Il plurilinguismo e la molteplicità
degli stili
Di: Matteo Ricciardi, Daniel Segatori, Stefano Mancini
Analisi del Termine: Plurilinguismo
Per plurilinguismo si intende la
compresenza di più registri
linguistici in un unico testo.
In questo forse sono stato il più
grande esponente letterario
italiano.
La mia opera che più manifesta un
plurilinguismo è la Divina Commedia,
dove si alternano linguaggi di ogni
tipo, a seconda dei personaggi e
dell’ambientazione.
Indice e fonti
Indice:
- Inferno:
21 ottavo cerchio, quinta bolgia, Barattieri
13 settimo cerchio, secondo girone, violenti contro se stessi
26 ottavo cerchio, ottava bolgia,consiglieri fraudolenti
- Purgatorio
23 settima cornice, golosi
- Paradiso
26 ottavo cielo , delle Stelle Fisse, cielo dei trionfanti
Fonti:
Cartacee: la Divina Commedia ( ed.
Sonzogno, a cura di Eugenio Camerini)
Interattive: Wikipedia, per informazioni su
personaggi vari dei canti, Wikisource, fonte
delle citazioni sui canti.
inferno
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Inferno- Canto XXI , ottavo cerchio, quinta bolgia, Barattieri
I due pellegrini giungono sul ponte che scavalca la quinta bolgia,
straordinariamente buia a causa della pece bollente che ne occupa il fondo
e nella quale sono immersi i barattieri, coloro cioè che fecero commercio dei
pubblici uffici. Mentre Dante è intento a guardare in basso, sopraggiunge
veloce un diavolo e, dall’alto del ponte, getta nella pece uno degli «anziani»
di Lucca, città nella quale, a suo dire, tutti sono barattieri. Il dannato, dopo il
tuffo violento, viene a galla, ma i custodi della bolgia, i Malebranche, lo
costringono ad immergersi nuovamente. A questo punto Virgilio, dopo aver
fatto nascondere Dante dietro uno spuntone roccioso, si dirige verso i
diavoli e fa presente al loro capo, Malacoda, che il viaggio intrapreso da lui
e dal suo discepolo è voluto dal cielo; poi invita Dante ad uscire dal suo
nascondiglio. Alla sua vista i Malebranche tentano di uncinarlo; occorre che
Malacoda faccia ricorso a tutta la sua autorità perché desistano dal loro
proposito. Malacoda fornisce quindi a Virgilio indicazioni riguardo allo
scoglio che porta alla sesta bolgia, essendo crollato, su quest’ultima, il
ponte posto in continuazione di quelli che i due poeti hanno fino a questo
punto percorso. Dà poi loro come scorta un gruppo di dieci suoi sottoposti,
comandati da Barbariccia. I dieci diavoli si mettono in fila e Barbariccia,
attraverso uno sconcio segnale, impartisce loro l’ordine della partenza.
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Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando
3
restammo per veder l'altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.
6
Quale ne l'arzanà de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
Riferimento all’operazione di
manutenzione che i veneziani
effettuavano sulle barche,
utilizzando termini tecnici e
descrivendo i passaggi con minuzia
nei particolari.
9
ché navicar non ponno - in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
12
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa -:
15
tal, non per foco ma per divin'arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che 'nviscava la ripa d'ogne parte.
18
I' vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che 'l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.
21
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Mentr'io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo "Guarda, guarda!",
mi trasse a sé del loco dov'io stava.
24
Allor mi volsi come l'uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda,
27
che, per veder, non indugia 'l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.
30
Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero!
e quanto mi parea ne l'atto acerbo,
con l'ali aperte e sovra i piè leggero!
33
L'omero suo, ch'era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l'anche,
e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo.
In questi versi il peccatore viene
paragonato ad una preda braccata dal
cacciatore, una parodia che fa capire
come i dannati siano simili alle bestie.
