PER UNA LETTURA CRITICA DEL TESTO DI CALVINO “IL BARONE RAMPANTE” Si può ordinare la Trilogia calviniana de I nostri antenati secondo l’ordine cronologico: 1. Il visconte dimezzato – 1952 2. Il barone rampante – 1957 3. Il cavaliere inesistente – 1959 Si può però anche seguire il TEMPO DI AMBIENTAZIONE: 1. Il Cavaliere inesistente – 800 d.C. 2. Il visconte dimezzato – 1600 3. Il barone rampante – 1700. “Il barone rampante” corrisponde alla crisi del ’56, dovuta alla denuncia di Krusciov. Se ne presenta di seguito un breve resoconto, legato sia alla situazione russa sia a quella italiana. Dal 14 al 25 febbraio 1956 si tenne a Mosca il XX Congresso del Partito bolscevico. Esso fu un avvenimento nodale per la storia sovietica e della stesso comunismo nel mondo. Ad esso fecero seguito nel giugno dello stesso anno moti operai a Poznan in Polonia e, in ottobre, un’aperta rivolta di lavoratori e studenti per a democratizzazione del Paese in Ungheria. La repressione militare russa fu immediata e sanguinosa. In questo contesto, difatti, ci fu un primo attore protagonista e un secondo con la funzione di frenatore. Il primo fu Nikita Sergeevic Krusciov, originario della regione carbonifera del Donbass nell’Ucraina, segretario generale del PCUS dal 1953. Il secondo fu il segretario generale del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti. Krusciov ammise e denunziò in un famoso "rapporto segreto" i crimini efferati di Stalin e gli effetti nefasti del culto della sua personalità. Togliatti, pur non osando apertamente dissentire, cercò in tutti i modi di celare, ritardare, sminuire, dirottare la portata della denunzia kruscioviana. Entrambi, anche se in modo diversificato, furono interpreti del regime di terrore staliniano che assieme avevano promosso e gestito nei lunghi anni della loro milizia e in funzione dirigente nella nomenklatura del Komintern. L’iniziativa di Krusciov fu certo un atto coraggioso, anzi temerario, di grande portata politica epocale e mise in moto un complicato meccanismo che alla fine sarebbe sfociato nella crisi irreversibile del regime totalitario. Ciò non toglie che la personalità di Krusciov va esaminata e giudicata con severità in tutto il suo complesso. Stalin, che fiutava e sceglieva con cura gli uomini affini a se stesso, elevò ai massimi gradi del partito Krusciov nel 1938, mettendolo a capo dell’apparato politico dell’Ucraina che era stato liquidato da crudeli epurazioni. Krusciov fu, dunque, un fedele e convinto esecutore di un autentico sistema repressivo e per spietatezza non fu inferiore al suo capo ed ispiratore. L’Ucraina, che nel 1917 aveva proclamato una Repubblica Indipendente, resistette fino al 1920 quando fu soggiogata e annessa con la forza all’URSS. Lo spirito di autonomia era stato sostenuto e assicurato dalla piccola borghesia ucraina sostenuta anche dai religiosi cristiano ortodossi e dalla Chiesa cattolica di rito greco. Krusciov definì senza pietà "nazionalisti borghesi" tutti i ceti culturali ed i credenti che avevano manifestato e manifestavano sentimenti indipendentisti, li descrisse come "complici del fascismo polacco-tedesco" e proclamò, nell’estate dello stesso anno, "la necessità di liquidarli inesorabilmente". La regione non era solo il granaio, ma anche la più poderosa base industriale del regime. Una violenta opera di russificazione fu eseguita da Krusciov con assassinii, vendette e accurate 1 persecuzioni fisiche e morali. Un’esecuzione così zelante delle direttive staliniste, procurò al dittatore ucraino un crescente avanzamento al vertice del partito e del comando militare. Fu Stalin, evidentemente soddisfatto della cura annientatrice con la quale Krusciov aveva saputo mantenere il potere bolscevico in Ucraina, a chiamarlo nel Politbjuro e nel Consiglio Supremo di Guerra al momento dell’invasione tedesca. Egli fu nominato Tenente-Generale e incaricato del controllo politico del Sud Ovest, nelle