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Anno VII - Numero 3 - 24 gennaio 2014
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nu ovo
Inchiesta
Il vaccino
che uccide i soldati
Tunisia
Rivoluzione tradita
o ultima speranza?
Cultura
Francia,
attori e paura
Attualità
Distruggere la schiavitù
con la limonata
Le mille verità
su stamina
La storia della fondazione di Davide Vannoni, che ha promesso
di curare terribili malattie degenerative con le cellule staminali.
Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli
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Cura miracolosa o truffa? Le mille verità su stamina
La storia della fondazione di Davide Vannoni, che ha promesso di curare
terribili malattie degenerative con le cellule staminali. A prezzi altissimi
e, secondo gli inquirenti, con un metodo che non è scientifico e che non
cura i pazienti
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Il vaccino che uccide i soldati: condannato il Ministero della Salute
Una sentenza stabilisce il nesso tra le vaccinazioni e i casi di tumore tra militari.
Ai familiari di Finassi riconosciuto un indennizzo attorno ai 150mila euro
Luca, Marco e gli altri: reduci di guerra morti di cancro
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Quando i soldati non muoiono in guerra. Uranio impoverito nei
proiettili, poligoni inquinanti e vaccini mortali
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Tunisia: rivoluzione tradita o ultima speranza araba?
A tre anni dalla rivoluzione che ha aperto le primavere arabe,
la Tunisia riflette su sogni traditi e ultime speranze.
Coups de théâtre à Paris:: attori e paura
Fra antisemitismo, tagli alle sovvenzioni e gesti estremi,
il teatro francese vive un periodo particolarmente caldo,
ma si tratta di atti isolati o il malessere è diffuso?
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Nuova lista "Falciani": 120mila evasori, migliaia italiani
Nell’inchiesta del Sole 24 Ore i nuovi documenti sugli evasori fiscali
delle filiali Hsbc di tutto il mondo
Giappone, morto l'uomo che non si arrese agli Americani
Hiroo Onoda, il soldato ‘fantasma’ dell’Esercito Imperiale Giapponese
era diventato leggenda per la sua strenua e personale battaglia
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La bambina che vuole distruggere la schiavitù con la limonata
Il sogno di Vivienne è diventato realtà: dal chiosco di limonata alla start up.
Storia di una bambina che voleva eliminare la schiavitù
SOMMARIO
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POLITICA
IN PRIMO
PIANO
Cura miracolosa o truffa?
Le mille verità su Stamina
La storia della fondazione di Davide Vannoni, che ha promesso di curare terribili malattie
degenerative con le cellule staminali. A prezzi altissimi e, secondo gli inquirenti, con un
metodo che non è scientifico e che non cura i pazienti
Anna Madia
Si chiama Stamina. Ma si può leggere in tanti modi.
Per le famiglie, come la sola, possibile cura per terribili
malattie neurodegenerative. Per il Ministero della Salute e il mondo della scienza, come un colossale inganno, l’antiscienza venduta come scienza. Per il pubblico
ministero, come una semplice truffa. Cosa si nasconde
dietro la fondazione di Davide Vannoni?
LESTORIE,LEPROMESSEDIGUARIGIONE,ISOLDI
La piccola Nicole De Matteis era una dei tanti pazienti di
Davide Vannoni. Ma è un paradigma per capire cosa sia
successo nell’arco di questi anni. La madre, Grazia Neri,
racconta a La Stampa di essersi rivolta alla fondazione
perché non voleva arrendersi a quel che le dicevano i
medici. L’illusione iniziale, però, le si ritorce contro:“Vannoni ci aveva promesso che Nicole avrebbe iniziato a
parlare, a camminare, che avrebbe potuto anche togliere il pannolino. Non è vero, non è vero nulla”.
La madre insiste a lungo con le infusioni. Di miglioramenti, però, neanche l’ombra, così alla fine la donna
apre gli occhi. Anche perché scopre che alcune immagini della figlia sono state pubblicate sul web senza
permesso. Il marito, Nicola, aggiunge dettagli sconcertanti alla vicenda:“Ci hanno fatto indebitare per 47 mila
euro e quando ho detto che non ce la facevamo più a
pagare mi sono anche sentito rispondere di mandare
mia moglie a prostituirsi”.
Come quella di Nicole, tante altre famiglie hanno
sperato che il metodo Vannoni potesse funzionare. E
hanno perso tutto.
COME TUTTO È COMINCIATO
L’intera storia comincia quando Davide Vannoni,
un lavoro nel settore della comunicazione, la chioma
folta, il viso segnato da una paresi facciale, si avvicina
improvvisamente alla medicina. Vannoni non è un
medico, ma ha conosciuto due biologi in Ucraina, ed
è a loro che chiede di collaborare ad una ricerca sulle
cellule staminali.
Così, a poco a poco, ai propri Call Center aggiunge
qualcos’altro. Lo fa anche grazie all’iniziale nulla osta
delle istituzioni regionali: dell’allora presidente della
Regione Mercedes Bresso, del vice presidente Paolo
Peveraro e dell’assessore Andrea Bairati (il figlio di una
collaboratrice di quest’ultimo, in particolare, lavorava
per Cognition di Vannoni). Ma la stessa Regione Piemonte, dopo il primo sì a Stamina e un imminente finanziamento di 500 mila euro, si tira indietro. Accade
quando l’assessore Bairati viene a sapere che i dipendenti di Vannoni stanno per denunciarlo.
Vannoni, già rinviato a giudizio per tentata truffa,
decide di andare avanti comunque. Lo fa nel sottoscala dei locali della propria società. “Un laboratorio buio,
senza areazione, dieci metri quadrati scarsi”, dice un’ex
collaboratrice, Rebecca P., a La Stampa. Sembra impossibile, eppure succede davvero. E quasi impossibile è
anche immaginare che, al buio di un sottoscala, decine e decine di persone possano credere di trovare una
luce per la malattia.
Ma è così. I pazienti aumentano e vengono accolti
l’uno dopo l’altro da quel Vannoni che si fa chiamare
neuroscienziato e che mostra loro filmati di presunte
guarigioni. A fianco del fondatore di Stamina c’è il neurologo Leonardo Scarzella, incaricato di visitare i pazienti e dare il via libera ai trattamenti.
