DOVERE DI COLLABORAZIONE E CONTUMACIA (*)
1. Parlare del dovere di collaborazione nel processo civile a quasi cinquant’anni
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di distanza dalla prolusione che Eduardo Grasso tenne in materia nell’Università di
Catania, poi tradotta nel noto saggio(1) ancora oggi ovunque citato quando si tratta di
questo tema, richiama immediatamente alla mente il brocardo ivi citato in apertura.
Iudicium est actus ad minus trium personarum: actoris, rei, iudicis, questo l’aforisma di
Bulgaro, che riassume il congiunto operare del giudice e delle parti che è l’essenza del
principio di collaborazione quale criterio organizzativo di forze che operano nel
processo(2).
Ad attuare il principio di collaborazione, che ha trovato oggi compiuta
elaborazione normativa nell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., non è sufficiente la
piena esplicazione del principio del contraddittorio. Quest’ultimo infatti, pur
elemento cardinale di rango costituzionale del nostro sistema processuale, è capace di
realizzare solo una sfumata immagine di un sistema di collaborazione( 3), laddove il
sistema normativo sia costruito in modo tale che quest’ultima sia possibile( 4), ma non
positivamente favorita(5).
Così, se il processo è costruito in modo tale da garantire l’uguaglianza delle parti,
nella pienezza del contraddittorio, ma rimane legato a un modello in cui l’attività del
giudice entra in gioco solo nel ruolo solitario di chi decide, non vi è spazio, se non
meramente residuale e volontario, per l’esplicarsi del principio di collaborazione. I
valori in gioco in un modello processuale del genere, pur con la garanzia
costituzionale del diritto di difesa, restano quelli legati agli interessi indiv iduali delle
parti antagoniste, che si confrontano, ognuna responsabile del suo operare. Il giudice
resta invece voce fuori campo, cui è demandato il solo compito autoritativo del
decidere, in uno schema triangolare ove si pone quale vetta solitaria.
Laddove invece il modello processuale voglia favorire la cooperazione tra i
soggetti privati e il giudice, quest’ultimo si porta al livello delle parti nello sviluppo
del dialogo processuale e nella formazione del materiale di causa. L’attività dei tre
soggetti che sono protagonisti del processo si fonde in un’azione combinata e
quando l’intera materia del contendere prima della decisione subisce gli effetti delle
forze esercitate dall’attore, dal convenuto e dal giudice tra di loro in concorso, nei
limiti delle rispettive attribuzioni, il risultato diviene il prodotto di una collaborazione
(*) TESTO PROVVISORIO
(1) Cfr. E. Grasso, La collaborazione nel processo civile, in Riv. dir. proc. 1966, pag. 580 e seg.
(2) Chiovenda e i classici
(3) Così E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 590.
(4) Un sistema normativo in cui la collaborazione è soltanto possibile è, nella sistematica del
saggio citato, quello che trova il suo presupposto essenziale, ma anche il suo unico o principale
mezzo di attuazione, nel principio del contraddittorio. Questo sistema è capace di assicurare
l’equilibrio delle forze in contesa in una concezione della meccanica del processo civile in parte
contraria al suo svolgimento nel senso della cooperazione. Così il contraddittorio è “il mezzo che
consente di scoprire i piani dell’avversario, di neutralizzare le sue azioni, di trarre profitto dai suoi
errori”. La concezione del processo è individualistica e l’ufficio del giudice si risolve nella
pronuncia della sentenza (cfr. E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 592 - 596).
(5) Un sistema normativo in cui la collaborazione è positivamente favorita è invece quello in cui il
materiale di causa si forma nel dialogo tra le parti e il giudice e le innovazioni apportate dal nostro
codice del 1940 nell’organizzazione delle attività processuali, già esprimevano, ad avviso di
Eduardo Grasso, un principio tendenziale di collaborazione integrale (Cfr. E. Grasso, La
collaborazione cit., pag. 599 e seg., con esame delle singole disposizioni che, nel testo del codice
di rito allora in vigore, consentivano di tracciare questa conclusione).
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totale (6). Lo schema organizzativo del processo è allora lineare, perché il giudice si
porta al livello delle parti e l’elaborazione del materiale di causa matura quale frutto
dell’agire congiunto delle parti col giudice. Il dialogo si pone come perno
dell’elaborazione della res in iudicium deducta e i valori in gioco tendono alla
costruzione di un’unica forza operosa che penetra la materia del contendere alla
ricerca delle verità(7).
Lo sviluppo del principio di collaborazione passa attraverso il pensiero dei
classici, per illuminare la formulazione originaria del nostro codice di rito, fino ai
giorni nostri, ove si insedia a pieno titolo con l’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. tra i
principi generali immanenti all’intero sistema del processo civile, nella dinamica del
dialogo tra il giudice e le parti.
Tuttavia, mentre il compito della prolusione da cui ho preso l’avvio era quello di
scandagliare proprio il principio di collaborazione nel processo civile, quello che a
me è stato affidato in questa sede è in larga parte diverso. Il titolo che mi è stato
assegnato non riguarda infatti il principio di collaborazione in sé, ma il suo rapporto
con la contumacia.
Non nascondo che se la collaborazione è data, nella sistematica del processo
civile, dall’operare congiunto dei tre soggetti che ne sono protagonisti nella
formazione del materiale di causa, a prima lettura ho avuto più di una perplessità
nell’inquadrare il tema di cui trattare. Il contumace è per definizione il soggetto che
non si costituisce in giudizio e, se la parola del linguaggio comune non avesse ben
altro significato giuridico, verrebbe da dire il grande assente dalla scena processuale.
Nessun dubbio dunque che sia parte del processo, ma anche che sia ben difficile, in
quanto è parte non costituita, parlare del suo operare congiunto con quello dell’altra
parte e del giudice.
Mi sono poi chiesta a chi dovesse essere riferito il dovere di collaborazione. Se
allo stesso contumace, per riprendere e verificare l’osservazione, oggi diventata un
po’ scontata, che il sistema positivo, che già ai tempi della citata prolusione non
appariva idoneo a favorire l’effettiva partecipazione al processo dei suoi soggetti
naturali(8), dopo il conio del novellato art. 115 cod. proc. civ.(9), pone addirittura il
contumace in posizione privilegiata rispetto alla parte costituita( 10). Oppure, con
maggiore aderenza all’idea che il principio di collaborazione implica l’operare della
parte congiuntamente con gli altri soggetti del processo e non il suo rimanere inerte,
se il dovere stesso dovesse invece riferirsi alla parte costituita e così agli oneri di
notifica che l’art. 292 cod. proc. civ. impone nei confronti del contumace, che
possono essere letti in senso stretto e massimamente restrittivo( 11), oppure ampliati
in una visione non tassativa delle prescrizioni della norma in questione( 12). Da ultimo
e con maggiore aderenza alla nozione di collaborazione delle parti col giudice, di cui
è emblema il novellato art. 101, comma 2, cod. proc. civ., ho pensato che il
riferimento potesse essere anche a un’indagine circa i doveri del giudice di
colloquiare comunque con entrambe le parti, siano le stesse o meno costituite.
(6) Così E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 587.
(7) Così E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 609.
(8) Così E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 590 - 591 sulla base di una lettura restrittiva
dell’art. 292 cod. proc. civ., anche riferita alla dottrina e alla prassi in tema di modificazione della
domanda.
(9) Che riferisce, com’è noto, solo alle parti costituite gli effetti della non contestazione,
generalizzando una nozione già propria del meno nuovo art. 186 bis cod. proc. civ.. Sulla non
contestazione [Nota da completare]
(10) D. D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia nel processo civile, Milano 2012,
prefazione
(11) In questo senso E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 590 - 591 ecc. [Nota da completare]
(12) In questo senso D. D’Adamo, Contributo cit., pag. 94 e seg.
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Credo che tutte le scelte fossero plausibili, ma alla fine quest’ultima mi è parsa la
prospettiva di maggiore interesse, sia perché implica, come si vedrà, anche una presa
di posizione sugli altri due aspetti citati della questione, che sono capaci di influire
notevolmente sulla sua soluzione, sia perché è tema di maggiore attualità, nel suo
legame con una norma che non solo è di ultima generazione, ma è stata anche foriera
di una serie di contributi dottrinali di elevato spessore e portata.
Principale tema di indagine, intorno al quale ruota la soluzione di diverse altre
questioni, sarà dunque il quesito se il dovere del giudice di sottoporre al
contraddittorio delle parti le questioni che rilevi d’ufficio operi solo nei confronti
delle parti costituite, oppure riguardi anche il contumace.
La mia prima risposta istintiva è stata di carattere negativo, ma gli esempi
concreti di ciò che deve essere oggetto del dovere del giudice di cui all’art. 101,
comma 2, cod. proc. civ. mi hanno poi indotto a qualche riflessione dubitativa.
