Messico, ma il suo futuro corre su un esile filo. La risposta dei governi, il rifiuto della società civile, il rafforzamento dell´ordine democratico e della legalità sono le variabili che diranno se la regione è matura per affrontare l´emergenza narcotraffico. Il colpo di Stato in Honduras del giugno 2009 è stato un segnale inequivocabile della debolezza delle istituzioni e della divisione non solo all´interno dell´Osa, ma degli stessi paesi centroamericani. Il golpe ha dimostrato come il populismo ed il nazionalismo da bottega siano sempre lì, dietro la porta, a camuffare la mancanza di proposte e di piani per il futuro, la cortina di fumo favorita dai gruppi di potere di selezionati settori. Vecchie abitudini che non si adattano ai nuovi tempi, dove l´emergenza è reale. Una debolezza della quale i narcos stanno già approfittando. PANAMA: I GRATTACIELI DALLE LUCI SPENTE La storia recente di Panama comincia con un´invasione, avvenuta poco più di venti anni fa, il 20 dicembre 1989. Allora, in tempi di disintegrazione del blocco sovietico, gli Usa avevano bisogno di una prova di forza per dimostrare da che parte pendeva il nuovo ordine mondiale. A Panama in quei giorni ordiva malefatte il cattivo di turno, Manuel Noriega: l´occasione era unica per toglierlo di torno. Noriega aveva tutto contro di sè: una faccia butterata da cattivo –non a caso si era guadagnato il soprannome di Cara de Piña, Faccia d´ananas-, una relazione di comodo con i narcotrafficanti, la cattiveria innata dei dittatori, la crudeltà verso gli oppositori. La sua vera grande colpa, però, era quella di avere voltato le spalle ai suoi tutori, gli Usa, che l´avevano formato alla tristemente nota Escuela de las Américas e l´avevano stipendiato per trenta anni come agente della Cia. Da amico, Noriega era diventato un nemico, imprevedibile nelle sue decisioni e nelle sue frequentazioni. L´invasione costò più di tremila morti tra i civili, distrusse il quartiere del Chorrillo e cancellò Noriega dalla storia. Cara de Piña venne inviato in una prigione in Florida ed i panamensi cominciarono la ricostruzione. Qualcosa, però, non funzionò: invece di essere riconoscenti agli Usa, iniziarono a pensare per proprio conto. Se Bush senior aveva qualche idea di porre un freno alla consegna del Canale come stabilito dal trattato Torrijos-Carter, si era sbagliato di grosso. Il nuovo millennio ha visto Panama diventare padrona assoluta del Canale che taglia in due il suo territorio e con il quale condivide indissolubilmente il destino. Per questo, una volta definita la proprietà, il governo panamense ha spinto per ringiovanirlo e renderlo più pratico alle necessità dei nostri tempi. Simbolo del Paese, il Canale rischiava di diventare obsoleto dopo un secolo di vita, nonostante muova all´anno 300.000 milioni di tonnellate di merci, su 400 milioni di container. È toccato a Martín Torrijos, figlio del generale Omar Torrijos, il carismatico artefice del trattato con Jimmy Carter, bandire il referendum che nell´ottobre 2006 ha definito l´ampliamento, ottenendo una grande maggioranza di Sì, il 76,8% delle preferenze. I lavori, cominciati nel 2008, sono faraonici e si concentrano sulla costruzione di un nuovo gioco di chiuse attraverso il quale potranno passare i giganteschi mercantili post-Panamax, capaci di trasportare a bordo 12.000 container, quattro volte più di quelli attuali. Le licitazioni sono cadute a pioggia e le opere stanno coinvolgendo cinquantamila lavoratori, senza contare le altre migliaia che sono interessate dall´indotto. Una torta che mette l´acquolina in bocca a tanti, ma che per il momento non ha fatto segnalare irregolarità. D´altronde, il tema corruzione a Panama è ancora un tabù. Pochi osano accennarne, meno a prendere misure. Sull´indipendenza della Giustizia si può solo discutere, complice il potere che esercitano ancora oggi poche ed influenti famiglie. Nei venti anni trascorsi dalla caduta di Noriega, la prima vera inchiesta contro un potente è partita solo recentemente, nell´agosto 2009, quando è comparso nel registro degli indagati sull´inchiesta delle licitazioni illecite ai casino, il nome dell´ex presidente della Repubblica Pérez Balladares (1994-1999). Una delle sue imprese, la Shelf Holding Inc. era sul libro paga della Lucky Games, che gestiva i casino negli hotel. Una tangentopoli piccola piccola, probabilmente frutto di una vendetta politica, che lo ha portato agli arresti domiciliari a gennaio. Qui si preferisce pensare che i lavori per l´ampliamento del canale hanno riattivato l´economia panamense, proiettando il paese verso i migliori indicatori di crescita di tutta l´America Latina. Settori che erano in crisi hanno fatto segnare dei miglioramenti significativi, dal turismo al commercio, all´edilizia. La costruzione di grattacieli nella capitale è ripresa improvvisamente proprio quando il mercato immobiliare internazionale entrava in una crisi senza precedenti. 11.000 nuovi appartamenti sono in vendita nel centro di Ciudad de Panama, un investimento che non può essere stato possibile senza un diretto intervento del narcotraffico. L´incongruenza è sotto gli occhi tutti: la capitale conta 800.000 abitanti, poco meno della metà sommersi nella povertà. Ai grattacieli e alla skyline avveniristica, Panama abbina quartieri degradati, dove è ancora possibile vedere intere famiglie vivere nelle baracche costruite un secolo fa per i lavoratori impegnati nella realizzazione del Canale. È curioso e inquietante allo stesso tempo osservare l´oscurità che assorbe i grattacieli durante la notte. Gli appartamenti sono infatti disabitati, in attesa di inquilini, un indizio che fa meditare sulla natura degli investimenti immobiliari. Difficile trovare le prove, però perchè la legislazione locale è stata sinora abbastanza generosa nell´indagare la provenienza del denaro. È comunque un dato di fatto, senza volere generalizzare, che gli investimenti dei colombiani a Panama sono aumentati negli ultimi anni, fino a giungere al secondo posto dei capitali appartenenti a stranieri –dietro i cinesi, direttamente coinvolti nella gestione commerciale del Canale-. Durante il 2007 questa cifra aveva raggiunto i 4000 milioni di dollari, capitali leciti nella forma, destinati al finanziamento di differenti attività industriali e commerciali. La denuncia sul riciclaggio viene da una fonte autorevole, il Dipartimento di Stato Usa che indica come il narcotraffico colombiano lava il denaro nel settore immobiliario panamense, nonchè nelle banche e nella Zona Libera di Colón, un immenso emporio da cui passano giornalmente milioni di articoli commerciali provenienti da tutte le parti del mondo. I segnali dell´infiltrazione nel mercato immobiliare, d´altronde si erano già visti proprio nel settembre di quel 2007, quando la polizia arrestò il capo colombiano José Urrego Cárdenas, indicato come inviato del cartello del Norte del Valle, scoprendo che questi era proprietario di vari immobili, nonchè di un´intera isola –quella di Chapera, nel Pacificovalutata in 12 milioni di dollari. È la vicinanza con la Colombia che fa di Panama un centro di rifugio e di riunioni per i capi colombiani. Qui si decidono i patti, le strategie da attuare e le alleanze con i cartelli messicani, che si prendono cura dei trasporti della droga lungo l´istmo centroamericano. Niente di nuovo, Panama è da sempre crocevia di traffici e di complotti: Graham Greene e John Le Carrè non hanno inventato nulla nei loro libri, semmai hanno modellato la realtà per accomodarla in un impianto narrativo. Il paese è stato sempre accogliente con personaggi scomodi, dei quali interessa di più il numero degli zeri del conto in banca piuttosto che la trasparenza della fedina penale. Nel giugno 2009 Martin Torrijos, poco prima della fine del suo mandato, ha concesso l´asilo politico permanente a tre dei più discussi ex presidenti latinoamericani, richiesti nei loro paesi per reati di corruzione e per violazione dei diritti umani. L´ecuadoriano Abdalá Bucaram, l´haitiano Raúl Cedras e il guatemalteco Jorge Serrano Elías (gli ultimi due golpisti) vivono qui un esilio dorato. Sulla scia di queste frequentazioni, i capi colombiani del cartello del Norte del Valle o della Oficina de Envigado, nonchè quelli messicani di Sinaloa e del Golfo hanno fatto di Panama un comodo salotto nel quale discorrere gli affari da condurre insieme lungo il corridoio centroamericano. Quella dei messicani è una presenza fugace, perchè Panama rimane territorio colombiano. Sono loro, con l´appoggio logistico della delinquenza locale, a gestire l´arrivo dei carichi ed il trasporto verso il resto del Centroamerica. Sarà più avanti, in Costa Rica o in Nicaragua, che i messicani prenderanno possesso materialmente della merce, per assicurarsi che arrivi nel loro paese senza inconvenienti. Il sistema più comune di consegna della droga ha preso il nome di ¨bombardeo¨ -il bombardamento-, perchè i trafficanti usano ancora il vecchio ed efficace metodo del trasporto aereo. I cartelli si affidano ai piccoli apparecchi che paracadutano i pacchi contenenti la droga sull´arcipelago di Las Perlas o nelle spiagge isolate di Chame (sul Pacifico) o di Bocas del Toro (sull´Atlantico). Alle ¨mulas¨ -le mule al femminile, letteralmente- tocca il lavoro di raccogliere i pacchi e portarli nei luoghi di raccolta, all´interno di fattorie situate lontano da occhi indiscreti. Seguendo una modalità comune, i cartelli hanno infatti comperato fincas e quintas, un poco dappertutto in Centroamerica. Si tratta di posti isolati, fattorie che servivano (e servono ancora come copertura) all´allevamento dei bovini o alla coltivazione di prodotti agricoli, il più delle volte vicino alle spiagge. All´interno, però, i narcotrafficanti hanno approntato magazzini di stoccaggio