36
Del nostro ponte disse: "O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch'i' torno per anche
39
I demoni utilizzano un
linguaggio non elevato, gergale
in alcuni suoi termini.
a quella terra, che n'è ben fornita:
ogn'uom v'è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita".
42
In questi versi Dante accusa di
corruzione , con le parole del
demone, i priori della città di
Lucca.
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Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
45
Ritorna la similitudine alle bestie, che
è indice del disprezzo che Dante ha
rispetto a questi peccatori.
Quel s'attuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: "Qui non ha loco il Santo Volto!
48
Invettiva che il demone
rivolge ad uno dei priori,
mentre lo trafigge. Descrive
in maniera gergale e
blasfema il peccato e la
pena che deve sopportare
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo' di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio".
51
Poi l'addentar con più di cento raffi,
disser: "Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi".
Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.
54
57
Lo buon maestro "Acciò che non si paia
che tu ci sia", mi disse, "giù t'acquatta
dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch'i' ho le cose conte,
perch'altra volta fui a tal baratta".
63
60
A differenza dell’aiuto che Virgilio
dà a Dante davanti alla città di Dite,
l’invito a nascondersi ha un
carattere farsesco, che si adatta al
tono dell’intero canto.
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Poscia passò di là dal co del ponte;
e com'el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d'aver sicura fronte.
66
Il carattere farsesco viene
mantenuto dall’immagine di Virgilio
che si dirige a testa alta verso i
demoni.
Con quel furore e con quella tempesta
ch'escono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove s'arresta,
69
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt'i runcigli;
ma el gridò: "Nessun di voi sia fello!
Innanzi che l'uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l'un di voi che m'oda,
e poi d'arruncigliarmi si consigli".
72
Anche il lessico classico di Virgilio
sembra essersi impoverito, facendo
ricorso al termine “arruncigliarsi”
75
Tutti gridaron: "Vada Malacoda!";
per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi e venne a lui dicendo: "Che li approda?".
"Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto", disse 'l mio maestro,
"sicuro già da tutti vostri schermi,
Ritorno all’animalesco, che
stavolta è riferito ai demoni.
78
81
sanza voler divino e fato destro?
Lascian'andar, ché nel cielo è voluto
ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro".
Malacoda, capo dei demoni, ha un
modo di fare tracotante e
canzonatorio rispetto al poeta
latino
84
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Allor li fu l'orgoglio sì caduto,
ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi,
e disse a li altri: "Omai non sia feruto".
87
E 'l duca mio a me: "O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi".
90
Per ch'io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto;
così vid'ïo già temer li fanti
ch'uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
93
96
I' m'accostai con tutta la persona
lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch'era non buona.
Ei chinavan li raffi e "Vuo' che 'l tocchi",
diceva l'un con l'altro, "in sul groppone?".
E rispondien: "Sì, fa che gliel'accocchi".
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: "Posa, posa, Scarmiglione!".
99
102
105
Questa scena, in cui i demoni si
prendono gioco di Dante
incutendogli paura, è burlesca,
quasi come se il poeta volesse
suscitare il riso del lettore.
I nomi dei demoni, o
soprannomi, sono il più
chiaro esempio di
linguaggio gergale,
utilizzato per conferire ai
demoni dei tratti
popolaresschi e poco colti.
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Poi disse a noi: "Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l'arco sesto.
108
E se l'andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.
Malacoda mente ai viaggiatori,
alimentando ancora l’aspetto farsesco
del canto. È infatti un riferimento
molto deciso al peccato del canto,
ossia l’inganno e la frode.
111
Ier, più oltre cinqu' ore che quest'otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
114
Io mando verso là di questi miei
a riguardar s'alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei".
117
"Tra' ti avante, Alichino, e Calcabrina",
cominciò elli a dire, "e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
120
Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.
123
Cercate 'ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l'altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane".
126
La pattuglia dei diavoli è una
parodia di una truppa militare,
inoltre gli aggettivi che
identificano i demoni sono chiari
riferimenti al gergale.
