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MATTEO
PICCIONI
LA FORTUNA
DEI PRERAFFAELLITI
IN ITALIA
DA COSTA A PREVIATI
La ricezione italiana del preraffaellismo rappresenta un momento chiave per la maturazione della
cultura simbolista e idealista dell’ultimo quarto del XIX secolo, nel momento in cui gli artisti più
sensibili cercano degli stimoli per poter superare il verismo e la decadenza dell’arte contemporanea.
Nell’Italia del secondo Ottocento, tuttavia, vige un’idea del movimento preraffaellita limitata alla sola conoscenza degli esiti dell’ultimo Rossetti e di Burne-Jones e delle molteplici sfaccettature della
cultura vittoriana. La sua diffusione in ambito italiano rimane peraltro circoscritta a particolari centri di interesse, legati in modo diretto o indiretto al mondo anglosassone, come Firenze e Roma, o,
come nel caso di Previati, ad artisti isolati che, a contatto con le teorie estetiche elaborate in Inghilterra, sviluppano una propria poetica.
Firenze ospita un gruppo di intellettuali anglo-americani che ha avuto contatti con i preraffaelliti:
tra essi si annoverano le scrittrici Vernon Lee e Mary Robinson1 e gli artisti Charles Fairfax Murray (cat. 33) e John Roddam Spencer Stanhope (cat. 93). A quest’ultimo sono collegate altre figure
del mondo artistico anglosassone, come sua nipote Evelin Pickering e suo marito William de Morgan, esponente dell’Arts and Crafts2.
È, dunque, negli anni ottanta dell’Ottocento che si diffonde il primo interesse nei confronti del movimento inglese, in principio esclusivamente legato alla letteratura e alla figura di Enrico Nencioni.
Questi, scrivendo articoli su Carlyle, Tennyson, Swinburne, Rossetti e Pater sulla Nuova Antologia e
sul romano Fanfulla della Domenica, è il primo ad offrire una panoramica lucidamente critica sul
mondo culturale inglese. A Roma dal 1879 al 1883, Nencioni entra in contatto con un milieu intellettuale in cui l’interesse per l’arte inglese ha già avuto una propria diffusione ad opera di Nino Costa.
L’attività artistica e propagandistica di Costa è volta alla definizione di un’arte nazionale moderna e
vitale, legata al contatto con la natura, ma che vada oltre lo scadimento nel genere e nell’aneddotico, per raggiungere, attraverso lo studio dei maestri del Quattrocento, una visione idealizzata e spirituale del reale3. Nello sviluppo della poetica del pittore romano è centrale il contatto diretto con
gli esponenti dell’arte inglese. Questo avviene in un primo momento a Roma con George Mason e
Frederic Leighton negli anni cinquanta del secolo, poi in Inghilterra nel decennio successivo, dove
personalità a lui vicine introducono il pittore al pensiero ruskiniano e all’arte preraffaellita, permettendogli di maturare un nuovo modo di interpretare la natura. Rispetto alle teorie di Ruskin, Costa
coglie e sviluppa in maniera personale alcuni aspetti consoni al contesto culturale italiano contemporaneo. Il recupero etico della pratica artistica in contrasto con la moderna società industrializzata e con il moderno sistema dell’arte, ad esempio, è letto in un’accezione nazionalistica che trascura le preoccupazioni religiose e sociali dell’autentico pensiero ruskiniano. Attraverso il teorico inglese sia Costa sia Angelo Conti – che parallelamente sviluppa un’idea di critica estetizzante basata anche sulla filosofia di Schopenhauer e sugli scritti di Walter Pater – arrivano a riscoprire l’arte
del Quattrocento italiano, cui si lega anche il recupero, in senso ideologico piuttosto che morale, della professionalità dell’artista e dell’antico mestiere tramandato nelle botteghe.
Riconoscendo alla contemporanea cultura anglosassone il vero moto innovatore a cui ispirarsi, i giovani artisti vedono in Costa il maestro spirituale da seguire. Alcuni aderiscono all’esperienza della
Scuola Etrusca, strettamente legata al mondo inglese, mentre altri creano un nuovo sodalizio, In Arte Libertas, eleggendo il pittore romano a proprio patrocinatore.
Nei tardi anni ottanta del secolo, ad ogni modo, il modello inglese e la rivalutazione del primo rinascimento si impongono come gusto dominante nel gruppo di artisti e letterati legati alla seconda Cronaca Bizantina (1885-1886), diretta da Gabriele D’Annunzio, e successivamente al Convito (18951896). Lo scrittore è tra i principali divulgatori delle esperienze estetiche inglesi e vi si avvicina in
un primo momento attratto da Lawrence Alma-Tadema – scoperto all’Esposizione Internazionale
di Roma del 1883 – e dalla sua pittura gemmea e tecnicamente impeccabile. L’anno successivo resta
affascinato, invece, da Dante Gabriel Rossetti conosciuto grazie all’articolo di Nencioni del 18844, il
primo in Italia che tenti di fare luce sulla poetica letteraria e pittorica dell’artista inglese.
Alla visione letteraria ed estetizzante del preraffaellismo proposta da D’Annunzio si collegano, inoltre, il rinnovato culto di Dante e dei poeti quattrocenteschi, la rivelazione dei poeti romantici inglesi e la riscoperta di Botticelli. È il contesto in cui nasce, nel 1886, anno della prima esposizione di In
Arte Libertas, l’editio picta della raccolta di poesie dannunziane Isaotta Guttadauro, ispirata al libro illustrato preraffaellita a cui collaborano, tra gli altri, alcuni dei più raffinati artisti della Roma
Bizantina, Alfredo Ricci, Giuseppe Cellini e Giulio Aristide Sartorio.
L’accostarsi degli artisti romani all’arte inglese contemporanea, tuttavia, incontra un duro attacco
della critica italiana. L’accusa a Costa di “preraffaellismo”, ad esempio, implicando una connotazione negativa del termine, vuole sottolineare l’aspetto elitario e pretenzioso della sua pittura matura271
Dall’Inghilterra
all’Italia: suggestioni
e rimandi
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ta a contatto col mondo anglosassone, nonostante nell’arte del pittore italiano non vi siano tracce di
ispirazione autenticamente preraffaellita. Questo elemento permette di capire come la critica italiana di quegli anni avesse una visione piuttosto generalizzante e imprecisa del movimento inglese, utilizzando il termine come sinonimo di ricercatezza e preziosismo, per indicare una pittura elegante
e accessibile a pochi, di generica derivazione anglosassone. Oltre a ciò, è ignorata quasi del tutto la
prima fase del preraffaellismo, legata alla confraternita e al naturalismo analitico ruskiniano, e
differente dalla seconda fase che confluirà nell’estetismo5.
In questo panorama emergono gli scritti di Sartorio dedicati al movimento inglese tra 1893 e il 1895.
Essi hanno il merito di essere il primo studio critico filologico italiano che cerchi di risolvere le
ambiguità e i fraintendimenti con il quale il Preraffaellismo viene recepito in Italia. Allo stesso tempo gli articoli del pittore romano danno un decisivo impulso critico verso l’arte inglese, ravvisabile
soprattutto nei primi numeri di Emporium, rivista ispirata all’inglese The Studio.
L’approccio di Sartorio all’arte preraffaellita è strettamente legato al suo rapporto di stima, amicizia
e collaborazione con D’Annunzio. Anche lui, come il poeta abruzzese, è affascinato in un primo momento da Alma-Tadema e realizza, tra il 1883 e il 1889, opere di gusto neopompeiano direttamente ispirate al pittore inglese; sempre attraverso D’Annunzio – come asserito da lui stesso in una
lettera inviata nel 1930 a Tommaso Sillani6 – conosce l’opera di Rossetti nel 1888. L’anno successivo, a Parigi, dove vince una medaglia all’Esposizione Universale con I Figli di Caino, il pittore vede per la prima volta alcune opere di Burne-Jones e ammira il King Cophetua and the Beggar Maid
(1884, Londra, Tate Britain)7.
Sartorio, tuttavia, riceve stimoli verso la cultura inglese anche dalle frequentazioni con i principali
salotti culturali della Roma fin de siècle 8, il più importante dei quali è quello del conte Giuseppe Gegè Primoli. Questi, infatti, commissionando all’artista il trittico delle Vergine Savie e Vergini Stolte
(cat. 95) lo spinge ad approfondire la cultura preraffaellita. Primoli, inoltre, è legato alla famiglia
Stillman, a Roma dal 1886, che a Londra ha avuto intensi contatti con i protagonisti del gruppo
inglese. William Stillman, corrispondente del “Times”, conosce direttamente Ruskin, Rossetti e Burne-Jones, di cui è stato anche modello. Sua moglie, Marie Spartali Stillman, ha studiato con Ford
Madox Brown e Burne-Jones ed è una pittrice di spicco dell’ambito preraffaellita. Ritratta da Rossetti per il Dante’s Dream (1871, Walker Art Gallery), è anche in contatto con Costa e la Scuola Etrusca, di cui la sua figliastra Lisa è esponente. Sartorio conosce bene la collezione di opere d’arte
contemporanea degli Stillman, che annovera dipinti e disegni di Burne-Jones, Rossetti, Richmond
e Murray. Inoltre, alcune delle opere di questa collezione – tra cui la Venere Epitalamia e l’acquarello Amore e Psiche di Burne-Jones – sono esposte nel 1890 alla mostra di In Arte Libertas. Proprio le
esposizioni del sodalizio simbolista romano sono le prime ad aprire la strada alla conoscenza diretta dell’arte internazionale a Roma, preannunciando un approccio che sarà proprio delle rassegne
biennali veneziane dal 1895. Alla prima esposizione internazionale di Venezia, il padiglione inglese ospita opere di Hughes, Millais, Burne-Jones, Leighton, Watts e pittori minori9. La limitazione
ad autori viventi, che propongono opere posteriori alla confraternita, e la conseguente mancanza di
lavori di Rossetti, tuttavia, non offrono un quadro poi così illuminante del preraffaellismo. Le mostre dell’In Arte Libertas, dunque, esponendo opere di Burne-Jones, Alma-Tadema, Leighton, Watts,
Sargent, Klinger, Corot, Daubigny, Hébert, Puvis de Chavannes, Moreau dai primi anni novanta dell’ottocento, rappresentano, non solo un precoce terreno di diffusione delle correnti artistiche internazionali, ma anche le sedi dove poter osservare dal vivo opere di Rossetti. Nel 1890 sono esposte alcune opere, anche se non di primo piano, del pittore inglese, tra cui uno studio per Dantis
Amor e uno per Sir Lancelot before the Shrine. Nel 1892, invece, compaiono due cartoni per i mosaici di Burne-Jones per la chiesa di St. Paul’s within the Walls in via Nazionale.
