R Anno VII - Numero 3 - 24 gennaio 2014 eporter nu ovo Inchiesta Il vaccino che uccide i soldati Tunisia Rivoluzione tradita o ultima speranza? Cultura Francia, attori e paura Attualità Distruggere la schiavitù con la limonata Le mille verità su stamina La storia della fondazione di Davide Vannoni, che ha promesso di curare terribili malattie degenerative con le cellule staminali. Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli R 7 3 Cura miracolosa o truffa? Le mille verità su stamina La storia della fondazione di Davide Vannoni, che ha promesso di curare terribili malattie degenerative con le cellule staminali. A prezzi altissimi e, secondo gli inquirenti, con un metodo che non è scientifico e che non cura i pazienti 6 Il vaccino che uccide i soldati: condannato il Ministero della Salute Una sentenza stabilisce il nesso tra le vaccinazioni e i casi di tumore tra militari. Ai familiari di Finassi riconosciuto un indennizzo attorno ai 150mila euro Luca, Marco e gli altri: reduci di guerra morti di cancro 9 Quando i soldati non muoiono in guerra. Uranio impoverito nei proiettili, poligoni inquinanti e vaccini mortali 11 Tunisia: rivoluzione tradita o ultima speranza araba? A tre anni dalla rivoluzione che ha aperto le primavere arabe, la Tunisia riflette su sogni traditi e ultime speranze. Coups de théâtre à Paris:: attori e paura Fra antisemitismo, tagli alle sovvenzioni e gesti estremi, il teatro francese vive un periodo particolarmente caldo, ma si tratta di atti isolati o il malessere è diffuso? 13 12 Nuova lista "Falciani": 120mila evasori, migliaia italiani Nell’inchiesta del Sole 24 Ore i nuovi documenti sugli evasori fiscali delle filiali Hsbc di tutto il mondo Giappone, morto l'uomo che non si arrese agli Americani Hiroo Onoda, il soldato ‘fantasma’ dell’Esercito Imperiale Giapponese era diventato leggenda per la sua strenua e personale battaglia 14 La bambina che vuole distruggere la schiavitù con la limonata Il sogno di Vivienne è diventato realtà: dal chiosco di limonata alla start up. Storia di una bambina che voleva eliminare la schiavitù SOMMARIO R POLITICA IN PRIMO PIANO Cura miracolosa o truffa? Le mille verità su Stamina La storia della fondazione di Davide Vannoni, che ha promesso di curare terribili malattie degenerative con le cellule staminali. A prezzi altissimi e, secondo gli inquirenti, con un metodo che non è scientifico e che non cura i pazienti Anna Madia Si chiama Stamina. Ma si può leggere in tanti modi. Per le famiglie, come la sola, possibile cura per terribili malattie neurodegenerative. Per il Ministero della Salute e il mondo della scienza, come un colossale inganno, l’antiscienza venduta come scienza. Per il pubblico ministero, come una semplice truffa. Cosa si nasconde dietro la fondazione di Davide Vannoni? LESTORIE,LEPROMESSEDIGUARIGIONE,ISOLDI La piccola Nicole De Matteis era una dei tanti pazienti di Davide Vannoni. Ma è un paradigma per capire cosa sia successo nell’arco di questi anni. La madre, Grazia Neri, racconta a La Stampa di essersi rivolta alla fondazione perché non voleva arrendersi a quel che le dicevano i medici. L’illusione iniziale, però, le si ritorce contro:“Vannoni ci aveva promesso che Nicole avrebbe iniziato a parlare, a camminare, che avrebbe potuto anche togliere il pannolino. Non è vero, non è vero nulla”. La madre insiste a lungo con le infusioni. Di miglioramenti, però, neanche l’ombra, così alla fine la donna apre gli occhi. Anche perché scopre che alcune immagini della figlia sono state pubblicate sul web senza permesso. Il marito, Nicola, aggiunge dettagli sconcertanti alla vicenda:“Ci hanno fatto indebitare per 47 mila euro e quando ho detto che non ce la facevamo più a pagare mi sono anche sentito rispondere di mandare mia moglie a prostituirsi”. Come quella di Nicole, tante altre famiglie hanno sperato che il metodo Vannoni potesse funzionare. E hanno perso tutto. COME TUTTO È COMINCIATO L’intera storia comincia quando Davide Vannoni, un lavoro nel settore della comunicazione, la chioma folta, il viso segnato da una paresi facciale, si avvicina improvvisamente alla medicina. Vannoni non è un medico, ma ha conosciuto due biologi in Ucraina, ed è a loro che chiede di collaborare ad una ricerca sulle cellule staminali. Così, a poco a poco, ai propri Call Center aggiunge qualcos’altro. Lo fa anche grazie all’iniziale nulla osta delle istituzioni regionali: dell’allora presidente della Regione Mercedes Bresso, del vice presidente Paolo Peveraro e dell’assessore Andrea Bairati (il figlio di una collaboratrice di quest’ultimo, in particolare, lavorava per Cognition di Vannoni). Ma la stessa Regione Piemonte, dopo il primo sì a Stamina e un imminente finanziamento di 500 mila euro, si tira indietro. Accade quando l’assessore Bairati viene a sapere che i dipendenti di Vannoni stanno per denunciarlo. Vannoni, già rinviato a giudizio per tentata truffa, decide di andare avanti comunque. Lo fa nel sottoscala dei locali della propria società. “Un laboratorio buio, senza areazione, dieci metri quadrati scarsi”, dice un’ex collaboratrice, Rebecca P., a La Stampa. Sembra impossibile, eppure succede davvero. E quasi impossibile è anche immaginare che, al buio di un sottoscala, decine e decine di persone possano credere di trovare una luce per la malattia. Ma è così. I pazienti aumentano e vengono accolti l’uno dopo l’altro da quel Vannoni che si fa chiamare neuroscienziato e che mostra loro filmati di presunte guarigioni. A fianco del fondatore di