dove conservano la droga fino all´inizio del seguente viaggio verso il Messico. Il tempo di sosta è minimo, poche ore, un paio di giorni al massimo: l´importante è agire con rapidità e circospezione. Le mulas panamensi sono reclutate nella delinquenza comune e ricevono il loro pagamento in natura: non ottengono soldi, ma una percentuale della cocaina trattata, che immetteranno nel mercato locale e da cui ricaveranno lauti proventi. Una strategia mirata, che permette ai cartelli colombiani di occuparsi del mercato panamense attraverso fidati intermediari e che inonda le strade di Panama di cocaina pura. A farsene carico sono le pandillas: la polizia ne ha censite 97 coinvolte nello spaccio nella capitale. Queste gang giovanili si dividono i quartieri e si affrontano tra le avenidas, con un risultato più che evidente: il 42% degli omicidi nel paese (circa 600 in totale l´ultimo anno) si deve alle rivalità che hanno a che fare con il narcotraffico. Regolamenti di conti, controllo dei quartieri, faide: l’aumento della delinquenza è stato indiscriminato in questi ultimi anni e proprio il tema della sicurezza è stato il cavallo di battaglia che ha portato alla presidenza nello scorso maggio l´imprenditore Ricardo Martinelli. Per lui quasi un plebiscito (ha vinto con il 60% dei voti), a testimonianza dell´attualità dei temi trattati nella campagna politica. Martinelli, 58 anni, origini toscane, è il proprietario di una catena di supermercati, la Super 99, ma da anni è soprattutto il leader di Cambio Democratico, un partito di destra fondato dal padre, che ha fatto dell´ordine il suo cavallo di battaglia. La lotta contro la delinquenza organizzata ed il narcotraffico sono entrati da subito nell´agenda presidenziale, dando vita ad uno scontro impetuoso con l´opposizione, prima con una proposta di legge sulla sicurezza che ha fatto gridare allo scandalo per le sue implicazioni in materia di libertà individuali e poi con la sospensione del Procuratore generale, Ana Matilde Gómez, rimossa dalla Corte Suprema per abuso di autorità. Su questi provvedimenti pesa il sospetto di un conflitto di palazzo su questioni di potere, che ha generato manifestazioni di piazza ed un malessere nella parte più sensibile alle tematiche sociali dei panamensi. Martinelli ha voluto dare un segnale forte agli Usa e agli alleati centroamericani destinando l´isola di Chapera –proprio quella sequestrata al capo colombiano Urrego- a base aeronavale per la lotta contro il narcotraffico. Un progetto ambizioso questo, che prevede l´apertura nel 2010 di altre stazioni, cinque nell´Atlantico e cinque nel Pacifico, tutte con il compito di ascoltare e sondare le minacce latenti sulle acque degli oceani. La Colombia, d´altronde, è lí a un passo, divisa da Panama dalla barriera naturale della foresta del Darién, il ¨tapón¨ come lo chiamano qui, il tappo. Dopo Yaviza, un avamposto da fin del mundo, non c´è più la strada: la Interamericana si interrompe bruscamente e nessuno ha intenzione di costruirne un chilometro in più. Il discorso ambientale, di preservazione della grande foresta pluviale, non c´entra: chi si oppone (la maggioranza dei panamensi) lo fa per ragioni pratiche e adduce che sarebbe come costruire un´autostrada per le Farc e il narcotraffico, con libero ingresso a tutto il Centroamerica. Ciò nonostante, fare arrivare i carichi, giungla o no, non è poi così difficile. Oltre il ¨bombardeo¨ aereo si usa il grande mare oceano solcato da fuoribordo, sommergibili, pescherecci; ogni mezzo è buono, come i container che approdano al porto di Colón sull´Atlantico e che nella merce lecita nascondono la cocaina. Da qui, poi, collocati sui Tir, prendono la strada che li porta dritti fino al Chiapas messicano, un viaggio che può durare una settimana attraverso le congestionate frontiere centroamericane e che, se giunge a buon fine, può fare guadagnare al camionista duemila dollari per un traffico del valore di milioni. Sono in molti a rischiare i cinque anni di prigione (la pena media comminata alle mulas per traffico internazionale di droga) in cambio di questa commissione che equivale a quasi un anno di salario. In dieci anni sono state sequestrate a Panama 255 tonnellate di cocaina, con un importante incremento negli ultimi due anni. L´anno appena concluso, il 2009, ha fatto registrare la quantità di 55 tonnellate sequestrate, una cifra quasi simile (53 tonnellate) al 2008, un 5% di quanto si valuta passi annualmente attraverso l´istmo centroamericano. Le autorità sono soddisfatte di questi numeri, ma assicurano che si può migliorare. Come? È solo una questione di soldi. Anche i panamensi, infatti, si lamentano delle briciole che il Plan Mérida ha destinato loro: dieci milioni di dollari per il 2009 ed il 2010. Poco per chi, in fondo, è la porta d´entrata al corridoio centroamericano. Nonostante l´entusiasmo per l´ampliamento del Canale, Panama affronta questo 2010 all´insegna dell´incertezza. Al ritorno dalle vacanze natalizie, 17.000 impiegati statali si sono visti recapitare la lettera di licenziamento. Lo Stato è sovraccarico di personale e Martinelli ha intenzione di mandare a casa almeno 33.000 impiegati, scelti tra i più vicini alla pensione, persone che una volta perso l´impiego pubblico difficilmente ne troveranno un altro nell´impresa privata. Su di loro pesa lo spettro della povertà, una minaccia ben presente in un paese dove almeno il 36% della popolazione vive con 2 dollari al giorno. Il presidente, in cambio, dice che ha le soluzioni e chiede solo che lo si lasci lavorare. Le proteste al Parco Porras –dove si riuniscono abitualmente i cortei di dissenso- sono diventate un appuntamento costante con il nuovo anno. La disoccupazione spaventa i panamensi e le battaglie che si librano a palazzo di governo non contribuiscono a tranquillizzare l´ambiente. L´idea è che la grande crescita si stia fermando, Canale o no. Il narcotraffico sembra solo l´ultimo dei pensieri che assilla i panamensi, anche se le notizie che giungono dal Messico colpiscono in alto. Proprio il cugino del presidente, Ramón Martinelli, è stato formalmente accusato da un tribunale messicano di essere il referente del cartello dei fratelli Beltrán Leyva, alleati del potente cartello del Golfo, per le operazioni a Panama. COSTA RICA: L’OFFENSIVA COLOMBIANA La hacienda di Llano Grande si perde a vista d´occhio in un declivio verde, dove vacche e cavalli pascolano nell´aria frizzante dei millecinquecento metri sotto l´occhio attento di due pastori. Difficile identificarsi con il tropico in questo panorama di mucche pezzate e pini silvestri, ma la Costa Rica è anche questo. La fattoria appartiene a Roberto Solorzano: 65 anni, un passato da ministro sotto l´amministrazione Figueres, dal 2006 fino al gennaio 2009 è stato il direttore del Dis, il servizio di informazioni e sicurezza della Costa Rica. Da un anno si è ritirato per fare l´allevatore, ma soprattutto per dedicarsi alla sua grande passione, quella per i cavalli. Solorzano ha combattuto il narcotraffico per anni e dai narcos ha ricevuto dirette minacce di morte. La ragione è presto detta: ¨Durante la mia gestione della Dis abbiamo sequestrato 38 tonnellate di droga e questo per i cartelli è una grande perdita di denaro¨ ci spiega pacatamente e sottolinea l´emergenza che si vive in tutta la regione. ¨È una guerra che si conduce giorno dopo giorno, ma nonostante tutto c´è ancora una parte del mondo politico che crede che quello del narcotraffico non sia un pericolo reale per la nostra società¨. Eppure la Costa Rica appare fragile di fronte all´assalto dei cartelli. Le sue coste, sia sul Pacifico che sull´Atlantico sono esposte all´azione dei narcos ed i suoi porti principali, Limón e Puntarenas, sono già apparsi più volte al centro di operazioni antidroga di carattere internazionale. Non si è ancora spento il ricordo delle quaranta tonnellate di squali pescati nelle acque costaricane ed inviati in Messico, a Puerto Progreso, nello Yucatán. Qui, la polizia messicana ha trovato nelle carni dei pescecani novecento chili di droga, che erano stati impaccati e occultati proprio in una rimessa di Puntarenas. Una modalità nuova di nascondere la droga, usata più volte, como dimostrato da un altro sequestro simile, avvenuto solo un mese più tardi quando la polizia tica ha sequestrato 419 chili di cocaina nascosti in un altro carico di pesce a Golfito, vicino al confine con Panama. Il litorale, d’ altronde, è come una specie di trincea. La minaccia per chi sta con i piedi sulla terra viene dal mare, dalla vastità dell´oceano. Di fronte alla frequentata playa Manta, nel Pacifico centrale, staziona il guardacoste ¨Santamaría¨. È una presenza costante, alla quale i pescatori e la gente del posto sono abituati. Quello che non sanno invece gli ignari turisti in pedalò o in barca a vela che gli scivolano accanto, è che il ¨Santamaría¨ ascolta il mare e leva le ancore ogni qualvolta arrivi qualche segnale inconsueto là fuori, da qualche parte dell´oceano. Il compito è quello di intercettare, con la collaborazione della marina statunitense, i fuoribordo ed i sommergibili che dalla Colombia prendono la via marittima del Centroamerica. La loro autonomia è tale da poterli portare solo fino all´altezza della Costa Rica, poi da lì devono chiedere l´appoggio a terra, per rifornirsi di diesel e continuare il viaggio o per consegnare il carico agli intermediari. Intercettare questi messaggi significa un successo garantito per le forze di polizia, soprattutto per quanto riguarda l´identificazione dei sommergibili tascabili, che viaggiano a un metro sotto la superficie marina e sono invisibili ai radar. Quella dei sottomarini è una storia vecchia, che sembrava accantonata per le difficoltà che presentava. Invece, grazie alle nuove tecnologie