L’anno successivo Sartorio parte per Londra, incaricato di scrivere alcuni articoli sull’arte europea
per “La Nuova Rassegna”. È l’occasione per approfondire la conoscenza dell’arte preraffaellita e,
allo stesso tempo, scrivendo articoli su Turner e Constable nei quali elabora la sua personale visione del paesaggio, per tracciare una disamina storico artistica sullo sviluppo della moderna pittura
inglese.
Probabilmente per intercessione degli Stillman o di Murray, Sartorio riesce a recarsi a casa di Burne-Jones, dalla cui visita elabora l’articolo pubblicato nel settembre del 1893, sulla “Nuova Rassegna”. Nel suo contributo, il primo in Italia dedicato al pittore inglese, Sartorio analizza la poetica di
Burne-Jones sottolineandone il senso di soprannaturale bellezza, pacata plasticità, armonia e spiritualità dei personaggi; parla di alcune tempere del ciclo di Perseo (cat. 65-66), della tela Love and
the Pilgrim, di alcuni disegni per il ciclo del Romaunt of the Briar Rose (cat. 79) e di altri lavori, ri272
levando, altresì, le fonti stilistiche e letterarie della sua opera, dominata dall’essenzialità, dal linearismo derivato dai greci e dai primitivi italiani e da armonie interne di forme e colori10. Sartorio conclude il suo intervento sottolineando come il migliore insegnamento che gli inglesi contemporanei
possano dare ai colleghi italiani è quello di ispirarsi al passato. È un assunto in sintonia con la
poetica del pittore romano che, infatti, nelle sue opere contemporanee si rivolge al Quattrocento italiano, come dimostra il trittico delle Vergini Savie e delle Vergini Stolte. Contemporaneamente, ad
ogni modo, Sartorio assorbe alcuni stilemi della pittura burne-jonesiana, come alcune fisionomie, i
moduli allungati, le tonalità auree e i fondi grigi. Come si deduce dagli scritti successivi, l’artista appare, tuttavia, più interessato a Rossetti. Anticipato da un articolo apparso sempre sulla “Nuova Rassegna” nell’aprile 189411, in cui ha un primo dettagliato approccio nei confronti dell’arte preraffaellita, nel 1895 sul “Convito” Sartorio pubblica la serie di articoli Nota su D.G. Rossetti pittore. L’artista delinea un quadro sulle origini e sullo sviluppo del Preraffaellismo, focalizzando la propria
attenzione sulle due fasi del movimento: l’originaria Confraternita Preraffaellita, basata sui principi ruskiniani di aderenza alla realtà, e la fase più tarda, nata sotto la diretta influenza di Rossetti.
È uno studio estremamente intuitivo e chiaramente delineato sulle conoscenze di prima mano di opere di Rossetti e altri preraffaelliti, dedotte soprattutto nel viaggio in Inghilterra del 1894, dalle delucidazioni avute da Fairfax Murray e dalle più recenti pubblicazioni inglesi e francesi sull’argomento.
Dopo aver esaminato alcune delle più importanti opere di Rossetti, analizzandone le fonti letterarie
e stilistiche, nel VII paragrafo del suo articolo Sartorio, come già nell’articolo dedicato a Burne-Jones due anni prima, torna sulla necessità per l’arte italiana di meditare sull’esempio inglese – con
il quale peraltro condivide le fonti pittoriche – ideale per esprimere le tematiche simboliche e
idealiste contemporanee, invece di seguire altri modelli offerti, ad esempio, dall’arte francese. Per
Sartorio la questione è essenzialmente formale: secondo l’artista il problema nell’arte moderna è
l’inadeguatezza delle forme vaghe ed evanescenti per esprimere soggetti spirituali: “[…] quanto più
l’arte divien sottile ed ideale, tanto più la chiarezza dell’idea e la sincerità dell’immagine debbono
essere rigorosamente perspique [sic] e perfettamente nitide”12. L’errore per la “vaquità delle forme”
è legata anche a certa arte italiana quando parla della “stretta al cuore […] nell’ultima esposizione
di Milano alla vista dell’introduzione tentata in Italia del verminoso processo pittorico del pointillisme […]”13. Eppure è proprio nella cultura inglese, cui si rivolge nella ricerca di una pittura ideale
e metafisica, che Previati trova le fonti per maturare lo stile divisionista (cat. 106).
Nella sua indagine formale Sartorio indica come esempi da seguire tutti quegli “ingegni intellettualmente raffinati” – gli inglesi, ma non solo – che seguono le “idealità del nostro rinascimento nella
cui orbita stanno racchiuse le leggi e il senso dell’arte pittorica”, sottolineando che le loro opere “brillano di una luce così spiritualmente nostra che noi italiani dobbiamo veramente rammaricarci che
tal tesoro di luce non sia venuto da noi”14. Seguendo gli assunti teorici delineati nel suo articolo, il
pittore romano compone forse l’unico dipinto che racchiude in sé la spiritualità italiana del passato
letta in una chiave tutta moderna. Il Magnificat (cat. 96), che idealmente cita Botticelli, testimonia
nello stile la preferenza per l’ultimo Rossetti, per le sue fisionomie, per le sue tinte cremose, per la
sensualità e la matericità tutta veneziana emanate dalla sua opera.
Il culto della grande tradizione italiana, con particolare predilezione per il Quattrocento umbro-toscano, continua negli stessi anni ad essere perseguito da Costa, il quale, in compagnia di Leighton15,
ha la consuetudine di compiere viaggi di studio a Firenze, Siena, Mantova, Orvieto, Venezia. L’esempio del pittore romano è ripreso dai giovani allievi Napoleone Parisani e Adolfo De Carolis, i quali
programmano viaggi alla scoperta del Quattrocento in Umbria e in Toscana 16. Sempre su stimolo
e indicazione di Costa, De Carolis formerà la sua poetica sullo studio approfondito delle tecniche artistiche e decorative quattrocentesche17, apprese anche a diretto contatto con le opere del Pintoricchio dell’Appartamento Borgia in Vaticano tra il 1895 e il 189718, dalle quali trae alcuni spunti iconografici e stilistici per le sue opere (cat. 100-102). De Carolis, tuttavia, matura la predilezione per
la decorazione avvicinandosi ai precetti dell’Arts and Crafts, introdotti dal Museo Artistico Industriale su modello del South Kensington Museum londinese, nell’ultimo decennio del secolo. In questo quadro è centrale l’attività di Giacomo Boni, il cui rapporto di mediatore culturale tra Inghilterra e Italia è fondamentale per la diffusione del preraffaellismo19.
Boni, veneziano e a Roma dal 1888, è legato da stretta amicizia a Philip Webb – architetto londinese di Palace Green, residenza degli Howard – grazie al quale conosce Morris e Murray. È stato da
giovane copista per Ruskin, che conosce personalmente e di cui ha approfondito il pensiero. Il suo
ruolo di diffusore dei concetti dell’Arts and Crafts si concretizzano, facendo propri e rielaborando
gli insegnamenti di Ruskin e Morris, nella costruzione e decorazione della Villa Blanc, residenza del
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barone Alberto de Blanc, ministro degli Affari Esteri nel terzo governo Crispi, direttamente ispirata a modelli architettonici e decorativi inglesi20.
Nella costruzione l’elemento distintivo è la fusione di diversi materiali – travertino, cotto, ceramica,
ferro battuto, ghisa, vetro – in un insieme dal carattere spiccatamente decorativo, unico nel suo
genere. L’importanza del cantiere risiede, altresì, nell’essere la fucina di elaborazione e approfondimento di aspetti della cultura inglese alla base delle poetiche di alcuni dei principali artisti italiani
a cavallo del secolo, tra i quali spicca il giovane De Carolis21, che, anche attraverso le relazioni con
Boni, sviluppa la sua personale visione neoquattrocentesca.
1 G. Pieri, The influence
of Pre-Raphaelitism on Fin de siècle
Italy. Art, Beauty and Culture,
London 2007, pp. 32-40.
2 G. Gobbi Sica, Cultura
e mondanità internazionale
nella seconda metà del secolo XIX
in I giardini delle regine. Il mito
di Firenze nell’ambiente
preraffaellita e nella cultura
americana fra Ottocento e Novecento,
catalogo della mostra a cura
di M. Ciacci e G. Gobbi Sica
(Firenze, Galleria degli Uffizi),
Livorno 2004, pp. 76-79; E. Colle,
Artigianato artistico e industrie
a Firenze tra Ottocento e Novecento,
Ibidem, p. 112-139; G. Pieri,
Le arti in Inghilterra e le relazioni
artistiche anglo-italiane di fine
secolo, in Jessie Boswell, catalogo
della mostra a cura di I. Mulatero
(Torino, Sala Bolaffi), Torino 2009,
pp.117-125.
3 S. Frezzotti, L’ultimo Nino
Costa. Le battaglie per l’arte,
in Da Corot ai Macchiaioli al
Simbolismo. Nino Costa e il
paesaggio dell’anima, catalogo
della mostra a cura di F. Dini
e S. Frezzotti (Castiglioncello,
Castello Pasquini), Milano 2009,
pp. 47-61.
4 E. Nencioni, Le poesie e le pitture
di D.G. Rossetti, in “Fanfulla
della Domenica”, 17 febbraio 1884.
