Giuditta Divisato
Il nostro percorso:
• Il mito e l’archetipo
• La matematica in Bruno
• Doppio confronto:
 Atteone e Narciso
 Bruno e Caravaggio
• “Se la forma scompare, la sua radice è eterna”:
Mario Merz.
• “La più grande opera d’arte mai realizzata”:
L’attacco al WTC
Il mito…
ha una struttura estremamente complessa, è un
sincretismo: non solo conserva il suo nucleo
originario (l’archetipo), ma trascina con sé i suoi
legami con il “rito”, le interpretazioni letterarie, il
senso comune, le rielaborazioni… il mito è una
realtà in divenire, si altera e si rifunzionalizza.
E’ per questo che Bruno usa immagini mitologiche:
sceglie una conoscenza dinamica, libera, eroica,
che si approfondisce per passione grazie ai tanti
piani della scrittura.
IL MITO nasce come spiegazione irrazionale
di fenomeni razionali (fase prescientifica)
CREDENZA:
Capacità di spiegare. Il mito ha una sua oggettività.
RITUALE
Mito come opera
collettiva
Comunicazione di
massa
Il mito non è esattamente un percorso simbolico
pur contenendo simboli, ma ci fornisce una
chiave per la leggibilità del mondo.
Il mito è un’immagine.
Le immagini “recano in sé qualcosa di
ammirevole, di terribile, di gaio, di triste, da
amico, da nemico”.
Vai a:
Il mito di Atteone
Il mito di Narciso
(G. Bruno)
Alla base del mito c’è l’ Archetipo: un energia, una forza
primordiale.
L’archetipo è fermo, inchiodato, monocorde.
Kandinskij : archetipi nitidi
Si passa da un’arte interpretativa ad una “introversa.
“Rigorosa astrazione, rigoroso realismo, rigoroso
sentimento” (Kandinskij)
Ma l’astrazione non può che partire dalla
MATEMATICA
Nello Spaccio, tra le nove Muse figlie di
Mnemosine, “l’Aritmetica è primogenita” e “più
volte che non concepe individui e specie di
numeri, ed oltre per più millenarii de millenarii che
mai possa con le sue addizioni apportar
l’intelletto”.
“La Geometria – invece- più che mai forme e
figure formar si vagliano, e che atomi possa mai
incorrere per le fantastiche risoluzioni di continui”.
“Tutti i sapienti riconoscono inoltre
che la matesi è particolarmente utile
quando si lavora sull’anima, perché
ciò che appare è immagine di ciò che
è, dal momento che gli enti cha
abitano il mondo intelligibile nel
mondo sensibile si mostrano come in
uno specchio.
Qui sono in movimento, in varietà,
mentre lì stanno perpetuamente
immobili.
La matesi insegna a fare astrazione
della materia, dal movimento al
tempo, ci rende capaci di intendere e
contemplare le specie intelligibili…
…Così Pitagora, Platone e tutti i
maestri che hanno provato a
fornirci insegnamenti profondi e
difficili, hanno fatto uso solo di
mezzi matematici. Il nemico stesso
dei matematici, il logico Aristotele,
più d’una volta avverte la
necessità di ricorrere all’odiata
matematica nello sforzo di
spiegare i segreti più profondi della
natura.
Dalle immagini dei corpi e dalle
ombre, che sono oscuri sensibili,
tramite i matemata, s’apre
l’accesso alle idee, che per lui
sono chiari intelligibili...”
La matematica è, nel Sigillus, il Terzo Reggitore.
Consente il passaggio dall’ombra all’idea.
Pitagora: “le cose si colgono su uno sfondo
umbratile”
Bruno: “Umbra profonda sumus”
La capacità di astrazione è una Venatura mistica:
Stimolo alla decifrazione, sforzo del pensiero
Ma il Nolano può lasciarsi guidare dall’immaginazione
verso l’infinito fondando una “metamatematica”, una
“semigeometria”.
Bruno non fornisce dogmi ma suggerimenti.
Dunque, i quasi- spazi e i quasi-numeri sono vie,
percorsi, binari.
E’ un criterio analogico ma ugualmente rigoroso
MATHESIS SINGULARIS=
non dell’universale, ars combinatoria
Con i “quasi” non si fa la scienza ma si può fare l’Arte.
Atteone
e
Narciso
Entrambi vedono la Verità nuda
Fuori di sé
Dentro di sé
Entrambi eccedono la misura, pretendono di abbracciare
la Verità così come l’hanno vista e muoiono.
Bruno
e
IL FILOSOFO
si perde nelle cose
Caravaggio
L’ARTISTA
si perde in se stesso
Mit
o di
Att
eo
ne
E’ nel mito di Atteone che Bruno riassumere e concretizzare
la sua concezione dell’omoiosis theo. Il filosofo rilegge in
chiave filosofica, con interpretazioni, allegoriche il mito antico ,
cambiandone anche la gerarchia assiologica : la vicenda di
Atteone,
primitivamente
fortemente
negativa,
viene
reinterpretato, personalizzata, “positivizzata”.