Stamina c’è il neurologo Leonardo Scarzella, incaricato di visitare i pazienti e dare il via libera ai trattamenti. LE PRIME DENUNCE – Tutto fila liscio fino al 2009. Arrivano allora, però, le prime denunce. Quella del padre di Paola P., per esempio, che ora racconta di un Vannoni che vuole 50 mila euro, che promette la guarigione all’87% con una sola puntura, che chiede di non fare § 3 "L’accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla somministrazione pericolosa di farmaci". R 5 IN PRIMO PIANO pubblicità, essendo la “procedura chirurgica in Italia vietata”. Che esige il pagamento con un bonifico sul conto personale. Vittime accertate: 68. La somma che si stima incassata: 1 milione 836 mila euro. L’accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla somministrazione pericolosa di farmaci. E al centro del sistema sarebbe Davide Vannoni, perché, scrive il Nas, “la sua condotta è stata menzognera, falsa, al limite del grottesco”. BRESCIA APRE LE PORTE A STAMINA Ma, nonostante gli ostacoli, la corsa prosegue: dai sottoscala dei call center e dai centri estetici fino agli Spedali Civili di Brescia. Vannoni riesce ad entrare, cioè, in una struttura pubblica, ritenuta un buon esempio della sanità italiana. Come? Il sospetto degli inquirenti è che ci siano dei pazienti “eccellenti” che vogliono le cure: il direttore vicario della sanità lombarda Luca Merlino e il cognato della direttrice sanitaria Ermanna Derelli. È lo stesso braccio destro di Vannoni, Marino Andolina, a confessarlo a Presa Diretta di Riccardo Iacona: “Abbiamo perciò deciso di curare prima i raccomandati, così poi saremmo riuscire a far entrare i nostri bambini”. Solo due o tre medici, a Brescia, sarebbero in realtà al corrente di quanto accade: quelli che si occupano della sperimentazione. Anche le procedure usate sarebbero tutt’altro che trasparenti: molti malati non vengono registrati e pagano sottobanco la propria quota; inoltre, non si sa cosa venga iniettato ai pazienti, non essendo disponibile un protocollo di Stamina. Ecco perché, ora, la Procura indaga su otto medici del personale. Ed è opinione comune che la fondazione non possa difendersi dietro il paravento del brevetto e della segretezza del protocollo: il brevetto, infatti, non esiste. I GIUDICI CIVILI SBLOCCANO LE CURE Accanto ai protagonisti diretti, poi, ci sono i giudici. Infatti, dopo che l’AIFA dice stop alle sperimentazioni di Brescia (è il 15 maggio 2012), basandosi su un controllo dei Nas e del Centro Nazionale Trapianti, vari giudici civili intervengono per sbloccare la situazione. E consentire la ripresa dei trattamenti. Il primo a farlo: il giudice del lavoro di Venezia, che definisce le cure di Vannoni compassionevoli. Lo seguono a ruota vari altri colleghi. Ma una cura, per dirsi compassionevole, deve rispettare condizioni rigidissime: non ci devono essere altre cure efficaci; quella cura deve già essere usata in altri Paesi, o oggetto di sperimentazione; devono esistere dati scientifici a suo sostegno; l’ente o laboratorio deve aver lavorato almeno due anni sul preparato; devono sussistere il pericolo di vita, il consenso informato del paziente e un parere favorevole del Comitato Etico. Tanti requisiti, quindi, che insieme andrebbero soddisfatti. Ma quei requisiti c’erano davvero per Stamina? LE INDAGINI DELLA PROCURA – La Procura ritiene di no. E ha allargato a venti il numero degli indagati, includendo alcuni dipendenti degli Spedali Civili di Brescia e della Regione Lombardia. Tra gli iscritti nel registro anche Davide Vannoni, per somministrazione di farmaci imperfetti, esercizio abusivo della professione medica e violazione della legge sulla privacy. Ad allarmare è anche la possibilità che il trattamento non solo non abbia dato un miglioramento reale, semmai apparente, del quadro clinico dei pazienti, ma abbia anche, in alcuni casi, anticipato il decesso. A suggerirlo è il caso del “Paziente 23” che, affetto da atrofia multisistemica, muore in sole due settimane, proprio dopo l’infusione: secondo il “padre di Stamina”, per una polmonite; ma il decesso potrebbe, invece, dipendere proprio dal tratta- mento: l’infusione indurrebbe all’accumulo di cellule nei vasi polmonari e quindi a una grave infezione. Nessuno, però, pensa a chiedere un’autopsia. LA POSIZIONE DELLA SCIENZA – Buona parte del mondo della scienza, intanto, si schiera contro Stamina. Lo ha fatto anche il Comitato Scientifico nominato dal Ministero della Salute, poi “bloccato” dal Tar. Lo fa Elena Cattaneo, senatrice a vita e professore ordinario dell’Università Statale di Milano, che ha parlato di uno scontro fra scienza e antiscienza. E, condannando Stamina (e chi, come il programma televisivo Le Iene, è parso indirettamente appoggiare Vannoni), ha detto alle telecamere di Presa Diretta che “non si può abusare della speranza” dei malati. Ora, la parola passa alla Magistratura. Ma resta il peso dell’operato oscillante delle autorità, che si contraddicono e smentiscono l’un l’altra, mettendo a rischio la propria credibilità. E, soprattutto, resta il danno, enorme, prodotto a decine di famiglie. Che, è vero, si sono fidate di un uomo che del neuroscienziato non aveva nulla. Ma l’hanno fatto perché non vedevano e non avevano alternative. Avrebbero dovuto, probabilmente, poter trovare una risposta sicura e pronta dalle istituzioni. "Buona parte del mondo della scienza si schiera contro stamina" R Il vaccino che uccide i soldati: condannato ministero Salute Una sentenza stabilisce il nesso tra le