il progetto dei narco-sommergibili è tornato alla ribalta nelle strategie dei cartelli. Il primo sottomarino è stato catturato nel settembre 2008. Al suo interno sono stati trovati, oltre ai due occupanti, 4 tonnellate e mezzo di cocaina per un valore di almeno 200 milioni di dollari. In un ambiente da claustrofobia, caldo e opprimente, confortati solo da una brandina dove riposare e da un ventilatore da tavolo, i due inviati sono stati presi proprio per una comunicazione mandata a terra ed intercettata in alto mare. La scoperta ha dimostrato come i cartelli colombiani abbiano ancora una volta rivoluzionato i loro metodi. I sommergibili, costruiti in vetroresina in officine meccaniche clandestine, hanno un costo di un milione e mezzo di dollari. I narcos li trovano affidabili per la grande quantità di cocaina che possono trasportare (fino a dieci tonnellate) e soprattutto per la capacità che hanno di sfuggire sia ai radar che ai sonar. Il sottomarino sequestrato nelle acque costaricane oggi fa bella mostra di sè nel museo navale di Key West, in Florida, ma sono decine quelli che vengono costruiti, con una stima per difetto tra i 20 e i 30 per anno di quelli che raggiungono la méta finale. La polizia colombiana nel 2009 ne ha catturati nove, ancora in cantiere. In Costa Rica i carichi che arrivano via mare cambiano spesso di mano. I colombiani hanno qui i loro soci messicani ed è a questi che consegnano la merce. La delinquenza organizzata locale ha un ruolo di secondo ordine e, proprio come a Panama, viene pagata in natura per i favori offerti, soprattutto sul piano logistico. È in questa maniera che la cocaina entra nel mercato locale, nelle città del Valle Central (la capitale San José, Alajuela, Heredia) e nelle spiagge turistiche del Guanacaste e dell´Atlantico. Quello costaricano è il mercato più fiorente in relazione al resto del Centroamerica, complice il maggiore alto potere acquisitivo della borghesia costaricana in confronto agli altri Paesi. Nel Guanacaste, la penisola a nord che si insinua nell´oceano Pacifico, gli investimenti degli ultimi anni sono stati copiosi. La regione ha cambiato il suo profilo, da una terra dedita all´agricoltura e all´allevamento è diventata la méta turistica per eccellenza di statunitensi e canadesi. Il jet set di Hollywood si dà appuntamento nei fine settimana sulle spiagge del golfo del Papagayo e qualcuno ha anche comperato casa: attori (Mel Gibson, Brad Pitt e la Jolie, Anne Hathaway, Charlie Sheen), rockstar (Pink, Iron Maiden), presentatori (Joan Rivers) si vedono spesso da queste parti e le grandi catene alberghiere, dal Four Seasons all´Hilton, hanno aperto i loro complessi nel mezzo della rigogliosa natura costaricana. Nemmeno Bill Gates ha saputo resistere all´incanto ed è stato fotografato con famiglia al seguito in uno di questi hotel. Il segreto di tanta munificenza, sussurrato ma non ammesso, è l´intervento diretto del narcotraffico che investe dovunque si possa per lavare gli immensi proventi delle sue attività. Nonostante la recrudescenza delle regole bancarie –chieste ed ottenute dal Fondo monetario internazionale, con il sollevamento del segreto bancario nel corso del 2009-, sono ancora molteplici le attività che si prestano agli investimenti illeciti, l´edilizia prima fra tutte, con buona pace degli onesti risparmiatori. Per loro, infatti, ogni tramite bancario è diventato –con il programma ¨Conozca a su cliente¨- una minaccia alla privacità, che farebbe invidia a qualsiasi stato totalitario. Il Paese cresce (i quartieri a ovest della capitale sono cantieri aperti, con le costanti inaugurazioni di mall, alberghi e centri residenziali), ma non c´è maniera di riconoscere la qualità dei capitali investiti. Una situazione di impotenza che viene confermata dalle alte cariche della Sugef, la soprintendenza finanziaria del Paese. I grandi capitali si muovono nonostante le misure di controllo e finiscono per ingrossare la mole di investimenti che sono una boccata d´ossigeno per l´economia in tempo di crisi. Anche per questo la Costa Rica rimane un paradiso fiscale per alcuni paesi –Francia in testa- che continuano a mantenerla nella loro lista nera. Denaro da riciclare e droga circolano con uguale eccesso. Che si muovano grandi quantitativi di cocaina nel paese, lo dicono le stesse cronache che narrano di sequestri record, come quello del dicembre 2008 a Tuetal, un piccolo paesino della provincia di Alajuela, quando 1660 chili di cocaina pronta a prendere la via del Messico venne confiscata in un deposito di attrezzi agricoli. In cortile, il Tir che avrebbe dovuto trasportarla e attorno alla casa sicari armati fino ai denti. Oppure, i 375 chili sequestrati in un hangar a Palmar Sur, pronti letteralmente a prendere il volo. O, ancora, i 969 chili di cocaina trovati a Miramar, vicino a Puntarenas, a febbraio, che hanno confermato la presenza del cartello del Golfo in Costa Rica e provato i timori di una penetrazione profonda ed eterogenea del territorio, con la partecipazione nei traffici di differenti cartelli. Un´ondata di sequestri cominciata anni fa e che non è mai piaciuta ai colombiani. Nel marzo 2007, alcune registrazioni captate dalla Dis hanno fatto luce su un piano elaborato dai trafficanti González Rivas per eliminare l´allora ministro dell´Interno, Fernando Berrocal. Un colpo, questo, naufragato solo a causa della repentina uccisione dei due fratelli da parte di una banda rivale. La provincia costaricana è diventata scenario di situazioni degne di un film hollywoodiano: elicotteri carichi di droga che cadono nella foresta, isole in mano ai narcos, giudici corrotti, regolamenti di conti e storie strane, sempre più strane da sembrare irreali. Al nord, tra Los Chiles e Upala, una delle zone più depresse del paese, a pochi chilometri dalla frontiera con il Nicaragua, gli inviati dei narcos comprano il silenzio e la simpatia della popolazione regalando denaro. La polizia ha ricevuto le segnalazioni della presenza di individui che, alla guida di auto lussuose, avvicinano la gente in strada e consegnano loro buste con discrete somme –tra i 300 e gli 800 dollari-, con la raccomandazione di farne buon uso. Secondo l´antinarcotici si tratta di una tattica per guadagnarsi i favori della popolazione in vista dell´inizio delle operazioni nella regione, dove la frontiera è poco custodita e la vicinanza del Gran Lago del Nicaragua suggerisce una nuova, ambita rotta. Il narcotraffico usa con scaltrezza le proprie tattiche. Agli indigeni di Talamanca fa coltivare marijuana, ai contadini di Upala aprire nuove vie di trasporto ed ai pescatori di Puntarenas, Quepos e Golfito promette grandi guadagni con la partecipazione diretta alle operazioni di sbarco dei carichi. In alto mare sono raggiunti dai fuoribordo dei narcos e caricano sui propri sgangherati pescherecci i pacchi di droga. In questa maniera possono attraccare ovunque senza dare nell´occhio dei guardacosta. Un affare, questo, bello rotondo già che i costi di operazione vengono assorbiti dallo Stato che fornisce il combustibile alla categoria dei pescatori, colpita dalla crisi. I narcos conoscono il territorio e non è un caso che si infiltrino dove sia più alta la disoccupazione, dove i giovani hanno meno opportunità di lavoro e dove il risentimento verso lo Stato è più alto. I casi di corruzione nella polizia sono all´ordine del giorno. Oltre ad essere una questione culturale, pesa il fatto che un poliziotto guadagni 360 dollari al mese e con questi soldi deve affrontare tutti i rischi che il suo mestiere comporta. Un mezzadro guadagna solo venti dollari in meno; allora, mi casi sono due: o zappare la terra piuttosto che prendersi una pallottola da un delinquente o accettare le grosse somme che i narcos offrono. In un anno le denunce di corruzione sono state più di seicento, un numero che fotografa la situazione, nonostante le assicurazioni del Ministro dell´Interno, Janina del Vecchio sul progetto di professionalizzazione della polizia. Proprio la sicurezza è stato il tema centrale delle recenti elezioni presidenziali di febbraio. A vincerle è stata Laura Chinchilla, 51 anni, vice-presidente dell´attuale amministrazione Árias, la candidata proposta dal governo. Sarà la prima presidente donna del Paese e per lei la sfida si gioca proprio sul tema sicurezza. All´indomani della sua elezione (si insedierà il prossimo 8 maggio) ha promesso di impegnarsi a fondo per restituire al Paese quella tranquillità che le è valso in tempi passati l´appellativo di ¨Svizzera del Centroamerica¨. Nel suo discorso di ringraziamento agli elettori ha proprio chiamato in causa la lotta al narcotraffico: ¨siamo l´ultimo campo di battaglia della guerra che si combatte in Colombia e Messico¨ ha detto alla folla. Una guerra in cui la Costa Rica non dispone di un esercito, ma solo una polizia che ha un grande bisogno di modernizzarsi e di rinnovarsi ed una società civile attenta, ma indifesa. Il suo sarà un compito difficile: oggi come non mai i ticos sentono il pericolo di disgregazione di quella pace sociale che è stata il loro tratto distintivo degli ultimi sessanta anni, dalla rivoluzione del 1948. INTERVISTA A ROBERTO SOLORZANO (ex direttore del Dis -Dirección Inteligencia y Seguridad- 2006-2009) Roberto Solorzano è convinto della valenza geopolitica del narcotraffico. Secondo l´ex direttore del Dis, il Venezuela di Hugo Chávez e le Farc sono i principali responsabili di aiutare i cartelli e di guidare, cosí, la destabilizzazione della regione centroamericana. ¨La politica di Chávez è deleteria per la regione. Qui non si tratta di ideologia, ma semplicemente di affari e di potere. I movimenti di sinistra centroamericani sono formati in maggioranza da persone oneste ma ingenue, che non si rendono conto che appoggiando Chávez