Augusta Sommaire 2010 DIRETTIVO ASSOCIAZIONE AUGUSTA Sen Kroasch Gumbu – Il Vallone di San Grato ad Issime, un patrimonio di bellezze naturali e storiche: alcune osservazioni sul progetto di sviluppo rurale. COMITé de RÉDACTION Président Ugo Busso Directeur résponsable Elena Landi Membres Michele Musso Luigi Busso Rivista disponibile online www.augustaissime.it [email protected] Photo de couverture Disegno di Fortunato Dandrès detto “Ras” (*1925w1995), ultimo abitante del villaggio del Bioley (Vallone di Tourrison); il padre Fortuné Jean Jacques, nato nel 1879, già detto “Ras”, per le sue qualità fisiche e caratteriali fu soprannominato dagli issimesi di allora con il nome con cui s’indicava il re etiope: ‘ras’. Collezione Luisella Ronc. La photo de la quatrième de couverture Issime, cartolina inizio ‘900. Lo sperone roccioso chiamato Pirubeck, prima del crollo parziale provocato dal terremoto del 1968. “Pirubeck” non è per gli issimesi una semplice roccia, ma evoca nell’immaginario, racconti, leggende, poesie, ed espressioni; ha anche ispirato il nome di una nota rubrica del bollettino parrocchiale, negli anni ’50-60 del ‘900, curata dal parroco di allora. 2 SÉBASTIEN MAINIL Les maisons Walser d’Alagna-Valsesia. Quand la technique se met au service d’une intégration réussie en milieu alpin. 13 CLAUDINE REMACLE Pierres écrites. 23 DONATELLA MARTINET Chantoun o Laval? 30 JOSEPH-GABRIEL RIVOLIN Bionaz: une colonie walser oubliée. 34 BARBARA RONCO Margitisch D’housanha hentsch auch gmachut zseeme um nöit gschénte matti. Le case le costruivano anche assieme per non rovinare i prati. 37 ROBERTO FANTONI La cerealicoltura sul versante meridionale del Monte Rosa in età tardo-medievale. 58 BATTISTA BECCARIA Le leggende walser fonti per un’interpretazione del fenomeno stregonico documentato sulla catena alpina centrale e nordoccidentale in età moderna. 66 JOLANDA STÉVENIN Cenni storici sulla cappella di Ricourt ad Issime – Saint Louis, Roi de France. 75 Autres photos: Sébastien Mainil, Claudine Remacle, Bruno Genestreti, Michele Musso, Paola Cipriano, Sara Ronco, Sebastiano Ronco, Guido Cavalli, Archivio Roberto Fantoni, Archivio JosephGabriel Rivolin, Marco Soggetto, Luigi Busso, Rolando Balestroni, Vittorio De La Pierre, Willy Monterin, Archivio Marco Aichino. UGO BUSSO Schützerschdschoandsch Zwian geitala ouf tur dan glétscher. Due ragazzi su per il ghiacciaio. 78 GUIDO CAVALLI Cornici artigianali e stampe dell’iconografia popolare nell’area walser della valle d’Aosta e del Piemonte orientale: alcune peculiarità. 80 MARCO SOGGETTO Il relitto di Issime. Una storia dimenticata. 86 ROLANDO BALESTRONI La bela mata dal Capio. Wisse frouwa tsch Kàppju. La dama bianca del Capio. 89 Tous droits réservés pour ce qui concerne les articles et les photos. Autorizzazione Tribunale di Aosta n° 18 del 22-05-2007 Augusta: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina Proprietario ed editore: Associazione Augusta Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao) Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta — 1 — WILLY MONTERIN Gressoney-La-Trinité Osservatorio meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.). 90 IN MEMORIAM Luciana Faletto Landi e Gustavo Buratti. 92 IMELDA RONCO Hantsch Franzisch Maïa. 95 A U G U S T A Sen Kroasch Gumbu Il Vallone di San Grato ad Issime un patrimonio di bellezze naturali e storiche Alcune osservazioni sul progetto di sviluppo rurale Il Direttivo dell’associazione Augusta Come noto, l’Associazione Augusta ha inviato delle osservazioni al Servizio valutazione ambientale dell’Assessorato territorio e ambiente della Regione Autonoma Valle d’Aosta, chiedendo che lo stesso esprimesse parere non favorevole in merito al Progetto 29/2009 “Interventi per lo sviluppo rurale del Vallone di San Grato” commissionato dal Comune di Issime, e proponendo soluzioni alternative a quanto previsto nel medesimo. Poiché si ha l’impressione che poche persone, anche ad Issime, conoscano tale Progetto in modo approfondito ed idoneo a formarsi una propria opinione, basata sui contenuti dello stesso e non su quanto riferito indirettamente da terze persone, si propone qui di seguito un estratto (corredato di foto) delle osservazioni presentate dall’associazione Augusta, alleggerito nella forma e nei contenuti degli aspetti più tecnici, al fine di renderne più agevole la lettura e la comprensione. I l Vallone di San Grato nel suo stato attuale mostra i segni, visibili sia nelle zone esposte che in quelle nascoste dai boschi, della storia della sua colonizzazione. In effetti, si tratta di un vallone di orientamento estovest di cui una larga fetta di versante esposto a sud è stata nel medioevo divisa in lotti (particelle). Probabilmente in principio, per gli abitanti originari di Issime, in seguito per i nuovi arrivati, i Walser. I Walser si sono installati nel Vallone e vi hanno vissuto almeno a partire dal XIII secolo, utilizzando una parte di queste grandi particelle, dopo aver disboscato parte del territorio in differenti modi. Il paesaggio presenta, quindi, gli elementi di modifica del territorio che ricordano i molteplici modi di sfruttare la montagna a fini agricoli, sia estensivi (pascoli), sia intensivi (campi e prati). Questo esempio di habitat diffuso, dove hanno coesistito delle popolazioni di origine differente su un territorio limitato, è unico in Valle d’Aosta. Queste differenti evoluzioni sono particolarmente ben visibili tra Prassevin e Zöin (Foto 1 e 2) (zona dei mayen. Si precisa che per mayen, in töitschu d’beerga, si intende ad Issime “l’unità rurale” ricompresa tra 1300 e 1800 m.s.l.m., costituita da abitazioni permanenti, prati da sfalcio e campi, abitata tutto l’anno fino alla prima metà del XIX secolo), e fra quest’ultimo e Réich, passando per Vlüeckji (Foto 3), dove i rascard del XV sec. raccontano i tentativi di utilizzo dell’adret (versante esposto a sud) del Vallone a fini cerealicoli. Il vallone di San Grato è l’unico esempio in Valle d’Aosta, come già evidenziato, ad aver mantenuto intatta la struttura fondiaria della colonizzazione, passata da un insediamento temporaneo (della popolazione romanza) ad un insediamento stabile (della popolazione walser). Ciascun lotto ha conosciuto una storia agraria differente, che sarebbe da studiare approfonditamente, ma per un occhio avvezzo è facile riconoscere che certi lotti sono stati adibiti a pascolo, come il territorio di Toeifi (Foto 4 e 5), e che altri hanno conosciuto uno sfruttamento intensivo (campi cerealicoli e prati da sfalcio), poi riconvertiti nel corso del XIX secolo, probabilmente per il bisogno di un alpicoltore di produrre grandi formaggi a latte intero, zona di Invanh-Bühla, della famiglia Praz di Gaby (Foto 7) e Toeifi-Gradunérp della famiglia Christillin di Issime. Il territorio di Toeifi – Gradunérp è uno dei più affascinanti paesaggi dell’intero vallone di San Grato, per i valori d’immagine e di scenario costituiti dall’eccezionale morfologia, dalla successione del bosco, pascolo e prateria, e per la continuità dell’organizzazione agraria storica e, non ultimo, per le soluzioni funzionali all’irrigazione, alla fertirrigazione, molte le testimonianze di canali in parte ancora utilizzati (Foto 6). Appena a monte di Toeifi, si nota a Granir (zona di Invanh) (Foto 8), che il lotto circostante al grande stadel del XV-XVII sec. è circondato dai resti di terrazzamenti cerealicoli che non sono interclusi da muri, come avverrebbe se la zona fosse adibita anche a pascolo. A Méttelti (Foto 9), invece, fino all’inizio del XX secolo, il lotto è stato utilizzato come habitat per delle colture più intensive e la — 2 — A U G U S T A (Foto 1) In primo piano i villaggi di Bühl e Zöin visti dalla mulattiera alta, dan uabre Weg, antica ed attuale via di transumanza. Sullo sfondo le case di Prassevin. (Foto 2) Piana di San Grato – Hubelmatti. In primo piano i grandi muri chiamati “d’Barru” realizzati come cumuli di spietramento a difesa dei prati e degli antichi campi. La barriera ha la funzione di rompere il fronte e di contenere entro un’area limitata la valanga che scende dal Galm. Sullo sfondo, in basso il villaggio di Bühl e, in alto di Zöin. — 3 — A U G U S T A particella è ancora attualmente contornata da un cordone di muri in pietra (Foto 9-10-11), alcuni in cattivo stato di conservazione, ma che raccontano la storia di questa particella dove le colture intensive si sono mantenute, mentre le vicinanze, (es. Toeifi e Invanh) erano dedicate all’allevamento estensivo del bestiame (Nella foto 11 è evidente il diverso uso del suolo, sullo sfondo il pascolo di Toeifi, e in primo piano i prati del Méttelti un tempo sfruttati a coltura intensiva). Non si tratta che di qualche esempio, ma che mostra bene la ricchezza del paesaggio culturale di questo Vallone, unico in Valle d’Aosta perché vi hanno coesistito un habitat temporaneo (alpeggi) e un habitat permanente (mayen – beerga). Due sono le mulattiere che salgono il fianco esposto a sud del Vallone, una si snoda nella fascia bassa del versante detta dan undre Weg (mulattiera di sotto) (Foto 4), anche chiamata da vuss Weg (mulattiera pedonale) e l’altra, appunto, che si snoda nella fascia alta del versante detta dan uabre Weg (mulattiera di sopra) (Foto 9 e 12) o d’chünu Weg (mulattiera per le vacche). Sia la suddetta mulattiera bassa, sia la mulattiera alta, rispettivamente a valle e a monte di Méttelti, permettono di raggiungere tal luogo, e i sentieri (gassi), che vi penetrano dall’alto e dal basso, delimitati da muretti o da lastre o pietre inserite verticalmente (blatti) (Foto 4-11-13), per impedire che al passaggio delle vacche queste ultime uscissero nei campi, sono ancora visibili. In effetti, i due differenti percorsi, dan undre Weg e dan uabre Weg, paralleli alle curve di livello, lungo i quali si distribuiscono le particelle realizzate in maniera diffusa, perché appartenenti a proprietari differenti al momento della colonizzazione del territorio, corrispondono ai camminamenti di penetrazione nel bosco e allo schema direttivo della messa in coltura stessa del Vallone di San Grato. La larghezza minima rilevata della mulattiera alta “dan uabre Weg”, che consente il passaggio del bestiame, è di 60 cm, mentre la massima è di 100 cm. Per la maggior parte del suo sviluppo la mulattiera attraversa zone con più o meno accentuata pendenza soprattutto nel senso trasversale (determinato dal declivio della montagna). Ciò ha comportato la necessità di accorgimenti per ovviare le inclinazioni: si sono usati perciò muri a secco di (Foto 3) Parte alta del Vallone di San Grato visto dai laghi – Siawa. Da destra la cresta dell’alpeggio di Vlüeckji, in alto a sinistra la zona umida della Mongiovetta ed in basso, al centro, la zona umida di Réich. — 4 — A U G U S T A (Foto 4) Alpeggio di Toeifi con la casa di Gradunérp. sostegno a valle e, se occorreva, anche a monte, per contenere il terreno, mai oltre il metro e mezzo. Il fondo calpestabile del percorso è prevalentemente in terra battuta, a tratti erboso (Foto 12). La pavimentazione in pietra, infatti, rappresenta uno dei principali fattori di rischio per danni agli zoccoli degli animali, oltre a provocare scivoloni e cadute. La mulattiera bassa, pedonale, “dan undre Weg”, invece presenta parte del percorso lastricato. Le lastre sono posate di piatto e affondate nel terreno, si sfrutta, perché stiano ferme, il loro peso. L’intervento per lo sviluppo rurale del Vallone di San Grato, commissionato dal Comune di Issime, intende realizzare una strada poderale, lunga quasi 10 km e larga oltre 3 m di sola carreggiata, all’interno del Vallone di San Grato, un acquedotto che capti le sorgenti che alimentano le zone umide, una rete di distribuzione di energia elettrica e una centrale idroelettrica. (Foto 5) Alpeggio di Toeifi e Gradunérp vista da ovest. — 5 — A U G U S T A (Foto 6) I resti di un canale per l’irrigazione nei pressi di Toeifi. Tali opere cancellerebbero definitivamente le bellezze e le peculiarità di questo territorio: l’antica mulattiera di transumanza (dan uabre Weg) e la continuità della trama dei sentieri; le zone umide di Réich, Mongiovetta, Mühni (il cui insieme copre un’ampia area alla testata del Vallone, ricca di ruscelli e fonti - foto 3) e Bülti nei pressi di Vlüeckji; i boschi di piante secolari (abete, larice, pino cembro...); gli habitat naturali di specie rare e protette, animali e vegetali; elementi architettonici caratterizzanti il paesaggio walser, il cui esempio tipico sono le lastre e i blocchi scolpiti in pietra che delimitano le mulattiere. Nel contempo la costruzione di una strada comporterebbe l’inserimento di nuovi e impattanti elementi: muri di sostegno e scogliere di altezza fino a 5 m; tornanti; parcheggi; transito di veicoli motorizzati. L’interposizionamento di una nuova viabilità rurale, non solo distruggerebbe un antico percorso provocando un danno irreparabile, ma creerebbe un diaframma rispetto alla continuità culturale paesistica storica, spezzando in due parti il versante, rompendo l’orditura della sentieristica e dei corsi d’acqua, inserendo nel paesaggio elementi estranei allo stesso, come, per esempio, i guard rail. A questo proposito forniamo alcuni dati: si prevede la realizzazione di muri di sostegno per quasi 5 km con altezze che variano da 1,50 m a 3,50 m, e di scogliere per quasi 3,5 km con altezze che arrivano anche a 5 m. Vogliamo qui di seguito evidenziare alcuni aspetti di forte impatto sul paesaggio naturale e culturale che il progetto in questione andrebbe a determinare: • Si evidenzia, nel tratto Toeifi – Méttelti, il grave danno al paesaggio che deriverebbe dall’attraversamento, da parte della poderale, della mulattiera bassa dan undre Weg, nonché dal passaggio attraverso l’anfiteatro di pascolo che contorna Toeifi e Gradunérp (Foto 4). Infatti, ciò comporterebbe la distruzione della mulattiera (gassu) che collega l’abitato di Méttelti, delimitata in parte da muretti (Foto 11), e in parte da pietre inserite verticalmente (blatti) (Foto 13). L’importanza del paesaggio storico della zona del Méttelti è già stata evidenziata. • La realizzazione della poderale si sviluppa dalle abitazioni di Zöin, per passare per Mattu, Méttelti, Invanh, Tannu, Vlüeckji, Mundschuvet, Mühni, sulla sinistra orografica del vallone di San Grato. Per questo tracciato il Progetto ricalca l’antica mulattiera storica che, — 6 — A U G U S T A d (Foto 7) In primo piano la baita d’alpeggio della Bühla, sullo sfondo lo stadel di Granir circondato dai resti di terrazzamenti cerealicoli. come già evidenziato, è quella utilizzata per la transumanza, detta dan uabre Weg (mulattiera di sopra) o d’chünu Weg (mulattiera per le vacche) (Foto 1, 3, 7, 9, 12). Questa scelta appare in netta contraddizione con quanto si afferma nella Relazione progettuale (pag. 19), dove ci si prefigge come obiettivo ‘la valorizzazione e salvaguardia del vallone di San Grato con interventi che tengano conto delle particolarità agricole, ambientali e storico culturali’, e nello specifico si evidenzia che ‘i tracciati dovranno essere compatibili con gli aspetti paesaggistici, naturalistici e storicoculturali presenti, evitando il più possibile di intaccare tali patrimoni’. Inoltre appare destituito di fondamento e fuor viante identificare la mulattiera che collega San Grato a Mühni, quella bassa (definita erroneamente nella Relazione progettuale Walserweg, pag. 57) come sola mulattiera storica, e di maggior fruizione turistica dell’intero (Foto 8) Lo stadel di Granir circondato dai resti di terrazzamenti cerealicoli. — 7 — A U G U S T A (Foto 9) Méttelti, in alto a sinistra si distingue un tratto della mulattiera alta, dan uabre Weg; in basso, le case del Méttelti, unite alla mulattiera alta da un collegamento ‘gassu’ evidenziato nella foto dai muretti in pietra che lo delimitano. (Foto 10) Méttelti, particella ancora contornata da un cordone di pietre per proteggere e delimitare l’appezzamento adibito a coltura cerealicola. — 8 — A U G U S T A (Foto 11) Vista da Méttelti. In basso la piana di Toeifi e Gradunérp, in alto in primo piano le case di Méttelti. Si individua chiaramente, dai muri laterali, il tracciato della mulattiera ‘gassu’ che dalla ‘chünu Weg’ o ‘dan uabre Weg’ scende al Méttelti e quindi a Toeifi e Gradunérp. È evidente il diverso uso del suolo, sullo sfondo il pascolo di Toeifi, e in primo piano i prati del Méttelti un tempo sfruttati a coltura intensiva. La porzione del ‘gassu’ da Méttelti a Toeifi sarebbe cancellata dal tornante della poderale prevista. vallone. In realtà, la mulattiera alta ‘dan uabre Weg’ è molto apprezzata dai turisti per l’apertura panoramica e la vista suggestiva sull’intero vallone. • Nel tratto di poderale Invanh – Tannu – Vlüeckji il progetto omette di menzionare l’esistenza, nei pressi di Vlüeckji (precisamente, nella zona detta Bülti), subito a monte della vasca di captazione dell’acquedotto già esistente, di un laghetto e di alcune risorgive (Foto 14). Nulla è detto, quindi, sull’impatto della poderale su tale ambiente, in particolare sulle eventuali conseguenze a danno della zona umida e della captazione dell’acqua per l’acquedotto. Parimenti, nulla è detto sulle opere necessarie alla realizzazione della poderale, in considerazione della natura paludosa del terreno, quali, ad esempio, i drenaggi. Poco prima di tale zona umida e poco oltre la stessa, il tracciato richiede la realizzazione di imponenti scogliere (la cui altezza è prevista addirittura intorno a 5 m), che comportano notevoli sbancamenti e riempimenti. • Nel tratto tra Vlüeckji e Mühni - zona boschiva ad alta densità, habitat di alcune specie protette di uccelli e mammiferi - il progetto prevede la realizzazione di due serie di tornanti con un impatto notevole della poderale in questo tratto, con un imponente opera di sbancamento e di riempimenti con scogliere alte alcuni metri. • Altro punto di particolare importanza per l’impatto sull’ambiente naturale è il “bivio” Méttiu, Méttiu-Réich. Innanzitutto, destano perplessità le dimensioni di tale bivio, che appaiono proprie di una strada di categoria superiore e non di una poderale. Si nutrono seri dubbi che questa diramazione “consente proseguendo nei prati sottostanti Mettiu di raggiungere Reich e quindi il versante opposto del vallone oltrepassando il torrente Walkchunbach con un semplice ponte in legno” come afferma la Relazione progettuale a pag. 20. In realtà, in questo tratto la poderale necessita di veri guadi perché passa a monte della confluenza, in un unico torrente, delle acque provenienti dalla Mongiovetta, da Réich e da Mühni, ed attraversa, quindi, una zona ricca di ruscelli e corsi d’acqua, di particolare interesse naturalistico. Si precisa che la poderale passerebbe proprio nella zona descritta dallo stesso Progetto (in un altro punto a pag. 138), laddove si afferma che le acque che confluiscono a formare il torrente Walkchunbach “si originano nei pressi di Mettiu a valle delle importanti zone umide di Reich e Mungiuvetta, percorse da ruscelli e rivi che nel periodo di scioglimento nivale forniscono portate