Prendo ad esempio il caso - in consapevole disallineamento con le Sezioni Unite
della Cassazione(13), su questo punto non condivise dai più( 14) - della diversa
qualificazione giuridica dei fatti di causa, mai precedentemente prospettata, ove il
giudice in via solitaria qualifichi in termini di responsabilità extracontrattuale la
domanda pacificamente riportata dalle parti nell’ambito di una prospettiva
contrattuale. In questo caso cambiano notoriamente sul piano degli effetti sia i
termini della prescrizione che gli oneri probatori che gravano sulle parti, che, ancora,
la misura possibile del risarcimento. Si può dunque pensare che tale questione
appartenga a quelle che il giudice deve segnalare alle parti prima di prendere una
decisione della terza via(15), consentendo loro di essere rimesse in termini con
(13) Mi riferisco a Cass., Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20935 che ha risolto il contrasto
giurisprudenziale, di cui infra nel testo, circa le conseguenze di una sentenza c.d. della terza via
nel senso che solo le questioni di fatto, ovvero quelle miste di fatto e di diritto quando siano decise
a sorpresa dal giudice comportano la nullità della sentenza, mentre quelle di puro diritto, pur
comportando la violazione di un dovere “funzionale” del giudice, comporterebbero solo un error
iuris in iudicando, la cui denuncia in cassazione consentirebbe la cassazione della sentenza solo
laddove tale error iuris risultasse in concreto consumato.
(14) Per la convinzione che anche la soluzione a sorpresa di questioni di diritto che importino una
diversa qualificazione della fattispecie rientrino nel dettato dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ.
cfr. C. Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità del vizio nelle sentenze della terza via: a
proposito della nullità, indubbia ma peculiare poiché sanabile allorchè emerga l’assenza in
concreto di scopo del contraddittorio eliso, in Corr. giur. 2010, pag. 355 e seg., in particolare pag.
361; G. Costantino, Questioni processuali tra poteri del giudice e facoltà delle parti, in Riv. dir.
proc. 2010, pag. 1012 e seg., in particolare pag. 1035 - 1036; M. Fornaciari, Il contraddittorio in
seguito a un rilievo ufficioso e la non contestazione (nel più generale contesto della problematica
concernente allegazione, rilievo e prova), in Rass. for. 2011, pag. 527 e seg., in particolare pag.
553; M. Gradi, Il principio del contraddittorio e la nullità della sentenza della “terza via”, in Riv.
dir. proc. 2010, pag. 826 e seg., in particolare pag. 838; D. Buoncristiani, Il nuovo art. 101,
comma 2° c.p.c. sul contraddittorio e sui rapporti tra parti e giudice, in Riv. dir. proc. 2010, pag.
399 e seg., in particolare pag. 409
(15) La soluzione, come chiarito alla nota precedente, è quella prevalente in dottrina. Il punto è uno
di quelli nodali nell’interpretazione dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. perché non risolto dalla
disposizione. Personalmente, pur essendo incline a condividere l’impostazione maggioritaria,
qualche dubbio mi nasce in relazione al principio di autoresponsabilità della parte, se mi confronto
con fattispecie come quella riportata alla successiva nota 18 e riterrei di dover sottoporre la
questione a maggiore elaborazione. In proposito, vi è infatti da chiedersi se, ad esempio, a fronte
dell’allegazione di fatti specifici inquadrabili nell’ambito della responsabilità contrattuale, i doveri
difensivi del convenuto costituito non si estendano ex se, sulla base del principio richiamato, fino a
ricomprendere oneri difensivi collegati ai fatti comunque allegati dall’attore, capaci in una corretta
prospettiva di reggere una diversa qualificazione giudiziale. Mi tornano in mente in proposito i
richiami di E.F. Ricci, La sentenza “della terza via” e il contraddittorio, in Riv. dir. proc. 2006,
pag. 750 e seg. al tema dell’autoresponsabilità della parte costituita per il tramite del suo difensore
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riferimento alle preclusioni già maturate( 16). Più dubbio può essere invece se tale
soluzione debba riguardare solo le parti costituite o anche il contumace volontario.
Quest’ultimo potrebbe infatti aver scelto di non costituirsi in relazione alla dedotta
responsabilità perché posta sul piano del contratto, ritenendo di non avere ragioni
liquide di eccezione, quale potrebbe essere la prescrizione del diritto, se i fatti allegati
dall’attore fossero avvenuti in tempi di poco eccedenti i cinque anni e quindi tali da
non giustificare l’eccezione stessa sul piano della responsabilità contrattuale(17), ma
capaci invece di rilievo fondato qualora la stessa questione sia posta sul piano
extracontrattuale. Oppure, nel caso inverso in cui il convenuto fosse stato citato a
titolo di responsabilità extracontrattuale, con mutamento successivo a sorpresa di tale
qualificazione da parte del giudice, lo stesso convenuto potrebbe aver scelto di non
costituirsi confidando sugli oneri probatori incombenti sul preteso attore
danneggiato, ma potrebbe pensarsi che, se informato della diversa qualificazione
giuridica dei fatti di causa operata dal giudice, sia indotto a costituirsi per spendere
elementi probatori in ordine alla non imputabilità a sé del preteso inadempimento (18).
e ai valori sottesi a questa impostazione e, pur essendo la stessa chiaramente superata dal novellato
art. 101, comma 2, cod. proc. civ. con riferimento alle conseguenze della violazione del dovere di
collaborazione che sono chiaramente riportate alla nullità della sentenza, mi chiedo se, per il resto,
non residui un nucleo argomentativo da tenere in considerazione. Il nostro sistema processuale è
infatti dispositivo e pone un forte accento anche sul principio di autoresponsabilità della parte,
circostanza quest’ultima che induce a riflettere sul bilanciamento tra il principio di collaborazione
e quello di autoresponsabilità.Non si tratta certo in questo caso di negare la portata innovativa
dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., ma solo di chiedersi quale ne sia l’estensione, posto che
credo sia ancora oggi vero, sulla base dei diversi principi che con quello di collaborazione
concorrono a fondare il sistema delle garanzie su cui poggia il nostro ordinamento, che non è il
giudice il soggetto chiamato a correggere l’errore dei difensori delle parti. Il tema non riguarda
all’evidenza il rapporto tra il principio di collaborazione e la contumacia, ma il principio di
collaborazione in sé, nel rapporto con gli altri principi fondanti il sistema del processo civile e, pur
meritevole di ben altro approfondimento, non può quindi essere oggetto di analisi in questa sede.
(16) Cfr. G. Costantino, Questioni processuali cit., pag. 1036, con riferimento per questa fattispecie
all’eccezione di prescrizione e a quella della sua interruzione, nonché alla allegazione di
nuove circostanze in fatto in ordine alla sussistenza della colpa, al nesso di causalità e così
via.
(17) Anche in ragione dell’intervenuta interruzione in termini dell’interruzione della prescrizione
per il tramite della domanda giudiziale.
(18) Non è facile trarre esempi dalla prassi, ma ciò solo perché le numerosissime pronunce in tema
di diversa qualificazione del titolo della responsabilità sono rese a fronte della parte costituita e
mai del contumace. Volendo trarre comunque spunto da queste per quanto riguarda i fatti e
immaginando la situazione di contumacia del convenuto, mi pare si adatti bene
all’esemplificazione, tra le più recenti, Cass. 11 giugno 2012, n. 943. In quel caso, il genitore di un
ragazzino infortunato nell’ambito di un corso di sci aveva agito contro la scuola. Si apprende dalla
sentenza che l’attore aveva premesso alle sue domande un'analitica espositiva in fatto, nella quale
aveva dato atto che il minore aveva subito l'infortunio durante un corso di sci organizzato da una
certa scuola di sci convenuta, a seguito di regolare iscrizione, documentata dalla ricevuta di
pagamento del corrispettivo, prodotta in giudizio. L’attore aveva inoltre specificato che
l'assegnazione del minore al corso - nella classe dei principianti - era avvenuta sulla base della
selezione effettuata dalla maestra di sci indicata dalla scuola, e aveva fondato l'azione di
responsabilità sulla pretesa responsabilità di quest'ultima per aver portato il figlio, ancora
inesperto, su una pista impegnativa, in un giorno in cui la neve era pesante e in pessime condizioni
e aveva dedotto in diritto una responsabilità extracontrattuale qualificata come derivante dagli art.
2048 e 2049 cod. civ. A fronte di questa domanda immaginiamo che la scuola di sci, valutata la
domanda, decida di non costituirsi in giudizio sulla base della convinzione che sia impossibile
ascrivere alla maestra qualunque fatto colposo causativo del danno dedotto in giudizio.
Supponiamo ora che il giudice del merito nei due gradi di giudizio, invece che respingere la
domanda, come avvenuto, non ritenendo applicabile né l'art. 2048 cod. civ., perché il danno non
era stato provocato all'attore da altro allievo della scuola, ma si trattava di danno che il minore
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Poiché anche il contumace è parte del processo e le norme che involgono il dovere di
collaborazione del giudice sono da questo punto di vista asettiche, riferendosi alle
“parti” senza altre specificazioni, potrebbe anche pensarsi che i principi del giusto
processo impongano di ritenere che quel dovere di sollecitazione del contraddittorio
sulle questioni rilevate in modo solitario dal giudice abbracci anche il contumace. E
ciò soprattutto laddove si pensi che il nostro sistema processuale attuale, dopo la già
richiamata novellazione dell’art. 115 cod. proc. civ., è improntato non più al valore
della neutralità della contumacia, ma addirittura a quello della sua tutela(19).