Alle selve i mastini e i veltri slaccia
il giovan Atteon, quand’il destino
gli drizz il dubio et incauto camino,
di boscarecce fiere appo la traccia.
Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia
che veder poss’ il mortal e divino,
in ostro et alabastro et oro fino
vedde: e ‘l gran cacciator dovenne caccia.
Il cervio ch’ a’ più folti
luoghi drizzav’ i passi più leggeri,
ratto voraro i suoi gran cani e molti.
I’allargo i miei pensieri
ad alta preda, et essi a me rivolti
morte mi dan con morsi crudi e fieri.
Dopo il sonetto, Bruno
prova a raccontare il
mito: racconta di questo
cacciatore , Atteone ,
che inoltrandosi in una
selva fitta e difficile da
percorrere arriva ad un
laghetto e vede la dea
Diana nuda che fa il
bagno.
La pudica dea, irata, lo punisce trasformandolo in cervo e a questo
punto i suoi cani, non riconoscendolo, lo inseguono e lo sbranano.
Evidentemente il significato originario del mito era fortemente
negativo : ben emerge il tema della ubris, dell' uomo che compie
qualcosa che lo colloca su un piano che non é il suo, su un piano
eccessivo, e lo uno sfondamento dei limiti viene punito.
Invece Bruno lo legge diversamente perchè
nulla é più positivo che sfondare i limiti ,
espandersi liberamente all' infinito.
Così il Nolano legge ogni elemento del mito
reinterpretandolo : Atteone é l' uomo ( più
precisamente il filosofo ) ; i cani sono di due
tipi , alcuni più agili ma meno forti , altri più
forti ma meno agili , e rappresentano
rispettivamente due aspetti delle facoltà umane, la volontà e l'
intelletto ; la metafora dell’ attività venatoria é tipica per descrivere
la ricerca filosofica (già Platone l’aveva usata), quasi si andasse alla
caccia del sapere.
Atteone ( il filosofo ) insegue la preda (la natura ): é il filosofo che
ricerca l' essenza della natura; ma la selva non é facile da
attraversare e non tutti possono farcela ; ad un certo punto il filosofo
incontra la dea Diana che incarna la natura e che si rispecchia nello
stagno : la dea che si rispecchia simboleggia la divinità che si
rispecchia nella natura.
Bruno riprende un' espressione
già usata da San Paolo
secondo la quale la divinità può
essere letta "per speculum ",
come attraverso lo specchio
della natura.
Il filosofo avendo inseguito la
natura la vede nella sua nudità ,
nella sua essenza e lui stesso
ne é trasformato (il cervo
incarna anch' esso la natura) .
I cani si rivolgono contro di lui , cioè i suoi pensieri prima rivolti ad
una natura concepita come esterna finiscono per rivolgersi contro lui
stesso finché non viene da essi catturato, l' uomo arriva cioè a
capire che lui, la natura e la divinità sono la stessa cosa . Il filosofo
che ricerca la natura trova la divinità e alla fine scopre che questa
natura - divinità non é altro che lui stesso.
“Rarissimi, dico, sono gli Atteoni alli quali sia
dato dal destino di posser contemplare la
Diana ignuda, e dovenir a tale che dalla bella
disposizione della natura invaghiti in tanto e
scorsi da que’ doi lumi del gemino splendor di
divina bontà e bellezza, vegnano trasformati in
cervio, per quanto non siano più cacciator ma
caccia”.
Il mito rappresenta tutta la filosofia bruniana , l' identità Dio natura - uomo che c'é sempre stata e sempre ci sarà , ma spetta
alla filosofia portare l' uomo a rendersene conto. La narrazione
assume dunque una denotazione fortemente positiva , perchè
rappresenta l' uomo che arriva al traguardo del processo
conoscitivo ma si tratta di attraversare luoghi " visitati e perlustrati
da pochissimi, e però dove non son impresse l'orme de molti
uomini " ; solo gli uomini superiori alla massa potranno farcela.
L’incantesimo di Diana
si fa incantamento, la
sua magia rivelazione.
L’avventura di Atteone
concorre a definire
l’itinerario del furioso.
Non basta l’ “operazion
de l’intelletto”, ma è
richiesta anche quella
“più vigorosa et efficace” della “voluntade”, poiché “a l’intelletto umano
è più amabile che comprensibile la boutade e bellezza divina”.
