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I PIRATI DEL TERZO MILLENNIO
Tre alberi, 1500 metri quadrati di vele, il Ponant è l’icona del
lusso, vanto sciovinista di una Francia che vuole ancora dominare il mare, di chi può permettersi una crociera da 500
euro al giorno. Nella primavera del 2008, di ritorno dalle
Seychelles, viene abbordato da due motoscafi veloci mentre
incrocia le acque del Corno d’Africa. A bordo ci sono i jinn,
i banditi del mare, armati sino ai denti di kalashnikov e lanciagranate. Non hanno paura, sono esperti, hanno alle spalle
decine di abbordaggi, ma quel veliero è diverso, incarna la
sete e il riscatto. Lo desiderano e lo disprezzano, rappresenta
il ricco Occidente, la « patria » decadente che li respinge e li
ha relegati in un angolo di deserto somalo spazzato dalla
guerra. Devono attaccare per non morire, e morire non importa; anche se si tratta di affrontare una fregata da guerra,
Davide contro Golia, vince il più forte, ma anche il più audace: i jinn lo sanno e non hanno nulla da perdere. Dirottano il Ponant sotto gli occhi attoniti delle telecamere di tutto
il mondo. Al notiziario della sera, la gente è stupita: nel terzo
millennio ci sono ancora i pirati?
È in quel momento che un gruppo di predoni del deserto,
di mercenari al soldo di signori della guerra, senza averne
consapevolezza si ritrova a indossare i panni dei pirati del
ventunesimo secolo. Abitano case di paglia e fango, bevono
latte di cammella, ma i loro capi sanno adoperare Internet e
i sistemi satellitari di rilevamento, sono in grado di compiere
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transazioni bancarie e hanno contatti internazionali, sono il
terminale di traffici di ogni genere dall’Europa e dall’Italia.
I pirati moderni sono vicini, più di quanto si possa immaginare. I loro abbordaggi non solo hanno effetti diretti sulla
nostra vita quotidiana (l’ennesimo assalto dei guerriglieri del
mend a petroliere o alle piattaforme nigeriane può far schizzare in alto il prezzo del greggio), ma possono anche colpirci
direttamente, magari in vacanza, quando siamo deboli. Non
sospettavano certo di essere attaccati a colpi di bazooka i 161
passeggeri della nave da crociera Seabourn Spirit della Miami
Seabourn Cruise Line. Anche prenotare un allettante last
minute per una destinazione a rischio può trasformarsi in
tragedia: lo sanno bene gli undici turisti rapiti nel villaggio
di Sipadan nel Borneo e trattenuti per mesi a riso e sardine
nella giungla di Jolo dai militanti di Abu Sayyaf. E ancora: lo
skipper del taxi boat indonesiano che ci accompagna a fare
snorkeling nell’arcipelago delle Riau potrebbe essere un pericoloso bucaniere, così come vuole la tradizione di Batam.
Centinaia di attacchi pirati a volte mortali hanno infranto
il sogno di una crociera a vela nel Mediterraneo, e ancora
più nei Caraibi, dove qualcuno pensava di godersi un charter natalizio a bordo di un catamarano. Non parliamo di
destinazioni sperdute, ma dell’isola Margarita in Venezuela,
e di Saint Vincent o Santa Lucia nelle Piccole Antille. Non
se ne sa nulla, nessuna agenzia di noleggio o tour operator
informa del rischio pirateria. Eppure è così reale che a farne
le spese è stato uno straordinario velista che sognava oceani
liberi dalla plastica e dal petrolio, il neozelandese Peter Blake,
ucciso dai ratos de agua (« topi di fiume ») a bordo della sua
Seamaster all’imboccatura del Rio delle Amazzoni.
I marittimi che ogni giorno battono le rotte commerciali
conoscono bene questi pericoli. Non c’è capitano, ufficiale o
marinaio che non sia stato coinvolto in un abbordaggio di
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lieve o grave intensità. Storie che non fanno notizia, a volte
neppure denunciate dagli armatori, esistenze trafitte da una
violenza cieca. Un dolore che si stenta a condividere anche
con le persone care. Magari poche parole, un silenzio più
lungo di altri al cellulare, una lettera scarna a moglie e figli;
come quella del capitano Alan MacKereth, ritrovata nel rogo
della petroliera Nagasaki Spirit fatta schiantare dai pirati di
Sumatra nello Stretto di Malacca.