Cfr. anche S. Scotoni, D’Annunzio
e “La Peinture Anglaise”, un aspetto
274
della giovanile critica d’arte
del poeta, in “Artibus et Historiae”,
A. 1, n. 2, 1980, pp. 79-91.
5 Per una disamina generale della
critica preraffaellita in Italia a fine
secolo, cfr. B. Saletti, I preraffaelliti
nella critica d’arte in Italia tra
Ottocento e Novecento, in G. Oliva
(a cura di), I Rossetti tra Italia
e Inghilterra, atti del convegno
internazionale di studi (Vasto
23-24-25 settembre 1982), Roma
1984, pp. 427-436.
6 G. Aristide Sartorio all’autore
del libro, in T. Sillani, Francesco
Paolo Michetti, Milano-Roma
1932, p. 117.
7 G.A. Sartorio, Edward BurneJones, in “La Nuova Rassegna”,
3 settembre 1893, p. 306.
8 Per questo aspetto cfr.
S. Berresford, P. Nicholls, Sartorio
e il mondo artistico inglese,
in Giulio Aristide Sartorio
(1860-1932), catalogo della mostra
a cura di R. Miracco (Roma,
Chiostro del Bramante), Firenze
2006, pp. 105-107.
9 Il comitato organizzatore
per l’Inghilterra all’esposizione
veneziana è guidato da AlmaTadema, Burne-Jones, Leighton,
Millais e W.M. Rossetti, fratello
di D.G. Rossetti. I principali artisti
presenti e le opere esposte sono:
L. Alma-Tadema, Ritratto;
E. Burne-Jones, Sponsa de Libano;
A. Hughes, Viola d’Amore;
W. Holman Hunt, Mattina
di maggio sulla torre Maddalena,
F. Leighton, Perseo e Andromeda;
J.E. Millais, L’Ornitologo, L’ultima
rosa d’estate; W. Blake Richmond,
Bagno di Psiche; G.F. Watts,
Psiche, Endimione (cfr. cat. 88)
Fuggito; J.A. Whistler, Fanciulla
Bianca. Cfr. Prima Esposizione
Internazionale d’Arte della città
di Venezia. Catalogo illustrato,
Venezia 1895.
10 G.A. Sartorio, Edward BurneJones, cit., pp. 304-306.
11 G.A. Sartorio, Ancora sui
Preraffaelliti, in “La Nuova
Rassegna”, 29 aprile 1894,
pp. 526-528.
12 G.A. Sartorio, Nota su D.G.
Rossetti pittore, in “Il Convito”,
2-4, 1895, p. 285.
13 G.A. Sartorio, ibidem.
14 G.A. Sartorio, ibidem,
pp. 284-285.
15 N. Costa, Note su Lord Leighton,
in “Cornhill Magazine”, vol. II,
Londra, marzo 1897, pubblicato
in Da Corot ai Macchiaioli
al Simbolismo cit., p. 314.
16 Cfr. Lettera di De Carolis a
Parisani del 29 agosto 1897, Fondo
Adolfo De Carolis, Archivio della
Galleria Nazionale d’Arte Moderna,
Roma, pubblicato in, A. Lenzi,
Adolfo De Carolis e il suo mondo
(1892-1928). L’arte e la cultura
attraverso i carteggi De Carolis,
D’Annunzio, Maraini, Ojetti,
Anghiari 1999. pp. 64-65. Cfr.
anche G. Piantoni, “Modernità”
della pittura di paesaggio a Roma
fra Ottocento e Novecento, in La
poesia del vero. La pittura di
paesaggio a Roma fra Ottocento e
Novecento, da Costa a Parisani,
catalogo della mostra a cura
di G. Piantoni (Macerata, Palazzo
Ricci e Camerino, Convento
di S. Domenico), Roma 2001, p. 18.
& Crafts e la formazione a Villa
Blanc, cfr. i saggi di T. Maffei e
A.A. Amadio in Vivere con l’arte,
vivere per l’arte. Adolfo De Carolis
e la democrazia del bello, catalogo
della mostra a cura di T. Maffei
(Montefiore dell’Aso, Polo Museale
San Francesco), Ascoli Piceno
2009.
17 Cfr. M. Piccioni, Adolfo
De Carolis e il ’400 italiano,
in “Caffè Michelangiolo”, A. 14,
n. 3, settembre-dicembre 2009
(2010), pp. 50-52.
18 De Carolis collabora con
Alessandro Morani ai lavori nella
Sala del Credo in occasione del
restauro dell’Appartamento Borgia
voluto da Leone XIII. Cfr. A. Lenzi,
Adolfo De Carolis e il suo mondo
(1892-1928), cit. pp. 13-14.
19 G. Pieri, The Influence… cit.,
pp. 21-32.
20 Per Villa Blanc cfr. G. Piantoni,
La decorazione dell’eclettismo:
gusto borghese e aristocratico
nell’abitazione a Roma tra Ottocento
e Novecento, in A. Campitelli
(a cura di), Ville e Giardini fra
Ottocento e Novecento, Roma 1996,
p. 109; A. Lenzi, Adolfo De Carolis
e il suo mondo (1892-1928), cit.,
pp. 20-29; A. Campitelli, Villa
Blanc, in S. Frezzotti, P. Rosazza
Ferraris (a cura di), Scritti in onore
di Gianna Piantoni. Testimonianze
e contributi, Roma 2007,
pp. 263-272.
21 De Carolis lavora sotto la guida
di Morani che si occupa del
progetto dell’apparato decorativo
della villa. Per l’arte decorativa di
De Carolis, il rapporto con l’Arts
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Nino Costa
Roma 1826 - Marina di Pisa 1903
94. To be or not to be. Who loves
not is not (Essere o non essere)
1890 c.
olio su tela
cm 51 x 52
nel verso, scritta non autografa: “Giorgia
Guerrazzi Costa/ Proprietà Guerrazzi /
giovane inglese dipinta da Nino Costa
romano”
sulla cornice, in basso al centro:
“To be o[...] to be/ Who love [...] is not”
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
Provenienza: Helietta Guerrazzi
Caracciolo, 1984
Esposizioni: Roma 1904, p. 89 n. 446
(Essere o non essere); Roma 1921, n. 44
(Essere o non essere); Pisa 1956 n. 33
(To be or not to be, dat. 1889);
Castiglioncello 2009, n. 87
Bibliografia: Maltese 1960, p. 248
(La lettrice); S. Berresford, Giovanni Costa
ed i suoi rapporti artistici con l’Inghilterra,
in Milano 1982, pp. 17-18; Marabottini
1990, p. 34; G. Piantoni, “Modernità”
della pittura di paesaggio a Roma fra
Ottocento e Novecento da Costa a Parisani,
in Macerata-Camerino 2001, p. 10; S. Frezzotti,
in GNAM 2006, p. 333; S. Frezzotti,
Castiglioncello 2009, p. 276
Nino Costa è stato senza dubbio l’artista
italiano che, già nei primi anni sessanta
dell’Ottocento, aveva avuto una conoscenza
diretta dell’arte contemporanea inglese,
anticipandone in Italia le tendenze e le
idee. Attraverso la sua fraterna e duratura
amicizia con Frederic Leighton, Costa aveva
potuto essere al corrente, sia pure in
maniera generica, delle idee di Ruskin, in
particolare relativamente al concetto di
fedeltà al ‘Vero’ di natura. Altrettanto
feconda e duratura era stata l’amicizia con
George Howard, IX Lord Carlisle. Presso le
residenze dell’amico inglese, di cui era
spesso ospite, Costa aveva potuto ammirare
la splendida collezione di opere di Watts,
Leighton, Rossetti, William Morris, nonché
di Burne-Jones, al quale George Howard
aveva affidato la decorazione di Palace
Green con la celebre serie di Amore e Psiche
(cfr. A. Brisby, George Howard e Nino
Costa: una nobile amicizia, in
Castiglioncello 2009, pp. 75-81).
Nonostante le relazioni con i protagonisti
dell’arte inglese (Howard e Burne-Jones
erano stati, tra l’altro, promotori nel 1894 di
una mostra di Costa a Londra presso
Agnew per sostenere finanziariamente
l’amico, né si deve dimenticare che Olivia
Rossetti Agresti, prima biografa di Costa,
era nipote di Dante Gabriel Rossetti e di
Ford Madox Brown), tuttavia il pittore
romano non aveva mai totalmente aderito
alle poetiche preraffaellite perché il suo
interesse era quasi esclusivamente
indirizzato verso la pittura di paesaggio
come principale e quasi esclusivo veicolo di
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interpretazione di uno stato d’animo. La
sua consonanza con la cultura inglese
contribuì però ad orientare, negli ultimi
decenni del secolo, la riscoperta dei maestri
italiani del Tre e Quattrocento come fonte
di ispirazione per l’arte presente e
fondamento dell’identità culturale italiana
(S. Frezzotti, L’ultimo Nino Costa. Le
battaglie per l’arte, in Castiglioncello 2009,
pp. 55-60).
A questa fase tarda dell’attività di Nino
Costa, riconducibile al periodo di massima
apertura a Roma verso un estetismo di
origine ‘preraffaellita’ attraverso le mostre
di “In Arte Libertas”, è attribuibile questo
dipinto, esposto per prima volta alla
retrospettiva del 1904 con il titolo Essere o
non essere. Nella figura classicamente
ammantata che, nella ristretta
ambientazione da hortus conclusus, guarda
fuori dallo spazio del quadro, assorta nella
contemplazione, confluiscono molteplici
esperienze: uno spiritualismo di
ascendenza francescana che aveva
suggestionato Costa nel decennio 1880-90
circa, quando in compagnia di Leighton e
Richmond soggiornava ripetutamente in
Umbria e in Toscana; riferimenti visivi ai
‘primitivi italiani’, in particolare alla solida
volumetria e semplicità espressiva di Giotto
e del Masaccio del Carmine.