vaccinazioni e i casi di tumore tra militari. Ai familiari di Finassi riconosciuto un indennizzo attorno ai 150mila euro { INCHIESTA Erica Manniello S ce gl i ere u n a v i t a n el l ’e s erc i to è sce gl i ere i l r i s c h i o. M a n es s un o de i gi ova n i p ro nt i a co mb attere p e r l a p at r i a s i s a reb b e a s p et t ato c he il r i s c h i o p i ù gra n d e l ’av rebbe incont rato p r i ma a n co ra d i us c i re dal l a c a s er ma , n eg l i a mb ulato r i de l l ’e s erc i to d ove ven g o n o s o mm in is t rat i i va cc i n i c h e d ov reb bero re nde re i s o l d at i p i ù fo r t i . Vacc i n i c he, e o ra l o d i ce u n a s e nten za, h anno f at to a mma l a re d i c an c ro p iù d i q u a l c h e mi l i t a re. I l gi a l l o d el l e va cc i n a z i on i mo rt al i s o m mi n i s t rate a i m i l i tar i i tal ia n i è a p p ro d ato a l t r i b un ale d i Fe r rara , c h e h a p er l a p r i ma vo lta r icon o s c i u to i l n es s o t ra l a mo r te di u n s o l d ato e i va cc i n i a c ui era st ato s o t to p o s to. Fr a n c e s c o Fi n e s s i e r a s a n o e fo r t e, m a d o p o i l s e r v i z i o m i l i t a re h a c o n t r a t t o u n t u m o re c h e l o h a u c c i s o a l l ’e t à d i 2 2 a n n i . Ac c a deva nel 2002 e da quella data la m a m m a d i Fr a n c e s c o p o r t a a v a n t i u n a l u n g a b a t t a g l i a p e rc h é ve n g a f a t t a c h i a re z z a s u q u e l l o c h e è accaduto negli ambulatori medici d e l l ’e s e rc i t o. S ol t a nto i er i i l Tr i b u n a l e d i Ferra ra h a d ato ra gi o n e a i s uo i s o sp e t t i : l a s o m mi n i s t ra z i o n e er rata di u n p ro d o t to m ed i co p u ò c aus are il c a n c ro. Le va cc i n a z i o n i fat te ai m ili t a r i s o n o r i s u l t ate t ro p pe e 6 tro ppo rav vi c i n ate, es po n en d o la s alute a grav i r i s c h i . Lo r i co n o s ce la letterat ura s c i enti fi c a e lo aveva r i co n o s c i uto an c h e la co mmi s s i o n e d el S en ato c h e s e n e era a s uo tempo o cc up at a. U n n es s o fat ale, c h e vale un a co n d an n a i n pr i mo grad o al M i n i s tero d ella s alute, c h e d ov rà r i s arc i re la fami g li a d el gi ovan e co n un i n d en n i zzo d i c i rc a 1 5 0 . 0 0 0 euro. No n è l ’ un i c a mo r te mi met i c a mi s ter i o s a q uella d i Fran ces co. Po trebbero es s ere mi g li ai a le fa- miglie di militar i con una stor ia simile, ma ne ssun tr ibunale ave va ancora re so loro giustizia. S olo sile nzio o dinie ghi da par te de i ministe r i de lla S alute e de lla Dife sa e da par te de i me dici che inie tta vano ve le no ne lle ve ne de i militar i. Vole vano re nde r li macchine da gue r ra ma il mito de l supe ruomo non ha re tto il conf ronto con le re altà de i f atti. Ancora non com paiono i nomi de i me dici re spon sabili ma le var ie Procure stanno prose gue ndo le indagini. "Le vaccinazioni fatte ai militari sono risultate troppe e troppo ravvicinate, esponendo la salute a gravi rischi" R { INCHIESTA Luca, Marco e gli altri: reduci di guerra e morti di cancro Quando i soldati non muoiono in guerra. Uranio impoverito nei proiettili, poligoni inquinanti e vaccini mortali Claudia Guarino Luca Sepe aveva 27 anni quando è morto. Grado primo caporal maggiore. Esercito italiano. Era malato. Aveva un linfoma Hodgink, in parole povere un tumore. Era stato in missione nei Balcani, in Kosovo per la precisione. E non aveva un equipaggiamento adeguato: “Erano zone con climi rigidi, quindi mi davano il supplemento di vestiari per climi rigidi, quando avrebbero dovuto darmi pure il supplemento per le cose chimiche, invece, neanche una maschera, zero. Solo i guanti, ma quelli di lana”. Si riferiva all’uranio impoverito contenuto in alcuni proiettili, è quello che gli ha causato la malattia, sosteneva. Marco Diana si è ammalato di cancro quando aveva 29 anni. Grado maresciallo. Sardo. Adesso è morto. È stato in missione in Somalia. Si è sempre chiesto se il suo male fosse causato dai proiettili maneggiati in dieci anni di carriera militare. Ha toccato sostanze tossiche: mercurio, cromo, cadmio, arsenico, piombo e uranio impoverito, tra le altre. Salvatore Donatiello è casertano. Grado sergente. Anche lui si è ammalato di linfoma di Hodgkin. Lo ha scoperto durante le esercitazioni al poligono di Capo Teulada, in Sardegna: «dormivamo e mangiavamo nelle tende, camminavamo su terreni non bonificati e c’erano dappertutto resti di proiettili di ogni tipo, anche americani». Angelo Ciaccio invece è caporal maggiore scelto. È stato in missione in Bosnia, Kosovo e Iraq. È malato di leucemia, ha fatto il trapianto di midollo osseo e decine e decine di sedute di chemioterapia. Salvatore Cannizzo è catanese, ha 36 anni. Ha prestato servizio in Marina Militare e ha un tumore al cervello. In Kosovo si è esposto alle radiazioni di uranio impoverito. “Ricordo che durante una campagna c’era stato un carro radar che era stato bombardato con proiettili d’uranio, ma noi a quei tempi non conoscevamo gli effetti dell’uranio impoverito, eppure mi era sembrato strano che i nostri colleghi americani fossero equipaggiati con tute e maschere particolari”. Fabio Maniscalco è morto di cancro al pancreas nel 2008. E’stato in missione in Bosnia. Dalle sue testimonianze si apprende di come sia stato spesso in contatto con metalli pesanti e uranio impoverito. La chiamavano sindrome dei Balcani. Molti militari tornati dalle missioni di pace in quella zona si sono