Questo sistema parodistico
riguardante i nomi sarà
riutilizzato da Manzoni ne “ I
Promessi Sposi”.
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"Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?",
diss'io, "deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.
129
Se tu se' sì accorto come suoli,
non vedi tu ch'e' digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?".
132
Ed elli a me: "Non vo' che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti".
135
Per l'argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
138
ed elli avea del cul fatto trombetta.
Al linguaggio gergale si unisce
lo scurrile. Inoltre la scena, nella
quale sia Dante che Virgilio
vengono messi in ridicolo dal
demone Barbariccia, conclude il
canto lasciando il lettore
spiazzato e divertito.
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Inferno Canto XIII,secondo girone, settimo cerchio, violenti contro se stessi
I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di piante
secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si
vedono anime di peccatori, ma se ne odono i lamenti. Esortato dal maestro, Dante stacca
un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la ferita, incomincia a sanguinare
e a parlare. Virgilio scusa il suo discepolo ed invita l’anima imprigionata nell’albero a
rivelare il suo nome. E il tronco parla: fu Pier delle Vigne, ministro dell’imperatore
Federico II; si uccise perché, ingiustamente accusato dai cortigiani invidiosi del suo
ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Davanti a Dante, che in terra potrà
riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi
narra come le anime dei suicidi, dopo essere cadute nella selva, trasformatesi in piante,
vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie.
Dopo il Giudizio Universale i corpi di questi peccatori saranno appesi ciascuno all’albero
nel quale è incarcerata la loro anima.
Il discorso di Pier delle Vigne è interrotto dall’apparizione delle ombre di due
scialacquatori e, dietro loro, di una muta di nere cagne fameliche. Mentre uno di questi
due dannati . riesce a sottrarsi alla caccia, l’altro, esausto, cerca riparo in un cespuglio,
ma le cagne, non tardano a scoprirlo e lo sbranano ferocemente. La loro violenza non
risparmia neppure il cespuglio, dal quale una voce si leva a protestarle contro tanto
scernpio. Quella che adesso parla è l’anima di un suicida fiorentino: prega i due pellegrini
di raccogliere ai piedi del suo corpo vegetale le fronde di cui è stato mutilato e lamenta le
sventure abbattutesi sulla sua città.
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Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
3
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.
6
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
9
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Famosa anafora “Non...,
ma...” che già dall’inizio
scandisce il tono alto del
Canto.
Riferimento classico
all’Eneide. Le arpie, nel III
libro dell’Eneide furono di
cattivo presagio per i
troiani della Strofade.
12
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
15
E 'l buon maestro "Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone",
mi cominciò a dire, "e sarai mentre
18
che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone".
21
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Io sentia d'ogne parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.
24
Con questa allitterazione,
paragonabile ad un poliptoto
latino, si scandisce subito il
tono del canto, destinato ad
un pubblico colto ed elevato.
Cred'ïo ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
27
Però disse 'l maestro: "Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c' hai si faran tutti monchi".
30
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: "Perché mi schiante?".
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: "Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Per Dante il suicidio è un peccato
più grave dell’omicidio, citazione
teologica di Tommaso D’Aquino
36
33
L’espressione di dolore di Pier delle
Vigne non è convenzionale, l’urlo di
dolore è infatti una richiesta di
spiegazione. Espressione di medietà
nel linguaggio, come se non si
volesse sbilanciare nelle espressioni
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi".
39
Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de' capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,
42
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sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond'io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.
45
"S'elli avesse potuto creder prima",
rispuose 'l savio mio, "anima lesa,
ciò c' ha veduto pur con la mia rima,
48
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
51
Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece
d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece".
54
E 'l tronco: "Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch'ïo un poco a ragionar m'inveschi.
57
Il tono della discussione è
alto, e le frasi sono colme
di ripetizioni, allitterazione,
metafore e ossimori
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
60
che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.