Pur non avendo trovato, salvo errore, specifiche prese di posizione sul tema
in esame, mi sembra che un’impronta del genere informi la convinzione espressa di
recente da Giuseppe Ruffini sul diverso tema dell’overruling giurisprudenziale in
materia di processo civile(20). Secondo questo Autore, la cui posizione sul tema
oggetto di studio mi sembra fino a quel punto pienamente condivisibile, una volta
esclusa l’operatività di una decadenza portata dall’insorgenza di un orientamento
giurisprudenziale nuovo in relazione a un atto già posto in essere da una parte nel
rispetto di tutti i suoi requisiti formali, con sostanziale rimessione in termini della
parte che avesse fatto incolpevole affidamento sull’orientamento precedente,
andrebbe notificato al contumace il provvedimento di esclusione della decadenza,
con conseguente rimessione in termini dello stesso contumace per la costituzione in
giudizio. In altri termini, per andare al caso più clamoroso che tanta parte ha avuto
nel dibattito su questa questione, posto che l’opposto non costituitosi nel giudizio di
opposizione a decreto ingiuntivo potrebbe essere rimasto contumace confidando nel
rilievo officioso della decadenza dell’opponente dovuta al noto orientamento
modificativo inaugurato dalle Sezioni Unite nel 2010, allora un’esigenza di garanzia
che ha fondamento nell’art. 111 Cost., dovrebbe fare sì che il contumace volontario
venga tutelato dalla “sorpresa” della rimessione in termini della controparte. Con la
stessa logica, se la si condivide, mi sembra allora dovrebbe concludersi che la tutela
del contumace si debba spingere fino alla comunicazione delle questioni a sorpresa di
cui all’art. 101, comma 2, cod. proc. civ.
Dico subito che, nonostante i legittimi dubbi in materia, personalmente
aveva arrecato a se stesso, né esistente la responsabilità di cui agli artt. 2049 e 2043 cod. civ.,
perché non era stata sufficientemente dimostrata dall'appellante la colpa dell'insegnante, rilevi
d’ufficio che la responsabilità in questione ha carattere contrattuale - sulla base della
giurisprudenza consolidata richiamata dalla Cassazione - e che pertanto è applicabile alla
fattispecie il regime probatorio desumibile dall'art. 1218 cod. civ., sicchè, mentre l'attore deve
provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, è sull’altra parte che
incombe l'onere di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né
alla scuola né all'insegnante. In un caso del genere risulta evidente che il convenuto costituito,
avvertito della diversa qualificazione che, sulla base degli stessi fatti, lo stesso giudice intende dare
alla domanda, sarà indotto ad adeguare la propria linea di difesa in ordine alla dimostrazione che
l’evento dannoso non è imputabile né alla scuola né all’insegnante, ovviamente nei limiti in cui ciò
è possibile alla luce dell’art. 115 cod. proc. civ. che renderà non più discutibile se non contestata la
circostanza che la neve quel giorno era pesante e in pessime condizioni ecc. Ma, al di là di questo,
il convenuto costituito potrà ad esempio provare che l’evento dannoso non è a sé imputabile
perché l’incidente è occorso a causa di uno skateborder imprudente, di pregressa malattia
dell’infortunato, di accidente della pista ecc. Ma quid iuris in relazione al convenuto contumace?
Non è dubbio che anche questo soggetto potrebbe, se avvertito, assumere determinazioni
divergenti in ordine alla propria costituzione in giudizio, ma il punto è proprio se il garantismo, da
molti denunciato, che il nostro ordinamento accorda al contumace si estenda anche al diritto di
essere informato del rilievo ufficioso che il giudice faccia di una questione non rilevata dalla
controparte.
(19) Cfr. in particolare D. D’Adamo, Contributo cit., in particolare pag. 202 e seg.
(20) Cfr. G. Ruffini, Mutamenti di giurisprudenza nell’interpretazione delle norme processuali e
“giusto processo”, in Riv. dir. proc. 2011, pag. 1390 e seg., in particolare pag. 1405 - 1406.
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ritengo che l’analisi che segue debba confermare la convinzione istintiva iniziale, nel
senso che il dovere di collaborazione del giudice di cui all’art. 101, comma 2 , cod.
proc. civ. non si estende al contumace. Tuttavia sono consapevole che una diversa
soluzione potrebbe essere fondata su alcuni elementi esegetici che appartengono al
sistema, ma che a mio avviso sono dotati di fondamento minore rispetto a quelli
opposti.
2. - Andando per gradi inizierei a valutare la portata dell’art. 101, comma 2,
cod. proc. civ. e del principio ivi affermato. Si tratta infatti di capire se il sistema di
questa norma e di quelle alla stessa collegate offra di per sé qualche risposta positiva
al problema in discussione e anche quali conseguenze derivino dall’ammettere o
meno che il dovere del giudice abbracci anche la parte non costituita.
E’ noto che l’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. costituisce il punto di arrivo
di un dibattito dottrinale e giurisprudenziale, dai toni anche sentitamente accesi, circa
la sorte della c.d. decisione della terza via. In sintesi estrema ricordo quanto segue(21).
In origine, vi era il solo art. 183, comma 2, cod. proc. civ. (corrispondente
all’attuale comma 4 della stessa norma), che la giurisprudenza leggeva quale norma
che, pur implicando un dovere del giudice di non utilizzare per decidere una
questione non sottoposta al contraddittorio delle parti stesse, non costituiva, se
violata, motivo di nullità della sentenza(22). Poi intervenne in materia la pronuncia
della Cassazione n. 14637/2001 ad affermare in modo forte e chiaro la nullità della
sentenza fondata su una questione rilevata d’ufficio e non sottoposta dal giudice al
contraddittorio delle parti(23). Seguì un certo disorientamento che, con alterna
fortuna e stimolando rilievi dottrinali di indubbia portata(24), ha finito col provocare
la rimessione della questione alle Sezioni Unite. Queste ultime si sono pronunciate
con sentenza 30 settembre 2009, n. 20935, con riferimento tuttavia alla normativa
anteriore alla riforma del 2009, rilevando la scorrettezza della decisione non
preceduta dalla segnalazione della questione, ma ritenendo che la nullità processuale
in questione “non possa essere, ipso facto, sempre e comunque predicata, quale
conseguenza indefettibile di tale omissione”. In questo contesto la Cassazione ha
ritenuto quindi che solo le questioni di fatto, ovvero quelle miste di fatto e diritto - e
non quindi quelle di puro diritto neanche sotto il profilo della diversa qualificazione
giuridica del fatto - possano dare luogo, se rilevate a sorpresa, a una sentenza viziata.
Tuttavia tale vizio è stato collegato all’incidenza della mancata segnalazione della
questione rilevata d’ufficio sull’attività difensiva delle parti, quale risultante
realisticamente e comprovatamente possibile e congrua nel prosieguo (25), e quindi al
pregiudizio arrecato all’esercizio di specifici poteri assertivi e probatori delle parti, da
censurare con l’impugnazione(26).
(21) Per un maggiore approfondimento della questione anche nella sua evoluzione
giurisprudenziale faccio rinvio agli scritti citati in nota 13.
(22) La dottrina invece da tempo segnalava il tema [Nota da completare]
(23) Cfr. Cass. 21 novembre 2001, n. 14637, in Giust. civ. 2002, pag. 1611 con nota adesiva di F.P.
Luiso, Questione rilevata d’ufficio e contraddittorio: una sentenza “rivoluzionaria”? e in Giur. it.
2002, pag. 1363 con nota critica di S. Chiarloni, La sentenza “della terza via” in cassazione: un
altro caso di formalismo delle garanzie?, che riprende le considerazioni svolte nel precedente
saggio, Questioni rilevabili d’ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, in Riv. trim.
dir. e proc. civ. 1987, pag. 569 e seg.
(24) Mi riferisco in particolare alle sentenze contrastanti di Cass. 27 luglio 2005, n. 15705 e 5
agosto 2005, n. 16577, entrambe pubblicate in Riv. dir. proc. 2006, pag. 747 e seg. con le opposte
visioni sul tema oggetto di analisi di
E.F. Ricci, La sentenza “della terza via” e il
contraddittorio e di L.P. Comoglio, “Terza via” e processo “giusto”.
(25) Così C. Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità cit., pag. 357.
(26) Cfr. G. Costantino, Questioni processuali tra poteri cit., pag. 1032.
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Nel frattempo il legislatore aveva modificato il codice di rito, introducendo la
disposizione di cui all’art. 384, comma 4, cod. proc. civ. e completando
successivamente il sistema con la novellazione dell’art. 101, comma 2, ora in
discussione. Entrambe queste disposizioni, l’una con riferimento al giudizio di
cassazione, l’altra collocata tra i principi generali che regolano il processo,
disciplinano oggi un meccanismo per cui il giudice adito “Se ritiene di porre a
fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio” “riserva la decisione” e
deve assegnare alle parti (e al pubblico ministero con riferimento alla cassazione) un
dato termine per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla
medesima questione. La norma di più recente elaborazione, intervenendo in modo
autoritativo nel dibattito richiamato, ha poi specificato che la sanzione posta per la
violazione di tale dovere è quella della “nullità”.