ammalati di varie forme di cancro, dai linfomi alla leucemia. Per di- "Molti militari tornati dalle missioni di pace in quella zona si sono ammalati di varie forme di cancro" 7 R 8 INCHIESTA verso tempo si è fatta strada l’ipotesi di un nesso tra quelle malattie e l’utilizzo di materiali tossici impiegati nelle armi. In particolar modo si è data la colpa all’uranio impoverito presente nei proiettili, che avrebbe contaminato gli organismi dei soldati al fronte. Polveri mortali. Soldati che, si diceva, se non morivano in guerra erano vittima delle loro stesse armi. Il primo a morire fu Salvatore Vacca, nel 1999, al rientro dalla Bosnia. Si è parlato anche di un Esercito italiano non pronto a maneggiare tali armi, non aveva le attrezzature. A differenza di altre truppe, non aveva in dotazione né guanti, né mascherine, né tute adatte ai materiali con cui entrava in contatto. Il condizionale è d’obbligo perché, si dice, non si è in grado di dimostrare il nesso tra le malattie e le morti dei soldati tornati dalle missioni e l’uranio impoverito. A questo proposito si sono susseguite tre commissioni parlamentari d’inchiesta. Sono arrivate pressappoco alle medesime conclusioni. Nel 2000 c’è stata la commissione Mandelli. I militari esaminati che hanno prestato servizio in Bosnia e Kosovo non presentano segni di uranio impoverito. Non è stata riscontrata alcuna connessione tra le due cose. Quella del 2006 conferma. È impossibile stabilire un nesso tra i tumori dei soldati e l’uranio impoverito. La commissione raccomanda comunque maggiori controlli e valutazioni sui rischi chimici potenziali delle armi. Esprime anche l’auspicio che l’uranio impoverito non sia utilizzato a fini bellici, vista la sua natura radioattiva. L’ultima commissione, quella del 2013 conclude che una pluralità di fattori concorrono alla nascita delle malattie dei soldati. Non c’è un nesso stretto e dimostrabile tra queste e l’uranio. A questo punto subentrano due novità: i vaccini dei soldati e le attività svolte nei poligoni militari sul territorio italiano sono pericolosi. Possono causare danni alla salute. Per quanto riguarda i poligoni militari, tra i più importanti in Italia ci sono quelli sardi. Capo Teulada, Capo Frasca e salto di Quirra. Messi spesso sotto accusa per l’alto livello di inquinamento ambientale e per l’elevato tasso di tumori che si manifesta nella popolazione che ci vive a stretto contatto. Attorno al salto di Quirra si ammalano tutti, non solo i militari che lavorano al poligono "Alcune inchieste mostrano che l’85 per cento dei militari ammalati non è mai stato all’estero" di tiro. Fioccano tumori maligni e malattie alla tiroide anche tra la popolazione civile. Si è parlato anche di agnelli nati con un occhio solo e con mostruose alterazioni. Di bambini venuti al mondo già malformati e menomati. Il poligono è diviso in due aree. Quella del mare, verso cui avvengono i lanci di missili terra aria che colpiscono bersagli simulati. E quella a terra, che è invece utilizzata per esperimenti con elicotteri, mezzi corazzati e artiglieria. Fino al 2003 sono stati lanciati anche i missili anticarro Milan, poi ritirati perché considerati pericolosi a causa del rilascio di torio radioattivo. E poi ancora, negli addestramenti al poligono i militari usano proiettili e granate al fosforo e all’uranio impoverito. Il Procuratore Domenico Fiordalisi nel 2012 ha aperto un’indagine su 20 persone, tra cui alcune provenienti dagli alti ranghi dell’esercito. Questo in seguito ai risultati delle analisi svolte sul territorio, che hanno portato alla luce dati allarmanti sul poligono, come la presenza di torio radioattivo. I poligoni di Capo Teulada e Capo Frasca sono meno noti, ma anche qui abbondano le esercitazioni militari di tiro. E sono stati anch’essi al centro di un dibattito per le problematiche connesse al loro impatto ambientale e sanitario. Non solo uranio impoverito e materiali tossici e radioattivi. Anche i vaccini possono essere killer per i soldati. Ne aveva parlato la commis- sione parlamentare del 2013. E da qui è partito un dibattito che è ancora piuttosto aperto. Sarebbero i vaccini a indebolire il sistema immunitario dei militari, aprendo le porte a tutta una serie di malattie. Questo succede a maggior ragione se vengono esposti a materiali tossici come l’uranio impoverito, ma capita anche venendo a contatto con le esalazioni di una discarica o agenti chimici fuoriusciti da una fabbrica. Alcune inchieste mostrano che l’85 per cento dei militari ammalati non è mai stato all’estero. I vaccini indebolirebbero a tal punto l’organismo che si può morire anche in Italia e senza venire a contatto con l’uranio o il torio. I genitori di molti militari deceduti in tempo di pace ritengono che i figli fossero stati vaccinati senza indagare in profondità sul loro stato di salute. Senza sapere se fosse effettivamente necessario un tipo di vaccino anziché un altro. C’è di più, sui loro libretti vaccinali sarebbero state segnate visite mediche mai effettuate. Lavorare per morire. Cercando di schierare il fuoco incrociato dei proiettili, delle sostanze tossiche e dei vaccini. Quando hai davanti un nemico, dovresti sapere contro chi combatti. Quando ti uccide ciò che dovrebbe salvarti, è tutta un’altra storia. R Tunisia, rivoluzione tradita o ultima speranza araba? A tre anni dalla rivoluzione che ha aperto le primavere arabe, la Tunisia riflette su sogni traditi e ultime speranze. { ESTERI Francesca Ferri I gelsomini sembrano appassiti. Il 14 gennaio