Nonostante la “lanterna” dell’amore, il suo cammino resta incerto,
come “breve et instabile” è il furore. Atteone (o chi per lui) non può
cogliere la “buntade” e o lo splendore divini se non “nel specchio de le
similitudini”, e tale mediazione è tanto più necessaria in quanto è solo
convertendolo in sé che il finito può cercare di mettersi sulla via
dell’infinito. In forza di questa conversione il furioso diviene da
predatore a preda.
Questo impeto alla ricerca è chiamato
da Bruno “eroico furore”.
Traduce e reinterpreta la concezione
dell' amore platonico. Il termine
"furore" va inteso come "pazzia"
(Platone stesso aveva insistito sul
fatto che l' eros fosse una follia ,
anche se positiva).
Ma l’ “eroico” va letto in un duplice significato: anche qui Bruno
riprende un gioco di parole e una falsa etimologia di cui si era già
servito Platone notando l' analogia tra eros ed eroe .
Nel mondo greco classico, poi, eroe era anche la semi-divinità e
Platone nel Simposio insisteva sul fatto che Eros fosse un semidio ; eroico vuol quindi dire sia eroico, nel senso di valoroso, ma
anche nel senso di erotico per Bruno.
Ma cosa sono gli Eroici furori ?
E’ insita nell’animo umano un’inquietudine di fondo, un’energia
primordiale che spinge ognuno alla ricerca di se stesso, alla
comprensione della labirintica realtà che ci circonda.
E’ un’inquietudine che non si placa e non tarda a divenire una
naturale tensione verso l’Assoluto, volontà di trascendere il reale,
il “folle volo” di chi vuole a tutti i costi superare il limite consentito
e osa realizzare il proprio “aufhebung”.
Gli “eroici furori” sono la tendenza mistica propria dell' uomo all'
omoiosis theo ( assimilazione a Dio ) . Bruno riprende dalla
tradizione platonica l' idea dell' avvicinarsi sempre di più a Dio
fino ad " indiarsi " , come dice Dante , ma è convinto che sia
contemporaneamente un fatto di ragione e di intelligenza da un
lato ma anche di volontà e di amore dall' altro .
Quello che é nuovo e rivoluzionario in Bruno é la concezione di
quel Dio a cui l' uomo é invitato ad assimilarsi: lo slancio di
amore e di intelligenza, ma anche di libertà, del Nolano, è
totalmente diverso da quello dei cristiani.
L'
unico
Dio
che
veramente c'é per l'
uomo , e ancora di più
per il filosofo , é il mondo,
il Deus insitus omnibus.
In Bruno non c'é Dio che
si identifica con la forma
e accanto la materia ;
Diana e Atteone - Tiziano
in Bruno non c'é opposizione materia - forma e quindi la
sua attenzione é totalmente rivolta alla natura, che si
identifica con Dio . Bruno é radicalmente panteista perchè
tutto il mondo é Dio , non solo nei suoi aspetti formali , ma
anche in quelli materiali .
A questo punto, in un discorso di
radicale immanentizzazione, l’omoiosis
theo
di
Bruno
sembrerebbe
un’incongruenza, un paradosso: Se Dio
fosse il mondo intero ( deus sive natura)
e quindi già noi fossimo Dio, come
facciamo ad identificarci con un Dio che
siamo
già
noi?
Cosa
significa
identificarsi in Dio se già lo siamo?
Significa un qualcosa di piuttosto simile
a ciò che intendevano gli stoici, significa
"diventare ciò che si é", riconoscersi,
rendersi conto di essere Dio perchè
finché non ce ne rendiamo conto é come
se non lo fossimo.
Bruno era attratto dal
mondo egizio soprattutto
perchè le divinità egizie
erano
terioantropomorfiche ed il
Nolano vedeva ciò come
una
rappresentazione
simbolica dell' identità Dio
- natura , ma anche
natura - uomo e quindi
Dio - uomo : questi tre
aspetti sono quindi ai suoi
occhi la stessa cosa e
l'omoiosis theo realizza
proprio questa identità .
Il mito di Narciso è, fra i miti
Il mito di
Narciso
Narciso e la ninfa Eco: pittura parietale
(I sec a.C – I sec.) da Pompei
classici, uno di quelli dei quali è
possibile notare la ricorsività
pressoché
ininterrotta
nella
storia della cultura occidentale.
La prima versione completa del
mito è quella che troviamo nel
terzo libro delle "Metamorfosi" di
Ovidio.
Qui, Narciso è figlio del dio del
Cefiso e della ninfa Liriope.
Quando nacque i genitori
interrogarono l’indovino Tiresia,
il quale rispose loro che il
bambino “sarebbe vissuto fino a
tarda età, se non avesse
conosciuto se stesso”.
Diventato adulto, lo splendido Narciso
fu oggetto della passione di un gran
numero di fanciulle e di ninfe, tra cui
Eco.