aiutano tutto il processo del narcotraffico. Il presidente venezuelano, così come le Farc, hanno tutto l´interesse di mantenere questo status quo, perchè è parte della loro strategia per debilitare i nemici¨. Il narcotraffico come pericolo per la democrazia, quindi, una sorta di spada di Damocle che pesa sul futuro della regione. Che fare? “Abbiamo bisogno di politiche forti, di alleanze strategiche. Le polizie centroamericane stanno già collaborando tra loro, hanno creato una effettiva banca dati e si scambiano informazioni. È però necessario che anche i politici capiscano che il narcotraffico è il vero nemico per le nostre democrazie. Dobbiamo creare questa coscienza¨. E invece? ¨C´è una idea diffusa che il rischio sia minimo, nonchè una certa difficoltà a sviluppare politiche efficaci per evitare l´infiltrazione del narcotraffico. Il controllo bancario è diventato più dettagliato, ma dubito che sia un´arma valida. In Costa Rica siamo molto sensibili al tema delle libertà individuali e le ultime misure prese dalla Sugef sembrano più che altro un´imposizione arbitraria ed autoritaria: si contano i centesimi al piccolo risparmiatore, ma non si scoprono i grandi capitali illeciti¨. La corruzione a che grado è arrivata? ¨La corruzione non è giunta agli alti poteri dello Stato. I narcos pagano, certo, ma questo succede magari con il poliziotto del paese di provincia, non con i ministri o gli alti funzionari. Il governo è sano, ne è una prova il piano dell´attentato che abbiamo sventato contro il ministro Fernando Berrocal¨. Che percezione ha per il futuro? ¨Il futuro è complicato. I paesi devono cercare alleanze, però a volte mi sembra che la classe politica non capisca cosa stia succedendo in realtà, di quanto grande sia il pericolo. Il narcotraffico, oltre a corrompere la società, muove grandi quantità di denaro e può arrivare al punto di destabilizzare la regione, riattivando movimenti rivoluzionari che al momento sono assopiti¨. NICARAGUA: IL SOGNO SVANITO Quando si ritorna in Nicaragua, la domanda è d´obbligo. Ci si guarda attorno e ci si chiede cosa sia rimasto della rivoluzione. Trenta anni è un periodo di tempo abbastanza lungo e sufficiente per tirare le somme, specie ora che il sandinismo è tornato al potere e che alla presidenza c´è di nuovo chi per molti è stato il simbolo di un´epoca e di un´ideologia. Il Frente Sandinista oggi controlla centinaia di Comuni, nonchè le cooperative e i ministeri che dovrebbero rappresentare il motore per lo sviluppo. Eppure, dalle città alle campagne, il Nicaragua non supera la prova: paese bellissimo e struggente, sembra una zattera alla deriva, incapace di superare mali endemici come il paternalismo o il fatalismo che caratterizzano la sua gente. Dopo Haití, è la nazione più povera del continente americano, ed è tutto dire. I pochi segni del cambiamento sono palliativi per pochi, che non interessano la maggioranza della popolazione. Le campagne e i contadini continuano a vivere nel loro atavico abbandono e nelle città vige la regola del lavoro informale, dell´arrangiarsi. Eppure, i soldi ci sono, ma finiscono in pozzi senza fondo, come l´elefantiaco apparato dei partiti (in pratica due, il Frente ed il Partido Liberal) o delle speculazioni massicce, come quella voluta nella capitale Managua dall´amministrazione Alemán, che si è impegnata nel trasformare la ¨città giardino¨ in una anonima spianata di cemento. Allora, si era a metà degli anni Novanta, il caudillo liberale aveva elargito a piene mani appalti e mazzette, rivelando palesemente non solo agli addetti ai lavori, ma all´intera comunità internazionale, come la corruzione fosse più forte della rivoluzione e delle ideologie. Oggi, cambiato il colore di chi sta al governo –dal rosso acceso dei liberali al rossonero dei sandinisti- la sensazione è che poco sia mutato nei corridoi dei palazzi del potere. La corruzione è lì, mascherata a stento da una magistratura compiacente, e pronta a mettersi in moto ad ogni occasione. Negli anni passati la questione della proprietà delle terre era stata una di queste occasioni, poi erano venuti gli aiuti internazionali e, come se non bastasse il fattore umano, anche la natura ci aveva messo del proprio (ricordate l´uragano Mitch o la tragedia del vulcano Casitas?) rammentando, se ce ne fosse stato bisogno, che dove c´è distruzione, viene la ricostruzione ed il circo che corrisponde. Oggi, la nuova tentazione si chiama narcotraffico. Non è una novità in termini generali, ma sì lo è per quanto riguarda lo spiegamento di forze in campo, degli interessi che si muovono, del coinvolgimento politico e finanziario, nonchè di impatto sociale. Per i cartelli in Nicaragua, come nel resto dell´istmo centroamericano, la questione verte principalmente sul tema della logistica, che è quella di assicurarsi che i carichi provenienti dalla Colombia giungano intatti a destinazione. Sul lato atlantico, centinaia di chilometri di coste in gran parte abbandonate garantiscono ai cartelli basi quasi sicure per il passaggio delle sostanze illegali. Anche qui, come altrove, è stato il cartello di Sinaloa ad aprire la strada, anticipando sul tempo i rivali, rifacendosi ad una logistica già collaudata a suo tempo niente meno che da Pablo Escobar, tra i primi a credere nell´importanza di stabilire contatti permanenti nell´istmo centroamericano. Sinaloa è penetrato così a fondo nel territorio da trasformare il Nicaragua in un proprio feudo, al punto da lasciare ai suoi avversari le briciole, in questo caso il versante Pacifico, una lunga e monotona striscia costiera di trecento chilometri esposta e quindi sottoposta ad una stretta sorveglianza. I cartelli alleati di Michoacán e del Golfo utilizzano questa rotta, che culmina nel Golfo di Fonseca, un arcipelago ripartito tra Nicaragua, El Salvador ed Honduras, già teatro di tensioni internazionali. Per dimostrare quanto il gruppo di Sinaloa abbia infiltrato le istituzioni, basta seguire le vicende successive all´arresto di José Salvador López Santos, nel giugno 2007, un pilota giunto dal Messico con un jet privato all´aeroporto ¨Sandino¨ di Managua con un milione di dollari in valigia. Quei soldi dovevano servire per favorire la liberazione di José Luis Rodríguez Guzmán, parente del ¨Chapo¨ Guzmán, arrestato un mese prima durante un´operazione antidroga in Nicaragua. La sequenza degli eventi seguita a quelle eccellenti detenzioni –e a quella di altri sette implicati, tutti di nazionalità messicana- è stata imbarazzante: giudici e politici compiacenti per poco non portavano alla liberazione di tutto il gruppo. López Santos, soprannominato ¨el Primo¨, il Cugino, dopo essere stato condannato a dieci anni, ha prima ricevuto uno sconto della pena (cinque anni), poi è stato liberato da una giudice compiacente, riarrestato e quindi segnalato per l´indulto, ratificato dall´Assemblea nazionale, ma vetato infine dal presidente Ortega, sulla scia delle forti proteste della società civile. La legge, insomma si adegua all´interpretazione, su cui pesano le pressioni e le ricompense dei clan. La vicenda non è ancora terminata e nel frattempo gli uomini di Sinaloa rimangono qui, divisi tra le carceri di Tipitapa e di Granada, in attesa degli eventi. Gli uomini del ¨Chapo¨ Guzmán sono qui per assicurare la rotta dei Caraibi, il corridoio che sull´Atlantico permette il transito dei carichi provenienti dalla Colombia. È un territorio ostico, geograficamente e socialmente convulso, abitato ancora oggi dalle popolazioni autoctone che mezzo millennio fa hanno visto l´arrivo delle caravelle spagnole e poi vissuto l´epopea dei pirati. Nella pratica, non si sono arresi mai ed il loro rapporto con le istituzioni non è mai stato dei migliori. La comparsa dei narcos ha portato soldi facili ed un improvviso benessere, che è stato ripagato con il giuramento di fedeltà di alcune piccole bande alla causa dei cartelli messicani. I fatti di Walpa Siksa –riportati nell´articolo di apertura di questo reportage, con l´agguato di miskitos a membri della Marina nicaraguense- preoccupano le autorità non solo per l´infiltrazione del narcotraffico nel tessuto sociale dell´estesa regione, ma per lo sfondo delle pretese autonomiste della minoranza miskito. Nell´aprile dell´anno scorso, per iniziativa del leader Hector Williams, è stata promulgata una Dichiarazione d´indipendenza della Moskitia, sulla cui origine sono state fatte le più disparate ipotesi, da quella che chiama in causa gli interessi delle compagnie petrolifere a quella sull´ingerenza del narcotraffico. Ma è limitativo ed inesatto affermare che i miskitos sono trafficanti ed alleati dei narco. Nella regione atlantica nicaraguense ciò che si manifesta e si fa palese è l´assenza dello Stato, la mancanza di coinvolgimento delle comunità autoctone alla vita del resto del Paese. La sensazione che provano gli indigeni è quella di essere stati abbandonati, soprattutto nei momenti più delicati della loro storia recente. È ancora aperta la ferita causata dalla distruzione dell´uragano Mitch (che sulla costa fece quasi duemila morti e 300 milioni di dollari di danni), quando i rappresentanti dello Stato fecero bisboccia con i fondi giunti da tutto il mondo per la ricostruzione. Un banchetto che lasciò sprovviste le due regioni atlantiche (amministrativamente divise in Nord e Sud) dei soldi necessari per ricominciare. Con l´avvento nel narcotraffico la problematica si è complicata: con modi spicci e l´atteggiamento del più forte, i cartelli vogliono dimostrare di essere la nuova autorità, occupano i posti lasciati vacanti dallo Stato e fanno intendere di poter offrire molto di più. Non solo soldi o benessere, ma anche armi: il passato novembre l´esercito ha sequestrato al cartello di Sinaloa un arsenale composto da più di 50 Ak-47, ventimila