significative”. • In merito al tratto di poderale Réich – Buadma - Tschucke si osserva che il tracciato ricalca, sostituendovisi, il tracciato dell’antico sentiero, definito nel Progetto “Sentiero dei pescatori”. Il punto di maggiore criticità pare quello costituito dalla serie di tornanti prevista per superare il dislivello di 80 m tra Réich e Buadma. Desta perplessità che per collegare due località poco distanti tra loro — 9 — A U G U S T A (Foto 12) Un tratto della mulattiera alta “dan uabre Weg” nei pressi di Invanh. in linea d’aria sia necessario uno sviluppo lineare di ben oltre 1 km. Ciò appare significativo delle difficoltà di costruire una poderale nel vallone di San Grato. Inoltre, tale tratto di poderale sarebbe visibile da quasi tutte le località del versante sulla sinistra orografica. • Più in generale, si osserva che non appare condivisibile l’ottimismo contenuto nella Relazione a pag. 19 in merito all’impatto visivo della poderale. Infatti, quantunque la poderale tra Méttelti e Mühni sia poco visibile dall’escursionista mentre questi percorre la mulattiera bassa, occorre evidenziare che la stessa è visibile in tutto il suo impatto sul paesaggio non appena l’escursionista si diriga verso i Laghi ed il Monte Crabun, ossia due delle mete preferite dai turisti, o si muova nella destra orografica, avendo, quindi, una visione d’insieme del tratto di versante sinistro ricompreso tra Toeifi- Méttelti fino a Mühni. Tutto questo in netto contrasto con quanto affermato a pag. 255 della Relazione progettuale in ordine all’impatto sul paesaggio, che sarebbe il minore possibile in quanto il tracciato “si svolge per la maggior parte in un contesto defilato rispetto ai canali di fruizione più significativi”. Quest’ultima affermazione appare smentita anche dal fatto che la mulattiera alta è, in verità, più panoramica di quella bassa. Il tratto tra Réich e Tschucke sarebbe comunque visibile dall’escursionista che percorrerebbe la mulattiera bassa. Quindi, in conclusione, si può affermare che la poderale avrebbe un impatto visivo negativo innegabilmente importante. • Relativamente alla captazione dell’acqua dalle fonti site a monte di Stein e di Mongiovetta, si evidenzia l’importanza di tali fonti sull’equilibrio delle zone umide sottostanti, rispettivamente di Mühni e Mongiovetta. Nella Relazione (pag. 275) si pre(Foto 13) Méttelti, particolare di un tratto della mulattiera (gassu) di collegamento fra Méttelti e la mulattiera bassa dan undre Weg che presenta le caratteristiche pietre posizionate di taglio che impedivano agli animali di entrare nei campi. — 10 — A U G U S T A (Foto 14) Il piccolo lago al Bülti nei pressi di Vlüeckji. sume che la captazione dell’acqua non alteri l’equilibrio idrico di tali zone, e che non arrechi danni all’ecosistema, rimandando le verifiche necessarie all’eventuale fase esecutiva del Progetto. Si osser va che la zona umida della Mongiovetta (Foto 15) è alimentata da due fonti: una posta a nord della zona stessa, che verrebbe contornata dalla poderale (v. pag. 32 della Relazione), e una posta a ovest, che verrebbe captata per l’acquedotto. La Relazione afferma che le zone umide sono vincolate dall’art. 34 della L.R.11/98, ma bisogna aggiungere, in riferimento all’Allegato A del PTA (Classificazione dei corpi idrici regionali e delle aree a specifica tutela), che i laghi e le zone umide (di cui all’art. 40 del Piano Territoriale Paesistico regionale e quelli di cui all’art. 34 della L.R. n.11/98 e s.m.i.) sono identificati tra i “Corpi idrici di specifica tutela classificati di particolare pregio”. In conclusione, le maggiori perplessità sono date dal fatto che il Progetto prevede un uso intensivo di poche fonti, tutte situate a monte del bacino imbrifero del Vallone, di cui quella della Mongiovetta ne costituisce una delle maggiori risorse idriche, come d’altronde evidenziato dallo stesso progetto a pag. 138, ove si dice che “l’asse centrale del vallone di San Grato è percorso e caratterizzato per gran parte dall’azione di incisione prodotta dalle acque del T. Walkchunbach che si originano nei pressi di Méttiu a valle delle importanti zone umide di Réich e Mongiovetta”. • Il Progetto prevede la realizzazione di una centrale idroelettrica in località Jansérp, di quattro micro centraline abbinate all’acquedotto, situate a Mühni, Mongiovetta, Réich e Vlüeckji e, ciononostante, di una linea in media tensione per l’apporto di energia elettrica dal piano. Una soluzione progettuale definita “mitigata” prevede, invece, la realizzazione delle sole quattro micro centraline e la “predisposizione per un’eventuale futura elettrificazione” (v. pag. 38 del Rapporto di sintesi) attraverso la posa dei cavidotti nella trincea dell’acquedotto. Pare, evidentemente, un semplice rinvio della realizzazione di quanto viene momentaneamente accantonato, altrimenti quanto realizzato, rimanendo scollegato dalle linee elettriche presenti nel piano, si tradurrebbe in un’opera inutile e in uno spreco di risorse. La centrale idroelettrica di Jansérp sarebbe produttiva — 11 — A U G U S T A (Foto 15) Zona umida della Mongiovetta – Mundschuvet, uno degli habitat naturali più affascinanti del Vallone. solo per pochi mesi all’anno ed avrebbe una produzione media annua certamente insufficiente a soddisfare il fabbisogno energetico dei fabbricati presenti nel vallone. Ecco perché si rende necessario apportare l’energia elettrica attraverso la linea da Fornas. La centralina utilizzerebbe l’acqua captata alla Mongiovetta, a Réich e a Méttiu, che sarebbe convogliata in un dissabbiatore e da qui condotta ad una vasca di carico prevista a Buadma. Pertanto si dovrebbe realizzare una condotta forzata (rettilinea) lunga 1650 m, oltre ai 300 m di tubazione tra le opere di presa e il dissabbiatore, con relativi scavi. Inoltre, sulla condotta forzata si innesterebbero altre due condotte laterali, provenienti l’una da una vasca prevista a Pianh per raccogliere l’acqua proveniente dalla zona di Simulettu, l’altra dalla vasca prevista per l’acquedotto a Tannu; esse sono lunghe rispettivamente 600 m e 300 m. In merito alla rete di distribuzione elettrica si è rilevato, innanzitutto, il notevole impatto paesaggistico della linea aerea di media tensione Fornas - Hantschécku, la cui lunghezza è in 1800 m e comporta l’apertura di un varco di sei metri richiedente l’abbattimento totale di oltre 1400 alberi adulti (v. pag. 246 della Relazione); i tralicci avrebbero un’altezza variabile da 9 a 14 metri fuori terra. Inoltre, la rete di distribuzione (per lo più interrata, affiancata all’acquedotto) attraversa siti di grande interesse floristico o è realizzata lungo sentieri storici (non solo lungo la pista in progetto). Sono, inoltre, previste numerose cabine di trasformazione. Pertanto, già dalle stesse tabelle valutative delle opere qui descritte (v. pag. 355 e ss.gg della Relazione) emergeva il loro impatto negativo in relazione a quasi tutte le voci, soprattutto, ovviamente a quelle di carattere naturalistico. È altresì noto che la Giunta regionale della Valle d’Aosta con delibera n. 1127 del 23 aprile 2010 (delibera disponibile sul sito ufficiale della Regione Autonoma Valle d’Aosta) ha espresso una valutazione negativa sulla compatibilità ambientale del progetto di realizzazione degli interventi per lo sviluppo rurale del Vallone di San Grato nel comune di Issime, proposto dal Comune di Issime, per le motivazioni espresse nel parere vincolante della Direzione tutela beni paesaggistici e architettonici dell’Assessorato istruzione e cultura e del Servizio valutazione ambientale dell’Assessorato territorio e ambiente. — 12 — A U G U S T A Les maisons Walser d’Alagna-Valsesia Quand la technique se met au service d’une intégration réussie en milieu alpin1 Sébastien Mainil* « Toute architecture naît de la terre et des hommes issus de cette terre, en harmonie avec les exigences de la vie et des évolutions de celle-ci dans le milieu. Ainsi naît le goût, le style en un mot : la tradition. » 2 C ette citation du célèbre architecte turinois Carlo Mollino à propos des habitations traditionnelles valdotaines aurait très bien pu s’appliquer aux maisons Walser d’Alagna-Valsesia tant chaque intervention, chaque évolution, chaque détail trouvent leur justification, mûrie et réfléchie dans la recherche d’une intégration cohérente au sein de l’environnement alpin. Ici, le hasard n’a pas sa place et les coïncidences n’existent pas. Les Walser, peuple d’origine germanique implanté initialement dans le Haut-Valais, se sont dispersés dès la fin du XIIe siècle à travers l’arc alpin en empruntant les cols dégagés à l’époque. C’est ainsi que des habitants de Saas (Haut-Valais suisse) répondent au souhait des seigneurs locaux d’occupation de nouvelles terres et fondent au XIIIe siècle3 la colonie de Macugnaga dans la vallée de la rivière Anza après avoir traversé le Mont Moro. Au début du XIVe siècle, quelques habitants de Macugnaga créent à leur tour un habitat permanent à Pedemonte et Pedelegno (deux futurs groupements d’Alagna) sur des pâturages de mi-saison (dits aussi alpages de mai). D’autres colons semblent être venus de Gressoney4, village situé dans la vallée voisine. Cette colonisation sur des terres jusqu’alors vierges de toute occupation humaine a nécessité une observation et une adaptation à un milieu hostile. L’organisation sociale des hameaux, l’implantation particulière des habitations, l’agencement des locaux au sein de ces dernières en sont entre autres le témoignage concret. La recherche d’une solution optimale dans le domaine constructif et le développement d’un savoir-faire pointu de la construction en bois peuvent s’observer au sein des édifices d’un des plus anciens groupements d’Alagna appelé Im Oubre Rong (ou Ronco Superiore)5. Deux maisons de cet ensemble exceptionnel6 (fig.1) ont été acquises par la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici del Piemonte et deux autres par la Fondazione Internationale Monte Rosa. Des travaux de restauration ont été menés de 2001 à 2003. Ce chantier a apporté des informations précieuses sur l’évolution technologique et typologique des maisons d’Alagna en dévoilant les détails constructifs primitifs de ce type de bâtiment. Aux origines des habitations d’Alagna-Valsesia Comme dans la plupart des implantations Walser, les Ingénieur-Architecte, Faculté Polytechnique de Mons et Maître en conservation de Monuments et Sites, Centre International Raymond Lemaire - Faculté Catholique de Leuven 1 Cet article se base largement sur le mémoire de fin d’études de l’auteur : Mainil S., Les maisons Walser d’Alagna. Etude et proposition de refonctionnalisation (mémoire de fin d’études – FPMS), Mons, 2003. 2 Citation de Carlo Mollino dans la préface de Berton R., Architecture valdotaine et son enracinement dans le paysage, Genova, 1967. 3 Les actes les plus anciens traitant de cette colonie Walser remontent à 1256. 4 On retrouve d’ailleurs de nombreux points communs entre les habitations de Gressoney (Val d’Aoste) et d’Alagna tant dans leur organisation que dans leur aspect extérieur ou leurs aspects techniques. 5 Le groupement d’Im Oubre Rong constitue l’une des plus anciennes parties d’Alagna et comprend cinq constructions. Il se développe au sud du torrent Mud qui a donné son nom à l’alpage dont le groupement fait partie. En 1025, l’empereur Corrado il Salico accorde l’alpage à l’évêque Pierre de Novara. On retrouve des traces de ces terres au début du XIIème siècle. A cette époque, elles appartiennent à l’église San Giulio d’Orta. En 1138, elles passent aux mains du monastère clunisien de San Pietro de Castelletto. En 1249, l’abbaye est supprimée par la famille Biandrate qui reprend les terres sous sa domination. On peut émettre l’hypothèse que la colonisation Walser de l’alpage Mud et donc d’Im Oubre Rong s’est conclue avec la famille Biandrate. Les premiers colons se seraient d’abord installés un peu plus haut sur ce versant de la montagne après avoir traversé le col Mud. Après l’assèchement d’une source, ils seraient descendus vers les terres où se situent les groupements actuels d’Oubre Rong, Rong et Pedemonte. 6 Le caractère exceptionnel de ces constructions réside dans leur préservation quasi-totale de toute transformation. En effet, les habitations obsolètes ont souvent été détruites ou intégrées dans les processus de transformation. Des documents d’archives traitent en effet de la récupération des matériaux de construction. * — 13 — A U G U S T A Fig. 1: Schéma d’implantation du groupement d’Im Oubre Rong (Ronco Superiore). 1 et 2 : maisons acquises et restaurées par la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici del Piemonte. 3 : étable – fenil, propriété de la Fondazione Internationale Monte Rosa. 4 : maison, propriété de la Fondazione Internationale Monte Rosa. 5 : maison, propriété privée. habitations primitives d’Alagna auraient été séparées du fenil et de l’étable7. Les premières maisons d’Alagna se rapprocheraient typologiquement d’une petite habitation temporaire en bois avec socle de pierre telle que construite dans les alpages de mi-saison du Haut-Valais. Un exemple d’une telle habitation à pièce unique et à foyer central se retrouve à Oubre Rong. Par ailleurs, des étables-fenils (ou Stodal Bai) étaient construits au voisinage des maisons. La base, construction mixte pierre-bois, renferme l’étable. Le fenil s’appuie sur celle-ci, par l’intermédiaire de neuf coins tronco-pyramidaux en bois. Ceux-ci sont encastrés par leurs extrémités dans les poutres de support du plancher. Le vide ainsi créé empêche la remontée de l’humidité, l’attaque des rongeurs et assure l’aération du fenil d’où s’échappent les gaz de fermentation. Une ventilation optimale et une bonne conservation des produits emmagasinés sont ainsi garanties. Le groupement d’Oubre Rong conserve également une construction de ce type (fig. 2). On retrouve entre autres ces structures (dites greniers-champignons) dans la région du Haut-Valais ainsi que dans d’autres colonies Walser (Issime et Gressoney8, Bosco Gurin9). Cette technique est également diffusée à travers toute l’Europe (depuis la Scandinavie jusqu’à la Galice, les Asturies et le Portugal du nord) et au Japon. Les constructions sont toutes destinées à accueillir un espace de stockage des récoltes ou d’objets de valeur. Vers une construction unitaire traditionnelle Vers la fin du XVe siècle, la maison évolue vers sa configuration traditionnelle et généralise les techniques constructives (fig.3). Le corps de l’habitation est formé d’un noyau central à plan généralement carré et construit en empilement de rondins. Il repose sur une base en pierre maçonnée à la chaux. Des loggias, formant une Fig. 2: Supports-champignons de la structure en bois de l’étable-fenil : un coin en bois s’encastre en son sommet dans la poutre du plancher (Photo : Sébastien Mainil, mai 2003). Un acte de 1331 mentionne la vente d’une propriété à Pedemonte avec habitation, étable, grenier, ce qui porte à croire à une séparation des fonctions à l’époque. 8 Val d’Aoste 9 Tessin 7 — 14 — A U G U S T A Fig.3: Axonométrie explosée de la maison-musée de Pedemonte : détail de la structure et des techniques utilisées. Source : Mirici Cappa M., Ambiente e sistema edilizio negli insediamenti walser di Alagna Valsesia, Macugnaga e Formazza in Quaderni di cultura alpina n°55, Priuli & Verlucca Editori, Ivrea, 1997. sation semblables, subissant si besoin est des modifications minimes. Le rez-de-chaussée (base en pierre) reprend le dénivelé du terrain et comprend l’étable et le séjour hivernal de la famille. Le premier étage abrite les chambres. La division en quatre cellules égales correspond à la construction modulaire de la structure. L’accès à chaque local se fait via la loggia qui entoure le noyau central. Le second étage est constitué d’un fenil (Stodal) ainsi que d’un petit espace clos servant de magasin à provisions (Spicher). Les loggias prennent une place importante dans les maisons d’Alagna. Elles constituent de nouveaux espaces de travail (espaces de séchage et de battage des céréales, remise à outils), de vie (table à rabats) et de communication (avec l’extérieur et entre locaux d’un même étage). L’organisation d’une maison d’Oubre Rong atteste de la transition entre constructions séparées et fonctions centralisées en un seul édifice. Cette nouvelle organisation coïncide avec le changement climatique du « petit âge glaciaire » et exploite au maximum les apports de chaleur. La construction en bois y est maintenue voire même amplifiée (notamment pour ses qualités isolantes, la disponibilité du matériau et le savoir-faire des constructeurs). La chaleur dégagée par le four et les animaux est utilisée pour chauffer les chambres de l’étage supérieur. Ces apports sont bloqués dans leur montée par le fenil et transversalement par le foin mis à sécher sur les traverses des loggias. Les ouvertures sont limitées en taille et en nombre. La maison est orientée au sud pour profiter des apports solaires tandis que la façade nord – côté pente – est réduite au maximum10. Les troncs constituant la structure de l’étage des chambres sont plus travaillés et donc plus jointifs. Les ouvertures entre ces bois sont calfeutrées à l’aide de mousse, d’argile ou de tissu. L’absence d’escalier intérieur et de liaison entre locaux limite toute prise d’air et atténue les pertes de chaleur. L’acte de construction c’est … structure poteau-poutre, l’entourent sur trois à quatre côtés selon la morphologie du terrain. Les planchers sont constitués de deux nappes de poutres, disposées perpendiculairement entre elles. Le toit, couvert de lauzes disposées en écailles, présente un large dépassement. Il crée avec les loggias un subtil jeu d’ombre et de lumière, d’opacité et de transparence. La maison-type évolue. Les différentes fonctions sont intégrées sous le même toit. La maison devient ainsi une construction unitaire : unité de travail, de production, de transformation et de conservation des produits. Les maisons d’Alagna présentent un plan et une organi- … des matériaux Les bois fournis en abondance par le déboisement des versants de la montagne en vue d’obtenir des terrains propres à l’exploitation agricole et pastorale constituent le principal matériau de construction11 des maisons. Les principales essences utilisées sont des résineux parmi lesquels figurent en première place le mélèze et l’épicéa. Ces derniers figurent parmi les plus résistants mécaniquement et les plus durables. A l’origine, d’autres espèces issues du processus de défrichement étaient également utilisées : des pins ainsi que des feuillus (frêne, chêne). Un ou plusieurs étage(s) sont semi-enterré(s) et sont protégé(s) du vent et du gel, minimisant de la sorte les déperditions thermiques. 11 Un point est encore à éclaircir à propos de l’utilisation de bois frais ou sec. Aucun document n’y fait référence. On peut toutefois envisager l’utilisation de bois vert vu le besoin d’une construction rapide (au moins au début de la colonisation). 