63
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La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
66
Metafora , che si distanzia dallo stile
alto di Pier delle Vigne, paragona
l’invidia ad una meretrice.
infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.
Riprende subito il controllo, con
un allitterazione.
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
69
Ossimoro, che contribuisce ad alzare
il livello della discussione.
72
Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede".
Un poco attese, e poi "Da ch'el si tace",
disse 'l poeta a me, "non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace".
Ond'ïo a lui: "Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora".
75
Assonanza, che contribuisce a
creare una rima interna all’interno
del verso.
78
81
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Perciò ricominciò: "Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
87
di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega".
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
"Brievemente sarà risposto a voi.
90
93
Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.
96
Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
99
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
102
Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.
Ripetizione, che serve a mettere
in evidenza la parola, in quanto
la pena lo infligge in maniera
continua.
105
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Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta".
108
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
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114
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Quel dinanzi: "Or accorri, accorri, morte!".
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: "Lano, sì non furo accorte
120
le gambe tue a le giostre dal Toppo!".
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.
123
Questi versi hanno l’utilità di
rendere meno pesante il canto,
inserendo un dannato che prende
in giro un suo compagno mentre
scappano da cani inferociti.
126
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In quel che s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
129
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
132
Con il lamento di questa anima si
ritorna ad uno stile colto.
"O Iacopo", dicea, "da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?".
135
Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,
disse: "Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?".
138
Ed elli a noi: "O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c' ha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond'ei per questo
141
144
sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
147
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que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
150
Io fei gibetto a me de le mie case".
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Inferno Canto XXVI , ottavo cerchio, ottava bolgia, consiglieri fraudolenti
I due pellegrini lasciano la bolgia dei ladri e riprendono il faticoso cammino. DalI’alto del
ponte che sovrasta l’ottava bolgia questa appare loro percorsa da fiamme simili alle
lucciole che il contadino vede nella valle quando si riposa, alla sera, sulla sommità della
collina. Ogni fiamma nasconde un peccatore. In una di esse, che si distingue dalle altre
per il fatto di terminare con due punte, scontano le loro colpe - l’inganno che costrinse
Achille a partecipare alla guerra di Troia, il ratto fraudolento del Palladio, lo
stratagemma che causò la rovina del regno di Priamo - due Greci: Ulisse e Diomede.
Poiché Dante ha manifestato il desiderio di udirli parlare, Virgilio si rivolge alla fiamma
biforcuta pregando affinché uno dei due eroi riveli il luogo della sua morte. Dalla punta
più alta esce allora la voce di Ulisse. Egli racconta che, dopo la sosta presso la maga
Circe, nulla poté trattenerlo dall’esplorare il Mediterraneo occidentale fino alle colonne
d’Ercole, limite del mondo conoscibile. Qui giunto, si rivolse ai fedeli compagni, come lui
invecchiati nelle fatiche e nei rischi: "Fratelli, nel poco tempo che ci rimane da vivere,
non vogliate che ci resti preclusa la possibilità di conoscere il mondo disabitato.
Seguiamo il sole nel suo cammino. La vita non ci fu data perché fosse da noi
consumata nell’inerzia, ma perché l’arricchissimo attraverso la validità delle nostre
azioni e delle conoscenze da noi raggiunte". Questo breve discorso infiammò a tal
punto i membri dell’equipaggio, che i remi parvero trasformarsi in ali e la nave volare
sulla superficie dell’oceano inesplorato. Cinque mesi dopo il passaggio attraverso lo
stretto di Gibilterra una montagna altissima si mostrò all’orizzonte. Da questa ebbe
origine un turbine; la nave girò tre volte nel vortice delle onde, poi si inabissò; il mare si
chiuse sopra di essa.
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Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!
3
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
L’invetiva verso Firenze ha toni
ironici e satirici.
6
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.
9
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss'ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com' più m'attempo.
12
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n'avea fatto iborni a scender pria,
rimontò 'l duca mio e trasse mee;
15
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.
18
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi,
e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m' ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.