zone cioè occupate dall’offensiva nazista che venne contrastata da un efficiente, vasto movimento partigiano. Assieme ai Marescialli dell’Unione Sovietica, da Voroscilov a Timoscenko, egli divenne uno dei più acclamati eroi della battaglia di Leningrado in cui l’Armata Rossa costrinse alla resa il generale tedesco von Paulus. Alla morte di Stalin, nel 1953, Krusciov aveva acquistato sufficiente potere e popolarità per aggredire la memoria orrenda del suo predecessore e ispiratore. Condannando Stalin con il Rapporto segreto, del resto fondato sui fatti, Krusciov in effetti condannava, ma senza ammetterlo, l’intero sistema del quale era stato parte integrante e consapevole punta di diamante. Togliatti, delegato al XX Congresso di Mosca, presente nella sessione segreta notturna, tentò subito una disperata manovra per impedire che le parole di Krusciov diventassero di pubblico dominio. Benché in possesso del testo scritto di Krusciov, negò la verità quando nel giugno 1956 il "New York Times" pubblico la notizia. Il segretario del Partito comunista italiano dichiarò cavillosamente di non ritenersi autorizzato a rendere noto "un testo che non è nostro". E nella sua relazione al Comitato centrale di marzo dello stesso 1956, anziché affrontare la sostanza, a lui nota, dei crimini staliniani, divagò a lungo, presentò ancora il dittatore come "grande pensatore marxista" e provocò un caldo applauso dell’Assemblea. In aprile, al Consiglio nazionale egli testualmente dichiarò: «L’uomo di cui al XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, il compagno Stalin, sono stati indicati e criticati errori e difetti da lui commessi particolarmente nell’ultimo periodo della sua esistenza è un uomo che si è conquistato un posto nella storia alla testa dell’immane opera della rivoluzione di Ottobre, della costruzione della società socialista e dell’affermazione della difesa fino all’ultimo della società socialista. E questo posto, quest’uomo lo tiene e lo terrà per sempre nella storia e nella coscienza degli uomini che sanno comprendere le cose». Qualche settimana più tardi, in giugno, in un’intervista al compiacente Moravia, direttore di "Nuovi Argomenti", Togliatti asserì testualmente che da quelle "storture" staliniane "non è derivata la distruzione di quei fondamentali lineamenti della società sovietica da cui deriva il suo carattere democratico e socialista". L’Unità, organo del Pci, non pubblicò il Rapporto segreto aspettando oltre trent’anni per renderlo pubblico, nel numero del 22 febbraio 1986. Ritornando alla reazione di Calvino , in seguito agli avvenimenti del 1956 ci fu una diaspora degli intellettuali iscritti al P.C.I. Nel Barone rampante si trova una pienezza di vita ma all’interno di una scelta che è parziale: si tratta di una persona che decide di vivere sugli alberi, con disciplina autoriduttiva. Questo barone rampante raggiunge una sua pienezza d’esistere ma in un’autoreclusione, decidendo di non scendere più dagli alberi. Quindi anche il Barone rampante è, come il Visconte dimezzato, una storia di coerenza, di rigore, in cui il protagonista autonomamente si crea degli ostacoli, cioè induce se stesso ad una vita parziale, all’interno della quale si costruisce una sua meta. Si tratta di una persona che volontariamente – perché nessuno lo costringe – opera questa scelta, diversamente da un altro gruppo, presente nel romanzo, che agisce spinto dalle circostanze. 