LE PRIME DENUNCE – Tutto fila liscio fino al 2009.
Arrivano allora, però, le prime denunce. Quella del padre di Paola P., per esempio, che ora racconta di un Vannoni che vuole 50 mila euro, che promette la guarigione all’87% con una sola puntura, che chiede di non fare
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"L’accusa è di associazione a delinquere
finalizzata alla truffa e alla somministrazione
pericolosa di farmaci".
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IN PRIMO PIANO
pubblicità, essendo la “procedura chirurgica in
Italia vietata”. Che esige il pagamento con un
bonifico sul conto personale.
Vittime accertate: 68. La somma che si stima
incassata: 1 milione 836 mila euro. L’accusa è di
associazione a delinquere finalizzata alla truffa
e alla somministrazione pericolosa di farmaci.
E al centro del sistema sarebbe Davide Vannoni, perché, scrive il Nas, “la sua condotta è stata
menzognera, falsa, al limite del grottesco”.
BRESCIA APRE LE PORTE A STAMINA Ma, nonostante gli ostacoli, la corsa prosegue:
dai sottoscala dei call center e dai centri estetici
fino agli Spedali Civili di Brescia. Vannoni riesce ad entrare, cioè, in una struttura pubblica,
ritenuta un buon esempio della sanità italiana. Come? Il sospetto degli inquirenti è che ci
siano dei pazienti “eccellenti” che vogliono le
cure: il direttore vicario della sanità lombarda
Luca Merlino e il cognato della direttrice sanitaria Ermanna Derelli. È lo stesso braccio destro
di Vannoni, Marino Andolina, a confessarlo
a Presa Diretta di Riccardo Iacona: “Abbiamo
perciò deciso di curare prima i raccomandati,
così poi saremmo riuscire a far entrare i nostri
bambini”.
Solo due o tre medici, a Brescia, sarebbero
in realtà al corrente di quanto accade: quelli
che si occupano della sperimentazione. Anche
le procedure usate sarebbero tutt’altro che trasparenti: molti malati non vengono registrati e
pagano sottobanco la propria quota; inoltre,
non si sa cosa venga iniettato ai pazienti, non
essendo disponibile un protocollo di Stamina.
Ecco perché, ora, la Procura indaga su otto medici del personale. Ed è opinione comune che
la fondazione non possa difendersi dietro il
paravento del brevetto e della segretezza del
protocollo: il brevetto, infatti, non esiste.
I GIUDICI CIVILI SBLOCCANO LE CURE
Accanto ai protagonisti diretti, poi, ci sono i
giudici. Infatti, dopo che l’AIFA dice stop alle
sperimentazioni di Brescia (è il 15 maggio
2012), basandosi su un controllo dei Nas e del
Centro Nazionale Trapianti, vari giudici civili
intervengono per sbloccare la situazione. E
consentire la ripresa dei trattamenti. Il primo
a farlo: il giudice del lavoro di Venezia, che definisce le cure di Vannoni compassionevoli. Lo
seguono a ruota vari altri colleghi.
Ma una cura, per dirsi compassionevole,
deve rispettare condizioni rigidissime: non ci
devono essere altre cure efficaci; quella cura
deve già essere usata in altri Paesi, o oggetto di
sperimentazione; devono esistere dati scientifici a suo sostegno; l’ente o laboratorio deve
aver lavorato almeno due anni sul preparato;
devono sussistere il pericolo di vita, il consenso
informato del paziente e un parere favorevole
del Comitato Etico. Tanti requisiti, quindi, che
insieme andrebbero soddisfatti. Ma quei requisiti c’erano davvero per Stamina?
LE INDAGINI DELLA PROCURA – La Procura ritiene di no. E ha allargato a venti il numero degli indagati, includendo alcuni dipendenti degli Spedali Civili di Brescia e della Regione
Lombardia. Tra gli iscritti nel registro anche Davide Vannoni, per somministrazione di farmaci
imperfetti, esercizio abusivo della professione
medica e violazione della legge sulla privacy.
Ad allarmare è anche la possibilità che il
trattamento non solo non abbia dato un miglioramento reale, semmai apparente, del
quadro clinico dei pazienti, ma abbia anche, in
alcuni casi, anticipato il decesso. A suggerirlo è
il caso del “Paziente 23” che, affetto da atrofia
multisistemica, muore in sole due settimane,
proprio dopo l’infusione: secondo il “padre di
Stamina”, per una polmonite; ma il decesso
potrebbe, invece, dipendere proprio dal tratta-
mento: l’infusione indurrebbe all’accumulo di
cellule nei vasi polmonari e quindi a una grave infezione. Nessuno, però, pensa a chiedere
un’autopsia.
LA POSIZIONE DELLA SCIENZA – Buona parte del mondo della scienza, intanto, si
schiera contro Stamina. Lo ha fatto anche il Comitato Scientifico nominato dal Ministero della Salute, poi “bloccato” dal Tar. Lo fa Elena Cattaneo, senatrice a vita e professore ordinario
dell’Università Statale di Milano, che ha parlato
di uno scontro fra scienza e antiscienza. E, condannando Stamina (e chi, come il programma
televisivo Le Iene, è parso indirettamente appoggiare Vannoni), ha detto alle telecamere
di Presa Diretta che “non si può abusare della
speranza” dei malati.
Ora, la parola passa alla Magistratura.
Ma resta il peso dell’operato oscillante
delle autorità, che si contraddicono e
smentiscono l’un l’altra, mettendo a rischio la propria credibilità. E, soprattutto, resta il danno, enorme, prodotto a
decine di famiglie. Che, è vero, si sono
fidate di un uomo che del neuroscienziato non aveva nulla. Ma l’hanno fatto
perché non vedevano e non avevano
alternative. Avrebbero dovuto, probabilmente, poter trovare una risposta sicura
e pronta dalle istituzioni.
"Buona parte del mondo della scienza
si schiera contro stamina"
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Il vaccino che uccide i soldati:
condannato ministero Salute
Una sentenza stabilisce il nesso tra le vaccinazioni e i casi di tumore tra militari.