21
24
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Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,
nel tempo che colui che 'l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
27
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov'e' vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi
tosto che fui là 've 'l fondo parea.
30
33
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide 'l carro d'Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
Similitudine di stampo biblico,
colta, in quanto si rifà
all’episodio di Elia ed Eliseo nel
II libro dei Re.
36
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch'el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
39
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra 'l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
42
Io stava sovra 'l ponte a veder surto,
sì che s'io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz'esser urto.
45
E 'l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: "Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch'elli è inceso".
48
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"Maestro mio", rispuos'io, "per udirti
son io più certo; ma già m'era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
51
chi è 'n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov'Eteòcle col fratel fu miso?".
54
Rispuose a me: "Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l'ira;
57
e dentro da la lor fiamma si geme
l'agguato del caval che fé la porta
onde uscì de' Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l'arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d'Achille,
e del Palladio pena vi si porta".
60
Utilizzando uno stile classico e
molto colto, Virgilio riassume i
motivi per il quale Ulisse e
Diomede sono i questo cerchio.
63
"S'ei posson dentro da quelle faville
parlar", diss'io, "maestro, assai ten priego
e ripriego, che 'l priego vaglia mille,
66
che non mi facci de l'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver' lei mi piego!".
69
Ed elli a me: "La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l'accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
72
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Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto
ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,
perch'e' fuor greci, forse del tuo detto".
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
75
78
"O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco
81
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi".
84
Virgilio utilizza un tono colto e
altisonante, in quanto parla con
personaggi di alto livello come Ulisse e
Diomede. Da notare l’anafora nei versi
80-81, e la captatio benevolentiae
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
87
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: "Quando
90
mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
93
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
96
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vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
99
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
102
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
105
Io e' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercule segnò li suoi riguardi
108
acciò che l'uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
"O frati," dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
111
114
117
120
Classico esempio di retorica, comincia
con una captatio benevolentiae e
cresce di intensità gradualmente,
prima usando il "voi", poi "noi" ,
incitando all'impresa fino a culminare
in chiusura toccando uno dei
sentimenti più profondi dell'animo
umano quale l'orgoglio per la
superiorità sugli altri esseri viventi.
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Li miei compagni fec'io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
123
e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
126
Metafora, che aiuta a definire il
viaggio di Ulisse una sfida al
volere divino.
Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
129
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
132
quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
135
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
138
Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,
141
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso".
Notare la similitudine tra seppelliti
dalle acque, e seppelliti nella
tomba.
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Purgatorio Canto XXIII, settima cornice, golosi
La schiera delle anime dei golosi procede nel sesto girone cantando un
versetto del Salmo L, "Labia mea, Domine". L'aspetto di questi penitenti è
tale da suscitare in Dante la più profonda compassione: nel volto
pallidissimo spiccano, profondamente incavate, le orbite degli occhi, il corpo
appare di una magrezza spaventosa, tanto che la pelle, disseccata e
squamosa, modella il loro scheletro. Mentre il Poeta sta cercando di
individuare la causa di tanta magrezza, un'anima lo riconosce e lo
interroga: è Forese Donati, l'amico più caro durante il periodo della vita
dissoluta di Dante. Dalla sua voce il pellegrino viene a sapere la causa del
dimagrimento delle anime dei golosi. Il Poeta tuttavia si stupisce di trovare
l'amico, morto da appena cinque anni, già nel purgatorio vero e proprio,
senza alcuna lunga sosta nell'antipurgatorio fra le anime che si pentirono
solo alla fine della vita. Ad accelerare la sua ascesa sul monte della
penitenza furono le preghiere di Nella, la sua dolce sposa, che Forese ora
ricorda con amore, contrapponendone la virtù alla corruzione delle sfacciate
donne fiorentine,- per le quali aggiunge lo spirito penitente - il cielo già
prepara durissime punizioni. Dante, per soddisfare un'affettuosa preghiera
dell'amico, rivela che solo da pochi giorni egli ha lasciato la vita viziosa alla
quale si era abbandonato anni prima con lui: la sua guida verso il bene è
ora Virgilio, in attesa della futura venuta di Beatrice.