10 — 15 — A U G U S T A Les pierres utilisées pour l’édification des bases des constructions sont ramassées dans les champs ou extraites de carrières toutes proches. Le liant est constitué de chaux hydraulique fabriquée dans des fours locaux. … une main d’œuvre spécialisée Les bûcherons-charpentiers du début de la colonisation laissent peu à peu la place à une main d’œuvre spécialisée. Ce savoir-faire constructif, initialement aux mains d’une poignée d’hommes issus des migrations, s’est transmis, répandu et perfectionné. Dès le XVIe siècle, on assiste à une division du travail : travaux de maçonnerie, de charpenterie ou de taille des pierres de couverture (lauzes). La charpenterie est le corps de métier le plus développé si bien que des maîtres bâtisseurs sont appelés dans les régions voisines, diffusant leur technique perfectionnée hors de leur vallée. … une organisation de chantier L’organisation d’un chantier de construction est connu dans la vallée voisine (Valle Vogna, très liée historiquement à Alagna) grâce à des traces de contrats. Ceux-ci étaient signés à la Saint-Jean et prévoyaient la construction des maisons selon un modèle établi (parfois en référence à une autre habitation). Les matériaux sont fournis par le maître d’ouvrage. L’esprit communautaire perceptible dans de nombreux aspects de la vie quotidienne s’illustre lors des préparatifs de la construction. Chaque maison envoie un représentant chargé d’aider à transporter les troncs abattus jusqu’au chantier12. L’aide fournie est récompensée par un pain et une bouteille d’eau-de-vie13. La construction d’une maison nécessitait jusqu’à cinq années de travail. Durant cette période, deux familles se partageaient la même maison. Cette coutume semble remonter au Haut-Valais où les maisons bi familiales sont courantes : chacune des familles possède un étage et partage le séjour hivernal et la cuisine. à Alagna, l’étage des chambres étant unique et divisé en quatre cellules identiques, une famille occupe la chambre sud (la plus chaude) et nord (la plus froide). L’absence de liaison interne. Ce mode de distribution croisé impliquent une cohabitation à gérer par les intéressés, trace supplémentaire d’entraide et de respect mutuel. … une maîtrise parfaite des nœuds et assemblages. La comparaison entre une maison d’Oubre Rong14 et la maison de l’écomusée de Pedemonte (qui présente sous cet aspect un point d’aboutissement dans la construction de l’habitation traditionnelle) a permis d’établir une chronologie de l’évolution des nœuds et assemblages traditionnels. Le noyau central de la maison utilise l’empilement de rondins (dit aussi technique de la fuste ou Blockbau). Cette technique constructive (fig.4) a constitué de tout temps un moyen rapide, facile et économique de s’abriter contre les conditions les plus extrêmes. La jonction de deux parois est résolue en pratiquant une entaille à mi-bois sur une hauteur correspondant au rayon du rondin à recouvrir. Les troncs des étages sont travaillés de manière différente selon l’utilisation des espaces créés. Les bois constituant les parois du fenil (fig.5) sont simplement écorcés15. L’empilement formé ne s’avère pas jointif en raison des commissures irrégulières entre rondins, assurant ainsi une ventilation constante et opFig. 4: La technique de l’empilement de rondins (ou blockbau). Un des gestes les plus simples pour définir la technique : deux mains dont les doigts s’entrecroisent (Photo : Sébastien Mainil, mai 2003). La récupération des troncs d’autres habitations démantelées semble être aussi une pratique courante. De nombreuses traces de ce réemploi sont visibles. 13 Giordani G., La colonia tedesca di Alagna Valsesia , Torino, 1891. 14 L’auteur a eu l’occasion d’assister au démontage et remontage de cette maison en septembre 2002. Cette expérience unique lui a fourni de nombreuses informations inédites sur le mode de construction de ces maisons et plus particulièrement sur les techniques primitives à Alagna. 15 L’écorce, riche en substances nutritives nécessaires à la vie de l’arbre, constitue la cible principale des attaques d’insectes, d’où la nécessité de l’éliminer en écorçant les fûts avant de les utiliser dans la construction. 12 — 16 — A U G U S T A Fig. 5: Démontage du fenil d’une maison d’Oubre Rong (Photo : Sébastien Mainil, septembre 2002). timale au foin déposé à l’intérieur. Un jeu de cales garantit cet espacement, évite que les rondins ne roulent les uns sur les autres et assure une certaine rigidification de la paroi. Les entailles d’angle à Oubre Rong constituent une solution primitive (fig. 6). Il s’agit d’une entaille dite « en tête de chien ». Le rondin inférieur présente une gorge de la profondeur de son demidiamètre dans laquelle viendra se loger l’élément supérieur tourné à 90 degrés. Cet assemblage engendre des problèmes de conservation. D’une part, l’entaille pratiquée empêche l’évacuation correcte de l’eau dont l’accumulation finit par pourrir le bois. Certains rondins ont d’ailleurs été réparés par la substitution des extrémités. D’autre part, un jeu dans l’assemblage à mi-bois peut apparaître en raison de la différence de retrait des éléments superposés dans des directions perpendiculai- res (le retrait axial du rondin inférieur étant nettement inférieur au retrait radial du rondin supérieur). L’efficacité limitée de ce type de nœud semble avoir conduit à la solution adoptée et généralisée par la suite. L’entaille est effectuée aussi bien en partie inférieure qu’en partie supérieure des bois (fig.6). Les possibilités de jeu entre éléments sont réduites mais les problèmes d’humidité subsistent partiellement. Les murs des chambres sont constitués de demi-fûts. La face découpée est orientée vers l’intérieur de façon à obtenir une paroi lisse, tout en assurant la continuité de l’aspect extérieur (bois brut). Les bois sont plus travaillés (deux appuis plans sont constitués pour faciliter l’empilement). Leur disposition est plus jointive : des clous de bois assurent leur liaison, de la mousse, de l’argile ou du tissu leur calfeutrement. à cet étage, les entailles d’angle sont réalisées aussi bien à Oubre Rong ou à Pedemonte de la manière vue précédemment Fig. 6: Empilement de rondins à l’étage du fenil. A gauche : Détail d’un angle d’une maison d’Oubre Rong (Photo : Sébastien Mainil, septembre 2002). A droite : Détail d’un angle d’une maison traditionnelle (Dessin : Sébastien Mainil). — 17 — A U G U S T A (entailles en parties supérieure et inférieure). Les portes et fenêtres sont de dimensions modestes. Elles constituent en effet une interruption de la structure portante en rondins et une source de déperdition calori- Fig. 7: Chambranles des portes A et bas : Détail d’un chambranle de porte d’une maison d’Oubre Rong (Photo : Sébastien Mainil, septembre 2002 - Dessin : Sébastien Mainil). B : Détail d’un chambranle de porte d’une maison traditionnelles (Dessin : Sébastien Mainil). fique supplémentaire. à Oubre Rong (fig.7-a), des rainures pratiquées dans les rondins latéraux permettent leur emboîtement dans le montant de la porte. Les extrémités de ce dernier sont taillées et ensuite insérées dans une encoche prévue à cet effet dans les bois constituant le seuil et le linteau. à Pedemonte (fig.7-b), c’est le montant qui présente une rainure pour accueillir les rondins latéraux taillés à leurs extrémités. La partie supérieure du montant présente une gorge destinée à recevoir le rondin-linteau. Le système porteur des planchers est constitué de deux nappes de poutres perpendiculaires entre elles et assemblées par entailles. Celles-ci reposent sur la structure en rondins. Elles se prolongent en dehors du noyau de façon à constituer le support du plancher des loggias. à leurs extrémités, celles-ci s’appuient sur des piliers et reçoivent une poutre terminale de ceinturage. à Oubre Rong (fig.8-a), les éléments de plancher se glissent dans une rainure de la poutre tandis qu’à Pedemonte (fig.8-b), il s’agit de poutres en forme de T renversé dont les espaces libérés par la découpe constituent les appuis des éléments de plancher. Dans les deux cas, ces derniers sont fixés au moyen de clous en bois chassés en diagonale. La structure portante des loggias (fig.9) est constituée de poteaux sur lesquels s’appuient les poutres des planchers. Les poteaux présentent un sommet de forme tronco-pyramidale s’encastrant dans l’élément horizontal supérieur. La partie inférieure présente une découpe concave (en forme de selle) de façon à simplement s’appuyer sur la poutre du dessous. Les traverses sont généralement encastrées dans le poteau ou fixées au moyen de clous en bois. Une des maisons d’Oubre Rong, avant restauration, présentait des traces d’éléments rapportés au noyau central, ce qui témoigne d’une évolution dans la composition du bâtiment. (ajot postérieur de la coursive). L’appui au sol est assuré par une pierre plate (la base du poteau est simplement posée). Une des maisons d’Oubre Fig. 8: Détail des planchers. A: Détail d’une poutre de plancher d’une maison d’Oubre Rong (Dessin : Sébastien Mainil). B : Détail d’une poutre de plancher d’une maison traditionnelles (Dessin : Sébastien Mainil). — 18 — A U G U S T A tandis que sa composante horizontale de compression passe par les poutres continues des planchers. Cette décomposition intuitive sera confirmée par une analyse structurelle plus détaillée. Le toit est couvert de lauzes. Il est formé de deux versants de faible pente. Les poutres qui constituent sa structure sont : la poutre faîtière, deux poutres intermédiaires, deux poutres sablières reposant sur l’empilement de rondins et, enfin, deux poutres terminales s’appuyant sur les poteaux des loggias. Les arbalétriers sont simplement déposés. Leur fixation est assurée en partie inférieure par un clou en bois qui empêche le glissement. Dans la maison de Pedemonte, une entaille de la poutre de rive assure l’appui. Au niveau du faîte, les arbalétriers sont liés par un emboîtement. La solution apportée à Oubre Rong (fig.11) dans la structure des pignons est différente de celle observée dans la plupart des maisons d’Alagna. La difficulté réside à maintenir dans un même plan les rondins superposés, là où les assemblages d’angle (murs disposés à 90°) ne sont plus possibles. Le moyen adopté ici est la forme primitive : une pièce de bois traverse les rondins à travers une encoche. Un pro- Fig. 9: Structure des loggias (Photos : Sébastien Mainil , septembre 2002 et avril 2003 - Dessin : Sébastien Mainil). Rong présente des piliers de pierre qui assurent ce contact. Les poteaux des loggias du dernier étage s’inclinent de façon à soutenir les poutres de la toiture et à assurer l’indéformabilité des mailles. Un schéma (fig.10) de descente des charges du toit sur ces montants disposés en oblique montre que la composante verticale de la force transite par le pilier inférieur Fig. 10: Schéma de principe de la descente de charge. Les charges du toit sont reprises par les montants de la loggia disposés en oblique. La composante verticale de la force transite par le pilier inférieur tandis que sa composante horizontale de compression passe par les poutres continues des planchers. Fig. 11: Conception primitive du pignon d’une maison d’Oubre Rong (Photos : Sébastien Mainil, septembre 2002 Dessin : Sébastien Mainil) — 19 — A U G U S T A blème subsiste : la paroi non retenue transversalement a tendance à basculer vers l’avant sous l’effet des charges importantes supportées par le toit16. Il n’existe aucune rigidification et aucune triangulation de la toiture. L’amélioration apportée (fig.12) consiste à placer dans un même plan vertical une poutre parallèle à la poutre faîtière et à construire un « muret » en rondins entre ces deux éléments. Outre la rigidification du toit, cette solution assure la stabilité transversale du pignon grâce aux liaisons créées. L’entrait et le poinçon ajoutés assurent une triangulation partielle de la toiture. et un souci d’harmonie: L’utilisation d’un module dicte toute la structure de la maison et lui confère son caractère esthétique. Ceci laisse à supposer une certaine préfabrication de la construction (principalement pendant la saison hivernale)17. Une recherche d’harmonie dans la modulation de la façade se dégage à Oubre Rong mais le résultat reste ici relativement incertain et hasardeux. Cette harmonie de la façade est liée à la répétition systématique du même entre-axe entre les poutres du plancher et de la toiture ainsi qu’entre les poteaux sur lesquels celles-ci reposent. On retrouve en façade un rapport 1/1 : le module est repris aussi bien en hauteur qu’en largeur et en profondeur. L’alternance des montants crée un rythme 1-4-1 (un module de part et d’autre pour les loggias et 4 modules pour le noyau central). L’aménagement intérieur (le cloisonnement des chambres) et le mobilier (les lits en alcôves) sont liés à cette modulation correspondant aux mesures d’un homme les bras ouverts (le même geste pour étendre le foin sur les traverses de la loggia). La fin des constructions traditionnelles et leur nouvelle vie Les Walser d’Alagna se tournent souvent vers des activités de substitution lors des crises économiques. Certains d’entre eux travaillent comme maçons saisonniers dans les régions et pays voisins. Ils expérimentent ainsi de nouvelles techniques, de nouvelles cultures et une autre idée de confort qu’ils véhiculent à Alagna à leur retour. A partir du XIXe siècle, la maçonnerie en pierre est nettement privilégiée pour la construction ou la reconstruction des maisons. Le bois disparaît peu à peu de la structure des maisons, à l’exception des loggias. L’organisation des espaces internes, les dimensions et la distribution des ouvertures se trouvent modifiées. Les activités agricoles et pastorales disparaissent progressivement. Les maisons, faute d’occupants et d’entretien se Fig. 12: Conception traditionnelle du pignon et solution adoptée lors de la restauration d’une maison d’Oubre Rong (Photos : Sébastien Mainil, avril 2003 - Dessin : Sébastien Mainil) dégradent peu à peu. Redécouvertes par l’industrie touristique et immobilière, elles font l’objet d’opérations de restructuration, très souvent au détriment de la structure qui s’en trouve modifiée de façon irrémédiable. Une méthodologie d’intervention serait particulièrement utile pour préserver ces monuments issus de la culture rurale. Une analyse structurelle aux éléments finis d’une des maisons Walser d’Oubre Rong a été réalisée dans cette optique. Elle vise la définition du comportement global de la structure pouvant servir lors d’une intervention de restauration en localisant les points délicats à examiner de manière plus approfondie. A titre d’exemple, l’amélioration apportée par le changement de la structure du pignon et la triangulation de la toiture lors du chantier de restauration de ladite maison a pu être modélisée et analysée. Les charges à prévoir pour le chargement du toit équivalent à 1200 kg /m2. Elles comprennent le poids des lauzes et celui de la neige. 17 Des signes anciens de numérotation des éléments peuvent être observés sur les bois, ce qui laisse à penser à une préfabrication ou une récupération d’édifices antérieurs démantelés. 16 — 20 — A U G U S T A Sans entrer dans les détails de la méthode de travail qui sortent du cadre de cet article, il convient de noter que des hypothèses simplificatrices ont été avancées pour mettre au point le modèle de travail : structure tridimensionnelle représentée par un tracé filaire ne reprenant que les fibres moyennes des éléments (fig.13), sections Fig. 13: Modélisation d’une maison d’Oubre Rong avec les forces appliquées et les conditions d’appui (logiciel utilisé : Algor) constantes pour tous les éléments d’un même type (rondins d’un même étage, poteaux verticaux des loggias, etc.), prise en compte d’une seule essence de bois (cinq essences différentes ont été répertoriées), comportements fixés pour les appuis et assemblages, etc. Les éventuelles variations dimensionnelles (retrait et dilatation) n’ont pas fait l’objet d’une représentation. Il serait néanmoins intéressant de se pencher sur le comportement diurne/nocturne, hivernal/estival de la maison puisque le comportement de certains assemblages, et donc de la structure dans son ensemble, s’en trouve modifié. Les charges correspondent à une situation réaliste : a) le poids propre des bois (masse volumique du mélèze : 650 kg/m³ à 12% d’humidité) ; b) les surcharges d’exploitation (300 kg/m2 : chargement pour une occupation moyenne d’habitation et de stockage) ; c) les surcharges apportées par la neige : (1200 kg/m², incluant le poids de la couverture en lauzes estimé à environ 100 à 150 kg/m²). Les effets de vent (de l’ordre de 100 kg/m² avec un coefficient de réduction) n’ont pas été pris en compte. D’une part, ils sont négligeables par rapport aux charges de neige. D’autre part, l’effet de soulèvement du toit provoqué par cette force est contrebalancé par le poids de la couverture même en l’absence de neige. L’examen des résultats fournis par le logiciel permet de mieux comprendre le comportement de la structure (fortement hyperstatique) et d’en situer ses points critiques. Les déplacements (fig.14-a et b) Les déplacements sont relativement limités, vu les charges importantes introduites. Les valeurs les plus élevées se situent en toiture (flèche maximale au milieu de la poutre faîtière égale à 1,51 cm sur 11 m) soit +/- 1/700e de la portée. Des déplacements plus marqués apparaissent aux extrémités des arbalétriers du débordement de la toiture (1,27 cm soit 1/400e de la portée) ainsi qu’aux extrémités du porte-à-faux du plancher de la loggia (1,1 cm soit 1/700e de la portée). Le noyau central connaît un mouvement limité (de l’ordre de 0,65 cm) au voisinage de l’ouverture du fenil. L’absence de paroi diaphragme au dernier étage peut justifier ce comportement. Aucun déplacement significatif ne s’observe au niveau du pignon, contrairement à la situation observée sur place. Les effets de jeu dans les assemblages, de la durée d’application des charges ou encore des éventuelles dégradations pourraient en être la cause. Les contraintes (fig.14-c) L’examen des contraintes globales (somme des contraintes dues à l’effort normal, à la flexion selon Fig. 14: Résultats de l’analyse aux éléments finis fournis par le logiciel Algor (avant modification du pignon) A : Déformée (à l’échelle 100) B : Localisation des différentes valeurs des déplacements C : Localisation des contraintes les plus élevées prises en valeurs absolues — 21 — A U G U S T A l’axe fort et l’axe faible) montre que les contraintes maximales se développent dans la poutre faîtière (au niveau des appuis sur les pignons et en son milieu : 386 daN/cm²), dans les poutres courantes de la toiture (au niveau de l’appui aux angles : 328 daN/cm²) ainsi que dans les poutres de rive (au niveau des deux larges ouvertures du fenil : 156 daN/cm²). Les poutres en porte-à-faux du plancher de la loggia orientale connaissent également une concentration de contraintes (de l’ordre de 225 daN/cm²). L’intersection des poutres du plancher constitue un problème supplémentaire. On y observe des contraintes élevées. Il s’agit