proiettili ed esplosivo, sulla cui destinazione non è mai stata fatta chiarezza. Sono migliaia, però, le armi che il narcotraffico ha immesso nel paese, in grado di armare un vero e proprio esercito. La capitale –e le città vicine, León e Chinandega da un lato verso nord, Masaya e Granada dall´altro, a sud- sembrano e sono un altro Paese. Managua negli ultimi anni si è estesa a vista d´occhio. La vasta spianata che si affaccia sul lago Xolotlán ha conosciuto una crescita che non ha precedenti, portando con sè non solo investimenti percepibili soprattutto in un centro città impalpabile che ruota attorno –manco a dirlo- a un centro commerciale, ma anche e soprattutto disastrati quartieri periferici. La capitale appare come una soluzione a migliaia di famiglie provenienti da Matagalpa, Chontales, o dall´Ocotal, le zone agricole che più hanno risentito della crisi degli ultimi due anni. Il fenomeno delle pandillas non è sviluppato come nel Salvador o in Honduras, ma l´esercito della manovalanza per i narcos è radicato qui, in più di sessanta ¨repartos¨ considerati a rischio per l´alta incidenza della micro criminalità. Le maras, le bande giovanili, sono contenute, ma anche così svolgono il loro lavoro al dettaglio. Dal crack per i più poveri, alla cocaina per i salotti dell´oligarchia e dei turisti, le sostanze stupefacenti abbondano, immesse sul mercato dalle bande locali che le ricevono da colombiani e messicani. Quisquilie, per le cifre che maneggiano i cartelli, ma comunque una presenza importante che permette loro di assicurarsi il controllo del mercato interno. La situazione sociale pare sul punto di esplodere, ma le autorità indicano che la questione è sotto controllo e che gli indici di delinquenza sono tra i più bassi del Centroamerica. È anche vero, però, che più degli altri centroamericani i nicaraguensi continuano ad emigrare per la mancanza di opportunità e di lavoro: stime non ufficiali, parlano di almeno due milioni di persone costrette ad andarsene in un paese che ne conta quasi sei. Il nicaraguense, stando a queste cifre, nasce con la valigia in mano. Il narcotraffico, manco a farlo apposta, offre una soluzione non solo alle pretese della criminalità organizzata, ma anche a una lunga lista di disoccupati, il cui imperativo è quello di arrivare a fine mese con la pancia piena almeno per metà. In tempi duri come questi, purtroppo, anche questa è una scelta da prendere in considerazione. INTERVISTA A SERGIO RAMÍREZ (scrittore, ex vicepresidente del Nicaragua) Sergio Ramírez è un pezzo della storia nicaraguense recente. 68 anni, un passato da rivoluzionario culminato con l´esperienza della vicepresidenza durante il decennio sandinista, ha poi cercato di dare vita ad una riforma di questo partito, con la creazione a metà degli anni Novanta del Movimiento de Renovación Sandinista. Abbandonata la scena politica nel 1996, ha ripreso appieno la carriera di scrittore, confermandosi una delle voci più importanti della letteratura latinoamericana attuale. Il suo ultimo romanzo ¨El cielo llora por mí¨ (Il cielo piange per me) affronta proprio il tema del narcotraffico. Perchè? ¨Perchè è diventato parte del nostro paesaggio sociale quotidiano. Nicaragua e il Centroamerica sono il ponte naturale tra Colombia e Messico¨. Con quali pericoli? ¨È in gioco l´integrità degli Stati, la loro indipendenza. I cartelli hanno il potere di dissolvere e di corrompere. Penso al Guatemala, per esempio, un caso estremo¨. Come si sente in Nicaragua questo fenomeno? ¨La corruzione è riuscita a penetrare il sistema giudiziario e quello penitenziario, grazie al potere economico di cui dispone. Nella regione caraibica, poi, il rischio è che i narcos possano manipolare i movimenti armati di carattere indipendentista, approfittando i reclami già esistenti di gruppi minoritari. Per la polizia e l´esercito, che dispongono di pochi mezzi, è difficile mantenere il controllo su una regione così vasta ed i cartelli se ne approfittano¨. A che punto sono i lavori della Commissione Latinoamericana Droga e Democrazia, di cui sei membro? ¨Sono serviti per definire una posizione critica delle politiche istituzionali latinoamericane in quanto al traffico della droga. Non si può solo reprimere il consumatore. Si tratta di un problema integrale e come tale deve essere afffrontato. Abbiamo discusso a lungo anche sul tema della legalizzazione, ma senza giungere ad una posizione collegiale. Per quanto mi riguarda sono a favore della legalizzazione¨. In che termini? ¨Si spendono milioni di dollari per incarcerare i consumatori e smantellare le piccole reti di distribuzione, quando invece queste risorse possono essere utilizzate per combattere i capi e trattare l´emergenza traffico come una questione di salute pubblica. Senza la legalizzazione ogni misura risulta vana, come si dice qui è ¨arar en el mar¨, arare nel mare¨ (ndr, questa locuzione é molto usata in America Latina e riprende una famosa espressione di Simón Bolívar). HONDURAS: PROVE FALLITE DI DEMOCRAZIA L’Honduras del dopo golpe è tutto meno che un paese sereno e non solo per gli avvenimenti che hanno rischiato di travolgere la società in una escalation dittatoriale, ma perchè gli honduregni hanno scoperto nuove e inaspettate infermità, svelate da quei cinque mesi (da giugno a novembre 2009) di scontri di piazza ed assenza della legalità. Nemmeno l´elezione di Porfirio Lobo, che da fine gennaio ha assunto le funzioni di presidente della Repubblica, è riuscita a riportare la pace interna e a rompere l´isolamento internazionale provocato dal golpe del giugno passato. Il 28 di quel mese, quando i militari sono entrati armi in pugno nella residenza dell´allora presidente Manuel Zelaya, qualcosa si è spezzato nell´anima di questo popolo e le differenze politiche e ideologiche, circoscritte fintanto alla ricerca delle istanze di una fragile democrazia, sono tracimate in un crescendo di violenza e intimidazione. A distanza di quasi un anno la pace sociale è sempre più a rischio e nuovi, inaspettati mali si sono impadroniti del paese. L´antagonismo, mal arginato prima, è ora scoppiato in tutte le sue forme più degradate: minacce, imboscate, pestaggi, uccisioni. L´Honduras non è mai stata una terra pacifica (detiene uno dei peggiori indici di criminalità del mondo), ma il golpe del giugno 2009 ha retrocesso la società civile di venti-trenta anni, alle atmosfere dittatoriali che si respiravano nel Centroamerica dei Somoza e dei Ríos Montt. Nel Paese oggi è in rischio non solo l´istituzionalità, ma è a rischio anche il pluralismo, il semplice diritto ad esprimersi. Da febbraio ad aprile di quest´anno sono stati assassinati otto giornalisti -una cifra da guerra civile-, voci scomode che denunciavano gli abusi e le prevaricazioni del dopo golpe. I loro nomi: José Bayardo Mairena Ramírez, Manuel Juárez, Nahun Palacios Arteaga, David Meza, Jospeh Hernández Ochoa, Luis Antonio Chévez Hernández y Jorge Orellana. Crimini destinati all´impunità e che sono seguiti solo di un paio di mesi a quello eccellente del capo della Dlcn (Dirección de Lucha contra el Narcotráfico), la polizia antidroga, Juan Arístides González. 57 anni, di cui gli ultimi cinque alla testa della Dlcn, González, un ex generale dell´esercito, si era distinto per la sua intransigenza e per la lotta a viso aperto che aveva intavolato con i cartelli. Solo cinque giorni prima di morire, in risposta alle minacce che aveva ricevuto sul suo cellulare, González aveva presentato i risultati di una investigazione dove indicava le strategie e la politica dei cartelli messicani e colombiani in Honduras. In essa non si indicavano solo le rotte del traffico, ma si arrivava a denunciare i possidenti terrieri che avevano offerto le loro proprietà per favorire la logistica dei cartelli: magazzini, piste d’atterraggio clandestine, mezzi di trasporto. Come nessuno aveva fatto prima in Honduras, era andato alla radice del problema, alla collusione tra l´oligarchia e i narcos, una alleanza che riteneva distruttiva per il futuro del Paese. Con la denuncia, però, González ha firmato anche la sua condanna a morte. Il 7 dicembre 2009, dopo aver lasciato la figlia all´ingresso di scuola, due sicari gli hanno teso un agguato da cui non è uscito con vita. Anche sulla morte di González, che pure aveva scosso l´opinione pubblica, nessuna pista. L´Honduras è diventato il paese dove regna sovrana l´impunità, dove ancora vige la legge del ¨terrateniente¨, il proprietario terriero che fa il bello e il cattivo tempo, una sorta di far west fuori tempo massimo, pittoresco da un lato (basti ricordare Zelaya che si presentava ai giornalisti con l´immancabile Stetson da cow-boy) ma intimidatorio e inquietante dall´altro. Roberto Micheletti, il presidente di fatto durante la crisi del dopo-golpe, non ci aveva pensato due volte nel dichiarare che se gli Stati Uniti non avessero riconosciuto il suo governo, l´Honduras si sarebbe disinteressato della lotta al narcotraffico. Una minaccia le cui implicazioni andavano al di là delle sole parole ad effetto, rispecchiando invece quella che è la posizione dell´oligarchia honduregna nei confronti del tema narcotraffico, un argomento ritenuto sopravvalutato e deleterio per l´immagine internazionale della nazione. L´elezione di Porfirio Lobo ha riportato le relazioni Honduras-Stati Uniti sul piano del dialogo e proprio ad aprile, nell´ambito del piano Mérida il paese ha ricevuto 4 milioni e mezzo di dollari da investire nella lotta ai cartelli. Le autorità dell´Honduras, nel 2009, hanno sequestrato 7 tonnellate di cocaina con mezzi del tutto insufficienti. È come tappare la falla con un dito, in un paese che conta il più alto tasso delinquenziale in tutta l´America Latina e dove non manca certo la manovalanza criminale. Non è un