Seguendo la moda preraffaellita di fine
secolo nel gusto per il preziosismo colto, la
cornice originale reca la frammentaria
iscrizione da cui il dipinto trae uno dei titoli
con il quale è comparso in bibliografia:
To be or not to be. Who love (s not) is not,
gioco di parole volutamente oscuro ed
evocativo che intende alludere allo stesso
tempo a Shakespeare e al Platone del
dialogo “Liside”, per suggerire che solo
l’amore (chi non ama non è) dà fondamento
all’esistenza (all’amicizia, all’amore per il
vero ecc.). La cornice intagliata è stata
attribuita ad Alessandro Morani (cfr. Lenzi
1999, p. 17, ripr. n. 13) per l’affinità stilistica
con i motivi decorativi ispirati agli affreschi
di Pintoricchio negli Appartamenti Borgia
in Vaticano che lo stesso Morani aveva
avuto l’incarico di restaurare insieme ad
Adolfo De Carolis fra il 1895 e il 1897. [SF]
Giulio Aristide Sartorio
Roma 1860-1932
95. Le Vergini Savie e le Vergini Stolte
1890-93
trittico, olio su tavola
cm 188 x 205
Galleria Comunale d’Arte Moderna, Roma
Provenienza: Acquistato nel 1939 presso
Augusto Jandolo
Esposizioni: Venezia 1899; Roma-Parigi
2000-2001, n. 16; Roma 2006
Bibliografia: Cipriani 1978, fig. n. 8; Roma
1980 p. 30; A.M. Damigella, Sartorio
e la pittura decorativa simbolica, in Roma
1989, pp. ; M. Rinaldi in Galleria Comunale
276
d’Arte Moderna 1994, pp. 416-419, fig. 107;
G. Piantoni in Roma-Parigi 2000-2001,
pp. 112-113; E. De Luca in Galleria Comunale
d’Arte Moderna 2004, pp. 470-471;
S. Panei in Roma 2006, pp. 176-177;
Pieri 2007, pp. 64, 106, 153, 155-156
Il trittico è commissionato a Sartorio nel
1890 dal conte Giuseppe Primoli –
conosciuto l’anno prima attraverso
D’Annunzio, Michetti e Matilde Serao –
come dono di nozze per il suo matrimonio,
poi non più celebrato. Secondo la volontà di
Primoli, l’opera dovrebbe essere una
trasposizione in chiave moderna
dell’omonima parabola evangelica (Mt.
25,1-13), che proponga un’immagine
idealizzata della donna custode dei valori
familiari, tematica già affrontata da
Giuseppe Cellini nella Galleria Sciarra a
Roma.
Il tema permette a Sartorio di rivolgersi
verso modelli preraffaelliti – superando
l’interesse per i quadroni da Salon che lo
avevano portato a vincere una medaglia
d’oro l’anno precedente – dei quali, a quel
tempo, egli ha ancora solo una vaga
conoscenza fondata su fonti indirette e
sull’osservazione di alcune opere minori,
esposte all’ “In Arte Libertas” o della
collezione Stillman. Al contrario, conosce
molto bene la pittura del Quattrocento
italiano che, assieme allo studio dal vero
delle modelle e della vegetazione,
costituisce l’elemento fondante del dipinto.
Allo scopo di far approfondire a Sartorio i
modelli a cui ispirarsi per il dipinto, Primoli
finanzia al giovane pittore un viaggio di
studio a Venezia nell’agosto del 1890, che lo
porta a visitare anche Firenze, Bologna,
Padova e Verona. Gli esiti di questa
missione sono evidenti soprattutto nella
parte centrale del trittico dove gli angeli,
con aureole realizzate in stucco dorato,
sono direttamente ispirate a Pisanello,
mentre e la Janua Coeli richiama le Porte
del Paradiso del Ghiberti del Battistero
fiorentino, simbolicamente allusive alla
sfera celeste, alla quale si contrappone,
negli scomparti laterali, il mondo volubile e
terreno.
Per le figure delle vergini, abbigliate
secondo un gusto vagamente
quattrocentesco, posano le illustri dame
dell’aristocrazia del tempo: la principessa
Odescalchi, la marchesa Theodoli, la
principessa di Venosa, Lisa Stillman, di cui
Sartorio è invaghito, e Maria D’Hardouin di
Gallese, moglie di D’Annunzio. Di
quest’ultima alla Galleria Nazionale d’Arte
Moderna di Roma è conservato un ritratto,
servito da studio per l’opera, la cui figura
ritorna in altri celebri dipinti di Sartorio.
Per lo studio delle pose, inoltre, l’artista si è
servito anche di fotografie ispirate ai
tableaux vivants realizzati da Primoli e
dalla sua cerchia.
La scelta di ritrarre fanciulle appartenenti
al proprio circolo, figlie di amici o di noti
esponenti dell’alta società, trova un
precedente nella Scala d’Oro di BurneJones (1876-1880, Londra, Tate), opera a
94
cui è connessa anche la tematica delle
nozze, poiché uno dei titoli previsti dal
pittore inglese era Il matrimonio del re.
Questo aspetto testimonia un precoce
interesse di Sartorio nei confronti di BurneJones , forse per influenze di Primoli e del
suo milieu culturale.
Il trittico è un’opera di transizione nella
carriera di Sartorio. Essa documenta il
primo concreto interesse nei confronti del
preraffaellismo e, allo stesso tempo, il
compromesso tra vero naturale e idealità
che interpretava bene le teorie estetiche
degli amici letterati. Tuttavia, nell’opera si
ritrovano elementi ancora legati al periodo
“bizantino”, come il decorativismo ispirato
ai marmi cosmateschi, il misticismo e l’uso
del colore in chiave simbolica. Parallelamente
è evidente la nuova attenzione alla pittura
di paesaggio – che in quegli anni l’artista
andava scoprendo sotto l’influenza
dell’amico Michetti – nella realizzazione
degli alberi che fanno da sfondo ai pannelli
laterali, scelti anche per il loro significato
simbolico: gli ulivi, piante utili all’uomo, e i
pini, alberi che non hanno frutti, quindi
semplicemente decorativi. [MP]
Giulio Aristide Sartorio
Roma 1860-1932
96. Madonna degli Angeli (Magnificat)
1895
olio su tela
diametro cm 123
sotto la lastra dell’altare: “G. A. Sartorio Roma”
Collezione privata
Esibizioni: Venezia 1895; Gardone Riviera
1988, n. 21; Roma 2001; Roma 2006
Bibliografia: Mimita Lamberti 1982,
pp. 104-105; S. Fugazza in Gardone Riviera
1988 p. 105; S. Panei in Roma 2006 p. 174
Esposta a Venezia nel 1895, riscuotendo
un forte consenso e notevole successo,
l’opera richiama su di sé l’attenzione
della critica che nota in prima battuta
il debito nei confronti dei maestri
quattrocenteschi.
È innegabile il rapporto del dipinto con
prototipi botticelliani, peraltro sottolineati
da Sartorio stesso chiamando il tondo
Magnificat, esplicita allusione all’omonimo
dipinto di Botticelli degli Uffizi, come
documentato da una lettera scritta
dall’antiquario Augusto Jandolo
all’acquirente dell’opera nel 1936 (Roma,
Archivio privato). La lettera, inoltre, è una
fonte utile perché indica come nei
personaggi sia possibile identificare Maria
277
Il mito_05_IMP cat.sez. IV
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Pagina 278
95
96
97
d’Hardouin, moglie di Gabriele D’Annunzio
e modella prediletta da Sartorio nel ruolo
della Vergine, e il loro figlio Gabriellino in
quello di Gesù Bambino.
Il dipinto è stato elaborato in seguito al
viaggio in Inghilterra del 1894, in cui
l’artista ha studiato approfonditamente
opere dei preraffaelliti, in particolare di
Rossetti, ricavandone materiale per i suoi
articoli pubblicati nel “Convito” nello stesso
anno della realizzazione dell’opera.
Sartorio rielabora un soggetto dipinto nel
1888 (Roma 2006, p. 175), ancora nell’orbita
del preziosismo “bizantino”, secondo la
diretta influenza rossettiana evidente non
solo nelle fisionomie della Vergine, ma
anche nella stesura pittorica affine all’ultima
fase del pittore inglese.
L’attenzione alle decorazioni cosmatesche
legano il dipinto alle opere precedenti,
indicando che il medioevo romano
è ancora una importante e vitale fonte
d’ispirazione. [MP]
Giulio Aristide Sartorio
Roma 1860-1932
97. Dante e Beatrice
1896
olio su tela su cartone
cm 50 x 73
in basso a sinistra: “G. A. Sartorio
- F 1896”
Archivio Sartorio
Esposizioni: Gardone Riviera 1988, n. 22;
Roma 2001; Roma 2006
Bibliografia: S. Fugazza in Gardone Riviera
1988, p. 106; S. Panei in Roma 2006
Sartorio torna sul tema derivato dalla Vita
Nova dantesca dieci anni dopo averlo
affrontato nelle illustrazioni dell’Isaotta
Guttadauro e nel ventaglio commissionato
da Villegas, descritto da D’Annunzio in un
278
articolo dedicato al pittore romano sulla
Tribuna dell’11 novembre 1886.
In quell’occasione Sartorio raffigura
Beatrice che appare, avvolta da una luce
celestiale, a Dante intento a scrivere.
L’opera è realizzata con uno stile
assimilabile al preziosismo “bizantino” degli
anni 1880, senza alcun riferimento formale
a modelli inglesi che sono ancora, a quel
tempo, filtrati dalla lettura dannunziana.
Nel presente dipinto, che raffigura
l’incontro di Dante e Beatrice, sono
riconoscibili le figure ricorrenti nelle opere
contemporanee o successive al trittico delle
Vergini Savie e delle Vergini Stolte (cat. 95),
nonostante siano nulla più che delle
immagini evanescenti, mentre per Beatrice
è riutilizzata una figura già rappresentata
ne L’Addio o Mentre suonava il violino
(cfr. A.M. Damigella in Roma 1989, p. 54).
