I lavori per la Costituzione europea costituiscono banchi di prova formidabili “alla ricerca di Europa”. Essi hanno posto l’indecisa comunità di fronte alla necessità di decidersi. E di misurarsi con la sua storia e i L’Europa va presa con un po’ di filosofia CULTURA di Massimo Cacciari suoi valori. Ma se non saprà tollerare valori in conflitto, se accetterà il dogma che essi devono ridursi a Uno, l’Europa eliminerà ogni espressione di libertà. Decretando la sua definitiva scomparsa ra le personae di Europa (le sue maschere più rivelatrici) vi è senza dubbio quella di Amleto. Come Amleto essa è innanzitutto indecisa sulle proprie radici. Il padre sembra fermo e certissimo; ma la madre? Il padre allude forse a una sua colpa, a un suo tradimento? Al figlio viene proibito di agire da Oreste redivivo; e tuttavia come potrà non volersi distaccare da quel grembo? Fuor di metafora: come può Europa decidersi per una delle correnti spirituali che ne alimentano le origini senza tradire le altre? Come può definirsi in base a uno dei suoi “possibili” senza farsi “colpevole” nei confronti di tutti gli altri? Europa è l’Indeciso chiamato sempre a decidersi. Come Amleto non può sfuggire al destino che lo costringe all’azione, al dramma dell’azione che de-cide. Ma nessuna decisione ne elimina l’insecuritas, nessuna è mai approdata a un porto ben sicuro. L’Europa è “sospesa” nella sua stessa configurazione geografica. È un luogo che di epoca in epoca appare necessario ridefinire. Già nel greco topos non indica, infatti, un contenitore, dove accumulare diversi elementi da esso comunque ben distinti, ma il limite estremo, l’eschaton, cui questi stessi elementi nel loro movimento pervengono. Il luogo si riconosce perciò soltanto giunti alla sua soglia, al suo confine, là dove, cioè, esso si fa cum-finis, vici- T 86 no, prossimo, contiguo all’altro da sé. Dove rivela qualcosa di communis con l’altro. Europa è là dove essa “tocca” l’estraneo, lo straniero. Europa può cercare di conoscere se stessa soltanto là dove si imbatte in tutti i sensi, con il meraviglioso-tremendo dello straniero. La sua idea di luogo, potremmo dire, è centrifuga. Finché non perviene al suo “stremo”, che di epoca in epoca può mutare, Europa non è (lo “stremo d’Europa” chiama Bisanzio Dante). Perciò è possibile dire che Europa è il luogo dove si inventa la storia, dove il divenire storico si fa il tratto essenziale dell’ente: perché un processo, un divenire è lo stesso luogo di Europa. E perciò, ancora, Europa rimane un nome inadeguato alla cosa: perché Europa non si lascia ridurre a uno stato dell’ente, sfugge a univoche denotazioni. Europa è sempre un nome che fa segno a ciò che Europa sarà o vuole essere o deve essere. Come essa non ha radice determinata, così la sua figura si presenta storicamente come compito, imperativo, indefinibile (che non significa affatto sine fine!) Per intendere Europa occorre quindi anzitutto individuarne la direzione. Verso dove volge il suo sguardo? Dove intende pervenire? Rovesciando la via che la fenicia Europa aveva percorso, rapita da Zeus, è a Oriente che per due millenni l’Europa ha mirato. O per distin- Olycom/Sipa L’EUROPA VA PRESA CON UN P0’ DI FILOSOFIA guervisi, o con nostalgia, o con spirito di conquista. Il Mediterraneo doveva essere il mare tra le sue terre. È la stessa direzione assunta dalla translatio imperii: dalla prima Roma alla seconda, Bisanzio, alla terza, Mosca. La relazione-polemos con la sterminata Terra di Asia era al centro del problema dell’identità europea. L’età delle scoperte, l’età in cui si afferma la logica della scoperta, muta la direzione e il senso di Europa. È vero: si va a Occidente, si trasgredisce quell’antico confine (“dov’Ercole segnò li suoi riguardi”, pur sempre per attingere Oriente. Ma si vuole attingere Oriente proprio annullandone quella dimensione terranea che sgomentava e pareva insuperabile. Per mare, su quella sua casa che è la nave, fin dai tempi dell’effimero impero di Atene, l’europeo raggiunge l’Oriente. Lo riscopre, attraverso un mezzo che è estraneo, per lui, all’essenza dell’Asia; e proprio per questo può pensare di farla sua. La sterminata distesa