2 Trattandosi di un’allegoria, questa del Barone rampante rispecchia due aspetti: 1. Uno storico contingente, ossia l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956. Calvino scrive Il barone rampante in questi anni, tra il 1956 ed il 1957, ed è un’opera, proprio a causa di quel fatto storico, di ripensamento, dove si alternano amarezze, la constatazione che il comunismo ha anche questo volto oppressivo che sacrifica l’indipendenza dei popoli, persino con l’uso delle armi, dell’esercito, dei carri armati. Nello stesso tempo, c’è però anche la speranza visibile nella volontà di combattere, di reagire, di porre un argine rispetto ad una situazione di conflitto, anche se si sa già in partenza che questa lotta non è destinata al successo pieno. Il tema del Barone rampante è questo: il protagonista rifiuta di camminare per terra come fanno gli altri, ma al tempo stesso non è un misantropo bensì un uomo che si dedica continuamente agli altri, anche standosene distaccato. È un classico illuminista che partecipa ad ogni aspetto della vita attiva degli altri uomini. 2. Un altro legato alla figura dello scrittore-intellettuale Calvino che decide di valutare i fatti storici distanziandosi, come il barone decide di stare sugli alberi. Questa distanza non è una fuga, in quanto il barone non stabilisce di vivere in una proverbiale “torre d’avorio”, ma è una scelta che gli consente di partecipare meglio alla vita degli altri. È lo stesso principio, cambiata la metafora, che vedremo operante nel Visconte, che quando è dimezzato capisce le cose meglio di quand’è intero. Il Barone rampante si mette sull’alto degli alberi non per fuggire gli altri uomini ma per capirli da una distanza di sicurezza che consenta una vista più panoramica, più ampia e quindi più consapevole. Allo stesso modo, non sta con gli altri, in mezzo agli altri, e di questo è consapevole. Questo rispecchia, da una parte, una situazione storica: Calvino, fuor di metafora, davanti ai fatti d’Ungheria decide di uscire dal Partito Comunista, che è un po’ come dire “decide di andare sugli alberi”, non per disprezzo verso l’umanità ma per una volontà di capirla meglio. D’altra parte, assieme a questo vi è anche un’allegoria più ampia, che è anche la sorte de, vero scrittore e del vero intellettuale che, rispetto agli altri uomini, ha questa vocazione dell’esploratore, del rivoluzionario. Lo stesso poeta per definizione sta a distanza dagli altri uomini, non per fuggirli ma per capirli meglio, per criticarli, nel senso etimologico di “giudicarli” con occhio più limpido. Per mostrare questa specificità del Barone, Calvino inserisce nel testo anche un altro gruppo di persone, gli Spagnoli, che Cosimo incontra sugli alberi e che dunque vivono come lui, ma con una differenza sostanziale: quelli si sono rifugiati sugli alberi per ragioni contingenti, per salvare se stessi, per un sorta di obbligo imposto per la sopravvivenza, tant’è che quando il pericolo è passato questi Spagnoli ridiscendono a terra, riprendendo la vita che avevano sempre condotto. Il Barone, invece, decide volontariamente e consapevolmente di andare sugli alberi e di restarci per tutta la vita. Questa è la ragione di fondo, il significato che sta dietro l’allegoria del racconto. Tutto questo viene posto entro una cornice in cui emerge il fascino per il Settecento e per l’Illuminismo. Calvino opta per una scelta narrativa di tipo settecentesco, insita nella sua volontà tipicamente illuministica di combattere, di capire il mondo, che si intuisce anche nella preferenza per certi generi e modelli letterari tipicamente illuministici: per esempio Voltaire, il genere del racconto filosofico di cui è rappresentativo il “Candido”. Il “Candido” di Voltaire è un apologo che serve, a modo suo, per fare filosofia, per discutere con Leibniz, ma attraverso una forma elegante, leggera, narrativa. Questo filone settecentesco giunge sino allo stesso Leopardi. Non dobbiamo dimenticare che per esempio il Leopardi delle “Operette morali” non fa che adoperare un genere che aveva avuto fortuna ed era stato codificato nel ‘700. Nel Barone rampante c’è una situazione inverosimile che non si può realizzare nella realtà. Abbiamo un uomo che, non essendo obbligato a farlo, essendo libero, decide di trascorrere sugli alberi tutta la vita, di non toccare più terra, tant’è che poi morirà portato via da quello che è lo strumento tecnologico simbolo del ‘700, cioè