d’un point délicat de la structure. En plus de la réduction de section pour l’assemblage, les poutres sont fortement dégradées à cet endroit. L’analyse aux éléments finis confirme que la structure fonctionne essentiellement en compression. Les charges importantes de la toiture sont reprises partiellement par le noyau central en rondins et par l’ensemble des poteaux des loggias. En transitant par les poteaux inclinés de la loggia, ces efforts sont décomposés en compression dans les poteaux verticaux inférieurs et dans les planchers comme le laisse présager le schéma intuitif expliqué précédemment. Le dernier niveau de la maison semble le plus sollicité, alors que les déplacements et contraintes des autres étages sont nettement inférieurs. Les ouvertures dans le noyau central en rondins jouent un rôle négatif : les forces de la toiture ne pouvant transiter par ce chemin se reportent sur les poutres de rive. Le comportement différent des façades de la maison souligne le caractère structurel des loggias. En effet, la présence d’une annexe en pierre exclut l’ajout de poteaux verticaux de support qui ramènent les forces directement au sol. Les efforts transitent donc ailleurs, créant des déplacements plus ou moins importants et des concentrations de contraintes dans le plancher et le débordement de la toiture. Lors de la restauration menée en 2002, la structure du pignon de la maison a été modifiée, ce qui a permis de rigidifier l’ensemble de la toiture. Le modèle informatique a permis de quantifier ces changements (fig.15) : les effets de cette inter vention sont, d’une part, la diminution des déplacements (la flèche maximale est retrouvée aux arbalétriers du débordement de la toiture (1,24 cm) et, d’autre part, une diminution générale des contraintes des poutres de toiture. La localisation des valeurs les plus élevées reste néanmoins inchangée au sein de la structure. Les points sensibles restent l’appui de la poutre faîtière sur le noyau central et sur les poteaux des loggias (305 daN /cm²). Les poteaux de la loggia sont également fortement comprimés (230 daN/cm²). Fig. 15: Résultats de l’analyse aux éléments finis fourni le logiciel Algor (après modification du pignon) A : Déformée (à l’échelle 100) B : Localisation des différentes valeurs des déplacements C : Localisation des contraintes les plus élevées prises en valeurs absolues Conclusion Attentifs à tous les contextes et tirant profit de la nature et des techniques de leur époque, les Walser ont traduit dans la pierre et le bois leur respect pour la nature et la vie en communauté. L’organisation sociale Walser basée sur un souci d’ordre et d’égalité, de respect mutuel et de collaboration, trouve son expression dans la structure même de la maison et dans son processus de construction : l’unité des matériaux, la régularité dimensionnelle, la similitude des technologies constructives utilisées, la répétition d’un même module en façade. La connaissance précise des détails constructifs, de leur comportement structurel et de l’évolution des techniques utilisées permet d’établir un projet de restauration cohérent et respectueux de ces constructions traditionnelles, véritables modèles d’harmonie et d’intégration. — 22 — A U G U S T A Pierres écrites Claudine Remacle G raver quelques mots sur un gros bloc de pierre est la méthode la plus efficace pour transmettre aux générations futures un évènement localisé que l’on retient important. C’est une façon de faire bien plus sûre pour conserver la mémoire, que les moyens de communication retenus comme « les mieux informés, tels que poste, télégraphe, journaux » dont se réjouissait Jean-Jacques Christillin en 1900, et certainement encore plus efficients que nos procédés informatiques d’aujourd’hui. Le nom de lieu «La Péracritta », La Pierre écrite, se rencontre ça et là en Vallée d’Aoste et il désigne des pierres qui transmettent des messages variés. Ainsi près du village de Veynes à Saint-Christophe, une pyramide triangulaire tronquée, qu’on pense d’origine romaine, haute d’un mètre environ, possède sur sa face méridionale, une inscription tellement oblitérée qu’elle en est devenue indéchiffrable dans l’état actuel des recherches1. À Arnad, à l’entrée du vallon de Machaby, une étrange inscription sur une pierre, écrite en latin, rappor- te l’existence d’un trésor. Les mots gravés sont : IN IPSO LAPIDE EST TESAVRIS2. On raconte qu’un jour deux Français sont venus demander où se trouvait la Péra èhcritte et que la nuit, ils sont allés creuser3. Le lendemain, il y avait un trou au pied du rocher… Arnad A. Zanotto, Valle d’Aosta antica e archeologica, Aosta 1986, p. 372 - 374. Jean-Baptiste de Tillier a dessiné schématiquement cette pierre dans son « Historique de la Vallée d’Aoste » publié dans la première édition de son manuscrit, ITLA, Aoste 1966, p. 29. 2 Le texte a été déchiffré par Roberto Bertolin. 3 E. Noro-Desaymonet, A. Champurney-Cossavella, Arnad in Valle d’Aosta. Più di un secolo di memoria, 2a Ed. Priuli e Verlucca Ed. Ivrea 2006, p.126. 1 — 23 — A U G U S T A Lors de l’inventaire des maisons rurales, il arrive aux recenseurs de repérer grâce aux habitants d’un lieu une « pierre écrite ». Cela s’est passé à Lillianes au cours de l’été 2007. L’architecte Mauro Zucca, guidé par Lidia Agnesod de La Barmottaz de Vers-Riasseul à Lillianes, a relevé un bloc erratique se trouvant sur le chemin qui monte du Fasek au Sarron, dans un couloir rocheux très raide au lieu-dit : à Serrapianaz. On y trouve incisé profondément dans la roche le souvenir de l’année des trois huits. De quoi s’agit-il ? Lidia Agnesod à la Barmottaz * 1949 La pierre écrite de Lillianes (photo Gianmario Navillod) L’année 1888, dite des trois 8, est encore gravée dans la pierre, mais elle l’est aussi, parfois, dans la mémoire de quelques personnes âgées : « l’année des trois 8, une année de grosses neiges et d’avalanches ! », m’a-t-on dit à Monros de Cogne, en m’expliquant quelles maisons avaient été détruites ou abimées. Cette terrible année, la neige a touché le village d’Aviel à Arnad nous a-ton raconté là-bas, mais aussi le village du Frachey à Ayas, celui d’Estellé à Perloz, celui de Pra à Issime, celui de Tschòcke à Gressoney-Saint-Jean, etc. La liste, fournie par les habitants des différents lieux, pourrait être bien plus longue, comme en témoignent les vieux journaux, les relations des intellectuels de l’époque, les archives et même la dernière revue Augusta, 2009, dans laquelle Imelda Ronco a rappelé, elle aussi, « z’joar zam gruasse schnia… wénn z’Sen Valentin von d’piatzu z’Eischeme séji gsinh zwia meischtara schnia gsatzti4 », l’année de grosse neige, comme le rappellent nos vieux, quand à Saint-Valentin, il y eu sur la place d’Issime une épaisseur de deux mètres de neige tassée. Au chef-lieu, la mémoire collective, en effet, relate que cet hiver-là il en était tellement tombé que l’on traversait la place dans des galeries creusées dans la neige. Le déplacement d’air causé par une avalanche qui s’était détachée des pentes du mont Wéiss Wéib avait même transporté une grosse branche de sapin jusque sur le toit de l’église5. Cette année-là, le Recteur de Fornet à Valgrisenche, Joseph-Bernard Gerballaz, signale Imelda Ronco Hantsch, Au lacke Schnia, a chnawutu. Un mucchio di neve, uno strato fino al ginocchio, in Revue Augusta 2009, p. 64. 5 Témoignages fournis par Michele Musso. 4 — 24 — A U G U S T A dans son journal6 : « En mars, il tombait une si grande quantité de neige que bien des communes du pays d’Aoste et du Piémont en furent endommagées ; on compte plus de 150 morts dans le pays d’Aoste à cause des avalanches, et encore un grand nombre de maisons détruites. Dans les communes du contour d’Ivrée, des villages entiers écrasés par les avalanches ». De même, l’abbé Gorret, dans une nouvelle météorologique publiée sur La Revue Alpine, Bulletin de la section lyonnaise du Club Alpin Français, 1888-1889, signale deux années particulièrement neigeuses et rappelle qu’à la rectorie de Saint-Jacques, la couche était très épaisse, mais il s’agit d’une autre date : « La nuit du 6 au 7 mai, il neige plus de deux mètres dans le “jardin” de la Rectorie ». Gorret sonne les cloches et distribue les pelles pour rétablir la communication avec le reste de l’humanité. En 1889, cela continuera : “Plus de 2 mètres de neige le 14 janvier ! Un hiver terrible. La provision de foin est partout à l’ablatif absolu et les vaches n’entendent rien aux aberrations météorologiques du XXe siècle”, écrit-il avec son humour habituel. Dans l’almanach de l’agriculteur valdôtain, Laurent Argentier précise pour 1888 : « 27 février7. – Pendant que, dans la plaine d’Aoste, l’atmosphère s’est chargée en une neige humide, depuis le soir du 25 jusqu’au matin du 28 février, dans bien des endroits et surtout dans la montagne, une neige sèche est tombée presque sans interruption. Aussi, que de désastres n’a-t-on pas à déplorer dans notre vallée et dans les pays voisins ! à Arnaz, un village entier a été anéanti avec ses habitants. C’était vers les 9 heures du matin du lundi 27 février. Une avalanche est tombée presque verticalement sur le village d’Aviel, dans le vallon de Machaby. Dix-huit maisons et quinze personnes ont été ensevelies. La chapelle Saint-Clair est restée debout. Le lendemain arrivent sur le lieu du désastre les autorités d’Aoste avec une compagnie de soldats munis de pelles. Un grand nombre de citoyens d’Arnaz et de Verrès sont aussi venus prêter le secours de leur courage et de leur force dans le travail de sauvetage. On a creusé un puits dans l’avalanche de la profondeur de 10 à 13 mètres et au 1er mars on avait extrait 10 cadavres et 4 personnes encore vivantes. … Sous les ruines d’Aviel, il est resté une grande quantité de bétail, surtout de brebis et de chèvres. Le 26 février, une avalanche avait rasé une maison du village de Sylvenoire à Aymavilles en écrasant une femme dans son lit. à Champorcher, la vallée est encombrée par la neige. Pas moyen d’en sortir. Les hommes de Hône ont dû travailler deux jours pour ouvrir la route jusqu’au chef-lieu de la commune de Champorcher où la couche de la neige est d’environ quatre mètres. à Pont-Bozet, 3 mètres de neige. Deux maisons du village de Savin furent emportées par l’avalanche, ainsi que deux jeunes hommes ont un a été retiré encore vivant. Le 26 février, vers 10 heures du soir, une avalanche a écrasé quatre maisons du village de Franchey à Ayas. À Gressoney, il a neigé pendant trois jours et deux nuits et l’épaisseur de la couche de neige a presque atteint les 4 mètres. Au village de Gresmatta, une avalanche a pénétré dans une maison. De ses 7 habitants, 4 ont péri. Aux villages de Laubono, Bilchouquer et de Chouquer, les avalanches ont emporté des maisons sans toutefois faire de victimes. À Issime les mêmes accidents. à Cogne, neige m. 2, 95 ; trois maisons emportées et 5 victimes humaines au village de Mont-Ross. 6 mars- Les grandes neiges ont fait sortir de leurs tanières les loups qu’on croyait disparus pour toujours de nos montagnes. En effet, le 6 mars courant, on entendit les hurlements d’un loup non loin du village d’Issime-SaintJacques, du côté de la montagne. Vers les 7 heures du soir, on le vit à peu de distance des domiciles, d’où il a été mis en fuite. 23 mars. – Voici la hauteur des neiges sur les différents points de la vallée, telle qu’elle résulte des données des observatoires : Petit-Saint-Bernard m. 1,45 Valsavarenche m. 1,50 Cogne m. 2,95 Pontbozet m. 3,00 Arnad m. 3,00 Bard m. 1,90 Champorcher m. 4,00 Grand-Saint-Bernard m. 0,92. Comme on le voit, la vallée du Grand-Saint-Bernard a été fort peu éprouvée, tandis que la zone qui s’étend entre Cogne, Champorcher et Ayas a reçu une véritable tempête de neige. » L’abbé Jean-Jacques Christillin fait le récit de cet évènement de façon exhaustive pour ce qui concerne la vallée du Lys8 : « L’année 1888 fut une année mémorable à cause du triste hiver qui sévit dans la Vallaise. Le 28 février, il y avait une quantité de neige si grande que, de mémoire d’homme, on ne se souvenait pas d’en avoir vu autant ». De longues descriptions catastrophiques occupent une page entière et décrivent 4 mètres de neige à GressoneyLa-Trinité, 2,80 mètres au Gaby, 2,25 mètres à Issime. « à Fontainemore, près de deux mètres et, aux hameaux de Pillaz, de La Farrettaz et de Clapasson, on mesura 2,60 mètres. Dans toute la Vallaise, il y eut de grandes avalanches. à Guillemore, le gouffre fut comblé de neige jusqu’au pont. Cette avalanche énorme était descendue par le chenal de Laval. à Issime une avalanche descen- René Viérin, Vie quotidienne à Valgrisenche de 1879 à 1921. Journal du Recteur de Fornet Joseph-Bernard Gerballaz, Aoste 1984, p. 24-25. 7 L. Argentier, L’Almanach de l’agriculteur valdôtain, publié sous les auspices du Comice agricole, 7e année, Louis Mensio Ed., Aoste 1889, p. 23-24 8 J. J. Christillin, Légendes et récits recueillis sur les bords du Lys, [1901], 2e Ed. Musumeci, Aoste 1970, p. 192-193. 6 — 25 — A U G U S T A dit par le torrent Stolunbach et renversa une maison au Praz-Dessus. La nommée Christine Christillin, se trouvant sur le seuil de sa maison, fut miraculeusement sauvée et retirée vivante des décombres9 ». La description se prolonge avec la situation du Pontde-Trentaz où toutes les avalanches s’unissaient, si bien qu’il n’était plus possible de communiquer d’une maison à l’autre. Christillin continue en parlant de Niel de Gaby, des Rivesdu-Yair où il y eu même des victimes. Christillin continue en parlant de Niel de Gaby. d Pare-avalanche à Tschòcke de GressoneySaint-Jean et date 1888 sur le pare-avalanche contre la maison Christillin de Pra (Issime). h De même, le chanoine Louis Vescoz relate ces faits, dans son célèbre article « Phénomènes atmosphériques. Souvenir des principales anomalies du temps observées en Vallée d’Aoste dans le cours du XIXe siècle10 p. 34 : 1888. Désatres causés par les avalanches. « L’année 1805 a été appelée l’année de la grosse neige, ... mais à cette époque, Aoste était sans périodique. C’est pourquoi, faute de renseignements écrits ou imprimés, on ne peut que conjecturer les malheurs qui sont arrivés11. L’année 1888 n’est pas inférieure en sinistres, mais, grâce aux moyens de communication, tels que poste, télégraphe, chemin de fer, qui n’existaient pas encore au commencement du 19e siècle, on peut avoir bien des détails sur les évènements qui s’y sont passés et lui ont fait attribuer une place bien marquée dans l’histoire de la météorologie valdôtaine. D’après le témoignage d’Eligio Girod, cette habitante du hameau de Pra serait une Chamonal : elle a été plaquée contre le mur de sa maison par le souffle de l’avalanche. 10 Pierre-Louis Vescoz (Chanoine), Phénomènes atmosphériques. Souvenir des principales anomalies du temps observées en Vallée d’Aoste dans le cours du XIXe siècle, in Bulletin de La Société de la Flore valdotaine, 1919, p. 1-41. 11 À Issime, Jean- Jacques Chritillin rappelle que l’avalanche du Bühl, en 1805, a entrainé la mort de Franzisch Meja (Goyet) ; Michele Musso a vérifié le registre des décès de cette année-là dans les archives paroissiales et le fait est confirmé : “Goyet Maria filia quondam Joannis Pantaleonis Linty vidua a Joannis Jacobo Goyet, sexaginta circiter anni nata morte subitanea et improvisa obiit die vigesima quinta januarii anno 1805”. 9 — 26 — A U G U S T A Ainsi pendant que, dans la plaine d’Aoste, l’atmosphère s’est déchargée en neige humide, depuis le soir du 25 jusqu’au matin du 28 février, dans bien des localités et surtout dans la région montagneuse, une neige sèche est tombée presque sans interruption. Que de désastres n’at-on pas eu à déplorer ! » Le chanoine continue son article sur cette année fatidique, en énumérant les dégâts dans les différentes communes de la Vallée particulièrement touchées et en Piémont : Arnad, Ayas, Aymavilles, Champorcher, Pontboset, Gaby, Cogne, Issime, Carema, Settimo-Vittone. Ainsi, même si l’Abbé Christillin s’émerveillait de la précision des nouvelles véhiculées par les nouveaux moyens de communication de la fin du XIXe siècle, c’est un simple rocher gravé qui raconte en silence l’émotion poignante ressentie alors par les habitants. Cet exemple a été suivi par Ubaldo Agnesod, né Casimir (*1948 et + 1996), à Vers-Rives, toujours à Lillianes. En 1986, face à l’importante couche de neige, il a lui aussi, à son tour, pratiqué une incision pour indiquer qu’il était tombé 1,70 mètres cette année là (A C 1986. M.1.070 DE NEJE). De Lillianes, il n’est jamais question ! On se tourne alors vers les travaux d’Orphée Zanolli. Il a certainement rencontré ce qui s’est passé dans cette commune et, en effet, il signale dans le tome II de son œuvre, p. 406, qu’une avalanche, « en février, est tombée sur le hameau des Bonnes-Heures et qu’elle rendit inhabitable la maison que possédait en cette localité Panthaléon Charles »12. Mais il n’est pas question de l’adret de la commune où cependant un habitant a voulu, alors, laisser à la postérité un témoignage incisé dans un rocher tellement la quantité de neige l’avait frappé. Abréviations : L.I888 = L’an I888. Triste . S.ir = Triste souvenir. C’est Paul Crétaz qui nous a donné le sens de l’abréviation : L’an 1888 Triste souvenir pour neige. Vers-Rives - Lillianes Transcription du texte de la pierre écrite par Mauro Zucca. Cette pierre se trouve sur le chemin qui monte de Fasek à Sarron : on marche presque dessus. En octobre 2008, Lidia Agnesod nous a donné quelques détails sur ce terrible hiver, en précisant qu’il n’y avait pas eu de victimes dans ce canton : à Couleura, il y avait 3 mètres de neige et son grand-père a dû la pelleter pour être sûr que a maison ne s’écroule pas, car la poutre faîtière fléchissait. L’avalanche qui était descendue du vail était si haute qu’il a fallu creuser un tunnel dedans pour arriver à la fontaine de Vers-Riasseul. Orphée Zanoli, Lillianes, Tome II, p. 406, note 495 : Délibération communale de Lillianes, 28 avril 1889. 