del mare è sentita come ricca di promesse; il suo dominio soltanto garantisce la conquista. Dominare terre soltanto significa essere prigionieri del mare. Ultima, decisiva translatio imperii: dal Mediterraneo (già in crisi, già non più mare nostro) alla grande isola atlantica, signora dei due oceani e ponte tra essi. Soltanto allorché opera questa translatio del suo centro, l’Europa diviene compiutamente civitas futura: comunità in itinere, poiché si attende nel futuro la vera soluzione di problemi e contraddizioni. A-oikos, estraneo a ogni fissa dimora, figlio della povertà che spinge sempre a cercare e di quella via, di quel mezzo che permettono di attingere il fine, era già apparso l’eros filosoficoscientifico. Roma, a sua volta, pur conservando sempre la propria radice nell’urbs, manifestava come mobilis la propria essenza: la civitas romana non esiste se non come accrescentesi sempre, se non come augescens. E tuttavia soltanto ora (e sotto il grande segno della teologia della storia agostiniana) l’Europa si manifesta come spirito non contenibile, come volontà di potenza territorialmente non determinabile, progetto di una volontà di conquista planetaria, per cui parafrasando le parole della Logica hegeliana, ogni determinazione è tolta, superata nel momento stesso che viene posta. Vi possono essere dèi laddove non sussista più alcuna frontiera? Junger si poneva questa domanda. Può esservi sacro laddove l’idea stessa di frontiera (Hegel ancora) non è che un momento, superato nell’atto stesso di pensarlo? 88 La laicità di Europa, del politico europeo, deve essere considerata anche sotto questo profilo: il termine tra sacro e profano è scosso dalle fondamenta. E la religione cristiana poteva apparire al romanticismo come all’idealismo, in tutte le loro varianti, religione ultima o assoluta proprio perché, in fondo, non religione, liberazione dall’astratta separatezza tra laico e religioso, fides et ratio, progresso della civitas terrena (e marina!) e l’”infuturarsi” dantesco al paolino politeuma en ouranois. Ancora in Erasmo risuona la nostalgia per l’antico dio-termine; ma l’erma è un Giano bifronte, unisce gli opposti, pace-eguerra, piuttosto che distinguerli. Europa era divenuta quasi sinonimo di un’irenica speranza di conciliazione, al fine di poter contrattaccare la dilagante offensiva ottomana, nel corso del XV secolo. Ma nel seno stesso di tale speranza covavano contraddizioni ancora più micidiali (e nel loro segno, tragicamente, andrebbe finalmente letto l’umanesimo italiano), che fu Machiavelli a mettere spietatamente a nudo. L’identità europea era e rimane un’identità in conflitto. L’agonia di Europa, di cui parlerà Maria Zambrano, significa l’essere agonico di Europa. E come potrebbe “lasciare in pace” chi non ha pace in sé? Gli appelli pacifistici alla pace come se far-pace significasse appunto “lasciare in pace”, mostrano di ignorare l’essenza dell’identità europea. Essa è un’esistenza ek-statica, in tutti i sensi; è per comunicarsi, per aprirsi, per con-vincere. Volere che si esprima altrimenti significa inventare legni di acciaio. Il difficile consiste nel far-pace attraverso la sua essenza agonica, scoprire un senso della pace che non sia antinomico alla volontà di comunicare e convincere, che è sempre necessariamente anche ferirsi-ferire. Potere è sapere (avere di tutto l’“idea”, essere collocati in un punto che consenta una visione panoptica) e sapere è potere. Aver cura dell’anima significa, anzitutto, e mille leghe oltre ogni aura spiritualistica, aver cura di quell’organo che consente di vedere e prevedere, di progettare e scoprire. Ed è la scoperta, la capacità di scoprire, che legittima, alla fine, la stessa conquista. Tuttavia, io non conosco me stesso semplicemente allorché rendo chiaro e acuto il mio sguardo. Io mi conosco soltanto nell’occhio dell’altro. Quando mi vedo dall’altro riconosciuto. Sapere, conoscere è potere, ma nel senso del riconoscimento reciproco. Raggiungo la mia identità soltanto allorché l’altro nella sua libertà riconosce il mio valore. Se non fosse libero, a nulla varrebbe per me il suo riconoscimento. Al Come Amleto, l’Europa è innanzitutto