Ai familiari di Finassi riconosciuto un indennizzo attorno ai 150mila euro
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INCHIESTA
Erica Manniello
S ce gl i ere u n a v i t a n el l ’e s erc i to
è sce gl i ere i l r i s c h i o. M a n es s un o
de i gi ova n i p ro nt i a co mb attere
p e r l a p at r i a s i s a reb b e a s p et t ato
c he il r i s c h i o p i ù gra n d e l ’av rebbe
incont rato p r i ma a n co ra d i us c i re
dal l a c a s er ma , n eg l i a mb ulato r i
de l l ’e s erc i to d ove ven g o n o s o mm in is t rat i i va cc i n i c h e d ov reb bero
re nde re i s o l d at i p i ù fo r t i . Vacc i n i
c he, e o ra l o d i ce u n a s e nten za,
h anno f at to a mma l a re d i c an c ro
p iù d i q u a l c h e mi l i t a re.
I l gi a l l o d el l e va cc i n a z i on i mo rt al i s o m mi n i s t rate a i m i l i tar i i tal ia n i è a p p ro d ato a l t r i b un ale d i
Fe r rara , c h e h a p er l a p r i ma vo lta
r icon o s c i u to i l n es s o t ra l a mo r te
di u n s o l d ato e i va cc i n i a c ui era
st ato s o t to p o s to.
Fr a n c e s c o Fi n e s s i e r a s a n o e
fo r t e, m a d o p o i l s e r v i z i o m i l i t a re h a c o n t r a t t o u n t u m o re c h e l o
h a u c c i s o a l l ’e t à d i 2 2 a n n i . Ac c a deva nel 2002 e da quella data la
m a m m a d i Fr a n c e s c o p o r t a a v a n t i
u n a l u n g a b a t t a g l i a p e rc h é ve n g a f a t t a c h i a re z z a s u q u e l l o c h e è
accaduto negli ambulatori medici
d e l l ’e s e rc i t o.
S ol t a nto i er i i l Tr i b u n a l e d i Ferra ra h a d ato ra gi o n e a i s uo i s o sp e t t i : l a s o m mi n i s t ra z i o n e er rata
di u n p ro d o t to m ed i co p u ò c aus are il c a n c ro. Le va cc i n a z i o n i fat te
ai m ili t a r i s o n o r i s u l t ate t ro p pe e
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tro ppo rav vi c i n ate, es po n en d o la
s alute a grav i r i s c h i . Lo r i co n o s ce
la letterat ura s c i enti fi c a e lo aveva
r i co n o s c i uto an c h e la co mmi s s i o n e d el S en ato c h e s e n e era a s uo
tempo o cc up at a. U n n es s o fat ale,
c h e vale un a co n d an n a i n pr i mo
grad o al M i n i s tero d ella s alute,
c h e d ov rà r i s arc i re la fami g li a d el
gi ovan e co n un i n d en n i zzo d i c i rc a
1 5 0 . 0 0 0 euro.
No n è l ’ un i c a mo r te mi met i c a
mi s ter i o s a q uella d i Fran ces co.
Po trebbero es s ere mi g li ai a le fa-
miglie di militar i con una stor ia
simile, ma ne ssun tr ibunale ave va
ancora re so loro giustizia. S olo sile nzio o dinie ghi da par te de i ministe r i de lla S alute e de lla Dife sa
e da par te de i me dici che inie tta vano ve le no ne lle ve ne de i militar i. Vole vano re nde r li macchine da
gue r ra ma il mito de l supe ruomo
non ha re tto il conf ronto con le
re altà de i f atti. Ancora non com paiono i nomi de i me dici re spon sabili ma le var ie Procure stanno
prose gue ndo le indagini.
"Le vaccinazioni fatte ai militari sono risultate troppe
e troppo ravvicinate, esponendo la salute a gravi rischi"
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INCHIESTA
Luca, Marco e gli altri:
reduci di guerra e morti di cancro
Quando i soldati non muoiono in guerra. Uranio impoverito nei proiettili, poligoni
inquinanti e vaccini mortali
Claudia Guarino
Luca Sepe aveva 27 anni quando è morto.
Grado primo caporal maggiore. Esercito italiano. Era malato. Aveva un linfoma Hodgink, in
parole povere un tumore. Era stato in missione
nei Balcani, in Kosovo per la precisione. E non
aveva un equipaggiamento adeguato: “Erano
zone con climi rigidi, quindi mi davano il supplemento di vestiari per climi rigidi, quando
avrebbero dovuto darmi pure il supplemento
per le cose chimiche, invece, neanche una maschera, zero. Solo i guanti, ma quelli di lana”. Si
riferiva all’uranio impoverito contenuto in alcuni
proiettili, è quello che gli ha causato la malattia,
sosteneva. Marco Diana si è ammalato di cancro quando aveva 29 anni. Grado maresciallo.
Sardo. Adesso è morto. È stato in missione in
Somalia. Si è sempre chiesto se il suo male fosse
causato dai proiettili maneggiati in dieci anni di
carriera militare. Ha toccato sostanze tossiche:
mercurio, cromo, cadmio, arsenico, piombo e
uranio impoverito, tra le altre.
Salvatore Donatiello è casertano. Grado
sergente. Anche lui si è ammalato di linfoma
di Hodgkin. Lo ha scoperto durante le esercitazioni al poligono di Capo Teulada, in Sardegna:
«dormivamo e mangiavamo nelle tende, camminavamo su terreni non bonificati e c’erano
dappertutto resti di proiettili di ogni tipo, anche
americani». Angelo Ciaccio invece è caporal
maggiore scelto. È stato in missione in Bosnia,
Kosovo e Iraq. È malato di leucemia, ha fatto il
trapianto di midollo osseo e decine e decine di
sedute di chemioterapia.
Salvatore Cannizzo è catanese, ha 36 anni.
Ha prestato servizio in Marina Militare e ha un
tumore al cervello. In Kosovo si è esposto alle
radiazioni di uranio impoverito. “Ricordo che
durante una campagna c’era stato un carro radar che era stato bombardato con proiettili d’uranio, ma noi a quei tempi non conoscevamo
gli effetti dell’uranio impoverito, eppure mi era
sembrato strano che i nostri colleghi americani
fossero equipaggiati con tute e maschere particolari”. Fabio Maniscalco è morto di cancro al
pancreas nel 2008. E’stato in missione in Bosnia.