caso che proprio in questo Paese sia caduto Reynerio Flores Lazo, ¨el jefe más buscado¨ dal 2004 al 2009, quando nel maggio di quest´ultimo anno venne arrestato alla periferia di Tegucigalpa, la capitale dell´Honduras. Flores Lazo, salvadoregno, si era trasformato in pochi anni nel maggiore fornitore di servizi per i cartelli della regione. Il suo compito era quello di ricevere i carichi di droga a Panama o in Costa Rica e da lì muoverli, attraverso differenti compagnie di autotrasporti attraverso l´istmo centroamericano fino in Messico. Il suo sistema era semplice: la droga veniva occultata nelle carrozzerie o nei telai dei Tir e, con la complicità dei funzionari della dogana, passava le frontiere fino a giungere a destinazione. Flores Lazo in cinque anni ha raccolto una fortuna di 82 milioni di dollari, ma non è comunque l´unico centroamericano che si è arricchito in tempi brevi con il narcotraffico. Un´attività alla quale si dedicava anche Edwin Reyes Puerto, un ex venditore di ceramiche assurto a ¨re dei trasporti¨. Solo quando venne sterminato con la sua famiglia, gli inquirenti scoprirono che Reyes era depositario di una fortuna e che la sua flotta di 40 Tir serviva per trasportare droga da Panama all´Honduras. Con quasi otto milioni di abitanti, un territorio grande come la Bulgaria, l’Honduras vanta il poco raccomandabile record di un analfabetismo vicino al 15% ed una diserzione scolastica alle stelle. La metà dei bambini non termina le elementari e, al cospetto di una endemica mancanza di lavoro, finisce ad ingrossare l´esercito delle maras. Almeno centomila giovani sono coinvolti in questo fenomeno delinquenziale che tiene in ostaggio la società civile e con un potere tale da pretendere di inviare propri rappresentanti a un tavolo di negoziati con il governo. Non c´è negozio o attività nelle città principali (Tegucigalpa, Comayagua, La Ceiba, San Pedro Sula) che non sia taglieggiato o non abbia ricevuto minacce. Il governo ha dichiarato pubblicamente la propria incompetenza, quando l´anno passato chiuse il programma di riabilitazione e reinserimento dei giovani coinvolti nelle pandillas. Con la giustificazione della mancanza di fondi si è mandato tutti a casa dilatando l´abbandono sociale e aumentando pericolosamente la breccia tra Stato e società. Messa da parte la prevenzione, rimane però la repressione: per questo vengono occupati i Cobra, i reparti speciali dell´esercito, incaricati di stanare i mareros con operazioni casa per casa. Proprio dalle maras proviene la bassa manovalanza di cui si avvalgono i narcos. Come padroni dei quartieri, i mareros sanno come e dove muoversi, assicurano la logistica e, data la loro crudeltà, sono sempre pronti all´azione violenta. Oltre al piccolo spaccio, le gang assicurano la completa gamma di atti criminali che circonda il traffico di droga: rapimenti, minacce, pestaggi, ricettazione, prostituzione, estorsioni, omicidi tutto passa dalle maras. La tratta di persone ha raggiunto un incremento tale che le ragazze dell´Honduras vengono vendute ai bordelli delle capitali centroamericane per appena quaranta dollari. I cartelli si sono resi conto della potenzialità di questo materiale umano, tanto violento quanto affidabile, al punto da utilizzarlo ad un livello superiore del semplice appoggio logistico e dello spaccio, per impiegarlo nelle operazioni paramilitari che si organizzano per i pericolosi trasporti attraverso i confini. La conferma si è avuta pochi mesi fa, quando la polizia ha eseguito una serie di arresti di mareros vincolati con gli Zetas, il braccio armato del cartello del Golfo. Ma non è tutto qui, perchè i pandilleros di Honduras (assieme a quelli del Guatemala e del Salvador), una volta completato il loro addestramento, vengono inviati in Messico a partecipare alle guerre intestine dei narcos. In un conflitto che ha lasciato migliaia di morti e che dissangua giorno dopo giorno le proprie fila, i cartelli messicani sono giocoforza obbligati a impiegare forze provenienti da altri paesi. Secondo fonti governative, durante la presidenza Calderón (dal dicembre 2006 e fino all´aprile 2010) il conflitto con i cartelli ha provocato in Messico 22700 vittime e 122000 arresti. Complice la miseria, sono sempre di più i centroamericani del ¨Triangulo norte¨ -quello composto da Guatemala, El Salvador e Honduras- che accettano questo destino di carne da macello dei narcos. Come negli altri paesi, anche in Honduras il narcotraffico è un affare di famiglia. I cartelli messicani di Sinaloa e del Golfo hanno i loro riferimenti qui in una ventina di famiglie locali che controllano le direttrici principali del Paese: il Centro, Cortés, Santa Bárbara e Copán. L´Occidente honduregno (che comprende queste ultime tre regioni) si è trasformato nella classica terra di nessuno. Incastonato tra l´oceano Atlantico e il Guatemala, è il corridoio scelto dai cartelli per dirigere i carichi di droga verso nord. Complice la conformazione naturale e la mancanza di controlli, l´Occidente è il punto di smistamento delle operazioni provenienti dalla parte sud dell´istmo centroamericano. Una sorta di Neverland del narcotraffico: piste clandestine, omertà, passaggi segreti e punti ciechi con la frontiera con il Guatemala hanno alimentato il traffico e ne hanno fatto la prima risorsa della regione, scalzando il turismo e l´interesse per l´attrattiva principale del posto, le celebri rovine maya di Copán. I narcos non solo hanno costruito piste d´atterraggio, ma anche strade e magazzini, celati dalla foresta e dal disinteresse della popolazione locale. I regolamenti di conti hanno fatto negli ultimi tre anni quasi cinquecento morti, un effetto collaterale che da queste parti, di fronte alla miseria, si è disposti a tollerare. Lo Stato è assente: nei villaggi non ci sono stazioni di polizia, per le denunce bisogna rivolgersi nei capoluoghi di provincia, distanti a volte anche un centinaio di chilometri dalla zona dei fatti. Nemmeno a dirlo, la legge è diventata quella delle famiglie che controllano il territorio e che agiscono per conto del cartello di Sinaloa o di quello del Golfo. I metodi usati sono gli stessi che vengono insegnati dai loro padroni: violenza estrema ed azioni dimostrative, volte a inculcare nella popolazione locale chi è che comanda. Le fortune sorgono dal nulla, come quella del sindaco di El Paraíso, un piccolo centro il cui limite comunale confina con il Guatemala. In odore di narcotraffico, il sindaco ha sempre negato tutte le accuse, ma intanto si circonda di guardiaspalle e si è fatto costruire un nuovo palazzo municipale a imitazione del Capitolio di Washington, con tanto di eliporto. Da dove vengono i soldi? Semplice: dalla vendita del latte delle sue mucche, dice. Narco e politica vanno a braccetto. Fino a che punto sarebbe andato a fondo Arístides González non lo possiamo sapere, ma la connivenza narcotraffico e istituzioni non è un argomento nuovo per l´Honduras. Nel 2003, nel giro di un mese, due deputati honduregni (uno, César Díaz Flores, del Parlamento centroamericano, il Parlacen e l´altro, Armando Ávila, di quello nazionale) furono coinvolti in fatti di traffico internazionale di droga. César Díaz Flores venne arrestato al posto di frontiera di Peñas Blancas, tra Costa Rica e Nicaragua: sulla sua automobile, con targa diplomatica, vennero trovati sette chili di cocaina. I timbri sul suo passaporto parlavano di decine di viaggi attraverso il Centroamerica, indizio che suggeriva che Díaz Flores si avvaleva della sua carica politica, e della relativa immunità, per trasportare droga da un paese all´altro. Il caso di Armando Ávila è ancora più eclatante. Il deputato venne catturato dalla polizia dopo uno scontro a fuoco tra due bande rivali di narcos mentre queste tentavano di appropriarsi di un aereo leggero carico di cocaina proveniente dal Venezuela. Il deputato pistolero non potè raccontare con dettagli la sua versione dei fatti, perchè fu eliminato pochi mesi dopo in carcere da un sicario, ma la polizia ritenne che entrambe le detenzioni fossero relazionate tra loro e che ogni deputato lavorasse per una differente banda. Alla soffiata che servì ad arrestare Díaz Flores, seguì quindi quella della vendetta nei confronti di Ávila. Quella del narco-Stato non è più solo una teoria. Lo aveva denunciato Julián Arístides González, pagandone le conseguenze con la vita, perchè gli era risultato chiaro che dopo il golpe del giugno 2009 l´Honduras aveva perso definitivamente la legalità. Una sensazione che sta diventando realtà giorno dopo giorno, con l´uccisione dei giornalisti, la violenza per le strade, le città prese in ostaggio dalla delinquenza e i narcos che penetrano nella società, dalle più alte istanze dello Stato fino alle periferie desolate e nelle campagne ridotte a miseria. Un tempo qui le grandi compagnie agroalimentari (la Standard Fruit, la Del Monte, la Chiquita) fecero la loro fortuna. Oggi non hanno lasciato che abbandono e disgregazione, mentre la ricchezza che avevano promesso si è dissipata nelle tasche di pochi e scaltri proprietari dei terreni, gli stessi che oggi, terminata la bonanza esportatrice, hanno trovato la nuova frontiera per arricchirsi. EL SALVADOR: MARAS & NARCOTRAFFICO SPA El Salvador é il piú piccolo dei paesi centroamericani. Con i suoi ventunmila chilometri quadrati, schiacciato sull’Oceano Pacifico da Guatemala e Honduras, é un poco piú piccolo dell’Emilia Romagna. Scosso da una lunga guerra civile, il Paese ha conosciuto la pace e la democrazia solo a partire dal 1992. L’ereditá di dodici anni di conflitto, con 75.000 tra morti e desaparecidos, e la contrapposizione tra due poli opposti (la destra raggruppata nel partito Arena e la sinistra nel postrivoluzionario Frente Farabundo Martí) ha di fatto reso la societá