indecisa sulle proprie radici. Il padre sembra fermo e certissimo, ma la madre? Il padre allude forse a una sua colpa, a un suo tradimento? Al figlio viene proibito di agire da Oreste redivivo e tuttavia come potrà non volersi distaccare fondo della sua anima e della intenzionalità che essa esprime, l’Europa non vuole conoscerepotere soltanto, né potere su chi è costretto a riconoscerne la potenza. L’Europa ardentemente desidera che sia il valore della libertà dell’altro a testimoniare del valore della sua. È l’impossibile questo? È l’impossibile che questo ardente desiderio non finisca con l’attuarsi come liberazione, sradicamento dell’altro da ogni suo luogo, imposizione della nostra idea di libertà e della nostra forma di razionalità e di sapere, intolleranza liberatrice? Lasciamo per il momento aperta questa domanda e chiediamoci invece: l’idea di questo nesso così forte sapere-potere (Kennen-Koennen!) non si attarda ancora sulle spalle dell’”eroico idealismo” (Zambrano) della tradizione filosofica europea, delle sue pretese di attingere incontrovertibili verità? Ma la nostra filosofia (che è senza dubbio il “fenomeno originario dell’Europa”, come Husserl ha detto) elabora una concezione della scienza che, pur poggiando su principi ritenuti indubitabili in quanto di per sé evidenti, la interpreta e vive essenzialmente come interminabile ricerca. Se la verità dei principi è incondizionata, la scienza si sviluppa e si concepisce come orizzonte infinito di compiti; Corbis da quel grembo? L’EUROPA VA PRESA CON UN P0’ DI FILOSOFIA essa attribuisce a qualsiasi verità “fattuale” di volta in volta raggiunta, il carattere di mera approssimazione. Questa è dunque la sua vocazione (il Beruf della scienza europea): impedire che si imponga un confine come non trasgredibile. Ciò che muta nel corso della sua affermazione come paradigma di razionalità non è affatto questo carattere aperto e sperimentale, ma la presenza epistemica pura (da Platone a Husserl) che sussista una radicale differenza tra la Haltung teoretica, l’amore per la ricerca in cui si attua quello per la sophia, e la dimensione tecnico-pratica. Ancora in Kant la tecnica è concepita come mera applicazione delle leggi stabilite dalla scienza della natura, scienza mossa esclusivamente dal puro dover-conoscere-scoprire. Ma la “dissacrazione” (Entwertung o Entzauberung che sia!) di tale pretesa purezza non avviene soltanto attraverso la linea Nietzsche-Heidegger, bensì anche, e forse soprattutto, attraverso gli sviluppi attualistici dell’idealismo stesso (più ancora che attraverso Marx, in cui domina l’idea di un primato della prassi, e proprio di quella prassi che ha per fine la scholé). La fede nella tecnica contraddice tanto poco l’eroico idealismo da rappresentarne, invece, l’inveramento: l’idea di scienza come ricerca e compito guida il “sempre oltre” dell’impresa tecnica. L’impeto con cui quest’ultima vuole la trasformazione permanente del mondo è già tutto immanente nel carattere nient’affatto astrattamente contemplativo, ma prassistico della stessa filosofia. Nos interrogantes, l’Europa: una pluralità di soggetti in interrogante ricerca. Stili assolutamente distinti di interrogazione – e tuttavia, anche a distanze abissali, gli interroganti hanno finito con il riconoscersi. Hegel vede l’Anselmo del quiddam maius come il più grande dei medievali; l’oltre-uomo di Nietzsche ricorda per infiniti tratti “l’uomo nobile” eckhartiano; e Gentile la “dotta ignoranza” del Cusano quando spiega il nondum che assilla dall’interno ogni scoperta scientifica. Nessuno può sopportare che vi sia un Termine, né il mistico che si innalza a ciò che nessun pensiero può attingere, né l’idealista il cui Ego non è tanto il punto al centro di un cerchio a raggio infinito, ma è l’irradiarsi stesso all’infinito della potenza del pensiero, che in ogni istante si attua. Certo, è la fede che è dono a sorreggere il mistico nella sua ek-stasi, che non potrà fermarsi a nessun ente, neppure al Sommo, mentre l’interrogare del filosofo si fonda in se stesso e avanza la pretesa di non 90 avere presupposto; e tuttavia entrambi si presentano nella forma della ricerca