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Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,
3
Il canto inizia con una metafora che
conferisce al canto un tono colto, ma non
altisonante.
lo più che padre mi dicea: "Figliuole,
vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto
più utilmente compartir si vuole".
6
Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe,
che l'andar mi facean di nullo costo.
9
Ed ecco piangere e cantar s'udìe
'Labïa mëa, Domine' per modo
tal, che diletto e doglia parturìe.
Il latinismo indica un tono classico e
colto.
12
"O dolce padre, che è quel ch'i' odo?",
comincia' io; ed elli: "Ombre che vanno
forse di lor dover solvendo il nodo".
15
Sì come i peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
che si volgono ad essa e non restanno,
così di retro a noi, più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
d'anime turba tacita e devota.
21
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,
palida ne la faccia, e tanto scema
che da l'ossa la pelle s'informava.
24
18
La descrizione delle orrende
condizioni degli affamati purganti è
resa più leggera utilizzando un
linguaggio leggero e colto.
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Non credo che così a buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n'ebbe tema.
Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!'.
Il paragone di riferimento con
la mitologia greca rende più
colto il tono del canto.
27
30
Parean l'occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge 'omo'
ben avria quivi conosciuta l'emme.
33
Continuano le metafore di
descrizione dell’aspetto dei
purganti.
Chi crederebbe che l'odor d'un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d'un'acqua, non sappiendo como?
Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,
36
39
ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: "Qual grazia m'è questa?".
Mai non l'avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l'aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.
48
42
Sebbene la situazione dei purganti
sia tremenda, Forese Donati
riconosce l’amico. Ritorna la
medietà nel linguaggio, collegata
all’amicizia che lega i due.
45
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"Deh, non contendere a l'asciutta scabbia
che mi scolora", pregava, "la pelle,
né a difetto di carne ch'io abbia;
51
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!".
Forese parla con un linguaggio colto e
cortese, a discapito della sua situazione.
54
Dante , invece, è colpito
dall’aspetto dell’amico ,e non
riesce a mantenere le emozioni
"La faccia tua, ch'io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia",
rispuos'io lui, "veggendola sì torta.
57
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr'io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d'altra voglia".
Ed elli a me: "De l'etterno consiglio
cade vertù ne l'acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond'io sì m'assottiglio.
60
63
Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e 'n sete qui si rifà santa.
66
Di bere e di mangiar n'accende cura
l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.
69
E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,
72
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ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire 'Elì',
quando ne liberò con la sua vena".
75
E io a lui: "Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu' anni non son vòlti infino a qui.
78
Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l'ora
del buon dolor ch'a Dio ne rimarita,
81
come se' tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora".
La perifrasi di Dante riesce ad
alleggerire e rendere più cortese
e poetico il riferimento alla
morte. Continuando ad utilizzare
questa tipologia di linguaggio,
riesce a fare una domanda
molto scomoda a Forese.
84
Ond'elli a me: "Sì tosto m' ha condotto
a ber lo dolce assenzo d'i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.
87
Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m' ha de la costa ove s'aspetta,
e liberato m' ha de li altri giri.
90
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
93
ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov'io la lasciai.
Le parole di Forese sono molto colte,
e il riferimento a Gesù rende ancora
più altisonante questi versi.
96
Parlare della moglie, ancora in
vita, conferisce al linguaggio
del personaggio una
sfumatura che ci fa
comprendere il grande affetto
provato dal purgante.
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O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica?
Tempo futuro m'è già nel cospetto,
cui non sarà quest'ora molto antica,
99
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l'andar mostrando con le poppe il petto.
102
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
105
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che 'l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;
108
ché, se l'antiveder qui non m'inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.
111
Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove 'l sol veli".
114
Per ch'io a lui: "Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.