L’opera è uno degli ultimi soggetti ispirati
al preraffaellismo prima della partenza del
pittore per la Germania, dove è chiamato –
su invito del Granduca Carlo Alessandro di
279
Il mito_05_IMP cat.sez. IV
3-02-2011
Sassonia-Weimar, conosciuto a Roma presso
lo scrittore Voss – come professore di
pittura all’Accademia di Weimar, in cui
hanno insegnato, tra gli altri, anche Böcklin
e Lenbach. In Germania si lascia sedurre
dall’arte delle Secessioni e dalla lettura di
Nietzsche, che lo portano alla maturazione
del neomichelangiolismo idealizzante con
cui conduce a termine il dittico della Diana
d’Efeso e La Gorgone e gli eroi (Roma,
Galleria Nazionale d’Arte Moderna) esposta
alla Biennale di Venezia nel 1899. [MP]
Giulio Aristide Sartorio
Roma 1860-1932
98. Studio per la Testa della Gorgone
1895
pastello
mm 475x650 (foglio) 570x740 (cartone)
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
Provenienza: dono dell’artista,1899
Esposizioni: Venezia 1895, n. 302; Roma
1933, n. 56; Roma 1980, n. 7; Gardone
Riviera 1988, n. 25; Roma 1989, n. 17;
Roma-Parigi 2000-2001; Roma 2006;
Roma 2007, n. 38
Bibliografia: Paoletti 1899, p. 707; Munoz
1909, p. 25 ill.; Trompeo 1932, p. 821;
Roma 1933, p. 50, tav. XXV; Bellonzi 1961,
p. 126 ill.; Bellonzi 1961a, tav. XCVIII;
Bellonzi 1963, p. 34, ill. n. 29, tav. XX;
Cipriani 1978, n. 14 ill.; Roma 1980, ill. in
copertina, tav. p. 29, p. 56, n. 7; S. Fugazza
in Gardone Riviera 1988, p. 109; Roma
1989, p. 84 ill. p. 90; G. Piantoni in RomaParigi 2000-2001, p. 122 ill.; R. Camerlingo
in Roma 2006, pp. 190-191 ill.; Roma 2007,
p. 50, tav. 38
Il pastello raffigurante la testa della
Gorgone fu donato alla Galleria Nazionale
d’Arte Moderna da Sartori, assieme ad altri
studi, subito dopo l’acquisto da parte dello
Stato del monumentale dittico La Gorgone
e gli eroi e Diana d’Efeso e gli schiavi,
esposto alla terza Biennale di Venezia del
1899, dove riscosse un notevole successo, e
grande ammirazione suscitò proprio la
figura della Gorgone.
Lo studio della testa alata era forse già stato
eseguito nel 1895 (identificabile con lo
Studio di testa esposto alla prima Biennale
di Venezia), e successivamente incollato su
un foglio più largo, probabilmente per
apportare alcune modifiche. In un primo
momento infatti “Sartorio deve aver
disegnato la testa senza i serpenti come essa
appare, palese citazione della Notte
michelangiolesca, nella figura femminile
esposta a Venezia nel 1899 come studio
intero della Gorgone […] Al momento di
dover precisare l’identità della Gorgone
come Medusa anguicrinita, Sartorio ricorre
all’aggiunta dei serpenti alla testa
femminile già ideata e, per poter trovare
spazio sufficiente allo snodarsi lento del
17:12
Pagina 280
rettile al sommo del capo, ingrandisce il suo
campo pittorico, incollando il foglio del
pastello a un più largo supporto di cartone”
(B. Mantura, in Roma 1989, p. 84).
Del clima artistico e culturale degli anni
delle prime Biennali di Venezia il pastello,
nel quale Sartorio appare abile e delicato
disegnatore, è una evidente testimonianza,
laddove “suggestioni di Moreau […] si
fondono con il michelangiolismo e
l’estetismo del tardo preraffaelismo”
(A.M. Damigella, in Roma 1989, p. 7) e “il
nudo della Gorgone […] deriva nella posa
[…] dalla ninfa casalinga del Costa nel
faticoso dipinto Alla Fonte del 1863.
L’atteggiamento è il medesimo, e anche
l’immensa chioma è la stessa di origine
rossettiana. Ma il risultato è diversissimo:
quello di Costa rimane una modella
innocente [...] Del primitivismo, della
piacevole ingenuità costiana, non c’è traccia
nella Gorgone, che è l’immagine di una
femminilità incantatrice, carica di una
potenza arcana e pericolosa. Il suo volto
(se ne veda specialmente lo studio a
pastello, di un ductus agile, d’un fremito
autentico, di una diafana spiritualità)
assomiglia a quello della Notte di
Michelangelo; il suo corpo è un Botticelli
rifatto su natura; la sua chioma appartiene
alle più fascinose bellezze muliebri di Dante
G. Rossetti; la sua estrema finezza di
esecuzione non trova esempi
contemporanei all’infuori del Burne-Jones
o del Moreau, del Boecklin e del Klinger”
(Bellonzi 1961a, pp. 647-657).
Come accade sovente nella produzione
degli artisti del XIX secolo, sembra che i
disegni e gli studi superino per
immediatezza le opere alle quali sono
destinati; così anche i pastelli preparatori
della Gorgone rivelano “maggiore
leggerezza rispetto l’esito finale” nella testa
in particolare, dove “i capelli attorti di serpi
della diafana creatura non si allargano
ancora, come un quadro, a formare un’aida
rossettiana” (Fugazza 1988, p. 109). [RC]
Giulio Aristide Sartorio
Roma 1860-1932
99. Circe
1893-1903
olio su tela
cm 100 x 108
In basso a sinistra: “G. A. Sartorio”
Collezione privata, Spoleto
Esposizioni: Roma 1980 n. 5; Roma 1996
n. 60; Alessandria 2005 n. 7; Roma 2006
Bibliografia: T. Sacchi Lodispoto in Roma
1996, pp. 163-164. S. Panei in Roma 2006,
p. 197
La maga Circe in atto di offrire al guerriero,
verosimilmente Odisseo, una coppa con il
filtro che lo tramuterà in animale è uno
degli esempi di femme fatale più riprodotti,
280
tema ricorrente nella cultura decadente di
fine secolo; completano la scena, sulla
sinistra, un’ampolla che contiene il filtro, un
leone simbolo di potenza e un serpente
simbolo di tentazione.
La datazione al 1893 proposta da Sapori nel
1919, ipoteticamente accettabile sia per il
soggetto della donna fatale ricorrente in
opere coeve (La Sirena, L’Impassibile o
Una Gorgone, Stige, La Diana d’Efeso), sia
per l’assimilazione di modelli inglesi (il
volto del giovane in armatura ha delle forti
affinità con alcune teste di Burne-Jones), è
stata posta in discussione suggerendo
un’esecuzione prossima al 1903 (T. Sacchi
Lodispoto in Roma 1996). Burne-Jones, del
resto, ha eseguito un dipinto di analogo
soggetto – il Vino di Circe (collezione
privata) – ma risolto in maniera del tutto
diversa poiché presenta la maga mentre
scioglie una soluzione in un’anfora. Le
relazioni, dunque, consistono
semplicemente nel fatto di rientrare nello
stesso clima culturale. Il motivo dello
spostamento in avanti della datazione è
strettamente stilistico: la struttura
compositiva con lo sfondo circolare, quasi
monocroma, la pittura spessa e materica
trovano affinità con i grandi cicli decorativi
eseguiti a partire dal 1903. Non è escluso
che in quel periodo Sartorio utilizzasse
ancora modelli figurativi degli anni novanta,
in quanto la figura femminile è vicina a
quelle diafane e filiformi dipinte nel corso
del decennio precedente, come evidente
in Dante e Beatrice (cat. 97). [MP]
98
99
Adolfo De Carolis
Montefiore dell’Aso 1874 - Roma 1928
100. Danielle, cartone per il piatto
del camino dello studio della villa
Costantini Brancadoro di San Benedetto
del Tronto
1898
tecnica mista su cartone
diam. cm 45
Collezione privata
Provenienza: Roma, Galleria San Bernardo
Bibliografia: Di Pino Giambi 1992,
pp. 43-44, 60; Lenzi 1999, pp. 38, 87,
tav. XXI.1-2
Durante i lavori di decorazione di Villa
Blanc, De Carolis ha modo di approfondire
da vicino le tecniche decorative artigianali
già studiate negli anni della frequentazione
del Museo Artistico Industriale, a partire
dal 1892. Nella residenza del ministro è
chiamato a realizzare alcune decorazioni in
ceramica, che sono state riconosciute in
alcuni capitelli, nelle metope del giardino
d’inverno, nelle imposte degli archi e nelle
lesene della loggetta delle cariatidi.
Fondamentale per lo sviluppo della carriera
dell’artista marchigiano come decoratore
ispirato ai prototipi rinascimentali è il
281
Il mito_05_IMP cat.sez. IV
3-02-2011
viaggio a Firenze, voluto da Giacomo Boni
nel 1895-96, per acquisire i segreti e le
tecniche della ceramica invetriata, riportata
in auge da alcuni artigiani inglesi legati
all’Arts and Crafts, capitanati da William
De Morgan. Durante il soggiorno il pittore
riceve fortissima impressione dalle opere
robbiane, che lo portano alla stesura, nel
1896, del saggio, rimasto inedito, Luca
della Robbia e le terrecotte invetriate
(pubblicato in Dania-Valentini 1975).
In seguito al licenziamento dal cantiere
della Villa Blanc, De Carolis ottiene, nel
settembre del 1897, la commissione per la
decorazione della Villa Costantini
Brancadoro a San Benedetto del Tronto
(cfr. Amadio 2003). Si tratta del suo primo
incarico autonomo, in cui ha modo di
sintetizzare e di rielaborare quanto appreso
durante gli anni della formazione, ovvero le
suggestioni di Pintoricchio nelle Sale
Borgia in Vaticano e l’esperienza decorativa
di Villa Blanc sotto la guida di Boni: da una
parte il vocabolario figurativo basato
sull’interpretazione di stilemi preraffaelliti
e quattrocenteschi per le decorazioni
pittoriche, dall’altro l’arte decorativa e
industriale derivata dall’Arts and Crafts.