inesauribile. Ricerca di ciò che manca, nel segno della apousia, piuttosto che in quello dell’evento già stato, del consumatum est. Questo spirito europeo è stato detronizzato? Aggiungeremo anche questo capitolo al long seller sulla Entkronung Europas? Non lo credo. Il suicidio politico europeo del XX secolo è stato il prodotto della volontà di potenza egemonica di Stati territorialmente determinati e “confinati”. Essi volevano, certo, esplodere imperialisticamente dai loro confini, ma per affermare la propria chiusa identità. L’imperialismo è la proiezione delle sovranità statuali tradizionali, non il loro superamento. Esse miravano all’assoggettamento dell’altro, non al riconoscimento da parte della sua libertà. Il progetto di dominio era chiamato a risolvere CULTURA la ricerca, ricerca intesa come assoggettante scoperta, non a rinnovarla. La ragione più profonda per cui i grandi filosofi del Novecento hanno potuto così radicalmente errare sulla natura dei totalitarismi sta nel fatto che essi vi videro proprio la “liberazione” della persona dai chiusi orizzonti dell’individualismo liberale e la sua consegna alla voce della propria sola responsabilità; immaginarono lo Stato totalitario come fondato sulla libertà positiva della persona, che è per sé nella misura in cui sia ad alium; immaginarono la relazione tra Stato e persona come fondata sulla dialettica del riconoscimento. Cercavano l’inverarsi della loro filosofia – e dovevano cercarla così ostinata- Corbis (3) _Tre filosofi tra i più importanti dell’età moderna: a sinistra Friedrich Hegel, al centro Friedrich Nietzsche e, a destra, Immanuel Kant mente per la sua essenza stessa, che voleva essere sintesi, suprema conciliazione di teoria e prassi –, ma la cercavano in una politica che ne rappresentava l’imitazione rovesciata: conclusione della sua scepsi infinita; atto che si faceva stato, condizione stabile permanente; rivoluzione che si faceva regime rivoluzionario; universalismo proclamato da nazionalismi; riconoscimento responsabile che si rovesciava in alienazione a poteri “presupposti”. Possiamo davvero affermare che la detronizzazione di Europa corrisponda a quella della sua filosofia? O la detronizzazione dell’Europa degli Stati, della guerra civile novecentesca, può aprire a una nuova comprensione di Europa? Il suo tramonto come potenza politica nell’antico senso del termine potrebbe rappresentare l’inizio di una sua diversa direzione? Hegel diceva: “La più alta maturità che qualcosa può raggiungere è là dove comincia il suo tramonto”. Questa acce- 91 L’EUROPA VA PRESA CON UN P0’ DI FILOSOFIA tare in quel senso del termine che si era andato affermando nella storia degli Stati nazionali? Le risposte correnti hanno tutte più o meno il carattere dell’apologia o della delusione. Ideologia in entrambi i casi; realismo da stenterelli o malinconia da anime belle. In realtà i lavori per la costituzione europea e le vicende che ne seguiranno costituiscono banchi di prova formidabili “alla ricerca di Europa”. Essi hanno posto di nuovo l’indecisa Europa di fronte alla necessità di decidersi e hanno evidenziato con chiarezza i termini della decisione. Proprio facendo leva sulla sua debolezza politica l’Europa aveva avviato il processo di integrazione. Sulle questioni geo-politiche non poteva aver voce; e i suoi padri fondatori hanno sfruttato genialmente proprio questo stato di inferiorità. La rimozione del problema dell’identità culturale-politica, o la sua declinazione in termini vuotamente tradizionali, anestetizzati, retorici, è stata fattore-chiave nel permettere la rapidità con cui l’integrazione economico-commerciale è pervenuta a quella monetario-finanziaria. È ben noto che neppure questo capitolo può dirsi nei fatti concluso; la sua logica tuttavia è del tutto Olycom (2) zione del tramonto ritorna in Nietzsche. La filosofia ha accompagnato tutta la storia di Europa; potrebbe segnarne il contraccolpo? Ma proprio quello del philosophein deve essere innanzitutto uno sguardo realistico. Non appare “necessaria” oggi l’Europa proprio perché il crollo dei suoi Stati e staterelli, così come delle loro mire imperialistiche, non lascia