12 — 27 — A U G U S T A Il peut sembler désuet de graver une pierre pour laisser à la postérité le rappel d’un souvenir. Pourtant, c’est ce que nous pratiquons sur les pierres tombales,… Cependant en Vallée d’Aoste, les hommes ont souvent ressenti le besoin impératif de transmettre aux générations futures des informations liées aux catastrophes naturelles en incisant des dates sur les pierres tombées ou sur les murs de protection, bâtis après la chute d’une avalanche ou après un éboulement. Lorsqu’il s’agit d’inondations, on dessine sur une maison la hauteur qu’a atteinte l’eau dans le village, comme ici en Pramotton de Donnas. On sait qu’en matière de risques, l’homme a tendance à avoir la mémoire courte, mais les pierres qui restent non. Elles sont là, posées où l’ordre géologique de l’érosion terrestre les a projetées et où elles sont tombées par gravité. Parfois, la fraicheur de leur teint montre que la chute est récente. Dans d’autres cas, elles sont arrivées Pramotton - Donnas. Quelqu’un a senti la nécessité de noter trois niveaux. De bas en haut : août 1978, 8 octobre 1977 et bien plus haut la date de la catastrophe naturelle des 14-15 octobre 2000. Epierrements au Bühl (Vallon de Saint-Grat-Issime) — 28 — A U G U S T A d Freyan (Châtillon). Chute d’un bloc de pierre contre la chapelle le 19 avril 1922. h en si grand nombre sur les prés, les champs et les chemins qu’il a fallu les enterrer ou les amonceler en « murgères », d’mürdscheri en töitschu, pour reconquérir la terre nourricière et les surfaces en herbe. Ces « murgères », ces pare-avalanches ou ces blocs rocheux expriment par leur simple présence ce qui s’est passé il y des centaines d’années, mais parfois il y a seulement quelques lustres. Et de temps en temps, l’homme a voulu ajouter du sien en gravant lui-même la date de l’événement. Il est fréquent au surplus qu’il ait bâti face au danger une croix, un oratoire, une chapelle, qui, tel un bouclier, témoigne de l’appui psychologique de la foi pour vivre quotidiennement et sereinement en montagne. Sculpter ou graver la pierre est et restera un acte lié à la culture qui perdurera dans le temps bien au-delà du dépérissement de nos moyens modernes et immatériels de communication… — 29 — A U G U S T A Chantoun o Laval? I Donatella Martinet proprietari del vallone del torrente Laval sono di Fontainemore, anche sul costone del comune di Issime. Ma da quando? Il termine Chantoun (francoprovenzale; in töitschu Tschantun) significa promontorio, piccolo monte, con terreno in forte pendenza; il termine deriva dal latino ‘canthus’ con il significato di angolo, cantuccio di terra: da cui ital. cantina, cantone (angolo di un edificio); piem. ‘canton’ angolo; töitschu ‘kantunh’ villaggio, frazione. Laval (pronunciato in töitschu con l’accento rigorosamente sulla prima a) vuol dire semplicemente la valle. Chanton nel sistema di infeudazione medievale indica una parte di territorio satellite rispetto ad un areale principale. Ma satellite di che cosa? La domanda è intrigante: procediamo! Il costone di Chantoun si inerpica in destra orografica del torrente Laval, confine naturale tra i due comuni. Nei secoli l’uomo si è insediato strappando prati e pascoli ad un aspro declivio e realizzando mayens ora denominati – dal basso verso l’alto – Crest (Krecht, in töitschu), Vuillermet (Willjermet), Rompousin (Undru e Uabru Rumpusin) e l’alpeggio di Chantoun (Laval). Per accedervi si può partire dal villaggio Plana di Fontainemore o da Tschentschiri di Issime; i due percorsi si uniscono sopra a Crest. Una curiosità: sulle carte catastali il tratto di sentiero su Issime prima della congiunzione si chiama “strada di Oropa”, evi- dentemente era utilizzato per la processione mariana. Il percorso storico è veramente bello! È delimitato a tratti da “cumuli” di pietre a formare muri d’ala, ma anche da piccoli monoliti lapidei verticali conficcati nel terreno (blatti in töitschu); i terrazzamenti, murati a secco, vengono superati con poderosi scalini in pietra, molto curati in prossimità dei fabbricati. Un pilone votivo, datato 1918, con l’immancabile statua della Madonna Nera, dona al contesto anche la suggestione spirituale. Non manca una fontana scavata nella roccia, datata 1910, con le iniziali di un Rolland. Per trasferimenti e trasporti i proprietari da quest’anno sono aiutati da una monorotaia, che percorre il tragitto da sopra il Crest sino a Chantoun in poco più di mezz’ora. Sotto il profilo dell’utilizzo agrario storico abbiamo dei dati precisi che riguardano l’inizio del ‘900, con le qualità censite dal Catasto di origine dello Stato.1 Crest era immerso nei prati, Vuillermet e Romposin tra prati e seminativi, ai margini del bosco. Stessa cosa per Chanton, ma subito a monte iniziava il pascolo. Nella zona più alta (Romposin e Chanton) il territorio è stato organizzato in terrazzi, con la costruzione di notevoli muri a secco di contenimento delle terre, in quella più bassa (Crest e Vuillermet) il numero di sostegni è minore. Ma chi coltivava nei secoli tutto ciò? La questione è complessa; andiamo per ordine e per nucleo abitato. Vasca monolitica in località Adret. La Soprintendenza per i beni culturali e ambientali, grazie al coordinamento dell’arch. Flaminia Montanari, nel 1987 ha iniziato una serie di corsi di formazione per rilevatori del patrimonio architettonico minore. I due comuni sono stati censiti nel periodo 1997-2000. Sotto la guida attenta dell’arch. Claudine Remacle, hanno lavorato, a vario titolo, a Issime Fabrizio Giatti, Denise Vercellin-Nourrissat, Mauro Paul Zucca; a Fontainemore Alessia Ducler, Patrizia Mondino e Davide Tonna. Durante la campagna di censimento sono stati consultati numerosi documenti antichi tra cui il Catasto di origine dello Stato. Si ringrazia la R.A.V.A., Assessorato Istruzione e Cultura, per l’accesso alla consultazione dei risultati del censimento. 1 — 30 — A U G U S T A Un catasto sul quale ci possiamo basare è quello sardo della seconda metà del settecento. Non è mappato, è solo descrittivo, con un libro alfabetico e uno particellare. Ha la peculiarità di essere sistematico ed ancora sufficientemente vicino all’epoca medievale. Nel 17722 al Crest troviamo: M Alby Jean-Joseph fu Joseph, di Issime, con casa, corte e prati, che possedeva anche beni a Pra Dessus (casa e prati) e a Stadal di Bourine (edificio in stato di rudere e pascoli); M Consol Pierre fu Pierre, di Issime, con una stalla e antistante corte, che viveva a Chincheré, dove possedeva anche dei prati; aveva, inoltre, un rudere con incolto a Vazier e dei capanni, con pascoli, a Lyon Brunetta – Cretas, Montrax – Torretta, Hortiay e Planes; M Freppa Marie sposata con Jacques3, suppongo di Issime, proprietaria di una casa con corte; M i fratelli Gris Jean-Dominique (cantina e stalla), JeanLouis (cantina, stalla e casa), Jacques fu Domenico (casa, corte e prato), di Issime, proprietari anche di una casa a Gran Prà e una a Romposin; M Rolland Jean-Baptiste fu Antoine, con casa, corte e prati, di Fontainemore, proprietario anche di due case a Romposin; M Rolland Jean-Baptiste fu Jacques, con casa e prati, di Fontainemore, proprietario anche di due case, prati e campi a Romposin; M Rolland spettabile avvocato Jacques fu Jean-Joseph (casa, corte e prati), di Fontainemore, proprietario anche di casa, prati e pascoli a Creston, rudere e prati a Vernes e una casa a Romposin. Vediamo ora dove erano situate le proprietà di costoro a Fontainemore4: M Una certa Alby5 Marie-Magdeleine vedova di Joseph, sempre che si tratti di quel Joseph, possedeva un rudere e un castagneto a Clos; M Consol Pierre fu Pierre aveva un edificio completamente diroccato (masure) a Plana e una baracca e incolto a Crest Marquis; M Freppa Marie sposata con Jacques non sussiste; M i fratelli Gris neppure; M Rolland Jean-Baptiste fu Antoine era di Plana, con casa, stalla, quattro corti, e aveva anche una stalla a Fracha; M Rolland Jean-Baptiste fu Jacques risiedeva a Plana, aveva una corte alle Claives de la Plana e un capanno, con pascolo, a Laval. E qui non ho proprio capito se si tratti di Chanton-Laval in testa al nostro costone su Issime, o se esistesse un’altro Laval su Fontainemore; M Rolland spettabile avvocato Jacques fu Jean-Joseph era un ricco possidente, tra l’altro con case al Village de l’Eglise e a Plana, nonché corti a Plana, a Fracha e a Goil. Salendo ci imbattiamo in Vuillermet, quello più basso, dove, sempre nel 1772, troviamo Rolland Jean-Antoine fu Pierre, di Fontainemore, con una casa e molti campi. Questi monticava a Romposin, dove possedeva una casa e un edificio in 2 3 4 5 Dal Cadastre Sarde de la Paroisse d’Issime Freppa era il cognome del marito. Dal Cadastre Sarde de la Paroisse di Fontainemore. Si manteneva il cognome del marito anche da vedove. Fienagione all’Adret. stato di rudere, ma proveniva da Plana, dove era proprietario di terreni e di due case e una corte. Aveva anche altri edifici su Fontainemore: un rudere, con corte, a La Nova; una casa, con corte a Balmes e una baracca e incolto a Durand. Vuillermet dessus non era ancora stato edificato. Mancano ancora alcuni proprietari di Romposin che non provengono dai due nuclei sottostanti; si tratta di: M Rolland reverendo Martin fu Jacques-Antoine, con due case, di Fontainemore; M Roffin Jean-Baptiste fu Jean-Antoine, con una casa, di Fontainemore, che saliva da Grand Pra, dove possedeva un raccar, prati e pascoli. Dove stavano a Fontainemore? M Rolland reverendo Martin fu Jacques-Antoine era un altro ricco possidente; oltre ai terreni, era proprietario di un rudere e una corte al Village de l’Eglise, casa, prati e incolti a Pacoullaz, case, corti, stalle e prati a Plana, nonché corti a Plana, casa a Ronc-Robin, stalle a Fracha e ancora casa a Niana; M Roffin Jean-Baptiste fu Jean-Antoine poteva essere o di Colombat o di Coré, non lo so dire per questioni di omonimia, comunque della sinistra orografica del Lys. Fin qui siamo a livello dei mayens e quando saliamo all’alpeggio non troviamo più le stesse famiglie, ma un miscuglio di Girod e un Consol, censiti tutti insieme sotto un’unica, grande, particella catastale, ultimo numero del registro, ricomprendente edifici, campi, pascoli, incolti e boschi, in un luogo denominato Chanton; in particolare: M Girod Jean-Baptiste et frère fu Jean-Antoine, di Fontainemore; M Girod Jean-Baptiste fu Pantaléon, di Fontainemore; M Girod Marie-Rose e sua sorella fu Jean, di Fontainemore; — 31 — A U G U S T A M Consol Jean Baptiste feu Jean-Pierre (di Issime?). Questi, a Fontainemore: M Girod Jean-Baptiste fu Jean-Antoine, era di Plana (due case e corte), ma possedeva, oltre a terreni, una corte alle Claives di Plana, due case, una stalla e una corte a Ronc-Robin, casa, campo e incolto a la Cleva, casa a Queue-de-Boeuf; M Girod Jean-Baptiste fu Pantaléon, possedeva una casa, con corte, a Plana e una stalla a Farettaz, oltre ad altri coltivi; M Girod Marie-Rose e sua sorella fu Jean, si muovevano tra La Plana (una casa), a Balmes (casa e prati) e RoncRobin (casa, stalle, corte e prati); M Consol Jean-Baptiste fu Jean-Pierre possedeva un solo prato a Plana, e null’altro su Issime. Da questi elenchi deduciamo che i proprietari con un antroponimo di Issime (Alby e Consol) dal Crest si spostavano in altri territori dello stesso comune. Quelli con nome di origine di Fontainemore (Gris, Rolland) dal Crest salivano sul costone di Chantoun, dove l’ultimo alpeggio non era connesso coi sottostanti mayens. I Gris meritano un inciso. Dal momento che sappiamo benissimo che la parte del capoluogo di Fontainemore a monte della chiesa si chiama “Boure de Gris”, dire Gris di Issime pare un ossimoro; eppure questi tre fratelli non avevano beni su Fontainemore. Dagli archivi parrocchiali dei due Comuni6 emerge che il ramo dei Gris di nome “Domenico” è di Issime (nasce, si sposa, muore) almeno dal 1698, mentre quelli di Fontainemore sono del ramo “Pietro”; tra i quali spiccano uomini definiti, rispettivamente, dal 1695: onesto e probo, egregio, spettabile, letterato, tintore. Nella ricerca di vecchi documenti ho ritrovato l’antroponimo Gris nel 15357; Grixii Antoine fu Antoine riconosceva di avere in feudo alcuni beni nella Vallaise (più precisamente, a Finières de Cosa, en Ventosa au Chanton de Collombit, ou Revers de Gillieria, in Reverso de Bresser, a Les Clèves).8 Non so quando un ramo della famiglia si è spostato a Issime, comunque i nostri Gris, avendo poca campagna (solo un piccolo prato al Crest) non potevano fare solo i contadini, ma erano emigranti stagionali, che partivano solitamente in aprile per tornare a novembre. Tant’è che i quattro figli di Giacomo, unico dei nostri tre fratelli ad averne avuti, sono stati tutti battezzati in ottobre e quindi concepiti in gennaio. Lui stesso, nato nel 1717, non muore ad Issime. Dal 1758 non nasce più nessun Gris ad Issime, dal 1800 non ne muore più nessuno. Un altro catasto, più recente, questa volta mappato, facilmente consultabile è quello, già citato, di origine dello Stato9, dove, pur ritrovando alcuni antroponimi (Consol, Rolland e Girod), la situazione è notevolmente ingarbugliata. Gli abitanti del costone all’inizio del XX secolo erano rispettivamente10: Al Crest 1. Consol Giacomo e Fortunato di Giuseppe Emilio 2. Dandres Daniele fu Giovanni-Pietro 3. Girod Giovanni-Antonio fu Leonardo 4. Stevenin Giuseppina fu Giovanni in Girod A Vuillermet dessous 5. Gros Ferdinando fu Emanuele A Vuillermet dessus 6. Rolland Giuseppe fu Martino A Rompousin dessous 7. Girod Ferdinando, Giovanni, … fu Giovanni 8. Rolland Antonio fu Martino 9. Rolland Giuseppe fu Martino 10. Savy Francesco, Giuseppe … fu Giuseppe e Pasteur A Rompousin dessus 5. Gros Ferdinando fu Emanuele 11. Rolland Maria fu Francesco vedova Angelin-Duclos Infine, a Chanton 7. Girod Ferdinando, Giovanni, … fu Giovanni 3.-4. Girod Giovanni-Antonio e Stevenin Giuseppina 12. Girod Giovanni-Battista fu Remigio 13. Girod Marco fu Remigio Chi di questi era di Fontainemore e dove abitava? 3. Girod Giovanni-Antonio fu Leonardo a Plana e a RoncRobin 5. Gros Ferdinando fu Emanuele a Barme 6. Rolland Giuseppe fu Martino a Plana 7. Girod Ferdinando, Giovanni, … fu Giovanni a Barme e a Farettaz 8. Rolland Antonio fu Martino a Plana 9. Rolland Giuseppe fu Martino a Plana 10. Savy Francesco, Giuseppe … fu Giuseppe e Pasteur a Plana 11. Rolland Maria fu Francesco vedova Angelin-Duclos a Plana 12. Girod Giovanni-Battista fu Remigio a Plana e a Farettaz 13. Girod Marco fu Remigio a Plana e a Farettaz Rispetto al catasto precedente (di 140 anni prima) la situazione si è modificata, non solo per le famiglie, ma anche nelle linee di monticazione. Al Crest permangono gli Issimesi (Consol, Dandres e Stevenin), mentre il Girod di Fontainemore è connesso all’alpeggio di Chanton, che precedentemente era una realtà indipendente. Anche i fratelli Girod di Giovanni arrivano a Chantoun, ma passando da Rompousin inferiore. Gros Ferdinando, invece, da Vuillermet dessous sale a Rompousin dessus. Ringrazio di cuore l’infaticabile Michele Musso che ha trascorso alcuni fine settimana nell’archivio di Issime, a consultare registri in compagnia di vecchie ombre, e Renata Thoux per avermi gentilmente accompagnata all’archivio di Fontainemore in una gelida mattina. 7 Par O. Zanolli, Bibliothèque de l’Archivium Augustanum, XXII, Inventaires des archives des Vallaise, Tome troisième, Industrie grafiche editoriali Musumeci, Aoste 1988. 8 Fino al XVI secolo l’utilizzo dei cognomi non è consolidato. Nei secoli precedenti le persone erano qualificate per il nome proprio, quello del padre e il villaggio di abitazione stabile, a volte anche con la loro professione, 9 Redatto tra il 1898 e il 1914 10 Sono stati numerati in modo da trovare facilmente le connessioni, poche per la verità. 6 — 32 — A U G U S T A Campo di segale a Rumpusin (anno 2009). Chantoun, antico rascard. Viceversa, è completamente saltato il rapporto diretto, per i Fontanemoresi, tra Crest e Rompousin, ma tutti i nuclei al di sopra del Crest sono ora di proprietà di gente di Fontainemore. Vuillermet dessus è stato edificato nel 1899 da Rolland Giuseppe fu Martino, le iniziali sono sul colmo del fabbricato. Per ciò che concerne gli spostamenti tra Fontainemore e Issime, permane il rapporto tra Vuillermet dessous e Barme e dei proprietari di Plana con Rompousin; mentre Ronc-Robin cambia anelli di giunzione. Sparisce la migrazione all’Adret di Fontainemore, come quella per Fracha, Durand, la Nouva, il Village de l’Eglise e Niana e si intensifica quella per Farettaz. Per ultimo, anche se precedente agli altri catasti, riporto alcuni dati del Livre terrier di Issime11, datato 1645, centotrent’anni prima del cadastre sarde. In questo documento compaiono solo le colture, non gli edifici se non come confinanti. Risulta, quindi, impossibile identificare i possessori di immobili e quindi capire compiutamente le proprietà. Comunque, possedevano terreni a Crest: M Balma Pierre di Martin di Fontanamora; M Consol spettabile Gabriele di Jean-Pierre; M Creux Pierre di Domenico; M Creux Martin figlio emancipato di Pierre di Domenico; M Gries Domenico di Piero; M Pasteur Antoine, figlio di Barthélemy di Grato di Fontanamora M Vernes Jacques figlio di Jean, che per il possesso di questo terreno ha avuto un contenzioso con la “Communa de Fontanamora”; era proprietario a Vuillermet, detto le Ronc de Vuillermet La trascrizione è di Michele Musso, che nuovamente ringrazio. 