la Tunisia ha festeggiato il terzo anniversario dalla rivoluzione che ha portato alla destituzione del dittatore Ben Ali, ma ancora non si sa se contare i fallimenti o festeggiare i progressi. Sicuramente nelle strade di Tunisi non si respira più l’euforia della notte del 13 gennaio 2011, in cui Ben Ali annunciò la caduta del regime dopo un mese di proteste: non si sente più lo strombazzare dei clacson e il risuonare dei canti di gioia. Il silenzio è ritornato a Tunisi, ma è un silenzio dal gusto amaro della delusione. Se all’estero si guarda al modello tunisino come l’ultima speranza della primavera araba, il paese dei gelsomini langue nella disillusione della rivoluzione tradita e rimane in attesa di una nuova costituzione. Il suicidio di Mohamed Boauzizi il 17 dicembre 2010 fu la scintilla del grande incendio che poi si propagò tra le sorelle arabe. Il giovane commerciante ambulante si era dato fuoco davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid per protestare contro il sequestro della propria merce da parte delle autorità. Al venditore tunisino rispose l’uomo che in Egitto si diede fuoco il 17 gennaio 2011. Gesti estremi che volevano urlare ai governanti l’insofferenza per il regime politico, e in Tunisia esprimere frustrazione per la disoccupazione, la corruzione della polizia, l’indifferenza delle autorità sempre più concentrate sui loro interessi e la preoccupazione per il rialzo dei prezzi dei beni primari. Al grido d’allarme, la popolazione tunisina rispose con un crescendo di manifestazioni, che furono severamente represse dalla polizia, provocando l’effetto contrario di intensificare le proteste. I figli di Bourguiba urlavano slogan pragmatici e concreti, come “erhal”, “via subito”, chiedevano pluralismo politico, laicità e democrazia, 9 evitando ogni richiamo all’islam. I tunisini del secondo millennio non sono gli algerini degli anni ’70, sono consapevoli che l’islam non è un’ideologia politica in grado di creare un ordine migliore. Sanno che l’islam politico ha fallito sempre e ovunque: in Tunisia come negli altri paesi arabi. Il 10 gennaio 2011 sindacalisti, avvocati, studenti e disoccupati sono scesi in piazza in quasi ogni città della Tunisia. Il presidente Ben Ali promise 300.000 posti di lavoro e l’elevazione del livello di vita, senza però mostrare alcuna compassione per le vittime della protesta, che vennero addirittura accusate di atti di terrorismo. Le manifestazioni dilagarono a macchia d’olio "Uno slogan della rivoluzione" e la repressione si fece sempre più acuta. Poi la sera stessa, Ben Ali pronunciò un discorso per la prima volta in arabo tunisino per tentare un riavvicinamento al popolo: il presidente condannò l’uso della violenza nella repressione delle proteste e promise di punire i responsabili, poi confessò di aver commesso degli errori perché mal consigliato sul reale stato del suo paese. Promise inoltre, libertà di stampa e d’espressione anche sul web, annunciò elezioni anticipate a cui assicurò di non presentarsi. Poi la sera stessa arrivarono puntuali gli spargimenti di sangue ad opera delle squadre antisommossa, continuarono a moltiplicarsi i feriti, i morti e gli arresti per l’eccessiva libertà che si erano presi i cittadini che avevano denunciato sul web gli sconvolgimenti della rivoluzione. Il 14 gennaio, 60.000 manifestanti sull’Avenue Bourguiba urlavano “Ben Ali assassino”, “Ben Ali vattene”. Alle ore 18 dello stesso giorno, il Consiglio Costituzionale dichiarava decaduto Ben Ali, che fu costretto ad abbandonare il Paese. Il paese arabo più progressista, a distanza di tre anni dalla rivoluzione si chiede se ammettere il fallimento della rivolta o celebrare i progressi ottenuti.“Rien a changé”,“niente è cambiato”, è il refrain di Sana Ziadi, dottoranda tunisina in biotecnologia, figlia di uno dei fondatori del partito comunista tunisino (PCOT), creato nel 1986, che oggi ha cambiato nome in partito dei lavoratori. Niente è cambiato, ripete Sana, con la stessa monotonia di una nenia araba. Alla grande emozione dell’inizio è subentrata una grande delusione. Oggi la Tunisia discute della nuova Costituzione, che sarà approvata nei prossimi giorni e attende le nuove elezioni. Certamente, mentre l’Egitto e la Siria sono state sconvolte dalla controrivoluzione, la Tunisia sembra aver capito il valore della solidarietà. Acerrimi nemici politici hanno deciso di parlarsi: dal Fronte popolare agli islamisti, gli attori politici tunisini hanno scelto il dialogo. In un clima di tensione crescente e di crisi politica, in seguito all’assassinio dell’oppositore Mohamad Brahmi, il 25 luglio 2013, gli islamisti del partito Ennahda hanno accettato di cedere il potere esecutivo. Il primo ministro islamista Ali Larayedh ha dato le dimissioni, lasciando il posto all’indipendente Mehdi Jomaa, in attesa delle elezioni del 2014. Il partito R ESTERI "Dal Fronte popolare agli islamisti, gli attori politici tunisini hanno scelto il dialogo" dell’Ennahda dichiara di aver lasciato il governo per una propria scelta etica, per favorire il processo democratico del Paese. Ma i tunisini non si lasciano ingannare, riconoscono il gioco strategico degli islamisti che preparano il loro ritorno alle prossime elezioni e, intanto ostacolano l’approvazione della nuova costituzione. Una costituzione rivoluzionaria, secondo le parole di Tahar Ben Jelloun. Per la prima volta un paese arabo ha iscritto nella costituzione l’uguaglianza tra uomo e donna, la libertà d’espressione e di coscienza, rifiutando