Dalle sue testimonianze si apprende di come
sia stato spesso in contatto con metalli pesanti
e uranio impoverito. La chiamavano sindrome
dei Balcani. Molti militari tornati dalle missioni
di pace in quella zona si sono ammalati di varie
forme di cancro, dai linfomi alla leucemia. Per di-
"Molti militari tornati dalle missioni di pace in quella zona si sono ammalati
di varie forme di cancro"
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INCHIESTA
verso tempo si è fatta strada l’ipotesi di un nesso
tra quelle malattie e l’utilizzo di materiali tossici
impiegati nelle armi. In particolar modo si è data
la colpa all’uranio impoverito presente nei proiettili, che avrebbe contaminato gli organismi
dei soldati al fronte. Polveri mortali. Soldati che,
si diceva, se non morivano in guerra erano vittima delle loro stesse armi. Il primo a morire fu
Salvatore Vacca, nel 1999, al rientro dalla Bosnia.
Si è parlato anche di un Esercito italiano
non pronto a maneggiare tali armi, non aveva
le attrezzature. A differenza di altre truppe, non
aveva in dotazione né guanti, né mascherine,
né tute adatte ai materiali con cui entrava in
contatto.
Il condizionale è d’obbligo perché, si dice,
non si è in grado di dimostrare il nesso tra le
malattie e le morti dei soldati tornati dalle missioni e l’uranio impoverito. A questo proposito si
sono susseguite tre commissioni parlamentari
d’inchiesta. Sono arrivate pressappoco alle medesime conclusioni.
Nel 2000 c’è stata la commissione Mandelli.
I militari esaminati che hanno prestato servizio
in Bosnia e Kosovo non presentano segni di uranio impoverito. Non è stata riscontrata alcuna
connessione tra le due cose.
Quella del 2006 conferma. È impossibile
stabilire un nesso tra i tumori dei soldati e l’uranio impoverito. La commissione raccomanda
comunque maggiori controlli e valutazioni sui
rischi chimici potenziali delle armi. Esprime anche l’auspicio che l’uranio impoverito non sia
utilizzato a fini bellici, vista la sua natura radioattiva. L’ultima commissione, quella del 2013 conclude che una pluralità di fattori concorrono alla
nascita delle malattie dei soldati. Non c’è un nesso stretto e dimostrabile tra queste e l’uranio. A
questo punto subentrano due novità: i vaccini
dei soldati e le attività svolte nei poligoni militari
sul territorio italiano sono pericolosi. Possono
causare danni alla salute.
Per quanto riguarda i poligoni militari, tra i
più importanti in Italia ci sono quelli sardi. Capo
Teulada, Capo Frasca e salto di Quirra. Messi
spesso sotto accusa per l’alto livello di inquinamento ambientale e per l’elevato tasso di tumori che si manifesta nella popolazione che ci vive
a stretto contatto.
Attorno al salto di Quirra si ammalano tutti, non solo i militari che lavorano al poligono
"Alcune inchieste mostrano che l’85 per cento
dei militari ammalati non è mai stato all’estero"
di tiro. Fioccano tumori maligni e malattie alla
tiroide anche tra la popolazione civile. Si è parlato anche di agnelli nati con un occhio solo e
con mostruose alterazioni. Di bambini venuti al
mondo già malformati e menomati.
Il poligono è diviso in due aree. Quella del
mare, verso cui avvengono i lanci di missili terra aria che colpiscono bersagli simulati. E quella
a terra, che è invece utilizzata per esperimenti
con elicotteri, mezzi corazzati e artiglieria. Fino al
2003 sono stati lanciati anche i missili anticarro
Milan, poi ritirati perché considerati pericolosi
a causa del rilascio di torio radioattivo. E poi ancora, negli addestramenti al poligono i militari
usano proiettili e granate al fosforo e all’uranio
impoverito. Il Procuratore Domenico Fiordalisi
nel 2012 ha aperto un’indagine su 20 persone,
tra cui alcune provenienti dagli alti ranghi dell’esercito. Questo in seguito ai risultati delle analisi
svolte sul territorio, che hanno portato alla luce
dati allarmanti sul poligono, come la presenza
di torio radioattivo. I poligoni di Capo Teulada e
Capo Frasca sono meno noti, ma anche qui abbondano le esercitazioni militari di tiro. E sono
stati anch’essi al centro di un dibattito per le problematiche connesse al loro impatto ambientale e sanitario.
Non solo uranio impoverito e materiali tossici e radioattivi. Anche i vaccini possono essere
killer per i soldati. Ne aveva parlato la commis-
sione parlamentare del 2013. E da qui è partito
un dibattito che è ancora piuttosto aperto. Sarebbero i vaccini a indebolire il sistema immunitario dei militari, aprendo le porte a tutta una
serie di malattie. Questo succede a maggior
ragione se vengono esposti a materiali tossici
come l’uranio impoverito, ma capita anche venendo a contatto con le esalazioni di una discarica o agenti chimici fuoriusciti da una fabbrica.
Alcune inchieste mostrano che l’85 per cento dei militari ammalati non è mai stato all’estero. I vaccini indebolirebbero a tal punto l’organismo che si può morire anche in Italia e senza
venire a contatto con l’uranio o il torio.
I genitori di molti militari deceduti
in tempo di pace ritengono che i figli
fossero stati vaccinati senza indagare
in profondità sul loro stato di salute.
Senza sapere se fosse effettivamente
necessario un tipo di vaccino anziché
un altro. C’è di più, sui loro libretti vaccinali sarebbero state segnate visite
mediche mai effettuate.
Lavorare per morire. Cercando di
schierare il fuoco incrociato dei proiettili, delle sostanze tossiche e dei vaccini. Quando hai davanti un nemico,
dovresti sapere contro chi combatti.
Quando ti uccide ciò che dovrebbe salvarti, è tutta un’altra storia.
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Tunisia, rivoluzione tradita
o ultima speranza araba?