11 M Chincheré Mathieu di Jean-Jacques a Rompousin, detto Ronc Pongin troviamo: Chincheré Jenin di Jean-Jacques Chincheré Mathieu di Jean-Jacques Girod Jacques di Pantaléon di Fontanamora; Girod Martin di Pantaléon di Fontanamora; Rolland Antoine di Jacques di Fontanamora Rolland Jacques figlio di un altro Jacques di Fontanamora Ronc Jean-Pierre di Pierre era proprietario della Montagnie du Chanton, le Chanton: M Consol spettabile Gabriele di Jean-Pierre. Ecco, così la confusione regna sovrana! Altri nomi di Fontainemore si affacciano (Balma, Creux e Pasteur) e Issime, d’altronde, non può essere da meno (Chincheré, Ronc e Vernes). Possiamo forse asserire che l’alpeggio di Chantoun dobbiamo chiamarlo Laval, grazie ai Consol che hanno retto nei secoli e che i mayens sottostanti derivano da forti dissodamenti, dal termine “Ronc”, derivante dal latino “runcare”. Il costone è stato, comunque, antropizzato sotto la spinta dei Vallaise, che nei secoli hanno fornito alla popolazione l’incentivo economico, consistente nel non dover pagare le rendite per un certo numero di anni, per mettere a coltura nuovi territori; non importa il villaggio di provenienza né l’etnia linguistica. Ancora una volta, così come già evidenziato da altri studi di demografia e linguistica, il concetto di unitarietà, in una realtà come quella di Issime, con un quadro variegato e composito dal punto di vista etnico, culturale e linguistico, è difficile da definire. Accade spesso, o meglio è accaduto, che i gruppi sociali si identifichino in base al loro radicamento su un determinato territorio, alla lingua, alla religione, o alla “razza”. Nel caso di Issime i due gruppi (francoprovenzale e tedesco) si sono identificati in funzione delle relazioni sociali che nel corso dei secoli hanno intrecciato e stabilito, fondando la propria identità sulla lingua e nulla più. M M M M M M M — 33 — A U G U S T A Bionaz : une colonie walser oubliée Joseph-Gabriel Rivolin L e journaliste Felice Ferrero, correspondant de New York du Corriere della Sera et du Corriere degli italiani au début du XXe siècle, fut un profond connaisseur des Etats-Unis et un passionné de la Vallée d’Aoste. Ferrero appartenait à ce genre de villégiateurs cultivés d’antan, qui tenaient à approfondir la connaissance des lieux de leurs vacances et en faisaient une sorte de seconde patrie, en venant parfois s’y installer de façon durable : notre région est débitrice d’une grande partie de sa notoriété et de ses fortunes touristiques à des personnalités telles qu’Edouard Aubert, les frères Giuseppe et Piero Giacosa, Giuseppe Cassano, Vittorio Avondo, Alfredo D’Andrade. On doit aussi à certains d’entre eux des publications qui ont marqué des étapes importantes dans la connaissance de notre patrimoine culturel et paysager : qu’on songe par exemple à La Vallée d’Aoste d’Aubert ou à Castelli valdostani e canavesani de Giuseppe Giacosa. Moins connu que d’autres, Ferrero a lui aussi le mérite d’avoir consacré à notre région une remarquable monographie, qui parut en anglais à New York en 1910. Trois ans après les frères Treves, éditeurs à Milan, en publièrent une version italienne, sous le titre Val d’Aosta, la perla delle Alpi. C’est en lisant cet ouvrage que je trouvai pour la première fois une référence à la présence de colons alémaniques dans la haute vallée du Buthier. « La seconda tappa del viaggio per la valle [del Buthier] – écrit Ferrero dans l’édition italienne – ci porta a Bionaz, l’ultimo comune. Gli abitanti la chiamano Bióna, secondo una regola di pronuncia che si riscontra in altri casi nel dialetto valdostano: e nome ed abitanti, almeno nel loro aspetto e nella forma del linguaggio, non lascerebbero sospettare quanto alcuno sostiene: che Bionaz fu una volta abitato da una popolazione di origine germanica, come Gressoney. Se la popolazione germanica ci fu, deve essere da lungo scomparsa: certo non ci rimane più traccia dei tipi e dei costumi che il King dice di avervi veduto nel 1855.1 Donde una popolazione germanica potrebbe essere venuta è difficile dire: certo non dalle valli immediatamente confinanti colla val Pellina al nord, perché le valli di Evolena e d’Hérémence, alle quali da Bionaz si ha accesso relativamente facile non sono abitate da razze germaniche, ma da una razza di origine non ben definita e di linguaggio singolare. D’altra parte è innegabile che se lingua e costumi non hanno nulla di germanico, le leggende che corrono intorno a Bionaz sono di un tipo molto simile a quello delle leggende di Gressoney, il che vuol dire di un tipo nordico; leggende nelle quali le fate e i nani hanno parte più importante che non altrove. »2 Tout en étant originaire de Bionaz par mon père, je n’avais jamais entendu parler de cette prétendue souche alémanique de mes ancêtres : je mis donc cette information sur le compte de l’habitude, assez répandue, de se construire un mythe des origines où l’invention d’une provenance de contrées lointaines prend la valeur de status symbol pour une famille ou une population donnée. Je dus changer d’avis quelques années plus tard, lorsque je me trouvai à examiner la documentation médiévale se rapportant à l’administration de la seigneurie de Quart, conservée aux Archives de l’Etat de Plan-de-Veyne, chef-lieu de la Commune de Bionaz (d’après E. Whymper, The ascent of the Matterhorn, Londen 1880) 1 2 S. W. King, The Italian Valleys of the Pennine Alps, London 1858. F. Ferrero, Val d’Aosta, la perla delle Alpi, Milano 1913, p. 131. — 34 — A U G U S T A Plan -de-Veyne, Chef-lieu de la Commune de Bionaz (d’après D. Vallino, Dans la Vallée d’Aoste – Album d’un alpiniste, 3e cahier, Biella 1880). Turin : je tombai alors sur un long rouleau, rédigé à l’intention du châtelain Hugues Garnier, dit Rode, contenant le compte-rendu de la perception du « subside » versé au comte de Savoie par ses sujets des châtellenies de Quart et Oyace au mois de juillet 1379. Le subside (ou « donatif ») était une sorte d’impôt una tantum dû au seigneur du lieu quand il se trouvait à devoir affronter des dépenses extraordinaires. Les cas où le seigneur pouvait requérir ce type de prestation fiscale étaient taxatifs, fixés par la coutume et les franchises locales et concernaient habituellement : l’adoubement (c’est-à-dire l’acquisition de la qualité de chevalier par le seigneur lui-même ou par son fils) et les campagnes militaires ; le mariage de sa fille ; le paiement de la rançon au cas où il serait capturé en bataille et pris en otage ; la reconstruction de ses châteaux et maisons fortes détruites ou incendiées ; la Croisade ou autre pèlerinage. Les comptes-rendus des subsides contiennent généralement la liste nominative de tous les contribuables, ce qui permet de se faire une idée, quoique approximative, du peuplement d’un territoire donné. Or, dans le rôle des subsides de la seigneurie de Quart et Oyace ayant payé le subside cette année-là on lit les noms de 46 chefs de famille de la paroisse de Valpelline, qui correspondait aux Communes (et paroisses) actuelles de Valpelline, Ollomont, Oyace et Bionaz. Parmi eux, on en trouve cinq, qui sont désignés par le surnom de « theotonicus », c’est-à-dire « allemand » : Iacobus Belion theotonicus, Yanno lo Clop (l’éclopé, le boiteux) theotonicus, Georgius theotonicus, Yramo bastardus Iacobi theotonici et Anthoniodus theotonicus.3 Il s’agit, de toute évidence, de personnages appartenant à une petite communauté, mais ils représentent quand-même plus de 10% des contribuables recensés dans toute la paroisse. Les mêmes apparaissent, avec d’autres, dans un autre document de la même époque : Georgius theotonicus et Iacobus Belion, et avec eux les fils de feu Anthonius alamandus, résultent avoir payé une redevance en fromages au comte de Savoie, seigneur de Quart et d’Oyace, en 1377, ainsi que le châtelain Garnier l’enregistre dans son compte-rendu. Dans le même document, on lit que les mêmes Georgius alamandus et Iacobus Belion, avec les fils de feu Iacobus alamandus, se sont aussi acquittés de la redevance de 30 livres de beurre. Vu la typologie du paiement en nature, il est facile de comprendre que ces theotonici ou alamandi étaient des éleveurs et des bergers. En effet, trois d’entre eux furent condamnés, la même année, à payer des amendes pour avoir fait paître leurs troupeaux (de brebis, vraisemblablement) de l’Arp Nouvaz in valle Oyacie dans les pâturages d’Orens : Georgius dut verser 45 sous, Yanno 28 sous et Iohannes de feu Belion 26 sous et 6 deniers.4 La châtellenie d’Oyace étant plutôt vaste, on se demande si on peut mieux localiser l’endroit ou les endroits où les alamandi s’installèrent. La combe d’Orens se trouve en amont de Prarayer, ce qui confirme l’information de Ferrero sur la localisation de la colonie germanique dans le territoire de Bionaz. Deux attestations plus récentes la renforcent ultérieurement, en rattachant le souvenir des « allemands » à des toponymes. La première se trouve dans une reconnaissance de 1653, qui mentionne « ung pasturage jesant au lieu dict Chastellex de Guay ; les fins sont de la premiere part, seconde et tierce part les choses de Panthaleon de Michel Barrallier ; de la quattriesme les choses de ceulx de La Leschere que furent des Allemants, que meuvent du venerable prioré Sainct Ours d’Aouste tendant au Carroz de La Peccy vers les Allemants soit les choses desdicts de La Leschere et de là tendant au bout de l’Eau Rousse »5. La deuxième Archivio di Stato di Torino, sezioni riunite, inv. 68, fol. 113, mazzo I. Ibidem, inv. 68, fol. 99, mazzo I 5 Registre conservé aux Archives Historiques Régionales de la Vallée d’Aoste, fonds Cadastres et reconnaissances, doc. 5/A/5/19, fol. 448 verso. 3 4 — 35 — A U G U S T A Perquis, hameau de la Commune de Bionaz (d’après D. Vallino, Dans la Vallée d’Aoste – Album d’un alpiniste, 3e cahier, Biella 1880). est une autre reconnaissance, du 16 septembre 1714, passée en faveur du baron de Quart, Charles-Philippe Perron de San Martino, par « Antoine Barrallier, Jean-Marie Bionaz et autres consorts de la montagne de Chamein », qui ont reçu en fief « tout l’alp jusant en Oyace appellé Chamein (…) duquel les fins sont de la premiere part du couchant les Chenaux de la Drosaz, de la seconde les Champés des Chamois et les prés des Montagnes soit les choses des Betend (…) de la troisieme de dessus les Mellieres, de la quattrieme les fonds du Plan de la Peccy, de la cinquieme les Lex des Allemans, et ensuivant le sentier de la Tour Rossaz ».6 La zone habitée par les familles germaniques devait donc se trouver en amont du chef-lieu de Bionaz, entre Pouillaye (1616 m d’altitude) et Prarayer (2006 m) : une localisation qui correspond tout à fait à la dynamique habituelle de la colonisation walser, privilégiant les terres hautes et les alpages utilisés, à l’origine, uniquement en été, qu’il était possible d’occuper en l’absence des possesseurs, pendant les saisons où le bétail était stabulé dans les villages. Si les pâturages de Bionaz, appartenant à l’évêque d’Aoste et aux chapitres de Saint-Ours et du Mont-Joux, sont déjà cités dans un document de 1227,7 en effet, il faut attendre la seconde moitié du siècle suivant pour avoir la certitude de la présence d’installations humaines stables dans le territoire actuel de cette Commune. Le compte-rendu des subsides de Quart et Oyace de 1379 mentionne des habitants de Bionaz (un certain Bonifacius Gonterii et les fils de Johannes Bestent) et de Pertuys (aujourd’hui Perquis : Vuillencus, Nycholinus et Iacobus), ainsi que Bonifacius de Clausonovo (Clos-Neuf) et Iohannes de Nuce (qui est probablement à l’origine du hameau de Chez-Noyer) ;8 et le compte-rendu du châtelain de 1377/78 cite un Iohannes de Ferreria (La Ferrère), un Iohannes Villelmeti de Veyni (Plan-de-Veyne), un Anthonius de la Culla (La Quelou) et un Girodus de Molendino (Moulin).9 La localisation de ces toponymes permet d’établir qu’il y avait deux zones de peuplement : la première autour du chef-lieu, habitée par des autochtones, et la deuxième se situant en amont du Saut de l’Epouse, où se plaçaient vraisemblablement les habitations des colons walsers. La situation spatiale étant déterminée, il reste à identifier la localisation temporelle. Le surnom ethnique commun à toutes les familles germaniques mentionnées dans la documentation des années 1377/79 suggère une immigration relativement récente, de première ou de deuxième génération au grand maximum : en cas contraire, des surnoms plus spécifiques, servant à mieux distinguer les clans familiaux, auraient probablement eu le temps de se stabiliser. On peut donc supposer que l’arrivée des Walsers à Bionaz ne fut pas antérieure au milieu du XIVe siècle. Leur installation, qui fut vraisemblablement contrôlée sinon favorisée par les derniers seigneurs de Quart, dut être pacifique et leur intégration dans la communauté locale assez rapide, car on n’a pas connaissance de conflits pour la possession des alpages, contrairement à d’autres cas similaires ; quant au surnom de « theotonicus », il disparut rapidement de la documentation, où on ne trouve aucune référence à l’usage d’un dialecte alémanique. Seule la tradition orale, recueillie par Ferrero, avait gardé jusqu’au début du siècle dernier le souvenir de cette lointaine colonisation.10 Registre de reconnaissances conservé aux Archives municipales d’Oyace ; cfr. A. Chenal, La vie et l’économie du XVI e au XVIII e siècle dans la vallée de Valpelline (2e livraison), dans « Le Flambeau » 4 (1988), pp. 66 ss. 7 Historiæ Patriæ Monumenta, Chartarum, t. I, Turin …, col. 1293. 8 Cfr. ci-dessus, note 3. 9 Cfr. ci-dessus, note 4. 10 La plupart des documents mentionnés dans cet article sont cités aussi, avec quelques imprécisions, par E : Tognan et A : Liviero, Alamans : elementi per una storia della colonizzazione Walser in Valle d’Aosta, Aosta 2003, pp. 146-147. Ces auteurs ont le mérite d’avoir rassemblé un grand nombre de témoignages concernant la présence alémanique dans tout le territoire régional au Moyen Age. 6 — 36 — A U G U S T A D’housanha hentsch auch gmachut zseeme um nöit gschénte matti Le case le costruivano anche assieme per non rovinare i prati Barbara Ronco Margitisch Éischeme, tsch’Hieruhous, le 17 février 2010 Consol Fortunato (*1920), Stevenin Aldina (*1925), Ronco Barbara (*1974) B. Dé viewer a van d’soass? F. Van d’soass, jia, van d’soass. B. Was hedder khee wi trüeli? F. Trüeli? Héi hennich khee pickunh un schouvlu…Hen gsoassut allz zar hann, sua, invece in d’andrun ketschu dambor hen kheen no scavatur van Uberlann… B. Süscht hedder kheen allz zar hann z’tu. F. Allz zar hann, jia, allz zar hann. B. Was tüder, groabe… F. Jia, groabe, allz le fondamenta wi geit d’messi van d’ketschu un té zu hewer gmachut un getto mit büttinh un té zu doa henni gvoan a z’houfuru un bin kannhen ouf vürsich un vürsich. B. Z’büttinh auch hedder allz gmachut ir? F. Ja, z’büttinh henni khee…hen kheebe una impastatrice, hen kheen una macchina vür…ja, in dar iesti, d’iestun toaga vür d’soass henni kheen zar hann però darnoa henni gchauft un’impastatrice…ischt mer kannhe, ischt gsinh as söiri tellur. B. Ja, süscht wérti allz das z’tun zar hann, auch? F. Jia, ah na, das ischt kannhen a mutur…ischt gsinh un mutur, hen nuan kheen z’vülljen i il cuntenitur, vülljen i simmanh un dŝcheeru ol sann…vür machun da vloaschter ol machun z’büttinh un das het génh gchiert um, hen gseilt la spina im gsicht un das ischt kannhe… B. Un das ischt kannhen allz einigs… F. Un d’réstu bin kannhen vürsich, machun da vloaschter, zu bin gcheen uger, hen gmachut a stukh mouru un té zu dan tag drouf amum an andre stukh… B. Doa was hedder khee, munnha un simmanh… B. Allora cominciamo dalle fondamenta? F. Dalle fondamenta, sì, dalle fondamenta. B. Cosa avevate come attrezzi? F. Attrezzi? Qui avevo piccone e pala…Ho fatto le fondamenta tutto a mano, così, invece nell’altra casa su avevo uno scavatore di Gaby… B. Se no avevate da fare tutto a mano. F. Tutto a mano, sì, tutto a mano. B. Cosa fate, scavate… F. Sì, scavare, tutte le fondamenta come è la misura della casa e poi facevamo un getto con calcina e poi lì cominciavo a fare i muri e andavo su di continuo. B. La calcina anche la facevate voi? F. Sì, per la calcina avevo…avevo una impastatrice, avevo una macchina per…sì, all’inizio, i primi giorni per le fondamenta avevo a mano però dopo ho comperato un’impastatrice…mi andava, era un po’ più facile. B. Sì, altrimenti sarebbe da fare anche tutto quello a mano? F. Sì, ah no, quella andava a motore…c’era un motore, avevo solo da riempire il contenitore, riempire di cemento e ghiaia o sabbia…per fare la malta o la calcina e quella girava sempre, attaccavo la spina nella corrente e quella andava… B. E quella andava tutta sola… F. E il resto andavo avanti, fare la malta, poi venivo su, facevo un pezzo di muro e poi il giorno dopo di nuovo un altro pezzo… B. Lì cosa avevate, mattoni e cemento… F. Mattoni e pietre, sì, questa casa qui, fino a dove abitiamo noi ho fatto con le pietre, dopo da qui in su ho fatto con i mattoni, sì. — 37 — A U G U S T A F. Munnha un stein, jia, diŝch ketschu héi, unz héi woa phewünündŝch wir hen gmachut mit stein, darnoa van doa ouf henni gmachut mit munnha, jia. B. Sén lljichtur d’munnha dén d’steina. F. Lljichtur, lljichtur, jia, bellében lljichtur, un té mia spicciativo vür z’weerch, tuscht léstur un lauft trochnur… B. Trochnur… F. Chint nöit sua d’umidité. B. D’steina müsseder scheide, sén nöit allu glljéich… F. Ah ja, ja, müssewer scheide secund wi dŝch’goa, wissischt wol la position das vinnischt dich… B. Un doa heddenen keen as söiri a furmu, da steine? F. Na, na, allz gweerhut mit a hoamer, zar hann, sua, na, na, khés dinh, ischt gsinh allz zar hann; un séwer kannhen vürsich unz ouf, unz im tach mit dam mouru, zu hennich…doa botten d’holzer, il geometra hemmer kheen d’messi vür z’tach, d’vistini, d’roavi un allz wi…un ich hen troagen alla segheria, ouf in Trentu Steg un doa hentsch mer zuagen ous allz z’holz das hen kheen manhal un henni gholzurut allz ich, allz… B. Franh auch z’tach? F. Na, héi vür d’blatti henni kheen a weerma un d’réstu henni toan allz ich, hen nuan kheen a weerma vür mer lécken d’blatti süscht hen gleit d’holzer un dŝchu troagen ouf ich allu d’blatti, vom rück un… B. Ouf tur d’leitru? F. Na, hen kheen gmachut un’andadura vür goan as söiri béssur, antweegen sén gsinh schwieru déi blatti…éttljugu hen unza khee vöfzg killu, neh, dŝchu troagen ouf allu zu ischt mer gcheen eis das ischt guts z’machun di tachi mit blatti, ischt mer gcheen bdéckhje un ischt noch bdackhts nunh. B. Dé eina zar voart hedder khee… F. Eina zar voart, eina zar voart, nunh ischt sechzg joar das…un té zu a si das bin kannhe ouf hen kheen z’armurun le dalle, allu mussun armuru, un hen dŝchu karmurut allz einigs, allz ich, d’boffi sén gsinh junnhi un sén kannhen in d’schul… B. Hentsch nöit muan helfe... F. Antweegen ich hen gleernit z’machun dar houfer mit méin pappa, ich hen khee sibbenze joar un hen aschuan gweerhut mit méin pappa, darnoa henni gweerhut sibbenze, achzini, nöinzini, zwénzg, noch dröi joar darnoa ischt askoppiurut da chrig, dŝchacki darnoa… B. Hedder mussun goan… F. Im chrig…wa süscht hennich gleernit z’handweerch ievun goan chrigschma, ievun machun da chrig. B. Sédder kannhe zan zwénzg joar. F. Jia, zan zwénzg joar, nöit franh…nöit noch volli wa là… B. Sédder gsinh mit awen pappa dröi joar, ouf ol ab. F. Dröi joar, jia. Stadel (sec. XV-XVI), al villaggio di Bourinnes. B. Sono più leggeri i mattoni delle pietre. F. Più leggeri, più leggeri, sì, molto più leggeri, e poi è più spicciativo per il lavoro, fai prima e corre più asciutto… B. Più asciutto… F. Non viene così umido. B. Le pietre dovete sceglierle, non sono tutte uguali… F. Ah sì, sì, dobbiamo sceglierle a seconda di dove vanno, sai bene la posizione in cui ti trovi… B. E lì le davate un po’ la forma, alle pietre? F. No, no, tutto lavorato con un martello, a mano, così, no, no, niente, era tutto a mano; e andavamo avanti fino su, fino al tetto con il muro, poi ho…ordinato il legname, il geometra mi ha dato le misure per il tetto, la trave maestra, i puntoni e tutto come…e io ho portato alla segheria, su a Pont Trenta e lì mi hanno tirato fuori tutto il legname di cui avevo bisogno e ho messo il legname tutto io, tutto… B. Anche il tetto? F. No, qui per le lose avevo un operaio e il resto ho fatto tutto io, avevo solo un operaio per mettermi le lose altrimenti ho messo il legname e portate su tutte io le lose, sulla schiena e… — 38 — A U G U S T A Stadel di Chlousi (sec. XVI), vallone di San Grato. B. Sua hedder gleernit. F. Mit méin pappa dröi joar, jia. B. Un hedder aschuan kheen gmachut, ghousut du? F. Na, du hewünündŝch pheeben noch in d’oaltun ketschi, vüm dam chrig, diŝch ketschi héi hendŝchu gmachut noa dam chrig, diŝcha héi un déja woa sén d’boffi, noa dam chrig, un doa ambri hen auch grüscht d’oaltun ketschu, génh noa dam chrig süscht dar vür hewünündŝch pheebe ambri in Gran Proa, doa béi da sia, woa phen dŝchi déju z’Tschampi un Péteretsch, hewünündŝch pheeben doa un héi hewer züeft an ketschu ambri im Duarf, hewer nöit kheen ündŝch ketschu, wir hen ghousut noa dam chrig, noa le ’45, jia… B. Un la différence das ischt inter z’büttinh un da vloaschter? F. Z’büttinh chint hérts in vir un zwénzg stünni invece da vloaschter geit as poar toaga, vir, vünv toaga ievun z’cheemi hérts antweege da vloaschter ischt mia chalch dé simmanh, da chalch chint nöit hértur sibit, ischt kannhe lannhur vür machun la prise, an dem wi(n) ich der see, z’büttinh vir un zwénzg stünni ischt gsinh hérts invece da vloaschter ischt gsinh différent… B. Un da chalch…hen khüert das a voart sén gsinh d’chalchuavna dabbiri. B. Su per la scala? F. No, avevo fatto un’andatura per andare un po’ meglio, perché erano pesanti quelle lose…qualcuna aveva perfino cinquanta chili, neh, portate su tutte poi è venuto uno che è capace di fare i tetti con le lose, è