la sharia. Parità di diritti tra uomo e donna vuol dire abolire la poligamia, il ripudio e tutti i privilegi dell’uomo sulla donna, come quello dell’eredità che attribuirebbe alla donna metà della quota dell’uomo, secondo le leggi dell’Islam. L’uguaglianza di diritti è il primo passo verso la democrazia, frutto di una costruzione sociale ancor prima che una legislazione politica. Se si pensa che la parità di diritti è iscritta solo nella costituzione di tre paesi scandinavi, si comprende quanto sia innovativa la proposta tunisina. E se in certa Europa in cui ancora resiste una visione maschilista della società, la Tunisia sem- 10 bra fare un enorme passo verso la modernità. Ma è precisamente quell’uguaglianza, il terrore degli islamisti, che nascondono dietro l’imposizione del velo alle donne la paura di perdere la loro supremazia codificata dalla prassi di secoli prima ancora che dal Corano. E guardano all’Occidente come la prova di modernità, che con la sua liberalizzazione dei costumi avrebbe provocato la distruzione della cellula familiare, fa notare ancora Tahar Ben Jelloun. In un clima postrivoluzionario di tensione costante, aumenta il numero delle donne vicine ai salafisti che portano il niqab, il velo che lascia scoperti solo gli occhi. Come in ogni momento di instabilità, ci si rifugia nella tradizione, ma tra religione e fondamentalismo il passo è breve. Se la Costituzione tunisina verrà approvata sarà un grido di vittoria sulle primavere arabe tradite. Una marcia verso la democrazia a cui i paesi occidentali stanno a guardare con interesse, che passa attraverso una graduale presa di coscienza sociale e culturale prima che politica. La Tunisia sembra essere sulla giusta via, ma i media tunisini hanno un’aria ben più allarmista. La Tunisia guarda alle proprie speranze infrante, e con amarezza assiste, ormai stanca, ai soliti dibattiti politici inconcludenti, alla disoccupazione incessante, al tasso di cambio del dinar crescente. E c’è anche tra i giovani, chi preferirebbe la stabilità dei tempi di Ben Ali alla libertà tradita. Per ora l’unico cambiamento generato dalla rivoluzione sembra la libertà d’espressione, non solo per i giornalisti ma per tutti i cittadini. Manifestare in pieno giorno davanti ai palazzi delle istituzioni, riportare e denunciare sul web scandali e assassini è un evidente segno del nuovo vento portato dalla rivoluzione. “La Tunisia sta lottando per il proprio sviluppo economico, ma il Ramadan ritarda questa lotta”, affermò il presidente Bourguiba, che ebbe il coraggio di presentarsi con un bicchiere di succo d’arancia ad un discorso nei giorni di Ramadan del ‘56. I gelsomini, amareggiati e delusi, non dimenticano però, le parole del presidente Bourguiba, che per primo avviò il percorso di modernizzazione e laicizzazione della Tunisia. Nonostante l’apparente silenzio ci sono speranze che la primavera tunisina non si trasformi in un freddo inverno. R Coups de théâtre à Paris: Francia, attori e paura Fra antisemitismo, tagli alle sovvenzioni e gesti estremi, il teatro francese vive un periodo particolarmente caldo, ma si tratta di atti isolati o il malessere è diffuso? Eugenio Murrali La Francia non si deve preoccupare soltanto delle vicende sentimentali del presidente, ma anche delle intemperanze degli attori, capaci di gesti estremi. Due folli colpi di scena - Lo scorso 26 dicembre il direttore de La comédie italienne, il regista pugliese Attilio Maggiulli, si è lanciato con la sua auto contro il cancello dell’Eliseo, il giorno prima aveva dato fuoco a un Arlecchino e distribuito volantini contestando i tagli al suo teatro. Lunedì sera invece il comico Dieudonné avrebbe sparato proiettili di gomma contro un ufficiale giudiziario che era andato a recapitargli delle multe. L’Arlecchino di Parigi - Attilio Maggiulli è stato allievo di Strehler e più di quarant’anni fa si è trasferito in Francia dove ha studiato con il grande mimo Lecoq. Dopo aver lavorato al Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, nel 1974 insieme all’attrice Hélène Lestrade dà vita al Teatrino Italiano di Montparnasse, mentre nel 1980 trasforma un vecchio co- "La comédie Italienne a Parigi" 11 { missariato al numero 17 di rue de la Gaité e fonda così La Comédie Italienne, una graziosa sala di 100 posti, unico teatro italiano in Francia. Il regista è un punto di riferimento importante per l’insegnamento della Commedia dell’Arte e sulle assi del suo palcoscenico vengono rappresentati testi italiani in lingua francese. Il precedente - Nel 1999 Maggiulli inviò una Supplica del povero Arlecchino a Chirac e a Jospin, all’epoca rispettivamente Presidente e Primo Ministro, per comprare gli spazi sui giornali aveva venduto i costumi della Commedia dell’Arte offertigli dal Piccolo di Milano e dal Teatro alla Scala. In attesa di una risposta il regista fece lo sciopero della fame e alla fine al suo teatro è stato riconosciuto lo statuto di Teatro d’ Arte, con le relative sovvenzioni. Il sistema teatrale francese – In Francia i lavoratori dello spettacolo godono di un regime particolarmente favorevole se comparato al nostro, benché negli ultimi anni i tagli alla cultura stiano minacciando questo sistema virtuoso, noto col nome di Intermittence du spectacle. In Francia il lavoratore dello spettacolo che abbia totalizzato 507 ore retribuite in 10 mesi e mezzo (10 se tecnico o operaio) ha diritto a uno speciale indennizzo di disoccupazione pari a 243 giorni lavorativi. Le vicende di Dieudonné - Tutta diversa la storia