A me sembra che le tre disposizioni in discussione vadano lette come un
sistema che è espressione di un unico principio, che riterrei ricognitivo di una regola
già precedentemente esistente(27). E invero, la collocazione della regola enunciata
dall’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. tra i principi generali che informano il
processo è di particolare rilievo e ne dimostra la valenza generale. Ciò, nonostante la
non felice formulazione della disposizione, che invece che cristallizzare il principio in
questione(28), ne regola a livello formale l’attuazione con riferimento alla sola fase
decisoria(29). Non c’è dubbio infatti che l’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. enunci un
principio che informa l’intero iter processuale, illuminando il dovere del giudice di
stimolare il contraddittorio sulle questioni che rilevi d’ufficio quale obbligo che
caratterizza l’intero corso del processo civile. Non a caso, una recente sentenza della
Cassazione, pur pronunciando anch’essa sulla base della normativa precedente, ha
ritenuto di dover confermare il principio - che ha dichiarato espressamente ribadito
dalla nuova formulazione dell’art. 384 e da quella dell’art. 101 del codice di rito secondo cui il Giudice, che ritenga di decidere la lite in base ad una questione rilevata di
ufficio, ha il dovere costituzionale di provocare il contraddittorio delle parti in ordine alla
questione stessa al fine di evitare la "sentenza a sorpresa" o della "terza via", che viola la
parità delle armi. La Cassazione ha inoltre ricordato che questo ordine concettuale trova
fondamento nell’art. 183 cod. proc. civ., che è espressivo di un principio operante per
l'intero corso del processo, perché il giudice deve osservare per tutto il suo sviluppo, in
posizione di terzietà, il dovere di collaborazione con le parti, intrinseco al corretto
svolgimento di un giusto processo (30).
I rilievi che precedono valgono a chiarire la valenza di principio dell’art. 101,
(27) Analogamente G. Costantino, Questioni processuali tra poteri cit., pag. 1036; C. Consolo, Le
Sezioni Unite sulla causalità cit., pag. 357.
(28) Cfr. M. Fornaciari, Il contraddittorio in seguito a un rilievo ufficioso, pag. 551 che rileva che
meglio sarebbe stato in quella sede enunciare il principio per cui il giudice non può, a pena di
nullità, fondare la decisione su una questione sollevata d’ufficio, se su di essa le parti non siano
state poste in grado di contraddire, o formule equivalenti.
(29) Che l’articolo 101, comma 2, cod. proc. civ. regoli l’attuazione del principio di collaborazione
dopo che la causa è già stata trattenuta in decisione è osservazione comune. Cfr. C. Consolo, Le
Sezioni Unite sulla causalità cit., pag. 362 e seg. che pone l’accento sull’inciso “riservata la
decisione” e ritiene quindi che si tratti di uno strumento che “ha natura sussidiaria e residuale,
destinato com’è a operare nei soli casi ‘patologici’ di tardiva attivazione dell’organo giudicante”;
G. Costantino, Questioni processuali tra poteri cit., pag. 1036 per il quale parimenti la norma in
questione “offre la cura per un malato terminale , ma appare più utile e comunque doveroso
orientare l’attenzione e le energie sulla prevenzione” e quindi sul corretto uso delle disposizioni fra
i poteri del giudice e le facoltà delle parti nel corso del processo; A. Chizzini, Legitimation durch
Verfahren. Il nuovo 2° comma dell’art. 101 c.p.c., in Pensiero e azione nella storia del processo
civile. Studi, Milano 2013, pag. 258; M. Fornaciari, Il contraddittorio in seguito a un rilievo
ufficioso, pag. 551
(30) Così Cass. 4 giugno 2013, n. 14039.
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comma 2, cod. proc. civ. e consentono di escludere che si possa ritenere che la regola
della collaborazione non si estenda al contumace solo perché l’art. 101, comma 2,
cod. proc. civ. ne disciplina l’attuazione con riferimento alla fase in cui il giudice ha
già trattenuto la causa in decisione e quindi in un momento del processo in cui il
contumace, ai sensi dell’art. 293, comma 3, cod. proc. civ., non può più costituirsi.
Qualora si dovesse concludere che il dovere di collaborazione si estende anche verso
la parte contumace, si dovrebbe infatti anche ritenere che tale dovere, poiché implica
anche quello di riaprire il contraddittorio violato, con rimessione in termini in
relazione alle attività che non si sono potute compiere in relazione alla perpetrata
violazione, importa anche quello di un ritorno del processo a una fase capace di
consentire il pieno svolgimento del contraddittorio sulla questione non trattata( 31),
compatibile quindi anche con l’ingresso del contumace nella lite.
Dal sistema delle norme che regolano il dovere di collaborazione del giudice
con le parti mi sembra dunque si ricavi solo un principio generale che informa
l’intero processo e la sua sanzione per il caso in cui, la mancata sanatoria del vizio
nell’iter processuale, confluisca in una pronuncia della terza via. Né l’art. 101, comma
2, cod. proc. civ., né le altre due disposizioni che sono espressione dello stesso
principio forniscono invece la risposta al quesito se il dovere di collaborazione del
giudice verso le parti implichi anche la sua estensione verso il contumace, oppure
presupponga, al contrario, una forma di reciprocità dovuta all’operare effettivo delle
parti nel giudizio, e vada quindi escluso con riferimento al contumace volontario,
che è soggetto che sceglie per definizione di non collaborare né con il giudice, né con
la controparte costituita.
Prima di passare all’analisi delle norme che regolano la contumacia, per
vedere se le stesse possano indirizzare la risposta, vorrei ancora sottolin eare poche
cose in ordine al principio di collaborazione, capaci di chiarire la rilevanza pratica
dell’una o dell’altra impostazione.
La sanzione di nullità della sentenza per la violazione dell’obbligo di
collaborazione è ben chiara e deve quindi considerarsi superato ogni dubbio in
materia. Residuano tuttavia margini di discussione sul contenuto dell’obbligo stesso,
che riguardano in particolare, oltre al tema già richiamato delle questioni che ne
costituiscono l’oggetto, anche e soprattutto i suoi svolgimenti in fase di gravame.
Secondo i principi generali, dalla nullità della sentenza che abbia violato
l’obbligo di non pronunciare secondo lo schema della “terza via”, non può che
derivare la sottoposizione della disciplina delle impugnazioni alla regola della
conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione e, più in generale, a
quella dell’ammissibilità dell’impugnazione in questione ai presupposti tipici
dell’interesse e della legittimazione all’impugnazione.
Confrontato tutto ciò con la contumacia, questo significa che se il
contumace, in quanto parte del processo nel grado precedente del giudizio, è
sicuramente legittimato all’impugnazione della sentenza della “terza via”, perché la
possa in concreto anche impugnare occorrerà anche il requisito dell’interesse. Il
rilievo d’ufficio di una questione su cui sia poi fondata la decisione sarà infatti, non
necessariamente ma facilmente, a favore del convenuto, comportando il rigetto in
rito o in merito della domanda dell’attore(32). Ciò significa all’evidenza che unico
(31) Cfr. A. Chizzini, Legitimation durch Verfahren. Il nuovo 2° comma dell’art. 101 c.p.c. cit.,
pag. 251; M. Gradi, Il principio del contraddittorio cit., pag. 835 e seg.; M. Fornaciari, Il
contraddittorio in seguito a un rilievo ufficioso, pag. 555 e seg.
(32) Così sarà, ad esempio, nel caso in cui il giudice, in contumacia del convenuto, rilevi d’ufficio
ai sensi dell’art. 11 della l. 218/1995 senza segnalare in via preventiva all’attore la questione e nel
caso in cui il giudice, parimenti nella contumacia del convenuto, a fronte di una domanda di
adempimento del contratto, ne rilevi d’ufficio la nullità senza previa segnalazione all’attore della
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soggetto che potrà impugnare la sentenza sarà l’attore, che potrà lamentare proprio e
anche la violazione dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., al fine di essere ammesso a
spendere nel grado successivo del giudizio(33) gli argomenti che avrebbero a suo
avviso consentito, nell’ambito del contraddittorio, il rigetto della questione (34). La
posizione del convenuto vincitore contumace è in questo caso più sfumata in quanto,
ammesso che in grado d’appello questo soggetto decida di partecipare attivamente
alla lite, mi sembra segua i principi della soccombenza virtuale(35) solo se si ammette
che vi fosse un dovere del giudice di interloquire anche con lui sulla questione
rilevata d’ufficio e non sottoposta al contraddittorio delle parti. Nel caso contrario, il
convenuto contumace volontario avrebbe invece perso al momento del maturarsi
delle diverse preclusioni il potere di spendere le circostanze volontariamente non
dedotte nel grado precedente del giudizio.
Nei casi invece in cui la parte contumace fosse soccombente(36), o almeno
parzialmente soccombente, non c’è dubbio che possa impugnare la sentenza che
ritiene errata, ma il punto è se possa o meno impugnarla per violazione dell’art. 101,
comma 2, cod. proc. civ. Qua la differenza tra un’impostazione che estenda il dovere
di collaborazione anche al contumace e quella che lo escluda di fa sensibile. Solo nel
primo caso infatti il contumace potrà impugnare la sentenza e spendere in grado
d’appello gli elementi difensivi che avesse avverso la soluzione negativa della
questione rilevata d’ufficio per cercare di cambiare il segno della pronuncia; nel
secondo caso ne sarebbe invece impedito sia dalle preclusioni già maturate che
dall’impossibilità di lamentare la violazione di un dovere che nei suoi confronti non
c’è.