La pirateria è una guerra silente: si stima che negli ultimi
venticinque anni nelle sole acque del Sudest asiatico siano
state attaccate più di 17.000 navi con una media di settecento per anno. Migliaia di morti, dispersi lasciati alla deriva su zattere di fortuna o scaraventati in mare: come i ventitré marinai del Cheung Son, ritrovati putrefatti nelle reti dei
pescatori.
Di molte vittime non si conosce neanche il nome, esse
fanno parte dell’esercito di marittimi del Terzo mondo, indiani, indonesiani, filippini, imbarcati con uno stipendio da
fame e senza garanzie, su navi registrate in Liberia, Panamá,
Bolivia. Il 90 per cento del naviglio mondiale batte « bandiere ombra », trasporta equipaggi con identità sfumate, carichi
misteriosi che contribuiscono all’imperante anarchia di mari
e oceani. Per le Marine del mondo le difficoltà di intervento
in acque internazionali, quanto l’impossibilità di varcare
quelle territoriali degli « Stati canaglia », sono altrettante frecce nella faretra dei nuovi pirati. Essi sono in grado non solo
di abbordare e depredare una nave, ma anche di dirottarla
per ottenere un riscatto o farla sparire per sempre. Si chiamano ghost ships, « navi fantasma » nelle mani delle mafie del
mar Cinese, i cosiddetti « sindacati », che hanno una struttura e una organizzazione ben radicate e complicità istituzionali e nel mondo degli affari dall’estremo Oriente agli Stati
Uniti.
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Le loro prede sono portacontainer, general cargo, bulk carrier, tanker, milioni di dollari che galleggiano, carichi facilmente rivendibili, casse di bordo come scrigni di tesori. Così doveva vederle anche il capitano Emilio Chengco, uno dei
più famosi pirati delle Filippine negli anni Ottanta. Si dice
portasse i suoi « clienti » allo Sky Bar dell’Hilton Bayview
Park Hotel a Manila, e da lì facesse scegliere le prede come
al supermarket. « Quale di queste le piacerebbe? » chiedeva
puntando il dito nell’oscurità mentre sorseggiava un mojito.
Sul mare non operano solo bande criminali, la pirateria è
divenuta un metodo per finanziare l’attività di organizzazioni terroristiche che sempre più spesso hanno porti o navi
come obiettivi. Il pensiero corre subito alle circa novecento
persone a bordo del Super Ferry 14, fatto esplodere con una
tv al tritolo nelle acque di Manila. Il terrore dal mare ci scopre vulnerabili, specialmente nell’era dei container che possono trasportare di tutto e non sono suscettibili di controlli,
pena la paralisi dei traffici. All’interno di uno di essi è stato
trovato persino un terrorista di Al-Qaida, soprannominato
Container Bob, che si spostava indisturbato nel suo scatolone
d’acciaio con letto e wc!
Solo i pericoli derivanti dalle minacce globali possono
provocare un’inversione di tendenza. Dopo l’11 settembre le
norme internazionali in materia di security, specialmente nei
porti, sono divenute più restrittive, ma il cammino è ancora
lungo e lastricato di insidie. Il mare in realtà è una giungla.
Le Marine sono oggi impegnate a fronteggiare tutti i crimini marittimi e anche la pirateria, ma c’è chi da trent’anni
la combatte ogni giorno, ed è l’International Maritime Bureau (imb), guidato dal capitano Mukundan Pottengal, con
sede a Londra, sul Tamigi, e in Malaysia, a Kuala Lumpur,
dove ha creato un centro operativo antipirateria: il Piracy
Reporting Centre. Questa istituzione, diretta emanazione
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della Camera di Commercio Internazionale, e interamente
finanziata dal mondo armatoriale e assicurativo, è svincolata dalla burocrazia e dalle pressioni dei governi. Oltre a combattere e scovare i bucanieri, fornisce informazioni trasparenti e dettagliate sul loro conto. Nel sito Internet www.
icc-ccs.org è possibile consultare i report più aggiornati e conoscere l’andamento e il numero degli attacchi nelle piracy
maps (che utilizzano a supporto le mappe di Google).