A tre anni dalla rivoluzione che ha aperto le primavere arabe,
la Tunisia riflette su sogni traditi e ultime speranze.
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ESTERI
Francesca Ferri
I gelsomini sembrano appassiti. Il 14 gennaio la Tunisia ha festeggiato il terzo anniversario
dalla rivoluzione che ha portato alla destituzione del dittatore Ben Ali, ma ancora non si sa se
contare i fallimenti o festeggiare i progressi. Sicuramente nelle strade di Tunisi non si respira
più l’euforia della notte del 13 gennaio 2011, in
cui Ben Ali annunciò la caduta del regime dopo
un mese di proteste: non si sente più lo strombazzare dei clacson e il risuonare dei canti di gioia. Il silenzio è ritornato a Tunisi, ma è un silenzio
dal gusto amaro della delusione. Se all’estero si
guarda al modello tunisino come l’ultima speranza della primavera araba, il paese dei gelsomini langue nella disillusione della rivoluzione
tradita e rimane in attesa di una nuova costituzione.
Il suicidio di Mohamed Boauzizi il 17 dicembre 2010 fu la scintilla del grande incendio che
poi si propagò tra le sorelle arabe. Il giovane
commerciante ambulante si era dato fuoco davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid
per protestare contro il sequestro della propria
merce da parte delle autorità. Al venditore tunisino rispose l’uomo che in Egitto si diede fuoco
il 17 gennaio 2011. Gesti estremi che volevano
urlare ai governanti l’insofferenza per il regime
politico, e in Tunisia esprimere frustrazione per
la disoccupazione, la corruzione della polizia,
l’indifferenza delle autorità sempre più concentrate sui loro interessi e la preoccupazione
per il rialzo dei prezzi dei beni primari. Al grido
d’allarme, la popolazione tunisina rispose con
un crescendo di manifestazioni, che furono severamente represse dalla polizia, provocando
l’effetto contrario di intensificare le proteste.
I figli di Bourguiba urlavano slogan pragmatici e concreti, come “erhal”, “via subito”, chiedevano pluralismo politico, laicità e democrazia,
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evitando ogni richiamo all’islam. I tunisini del
secondo millennio non sono gli algerini degli
anni ’70, sono consapevoli che l’islam non è
un’ideologia politica in grado di creare un ordine migliore. Sanno che l’islam politico ha fallito
sempre e ovunque: in Tunisia come negli altri
paesi arabi.
Il 10 gennaio 2011 sindacalisti, avvocati, studenti e disoccupati sono scesi in piazza in quasi
ogni città della Tunisia. Il presidente Ben Ali promise 300.000 posti di lavoro e l’elevazione del
livello di vita, senza però mostrare alcuna compassione per le vittime della protesta, che vennero addirittura accusate di atti di terrorismo.
Le manifestazioni dilagarono a macchia d’olio
"Uno slogan della
rivoluzione"
e la repressione si fece sempre più acuta. Poi la
sera stessa, Ben Ali pronunciò un discorso per la
prima volta in arabo tunisino per tentare un riavvicinamento al popolo: il presidente condannò l’uso della violenza nella repressione delle
proteste e promise di punire i responsabili, poi
confessò di aver commesso degli errori perché
mal consigliato sul reale stato del suo paese.
Promise inoltre, libertà di stampa e d’espressione anche sul web, annunciò elezioni anticipate a cui assicurò di non presentarsi. Poi la sera
stessa arrivarono puntuali gli spargimenti di
sangue ad opera delle squadre antisommossa,
continuarono a moltiplicarsi i feriti, i morti e gli
arresti per l’eccessiva libertà che si erano presi i
cittadini che avevano denunciato sul web gli
sconvolgimenti della rivoluzione. Il 14 gennaio,
60.000 manifestanti sull’Avenue Bourguiba urlavano “Ben Ali assassino”, “Ben Ali vattene”. Alle
ore 18 dello stesso giorno, il Consiglio Costituzionale dichiarava decaduto Ben Ali, che fu costretto ad abbandonare il Paese.
Il paese arabo più progressista, a distanza di
tre anni dalla rivoluzione si chiede se ammettere
il fallimento della rivolta o celebrare i progressi
ottenuti.“Rien a changé”,“niente è cambiato”, è il
refrain di Sana Ziadi, dottoranda tunisina in biotecnologia, figlia di uno dei fondatori del partito
comunista tunisino (PCOT), creato nel 1986, che
oggi ha cambiato nome in partito dei lavoratori. Niente è cambiato, ripete Sana, con la stessa
monotonia di una nenia araba. Alla grande
emozione dell’inizio è subentrata una grande
delusione.
Oggi la Tunisia discute della nuova Costituzione, che sarà approvata nei prossimi giorni e
attende le nuove elezioni. Certamente, mentre
l’Egitto e la Siria sono state sconvolte dalla controrivoluzione, la Tunisia sembra aver capito il
valore della solidarietà. Acerrimi nemici politici
hanno deciso di parlarsi: dal Fronte popolare
agli islamisti, gli attori politici tunisini hanno
scelto il dialogo. In un clima di tensione crescente e di crisi politica, in seguito all’assassinio
dell’oppositore Mohamad Brahmi, il 25 luglio
2013, gli islamisti del partito Ennahda hanno
accettato di cedere il potere esecutivo. Il primo
ministro islamista Ali Larayedh ha dato le dimissioni, lasciando il posto all’indipendente Mehdi
Jomaa, in attesa delle elezioni del 2014. Il partito
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ESTERI
"Dal Fronte popolare agli islamisti, gli attori politici
tunisini hanno scelto il dialogo"
dell’Ennahda dichiara di aver lasciato il governo
per una propria scelta etica, per favorire il processo democratico del Paese. Ma i tunisini non si
lasciano ingannare, riconoscono il gioco strategico degli islamisti che preparano il loro ritorno
alle prossime elezioni e, intanto ostacolano l’approvazione della nuova costituzione.