Questi, dunque, le conseguenze dell’una e dell’altra risposta che proverei a
questo punto a ricercare nel sistema delle regole che disciplinano il procedimento
questione.
(33) Impregiudicata la differenza, segnalata da tutti gli autori che si sono occupati dell’argomento,
tra giudizio di primo grado e giudizio di cassazione.
(34) Che il soggetto costituito nei cui confronti sia violato il disposto dell’art. 101, comma 2, cod.
proc. civ. possa spendere in appello le ragioni di cui è stato privato in primo grado è opinione
generale e da condividere. Le differenze [Nota da completare]
(35) Del problema della soccombenza teorica, ma con riferimento al soggetto costituito in primo
grado, si occupa A. Chizzini, Legitimation durch Verfahren. Il nuovo 2° comma dell’art. 101 c.p.c.
cit., pag. 264
(36) Per tornare all’esempio di cui alla nota 18, supponiamo che il convenuto contumace in
primo grado abbia volontariamente deciso di non costituirsi perché nell’atto di citazione che
gli è stato notificato l’attore ha prospettato una responsabilità extracontrattuale, ma non ha in
alcun modo dedotto l’esistenza di uno stato soggettivo di colpa o dolo e il giudice qualifichi
poi diversamente il fatto, condannando il convenuto a titolo contrattuale perché non
risulterebbe provato che l’inadempimento non è a lui imputabile. In questo caso il convenuto
soccombente può sicuramente impugnare la sentenza, ma, se si ritiene che vi fosse un dovere
di avvertire anche il contumace che il giudice avrebbe basato la propria decisione sul titolo
contrattuale, allora il convenuto, in qualità di appellante potrà lamentare anche la violazione
dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. e così in appello allegare e provare che
l’inadempimento non è a lui imputabile. In caso contrario non solo non vi sarebbe nei suoi
confronti alcuna violazione di un principio fondamentale, ma subirebbe le preclusioni già
maturate nel grado precedente del giudizio. Il principio espresso da Cass. 23 giugno 2009, n,
14623 che ammette il contumace a contestare per la prima volta in appello i fatti allegati
dall’attore, a parte la sua discutibilità, non è sicuramente applicabile in relazione alle altre
attività precluse, come facilmente argomentabile ex art. 293 cod. proc. civ. Per una critica
vibrata a questa sentenza e all’impostazione generale ad essa sottesa cfr. B. Sassani, L’onere
della contestazione, in www.judicium.it, par. 13 -14. Per la problematica della contestazione
in appello da parte di chi era contumace nel grado precedente del giudizio e nella prospettiva
di ravvisare l’esistenza di una preclusione cfr. F. De Vita, Onere di contestazione e modelli
processuali, Roma, 2012, pag. 144 e seg.
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contumaciale.
3. - Com’è fin troppo noto, nel disappunto dei più, il nostro sistema
processuale non solo è ancorato a una visione della contumacia quale ficta
litiscontestatio, di stampo tendenzialmente neutro, ma le recenti modifiche del codice di
rito e in particolare quella contenuta nell’art. 115 cod. proc. civ., laddove dispone che
“… il giudice deve porre a fondamento della decisione … i fatti specificamente non
contestati dalla parte costituita”, paiono avere messo il contumace nella posizione
privilegiata di chi può starsene tranquillamente alla finestra ad attendere la piega delle
cose, mentre il convenuto costituito è oggi onerato di una contestazione specifica,
sotto pena di subire l’automatico accertamento dei fatti addotti dall’attore alla stregua
di fatti provati(37). E ciò al punto tale che si è anche ipotizzato che quella della
contumacia possa essere trasformata in una vera e propria strategia processuale dello
stesso contumace( 38), pienamente in barba verrebbe da dire, al principio di
collaborazione di cui stiamo discutendo.
Altrettanto noto è che il modello opposto, portato dall’art 13, comma 2, d.
lgs. n. 5/2003, della contumacia quale ficta confessio, cui andava la tendenziale
approvazione della dottrina, è caduto ancor prima che il legislatore travolgesse
l’intero impianto normativo del rito societario che si svolgeva davanti al giudice
ordinario, sotto la mannaia della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale di quella norma per eccesso di delega, lasciandosi tuttavia sfuggire in
motivazione quella che appare come una vera e propria bocciatura del sistema,
laddove afferma che l’attribuzione alla contumacia di un valore non neutrale è del
tutto estranea alla “tradizione del diritto processuale italiano, nel quale alla mancata o
tardiva costituzione mai è stato attribuito valore di confessione esplicita”( 39).
Lascio agli studi in materia smentire questa affermazione(40), limitandomi a
rammentare, a proposito della nostra tradizione, che l’art. 80 del Progetto Chiovenda
del 1920 stabiliva che “se il convenuto regolarmente citato non comparisca in
giudizio … i fatti affermati dall’attore saranno considerati come ammessi in quanto
non siano contraddetti da prove già raccolte, e se i medesimi giustificano la domanda
questa sarà accolta con sentenza contumaciale”(41).
Dato atto che, comunque, dopo l’abrogazione del rito societario le
successive riforme non si sono preoccupate di toccare l’istituto della contumacia e
che la lettera dell’art. 115 cod. proc. civ., che si pone su una linea di continuità
rispetto all’art. 186 bis cod. proc. civ., è comunque vincolante, quello che mi
propongo di capire è se l’indicato favore per il contumace sia espressione di un
sistema che ne richieda anche la tutela ai sensi dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ.
In proposito, nonostante l’indubbio peso delle due disposizioni da ultimo
richiamate nel senso di un sistema che esprime un valore (indebito) di tutela del
soggetto contumace, che non intendo disconoscere, a me sembra che altri indici
depongano comunque in senso contrario e vadano debitamente sottolineati.
(37) Così B. Sassani, L’onere della contestazione cit, par. 13. L’opinione è largamente
condivisa, cfr. [nota da completare]
(38) Questa è l’idea che muove la monografia di D’Adamo, Contributo allo studio della
contumacia cit., in particolare pag. 202. Sull’istituto in generale cfr. anche F. Ferrari, Commento
agli artt. 290 - 294 cod. proc. civ., in commentario del cod. proc. civ, diretto da ComoglioConsolo-Sassani-Vaccarella.
(39) Cfr. Corte cost. 12 ottobre 2007, n. 340.
(40) Cfr. F. De Vita, Onere di contestazione cit., pag. 66 e seg. e pag. 82 e seg., ove l’Autore,
sulla base dei lavori parlamentari ipotizza che il riferimento alla parte costituita contenuto nel
nuovo art. 115 sia in realtà andato oltre le intenzioni del legislatore.
(41) Cfr. in proposito F. De Vita, Onere di contestazione cit., pag. 69 e seg.; D’Adamo,
Contributo allo studio della contumacia cit., in particolare pag. 17.
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Mi riferisco in primo luogo ad alcune disposizioni che non appartengono al
processo di cognizione e che fanno conseguire ben altri effetti all’inattività della
parte, quali sono massimamente l’art. 663 cod. proc. civ., che nel procedimento per
convalida di sfratto ricollega alla mancata comparizione dell’intimato il ben diverso
effetto della convalida della licenza o dello sfratto; l’art. 499, comma 6 cod. proc.
civ., che in materia esecutiva, con riferimento all’intervento dei creditori privi di
titolo esecutivo, ricollega alla mancata comparizione del debitore in udienza il
riconoscimento dei crediti stessi ai fini dell’esecuzione e, ancora e da ultimo, pur con
riferimento non al contumace ma al terzo, il nuovo art. 548 cod. proc. civ. in tema di
pignoramento presso terzi. E’ noto che la caratteristica essenziale di quest’ultima
norma si può riassumere nel rilievo che il silenzio o l’assenza del terzo all’udienza per
rendere la propria dichiarazione hanno assunto un significato e una portata antitetica a
quella avuta sino ad oggi. Infatti, nel sistema da ultimo inaugurato, la mancata
dichiarazione del terzo, che è sempre stata circostanza tale da impedire il
perfezionamento del pignoramento per difetto di oggetto (salva la possibilità di
procedere a instaurare il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo), ha acquistato
oggi una portata totalmente opposta: il silenzio del terzo vale come riconoscimento della
debenza delle somme indicate dal creditore o della sussistenza delle cose pignorate(42). La
situazione si è quindi capovolta rispetto al passato perché la mancata dichiarazione del
terzo è divenuta un riconoscimento dell’esistenza dei beni indicati dal creditore nel suo
atto di pignoramento(43). Certo, in questo caso non viene in gioco la parte contumace,
ma il terzo e il riconoscimento in questione non dice quindi nulla di per sé sul tema in
esame. Tuttavia si tratta di una norma fortemente espressiva di una linea di tendenza,
che, pur nelle condivisibili critiche e ridefinizioni già avanzate dalla dottrina(44) mi
sembra indice di un cambiamento rilevante di impostazione. Non a caso, le notizie
ancora “di corridoio” che giungono dai lavori della Commissione ministeriale che è oggi
al lavoro per un’ulteriore revisione del nostro codice di rito, parlano dell’idea
dell’inserimento di un procedimento di stampo germanico, che si discosta quindi
nettamente da quello che risulterebbe ancorato alla classica visione della contumacia,
edulcorata dalla particolare esclusione del contumace dal raggio di azione dell’art. 115
cod. proc. civ.