117
Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l'altr'ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui",
120
Un triste rammarico permea questa
terzina, che è l’elemento chiave di
tutto il canto.
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e 'l sol mostrai; "costui per la profonda
notte menato m' ha d'i veri morti
con questa vera carne che 'l seconda.
123
Indi m' han tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che 'l mondo fece torti.
Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna.
Virgilio è questi che così mi dice",
e addita' lo; "e quest'altro è quell'ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice
126
129
132
lo vostro regno, che da sé lo sgombra".
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Paradiso Canto XXVI, cielo delle Stelle Fisse
Nel ventiseiesimo canto del Paradiso il poeta si limita a sfoggiare la sua erudizione,
preoccupandosi di correggere alcune informazioni espresse nel Convivio.
Dante, in uno stato di momentanea cecità perché la sua vista è rimasta abbagliata dalla
luce di San Giovanni, viene interrogato dall’Apostolo intorno alla carità. Principio e fine
del suo amore - risponde il Poeta - è Dio. Infatti l’uomo è portato, naturalmente, ad
amare ciò che è buono e il suo amore è tanto più grande quanto più è perfetto il bene
verso il quale è diretto. Dio è il bene supremo: dunque a Lui è dovuto ogni amore.
Queste ,continua Dante - sono le conclusioni alle quali è arrivata la filosofia di Aristotele
e questo è il comandamento impartito dalla Bibbia. Rispondendo ad un’altra domanda
dell’Apostolo, il Poeta dichiara che la sua carità trova alimento anche da altre fonti:
dall’esistenza del mondo e delle creature, dal sacrificio di Cristo per riscattare gli uomini
dal peccato, dalla speranza della beatitudine eterna. Legato all’amore verso Dio conclude il pellegrino - è l’amore verso le creature. Mentre tutti i beati intonano un inno
di lode a Dio, Dante riacquista la vista e si accorge che accanto a San Pietro, San
Giacomo e San Giovanni è comparso un quarto personaggio. Beatrice rivela al suo
discepolo che questo beato è Adamo. Il padre antico, per soddisfare una preghiera di
Dante, risponde a questi quattro quesiti; quanto tempo è trascorso dalla creazione
dell’uomo, per quanto tempo egli è rimasto nel paradiso terrestre, quale è stata la
natura del peccato d’origine, quale la lingua creata e usata dal primo uomo.
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Mentr' io dubbiava per lo viso spento,
de la fulgida fiamma che lo spense
uscì un spiro che mi fece attento,
3
dicendo: «Intanto che tu ti risense
de la vista che haï in me consunta,
ben è che ragionando la compense.
6
Comincia dunque; e dì ove s'appunta
l'anima tua, e fa ragion che sia
la vista in te smarrita e non defunta:
9
perché la donna che per questa dia
regïon ti conduce, ha ne lo sguardo
la virtù ch'ebbe la man d'Anania».
12
Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo
vegna remedio a li occhi, che fuor porte
quand' ella entrò col foco ond' io sempr' ardo. 15
Lo ben che fa contenta questa corte,
Alfa e O è di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte».
18
Quella medesma voce che paura
tolta m'avea del sùbito abbarbaglio,
di ragionare ancor mi mise in cura;
21
e disse: «Certo a più angusto vaglio
ti conviene schiarar: dicer convienti
chi drizzò l'arco tuo a tal berzaglio».
24
Sono esempio dell’erudizione
del canto queste figurazioni
psicologiche.
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E io: «Per filosofici argomenti
e per autorità che quinci scende
cotale amor convien che in me si 'mprenti:
ché 'l bene, in quanto ben, come s'intende,
così accende amore, e tanto maggio
quanto più di bontate in sé comprende.
27
30
Dunque a l'essenza ov' è tanto avvantaggio,
che ciascun ben che fuor di lei si trova
altro non è ch'un lume di suo raggio,
33
più che in altra convien che si mova
la mente, amando, di ciascun che cerne
il vero in che si fonda questa prova.