venuto a coprirlo ed è ancora coperto adesso. B. Allora una alla volta avevate… F. Una alla volta, una alla volta, adesso sono sessanta anni che…e poi man mano che salivo avevo da armare le solette, tutte ho dovuto armarle, e le ho armate tutto da solo, tutto io, i ragazzi erano giovani e andavano a scuola… B. Non potevano aiutare… F. Perché io ho imparato a fare il muratore con mio papà, io avevo diciassette anni e lavoravo già con mio papà, dopo ho lavorato diciassette, diciotto, diciannove, venti, ancora tre anni, dopo è scoppiata la guerra, già che dopo… B. Avete dovuto andare… F. In guerra…ma se no ho imparato il lavoro prima di fare il soldato, prima di fare la guerra. B. Siete andato a vent’anni. F. Sì, a vent’anni, non proprio…non ancora compiuti ma là… B. Eravate con vostro papà tre anni, più o meno. — 39 — A U G U S T A F. Jia, jia, wir hewer gchauft…hewer gchauft di zockla, sén gsinh zockla sua wi steina, wi steina zu hewudŝchu gleit milde an tag vür dan andre, milden im wasser un das het gschmolze, gschmolze un ischt gcheen as dinh wi milch, um see, un darnoa hewer gmischlut, gmischlut antweegen hewer gmachut as gruass luch im heert woa hewer gleit milde de chalch zu hewer potschut ous vür machun da vloaschter. B. Ah, dé sén gsinh déi d’chalchuavna. F. Jia, sén gsinh déi, wa wir hen dŝchu gchauft, di zockla sén gcheen van ambri, van il fondovalle, ischt gsinh a negosianh das hewer gchauft diŝch zockla chalch invece z’simmanh ischt gsinh in d’sékh, ischt gsinh in d’sékh, sibit…voilà, van woa hentsch gmachut le produsiunh del cemento… B. Zu hedder gmierut i sann ol dŝcheeru selon was… F. Wénn hen kheen gmachut…vür machun büttinh geit sann un dŝcheeru un simmanh, büttinh, au lieu machun da vloaschter geit bars sann un chalch un as poar potschiti simmanh, gmischlut, chaqui voart das hescht gmischlut il pastun das hescht gmachut, chaque voart, ischt kannhe sua, la rasiunh ormai hewer kheen d’gwanni, hewer kheen d’hann, ischt nöit gsinh tschebs, das ischt wi hannun le dalle, chaqui ner vadura ischt dŝchéis éise wa ich aschuan va junhs henni gleernit la dimensiunh das ischt kannhe éise, antweege chaqui hüeji das het la dalle geit as éise secund dikhur ol lljickur, secund la dimensiunh das het kheen la dalle un ich hendŝchu gwisst allu, antweegen hen kheen gleernit aschuan sibit, hemmer gvalle…hemmer gvalle antweegen ich hen kheen a meischtiri das ischt gsinh a mundja, hemmi génh mi wélljen tun z’astüddiuru… B. Sédder etwa gsinh in gamba, in d’schul. F. Jia, wa in gamba binnich nuan gsinh vür la matematica. B. Ben ischt anvana etwas. F. Nuan vür la matematica un vür d’réstu bin nöit gsinh interessé…un té zu wénn ich hen kheen glljéivrut la quinta d’mundja hemmer gseit: “Allora ripeti la… A. La Colombe. B. Ah, soeur Colombe. F. Soeur Colombe, “…ripeti la quinta”… “No sorella, io non sono fatto per gli studi, mi piace lavorare.” E allora, basta, poi l’ho detto…gseit auch dar mammu: “Guardi che bisogna farlo studiare perché è abbastanza intelligente” e la mamma mi ha detto, ma io: “No, no basta”, allora alla sorella gli ho detto: “Guardi sorella, io, di matematica mi ha sempre dato dei bei voti e storia e geografia non mi interessa”. “Ma non c’è solo storia e geografia, c’è matematica, c’è i verbi, ce n’è tante cose da imparare”; “Comunque no, la ringrazio del suo consiglio ma sono fatto per lavorare”. B. Ir het kheen lljibur weerhu. F. Tre anni, sì. B. Così avete imparato. F. Con mio papà tre anni, sì. B. E avevate già fatto, già costruito allora? F. No, allora abitavamo ancora nelle vecchie case, prima della guerra, queste case qui le ho fatte dopo la guerra, questa e quella dove sono i ragazzi, dopo la guerra, e giù lì ho anche aggiustato la vecchia casa, sempre dopo la guerra altrimenti prima abitavamo giù a Gran Proa, lì accanto al lago, dove abitano quelle di Tschampi e Péteretsch, abitavamo lì e abbiamo affittato una casa giù al Duarf, non avevamo la nostra casa, noi abbiamo costruito dopo la guerra, dopo il ’45, sì… B. E che differenza c’è tra la calcina e la malta? F. La calcina diventa dura in ventiquattr’ore invece la malta ci mette un po’ di giorni, quattro, cinque giorni prima che diventi dura perché la malta contiene più calce che cemento, la calce non diventa dura subito, ci andava più tempo perché facesse presa, perciò come ti dico, la calcina in ventiquattr’ore era dura invece la malta era differente… B. E la calce…ho sentito che una volta c’erano i forni per la calce per lì. F. Sì, sì, noi compravamo…compravamo i blocchi, erano blocchi così come pietre, come pietre poi le mettevamo a mollo un giorno per l’altro, a mollo nell’acqua e quello scioglieva, scioglieva e diventava un liquido come latte, per dire, e dopo mescolavamo, mescolavamo poiché facevamo un grosso buco nel terreno dove mettevamo la calce ad ammollare, poi tiravamo fuori delle mestolate per fare la malta. B. Allora erano quelli i forni per la calce. F. Sì, erano quelli, ma noi li compravamo, i blocchi venivano da giù, dal fondovalle, c’era un negoziante da cui compravamo questi blocchi di calce invece il cemento era nei sacchi, era nei sacchi, subito…voilà, da dove producevano il cemento… B. Poi aggiungevate sabbia o ghiaia a seconda di cosa… F. Quando ho fatto…per fare calcina ci vanno sabbia e ghiaia e cemento, calcina, invece per fare la malta ci vanno solo sabbia e calce e qualche mestolo di cemento, mescolato, ogni volta che mescolavi il pastone che avevi fatto, ogni volta, andava così, la razione oramai avevamo l’abitudine, avevamo la mano, non era difficile, quello è come preparare le solette, ogni nervatura ha il suo ferro ma io già da giovane ho imparato la dimensione che andava del ferro, perché per ogni altezza che ha la soletta ci va un ferro a seconda più spesso o più sottile, a seconda della dimensione che aveva la soletta, e io le sapevo tutte, perché avevo imparato già subito, mi piaceva…mi piaceva perché io avevo una maestra che era una suora, mi voleva sempre far studiare… B. Eravate in gamba, a scuola. F. Sì, ma in gamba ero solo per la matematica. — 40 — A U G U S T A Casa con colonne al Chröiz (sec. XVII), vallone di San Grato. F. Jia, lljibur weerhu, darnoa binni kannhe…hentsch ghousut d’schuli héi z’Éischeme, du hen khee virze joar… B. Déju woa dŝch’sén nunh? F. Woa dŝch’sén nunh, nöit was hentsch ankleit, eh, woa dŝch’sén nunh, un méin pappa het gweerhut doa un ich bin gsinh an boffu, hen troage da vloaschter, darnoa hen gseit dam pappa: “Vrieg mu ol z’mi tétti gien vür bocia im schantji”, zu mu gvriegit, dar pappa het gvriegit, un té: “Lass-lo crësse ancora ’n pòch, l’é ’ncora giovo”, basta darnoa hets mer gseit: “Is het nöit vuallju z’di gia, um nunh heb paziunzu”; un darnoa, noa as poar wuchi, hen amum gseit: “Pruav…” un dar pappa ischt gsinh astuf z’mu vriege…het mu gseit: “Ch’a guarda monsù Regis, ch’a fasa che piélo, se i conven a lo ten e se i conven nen t’am lo lasse a ca, mi m’offendo nen!” “Ah, se ’t parle parèj alora dije ch’a ven-a doman”… B. Dé sua hedder muan voan a. F. Dan tag drouf bin kannhe voan a. Basta, kannhe vürsich, an tag, dan andre, d’wuchi… B. Un doa hedder aschuan kheen macchinari ol génh zar hann? B. Beh, è già qualcosa. F. Solo per la matematica e al resto non ero interessato…e poi quando io avevo finito la quinta la suora mi ha detto: “Allora ripeti la… A. La Colombe. B. Ah, suor Colombe. F. Suor Colombe, “…ripeti la quinta”… “No sorella, io non sono fatto per gli studi, mi piace lavorare.” E allora, basta, poi l’ho detto…l’ha detto anche alla mamma: “Guardi che bisogna farlo studiare perché è abbastanza intelligente” e la mamma mi ha detto, ma io: “No, no basta”, allora alla sorella gli ho detto: “Guardi sorella, io, di matematica mi ha sempre dato dei bei voti e storia e geografia non mi interessa”. “Ma non c’è solo storia e geografia, c’è matematica, c’è i verbi, ce n’è tante cose da imparare”; “Comunque no, la ringrazio del suo consiglio ma sono fatto per lavorare”. B. Voi preferivate lavorare. F. Sì, preferivo lavorare, dopo sono andato…hanno costruito le scuole qui a Issime, allora avevo quattordici anni… B. Quelle dove sono adesso? F. Dove sono adesso, non quello che hanno tirato giù, eh, dove sono adesso, e mio papà lavorava lì e io ero un — 41 — A U G U S T A Stadel (sec. XVII), costituito da stalla e fienile, a Hubal. F. Na, allz zar hann, doa in d’schul hewer kheen allz zar hann, macchinari het ru nöit existurut antweege ischt gsinh nel 1934, loan di figurer, ischt gsinh de miserie in Italia, ischt gsinh…génh nuan gschwétzt van chriga un, basta, ich henni zuahe vürsich, all toaga bin kannhe weerhun un dar pappa het mu nöit gvriegit khés dinh zu hets mer krat gseit: “Ma se savìo n’afé parèj l’aveisso pa fait tante paròle”… Un voilà, alli la risposta ischt gsinh déja, ich bin kannhe vürsich un hen mi gvunne wol, difatti noa dröi moanada hets mer gmierut dan zalmuss, das ich…anner zwian boffi hentsch kiet 1,20 l’ora, hentsch mer keen zwia moanada 1,20 un dan drittege moanud mir hets mer keen 1,30 un d’endri zwei génh 1,20; ich hen mi gvunne franh wol, jia, un hen gweerhut unz z’létschta…den angréiffer doa, dar su ischt gsinh géometre dé im sunnatag hets mi génh ghoeischut, z’mu goa helfe hannun d’steega, hannun d’weerhji vür d’houfara un armuru le dalle un doa hets mer zeihut la dimensiunh van d’éise das ischt kannhe chaque…aschuan du henni gleernit la dimensiunh, la resistenza vam éise ragazzo, portavo la malta, poi ho detto al papà: “Chiedigli se mi prenderebbe come bocia nel cantiere”, poi chiesto, il papà ha chiesto, e poi: “Lascialo crescere ancora un po’, è ancora giovane”, basta, poi mi ha detto: “Non ha voglia di prenderti, per adesso abbi pazienza”; e poi, dopo un paio di settimane, ho di nuovo detto: “Prova…” e il papà era stufo di chiedergli… gli ha detto: “Guardi, signor Regis, faccia che prenderlo, se le conviene lo tiene e se non le conviene me lo lascia a casa, io non mi offendo!” “Ah, se parli così allora digli che venga domani”… B. Così avete potuto cominciare. F. Il giorno dopo sono andato a cominciare. Basta, andato avanti, un giorno, un altro, le settimane… B. E lì avevate già i macchinari o sempre a mano? F. No, tutto a mano, lì alle scuole avevamo tutto a mano, i macchinari non esistevano perché era nel 1934, ti lascio immaginare, c’erano le miserie in Italia, era…sempre solo parlare di guerre e, basta, io ho tirato avanti, tutti i giorni andavo a lavorare e il papà non gli ha chiesto niente, poi mi ha solo detto: “Ma se sapevo una cosa così, non facevo tante parole”…E voilà, tutta la risposta era quella, io sono andato avanti e mi sono trovato bene, difatti dopo tre mesi mi ha aumentato la paga, che io…altri due ragazzi prendevano 1,20 l’ora, mi hanno dato per due mesi 1,20 e il terzo mese a me ha dato 1,30 e gli altri due sempre 1,20; io mi sono trovato proprio bene, sì, e ho lavorato fino alla fine…quell’impresario lì, il figlio era geometra allora la domenica mi chiamava sempre, di andare ad aiutarlo a preparare i ponteggi, preparare i lavori per i muratori e armare le solette e lì mi ha mostrato la dimensione dei ferri che andavano per ogni…già allora ho imparato la dimensione, la resistenza del ferro per qualunque soletta io avessi fatto, qualunque altezza, e difatti ho fatto tutte queste solette, non una ha ceduto, mi sono trovato proprio… ho imparato da giovane, e così, oltre ad avere le tasche piene di soldi, che quei poveri diavoli che andavano in alpeggio dove volevano prendere i soldi, altro che pascolare qualche mucca, quel panetto di burro era mangiato tra tutti, poveri ragazzi, invece io lavorando mi sono trovato bene. B. Avevate qualcosa in tasca. F. Ah, sempre, in tasca qualcosa avevo sempre, devo dire com’è. La paga mi faceva…e poi sono andato avanti…rimasto lì un anno e mezzo fino a che le scuole era- — 42 — A U G U S T A Alpeggio di Boalma Lundja, vallone di Bourinnes. vür qualunque dalle das hetti gmachut, qualunque hüeji, an dem difatti hen gmachut tutte coste (piem.) dalle (fr.), nöit eina het gséddurut, hennimi gvunne franh…hen gleernit va junhs, un sua oltre das henni kheen noch volli d’boudŝchi solda, das déi uppugun töivla das sén kannhen z’alpu woa hentsch wélljen gian d’solda, anner dé hüten as poar chü, das ballji anghe ischt gsinh kessenz inner ellji, d’uppugun boffi, invece ich ab weerhu hennimi gvunne wol. B. Hedder khee etwas in d’boudŝchu. F. Ah, génh, in d’boudŝchu etwas henni génh kheebe, mussi see wi z’ischt. Dan zalmuss hets mer gmachut…un zu binni kannhe vürsich, blljibben doa as joar un halbs unz das d’schuli sén gsinh glljéivrutu zu ich un méin pappa séwer kannhe weerhun ouf ter z’Augschtalann, a Pollein un a Sarre un hen génh gmachut ketschi ouf doa bieri, séwer kannhe vürsich unz das darnoa ischt askoppiurut da chrig, en ’40 das hentsch… B. Hedder mussun loan doa. F. Mussun loan doa un goa, un klaupe, ischt gsinh sua…un voilà… no finite, poi io e mio papà siamo andati a lavorare su per la Valle d’Aosta, a Pollein e a Sarre e abbiamo sempre fatto case su per lì, siamo andati avanti fino a che è scoppiata la guerra, nel ’40 che hanno… B. Avete dovuto lasciare lì. F. Dovuto lasciare lì e andare, e obbedire, era così…e voilà… B. E allora come attrezzi cosa avevate, la pala… F. La pala e il piccone e il filo a piombo e la cazzuola e… B. La carriola per portare le pietre… F. Una carriola per portare le pietre… B. Quella era da portare in due? F. Da portare in due, sì, in due e per andare su per le andature, quello che era in piano c’era la carriola con una ruota, però le ruote non erano come adesso, erano tutte di legno e con la copertura di ferro, erano di quelle che sono fatte…le carriole, le ruote erano tutte di legno, le abbiamo sempre…sovente dovevamo metterle a mollo nell’acqua la sera cosicché la mattina…se no il legno oscillava tutto, eh, era…allora c’era la miseria, la miseria che… — 43 — A U G U S T A B. Un dé wi trüeli was hedder kheen, d’schouvlu… F. D’schouvlu un z’pickunh un da séngjil un da mourlöffil un doa… B. Da steinbeeru… F. Steinbeeru, a steinbeeru… B. Den ischt gsinh den z’troan inner zwei? F. Z’troan inner zwei, jia, inner zwei un vür goan ouf ter le andadure, was ischt gsinh in d’eebini ischt gsinh d’stuasbeeru mit a rowu, però d’rowi sén nöit gsinh wi nunh, sén gsinh allu mit holz un mit la copertura éise, sén gsinh deeru das sén gmachutu…d’beeri, d’rowi sén gsinh allu mit holz, hewudŝchu génh…suven mussu lécken milden im wasser dan oabe vür das da muarge…süscht z’holz het allz kleckut, eh, ischt gsinh…du ischt gsinh de misère, de misère das… B. Ja, ja, hedder mussun lugun zu dan trüelu. F. Oh, mussun lugun zu un resputurun allz un… B. Süscht hetteder nöit muan goan vürsich. F. Un resputurun déi das hentsch nündŝch kee weerch antweegen solda ischt nöit gsinh un weerch ischt nöit gsinh, ischt nuan gsinh de miserie héi, ouf ol ab, was willt ich bin…zu Justin bin ich z’oaltschta im lann, uber as poar moanada compio i novant’anni an dem… B. 2010, jia. F. 2010…mah…un voilà, darnoa dar uppig pappa ischt kannhen vürsich génh z’weerhu hibbiri un ich hen mussun goan im chrig un voilà…ischt kannhen wol das hewer muan arwinne. B. Un dé awen pappa ischt kannhen vürsich einigi? F. Jia, ischt kannhen vürsich, hewer noch khee héi gséllji van Éischeme das hen gweerhut zseeme, antweegen darnoa hentsch gweerhut in ürriu rechtnunh, ischt nöit gsinh unner an angréiffer, hentsch gweerhut in ürriu rechtnunh ab gian ketschi z’machu; hentsch gchauft dŝchiendri le materiel, un d’robbu das ischt kannhen un…dŝch’heji noch gwunnen schia solda, ja, ischt noch kannhe wol, antweegen ouf ter z’Augschtalann ischt gsinh lljöit das hen noch khee solda, antweegen hentsch ellji gweerhut, ischt gsinh la Cogne das het kee béllében weerch un chaqui grandŝchu hentsch kheen vüefze, zwénzg chü, an dem eis mit dam andre, wissischt la resa ischt noch gsinh guti, ischt an dem das dŝchi hen mua geen weerch deene das hen nöit kheebe wi par exemple, wir hibbiri, was willt, ischt nöit gsinh weerch… B. Ja, ja, wénn ischt nöit weerch eis mat nöit… F. Eh, ischt lljütschil z’see... B. Un d’steina hedder kiat héi z’Éischeme ol… F. Dambor? B. Na, vür machun… F. Ah héi, jia, héi ouf, héi ouf in d’almini, z’undruscht d’almini hewer khee l’autorisé van la Commune, mit dam schlitte… B. Ouf tur d’guvveri, là. B. Sì, sì, dovevate aver cura degli attrezzi. F. Oh, aver cura e rispettare tutto e… B. Altrimenti non avreste potuto andare avanti. F. E rispettare quelli che ci davano lavoro perché soldi non ce n’erano e lavoro non ce n’era, c’erano solo delle miserie qui, più o meno, cosa vuoi io sono…dopo Justin sono il più anziano in paese, tra qualche mese compio i novant’anni quindi… B. 2010, sì. F. 2010…mah…e voilà, dopo il povero papà è andato avanti sempre a lavorare per qui e io ho dovuto andare in guerra e voilà…è andata bene che siamo potuti ritornare. B. E allora vostro papà è andato avanti da solo? F. Sì, è andato avanti, avevamo ancora amici di Issime che lavoravano assieme, perché dopo hanno lavorato per loro conto, non erano sotto un impresario, hanno lavorato per loro conto prendendo delle case da costruire; compravano loro il materiale, e la roba che andava…hanno ancora guadagnato bei soldi, sì, è andata ancora bene, perché su per la Valle d’Aosta c’era gente che aveva i soldi, perché lavoravano tutti, c’era la Cogne che dava molto lavoro e ogni cascina aveva quindici, venti mucche, quindi uno con l’altro, sai la resa era ancora buona, è per quello che potevano dare lavoro a quelli che non ne avevano come per esempio, noi qui, cosa vuoi, non c’era lavoro… B. Sì, sì, se non c’è lavoro uno non può… F. Eh, c’è poco da dire… B. E le pietre le prendevate qui a Issime o… F. Su? B. No, per fare… F. Ah qui, sì, qui su, qui su nei beni comunali, in cima ai beni comunali, avevamo l’autorizzazione del Comune, con la slitta… B. Su per le pietraie, via. F. Sì, su per le pietraie, avevamo la slitta d’inverno, portato giù le pietre, portato giù mucchi di pietre e poi… B. Sì, dovevate fare un mucchio per avere… F. Un mucchio per avere la scorta quando era la bella stagione, perché d’inverno non si lavorano calcina e malta perché gela, quello va tutto a ramengo, devi… B. E allora d’inverno non lavoravate. F. Ah, in inverno no, lavoravamo quando c’era poca neve, ci procuravamo il materiale, ci procuravamo il legname, le pietre, mucchi di sabbia, perché la sabbia la prendevamo nel Lys e dopo quando arrivava la primavera cominciavamo… B. Perché allora nevicava ancora parecchio. F. Oh sì, sì, nevicava ancora parecchio, nevicava ancora…ancora parecchio, cosa vuoi, quando c’era tanta neve rimanevamo a casa e voilà, mah, eh, ce ne sarebbero da raccontare per mesi…eh, mio Dio… B. Allora le lose andavate anche a comprarle? — 44 — A U G U S T A F. Ja, ouf tur d’guvveri, hewer kheen da schlitte da winter, gvürt ingier d’steina, gvürt ingier houfi steina un té zu… B. Ja, hedder mussun machun a houfe um heen… F. A houfe um heen la scorta wénn ischt gsinh d’gutu seisunh, antweegen da winter muss nöit weerhun büttinh un vloaschter antweegen is gvrirt, das doa ischt allz a maloura, mussischt… B. Un dé da winter