Eco era una ninfa che riusciva ad
incantare con la parola. Zeus se ne
avvaleva per distrarre Giunone e
poterla così tradire con le altre ninfe.
Ma la dea, scoperto l'inganno, punì Eco
togliendole la possibilità di parlare
autonomamente: ella poteva solo riferire le
parole
pronunciate
da
altri.
Eco, innamorata e respinta da Narciso,
disperata, si ritirò in solitudine dove dimagrì
fino a ridursi a “puro suono” e trasformare le
sue ossa in sasso, in prossimità di uno
specchio d'acqua.
Trovandosi alla sorgente,
Narciso scorse la propria
immagine riflessa e se
ne
innamorò
perdutamente.
Fu
talmente
desideroso
di
stringere e toccare il volto amato
che annegò nelle acque.
Sulla riva della sorgente, nel posto
preciso in cui il giovane perse la
vita, nacque un fiore che prese il
suo nome.
Il “Narciso”
di
Caravaggio
Caravaggio non ritrae in modo diretto ed evidente il soggetto
del quadro, ma il suo "Narciso" costituisce un esempio
significativo di come l'arte possa rappresentare il rapporto tra la
bellezza ideale e la complessità della realtà.
In questa tela l'artista lombardo risolve il tema mitologico
accentuandone la drammaticità, anziché risolverla in una
composizione dall'equilibrio classico.
Nulla è mostrato dell'ambiente che circonda il soggetto: Narciso
emerge dall'ombra e ciò sottolinea drammaticamente lo stupore
improvviso, la meraviglia ed il coinvolgimento che il giovane
prova nel vedere un'immagine così bella, l’espressione
anelante che si coglie dal suo profilo.
La naturalezza della posa del giovane, inginocchiato che si
protende verso l’acqua, segue l’andamento verticale della tela.
Altro elemento di grande rilevanza è l'innovazione
iconografica del soggetto: la doppia figura di Narciso
dinamizza l'intera opera. Nella parte bassa del quadro,
infatti, non vediamo l'immagine riflessa di Narciso, che si
sarebbe vista dal basso, ma una "figura", realizzata con il
puro e morbido variare tonale delle cromìe, pressoché
identica a quella rappresentata nella parte superiore del
dipinto .
L'eccezionale invenzione della doppia figura a carta da
gioco di cui è fulcro ideale il ginocchio in piena luce, fa
emergere come la rappresentazione sia costruita
magistralmente secondo una struttura circolare e speculare.
Caravaggio predilige le atmosfere magiche, sorprese,
introspettive, sonda le infinite possibilità del rapporto luceombra e ne risulta un fascio di luce quasi surreale che
investe le spalle e la schiena di Narciso evidenziando le
eleganti decorazioni della sua veste.
Bruno e Caravaggio:
parlare della luce attraverso l’ombra
In un contesto, che viene definito di matrice
“idealista”, è nato ed ha proliferato il rapporto
tra Caravaggio e Giordano Bruno.
Fu il grande storico dell’arte Giulio Carlo
Argan, nel 1951, a parlare, riguardo alla
lettura dell’opera caraveggesca, di una
“religiosità eterodossa, bruniana”…
Il discorso, in seguito ampliato ed
approfondito, è stato ripreso negli ultimi
anni dallo
studioso Bruniano Nuccio
Ordine.
Gli Eroici Furori sono ricchi di rimandi all’arte pittorica e
implicano un inseguire la forma, perseguire la bellezza,
perché la passione per la verità è passione per l’arte, per il
bello.
Lo stesso Giò Bernardo, nel Candelaio, è un pittore. E
infatti “metaforicamente, per Bruno, il pittore ed il filosofo
fanno lo stesso mestiere che parte dall'ombra. Il contorno
delineato dall'artista non basta a raggiungere la verità, più
che l'osservazione dell'ombra nella caverna di Platone.
Bisogna superare la soglia, osare non accontentarsi della
riproduzione del modello, azzardarsi al di là dei limiti
ammessi. Donare lo slancio supplementare indispensabile
non promette la conoscenza, che non raggiungeremo mai.
Ma come Socrate-Sileno, di cui condivide il gusto del
dialogo come del comico, Bruno scopre la superficie, ricusa
le apparenze, contesta gli errori che il linguaggio
contiene.” (Nuccio Ordine)
Michelangelo Merisi detto Il
Caravaggio - Autoritratto
Tanto per Bruno quanto per
Caravaggio è nel chiaro-scuro, nel
gioco di luci ed ombre che è
possibile comprendere il rilievo e la
misura delle cose.
Il pittore fa letteralmente uscir fuori il
suo personaggio dall'ombra; l'ombra
è la natura, la variabilità, mentre
l'idea non è altro che ciò che resta.