Nella villa marchigiana, infatti, nel 1898
ripropone la maiolica come arredo
architettonico, inserendo ottantasei piccole
mattonelle ad ornamento del camino del
conte Brancadoro e disegnando il piatto,
murato sulla cappa (lettera del conte
Ignazio Costantini Brancadoro del 9 luglio
1898, Fondo Adolfo De Carolis, Archivio
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma,
pubblicata in Lenzi 1999, p. 38), raffigurante
una figura femminile di ascendenza
rinascimentale, di cui il presente cartone è
il disegno preparatorio. Esiste un bozzetto
identico per un secondo piatto, forse un
pendant, dal titolo Eleonora, ispirato a
modelli tizianeschi e botticelliani. [MP]
Adolfo De Carolis
Montefiore dell’Aso 1874 - Roma 1928
101. Studio per La donna alla fontana
1898 ca.
matita e inchiostro su carta
cm 110 x 80
Collezione privata
Esposizioni: Roma 2001
Bibliografia: F. Benzi, Introduzione
in Roma 2001, rip. p. 21
De Carolis elabora la prima versione delle
Castalidi e La donna alla fontana (già
Collezione Massarenti, Bologna) negli anni
in cui è impegnato nella decorazione della
Villa Brancadoro.
Nella realizzazione di certi suoi dipinti, il
pittore trasporta su tela alcuni soggetti
realizzati nelle lunette della sala da pranzo
della villa. In una di esse, infatti, compare
una figura femminile che assume la stessa
17:12
Pagina 282
posa, col braccio piegato alla vita, della
Donna alla fontana, mentre in un’altra
lunetta è rappresentata la stessa fontana
che compare nel dipinto (Amadio 2003,
p. 2). Come nelle lunette della villa
Brancadoro, inoltre, nella tela la tematica è
quella dell’acqua – letta simbolicamente
come fonte rigeneratrice e purificante –
derivata dal testo attribuito a Dino
Compagni, L’intelligenza, forse conosciuto
attraverso Giacomo Boni. L’importanza del
soggetto è sottolineata dall’iscrizione sulla
cornice: “FONS HORTORUM PUTEU
AQUARUM VIVENTIUM”.
Il disegno qui esposto rappresenta uno
studio, dove il motivo decorativo della
gonna è messo in risalto attraverso l’uso
dell’inchiostro blu.
Il dipinto, terminato nel 1898, è esposto
alla Biennale di Venezia nel 1899 ed è
gradito alla critica soprattutto per la sue
qualità decorative e ornamentali, che ne
rappresentano l’elemento più affascinante,
evidenti nella superficie dell’abito che
sembra punzonata, per l’uso della foglia
d’oro e per i lavori in pastiglia nella coppa e
nei sandali. Questi dettagli evidenziano
l’attenzione di De Carolis nel ricreare gli
effetti decorativi dell’arte del Quattrocento,
riproposta dal pittore anche nel ricco
drappo tenuto dagli angeli in Laudata sii
per la bella luce che desti in terra del 1899
(Piccioni 2009 [2010]).
La critica del tempo, inoltre, punta
l’accento sulla derivazione preraffaellita del
dipinto. La figura femminile assorta nei
propri pensieri, fuori dal tempo e di una
bellezza androgina è, infatti, un ritratto
idealizzato della fidanzata del pittore, Lina,
musa ispiratrice di quasi tutte le sue opere
giovanili, che viene sublimata riprendendo
certamente modelli inglesi, da Burne-Jones
a Crane, pur filtrati attraverso lo studio di
Botticelli. Nella genesi dell’opera, tuttavia,
altri sono gli elementi che concorrono alla
formazione dello stile dell’artista
marchigiano nel suo periodo romano,
recentemente messi in luce da alcuni studi
(Lenzi 1999, pp. 15-16). Per l’iconografia
generale dell’opera, come delle lunette della
Villa Brancadoro, è Pintoricchio la fonte
principale. Tra il 1895 e il 1897, quando
De Carolis collabora con Morani al restauro
della V sala dell’appartamento Borgia
decorata dal pittore umbro, ha l’opportunità
unica di poter entrare in contatto con un
repertorio stimolante di immagini, simboli
e decorazioni. Tra essi, la lunetta con
Susanna e i Vecchioni sembra essere lo
spunto ideale per il soggetto del dipinto, poi
elaborato dal vero anche nei giardini di
Villa d’Este a Tivoli. In una lettera a
Parisani, De Carolis, inoltre, sottolinea
l’impressione ricevuta dall’incarico in
Vaticano e la volontà di muoversi verso la
riscoperta del Quattrocento (“Faremo
lavorare molto le sale Borgia”, lettera del 30
luglio 1899, Fondo Adolfo De Carolis,
Archivio Galleria Nazionale d’Arte
Moderna, Roma, pubblicata in Lenzi 1999,
p. 68), che lo guida, altresì, verso il viaggio
in Umbria e nelle Marche con l’amico
camerte nel 1897. [MP]
282
Adolfo De Carolis
100
102
Montefiore dell’Aso 1874 - Roma 1928
102. Allegoria
1900-1903
tempera su carta intelata
cm 100x170
Collezione privata
Esposizioni: Roma 2001
Bibliografia: F. Benzi, L’Italia Liberty
tra la pittura e le altre arti, in Roma 2001,
pp. 46, 48
Allegoria offre un’ulteriore testimonianza
della tendenza neoquattrocesca che
caratterizza le opere decarolisiane a cavallo
tra Ottocento e Novecento. Nelle donne
che suonano l’arpa e il violino possono
trovarsi, di nuovo, stringenti contatti con il
Pintoricchio delle Stanze Borgia, in
particolare con le figure musicanti della
lunetta raffigurante l’Allegoria della
Musica nella sala delle Arti Liberali. Allo
stesso tempo l’iconografia lascia
individuare possibili modelli burnejonesiani, come le fanciulle in The Golden
Stairs (Londra, Tate Britain) o le figure
musicanti del The Last Sleep of Arthur in
Avalon (Ponce, Museo de Arte de Ponce).
Ad ogni modo, l’influenza diretta di
iconografie preraffaellite nell’opera si
rintracciano principalmente nella scelta di
porre le donne sedute su un albero,
ricollegabile al Day Dream di Rossetti
(1880, Victoria & Albert Museum,
Londra), peraltro riprodotto da Sartorio
nelle Note su D.G. Rossetti nel 1895.
L’immagine è stata altresì posta a
confronto con l’Albero della Vita di
Segantini (1894) della Galleria d’Arte
Moderna di Milano (Benzi 2001, p. 46),
probabilmente rintracciandovi una
matrice comune.
Successivamente, il soggetto torna
nell’incipit per la tragedia Francesca da
Rimini di Gabriele D’Annunzio del 1902,
in cui il rapporto con il prototipo
rossettiano si fa più stringente poiché la
donna siede esattamente nella stessa posa
e con un abito simile. Proprio l’affinità
stilistica con le incisioni per la Francesca
da Rimini – nella linea sinuosa che crea le
pieghe della veste della protagonista della
tragedia, che nella fisionomia del volto è
del tutto assimilabile alla donna che suona
il violino – fa pensare ad una datazione
prossima ai primi anni del XX secolo,
quando De Carolis continua ad affrontare
studi in giardini e ville storiche del Lazio,
verosimilmente alla ricerca di giuste
ambientazioni per i suoi soggetti, come già
fatto a Tivoli per La donna alla fontana
(cat. 101).
Alcune incisioni tratte da queste vedute
sono state pubblicate da Romualdo Pantini
nel 1901 in un articolo sugli artisti italiani
in “The Studio” (R. Pantini, Some Italian
Artist, in “The Studio”, 97, 1901,
pp. 163-164). Inoltre, il tema musicale,
caro all’Aesthetic Movement inglese e alle
teorie di Pater, è protagonista del dipinto
presentato alla Biennale di Venezia del
1901, Il Concerto – il primo eseguito a
Firenze dopo il suo trasferimento,
riadattato nel 1905-1906 nella decorazione
del Villino Regis De Oliveira a Roma, ora
distrutto (Piccioni 2009 [2010], p. 52,
nota 11) – ancora ispirato a modelli
quattrocenteschi e inglesi (Albert Moore,
A Quartet, 1868, collezione privata; il già
citato The Last Sleep of Arthur in Avalon di
Burne-Jones). È ipotizzabile, infine, che
Allegoria possa rappresentare un cartone
per un pannello, forse non realizzato,
nell’ambito della commissione ricevuta da
De Carolis nel 1903 per la decorazione
della camera da letto di Alice Ravà, “sul
genere della sua bella donna alla fontana
[…] qualche figura vagante uso Burne
Jones molto stilizzata e allegorica” (lettera
senza data di Alice Ravà, Fondo Adolfo
De Carolis, Archivio Galleria Nazionale
d’Arte Moderna, Roma, pubblicata in Lenzi
1999, p. 73, n. 2).
Le lettere che la signora Ravà invia
a De Carolis permettono di ricostruire
i soggetti, tutti molto affini all’opera in
esame, che compaiono nella camera,
tra le quali una “serena figura che suona in
piedi”, una “donna dei narcisi” e “due
donne dai veli, quella della lira e quella
della lucciola”. [MP]
Adolfo De Carolis
Montefiore dell’Aso 1874 - Roma 1928
103. Le Castalidi
1905
tempera e decorazioni a rilievo in gesso
dorato su tela
cm 200 x 148
in basso a destra sul basamento della
fontana: “A. De Karolis: Firenze MCMV”
sulla cornice originale: “Vanno cantando
vecchi canti con nova letizia”
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
Provenienza: Acquistato da Donella
De Carolis nel 1974
Esposizioni: Venezia 1905; Roma 1978,
n. 104; Gardone Riviera 1988, n. 10
Bibliografia: Dania, Valentini 1975, p. 57,
tav. 9; G. Piantoni in Roma 1978, p. 83;
P. Nottiani in ibidem; S. Fugazza in
Gardone Riviera 1988, p. 99; G. Piantoni,
Verso l’Ellade, in Roma 1996, p. 50;
S. Frezzotti in GNAM 2006, p. 334; Pieri
2007, pp. 142-144
L’opera è la seconda versione di un dipinto
presentato nel 1898 all’esposizione annuale
di “In Arte Libertas” (riprodotta in
Rassegna Settimanale Universale, 10 aprile
1898), realizzata a Firenze nel 1905. Il
presente dipinto differisce dal primo solo
per l’aggiunta di una figura femminile nel
gruppo in secondo piano. È un opera
esemplificativa della cultura idealista che
ruota intorno al Convito, ad Angelo Conti e
a Nino Costa, in cui si fondono motivi
classicheggianti, del preraffaellismo e del
Quattrocento italiano, uniti ad una
riscoperta del mito come fonte per
l’immaginazione. Il tema della fonte
Castalia dedicata ad Apollo rientra nel ciclo
di dipinti dedicato alle acque (cat. 101) ed
esprime la visione rigenerante e di eterno
rinnovamento proprio dell’arte.