Una costituzione rivoluzionaria, secondo le
parole di Tahar Ben Jelloun. Per la prima volta un
paese arabo ha iscritto nella costituzione l’uguaglianza tra uomo e donna, la libertà d’espressione e di coscienza, rifiutando la sharia. Parità
di diritti tra uomo e donna vuol dire abolire la
poligamia, il ripudio e tutti i privilegi dell’uomo
sulla donna, come quello dell’eredità che attribuirebbe alla donna metà della quota dell’uomo, secondo le leggi dell’Islam. L’uguaglianza di
diritti è il primo passo verso la democrazia, frutto
di una costruzione sociale ancor prima che una
legislazione politica. Se si pensa che la parità di
diritti è iscritta solo nella costituzione di tre paesi
scandinavi, si comprende quanto sia innovativa
la proposta tunisina.
E se in certa Europa in cui ancora resiste una
visione maschilista della società, la Tunisia sem-
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bra fare un enorme passo verso la modernità.
Ma è precisamente quell’uguaglianza, il terrore
degli islamisti, che nascondono dietro l’imposizione del velo alle donne la paura di perdere la
loro supremazia codificata dalla prassi di secoli
prima ancora che dal Corano. E guardano all’Occidente come la prova di modernità, che con la
sua liberalizzazione dei costumi avrebbe provocato la distruzione della cellula familiare, fa notare ancora Tahar Ben Jelloun.
In un clima postrivoluzionario di tensione
costante, aumenta il numero delle donne vicine
ai salafisti che portano il niqab, il velo che lascia
scoperti solo gli occhi. Come in ogni momento
di instabilità, ci si rifugia nella tradizione, ma tra
religione e fondamentalismo il passo è breve. Se
la Costituzione tunisina verrà approvata sarà un
grido di vittoria sulle primavere arabe tradite.
Una marcia verso la democrazia a cui i paesi occidentali stanno a guardare con interesse,
che passa attraverso una graduale presa di coscienza sociale e culturale prima che politica. La
Tunisia sembra essere sulla giusta via, ma i media tunisini hanno un’aria ben più allarmista. La
Tunisia guarda alle proprie speranze infrante, e
con amarezza assiste, ormai stanca, ai soliti dibattiti politici inconcludenti, alla disoccupazione incessante, al tasso di cambio del dinar crescente. E c’è anche tra i giovani, chi preferirebbe
la stabilità dei tempi di Ben Ali alla libertà tradita.
Per ora l’unico cambiamento generato dalla
rivoluzione sembra la libertà d’espressione, non
solo per i giornalisti ma per tutti i cittadini. Manifestare in pieno giorno davanti ai palazzi delle
istituzioni, riportare e denunciare sul web scandali e assassini è un evidente segno del nuovo
vento portato dalla rivoluzione.
“La Tunisia sta lottando per il proprio
sviluppo economico, ma il Ramadan ritarda questa lotta”, affermò il presidente Bourguiba, che ebbe il coraggio di presentarsi
con un bicchiere di succo d’arancia ad un
discorso nei giorni di Ramadan del ‘56. I
gelsomini, amareggiati e delusi, non dimenticano però, le parole del presidente
Bourguiba, che per primo avviò il percorso
di modernizzazione e laicizzazione della
Tunisia. Nonostante l’apparente silenzio ci
sono speranze che la primavera tunisina
non si trasformi in un freddo inverno.
R
Coups de théâtre à Paris:
Francia, attori e paura
Fra antisemitismo, tagli alle sovvenzioni e gesti estremi, il teatro francese
vive un periodo particolarmente caldo, ma si tratta di atti isolati o il malessere è diffuso?
Eugenio Murrali
La Francia non si deve preoccupare soltanto delle vicende sentimentali del presidente, ma anche delle intemperanze degli
attori, capaci di gesti estremi.
Due folli colpi di scena - Lo scorso 26 dicembre il direttore de La comédie italienne,
il regista pugliese Attilio Maggiulli, si è lanciato con la sua auto contro il cancello dell’Eliseo, il giorno prima aveva dato fuoco a un
Arlecchino e distribuito volantini contestando i tagli al suo teatro. Lunedì sera invece il
comico Dieudonné avrebbe sparato proiettili di gomma contro un ufficiale giudiziario
che era andato a recapitargli delle multe.
L’Arlecchino di Parigi - Attilio Maggiulli è
stato allievo di Strehler e più di quarant’anni
fa si è trasferito in Francia dove ha studiato
con il grande mimo Lecoq. Dopo aver lavorato al Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine,
nel 1974 insieme all’attrice Hélène Lestrade
dà vita al Teatrino Italiano di Montparnasse,
mentre nel 1980 trasforma un vecchio co-
"La comédie Italienne
a Parigi"
11
{
missariato al numero 17 di rue de la Gaité e
fonda così La Comédie Italienne, una graziosa sala di 100 posti, unico teatro italiano in
Francia. Il regista è un punto di riferimento
importante per l’insegnamento della Commedia dell’Arte e sulle assi del suo palcoscenico vengono rappresentati testi italiani in
lingua francese.
Il precedente - Nel 1999 Maggiulli inviò
una Supplica del povero Arlecchino a Chirac
e a Jospin, all’epoca rispettivamente Presidente e Primo Ministro, per comprare gli
spazi sui giornali aveva venduto i costumi
della Commedia dell’Arte offertigli dal Piccolo di Milano e dal Teatro alla Scala. In attesa
di una risposta il regista fece lo sciopero della fame e alla fine al suo teatro è stato riconosciuto lo statuto di Teatro d’ Arte, con le
relative sovvenzioni.
Il sistema teatrale francese – In Francia i
lavoratori dello spettacolo godono di un regime particolarmente favorevole se comparato al nostro, benché negli ultimi anni i tagli
alla cultura stiano minacciando questo sistema virtuoso, noto col nome di Intermittence
du spectacle. In Francia il lavoratore dello
spettacolo che abbia totalizzato 507 ore retribuite in 10 mesi e mezzo (10 se tecnico o
operaio) ha diritto a uno speciale indennizzo
di disoccupazione pari a 243 giorni lavorativi. Le vicende di Dieudonné - Tutta diversa
la storia di Dieudonné M’bala M’bala. Nelle
ultime settimane il comico è stato al centro
di accese polemiche per il suo spettacolo Le
Mur, che il Consiglio di Stato francese ha vietato a causa dei contenuti antisemiti.