Ma, al di fuori delle congetture e delle supposizioni,
della probabilità che Michelangelo Merisi frequentasse
ambienti in cui la filosofia bruniana era ben conosciuta
e delle stupefacenti quanto ironiche analogie
caratteriali tra i due personaggi, li ritroviamo spesso
sulla stessa lunghezza d’onda.
Entrambi seguono un percorso
estremamente
complesso,
un
pensiero ricorsivo che non è
chiarezza, che non scorge un ordine e
una coerenza totale ma trova
un’armonia.
E come tralasciare la loro portata
rivoluzionaria?
Caravaggio e
Bruno segnano uno
stacco sostanziale, uno stravolgimento
della tradizione, entrambi si affidano al
furor, entrambi colgono la realtà in
maniera intuitiva, è una sorta di
ispirazione a disvelare la verità e
dettare una nuova prassi.
Caravaggio difende la pittura come poesia, allo stesso
modo di Giorgione e Tiziano. La poesia non è
un’invenzione fantastica, ma l’espressione della vita
interiore, della più profonda realtà umana. Non è né
contro né al di sopra, ma dentro il reale, ne costituisce il
significato più autentico.
Caravaggio riporta nella pittura la realtà viva, dimostra
come, così inquadrata e messa a fuoco, la realtà si
faccia più vicina e i suoi contrasti risultino più netti.
Altrettanto può dirsi della storia: non allontana la realtà,
l’avvicina; non rasserena, drammatizza.
I fatti non sono dati come accaduti e giudicati, ma colti
nella loro flagranza del loro accadere qui, ora. E’ un
istante, un frammento: ma è un istante reale, un
frammento vivo dell’esistenza.
L’ideale non spinge a superare ma ad entrare più
profondamente nella realtà.
MARIO MERZ
“Se la forma scompare la sua radice è eterna”
Mario Merz, Bottiglia e
bicchiere trapassati,1966-67.
Bottiglia, bicchieri, neon,
bambù, rotella,
cm.130x70x35 coll. privata,
Torino. Courtesy Archivio
Merz, Torino
"Parto dall'emozione che mi dà un oggetto artigianale,
fatto per esempio di vimini intrecciati, la cui struttura
archetipa annulla la materia. Dopo, procurandomi
l'oggetto, cerco di appropriarmi manualmente della sua
struttura disponendolo in varie posizioni finché non lo
sento vivere all'unisono con la mia struttura fisica. A
questo punto interseco tale forma con l'immagine di
un'energia diversa. Come, per esempio, un tubo al neon".
Mario Merz, Autocarro, 1957. Olio su tela, cm
70x100. Collezione privata
"Solitario,
nomade
e
visionario", come lo ha
definito il critico Harald
Szeemann, Mario Merz
nasce a Milano nel 1925,
ma si trasferisce presto a
Torino dove intraprende gli
studi in medicina senza
concluderli.
Nel 1953, autodidatta, Merz si affaccia al panorama dell'arte
con una pittura nuova e imprevedibile, di segno astrattoespressionista che prende spunto dall'immagine naturale,
disgregandone le forme, in un approdo informale con cadenze
espressioniste.
Partito da una pittura di riferimento espressionista, di una
violenza materica e quasi pànica, carica di rimandi simbolici e
visionari, vi tornerà in età matura, con la serie dei "preistorici",
grandi immagini di animali dal sapore ancestrale.
Ma negli anni Sessanta sceglie l'installazione e la
sperimentazione con materiali eterogenei e contrastanti
che formulano un discorso aperto e complesso sul
continuo intrecciarsi di mondo naturale e realtà artificiale:
ferro, cera, neon, terra, intesi ad un realismo oggettuale di
carattere neo- dada.
I tubi di neon luminoso
sono tracce di energia
che Merz inserisce negli
oggetti
più
comuni:
bicchieri,
bottiglie,
ombrelli, come "Che
fare?" del 1968, una
pentola ripiena di cera e
attraversata da una
scritta luminescente.
E’ così che Merz, insieme a un
gruppo di artisti di cui fanno
parte
Pistoletto,
Zorio
e
Penone, dà vita a quel
movimento
che il critico
Germano Celant nel 1967
consacrò come "Arte Povera",
e che resta ancora oggi il
l'avanguardia artistica italiana
più nota e conosciuta all'estero.
Vento preistorico dalle montagne
gelate (1983) – pastelli su carta
Mentre negli States esplodeva la pop art, Merz e gli altri
sceglievano materie semplici, naturali, il legno, il vetro, il
ferro, la corda, per la loro manipolazione artistica,
trasformando quei materiali inerti in installazioni e
sculture attraversate da energia vitale.