Le fonti stilistiche del dipinto spaziano
dall’arte italiana quattrocentesca a quella
francese (Denis e Puvis de Chavannes sono
punti di riferimento essenziali nello stile di
De Carolis nel corso del Novecento), a
quella inglese, in cui spiccano Burne-Jones,
Leighton e Walter Crane, soprattutto per il
modo di trattare il paesaggio.
De Carolis, trasferitosi a Firenze nel 1901
per insegnare decorazione all’Accademia di
Belle Arti, entra in contatto con l’ambiente
del “Marzocco”, di “Leonardo” e di
“Hermes”, e approfondisce i rapporti con
D’Annunzio e Conti che influiranno anche
sul suo pensiero teorico. In quel contesto
approda al michelangiolismo, cifra stilistica
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del primo ventennio del Novecento – alla
base della decorazione del Palazzo del
Podestà di Bologna – e alla convinzione
della superiorità del mito pagano sul
Cristianesimo, motivo ispiratore, tra il 1907
e il 1908, delle decorazioni del Palazzo della
Provincia di Ascoli Piceno e dei Cavalli del
Sole (cat. 104), esauritosi con la Prima
Guerra Mondiale. [MP]
Adolfo De Carolis
Montefiore dell’Aso 1874 - Roma 1928
104. I cavalli del Sole
1907
trittico, tempera e olio su tela
pannello centrale cm 114 x 173
pannelli laterali cm 129 x 53
in basso a destra nel pannello centrale:
A. DE KAROLIS MCMVII
Pinacoteca Civica, Ascoli Piceno
Provenienza: Ministero degli Esteri,
concesso in deposito nel 1919
Esposizioni: Venezia 1907, n. 60;
Montefiore dell’Aso 1974; Roma 1996,
n. 58; Macerata 1999, n. 28
Bibliografia: Frandini 1969, p. 441;
Zampetti 1991, pp. 436-437; Prete 1991,
p. 250; Dania, Valentini 1975, p. 57, tavv.
16-17; Ferriani 1994, pp. 16, 149, tav. XXV.
Di Pino Giambi 1992, pp. 110-111;
G. Piantoni, Verso l’Ellade, in Roma 1996,
p. 51 e pp. 160-161; G. Piantoni,
La dimensione onirica della classicità, in
Roma-Parigi 2000-2001, p. 116; Ferri 2003
Il dipinto è eseguito contemporaneamente
alla decorazione del Salone delle Feste del
Palazzo della Provincia di Ascoli Piceno
(1907-1908), che rappresenta un’allegoria
del popolo piceno in cui i personaggi della
mitologia antica si fondono con gli usi e i
costumi locali. Il volgersi al mito greco alla
ricerca di una perduta età dell’oro è alla
base anche della presente opera, nella quale
vengono ripetuti alcuni soggetti eseguiti
nella decorazione murale: nei pannelli
laterali sono raffigurati i Dioscuri, mentre
nel pannello centrale i cavalli del Sole e
l’Aurora incedono, accolti da Apollo e da
alcune figure femminili. È verosimile,
dunque, che De Carolis abbia eseguito
il dipinto contestualmente all’elaborazione
dei bozzetti e dei cartoni per il palazzo
ascolano.
Sia il trittico sia la decorazione del salone
rappresentano il primo atto del
progressivo volgere dell’artista da poetiche
di estrazione neoquattrocentesca e
preraffaellita, elaborate durante gli anni
romani, al neomichelangiolismo eroico,
che raggiungerà l’esito più radicale
nel Palazzo del Podestà di Bologna
(1908-1928).
La svolta avviene in seguito al
trasferimento a Firenze nel 1901, dove
De Carolis approfondisce, tra gli altri, i
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rapporti con Giovanni Papini e Giuseppe
Prezzolini. Con essi collabora alla
fondazione del “Leonardo” (1903), i cui
programmatici individualismo, idealismo e
culto della bellezza, si trovano espressi
nell’articolo Cattolicesimo e Paganesimo,
che De Carolis pubblica sulla rivista nello
stesso anno della fondazione. Il
vagheggiato recupero dei culti pagani e
dionisiaci e il ritorno alla mitologia greca
echeggiano anche le tematiche che negli
stessi anni inseguono D’Annunzio con le
Laudi (1903) e Giovanni Pascoli con i
Poemi Conviviali (1904).
In questa prospettiva De Carolis volge
l’attenzione alle ricerche pittoriche
contemporanee europee, prima di tutto
francesi – Puvis de Chavannes e Denis – e
inglesi: se prima gli esempi erano BurneJones, Crane, Rossetti, ora l’artista sembra
interessato a Watts e ai suoi dipinti mitici,
come Genius of the Greek Poetry, Preston,
Harris Museum and Art Gallery, o anche
The Three Godness, Faringdon, Collection
Trust; tuttavia, anche il classicismo di
Leighton attrae l’artista piceno – come
dimostra la posa del giovane dioscuro che
alza il braccio mentre volge la testa a
sinistra, che ricorda la posa dello Sluggard
(cat. 69) – così come il michelangiolismo di
Burne-Jones.
Anche nello stile il pittore, nei primi anni
del nuovo secolo, abbandona le finitezze e i
decorativismi lineari delle opere romane
per approdare ad un fluire di linee sciolte
unite a pennellate corpose e sfatte che,
piuttosto che ad una generica tendenza
Liberty, riconducono l’artista al più ampio
panorama post-impressionista europeo. Lo
stesso culto del sole appartiene alla poetica
simbolista europea e italiana fin de siècle,
come dimostrano i contemporanei dipinti
di Previati (cat. 107). I legami con
quest’ultimo restano, però, solo nell’ambito
delle scelte tematiche risolte con intenti e
risultati totalmente diversi: I cavalli
del Sole e Il giorno di Previati (Milano,
Camera di Commercio), esposti nella stessa
biennale veneziana del 1907 che sancisce
l’atto finale del simbolismo italiano,
si accomunano solo per la scelta del trittico
e della tematica del carro del sole;
ma al classicismo mitologico e
neorinascimentale di De Carolis, il pittore
ferrarese contrappone un simbolismo
cosmologico, legato alla forza spirituale
e smaterializzante della luce. [MP]
Gaetano Previati
Ferrara 1852 - Lavagna 1920
105. Studio per il Trittico
dell’Assunzione
1901-1903
tempera su tela, cm 75 x 35,
cornice cm 143 x 57
In basso a destra: “Previati”
Collezione privata
286
Uno degli aspetti peculiari del simbolismo e
dell’idealismo di Previati è l’attenzione alla
pittura sacra, a cui egli si dedica con
notevole intensità emotiva e partecipazione
spirituale, frutto della sua profonda
religiosità che gli permette di trasporre
l’evento sacro in una nuova dimensione
ideale e soprannaturale (cfr. M.G. Schinetti,
La pittura sacra, in Milano 1999). Le scelte
iconografiche di Previati sono sempre
rivolte al Cristo e alla Vergine e
quest’ultima, in particolare, oltre che nella
celeberrima Maternità (1890-91, Banca
Popolare di Novara) esposta alla Triennale
del 1891, compare in molte occasioni fino al
trittico dell’Assunzione (1903) della
Cattedrale di Genova, di cui la presente
opera rappresenta uno studio inedito
relativo al pannello centrale. Esso raffigura
il particolare della Vergine portata in cielo
da un gruppo di angeli e va a collegarsi ad
altri studi relativi alla scena centrale del
trittico – esposti alla mostra dedicata agli
anni liguri di Previati a Lavagna nel 2005 –
che testimoniano l’evoluzione della
composizione. Il presente studio, tuttavia, è
forse il più prossimo alla versione definitiva
con la Madonna posta di tre quarti e
sorretta dagli angeli.
Previati elabora il soggetto già nel 1893,
come documenta una lettera del fratello
(F. Ragazzi, Luci suggestioni visioni,
Gaetano Previati in Liguria, in Lavagna
2005), forse in continuità con la Maternità,
mentre un’opera dallo stesso titolo compare
nel 1901 alla Biennale di Venezia. Alla
successiva Biennale del 1903 espone infine
il trittico, acquistato dal comune di Genova
nel 1927 e collocato nella cattedrale
(cfr. C. Olcese Spingardi, L’Assunzione
della Vergine: un trittico di Previati per la
Cattedrale di San Lorenzo, in Lavagna 2005).
Dal punto di vista stilistico e iconografico
gli esempi che si presentano alla mente di
Previati durante l’elaborazione del trittico
vanno da Rossetti a Watts a Puvis
de Chavannes e, chiaramente, al maggior
teorico del tema sacro in pittura di fine
secolo, Maurice Denis, che Previati conosce
attraverso Grubicy. Nell’Assunzione, come
negli altri dipinti di Previati eseguiti
durante il periodo di elaborazione del
Divisionismo, diventa urgente il problema
del linguaggio artistico: alla scelta del
soggetto deve legarsi una precisa
concezione formale, tema e forma devono,
dunque, legarsi indissolubilmente. Di
nuovo tornano Ruskin e le sue speculazioni
sul rapporto linea/colore, ma anche le idee
di Walter Crane che aveva teorizzato nei
suoi scritti il valore sostanziale della linea.
In entrambi si sottolinea la capacità di
sollecitare emozioni e rispondenze
psicologiche attraverso associazioni
mentali, che sono alla base del concetto
linea-colore di Previati. Dinamizzando la
superficie pittorica, la linea giunge fino alla
deformazione delle immagini trasponendole
in una dimensione soprannaturale, aprendo
le porte anche alla poetica e alle ricerche
di Boccioni.