salvadoregna bellicosa e violenta. Il disarmo avviene solo a parole: nelle mani dei civili rimangono almeno 350.000 armi, che si prestano alle vendette e alla soluzione drastica di antichi rancori. Le difficoltá del dopoguerra si trasformano in emergenza a metá degli anni Novanta, quando il governo Usa decide di rimpatriare tutti quei salvadoregni che si sono macchiati di alcun crimine. Il Salvador, fino ad allora terra di gente che emigra, riceve il ritorno di migliaia di persone giá avvezze a delinquere e senza la possibilitá a trovare un lavoro in un Paese in crisi. Fanno quello che sanno, cioé organizzarsi in bande ed iniziare a taglieggiare vicini, commercianti, bottegai. É la nascita del fenomeno delle maras in Centroamerica, le gang che seminano il terrore nelle cittá, che trasformano i quartieri in feudi della criminalitá, dove il minimo sgarro si paga con la vita. Nel Salvador é l’inizio di una nuova tragedia nazionale. In poco tempo le gang proliferano e diventano un’emergenza. Non c’é aspetto della societá civile che non risenta dell’influenza delle gang giovanili: smerciano la droga, chiedono tangenti a tutti, dal panettiere al postino, arrivano a farsi pagare anche solo per attraversare la strada da un marciapiede all’altro. É la Mara Salvatrucha che controlla la prostituzione, il traffico di droga, il boom dei sequestri lampo, le rapine, le estorsioni. Il Salvador si avvia cosí a diventare il Paese piú pericoloso del globo. Con il nuovo secolo, la tassa di omicidi arriva al numero di 50 ogni centomila abitanti, pari a quella delle zone di guerra. Il governo non riesce a dare risposte. Prova prima con la prevenzione, poi con la repressione, indurisce il codice penale, manda l’esercito nei quartieri, ma ottiene in cambio solo carceri piú piene e risentimento generalizzato, mentre nei barrios i ragazzini si trasformano nei nuovi mareros, prendendo il posto degli adulti finiti in prigione o morti ammazzati. Non a caso, l’etá media di vita di un pandillero é rigorosamente sotto i trenta anni: finiscono quasi tutti uccisi prima. Sono parte della criminalitá, ma non si arricchiscono, nonostante muovano migliaia di dollari. Non é per i soldi, insomma, é uno stile di vita. Il barrio é il loro mondo e per il quartiere, per difenderne i confini ed i miseri privilegi, sono disposti a tutto. San Salvador é oggi una cittá blindata. Guardie armate davanti ai negozi, case protette da filo spinato, i soliti quartieri ¨felici¨ dove le famiglie benestanti vivono come in fortini sotto la custodia di piccoli eserciti di guardaspalle. Fuori da queste isole, peró, é battaglia quotidiana. Le politiche sociali avviate dal presidente Mauricio Funes, un ex giornalista eletto nelle liste del Frente Farabundo Martí, hanno cambiato radicalmente la visione dello Stato: interventi nel sociale, incentivi per l’educazione, sostegno all’agricoltura sono state misure che hanno finalmente rivolto l’attenzione sulle fasce sociali piú a rischio. L’ondata della criminalitá non é peró cessata, anzi. Anche Funes, nonostante il suo background di sinistra, é giunto alla conclusione che l’unica soluzione sta nell’uso dell’esercito per le strade cittadine e l’inasprimento delle pene carcerarie. Nel settembre 2010 é stata posta in vigore la Ley de Proscripción de Pandillas, una legge che criminalizza la sola appartenenza a questi gruppi. La misura é stata presa dopo un anno di efferate stragi perpetrate dalle maras: la peggiore, quella di Mejicanos, un quartiere della capitale, costó la vita nel giugno 2010 a 16 persone, bruciate vive all’interno di un bus di linea per una macabra rappresaglia. Il Salvador é rimasto al margine delle rotte del narcotraffico. La sua posizione geografica e le sue caratteristiche naturali non ne fanno una meta ambita per i cartelli. Non cosí per il reclutamento della manodopera criminale, che trova un serbatoio infinito nelle maras. Decine di giovani salvadoregni vengono reclutati per operare in Messico, al servizio diretto dei cartelli nella loro carneficina quotidiana o per il trasporto dei carichi illeciti negli altri Paesi centroamericani. L’arruolamento viene eseguito dagli Zetas. I giovani prelevati nelle periferie di San Salvador, Santa Ana, San Miguel sono inviati in localitá nel sud del Messico, dove ricevono addestramento ed istruzioni prima di passare al terreno operativo. Al termine di questo periodo, i mareros possono finire negli stati del nord messicano (Sonora, Sinaloa, Chihuahua) a fare da carne da macello nelle guerre tra i cartelli; oppure a fare da scorta nelle rotte del narcotraffico, che dalla Colombia percorrono il Centroamerica fino alla destinazione finale. Oltre ad un salario, i mareros ricevono pagamenti in natura –cocaina e crack- che procurano di immettere nel mercato salvadoregno e che rappresentano la fonte di finanziamento per continuare a delinquere. Secondo fonti del Ministero dell’Interno, l’85% dei crimini commessi nel Salvador sono opera dell’alleanza tra narcotraffico e maras. In un piano di destabilizzazione nell’ambito di questa alleanza, l’ordine imposto dai cartelli é stato quello di aumentare il numero di omicidi e di crimini, come misura di addestramento delle nuove leve della criminalitá. Agli iniziati alla pandilla, giá non si chiede una prova di coraggio qualsiasi, ma un omicidio. Solo in questa maniera si assuefano i ragazzi al crimine ed al disprezzo della vita umana, facendone un membro della mara prima ed un soldato dei cartelli dopo. Con il 2011 si sta compiendo la consegna dei centri penitenziari del Paese all’esercito. Il piano per combattere maras e narcotraffico introdotto dal governo di Funes va appunto in questo senso, verso una militarizzazione del conflitto sociale e l’affidamento di maggiori poteri all’esercito. Una linea dura, destinata a spostare sull’asse della forza la risoluzione della lotta al narcotraffico e alla delinquenza comune. GUATEMALA: IL RISCHIO DEL NARCO-STATO Il 20 febbraio di quattro anni fa, tre deputati salvadoregni del Parlacen (il Parlamento centroamericano) piú il loro autista vennero intercettati da un commando a pochi chilometri dalla capitale guatemalteca ed uccisi. Il crimine scosse l’intero sistema centroamericano e per la brutalitá con cui venne commesso (i corpi dei quatto vennero bruciati) e per l’importanza, politica e sociale, degli uccisi. Tra i quattro c’era infatti Eduardo D’Aubuisson, figlio di quel Roberto D’Aubuisson, fondatore del principale partito salvadoregno, Arena, e tristemente famoso come mandante dell’assassinio di monsignor Romero. Due giorni dopo la strage, l’investigazione prese subito una strada inaspettata: grazie alla registrazione di una telecamera di sicurezza di un distributore di benzina, gli inquirenti raccolsero la prova irrefutabile che a rapire i deputati era stato un commando della polizia. I quattro agenti arrestati promisero di confessare tutto, ma nel carcere di massima sicurezza dove furono tradotti, vennero eliminati nemmeno 48 ore dopo il loro arrivo. Da allora, la lunga indagine che ne é seguita ha dimostrato l’esistenza di una struttura parallela dello Stato, che partiva dal mondo politico e si avvaleva di un braccio armato della polizia, che si occupava di esecuzioni e sequestri, con legami con il narcotraffico e la delinquenza comune. Nel caso specifico, si é scoperto che William Pichinte, uno dei deputati uccisi, aveva approfittato del suo status per portare in Guatemala, nascosti nell’auto e all’insaputa dei suoi compagni, cinque milioni di dollari nonché, forse, anche un carico di cocaina. Un´operazione di cui qualcuno nel Salvador era al corrente e di cui avvisó il gruppo corrotto della polizia guatemalteca. Resta da appurare a chi erano destinati quei soldi e, una volta rubati, dove siano finiti. Gli inquirenti sospettano che Pichinte approfittasse della sua posizione di deputato per agire indisturbato per conto di un cartello. Fatto sta che tutte le persone coinvolte nel plurimo omicidio sono state mano a mano eliminate o recluse: l’ex ministro Carlos Vielman é detenuto in Spagna; Víctor Rivera, superiore dei quattro poliziotti, é stato assassinato nell’aprile 2008; Edwin Sperisen, ex comandante della polizia, é scappato in Svizzera dove ora é sotto inchiesta; Víctor Hugo Soto, il potente ex capo delle Investigazioni Criminali, é stato arrestato. Sono i pezzi grossi della struttura parallela, che ha sommerso il Guatemala in una nuova epoca di terrore, resa possibile da uno Stato che non riesce a rafforzare la propria democrazia. Uscito dal conflitto interno con gli accordi di pace del dicembre 1996, il Guatemala non é riuscito nell’impresa di stabilizzare la sua democrazia. In dieci anni si sono susseguiti presidenti e governi di destra, piú interessati a mantenere i privilegi dell’oligarchia che ad aprire ad un programma di politiche sociali. Uno, Alfonso Portillo, é ancora in prigione per rispondere dei milioni di dollari sostratti alle casse dell’erario pubblico. Nemmeno l’avvento di Álvaro Colom a presidente, con una campagna elettorale basata su un impianto socialdemocratico, é riuscito a sortire un cambiamento di tendenza. In Guatemala, ancora oggi all’incirca tre milioni di persone (su una popolazione di tredici milioni di abitanti) non riceve i servizi basici (acqua, luce) e il tasso di analfabetismo (un 24%) é tra i piú alti della regione e dell’intera America Latina. É giocoforza equiparare queste cifre al numero di indigeni che vivono nel Paese. Quello dei quiché é un mondo a parte che, nel bene o nel male, non rientra nei ranghi preposti dallo Stato guatemalteco. Costretti all’esilio per sfuggire alle purghe di Ríos Montt a metá degli anni Ottanta, i quiché sono tornati nelle loro terre, continuando le loro tradizioni millenarie e rimanendo al margine. Lo