aperto che il compimento della profezia nietzschiana? “I piccoli stati europei sono destinati a divenire in breve tempo, sotto l’irresistibile spinta del grande traffico e commercio mondiale, economicamente insostenibili. Già il solo denaro costringerà l’Europa a stringersi insieme, quando che sia, in un’unica potenza”, egli scrive nel 1885. E aggiungeva: le forme della democrazia e del parlamentarismo saranno le meno adatte ad affrontare tale sfida. Se valutiamo oggi gli sforzi “costituenti” della Comunità europea possiamo affermare che questa profezia è stata smentita? Possiamo dire che l’Europa si va unendo sotto altre spinte che quelle del traffico e commercio mondiale? Che il denaro non è la sua ragione di essere? Che la forma del suo governo è democratico-parlamen- CULTURA manifesta. Ed è la logica per cui la potenza della struttura economico-sociale oggi dominante sull’intero pianeta ridefinisce radicalmente, più che annullare, ogni sovranità determinata, trasformandola in null’altro che ganglio o momento di trasmissione del proprio lavoro. Non vi è dubbio che il principio basilare che informa la cosiddetta Costituzione europea esprime perfetta adesione al senso di tale impero. Un unico fine la Costituzione afferma come non negoziabile, oltre quei principi che ne costituiscono preambolo e retorica (uso il termine in senso nient’affatto dispregiativo): libera concorrenza, “liberare” lo spazio economico-sociale da ogni barriera protezionistica. Naturalmente, anche questo fine va perseguito con gradualità e può incontrare dure resistenze. E tuttavia costituisce il pilastro innegabile, il fundamentum inconcussum della costruzione comunitaria. I _Cristianesimo e pacifismo. A sinistra Papa Ratzinger, Benedetto XVI, mentre benedice la folla dei fedeli in piazza S. Pietro. Qui sotto, una manifestazione di giovani pacifisti vecchi soggetti, gli Stati, potranno esercitare un “diritto di contenimento” nei suoi confronti, frenare o ammorbidire, ma la linea è tracciata; e l’intero edificio senza dubbio crollerebbe se venisse messa, in quanto tale, in discussione. Questo pilastro afferma che atto dell’idea di libertà e fonte di ogni sua effettuale espressione è la libertà di mercato; libertà politica, diritti di cittadinanza ecc. sono considerati effettualmente come generati da essa e senza di essa non risultano più neppure concepibili. L’Europa potrà così eseguire il proprio “programma”. Il programma risulta estrapolabile dalla sua storia fino a oggi; si fonda sul disincantato riconoscimento della sua insuperabile miseria politica e, anzi, sul presupposto della neutralizzazione irreversibile di ogni autonomia dell’azione politica. Ciò non significa che il programma sia di facile esecuzione e tantomeno che ne sia garantito l’esito; significa soltanto che esso si fonda su dati sicuri e su un calcolo assolutamente realistico. La logica del programma esclude di prendere in esame fattori per loro natura irriducibili al calcolemus. In altri termini, essa sarebbe del tutto incapace di render conto al suo interno L’EUROPA VA PRESA CON UN P0’ DI FILOSOFIA di qualsiasi rimando a compiti ulteriori rispetto a quella libertà di cui si è parlato. Il programma funziona nella misura in cui sia wertfrei . Non interessa qui ora criticare l’idea dell’avalutatività del programma. Interessa porre la domanda: può l’Europa essere responsabile? Responsabilità significa capacità di rispondere. E si risponde a un compito, che non può essere semplicemente dedotto dallo stato di cose presente. La responsabilità per un compito non è estrapolabile dal calcolo dei fattori dati e dalla previsione sull’esito delle loro dinamiche. Responsabilità significa ascolto e “obbedienza” nei confronti di un compito che trascende o che è ulteriore rispetto all’immanenza del sistema. Può darsi un tale compito per l’Europa? Un compito che sia contraccolpo, appunto, e non astratta, irrealistica, velleitaria negazione del suo programma? Il compito europeo si è sempre filosoficamente concepito come quello stesso dell’interrogazione e della ricerca. Ma esso è sempre stato anche mosso da una incoercibile volontà di sussumere in sé e comprendere