Scriveva allora Celant: “Merz parte da
una realtà interiore per approdare ad
una realtà mondana. Stimolato
emotivamente da un gruppo di oggetti
familiari, banali, consueti… cerca di
appropriarsene, collezionandoli. I suoi
agglomerati oggettuali diventano così
gruppo di sensi che evidenziano,
mediante l’accostamento e il montaggio di immagini discordi,
l’istante di partecipazione emotivo-gnoseologica avvenuta in
Merz…” Merz, l’artista-alchimista, svolge un ruolo
emblematico tra i “poveristi” attraverso la sua profonda
ricerca sulle leggi del mondo naturale che lo porta a ribellarsi
contro l’ordine “costruito” che l’uomo ha cercato di imporre.
Di seguito, nell’ambito dell’arte povera, Merz passava alla
realizzazione di ambienti nei quali la componente concettuale
si univa ad una dimensione esistenziale intensa e violenta
Mario Merz, Igloo con albero, 1968-1969
Tubolare in ferro, vetri, stucco, ramo. Igloo cm.
100xØ200. ramo h. cm. 320, Collezione
Margherita Stein - Fondazione CRT progetto Arte
Moderna e Contemporanea. Deposito permanente
Castello di Rivoli - GAM
Tutta la sua arte è un
lavoro sull'energia. Nel
1968, l’anno della profonda
critica sociale e politica,
l’artista propone il primo
esemplare della lunga serie
di igloo realizzati con i
materiali più diversi (creta,
tela,
pietra,
vetro,
cemento):
una
forma
archetipica
nata
dallo
sviluppo in tre dimensioni di
una spirale. In questa
forma,
Merz
riconosce
l’energia strutturale della
natura e crea uno "spazio
esterno" che "è misura di
uno spazio interno".
Fibonacci
igloo (1972)
Gli igloo di Merz collegano
l'antico
al
futuro,
la
dimensione
umana
dell'abitare e il rapporto
vivo e dirompente con ciò
che ci circonda. Con l'igloo
l'artista
recupera
"una
forma minimale come la
bolla di sapone, cioè una
membrana sempre tesa al
massimo
della
sua
plasticità...una fusione di
tanti linguaggi e tanti)
pensieri, di osservazioni
geometriche, aritmetiche e
geografiche: l'uomo ha acquistato diverse facce, un
contadino, un marinaio: anche l'igloo assume diverse facce
ogni volta che cambia posizione, anche geograficamente".
(M.Merz)
Il
motivo
ricorrente
dell’igloo sembra voler
chiudere, in un nucleo di
forza, l’energia naturale;
secondo la massima del
generale
vietnamita
Giap, che Merz cita (“se
il nemico si concentra,
perde spazio, se si
allarga perde forza”), e
così commenta la scelta di questa sua immagine: “l’idea è
rotonda… se seguite la massima, tornerete all’inizio e vedrete
come essa si scuote e come si calma. Non c’è chiarimento, non
logica, non progresso. Essa è una forza dinamica compressa”.
E in nome di questa “forza” in questa sua continua ricerca di
energia, Merz recupera, nei suoi lavori recenti (nei quali
prosegue anche l’assemblaggio di materiali eterogenei) la pittura,
una pittura grondante, di matrice espressionista e barocca, carica
di drammatica, intensa, biologica sensualità.
Dal 1970 questo interesse viene spesso
sottolineato con l’inclusione di alcuni
numeri che appartengono alla serie di
Fibonacci: il matematico pisano aveva
infatti individuato nel ritmo elaborato, in
cui ogni cifra è la somma dei due
precedenti, i processi di crescita del
mondo organico.
"Nella serie di Fibonacci non ci sono limiti
spaziali, perché lo spazio diventa infinito"
Tale serie che in geometria si svolge
attraverso in spirali, rimanda ad un'idea
di
espansione e ritorno ciclico dello
spazio-tempo e si presenta come une
legge strutturale della natura.
Il volo dei numeri, Mario Merz.
Mole Antonelliana, Torino.
Merz usa e interpreta la
progressione numerica di
Fibonacci come emblema
dell'energia insita nella
materia, collocando le cifre
realizzate al neon sia sulle
proprie opere sia negli
ambienti espositivi, come nel
1971 lungo la spirale del
Guggenheim Museum di
New York, nel 1984 sulla
Mole Antonelliana di Torino e
nel 1990 sulla Manica Lunga
del Castello di Rivoli.
“Un numero” scrive Merz “può
essere una cosa e nient’altro;
scritto col neon, esso significa
quel singolo numero e nient’altro,
scritto in quel modo e in nessun
altro. Il neon non è un oggetto, ma
il fatto che l’elettricità fluisca
attraverso di esso, lo rende meno
oggetto”.
“Io cerco l’Energia che scorre liberata dalle catene del ritmo,
come la musica dell’India”.
All’interno dell’ordine fittizio che l’uomo ha cercato di dare al
mondo, si è acuita la sua separazione dall’istinto e dalle
sensazioni elementari. Merz cerca, con le sue opere, per le
quali ricorre a materiali diversi ed eterogenei, unificati dalla
luce, il recupero di questa energia elementare che regola la
natura.