36
Tal vero a l'intelletto mïo sterne
colui che mi dimostra il primo amore
di tutte le sustanze sempiterne.
39
Sternel la voce del verace autore,
che dice a Moïsè, di sé parlando:
'Io ti farò vedere ogne valore'.
42
Sternilmi tu ancora, incominciando
l'alto preconio che grida l'arcano
di qui là giù sovra ogne altro bando».
45
E io udi': «Per intelletto umano
e per autoritadi a lui concorde
d'i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.
48
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Ma dì ancor se tu senti altre corde
tirarti verso lui, sì che tu suone
con quanti denti questo amor ti morde».
51
Non fu latente la santa intenzione
de l'aguglia di Cristo, anzi m'accorsi
dove volea menar mia professione.
54
Però ricominciai: «Tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
a la mia caritate son concorsi:
57
ché l'essere del mondo e l'esser mio,
la morte ch'el sostenne perch' io viva,
e quel che spera ogne fedel com' io,
60
con la predetta conoscenza viva,
tratto m'hanno del mar de l'amor torto,
e del diritto m'han posto a la riva.
63
Le fronde onde s'infronda tutto l'orto
de l'ortolano etterno, am' io cotanto
quanto da lui a lor di bene è porto».
66
Sì com' io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
dicea con li altri: «Santo, santo, santo!».
69
E come a lume acuto si disonna
per lo spirto visivo che ricorre
a lo splendor che va di gonna in gonna,
72
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e lo svegliato ciò che vede aborre,
sì nescïa è la sùbita vigilia
fin che la stimativa non soccorre;
75
così de li occhi miei ogne quisquilia
fugò Beatrice col raggio d'i suoi,
che rifulgea da più di mille milia:
78
onde mei che dinanzi vidi poi;
e quasi stupefatto domandai
d'un quarto lume ch'io vidi tra noi.
81
E la mia donna: «Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor l'anima prima
che la prima virtù creasse mai».
84
Come la fronda che flette la cima
nel transito del vento, e poi si leva
per la propria virtù che la soblima,
87
fec' io in tanto in quant' ella diceva,
stupendo, e poi mi rifece sicuro
un disio di parlare ond' ïo ardeva.
90
E cominciai: «O pomo che maturo
solo prodotto fosti, o padre antico
a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,
divoto quanto posso a te supplìco
perché mi parli: tu vedi mia voglia,
e per udirti tosto non la dico».
96
93
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Talvolta un animal coverto broglia,
sì che l'affetto convien che si paia
per lo seguir che face a lui la 'nvoglia;
99
e similmente l'anima primaia
mi facea trasparer per la coverta
quant' ella a compiacermi venìa gaia.
102
Indi spirò: «Sanz' essermi proferta
da te, la voglia tua discerno meglio
che tu qualunque cosa t'è più certa;
105
perch' io la veggio nel verace speglio
che fa di sé pareglio a l'altre cose,
e nulla face lui di sé pareglio.
108
Tu vuogli udir quant' è che Dio mi puose
ne l'eccelso giardino, ove costei
a così lunga scala ti dispuose,
111
e quanto fu diletto a li occhi miei,
e la propria cagion del gran disdegno,
e l'idïoma ch'usai e che fei.
Or, figliuol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno.
Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
quattromilia trecento e due volumi
di sol desiderai questo concilio;
114
117
120
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e vidi lui tornare a tutt' i lumi
de la sua strada novecento trenta
fïate, mentre ch'ïo in terra fu'mi.
123
La lingua ch'io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l'ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta:
126
ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.
129
Opera naturale è ch'uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v'abbella.
132
Pria ch'i' scendessi a l'infernale ambascia,
I s'appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
135
e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l'uso d'i mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.
138
Nel monte che si leva più da l'onda,
fu' io, con vita pura e disonesta,
da la prim' ora a quella che seconda,
141
come 'l sol muta quadra, l'ora sesta».
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Grazie per l’attenzione
FINE
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