la totalità dell’ente, da una coazione all’Ordine. Concepire in questa direzione il compito europeo non vorrebbe dire altro che farne il fondamento del suo stesso “programma”. In esso, infatti, si afferma lo stesso imperativo dell’annullamento di ogni distanza, della riduzione delle differenze a divisioni operativo-funzionali del lavoro del sistema complessivo, dell’assimiliazione della libertà a uguaglianza giuridica formale di fronte alle leggi immanenti in quest’ultimo. Da questo punto di vista il programma europeo incarna perfettamente il compito o la missione che all’Europa sembrava affidare la sua filosofia. Compimento della filosofia, dunque, o sua sopravvivenza come pura ermeneutica, comprensio-imitazione del fatto? Ma non vi è per la filosofia interpretazione senza critica. E la critica si esercita prima di tutto proprio su quella immagine del mondo che pretenderebbe di trasfigurarlo in sistema. Questa immagine è insuperabilmente antinomica; sistema di un tutto non è costruibile, così come non appare formulabile una legge della Natura. Un sistema è efficace (e le leggi che in esso si formulano avranno valore predittivo) soltanto se si auto-limita, proteggendosi dal rumore esterno. Ma ciò che è disturbante rumore per un sistema è il linguaggio di un altro. La logica del sistema correttamente intesa presuppone l’esistenza di insuperabili differenze; non omologa, non uguaglia, ma distingue e 94 analizza. La filosofia, in quanto esercizio della critica contro ogni devastazione dei limiti dell’intelletto e del suo linguaggio, potrebbe dunque, oggi, affidare all’Europa il compito di dissolvere gli idola dominanti (idolatrati o apolitticamente respinti che siano), tutti compresi nel pensiero della destinata affermazione di una forma di relazioni economiche, sociali, culturali, in grado di ridurre il mondo a sistema. Nessun compito, tuttavia, e nessuna responsabilità possono esprimersi nel puro esercizio della critica. Una loro idea può cominciare a farsi luce allorché si comprenda come quel fine, il mondo-sistema, contraddica la causa finale (la causa “principe” per San Tommaso!) di quell’agòn, di quel conflitto-dialogo, relazione-polemos, che costituisce il proprio della storia europea. La sua causa finale è il riconoscimento che la persona libera ricerca e riceve da una soggettività che riconosce nel suo valore, la cui libertà non sia in nulla negoziabile. Non può esservi soddisfazione che in questo: riconoscere il mio essere-libero attraverso e nella libertà dell’altro. Se io mi ritengo l’artefice della libertà dell’altro, la sua libertà dipende da me e per ciò stesso cessa di essere tale. Ma per ciò stesso vien meno anche la mia soddisfazione, poiché l’essere riconosciuto da chi “dipende” non potrà mai attestare il mio valore. Non posso esser certo di me se non sono certo del valore dell’altro, né della mia libertà se il suo riconoscimento mi è dovuto. La soddisfazione è pensabile soltanto se l’altro permane di fronte a me in tutto il suo valore, e dunque se nessuna uguaglianza conclude il nostro polemos. Altrettanto inconcepibile diviene la “causa finale” di ogni mio agire (e di quella forma del fare che è il pensare stesso) se un’astratta separatezza spezza la relazione, o se la relazione è stabilita da norme, procedure, autorità trascendenti le soggettività in gioco. La relazione è un’avvicinanza che non si conclude mai, un essere-insieme nella distanza, ma in una distanza agita, percorsa, sofferta, mai misurata-contemplata semplicemente. Là dove essa “soddisfa” è proprio allorché l’identità dell’altro mi appare più definita e insuperabile nel suo valore, poiché è da parte di una tale identità che perseguivo il riconoscimento. Là dove la relazione con l’altro più profondamente mi soddisfa è dove massima appare la disuguaglianza con lui. La relazione avvicina alla comprensione della distanza. La distanza non è muta separatezza, ma il ritmo della relazione. CULTURA La relazione avvicina alla comprensione della distanza. La distanza non è muta separatezza, ma il ritmo stesso della relazione Soltanto un pensiero così articolato, metaforico-analogico, sarà allora in grado di salvare in