Le mappe e i dati del Bureau, le segnalazioni dei manager
antipirateria guidati da Pottengal, nome di battaglia Capitan
Muku, sono il filo rosso che lega il viaggio tra i moderni bucanieri, così come viene assunta a base di questa indagine la
nozione di pirateria adottata dall’imb, che amplia la sfera di
applicazione prevista dalle convenzioni internazionali comprendendo tutti i casi di « armed robbery at sea » e cioè « ogni
atto di abbordaggio di qualsiasi nave con l’intento di commettere un furto o altro delitto avendo la capacità di usare la
forza nel corso dell’azione », indipendentemente dalle motivazioni per il quale esso viene effettuato.
Le nuove Tortuga, a cui diamo lo stesso nome della leggendaria base del pirata gallese Henry Morgan, sono oggi
concentrate in Africa e nel mar Cinese a ridosso di importanti vie commerciali come lo Stretto di Malacca, che separa
Malaysia e Indonesia con un canale di 500 miglia. Qui l’imb
tra il 2002 e il 2007 ha registrato ben 258 attacchi con oltre
200 marinai presi in ostaggio e otto assassinati, tanto che nel
giugno del 2005 il ramo assicurativo dei Lloyd’s lo ha classificato come zona di guerra. Un disastro economico già avvenuto alla fine degli anni Novanta quando i Club dei P&I,
dopo aver pagato consistenti indennizzi, decisero di aumentare i premi assicurativi dal 10 al 20 per cento per le destinazioni asiatiche a rischio. Quell’anno gli armatori della Federation of asean Shipowners’ Associations, che rappresentano
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il 40 per cento della flotta mondiale, subirono un notevole
aumento di spesa.
La pirateria ha costi economici e sociali altissimi. Si annida e prospera come una tenia nelle acque di quelle nazioni
dove vi è forte instabilità causata da guerre e carestie, per
esempio in Somalia, oppure dove i governi sono deboli e
corrotti, come in Nigeria o in Indonesia. Sono questi tre
Paesi i più pericolosi: da anni detengono il record degli abbordaggi, che nel 2008 sono aumentati dell’11% rispetto
all’anno precedente, passando da 263 a 293, circa quattro
attacchi pirati alla settimana!
Ciò che desta preoccupazione è l’incremento della violenza e dell’uso di armi da fuoco. Nel 2008 sono state utilizzate
in ben 139 occasioni, anche se la responsabilità è per gran
parte dei jinn somali, a cui l’industria dei sequestri di navi
nel 2008 ha fruttato più di 86 milioni di euro!
I dati e le cifre da soli non riescono a inquadrare un fenomeno che ha radici in profonde disuguaglianze, nei traffici
di armi, rifiuti ed esseri umani, o nei vantaggi che il nostro
sistema economico ottiene dai « buchi neri » della terra, intere regioni e Paesi senza Stato né controlli, spazi marittimi
senza regole; per accrescere la consapevolezza di quanto avviene, bisogna cercare le storie, visitare latitudini lontane
delle quali non conosciamo e spesso non vogliamo sapere
nulla, tranne poi stupirci se nel terzo millennio ci sono ancora i pirati.
La lunga navigazione inizia sulle coste della regione del
Puntland, dove il Corno d’Africa fronteggia lo Yemen e l’isola di Socotra, prosegue a bordo di un mercantile italiano sino a Lagos in Nigeria, si sposta nel mar Cinese a Kuala Lumpur, in Malaysia, e da lì nel folto delle foreste del Borneo per
incontrare i discendenti di Sandokan, e ancora in Thailandia
sulle tracce di un eccidio dimenticato, nei bordelli delle
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schiave bambine di Nagoya, e alla fine, dopo il sogno infranto di una fuga ai Caraibi, l’ultimo scalo è Venezia, dove le
Marine occidentali dichiarano guerra alla pirateria sulle note
del Linzer di Mozart.
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