la mongolfiera, che porta il nome desunto da quello del suo inventore settecentesco. Esso è lo strumento che fa volare l’uomo , che riesce a 3 realizzare l’archetipo onirico dell’uomo che vola, che vince la forza di gravità. C’è dunque questa situazione di fondo ugualmente inverosimile, sul modello del racconto filosofico settecentesco, ma nel caso del Barone rampante la vicenda viene comunque documentata storicamente, immersa nel tempo e non fuori di esso. In primo luogo, vi sono dei connotati culturali molto precisi; sono presenti delle determinazioni temporali esatte al limite della stessa giornata. Esordisce con un giorno ben preciso, a pag. 3: «Fu il 15 di giugno del 1767». Si tratta di una data epocale perché capovolge la vita di questo Cosimo Piovasco di Rondò, il barone che decide quel giorno di salire sugli alberi e di non ridiscenderne più. Ma assieme a questa data così precisa, che delinea un racconto fantastico inserito dentro il tempo, vi è l’indicazione di episodi culturali ben precisi: si citano gli autori vissuti in quel periodo, Diderot e gli Illuministi, l’Encyclopédie. Quindi ne deriva una sorta di pastiche storico che rende quest’opera più “romanzo” delle altre. Possiamo individuare tre elementi caratterizzanti quest’opera di Calvino: 1) Questo è sicuramente il testo più “ROMANZO” di tutti gli altri, in senso proprio, “romanzo storico”, se non fosse per la situazione inverosimile sottesa, e se non esistesse quel significato allegorico da cui siamo partiti e a cui Calvino mira come significato profondo. Calvino stesso dice di aver tratto alimento per la sua fantasia da amici che studiavano quel periodo storico. Dice esattamente: «le ricerche dei miei amici storici sugli Illuministi e giacobini italiani diventarono un prezioso stimolo per la fantasia». Questa è la spiegazione per così dire “genetica” di tutto Calvino: anche rispetto alla scienza, egli si muove in questo modo. Quello che per lui conta, essendo scrittore, è la fantasia, ma trae stimolo in quel caso da dibattiti, interventi e discussioni dei filosofi della scienza e di scienziati (le Cosmicomiche nascono così). Qui avviene la stessa cosa. Tra questi “amici storici” può esserci Franco Venturi, scomparso nel 1994, che ha scritto tanti volumi, pubblicando testi inediti o mai più ripubblicati del ‘700, per esempio nella collana dei classici Ricciardi, ma soprattutto – per quel che interessa Calvino – nelle edizioni Einaudi dove Calvino lavorava e dove Venturi ha scritto opere insuperate sul ‘700, soprattutto sul ‘700 intellettuale, sulla storia delle idee oltre che sulla storia civile e politica. 2) Vi è un repertorio di immagini settecentesche che viene suffragato dalle date, dalle correlazioni ad eventi storici avvenuti, da personaggi effettivamente vissuti, non tutti di fantasia. 3) Il terzo effetto di tutto questo è che questo testo di Calvino è più corposo, più cospicuo, più ricco, diventa veramente un libro a sé stante, che non può essere detto “romanzo storico” per le ragioni dette, ma sicuramente molto documentato, anche per l’attrazione che l’autore sente per il secolo dei Lumi, che gli consente di portare alla ribalta e di trattare personaggi eccentrici. Il fatto caratteristico è che tutti i personaggi del Barone rampante sono dei solitari, sono delle persone che vivono in solitudine: questo a riprova del fatto che non c’è una differenza sostanziale tra il barone che vive sugli alberi e gli altri che vivono sulla Terra. La differenza è una consapevolezza diversa: il barone sceglie volontariamente di stare sugli alberi, sa di essere isolato e questo gli procura delle lenti conoscitive che possono fargli vedere meglio la realtà. Gli altri invece che sono a terra presumono di essere in società mentre sono esseri isolatiu e per questa ragione vedono meno lontano del barone rampante. Si diceva che si tratta di una distanza che non significa una fuga. Se vogliamo trovare una