sé quella idea di soddisfazione-gioia (Befriedigung) che è causa finale di ogni pathos e di ogni logos: l’idea del conoscere se stessi nel valore del proprio essere-liberi attraverso il riconoscimento che a noi dona una persona uguale a noi soltanto per il proprio essere-libera. Un simile pensiero affermerà l’intollerabilità di ogni negazione di tale idea, e cioè di ogni sofferenza, non per sentimentale buon cuore, ma perché essa renderebbe impossibile la mia gioia: lo sguardo di chi soffre, di chi è costretto a dipendere non sarà mai infatti quello sguardo libero in cui posso ritrovare il mio proprio valore. Neppure il più banale benessere potrebbe per me ormai reggersi sull’esistenza di dannati (Adorno). Questa idea sostiene una ricerca, una interrogazione, che non sarà quella che domina nella logica della scoperta. Ricerca sempre: avvicinanza, appunto, che si esprime per congettura, metafora, analogia – ma che non disvelerà mai il proprio, l’eschaton dell’altro, né di quell’altro che sono a me stesso. Una ricerca che mostra realisticamente la distinzione, che non si conclude in alcuna Pax profunda (cirene kai asphaleia è lo slogan dell’Anticristo! Ma che nella stessa distanza vede la compatibilità, nel logos della distanza ciò che accoglie e collega i distinti. Può l’Europa ricordare tale pensiero? Solo attraverso la critica di quell’idea di libertà che ha retto ogni sua scoperta e ogni sua volontà di potenza: libertà come ciò che possediamo e che ciò che possediamo misura, libertà come ciò che siamo chiamati a imporre, con cui vogliamo “battezzare” il mondo. Nel gioco di vicinanza-distanza che rende possibile quella relazione cui abbiamo fatto segno, libertà è appun- to, invece, ciò che nessuno possiede, ciò che rende possibile quell’aperto dove la relazione accade e che la relazione esprime, che nella relazione ek-siste, senza in essa mai potersi esaurire. Il più europeo dei beni, come lo chiamava Benjamin, l’ironia, va spietatamente esercitato contro l’idolo della libertà, come geloso possesso del singolo, proprietà dell’individuo, che egli si ritiene perfino capace di dimostrare e provare. La libertà si esprime proprio nel tramonto di ogni pretesa di possederla, pretesa che è il fondamento di ogni philopsichia. La libertà si esprime nella ricerca del Xynon, del Communis, che, appunto perché tale, a nessuno appartiene, bene non “matematizzabile”, (non mathema) comunicabile in forma definita, e tuttavia presupposto di ogni comunicazione: ogni comunicazione si sporge sull’abisso del Cum che, come tale, non è a sua volta dicibile; il Cum mostra sé, diremmo, come la possibilità dell’accadere della comunicazione. Questa è la Libertà cui corrispondiamo esprimendola nell’essere responsabili, ovvero nel corrispondere alla radicale domanda del riconoscimento e alla insopprimibile esigenza di Befriedigung. L’Europa può rappresentarsi nel programma destinato dalla potenza dell’”impianto”, il Gestell heideggeriano tecnico-economico, oppure nell’idea di un foedus tra chi salva la propria libertà nel riconoscimento da parte di quella dell’altro, e dunque tra chi ironizza sulla pretesa di possederla da sé, tra chi la concepisce analogicamente come il Bene im-possibile. L’Europa è chiamata a decidersi tra la “barbarie monista” (Berlin) e l’amore per questo impossibile, che custodisce la distanza nella più insuperabile delle relazioni (quella, appunto, che congiunge gli assolutamente distinti). Voler conoscere l’unità del mondo come mondosistema sul presupposto della verità assoluta della propria identità appare oggi, invece, come la via maestra per scardinare ogni possibile avvicinanza. Per citare Berlin ancora: se non sapremo tollerare – ma nel senso primo del tollere: portare in alto, mostrare nella loro altezza – valori in conflitto (polemos), se accetteremo il dogma che essi devono ridursi a Uno, che il mondo ha un grande Disegno e si tratta di metterne insieme i pezzi, ciascuno al suo posto destinato, elimineremo ogni espressione di libertà. La ridurremo a misura della propria potenza. Certo, l’Europa si sarà allora per sempre decisa – ma perché avrà deciso la propria definitiva scomparsa. 95