Stato non arriva nel Petén, a Verapaz o nel Quiché e quando vi ci arriva lo fa con tutta la debolezza delle istituzioni che si lasciano corrompere e colludere. Le regioni sono diventate terre di nessuno, un territorio di grandi dimensioni che si é trasformato in una base impenetrabile dei cartelli. Il Guatemala divide con il Messico quasi mille chilometri di frontiera, una linea praticamente continua di foreste e praterie quasi impossibile da controllare, piena di punti ciechi. Il narcotraffico si é impadronito di intere comunitá, costruisce piste d’atterraggio, laboratori, impiega la gioventú per i suoi atti criminali, elargisce denaro, compra e riceve favori dalle istituzioni, pur di assicurarsi il controllo di una regione che é vitale per lo spostamento dei carichi di droga. La situazione é cosí grave che nel dicembre 2010 il governo ha dichiarato lo stato d’assedio per la regione di Alta Verapaz. Forti contingenti militari (17.000 effettivi) sono stati inviati a Cobán e negli altri centri della provincia, dove sono state sospese alcune garanzie costituzionali, come il diritto di riunione e quello di sciopero. Nel corso di una settimana le autoritá hanno arrestato una ventina di persone e sequestrato cinque aerei, un centinaio di armi, una trentina di automobili blindate, un arsenale in esplosivo e pallottole di differente calibro. Secondo gli inquirenti, a capo dell’organizzazione ci sono gli Zetas, nel loro intento di liberarsi dall’alleanza con il cartello del Golfo e diventare un gruppo a parte. Il punto centrale della loro strategia é quello di controllare la frontiera guatemalteca e porre cosí una specie di pedaggio ai carichi di droga provenienti dal Sudamerica. Nonostante l’enorme quantitá di droga che passa per il Guatemala, le autoritá sono riuscite a sequestrarne nel 2010 solo 1411 chili, una quantitá cinque volte inferiore a quanto confiscato l’anno anteriore. Una cifra che fa seriamente pensare fino a che punto i cartelli siano entrati nel tessuto politico e giudiziario del Paese. Il Guatemala vive l’emergenza senza avere gli strumenti adeguati per combatterla. Anzi, lo Stato si debilita per le grandi illecite opportunitá che offre il narcotraffico, con il risultato che il Paese é diventato uno dei posti meno sicuri del pianeta. Negli ultimi dieci anni la cifra degli omicidi si é triplicata ed in totale, dalla firma degli Accordi di pace, ci sono state 62800 uccisioni. Anche qui il fenomeno delle pandillas ha trasformato le periferie della capitale e delle principali cittá in luoghi insicuri, in mano alla criminalitá. Le bande giovanili prendono di mira soprattutto i commercianti che si negano a pagare il pizzo. Solo nel 2010 sono stati uccisi 170 impiegati del settore trasporti (autisti e bigliettai di bus) per essersi rifiutati di pagare una tassa per passare con gli autobus nei quartieri controllati dalle pandillas. I negozianti non stanno meglio: piú di un centinaio sono stati uccisi l’anno passato per non piegarsi al volere delle maras. All’incremento della violenza, la risposta é la stessa che negli altri Paesi centroamericani: aumentano i corpi di sicurezza privata, la gente si barrica nelle case, si costruiscono residence a stretto uso e consumo dei benestanti. Non esiste prevenzione, non esistono programmi sociali, la manovra fiscale voluta dal presidente Colom per accaparrare fondi da destinare alle fasce piú povere della popolazione é stata da subito osteggiata dai partiti conservatori e la protesta di piazza scaturita é quasi costata il posto a Colom. Il narcotraffico attinge a piene mani dal serbatoio della delinquenza fornito dalle maras. Si tratta di una cruenta manovalanza, che il piú delle volte offre i propri servigi in cambio di crack e cocaina per il consumo diretto o per lo spaccio. I metodi sono spicci e crudeli: nel novembre 2008 per ritorsione in un affare di droga, i soldati del narco non ci pensarono due volte a bruciare un bus con sedici persone a bordo. Morirono tutti, quindici nicaraguensi ed un olandese, con l’unica colpa di essere saliti su un autobus marcato da una vendetta contro il proprietario della linea di trasporto. La linea per trasformare il Guatemala in un narco Stato é esile. La risposta deve venire dalle istituzioni e dalla societá civile, ma l’impressione é quella di uno Stato prigioniero del proprio passato e dei capricci di un’oligarchia sorda ai reclami di quanti ancora credono in un Guatemala dove il civismo e la democrazia possano avere il sopravvento sui mali endemici del Paese. INTERVISTA A EDELBERTO TORRES RIVAS (sociologo, autore del saggio ¨Interpretación del desarrollo social centroamericano¨) Edelberto Torres Rivas é tra i sociologi piú stimati in Centroamerica. Classe 1932, guatemalteco, ha subito in carne propria la repressione attuata dai governi dittatoriali, al punto da dover vivere in esilio per piú di trenta anni. Durante il suo soggiorno in Cile scrisse ¨Interpretación del desarrollo social centroamericano¨ opera che ha giá avuto dodici edizioni e che lo ha affermato come autore. Sposato con l’attivista Cecilia Crespo, i due formano una coppia instancabile nella lotta contro ogni sopruso della vita democratica. Lei é tornato in Guatemala dopo gli accordi di pace del 1996. Come reputa il cammino svolto dalla democrazia guatemalteca da allora sino ad oggi? ¨Dagli accordi di pace ci sono state tre elezioni che sono state aperte, pluralistiche e prive di frodi. La democrazia elettorale funziona, peró non é suficiente, perché ci si aspetta che lo Stato si comporti con maggiori risorse ed equitá. Solo cosí si aprirá un periodo di maggiore partecipazione della gente, soprattutto tra i settori indigeni, che costituiscono il 45% della popolazione¨. Che parte occupa il fenomeno narco nella societá guatemalteca? ¨La presenza del narco non fatto che crescere e crescere negli ultimi anni. Dal 2009 si puó affermare che questa maledizione importata realizza le cinque funzioni che fanno del Guatemala una societá vassalla. Queste funzioni sono: luogo di transito delle droghe verso il Messico, visto che il 70% della coca passa attraverso il Guatemala; aumento del consumo di cocaina e di crack; spazio per il riciclaggio in una dimensione finanziaria difficile da calcolare; posto di produzione, come nella regione di Huehuetenango dove ci sono grandi coltivazioni di amapola destinata al Messico; e posto di deposito per grandi quantitá di sostante stupefacenti. Tutto questo si traduce in conflitti violenti, mortali, tra le bande criminali di Messico, Colombia e Guatemala, stragi che occorrono tutti i giorni tra piccoli eserciti bene armati, che hanno un profondo impatto nella societá. Ció non potrebbe succedere al margine dell’autoritá e dei distinti settori della societá. Di conseguenza esiste una feroce penetrazione di interessi criminali nelle istituzioni dello Stato: giudici, deputati, sindaci ed altri funzionari. Si ottiene un doppio effetto: un’estesa corruzione ed una diffusa sensazione di paura. Lo Stato si debilita, non compie le sue funzioni e si converte lentamente in uno Narcostato¨. Quali azioni bisognerebbe prendere? ¨É un risposta lunga e complessa: ci sono iniziative per affrontare il problema con la forza e con l’esercito, che ha sapore di una battaglia persa. Ci sono altre iniziative per legalizzare il consumo e campagne di criminalizzazione. In questa lotta disuguale, l’aiuto degli Satti Uniti é vitale, peró fa enfasi sulle dimensioni della forza e non su quelle di un fenomeno sociale e non solo un affare illecito¨. Come si immagina il Guatemala nei prossimi dieci anni? ¨Esistono diversi scenari politico-sociali. Uno di questi, pessimista, sarebbe quello di una societá che continua la sua caduta e in cui, di conseguenza, aumentano la disuguaglianza e la povertá, con una vita politica precaria e lo Stato che somiglierebbe a quello che gli accademici statunitensi chiamano lo Stato fallito, con una insicurezza totale. L’economia sarebbe meno competitiva, dipendendo dall’aiuto esterno. Uno scenario ottimista, sebbene moderato, suppone che i partiti politici e le organizzazioni sociali firmino un accordo. Il maggiore problema in Guatemala é la povertá, nonché le brutali minacce alla sicurezza cittadina, in modo che, sotto questo aspetto, un accordo migliorerebbe l’animo della gente dando un certo ottimismo, una fiducia nel futuro¨. Possiede il Centroamerica gli strumenti per arrestare il narcotraffico? ¨No, nessuno possiede questi strumenti, come lo sta dimostrando il Messico, che ha voluto affrontare il crimine organizzato e le mafie con l’esercito. Quindicimila morti é solo un numero preliminare. In Centroamerica il rischio varia da paese a paese: cresce in Nicaragua e Guatemala, meno in Costa Rica e nel Salvador, mentre si mantiene in Honduras. Per tutti, peró, l’aiuto internazionale é decisivo¨. Stato e narcotraffico: a che punto é giunta la collusione? ¨Nel caso del Guatemala il livello di penetrazione e corruzione é alto ed in aumento. Negli ultimi anni, i dati relativi al sistema giudiziario e alla struttura dei Comuni, sono allarmanti. La societá reaziona spasmodicamente e le autoritá pubbliche si dichiarano impotenti. Si puó dire che c’é il rifiuto, ma che é ancora insufficiente¨. Quali sono le sue considerazioni finali riguardo l’infiltrazione del narcotraffico in Centroamerica? ¨É molto forte e non si puó misurare. In Guatemala si calcola che il valore di mercato delle transazioni vincolate al narco raggiunge il 5% del prodotto interno lordo. Bisogna aggiungere che il narcotraffico in tutta la regione alimenta, aiuta, promuove altre forme di criminalitá: sequestri, furti, esecuzioni e, la cosa peggiore, si associa alle gang giovanili che estendono la criminalitá, un triste panorama che dieci anni fa non esisteva¨.