Lunedì sera un ufficiale giudiziario, forse
con un collega, si sarebbe presentato a casa
CULTURA
di Dieudonné per recapitargli 65.000 euro di
multe. L’impiegato ha raccontato che, avendo capito che nessuno gli avrebbe aperto, se
ne stava andando, quando ha sentito l’esplosione di un colpo. Dieudonné, interrogato,
ha detto di non essere in casa. Secondo la
deposizione della moglie dell’umorista, l’ufficiale giudiziario avrebbe tentato di superare la palizzata, ma lei e il servizio di sicurezza gli avrebbero chiesto di allontanarsi. Ora
Dieudonné non è più in stato di fermo, ma
nella sua casa è stata trovata un’arma ad aria
compressa.
L’opinione - Su antisemitismo e violenza
non è neanche il caso di soffermarsi, Gad
Lerner pensa persino che censurare Le Mur
“sia inutile e controproducente”, preferirebbe manifestazioni pacifiche davanti ai teatri.
Quanto al gesto di Maggiulli, Lerner sul suo
blog parla di “patologia della protesta spettacolare”:
“Fa paura questa ricerca esasperata del gesto spettacolare per affermare una priorità di
diritti violati. L’ultimo della serie è Attilio Maggiulli, direttore del teatro parigino “Comédie
Italienne”, che per protestare contro il taglio dei
fondi subito dall’ente con cui evidentemente
ha sviluppato un legame abnorme, ha pensato bene di infrangersi con l’automobile contro
la cancellata dell’Eliseo. Una sproporzione folle tra ragioni legittime di protesta e bisogno
patologico di manifestarle”
In Francia il dibattito è aperto e vivace e investe tanto i diritti dei lavoratori dello spettacolo quanto il problema della libertà di espressione. Beato il
Paese di Voltaire che sa ancora interrogarsi e mettersi in discussione!
R
SOCIETÀ
Nuova lista "Falciani":
120mila evasori, migliaia italiani
Nell’inchiesta del Sole 24 Ore i nuovi documenti sugli evasori fiscali delle filiali Hsbc
di tutto il mondo
Stefano Intreccialagli
Più di 120mila nomi di presunti evasori
fiscali di tutto il mondo, con conti correnti a
Monaco, Lussemburgo, Zurigo, Lugano, Jersey, Guernsey, Isole Vergini. Migliaia di nomi
sarebbero anche italiani. È la nuova “lista Falciani“, il documento trafugato dal tecnico informatico italo-francese Hervé Falciani che ha
raccolto centinaia di migliaia di dati di correntisti del gruppo bancario HSBC. A dare la notizia è stato il Sole 24 Ore, che questa mattina
ha pubblicato un’inchiesta sulle nuove carte
scoperte in questi giorni in Spagna.
La storia della prima lista Falciani nasce nel
2009, anno in cui i magistrati francesi scoprono nel computer dell’informatico, a quel tempo dipendente della Hsbc, i file di migliaia di
correntisti della sede di Ginevra della banca.
Ciò che emerge dall’inchiesta del Sole 24 Ore
è che Falciani avrebbe collezionato dati anche di altre filiali in tutto il mondo, la lista dei
quali però è rimasta nascosta tutto questo
tempo per motivi ancora non definiti. Forse
le stesse autorità francesi avevano omesso i
dati, troppo compromettenti per la situazione politica francese di quel tempo. Ora, dopo
quasi 5 anni, riemergono grazie alle indagini
condotte dal giudice Renaud Van Ruymbeke,
tra i firmatari dell’Appello di Ginevra contro la
corruzione datato 1996.
Una storia controversa quella Hervé Falciani. Dopo le vicende della lista, venne arrestato
in Spagna nel 2012 su richiesta delle autorità
svizzere, ma Madrid non diede l’estradizione
per il tecnico italo-francese e nacque una collaborazione con la magistratura spagnola e
francese per la lotta all’evasione fiscale. I nomi
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di evasori spagnoli scoperti sono circa 4.000,
per 300 milioni di euro recuperati dal fisco.
Falciani collabora anche con gli Stati Uniti che
nel 2012 hanno costretto Hsbc a pagare quasi
2 miliardi di dollari di multa record, con l’accusa di riciclaggio di denaro dei narcos messicani e di avere filiali legate al finanziamento del
terrorismo internazionale.
Per l’Italia la situazione si fa più complicata. La collaborazione con le autorità è stata
sempre difficile. Soltanto la Procura di Torino
mantiene contatti attivi con l’ex dipendente
Hsbc, un legame che ha portato alla raccolta
dei nomi dei correntisti italiani. Ma il quadro
è più complicato di quanto sembri, dato che
molti evasori italiani sono sfuggiti ai pm torinesi grazie all’espediente di utlizzare presta-
nome argentini e brasiliani. Il numero si aggira intorno ai 10mila correntisti. La speranza
è quella di poterli recuperare, ma il quadro
della burocrazia italiana non aiuta: la Corte
di Cassazione ha decretato che i documenti,
sebbene raccolti in modo illecito, possono essere utilizzati ai fini delle indagini sull’evasione fiscale. Tuttavia la prassi che si è sviluppata
è che la scelta sull’uso delle liste come fonti di
prova spetti alle Commissioni tributarie.
L’inchiesta giunge all’indomani della firma del patto con la Svizzera sullo scambio
di informazioni rilevanti per l’evasione fiscale
che potrebbe mettere finalmente in chiaro
le questioni della trasparenza delle banche
elvetiche e dell’uso delle liste Falciani come
fonti di indagine.