di Dieudonné M’bala M’bala. Nelle ultime settimane il comico è stato al centro di accese polemiche per il suo spettacolo Le Mur, che il Consiglio di Stato francese ha vietato a causa dei contenuti antisemiti. Lunedì sera un ufficiale giudiziario, forse con un collega, si sarebbe presentato a casa CULTURA di Dieudonné per recapitargli 65.000 euro di multe. L’impiegato ha raccontato che, avendo capito che nessuno gli avrebbe aperto, se ne stava andando, quando ha sentito l’esplosione di un colpo. Dieudonné, interrogato, ha detto di non essere in casa. Secondo la deposizione della moglie dell’umorista, l’ufficiale giudiziario avrebbe tentato di superare la palizzata, ma lei e il servizio di sicurezza gli avrebbero chiesto di allontanarsi. Ora Dieudonné non è più in stato di fermo, ma nella sua casa è stata trovata un’arma ad aria compressa. L’opinione - Su antisemitismo e violenza non è neanche il caso di soffermarsi, Gad Lerner pensa persino che censurare Le Mur “sia inutile e controproducente”, preferirebbe manifestazioni pacifiche davanti ai teatri. Quanto al gesto di Maggiulli, Lerner sul suo blog parla di “patologia della protesta spettacolare”: “Fa paura questa ricerca esasperata del gesto spettacolare per affermare una priorità di diritti violati. L’ultimo della serie è Attilio Maggiulli, direttore del teatro parigino “Comédie Italienne”, che per protestare contro il taglio dei fondi subito dall’ente con cui evidentemente ha sviluppato un legame abnorme, ha pensato bene di infrangersi con l’automobile contro la cancellata dell’Eliseo. Una sproporzione folle tra ragioni legittime di protesta e bisogno patologico di manifestarle” In Francia il dibattito è aperto e vivace e investe tanto i diritti dei lavoratori dello spettacolo quanto il problema della libertà di espressione. Beato il Paese di Voltaire che sa ancora interrogarsi e mettersi in discussione! R SOCIETÀ Nuova lista "Falciani": 120mila evasori, migliaia italiani Nell’inchiesta del Sole 24 Ore i nuovi documenti sugli evasori fiscali delle filiali Hsbc di tutto il mondo Stefano Intreccialagli Più di 120mila nomi di presunti evasori fiscali di tutto il mondo, con conti correnti a Monaco, Lussemburgo, Zurigo, Lugano, Jersey, Guernsey, Isole Vergini. Migliaia di nomi sarebbero anche italiani. È la nuova “lista Falciani“, il documento trafugato dal tecnico informatico italo-francese Hervé Falciani che ha raccolto centinaia di migliaia di dati di correntisti del gruppo bancario HSBC. A dare la notizia è stato il Sole 24 Ore, che questa mattina ha pubblicato un’inchiesta sulle nuove carte scoperte in questi giorni in Spagna. La storia della prima lista Falciani nasce nel 2009, anno in cui i magistrati francesi scoprono nel computer dell’informatico, a quel tempo dipendente della Hsbc, i file di migliaia di correntisti della sede di Ginevra della banca. Ciò che emerge dall’inchiesta del Sole 24 Ore è che Falciani avrebbe collezionato dati anche di altre filiali in tutto il mondo, la lista dei quali però è rimasta nascosta tutto questo tempo per motivi ancora non definiti. Forse le stesse autorità francesi avevano omesso i dati, troppo compromettenti per la situazione politica francese di quel tempo. Ora, dopo quasi 5 anni, riemergono grazie alle indagini condotte dal giudice Renaud Van Ruymbeke, tra i firmatari dell’Appello di Ginevra contro la corruzione datato 1996. Una storia controversa quella Hervé Falciani. Dopo le vicende della lista, venne arrestato in Spagna nel 2012 su richiesta delle autorità svizzere, ma Madrid non diede l’estradizione per il tecnico italo-francese e nacque una collaborazione con la magistratura spagnola e francese per la lotta all’evasione fiscale. I nomi 12 di evasori spagnoli scoperti sono circa 4.000, per 300 milioni di euro recuperati dal fisco. Falciani collabora anche con gli Stati Uniti che nel 2012 hanno costretto Hsbc a pagare quasi 2 miliardi di dollari di multa record, con l’accusa di riciclaggio di denaro dei narcos messicani e di avere filiali legate al finanziamento del terrorismo internazionale. Per l’Italia la situazione si fa più complicata. La collaborazione con le autorità è stata sempre difficile. Soltanto la Procura di Torino mantiene contatti attivi con l’ex dipendente Hsbc, un legame che ha portato alla raccolta dei nomi dei correntisti italiani. Ma il quadro è più complicato di quanto sembri, dato che molti evasori italiani sono sfuggiti ai pm torinesi grazie all’espediente di utlizzare presta- nome argentini e brasiliani. Il numero si aggira intorno ai 10mila correntisti. La speranza è quella di poterli recuperare, ma il quadro della burocrazia italiana non aiuta: la Corte di Cassazione ha decretato che i documenti, sebbene raccolti in modo illecito, possono essere utilizzati ai fini delle indagini sull’evasione fiscale. Tuttavia la prassi che si è sviluppata è che la scelta sull’uso delle liste come fonti di prova spetti alle Commissioni tributarie. L’inchiesta giunge all’indomani della firma del patto con la Svizzera sullo scambio di informazioni rilevanti per l’evasione fiscale che potrebbe mettere finalmente in chiaro le questioni della trasparenza delle banche elvetiche e dell’uso delle liste Falciani come fonti di indagine. "Più di 120mila nomi di presunti evasori fiscali di tutto il mondo, con conti correnti a Monaco, Lussemburgo, Zurigo, Lugano, Jersey, Guernsey, Isole Vergini" R ESTERI Giappone, morto l'uomo che non si arrese agli Americani Hiroo Onoda, il soldato ‘fantasma’ dell’Esercito