Degna di nota è la preziosa cornice originale
del dipinto in esame, opera dell’ebanista
cesenate Ettore Zaccari, noto artigiano
attivo a Milano nei primi decenni del
Novecento, che aveva frequentemente
collaborato con Previati.
La cornice, caratterizzata da motivi a girali
lungo le candelabre laterali come nei
pannelli superiori e inferiori, presenta,
nella cimasa, una decorazione a cielo
stellato con elementi simbolici astrologici
che rimandano all’Empireo a cui la Vergine
ascende. [MP]
Gaetano Previati
Ferrara 1852 - Lavagna 1920
106. La Danza delle Ore
1899 c.
tempera su tela
cm 133 x 199
in basso a sinistra: “Previati”
Fondazione Cariplo, Milano
Provenienza: Raccolta Carlo Sacchi
Esposizioni: Venezia 1899; Montreal 1995,
n. 328; Roma 1996, n. 54; Milano 1999,
n. 27; Roma 2008, n. 122
Bibliografia: De Chirico 1985 [1920],
pp. 180-181; Previati 1993 [1927], p. 77;
Raccolta Carlo Sacchi 1927, n. 68; Fiori
1968, p. 65; G. Piantoni, Nota su Gaetano
Previati e la cultura simbolista europea,
in Trento 1990, p. 235, 237; Rebora 1995,
p. 329; G. Piantoni in Roma 1996,
pp. 155-156; G. Piantoni in Milano 1999,
p. 142; F. Ragazzi, Luci suggestioni visioni,
Gaetano Previati in Liguria, in Lavagna
2005, p. 16; A. Villari, in Roma 2008, p. 336
Il dipinto, ideato nel 1894 e realizzato
intorno al 1899, tratta il tema mitologico
classico delle Ore, figlie del Sole e della
Luna, per affrontare il tema cosmico
dell’eterna alternanza del giorno e della
notte riproposto anche in altre
composizioni (Il giorno sveglia la notte, cat.
107, Il trittico del giorno, 1907, Milano,
Camera di Commercio). Le Ore sono
personificate da fanciulle, abbigliate con
leggeri e fluttuanti pepli di classica
memoria, che danzano nell’universo fra il
Sole e la Terra, seguendo un percorso
ellissoidale simbolo dell’infinito e dello
scorrere del tempo. Il senso di dinamismo è
suggerito dalle pennellate filamentose,
mentre la luminosità è accentuata dalla
tecnica divisionista. Questa permette di
creare il gioco di contrapposizione
simbolica tra luce e ombre come notato
dalla critica (D. Tumiati, Artisti
contemporanei: Gaetano Previati,
“Emporium”, 13, 1901, pp. 3-25), che diverrà
costante nella produzione dell’artista.
Stilisticamente il dipinto appare collegato
alle opere della svolta idealistica registrata
intorno ai primi anni novanta del secolo, in
cui non sono estranei contributi delle
contemporanee sperimentazioni inglesi, del
resto mai smentite da Previati. Con
Maternità (1890-91, Banca Popolare di
Novara), infatti, Previati abbandona le
tematiche e gli stilemi scapigliati che fino a
quel momento caratterizzano la sua opera,
per cercare un punto di contatto con le
tendenze simboliste europee. La pittura del
primo rinascimento, di Botticelli, dei
preraffaelliti e di altri esponenti della
cultura inglese, danno una spinta al pittore
per il superamento del realismo in
direzione idealistica. Anche tematicamente
Maternità si pone in contatto con gli
sviluppi dei temi sacri in ambito simbolista,
portati avanti, tra gli altri, da Denis, che
connettono il dipinto alle teorie teosofiche,
mistiche e idealizzanti del gruppo della
Rose-Croix di Péladan al cui Salon è esposto.
In quest’ambito probabilmente nell’artista
matura l’interesse nei confronti di
tematiche cosmiche e legate all’infinito.
L’allusione alla danza e alla musica, inoltre,
sembra riportare alle tendenze simboliste e
tardoromantiche volte al sincretismo delle
arti. La critica sottolinea infatti le vibrazioni
musicali emanate dall’opera (D. Tumiati,
op. cit.) e questo aspetto può trovare le sue
fonti nei saggi di Walter Pater e nell’Aesthetic
Movement inglese o, in generale, alla
temperie wagneriana del simbolismo
internazionale. Previati dichiarerà superato
il realismo richiamandosi alle concezioni
idealistiche diffuse da Nino Costa e da “In Arte
Libertas” e al collegato gusto dei primitivi.
Per la maturazione del suo stile personale,
Previati trae probabilmente suggestioni
dallo scritto di Ruskin The Elements of
Drawing del 1857, ritenuto una delle fonti
essenziali del divisionismo. Le argomentazioni
di Ruskin sui mezzi espressivi della pittura,
sul valore emotivo della linea e del colore, a
cui si unisce una esaltazione mistica del
colore stesso, sembrano alla base della
pennellata a tratto e della soluzione della
linea-colore tipica del suo stile (G. Piantoni,
Nota su Gaetano Previati e la cultura simbolista
europea, in Trento 1990, pp. 235, 237).
L’attenzione alla simbologia delle forme è,
in Previati, spesso congiunta ad un valore
allegorico in cui il cerchio è il motore della
composizione, come in questo caso in cui
tre sono le forme circolari messe in moto.
La forma del cerchio era stata esaltata da
George Frederic Watts: di Watts, che
Previati dichiara esplicitamente di
ammirare, lo colpiscono non tanto i motivi
iconografici, se non in alcuni casi, quanto
l’intima essenza della sua poetica,
l’esaltazione esclusiva dell’immaginazione,
l’idea di infinito a cui si lega la preferenza
del cerchio come forma perfetta
(cfr. cat. 87-88).
Un disegno preparatorio del dipinto
è conservato alla Civica Raccolta d’Arte
Moderna di Ferrara. [MP]
Gaetano Previati
Ferrara 1852 - Lavagna 1920
107. Il giorno sveglia la notte
1905 c.
olio su tela
cm 180 x 211
in basso a sinistra: “Previati”
Museo Revoltella-Galleria d’Arte Moderna,
Trieste
Provenienza: Galleria Trieste
Esposizioni: Venezia 1905; Ferrara 1969;
Milano 1970; Rotterdam-Bruxelles-BadenBaden-Parigi 1975-76; Trento 1990, n. 76;
Trieste 1995, n. 34; Montreal 1995; RomaParigi 2000-2001, n. 73
Bibliografia: Locatelli-Milesi 1906, p. 2;
Fiori 1968, II, p. 70. G. Piantoni, Nota
su Gaetano Previati e la cultura simbolista
europea, in Trento 1990, pp. 235, 237;
F. Castellani, in Trieste 1995, pp. 190-193;
P. Zatti in Milano 1999, pp. 144-145;
G. Piantoni in Roma 2001, pp. 209-210;
Museo Revoltella 2004, p. 162
La prima idea del dipinto può essere riferita
al 1898, quando Previati annota un’opera
col medesimo titolo in un taccuino
(Castellani in Trieste 1995, p. 190).
L’iconografia e la composizione del quadro,
con la personificazione della notte avvolta
in un manto stellato portata in volo da un
pipistrello, mentre dallo sfondo emerge il
globo terrestre, compare per la prima volta
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Il mito_05_IMP cat.sez. IV
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in un disegno pubblicato da Tumiati su
“Emporium” nel 1901, che lo scrittore
considera erroneamente appartenente alla
serie di illustrazioni che Previati dedica ai
Racconti Straordinari di Edgar Allan Poe
tra il 1887 e il 1890 (G. Piantoni in RomaParigi 2000-2001. Nel decennio successivo,
verosimilmente, Previati lavora al
trasferimento della scena su dipinto, che
viene esposto alla Biennale veneziana del
1905, e nel quale, alla forza delle forme
circolari del sole e della terra, si unisce il
potere del colore e della luce. La genesi del
dipinto ha portato alla realizzazione di
numerosi studi e disegni come quello di
piccole dimensioni, in collezione privata,
esposto a Milano nel 1999 (P. Zatti, in
Milano 1999, p. 144) o gli studi preparatori
conservati a Milano nella Civica Raccolta
Bertarelli.
Come nella Danza delle Ore (cat. 106),
il tema affrontato è legato alla cosmologia e
allo scorrere del tempo, al ciclo del giorno e
della notte. Di nuovo è nella cultura inglese
che Previati cerca punti di riferimento e le
immagini oniriche di Watts – Sun, Earth,
Dead Daughter Moon, 1899-1902, The
Watts Gallery, Compton o The Sower of the
Systems, 1902, The Watts Gallery, Compton
– si confermano spunti di riflessione
privilegiati. Il tema del sole negli anni
novanta dell’Ottocento, inoltre, trova anche
nel classicismo vittoriano, nella cultura
simbolista francese e nella stessa corrente
divisionista numerose applicazioni, ad
esempio nella Clitia di Leighton, in alcune
opere di Odilon Redon o ne Il sole di
Pellizza da Volpedo.
Il ciclo dello svolgersi delle ore e l’alternarsi
del giorno e della notte sono affidati alla
288
capacità comunicativa della figura geometrica
del cerchio, espressione dell’infinito e
forma privilegiata da Watts. Allo stesso
tempo, alle forme circolari si legano i valori
espressivi del colore, che, nel contrasto tra il
buio e la luce, tra i toni violacei e i toni
giallo-aranciati, sottolinea il tempo che
scorre. Le pennellate filamentose e dal
ritmo rotatorio generano una sorta di
movimento concentrico e infinito: tale
spunto è confermato nelle opere successive
a Il giorno sveglia la notte, come Il Trittico
del Giorno, L’eroica, La caduta degli angeli,
tutti dipinti che, oltre ad avere come
soggetto una mitologia eroica legata
alla cosmologia e alle forze primordiali,
sono realizzate sotto forma di trittico,
quasi a voler sottolineare la ricerca del
sacro che si nasconde sotto le tematiche
affrontate. [MP]
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matteo piccioni la fortuna dei preraffaelliti in italia da costa a previati