Ancora l’art. 8, comma 4 bis del d.l. 4 giugno n. 69, convertito in legge 9 agosto
2013 n. 98, ha reintrodotto la mediazione obbligatoria nel nostro ordinamento e, insieme
con questa la previsione che “Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al
procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo
giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il
giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'articolo 5, non ha
partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del
bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato
dovuto per il giudizio”. E’ rimasta così nella legge sia la sanzione economica per la parte
che abbia rifiutato la sua partecipazione alla mediazione obbligatoria, che sta anch’essa a
indicare uno sfavore dell’ordinamento per l’inerzia della parte, che la contraddizione del
sistema che nel successivo giudizio sanziona solo la parte costituita e non quella
contumace, quasi che l’inerzia al quadrato non avesse un significato ben maggiore di
quella relativa alla sola fase preliminare della mediazione. Probabilmente ha giocato in
(42) Così A. Saletti, Le novità dell’espropriazione presso terzi, in www.judicium .it, par 3.
(43) Cfr. A. Saletti, op. loc. cit.
(44) Cfr., oltre all’articolo di Saletti citato nelle note precedenti, A. Briguglio, Note brevissime
sull’”onere di contestazione” per il terzo pignorato (nuovo art. 548 c.p.c.), in www.judicium.it; S.
Vincre, Brevi osservazioni sulle novità introdotte dalla l. 228/2012nell’espropriazionepresso terzi:
la mancata dichiarazione del terzo (art. 548 c.p.c.) e la contestazione della dichiarazione (art. 549
c.p.c.), in Riv. es. 2013, pag. _
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materia la convinzione della neutralità dell’istituto della contumacia, senza che il
legislatore si avvedesse che nulla avrebbe tolto a questo principio, pur volendolo
rispettare, se avesse imposto al giudice del merito di condannare parimenti per la
“contumacia” in mediazione anche la parte contumace nel giudizio di merito. Se la
“contumacia” nella fase preliminare si può sanzionare senza che violi il principio di
neutralità in questione, allora non c’è contraddizione nel condannare per quella mancata
partecipazione anche il contumace in senso proprio, trattandosi di sanzione accessoria
che può accompagnare la sentenza di qualunque segno essa sia, mentre la contraddizione
è profonda e lesiva del principio di uguaglianza laddove a essere sanzionata è solo la
parte successivamente costituita e non il contumace nel giudizio di merito(45). Al di là di
questo rilievo, tuttavia, non c’è dubbio che la norma in questione, con riferimento alla
mediazione, suona quale stimolo impositivo alla partecipazione.
Ci sono poi altre norme la cui interpretazione va a discapito del contumace,
segnalando che il guanto con cui viene trattato dall’art. 115 cod. proc. civ. non è poi
sempre così morbido. Mi viene in mente in proposito la lettura dell’art. 186 ter secondo la
quale l’ordinanza di ingiunzione emessa nei confronti della parte contumace acquista
efficacia di giudicato automaticamente una volta decorsi i venti giorni dalla notifica se il
contumace non si sia costituito, grazie allo specifico riferimento all’art. 647 cod. proc.
civ., contenuto nell’art. 186 ter, comma 5, cod. proc. civ. (46). Mi sovviene poi l’attuale
lettura dell’art. 346 cod. proc. civ. operata dalla prevalente giurisprudenza, che con
corretto ripensamento rispetto a un precedente orientamento, ritiene oggi che il principio
enunciato dalla norma da ultimo richiamata che intende rinunciate e non più
riesaminabili le domande ed eccezioni non accolte dalla sentenza di primo grado che non
siano state espressamente riproposte in appello, trova applicazione anche nei riguardi
dell'appellato rimasto contumace in sede di gravame, in coerenza con il carattere
devolutivo dell'appello, ponendosi in questo modo appellato e appellante su un piano di
parità. Si legge nelle motivazioni delle sentenze che affermano questo principio che in
questo modo non si attribuisce alla parte rimasta inattiva ed estranea alla fase di appello
una posizione sostanzialmente di maggior favore rispetto alla parte attiva e costituita,
facendo gravare su entrambe, e non solo sull'appellante, l'onere di prospettare al giudice
del gravame le questioni (domande ed eccezioni in senso stretto) risolte in senso ad esse
sfavorevole, con la sola differenza che il soccombente soggiace ai vincoli di forme e di
tempo previsti per l'appello, mentre la parte vittoriosa ha solo un onere di
riproposizione, in difetto della quale deve presumersi che manchi un interesse alla
decisione, mancanza quest’ultima imputabile anche alla parte contumace(47). Il diverso
orientamento in materia, che per alcuni anni era prevalso, era invece nel senso di favore
per il contumace poiché consentiva al giudice d’appello il rilievo d’ufficio della
questione(48), con coordinamento errato tra le disposizioni che regolano la contumacia e
quelle che disciplinano l’effetto devolutivo dell’appello ed è oggi a mio avviso
correttamente superato riportando il contumace sul corretto piano di un qualsiasi
appellato.
(45) Il problema era ben segnalato da M. Bove, Le sanzioni per la mancata cooperazione in
mediazione, in www.judicium .it, pag. 2 e seg.
(46) Cfr. Cass. 6 giugno 2006, n. 13252. La lettura contraria, anche se successiva proposta da Cass.
29 gennaio 2007, n. 1829 non appare sufficientemente meditata. Cfr. in proposito la nota critica a
quest’ultima sentenza di J. Polinari, La Suprema Corte torna sulla natura e sull’efficacia delle
ordinanze ex art. 186 ter nei confronti del contumace, in Riv. dir. proc. ___, pag. 1656 e seg.
(47) Cfr. Cass. 12 novembre 2007, n. 23489; Cass. 4 maggio 2007, n. 10236; Cass. 13 settembre
2006, n. 19555 e, recentemente in materia tributaria Cass. 22 gennaio 2013, n. 1443
(48) Cfr. Cass. 30 ottobre 2001, n. 13482 conforme a un orientamento precedente che appare del
tutto superato.
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Ancora viene in rilievo, per riprendere un esempio sviluppato da altri(49), il
caso della contumacia del chiamato all’eredità, convenuto nell’ambito di un giudizio
concernente i beni del de cuius, cui la giurisprudenza conferisce il rilievo sostanziale
dell’accettazione tacita dell’eredità ex art. 746 cod. civ., caso questo in cui la
contumacia perde la caratteristica di ficta litiscontestatio che esplica efficacia solo
processuale, per divenire una vera e propria ficta acceptio degli effetti sostanziali( 50).
Da ultimo, ma la riflessione potrebbe evidentemente portare all’emersione di
altre situazioni, vale in argomento la riflessione, di recente sviluppata dalla
Cassazione, sul rapporto tra contumacia e ragionevole durata del processo. Sollecitata
in materia, la Suprema Corte ha infatti statuito( 51) che solo la parte costituita, in
quanto ha partecipato attivamente al processo, ha diritto all’indennizzo per la sua
irragionevole durata, non anche il contumace che ha consapevolmente scelto di non
costituirsi in giudizio e quindi di disinteressarsi dello stesso. La motivazione è forte e
chiara: secondo la Cassazione la legge n. 89 del 2001 presuppone che la parte abbia
partecipato attivamente al giudizio, ovvero che non sia rimasta contumace per tutta la
sua durata, poiché qualora abbia assunto consapevolmente tale posizione, non può
ritenersi che essa abbia acquisito la posizione di parte danneggiata in conseguenza
della possibile durata irragionevole del processo. Il contumace è, secondo la
Cassazione, incurante degli effetti di una possibile decisione negativa nei suoi
confronti ed insensibile ai tempi di svolgimento del processo, che non di rado, pur
rimanendo alla finestra, auspica si protraggano oltre a quella che dovrebbe essere la
loro fisiologica durata. Il contumace non ha sofferto dunque quel patema d’animo o
quella sofferenza psichica causata dal superamento del limite ragionevole di durata
del processo che causalmente è la ragione dell’indennizzo previsto dalla legge. Il
contumace è parte neutra del giudizio, ma proprio per questo non può aver risentito
per la sua non ragionevole durata. Anche in questo caso la Cassazione non tutela,
ben a ragione, la parte inerte e la riporta sul piano in cui deve stare. Insomma, nel
suo insieme, l’ordinamento oscilla tra le ragioni di tutela del contumace e le opposte
ragioni che vorrebbero indurne la costituzione e il risultato è alla fin fine neutro e
tale da non consentire un allargamento delle maglie della tutela della contumacia al di
là dei limiti previsti dal sistema.