Mario Merz, Tavolo a spirale per festino di
giornali datati il giorno del festino, 1976.
Metallo, vetro, pietra, fascine, frutta. Altezza
cm. 140, diametro cm. 630. Coll.
Kunstmuseum Wolfsburg. Courtesy Archivio
Merz, Torino
Dal 1976 lavora alla figura
simbolica della spirale che
successivamente
viene
associata a quella, altrettanto
ricorrente, del tavolo, sulle cui
superfici vengono disposti frutti
che, lasciati al loro decorso
naturale, introducono nell'opera
la dimensione del tempo reale.
o l'utilizzo di materiali che
vanno a formare strutture
complesse a spirale realizzate
con tubolari in ferro, cristallo,
pietre, neon, fascine, ortaggi,
frutta, giornali.
Alla fine degli anni Settanta Merz
recupera la figurazione dipinta,
delineando grandi immagini di
animali caratterizzati da una
forte
tradizione
mitologica,
"preistorici" come li definiva
l'artista, quali Coccodrillo del
Niger (1972-1989),
in cui il
coccodrillo, creatura archetipica
che diventa una metafora della
forza distruttiva, del Divoratore:
insaziabile, freddo e sanguinario, che divora inesorabilmente
tempo e spazio.
In queste opere compaiono animali primordiali come iguana,
zebre, tigri o chiocciole (replica dell'interesse per la forma a
spirale e l'avvolgersi del tempo su se stesso) che divengono il
soggetto di tele e installazioni che tendono a coinvolgere in modo
sempre più vasto e potente lo spazio espositivo.
Nel 1981 la Città di Kassel gli conferisce il premio Arnolde Bode
mentre, due anni dopo, riceve a Vienna il premio intitolato a
Oscar Kokoschka.
Nella “poetica” di Merz la giustificazione della raccolta e degli
accostamenti “azzardati” consiste nel fatto che “animali, vegetali
e minerali sono insorti nel mondo dell’arte. L’artista si sente
attratto dalle loro possibilità fisiche, chimiche, biologiche, e
riinizia a sentire lo svolgersi delle cose del mondo, non solo
come essere animato, ma produttore di fatti magici e
meraviglianti.
Mario Merz, Il vagabondo del torrente,1983. Acrilico su
tela, neon, cm. 140x1050. coll. Moderna Museet,
Stockholm. Courtesy Archivio Merz, Torino
L’artista - alchimista organizza
le cose viventi e vegetali in fatti
magici, lavora alla scoperta del
nocciolo delle cose, per
ritrovarle ed esaltarle. Il suo
lavoro non mira però a servirsi
dei più semplici materiali ed
elementi naturali
per una
descrizione e rappresentazione
della natura; quello che lo
Mario Merz, Senza titolo, 1963.
Olio su tela,Collezione privata
interessa è invece la scoperta, la presentazione,
l’insurrezione del valore magico e meravigliante degli
elementi naturali… Tutto il suo lavoro tende, di
conseguenza, solamente alla dilatazione della sfera del
sensibile; non si offre come affermazione, indicazioni di
valore, modello di comportamento, ma come prova di
esistenza contingente e precaria…”
Mario Merz, Igloo,
(Tenda di Gheddafi),
1968-1981 Tubolare
in ferro, acrilico su
tela di juta, cm.
240xØ500. Collezione
permanente Castello
di Rivoli - Museo
d'arte contemporanea
Il ricorso a materiali “poveri”, naturali, antiartistici, la
volontà di evidenziare l’energia, di analizzare i processi
naturali rivela l’intenzione di fare un uso aformale dei
materiali, affidando loro qualità che interessano
soltanto l’artista, secondo una sua ermetica
concettualità.
Merz, spostando la visione della
realtà, ci ha insegnato come il
processo conti più dell’opera,
ricorrendo
all’impoverimento
dell’alfabeto
segnico
per
trasformare il messaggio artistico
in momento di coinvolgimento
emotivo dell’osservatore.
La ricerca sensoriale dell’artista
sfocia in combinazioni di elementi
industriali
e
naturali
che
testimoniano di un’arte legata alla
dimensione temporale proprio
perché
determinata
dalla
deperibilità dei materiali.
Mario Merz, Il fiume appare, 1986.
Quotidiani, vetro, neon, ferro (tondino di ferro), cavo
elettrico, trasformatore cm. 268x1430x220 Fondazione
Torino Musei - GAM Torino
L’artista torinese parte
“da un pittoricismo
addirittura magmatico,
sotto la cui scorza,
però è già in azione
un motivo strutturale
biomorfo, la spirale, o
comunque
un
elemento
curvilineo
che consente
l’irradiazione di una specie di linfa organica”. (Lara- Vinca Masini)
Linfa che poi si concretizzerà nell’intreccio di tubi al neon che
avvolge e illumina di energia vitale gli oggetti e le installazioni
realizzati da Merz degli anni ’60 in avanti.