conferma a livello di enunciato, di dichiarazione, dobbiamo andare a pag. 262 e leggere quello che il fratello Biagio, il narratore, o comunque la sua famiglia, lascia a ricordo del barone quando è morto. Questa stele dice: «Cosimo Piovasco di Rondò –Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo». Egli difatti letteralmente afferra il filo di una mongolfiera al momento della morte, per non dover scendere a terra. Quindi «Amò sempre la terra»: doppia valenza di un distacco che è, paradossalmente, una più profonda partecipazione, partecipazione che può essere un’allegoria della stessa funzione dello scrittore. Per dirla in modo più aulico: è l’ufficio stesso del poeta quello di stare su un piano critico che sia comunque diverso dalla 4 piatta realtà, dal piatto buon senso. Quindi si può leggere quest’opera anche come una riflessione della scelta stessa che ha operato Calvino a livello autobiografico di essere uno scrittore, con quello che comporta: distacco critico ed insieme volontà di incidere sulla realtà. Il Barone rampante è un libro pessimistico, non solo perché Cosimo muore – in questo caso è infatti un finale scontato del genere letterario qui ripreso dell’elogio, caro al ‘700, che torneremo ad esaminare -, ma per la considerazione finale, per le ultime righe, stante il periodo storico in cui quella morte avviene: essa coincide con l’avvento della Restaurazione. Dopo la Rivoluzione francese c’è un periodo di Restaurazione. È chiaro anche qui il riferimento al presente: dopo la Seconda guerra mondiale, dopo quei grandi ideali da parte di chi aveva combattuto la Resistenza, c’è la normalizzazione. Nel finale c’è anche un senso di labilità, della fragilità delle opere compiute: di tutto quello che il barone ha fatto in vita rimane soltanto il resoconto dell’umile e modesto fratello minore, rimane soltanto l’esilità, la fragilità della scrittura, che viene paragonata al filo dell’inchiostro così precario. Dice a pag. 262: «Ombrosa non c'è più». Quindi non solo scompare la persona ma anche le sue opere. «Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita». Rimane addirittura il dubbio se tutto questo che si è descritto sia davvero avvenuto. Naturalmente c'è qui il gioco ironico di Calvino che, avendo inventato la storia, avendola resa verosimile, gioca su questo fatto. «Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c'era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d'inchiostro». Dunque un finale problematico, non ottimistico, ma si è visto in questo pessimismo di fondo ka volontà di lasciare una traccia. Tutto questo viene opportunamente ambientato in un secolo come il '700, che da una parte è congeniale a Calvino: sono molte le documentazioni in questo senso della cultura e filosofia illuministiche, ma c'è anche la funzionalità del discorso. D'altra parte, questo racconto sembra storci ma è chiaramente un APOLOGO, trae il suo modello come genere dai racconti filosofici, per es. di Voltaire, dai racconti utopici di Casanova e altri uomini del '700. Così come è piuttosto legato alla narrazione del '700 quel mettere sulla scena un personaggio estremamente eccentrico, con l'avvertenza che quelli che sembrano integrati sono ugualmente solitari ed estraniati, anzi lo sono ancora di più perché non ne sono consapevoli. Qui c'è soltanto una persona che possiamo definire "normale": è il narratore, il fratello minore di Cosimo, che ha le caratteristiche che abbiamo già visto dei narratori della Trilogia. Questo Biagio, fratello minore di Cosimo, ne è anche l'antitesi ed è chiaro che qui il discorso va avanti su questo sistema binario che poi è fondato sul grande sistema dinamico alto-basso, aria-terra, barone che vive sugli alberi e dialettica con gli esseri umani terrestri. Il protagonista del romanzo è eccentrico e questo serve a trattare in modo leggero [abbiamo anche il «leggero passo di codibugnolo», p. 263)] la materia narrata. 5