4.- Si tratta allora di esaminare la disciplina della disposizione che mi sembra
davvero centrale in materia, quella cioè che regola i doveri di collaborazione della
controparte costituita col contumace e che specifica anche fino a che punto l’ufficio
deve spingersi nei suoi doveri di comunicazione, la disposizione cioè dell’art. 292
cod. proc. civ. Ho lasciato volutamente questa norma in coda, non certo perché non
sia davvero centrale nell’esegesi del problema in esame, ma perché la stessa non
regola all’evidenza alcun onere di comunicazione o notificazione al contumace
dell’ordinanza di cui all’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., né lo potrebbe fare posto
che è disposizione anteriore alla sua formulazione. Tuttavia, per capire se la norma
stessa sia interpretabile in modo elastico, ritenendo che oggi il sistema di garanzie nei
confronti del contumace deve indurre a estendergli la tutela in questione, bisogna in
primo luogo capire fino a che punto il sistema attuale sia davvero improntato a una
tutela esacerbata del contumace quale sembrerebbe emergere dagli articoli 115 e 186
bis del codice di rito.
Personalmente mi sono convinta che l’ordinamento sia in proposito, nel suo
complesso, per lo meno neutro, bilanciando gli elementi a favore del contumace con
quelli contrari e che quindi vada ribadito che la tutela del contumace si estende solo
(49) Cfr. D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia cit., pag. 232.
(50) Così D’Adamo, op. loc. cit.
(51) Cfr. Cass. 21 febbraio 2013, n. 4474.
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entro i limiti delineati dall’art. 292 cod. proc. civ., subendo per il resto un
allargamento solo laddove lo stesso è previsto, com’è per il caso della non
contestazione.
Tuttavia, anche l’art. 292 cod. proc. civ. è disposizione dall’interpretazione
non univoca di cui bisogna capire la ratio per confrontarla poi col problema in esame.
In proposito, credo che, tra le tre interpretazioni della logica su cui si
muovono i poteri regolati dalla norma in esame, cui sono state ricondotte(52) le
analisi dottrinali in materia, quella cioè della tutela del contraddittorio a favore della
parte non costituita, quella della tutela del diritto di autodeterminazione del
contumace che ha deciso liberamente di non costituirsi sulla base dell’esame di
quanto a lui noto e infine quella che ne fa invece norma di salvaguardia di entrambe
le parti e della loro uguaglianza, quella corretta sia quest’ultima. Mi sembra infatti che
la disposizione in questione, per come è costruita, tuteli il contumace limitatamente a
pochi atti raggruppati in due categorie la cui ratio è diversa, che hanno riguardo gli
uni a dati provvedimenti che il legislatore ha ritenuto evidentemente gravidi di
conseguenze onerose per il contumace e gli altri volti a imporre di dare notizia al
contumace di ciò che è idoneo a incidere sull’oggetto del processo ampliandone la
portata. Per il resto, invece, la norma tutela la controparte processuale che, in
relazione alla scelta del contumace di non partecipare al giudizio, è onerata di ben
poche notificazioni e non risulta particolarmente gravata. Non riesco quindi a
ravvisare nell’art. 292 cod, proc. civ. una disposizione dal carattere elastico(53) che ne
consenta un’interpretazione estensiva, né una disposizione da cui si possa ricavare un
reale favore dell’ordinamento nei confronti del contumace. Al contrario, a me pare
che proprio l’articolo 292 cod. proc. civ. sia l’indice normativo più forte che il
contumace, con riferimento agli atti che devono essergli resi noti perché incidono
sull’oggetto del giudizio, ampliandone la sfera, è tutelato dall’ordinamento nei limiti e
solo in quelli della conoscenza di ciò che andrà a costituire giudicato e, per nulla
invece, in relazione a ciò che sta dentro l’oggetto della cognizione che, se anche
subisce delle modificazioni, è soggetto alla regola della presunzione di conoscenza di
cui al comma 2 della disposizione in questione. Stabilire che “ … le comparse
contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte sono notificate
personalmente al contumace” e che “le altre comparse si considerano comunicate col
deposito in cancelleria” significa proprio ciò e cioè legare il dovere di collaborazione
con il contumace all’ambito oggettivo e soggettivo del giudizio. Per il resto, le
modificazioni consentite sono “affar suo”, nel senso che l’ordinamento non prevede
(52) Cfr. D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia cit., pag. 84 e seg.
(53) In questo senso invece B. Ciaccia Cavallari, voce Contumacia, in Digesto, Disc. priv. , Sez.
civ., IV, Torino 1989, pag. 320 e seg., in particolare pag. 327 per la quale, pur essendo indubbio il
carattere tassativo della disposizione ritiene che “non per questo si potrà concludere nel senso di
un diniego all’assunzione nella previsione normativa speciale di ogni fattispecie non
espressamente menzionata, perché i limiti qui precisati devono essere individuati avendo presenti
situazioni in cui possa derivare una lesione al diritto di difesa del contumace”. Sulla scorta di
un’interpretazione della norma a tutela massima del contumace, l’Autrice estende quindi la ratio
dell’art. 292 alle “comparse contenenti cosiddette eccezioni riconvenzionali, o eccezioni di
compensazione, o, ancora, istanze di accertamento incidentale”, nonché l’istanza di pagamento di
somme di cui all’art. 423 cod. proc. civ. (in un regime anteriore all’art. 186 bis contenente la
specificazione già richiamata di non pronunciabilità dell’ordinanza nei confronti della parte
contumace). Ora, io penso, come chiarito infra nel testo, che il criterio interpretativo dell’art. 292
cod. proc. civ. sia quello della notificazione o comunicazione di ciò che amplia l’oggetto del
giudizio e del giudicato e che, quindi, la domanda di accertamento incidentale rientri sicuramente
in questa categoria, ma mi sembra che le eccezioni, pur “riconvenzionali”, ne vadano espunte
proprio in quanto tese a provocare il mero rigetto della domanda. Nel senso della non tassatività
D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia cit., pag. 94 e seg.
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che il contumace ne sia informato, perché si è assunto la responsabilità di non
costituirsi in giudizio e quindi anche quella di non difendersi rispetto a eventuali
modificazioni non ampliative dell’oggetto del giudizio. Certo la problematica in
esame finisce con l’avere molto a che fare con la vasta problematica della
modificazione della domanda, ma la ratio della disposizione è ben chiara nel senso di
imporre la notifica al contumace delle sole domande capaci di incidere in senso
ampliativo sull’oggetto del giudizio(54) e non di altro.
Né mi sembra che in materia potrebbe essere applicato il ragionamento
svolto dalla Corte costituzionale con riferimento al provvedimento di convocazione
delle parti per l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art.
13, comma 2, l. 22 luglio 1997, n. 276(55), perché la logica dell’estensione della
normativa in discussione all’atto che si è ritenuto già ricompreso tra quelli indicati
dall’art. 292 cod. proc. civ., è quella dell’appartenenza dell’atto stesso a quelli che
gravano il contumace rispetto a date attività e non a quelli che incidono sull’oggetto
del processo. Solo i primi fanno infatti parte di una categoria che in astratto può
essere intesa con maglia capace di essere integrata, mentre i secondi fanno
riferimento a ciò che è capace di ampliare la sfera del giudizio e del giudicato e sono
suscettibili quindi di risolversi esclusivamente nella nozione della “domanda nuova”,
quale che sia in concreto la visione che si abbia di di ciò che questo significa.
Così se la Corte costituzionale ha potuto in quell’occasione ritenere
tacitamente modificata e integrata la norma di cui all’art. 292 cod. proc. civ. per il
tramite di una norma successiva(56), includendo tra i provvedimenti da comunicare al
contumace quello di convocazione delle parti per l’esperimento del tentativo di
conciliazione, non credo potrebbe riproporsi la stessa modalità argomentativa con
riferimento all’ordinanza di cui all’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., che ha riguardo
(54) Cfr. F. P. Luiso, Diritto processuale civile, II, 6° ed., Milano 2011, pag. 224 e seg. per il quale
“Alla base della decisione di rimanere contumace, c’è una valutazione della parte riferita
all’oggetto del processo, cioè alla situazione sostanziale dedotta in giudizio con la domanda. La
parte ritiene che, in relazione a quella situazione sostanziale, non ha interesse a difendersi: gli sta
bene anche rimanere soccombente. Va da sé che, per il rispetto del diritto di difesa, debbono essere
quindi notificati al contumace tutti gli atti, che contengono domande nuove, perché in relazione al
diverso oggetto del processo il contumace deve essere messo in grado di valutare ex novo se ha
interesse a costituirsi, oppure se mantiene l’interesse a non costituirsi”. L’Autore ritiene dunque
“non ragionevole” la disciplina legislativa che impone la comunicazione di alcuni provvedimenti
istruttori al contumace in quanto si tratta di provvedimenti che si muovono pur sempre nell’ambito
dell’oggetto del giudizio.
(55) Cfr. Corte cost. 22 aprile 2002, n. 130
(56) Il ragionamento della Consulta, nella sentenza citata nella nota che precede è infatti il
seguente: “ … secondo la giurisprudenza di questa Corte, dinanzi ad una scelta interpretativa
suscettibile di determinare un contrasto fra la norma censurata e la Costituzione, l'interprete deve
cercarne una diversa che eviti il supposto conflitto, dato che le leggi non si dichiarano
costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è
impossibile darne di costituzionali; … ad avviso del rimettente, una interpretazione della norma
censurata nel senso che la convocazione delle parti per l'esperimento del tentativo di conciliazione
debba essere comunicata anche al contumace, pur conforme a Costituzione oltre che alla lettera
della norma, sarebbe tuttavia preclusa dalla mancata inclusione di tale atto nell'elencazione
tassativa di quelli che, a norma dell'art. 292 del codice di procedura civile, devono essere
comunicati al contumace; … il supposto impedimento alla suddetta interpretazione è, invece,
inesistente in quanto l'art. 292 del codice di procedura civile, attesa la sua anteriorità alla norma
censurata, non avrebbe potuto evidentemente riferirsi a quest'ultima; … risulta, invece, del tutto
conforme ai principi che regolano la successione delle leggi nel tempo ritenere l'art. 292 cod. proc.
civ. tacitamente modificato dalla norma impugnata con la previsione di un ulteriore atto da
comunicare al contumace, rappresentato dal provvedimento di convocazione delle parti per
l'esperimento del tentativo di conciliazione”.