La spirale appare
Se la spirale rappresenta il
grande motivo semantico,
e fascinosamente misterico
allo
stesso
tempo,
presente fin dalle prime
prove
della
maturità
artistica, la luce fredda e
gelatinosa
del
neon
rappresenta la concretizzazione
dell’idea
di
energia, di esistenza vitale.
Una sorta di metafisica realizzata con mezzi, materiali ed
effetti semplici, che innalza la banalità del quotidiano a livello
di arte. Merz ha coniugato sensorialità e concettualità nella
sua concezione vitalistica dell’arte.
E qui la forza spiazzante del suo concettualismo tocca i suoi
vertici.
“La più grande opera d’arte mai
realizzata...
Cinquemila persone che in
un solo istante vengono
cacciate a forza nella
resurrezione. Io non potrei
mai arrivare a niente di
simile. Davanti a questo,
noi compositori non siamo
nulla.”
-Karlheinz Stockhausen-
Le immagini sono parte integrante
della nostra esistenza e della
nostra conoscenza, mettendo
per un attimo da parte la
mostruosità del gesto e le sue
orribili conseguenze, non
sarebbe forse possibile
considerare i due impatti dell’11
settembre 2001 come la più
enorme installazione di
performing art della storia?
Chi di noi non le riconoscerebbe?
Quale segno grafico più indelebile nella memoria collettiva
delle due torri in fiamme?
Quale gesto artistico più estremo è immaginabile?
L’inconsapevolezza dell’autore ha ancora un significato
nell’epoca in cui l’arte e l’artista sono due mondi affatto
separati, a volte in aperta contraddizione l’una con l’altro?
In una mostra, organizzata
da Vittorio Sgarbi, il video
dell’attentato
alle
Twin
Towers è diventato la sigla
iniziale del XXI secolo. Ne è
stata scelta una per secolo,
la distruzione è il sigillo dei
nostri
anni.
Che sia un’opera d’arte o
meno,
conta
poco,
l’intenzionalità dell’autore è
relativa, quelle immagini ci
appartengano
e
ci
rappresentano, non sono un
mero documento.
L’arte contemporanea esibisce spesso, impietosamente, la
crudeltà, ma non potrebbe fare diversamente: è la nostra
storia masticata e digerita, restituita sotto nuova forma.
Accusato di essere cinico ed
irriguardoso, Stockhausen ha
fatto scandalo con le sue
dichiarazioni ma cos’è che
infastidisce? Il compiacimento
nella rappresentazione della
violenza?
Tanto scalpore, forse, perché la
violenza
talvolta
diventa
insostenibile?
Nella caustica dichiarazione del
maestro ritrova il fil rouge che
ha caratterizzato tutta la storia
del ventesimo secolo la
“filofollia”: il capolavoro in
negativo, per sottrazione.
L’estetica della scomparsa…
Una katastrofè che ci riporta a noi
stessi, nudi nella nostra fragilità
archetipale, in un momento di
cesura decisiva: “dopo” non sarà
mai più lo stesso ma al contempo è
il preludio della palingenesi.
La catastrofe, sia essa naturale o
provocata dall’uomo, diventa
categoria estetica dell’arte, le
categorie spazio e tempo si
riducono.
“Creare l’incidente e non più tanto
l’evento… rompere la
concatenazione di causalità che
caratterizza così bene la normalità
quotidiana – questo tipo di
espressionismo è oggi universalmente ricercato, tanto dai
‘terroristi’ quanto dagli ‘artisti’ e da tutti gli attivisti contemporanei
dell’epoca della globalizzazione planetaria”. (Paul Virilio)
Di fronte a qualcosa che lascia tutti col fiato sospeso di
fronte al mondo agonizzante, la paura, l’incomunicabilità, il
disorientamento…il sublime, quel sentimento, come ha
affermato lo stesso Karlheinz Stockhausen, che è proprio
della dismisura.
Dismisura di volumi, dismisura di emozioni e di visioni,
distorsioni, dismisura dei battiti.
Si resiste alla repulsione e si resta lì, succubi, affascinati,
impotenti.
Il sublime è un sentimento che mescola insieme sgomento
e piacere ed ha la propria origine nel grandioso,
nell’incommensurabile di fronte a cui l’uomo prova un
senso di finitezza, di fragilità.
Il sublime si pone al confine fra etica ed estetica.
Lì, il confine fra bello e brutto, piaciuto o meno si dissolve.
Inizia dell’altro.
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Mito e ricerca archetipale