"Più di 120mila nomi di presunti evasori fiscali di tutto
il mondo, con conti correnti a Monaco, Lussemburgo,
Zurigo, Lugano, Jersey, Guernsey, Isole Vergini"
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ESTERI
Giappone, morto l'uomo
che non si arrese agli Americani
Hiroo Onoda, il soldato ‘fantasma’ dell’Esercito Imperiale Giapponese
era diventato leggenda per la sua strenua e personale battaglia
Marco Ferretti
Hiroo Onoda, militare dell’Esercito
Imperiale Giapponese arresosi ‘solo’ l’11
marzo del 1974, è morto il 16 gennaio
scorso all’età di 91 anni per infarto, in
un ospedale di Tokyo dove era stato ricoverato a seguito di un’insufficienza
cardiaca. Onoda era uno dei più noti
soldati ‘fantasma’ giapponesi, fedeli al
rigido codice etico del Bushidō – che
considerava disonorevole consegnarsi al nemico – e arrivati a considerare
come ‘propaganda’ le varie comunicazioni che annunciavano la fine della Seconda Guerra Mondiale, se non volontariamente isolatisi in zone inaccessibili
o in appositi rifugi. Nonostante la resa
giapponese del 2 settembre 1945, l’ex
ufficiale dell’intelligence aveva continuato a ‘combattere’ per circa trent’anni sull’isola filippina di Lubang, dov’era
stato distaccato il 26 dicembre del 1944,
con il compito di ostacolare l’avanzata
nemica. Aveva ricevuto l’ordine di non
arrendersi, a costo della sua stessa vita.
Il 28 febbraio 1945 l’isola subì un attacco nemico che annientò quasi tutte
le milizie nipponiche. Onoda e tre commilitoni si nascosero tra le montagne.
Uno dei tre, Yuichi Akatsu abbandonò
il gruppo e grazie i suoi racconti la diplomazia giapponese avviò le ricerche
degli altri superstiti. Nel 1952, furono
lanciate lettere e foto di famiglia da un
aereo per cercare di convincere gli altri
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soldati ‘fantasmi’ a cessare le ostilità. Le
notizie della fine del conflitto non furono ritenute attendibili e i tre continuarono a vivere di furti di viveri e vestiti a
danno dei cittadini filippini. A seguito
della morte dei suoi due compagni in
scontri a fuoco, Onoda rimase da solo.
Nel 1959, il Giappone lo dichiarò legalmente deceduto, ma le ricerche continuarono. Quindici anni dopo, il militare fu arrestato nella giungla dell’isola,
ma nessuno riuscì a convincerlo che
l’Esercito Imperiale Giapponese fosse
stato definitivamente sconfitto. Quan-
do fu avvicinato dal suo ex comandante, Yoshimi Taniguchi, che gli ordinò di
deporre le armi, Onoda mise davvero
fine alla sua ‘personale’ guerra, venendo, però, accolto in patria con tutti gli
onori.
Non riuscendo a riambientarsi, Onoda emigrò in Brasile, scrisse un libro intitolato “Non Mi Arrendo. I Miei Trent’Anni
Di Guerra Nella Giungla Delle Filippine”
(1975) che divenne un bestseller e, rientrato in Giappone nel 1984, fondò persino una scuola per bambini, la Shinzen
Juku Onoda.
"Onoda era un soldato ‘fantasma’, fedele al rigido
codice etico del Bushidō che considerava disonorevole
consegnarsi al nemico"
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ATTUALITÀ
La bambina che vuole distruggere
la schiavitù con la limonata
Il sogno di Vivienne è diventato realtà: dal chiosco di limonata alla start up.
Storia di una bambina che voleva eliminare la schiavitù
{
Ludovica Liuni
Sembrava uno di quei sogni d’infanzia
destinati ad essere dimenticati dopo qualche ora, come si addice a qualsiasi bambina
della sua età.
Ma Vivienne Harr, 8 anni, non è una ragazzina come tutte le altre. Così, dopo aver visto
la foto di due bambini schiavizzati in Nepal,
si è messa in testa di vendere limonata per
raccogliere centomila dollari da destinare
alla lotta alla schiavitù.
I chioschi sono una pratica diffusissima
tra i bambini statunitensi e notoriamente
poco proficua. Non per Vivienne, che dopo
aver allestito un banchetto davanti alla sua
abitazione, è rimasta lì per 365 giorni consecutivi, superando ogni avversità climatica.
Nessun prezzo prestabilito, l’offerta dipende dal buon cuore delle persone. D’al-
tronde il suo motto è “La compassione non
é compassione senza azione”. Nonostante
la tenera età, la bambina ha capito che per
dare voce alla sua iniziativa era necessario
pubblicizzarla attraverso i social network.
Così, tramite Twitter, ha deciso di scrivere al giornalista del New York Times
Nicholas Kristof:
“Ciao sono una bambina di 8 anni e sto
vendendo limonata contro la schiavitù fino
a quando arriverò a 100.000 dollari”
È il contatto giusto: la sua storia ottiene
grande risonanza e l’allora sindaco di New
York, Rudolph Giuliani, le permette di spostare il suo banchetto a Times Square. Da
quella posizione raccogliere 100.000 dollari
è molto più semplice; ma una volta raggiunto il suo traguardo si rende conto che la som-
ma non è sufficiente a vincere la schiavitù.
Nemmeno un attimo di smarrimento per
Vivienne; il successo ottenuto la spinge a
continuare nel suo eroico progetto. Nel giro
di un anno le limonate le fanno guadagnare
oltre un milione di dollari e le permettono di
aprire una start up. Oggi la Lemon-Aid Make
a Stand, questo il nome scelto da Vivienne,
è un’azienda vera e propria e i suoi prodotti
sono distribuiti sul web e in 165 negozi.
Nonostante la grande popolarità raggiunta, lo spirito dell’impresa resta lo stesso:
ogni bottiglia venduta serve ad aiutare un
bambino e a mettere fine una volta per tutte
alla schiavitù.
R
Quindicinale della Scuola
Superiore di Giornalismo
“Massimo Baldini”
Direttore responsabile
Roberto Cotroneo
Ufficio centrale
Chiara Aranci, Emiliano Condò,
Francesco Festuccia, Irene Pugliese
Progettazione grafica e impaginazione
Claudio Cavalensi
Redazione
Viale Pola, 12 - 00198 Roma
tel. 06.85225358 - fax 06.85225515
Stampa
Centro riproduzione dell’Università
"Oggi la Lemon-Aid Make a Stand è un’azienda vera
e propria e i suoi prodotti sono distribuiti sul web
e in 165 negozi"
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Reg. Tribunale di Roma n. 15/08
del 21 gennaio 2008
[email protected] - www.reporternuovo.it
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