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al diverso fronte del diritto del contumace di venire a conoscenza degli atti che
riguardano la delimitazione del tema del contendere, che sono elencati dall’art. 292
cod. proc. civ. in relazione ai soli atti di carattere ampliativo della situazione
sostanziale dedotta in giudizio con la domanda. L’ordinanza in questione si muove
invece di necessità all’interno dell’oggetto della cognizione, perché certo non è il
giudice ad avere nel nostro sistema il potere di ampliare la sfera di ciò che diverrà ,
per il tramite della sua pronuncia, oggetto di giudicato e quindi non è inclusa,
neppure implicitamente, nella logica dell’art. 292 cod. proc. civ.
L’orientamento giurisprudenziale di legittimità che ricomprende nell’ambito
dei provvedimenti da comunicare anche al contumace il decreto con cui, ai sensi
dell’art. 789 cod. proc. civ., viene ordinata la comparizione dei condividenti e dei
creditori intervenuti per la discussione del progetto di divisione, recentemente posto a
base di analoga pronuncia della Consulta(57), si muove anch’esso sul piano della diretta
lesione del diritto sostanziale del contumace, assumendo rilievo l’acquiescenza delle parti
quale presunzione di consenso al progetto divisionale, ragione quest’ultima per la quale i
compartecipanti assumono rilievo nello status di comunisti e non di parti costituite(58).
Entrambe le pronunce richiamate hanno alla base quindi ragioni analoghe a
quelle che hanno portato all’estensione dell’art. 292 cod. proc. civ. per il tramite delle
pronunce di accoglimento della censura di illegittimità costituzionale della disposizione,
da un lato, nella parte in cui non prevede la notificazione al contumace del verbale in cui
si dà atto della produzione della scrittura privata nei procedimenti di cognizione ordinaria
dinanzi al pretore ed al conciliatore, di cui al titolo II del libro secondo del codice di
procedura civile(59) e, dall'altro lato, in relazione all'art. 215, n. 1, cod. proc. civ., nella
parte in cui non prevede la notificazione al contumace del verbale in cui si dà atto della
produzione della scrittura privata non indicata in atti notificati in precedenza(60).
Sul fronte della comunicazione o notificazione delle comparse con cui si
determina un ampliamento della materia del contendere con solo riferimento a quelle
che contengono domande nuove, con riferimento cioè al solo materiale capace di
estendere l’oggetto del giudizio ampliando la sfera di ciò che passa in giudicato, la
giurisprudenza di legittimità è invece monolitica(61), sottolineando così che il
contumace, in linea con quanto previsto dall’art. 292 cod. proc. civ. è soggetto a una
(57) Cfr. Corte Cost. 29 ottobre 2009, n. 276.
(58) Così Cass. 2 agosto 1990, n. 7751. A diversa logica appartiene invece Cass. 10 ottobre 1997,
n. 9849 dove si pone un problema effettivo di novità della domanda .
(59) Cfr. Corte cost. 28 novembre 1986 n. 250
(60) Cfr. Corte cost. 6 giugno 1989 n. 317
(61) Cfr. Cass. 27 febbraio 2007 n. 4440, che ha escluso dovesse essere notificato al contumace il
provvedimento di integrazione del contraddittorio; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27165, che nella
specie ha deciso che, al fine della valida introduzione nei confronti della parte contumace, di una
domanda nuova o riconvenzionale, che tragga titolo dal medesimo fatto posto a fondamento della
domanda principale, non è necessario ricorrere ad un'autonoma citazione, ripetendo la vocatio in
ius, ma, a norma dell'art. 292, comma 1, cod. proc. civ. è sufficiente notificare la comparsa
contenente detta domanda al contumace medesimo, il quale ha l'onere di accertare l'udienza di
rinvio senza ulteriori comunicazioni; Cass. 23 maggio 2003 n. 8162, che ha avuto modo di chiarire
non deve essere notificato al contumace neppure l'atto riassuntivo del processo con il pedissequo
decreto di fissazione dell'udienza, atteso che tale atto è rivolto a provocare la ripresa del
procedimento nello stato in cui si trovava nel momento in cui è sopravvenuto l'evento interruttivo;
Cass. 2 aprile 2003 n. 5057, che ha escluso vi fosse necessità di notificare al contumace la
comparsa con cui si costituisce volontariamente in causa, ai fini della prosecuzione del processo, il
successore universale della parte costituita deceduta nelle more del giudizio. Su altro fronte si veda
Cass. 26 settembre 2012, n. 16413 che ha escluso dovesse essere notificato al contumace il
provvedimento di ammissione della consulenza tecnica d'ufficio, ben chiarendo in motivazione che
“L’art. 292 c.p.c. prevede espressamente la notifica di atti, tassativamente indicati, che producono
un ampliamento dell’oggetto della causa o gravi conseguenze a carico del contumace”.
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regola di autoresponsabilità. La scelta di non costituirsi non gli dà quindi diritto di
essere informato delle modificazioni ammissibili, gravando su di lui la responsabilità
di aver deciso di non costituirsi in relazione a quei fatti dedotti dall’attore con la
domanda, quale ne sia poi la qualificazione.
5. - Venendo dunque a una conclusione a me sembra che nulla nel sistema
autorizzi a pensare che il contumace debba essere tutelato al punto di essere
destinatario dell’obbligo di collaborazione del giudice che si sostanzia, ai sensi
dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., nel dovere di comunicare alle parti una
questione rilevata d’ufficio prima di porla a fondamento della propria decisione.
Né lo stesso art. 101, comma 2, cod. proc. civ. e le norme ad esso collegate,
che nulla dicono sulla questione, ma impongono al giudice un dovere che si muove di
necessità, in relazione ai diversi principi cardinali che regolano il processo, all’interno
del suo oggetto delimitato con la domanda dell’attore; né il sistema generale, che fa
della contumacia ancora oggi qualcosa che oscilla tra la tutela del contumace e quella
del collegamento alla mancata costituzione di effetti gravidi di conseguenze che
dovrebbero sollecitare una diversa posizione; né infine i doveri di collaborazione
imposti verso il contumace dall’art. 292 cod. proc. civ., il cui ambito di applicazione è
ben diverso e quasi antitetico rispetto a quello dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ .
perché impone di rendere noti al contumace solo gli elementi che esorbitano la sfera
di ciò che, di necessità, gli deve essere reso noto e gli è stato reso noto all’inizio del
processo e sulla cui base ha assunto la determinazione di non costituirsi, non altro.
Certo, ciò non significa che dall’applicazione dell’art. 101, comma 2, cod.
proc. civ. non deriveranno mai conseguenze anche per il contumace, ma ciò
nell’ambito della previsione dell’art. 292 cod. proc. civ. Così qualora in giudice rilevi
d’ufficio la nullità del contratto di cui l’attore costituito avesse chiesto l’annullamento
potrà ben avvenire che quest’ultimo, stimolato al contraddittorio, formuli anche una
domanda di accertamento incidentale della predetta nullità perché su di essa si formi
il giudicato, ma è chiaro che ciò che dovrà essere notificato al contumace è la
comparsa contenente la domanda in questione ai sensi dell’art. 292 cod. proc. civ. e
non di per sé il provvedimento di sollecitazione del giudice.
E se si torna all’esempio iniziale di chi ha scelto di non costituirsi confidando
nel rigetto della domanda sulla base di una qualificazione dei fatti di causa poi
smentita dal giudice, viene spontaneo dire che questo soggetto, cui sono stati resi
noti i fatti allegati dall’attore attraverso la notificazione dell’atto di citazione, gravidi
di tutte le conseguenze giuridiche che agli stessi possono essere connesse, ha fatto
una scommessa sul contenuto della futura sentenza del giudice, confidando che
l’orientamento dell’ufficio leggesse l’atto di citazione nella stessa prospettiva posta a
base della scelta di non costituzione. Ma qualsiasi persona avveduta, soprattutto in un
sistema in cui la difesa tecnica è obbligatoria, sa bene che i fatti sono soggetti
all’interpretazione del giudice e la scommessa circa il contenuto della sua decisione
non può essere oggetto di tutela da parte dell’ordinamento.
Rimane dunque vero che il principio di collaborazione implica l’agire
congiunto di tre persone nel processo e che la collaborazione verso il contumace, che
per definizione rifiuta di prestarla, è delimitata all’interno della sfera piuttosto
angusta di applicazione dell’art. 292 cod. proc. civ.
Laura Salvaneschi
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Dovere di collaborazione e contumacia Autore