Imperiale Giapponese era diventato leggenda per la sua strenua e personale battaglia Marco Ferretti Hiroo Onoda, militare dell’Esercito Imperiale Giapponese arresosi ‘solo’ l’11 marzo del 1974, è morto il 16 gennaio scorso all’età di 91 anni per infarto, in un ospedale di Tokyo dove era stato ricoverato a seguito di un’insufficienza cardiaca. Onoda era uno dei più noti soldati ‘fantasma’ giapponesi, fedeli al rigido codice etico del Bushidō – che considerava disonorevole consegnarsi al nemico – e arrivati a considerare come ‘propaganda’ le varie comunicazioni che annunciavano la fine della Seconda Guerra Mondiale, se non volontariamente isolatisi in zone inaccessibili o in appositi rifugi. Nonostante la resa giapponese del 2 settembre 1945, l’ex ufficiale dell’intelligence aveva continuato a ‘combattere’ per circa trent’anni sull’isola filippina di Lubang, dov’era stato distaccato il 26 dicembre del 1944, con il compito di ostacolare l’avanzata nemica. Aveva ricevuto l’ordine di non arrendersi, a costo della sua stessa vita. Il 28 febbraio 1945 l’isola subì un attacco nemico che annientò quasi tutte le milizie nipponiche. Onoda e tre commilitoni si nascosero tra le montagne. Uno dei tre, Yuichi Akatsu abbandonò il gruppo e grazie i suoi racconti la diplomazia giapponese avviò le ricerche degli altri superstiti. Nel 1952, furono lanciate lettere e foto di famiglia da un aereo per cercare di convincere gli altri 13 soldati ‘fantasmi’ a cessare le ostilità. Le notizie della fine del conflitto non furono ritenute attendibili e i tre continuarono a vivere di furti di viveri e vestiti a danno dei cittadini filippini. A seguito della morte dei suoi due compagni in scontri a fuoco, Onoda rimase da solo. Nel 1959, il Giappone lo dichiarò legalmente deceduto, ma le ricerche continuarono. Quindici anni dopo, il militare fu arrestato nella giungla dell’isola, ma nessuno riuscì a convincerlo che l’Esercito Imperiale Giapponese fosse stato definitivamente sconfitto. Quan- do fu avvicinato dal suo ex comandante, Yoshimi Taniguchi, che gli ordinò di deporre le armi, Onoda mise davvero fine alla sua ‘personale’ guerra, venendo, però, accolto in patria con tutti gli onori. Non riuscendo a riambientarsi, Onoda emigrò in Brasile, scrisse un libro intitolato “Non Mi Arrendo. I Miei Trent’Anni Di Guerra Nella Giungla Delle Filippine” (1975) che divenne un bestseller e, rientrato in Giappone nel 1984, fondò persino una scuola per bambini, la Shinzen Juku Onoda. "Onoda era un soldato ‘fantasma’, fedele al rigido codice etico del Bushidō che considerava disonorevole consegnarsi al nemico" R ATTUALITÀ La bambina che vuole distruggere la schiavitù con la limonata Il sogno di Vivienne è diventato realtà: dal chiosco di limonata alla start up. Storia di una bambina che voleva eliminare la schiavitù { Ludovica Liuni Sembrava uno di quei sogni d’infanzia destinati ad essere dimenticati dopo qualche ora, come si addice a qualsiasi bambina della sua età. Ma Vivienne Harr, 8 anni, non è una ragazzina come tutte le altre. Così, dopo aver visto la foto di due bambini schiavizzati in Nepal, si è messa in testa di vendere limonata per raccogliere centomila dollari da destinare alla lotta alla schiavitù. I chioschi sono una pratica diffusissima tra i bambini statunitensi e notoriamente poco proficua. Non per Vivienne, che dopo aver allestito un banchetto davanti alla sua abitazione, è rimasta lì per 365 giorni consecutivi, superando ogni avversità climatica. Nessun prezzo prestabilito, l’offerta dipende dal buon cuore delle persone. D’al- tronde il suo motto è “La compassione non é compassione senza azione”. Nonostante la tenera età, la bambina ha capito che per dare voce alla sua iniziativa era necessario pubblicizzarla attraverso i social network. Così, tramite Twitter, ha deciso di scrivere al giornalista del New York Times Nicholas Kristof: “Ciao sono una bambina di 8 anni e sto vendendo limonata contro la schiavitù fino a quando arriverò a 100.000 dollari” È il contatto giusto: la sua storia ottiene grande risonanza e l’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani, le permette di spostare il suo banchetto a Times Square. Da quella posizione raccogliere 100.000 dollari è molto più semplice; ma una volta raggiunto il suo traguardo si rende conto che la som- ma non è sufficiente a vincere la schiavitù. Nemmeno un attimo di smarrimento per Vivienne; il successo ottenuto la spinge a continuare nel suo eroico progetto. Nel giro di un anno le limonate le fanno guadagnare oltre un milione di dollari e le permettono di aprire una start up. Oggi la Lemon-Aid Make a Stand, questo il nome scelto da Vivienne, è un’azienda vera e propria e i suoi prodotti sono distribuiti sul web e in 165 negozi. Nonostante la grande popolarità raggiunta, lo spirito dell’impresa resta lo stesso: ogni bottiglia venduta serve ad aiutare un bambino e a mettere fine una volta per tutte alla schiavitù. R Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Direttore responsabile Roberto Cotroneo Ufficio centrale Chiara Aranci, Emiliano Condò, Francesco Festuccia, Irene Pugliese Progettazione grafica e impaginazione Claudio Cavalensi Redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 06.85225358 - fax 06.85225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università "Oggi la Lemon-Aid Make a Stand è un’azienda vera e propria e i suoi prodotti sono distribuiti sul web e in 165 negozi" 14 Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] - www.reporternuovo.it