hedder nöit gweerhut. F. Ah da winter na, hewer gweerhut wénn ischt gsinh lljütschil schnia, hewünündŝch prokururut zu le materiel, prokururut zu z’holz, d’steina, houfi sann, antweegen z’sann hewer kiet in d’Lljéisu un darnoa wénn dar ischt arrivurut d’oustaga hewer gvoan a… B. Antweegen du hets noch gschnout bellébén. F. Oh ja, ja, hets noch gschnout bellébén, hets noch gschnout…noch bellébén, was willt, wénn ischt gsinh d’gruassu schnia séwer blljibben in d’ketschi un voilà, mah, eh, wérturu z’zéllje vür moanada…eh, mon Dieu… B. Un dé d’blatti sédder kannhen chaufe auch? F. Jia, d’blatti hewer gchauft. B. Heddudŝchu nöit… F. Jia, jia, ischt gsinh a la station zam Steg, hets antloaden d’blatti, le train hets antloaden d’blatti un doa ischt gsinh eis das het dŝchu gchauft is un té zu hets dŝchu widervarchauft, certo das is muss heen dŝchéis prufit, eh, was willt… B. Dŝchacki, süscht…süscht ischt nümmi weerhu. F. Is het nöit muan weerhun um nöit…wa là, ischt noch gsinh un préi das mu het muan heen dar, via… ischt gsinh allz più o meno équalisé…ischt nuan das cul poc das ischt gsinh ischt nöit gsinh weerch, ischt nöit gsinh weerch… B. Un z’holz, sédder kannhen trommun d’bauma ir? F. Na, na. B. Ischt allz gsinh… F. Van la segheria, invece das van das tach doa hewer trommut dür im Krecht ouf in z’ündŝcha, hewer trommut as zwénzgi bauma, autorisé van la Forestal, un zu hewudŝchu gvürt alla segheria vür dŝchu raffiler… B. Un dŝchu loan dérre… F. Na, na, vür z’tach nöit manhal dŝchu loan dérre, na, vür z’tach hescht muan lécken ouf auch grünz, jia, vür z’tach jia… B. Hen gwisst das z’holz hetti manhal z’dérre vür… F. Ja, vür d’sollara un…dé mussts sinh dorr, dé geit amanka amanka dröi joar. B. Un vür d’ermerini un allz… F. Allz, allz, mussischt heen la stagionatura, amanka amanka dröi joar süscht, ah na na; invece vür z’tach… B. Ischt nöit manhal. F. Hescht muan tachu anche grünz, ischt génh kannhe wol. B. Un wi witt, was ischt wi holz? Ésch? Stadel con porte gemelle a Blatti (sec. XVI), Vallone di San Grato. F. Sì, le lose le compravamo. B. Non le facevate… F. Sì, sì, era alla stazione di Ponte, scaricava le lose, il treno scaricava le lose e lì c’era uno che le comperava e poi le rivendeva, certo che doveva avere il suo profitto, eh, cosa vuoi… B. Certo, altrimenti…altrimenti non è più lavorare. F. Non poteva lavorare per niente…ma là, era ancora un prezzo abbordabile, via…era tutto più o meno uguale…è solo che quel poco che c’era non c’era lavoro, non c’era lavoro… B. E il legname, andavate voi a tagliare gli alberi? F. No, no. B. Era tutto… F. Della segheria, invece quello di quel tetto lì l’abbiamo tagliato di là a Krecht sul nostro, abbiamo tagliato una ventina di alberi, autorizzati dalla Forestale, e poi li abbiamo portati alla segheria per squadrarli… B. E lasciarli seccare… F. No, no, per il tetto non c’è bisogno di lasciarli seccare, no, per il tetto potevi metterlo su anche verde, sì, per il tetto sì… B. Sapevo che il legname avrebbe bisogno di seccare per… F. Sì, per i pavimenti e…allora deve essere stagionato, — 45 — A U G U S T A Villaggio di Blatti, Vallone di San Grato, zona dei mayen. F. Eh, liarch, liarch, krat nöit tannu, liarch antweegen da liarch ischt ruati, ischt résistanh invece di tannu voulit tell. B. Voulit tell… F. Ah jia, di tannu…liarch. B. Dé héi auch ischt liarch. F. Allz liarch, héi un d’ketschu ouf doa, allz liarch, jia, jia. B. Un té zu ischt gsinh a witt das hentsch broucht vür soassu, meroakul, wa bsinnimi nümmi… F. Ah jia ischt gsinh érllju. B. Ah, érllju, antweegen hettis nöit sua tell gvoulit im wasser. F. Ecco d’érllju, wénn ischt gsinh in éttlljig üerter das d’soass ischt nöit gsinh vill a post hentsch gstuasst i stükh érllju, billjini érllju un té khéit z’büttinh doa drouf, dŝchi hen génh gseit das d’érllju heji nöit apatturut sua, wiss nöit wi z’séggi, un pürra vür vöiru varvoats poc, ischt koarjit das…érllju, un vür z’tach ischt da liarch un éttlljig tanni machun di türrini, wa interne… B. Nöit ousna. allora ci vanno almeno almeno tre anni. B. E per gli armadi e tutto… F. Tutto, tutto, devi avere la stagionatura, almeno almeno tre anni altrimenti, ah no no; invece per il tetto… B. Non c’è bisogno. F. Potevi fare il tetto anche verde, andava sempre bene. B. E come legna, cos’è come legno? Frassino? F. Eh, larice, larice, giusto non abete, larice perché il larice è rosso, è resistente invece l’abete marcisce facilmente. B. Marcisce facilmente… F. Ah sì, l’abete…larice. B. Allora anche qui è larice. F. Tutto larice, qui e la casa su lì, tutto larice, sì, sì. B. E poi c’era un legno che usavano per fare le fondamenta, pare, ma non mi ricordo più… F. Ah sì, era ontano. B. Ah, ontano, perché non marcisce così facilmente nell’acqua. F. Ecco l’ontano, se era in certi posti dove le fondamenta non erano bene a posto spingevano dentro pezzi di ontano, tronchetti di ontano e poi buttavano la calcina — 46 — A U G U S T A F. Na, nöit esterno, antweegen di tannu ischt nöit vür l’esterno. B. Ja, wérti wi d’balkunhi… F. Ecco, allz liarch, allz liarch, jia. B. Ischt etwa mia résistanh… F. Mia résistanh, jia, allz liarch… B. Un wénnu, hedder nji gwénnut? F. Ich gwénnut na, na, hewer gwénnut dan piellje wa gwénnut méin bruder, héi ouf hewer gwénnut allz, jia. B. Ja, doa geit a holzmeischter. F. Ja, a holzmeischter…hewer gchauft le perline, un zu hewudŝchu gloan dérre un té hentsch gwénnut dŝchiendri, ischt gcheen as schianz weerch… B. Un dé bélla machun z’bschlacht, allz ir? F. Jia, jia, van ousna… B. Van ousna un van inna. F. Na, van inna henni kheen un trabucant, héi, van inna, un van ousna henni gvoan a van z’uabruscht z’undruscht, hen gmachut allz ich, allz bschloagen ich un héi inna hewer kheen un trabucant, eis van Uberlann, jia, zu d’piannili auch hen kheen un pianellista, hen ru gstéllt ich auch piannili eh, jia, eh mon Dieu! B. Hedder nöit gvrücht z’leerne. F. Na, na, ich hen gleernit più o meno as söiri alltsch, zu, was willt, hen kheen z’weerch, woa ni hen gweerhut hen gleernit auch l’elettricista un in central hescht génh gleernit etwas, gli impiant in d’ketschi doa ambri un in vill üerter hen dŝchi gmachut ich, par exemple héi unna, héi unna hen gmachut l’impiant…dunque ischt goade, hous un garage un gmeine, gmachut allz l’impiant, ischt sechzg joar, hen nöit kheen z’töischun un interrutur, muss dŝchi seen wi z’ischt; wa du hentsch gmachut d’robbu gutur, béssur dé nunh. B. Béssur dé nunh, nunh ischt gmachiti un nöit werre. F. Ecco, um nöit werre, das dŝch’mieji varchaufe, vür areje solda, ischt sua. Ich méchteder zeihu…sechzg joar lebtag héi unna…nöit töischut un interrutur; töischut a lampju, certo… B. Ben, a lampju d’ackuart… F. Wa l’impiant ischt a post…na, na, vür das… B. Ja, ischt auch z’materiel das ischt béssur. F. Jia, z’materiel ischt gsinh béssur, hentsch gweerhut mia a post. B. Bélla di tachi das hentsch gmachut a voart werre mia dén déi das dŝch’machun nunh. F. Dŝchi werre mia, mon Dieu, ja, ja…déi das machuntsch höit zam tag, dŝchi werre nöit sua lanh. Héi z’Éischeme, wi houfara, in déi zéiti, séwer gsinh a peu près as dréisgi, ja, ja, dréisg, nunh ischt khémentsch mé, ischt krat Fréddi, Silvio… B. Silvio ouf doa, ja, d’boffi… F. Eh, un dŝchéin boffi…Fréddi ischt auch oalts, wi binni ich, ischt nümmi z’zéllje, oramai ündŝche lebtag ischt passrut, was willt… lì sopra, hanno sempre detto che l’ontano non patisse così, non so come sia, eppure per far fuoco vale poco, è vero che…ontano, e per il tetto c’è il larice e qualche abete per fare le porte, ma interne… B. Non fuori. F. No, non esterno, perché l’abete non è per l’esterno. B. Sì, sarebbero le persiane… F. Ecco, tutto larice, tutto larice, sì. B. Forse è più resistente… F. Più resistente, sì, tutto larice… B. E foderare, non avete mai foderato? F. Io foderato no, no, abbiamo foderato il soggiorno ma ha foderato mio fratello, qui su abbiamo foderato tutto, sì. B. Sì, lì ci va un falegname. F. Sì, un falegname…abbiamo comperato le perline, e poi le abbiamo lasciate stagionare e poi hanno foderato loro, è venuto un bel lavoro… B. E allora anche fare l’intonaco, tutto lei? F. Sì, sì, da fuori… B. Da fuori e da dentro. F. No, da dentro avevo un decoratore, qui, da dentro, e da fuori ho cominciato da cima a fondo, ho fatto tutto io, tutto intonacato io e qui dentro avevamo un decoratore, uno di Gaby, sì, poi le piastrelle anche un piastrellista , ne ho messe giù anch’io di piastrelle eh, sì, eh mio Dio! B. Non avevate paura di imparare. F. No, no, io ho imparato più o meno un po’ di tutto, poi, cosa vuoi, avevo il lavoro, dove ho lavorato ho imparato anche l’elettricista e in centrale imparavi sempre qualcosa, gli impianti nelle case giù lì e in tanti posti li ho fatti io, per esempio qui sotto, qui sotto ho fatto l’impianto…dunque c’è stalla, cucina e garage e bagno, fatto tutto l’impianto, sono sessant’anni, non ho dovuto cambiare un interruttore, bisogna dire com’è; ma allora facevano roba migliore, meglio di adesso. B. Meglio di adesso, adesso è fatta per non durare. F. Ecco, per non durare, che possano vendere, per prendere soldi, è così. Io potrei mostrarti…sessant’anni di vita qui sotto…non ho cambiato un interruttore; cambiato le lampadine, certo… B. Beh, una lampadina d’accordo… F. Ma l’impianto è a posto…no, no, per quello… B. Sì, è anche il materiale che è migliore. F. Sì, il materiale era migliore, lavoravano meglio. B. Anche i tetti che facevano una volta durano di più di quelli che fanno adesso. F. Durano di più, mio Dio, sì, sì…quelli che fanno oggigiorno non durano così a lungo. Qui a Issime, come muratori, in quei tempi, eravamo più o meno una trentina, sì, sì, trenta, adesso non c’è più nessuno, c’è giusto Fréddi, Silvio… B. Silvio su lì, sì, i ragazzi… — 47 — A U G U S T A B. Sén nöit endri, ischt koarjit. F. Na, na, sén ellji tuat…ja, ja, as dréisgi, séwer gsinh as dréisgi houfara, eh jia, mah… B. A schupputu sédder gsinh. F. Jia, a schupputu, jia… A. Ischt gsinh Léisi auch, no? Léisi auch, un Vinduala… F. Eh sì. B. Un déi hen nöit khee sü das hen gleernit, na. F. Nöit khee sü. B. Ja, an bitz wénn d’junhu leerne nöit ischt inütil… F. Das ischt wi déi van höit zam tag, ischt khémentsch das het gleernit as handweerch, héi hewer kheen a schmid, hewer kheen…holzmeischter ischt gsinh Ileeri, ischt gsinh Tregsch, ischt gsinh déi das hen grüscht d’schu, Dummene… B. D’schumachera? F. D’schumachera, Dummini, hentsch kheen dröi, vir weermanna, hentsch grüscht d’schu un gweerhut ellji doa sua, hewer kheen a schmid das ischt gsinh Stoffelti, hewer kheen…wa wi(n) ich ter see, a schupputu lljöit das hen gleernit as handweerch, nunh khémentsch mé, nunh ischt khémentsch, khémentsch mé, ischt krat Silvio das het zeihut z’handweerch dŝchéine süne süscht ischt allz varluarenz, eh sì, wiss nöit wi der see, ischt kannhe sua, par bonheur noa dam chrig da lebtag ischt töischut, ischt gcheen as söiri il benessere un mu het gweerhut, noch kannhe wol. F. Eh, e i suoi ragazzi…Fréddi è anche anziano, come sono io, non è più da contare, oramai la nostra vita è passata, cosa vuoi… B. Non ce ne sono altri, è vero. F. No, no, sono tutti morti…sì, sì, una trentina, eravamo una trentina di muratori, eh sì, mah… B. Eravate tanti. F. Sì, tanti, sì… A. C’era Léisi anche, no? Léisi anche, e Vinduala… F. Eh sì. B. E quelli non avevano figli che hanno imparato, no. F. Non avevano figli. B. Sì, se i giovani non imparano è inutile… F. Quello è come quelli di oggigiorno, non c’è nessuno che abbia imparato un mestiere, qui avevamo un fabbro, avevamo…falegname c’era Ileeri, c’era Tregsch, c’erano quelli che aggiustavano le scarpe, Dummene… B. I calzolai? F. I calzolai, Dummini, avevano tre, quattro operai, aggiustavano le scarpe e lavoravano tutti lì, avevamo un fabbro che era Stoffelti, avevamo…ma come ti dico, tanta gente che ha imparato un mestiere, adesso nessuno più, adesso non c’è nessuno, nessuno più, c’è giusto Silvio che ha insegnato il mestiere ai suoi figli se no è tutto perduto, eh sì, non so come dirti, è andata così, per fortuna dopo la guerra la vita è cambiata, è venuto un po’ il benessere e si lavorava, è ancora andata bene. Ronco Alfredo (*1931) un Ronco Barbara (*1974) Fornaz, Éischeme le 24 mérze 2010 B. Dé van woa viewer a? A. Seeg dou. B. Van woa d’willt. Machun steina ol goan in d’Lljéisu gien z’sann… A. Ja, ja, un machun z’holz un… B. Ben, seeg nuan, ol… A. Antweegen déi weerhji doa machun d’steina ol z’holz, das doa hentsch gmachut allz darvür, d’steina un z’holz un z’sann. B. Sua hescht der ghannut z’materiel. A. Jia, das doa vill hentsch toan da winter wénn ischt nöit gsinh z’vill schnia, nöit z’vill vroscht, zu d’oustaga hentsch dén griffen z’mouru. B. Dé séntsch kannhen trommun d’bauma? A. Jia, tur d’woalda trommun d’bauma un scheiden vür machun…d’gruassu holzer, soagun vür machun d’loadi. B. Génh allz zar hann? A. Allz zar hann. B. Was ischt gsinh z’trussunh? B. Allora da dove cominciamo? A. Dì tu. B. Da dove vuoi. Fare pietre o andare nel Lys a prendere la sabbia… A. Sì, sì, e fare il legname e… B. Ben, dì pure, o… A. Perché quei lavori lì, fare le pietre o il legname, quello facevano tutto prima, le pietre e il legname e la sabbia. B. Così ti preparavi il materiale. A. Sì, quello sovente lo facevano in inverno se non c’era troppa neve, non troppo freddo poi in primavera cominciavano a fare i muri. B. Allora andavano a tagliare gli alberi? A. Sì, per i boschi a tagliare gli alberi e sceglierli per fare…i grossi tronchi, segarli per fare le assi. B. Sempre tutto a mano? A. Tutto a mano. B. Cosa c’era, il segone? A. Il segone, la sega, l’ascia. Dove cominciamo, dalle — 48 — A U G U S T A A. Z’trussunh, d’soagu, z’bil. Woa viewer a, van d’steina ol was… B. Jia, jia, van d’steina. A. Hescht aschuan amprénnt, jia? B. Jia, jia. A. D’steina séntsch kannhen süjen in as guvver, woa wérti sinh steina as söiri hübschu. B. Hescht muan goan tur d’almini ol ouf dabbiri? A. Tur d’almini hentsch mussun goan vriege…süscht villuru sén kannhen dabbiri in ürriun guvveri machun d’steina, déju as söiri lljickur hentsch dŝchu aschuan kiet sua, d’andru hentsch broche, déju das hescht muan brechen mit dam schléggil süscht hentsch gmachut d’lucher mit dam sissjil, un té d’wécka, dŝchu trommut… B. Doa ischt auch gsinh allz zar hann? A. Allz zar hann, zu da winter hentsch dŝchu brunnhen zu mit da schlittu… B. Dé mit dam schlitte hescht mussun heen da schnia? A. Ah jia. B. Süscht hescht nöit muan zoanu. A. Na, dŝch’hen dŝchu ghannut un té dŝchu brunnhen zu mit dam schlitte, mussun heen da schnia, hentsch dŝchu gscheiden ous, d’hübschtu vür d’koari… pietre o cosa… B. Sì, sì, dalle pietre. A. Hai già acceso, sì? B. Sì, sì. A. Le pietre andavano a cercarle in una pietraia, dove c’erano pietre un po’ belle. B. Potevi andare nei beni comunali o su per lì? A. Nei beni comunali dovevano andare a chiedere… altrimenti tanti andavano nelle loro pietraie a fare le pietre, quelle un po’ più piccole le prendevano già così, le altre le rompevano, quelle che potevano rompere con la mazza a cuneo, altrimenti facevano i buchi con lo scalpello, e poi i cunei, le tagliavano… B. Lì era anche tutto a mano? A. Tutto a mano, poi in inverno le trasportavano con la slitta… B. Allora con la slitta dovevi avere la neve? A. Ah sì. B. Altrimenti non potevi trascinarla. A. No, le preparavano e poi le trasportavano con la slitta, dovevi avere la neve, le sceglievano, le più belle per gli angoli… B. E se no le lavoravi un po’ tu per farle… A. Ah sì, un po’ le lavoravi già nelle pietraie, un po’… B. Sì, il più grosso. Alpeggio di Vlüeckji (Vallone di San Grato). — 49 — A U G U S T A Alepggio di Kredemì (vallone di Tourrison). B. Un süscht hescht dŝchu as söiri gweerhut dou vür dŝchu machun… A. Ah jia, as söiri hescht dŝchu aschuan gweerhut in d’guvveri, as söiri… B. Jia, z’grobschta. A. Zu as söiri hen dŝchu gweerhut d’houfara, im guvver hentsch aschuan…déju franh leid hentsch gloan doa, hentsch nuan kiet déju…franh d’leidschtu hentsch gloa, noch kannhe süjen guvveri das wérti… antweegen ellji d’guvveri sén nöit gut, d’steina as söiri hübschu… B. A voart Eligio het gschwétzt van le pere bleuve, le rosse…basta… A. Ja, ja, d’béschtu sén d’wéissu, in d’guvveri héi ambri ischt vill deeru wéissu. B. Sén etwa etwas mildur… A. Jia, etwas mildur un té werrentsch mia un té zu mogoara…eini sén kannhen machun d’steina, eini sén mogoara kannhen in d’Lljéisu wénn z’nöit ischt gsinh gvruaren machun z’sann un té hen dŝchis allz brunnhen zu mit dam chuarb… A. Poi un po’ le lavoravano i muratori, nella pietraia avevano già…quelle proprio brutte le lasciavano lì, prendevano solo quelle…proprio le più brutte le lasciavano lì, ancora andare a cercare pietraie che fossero…perché tutte le pietraie non sono buone, le pietre un po’ belle… B. Una volta Eligio ha parlato delle pietre blu, le rosse…basta… A. Sì, sì, le migliori sono le bianche, nelle pietraie qui giù ce ne sono tante di quelle bianche. B. Forse sono più morbide… A. Sì, più morbide e poi durano di più e poi magari… alcuni andavano a fare le pietre, altri andavano magari nel Lys se non era gelato a fare la sabbia e poi trasportavano tutto con la gerla… B. Tu cosa avevi, il setaccio? A. Il setaccio, un setaccio verticale, scelta, setacciata. B. La setacciavano nel Lys la sabbia? A. Ah sì, nel Lys. B. La trasportavano era già tutta… A. Già scelta la sabbia, tutta trasportata con la gerla, su e giù per il Lys… — 50 — A U G U S T A B. Dou was hescht kheen, z’sib? A. Z’sib, as stotzenz, dŝchu gscheiden ous, gsibbut. B. Hen dŝchis gscheiden dür in d’Lljéisu z’sann? A. Ah jia, in d’Lljéisu. B. Hentsch brunnhen zu ischt gsinh aschuan allz… A. Aschuan gscheidenz z’sann, allz brunnhen zu mit dam chuarb, ouf un ab tur d’Lljéisu… B. Un hentsch nöit kheen stuassbeeri noch… A. Mah d’stuassbeeri…vill vörti in d’Lljéisu hentsch njanka muan goa. B. Ischt etwa gsinh tellur mit dam chuarb. A. Amanka ous van in d’Lljéisu hen dŝchis mussun troan mit dam chuarb, z’merteil, un té zu ischt gsinh mogoara ein das ischt kannhen ouf tur d’woalda, kannhen trommun d’bauma; d’hübschtu…hentsch gscheiden ous zwie schie vür z’tach… B. D’vist? A. D’vist un ellji d’endri. B. Den loascht a peu près ganzi, den baum. A. Jia, jia, hentsch gscheiden ous déju as söiri hübschu, lénnhu, zu villuru hentsch trommut un gsoagut, gmachut d’loadi, loadi vür machun… B. D’loadi allz zar hann auch? A. Allz zar hann, loadi un troali vür machun da housunh, un doa d’spitza, d’spitza hentsch gmachut allz d’roavi, d’spitza un d’lljickun baumjini, baumjini das hentsch nöit muan soagu, antweegen vill a voart hentsch gmachut roavi das hen kiet allz z’tach, ganzi baumjini. B. Ja, süscht hettischt sollu dŝchunturu ol… A. Jia, vill…a voart hentsch gmachut allz an einege stukh… B. Ischt gsinh tellur… A. Hübschur, stoarhur, ischt gsinh allz…allu déi baumjini, hentsch gscheiden tur d’woalda, oh, dŝch’hen gweerhut! B. Doa was hentsch trommut, tanni? A. Liarcha z’merteil, z’merteil liarcha, wol auch tanni wa z’merteil liarcha, da liarch ischt…wert mia… B. Geit béssur um tachun. A. Wert mia, un té zu gmachut allu d’loadi un di troali, zu d’loadi mussun dérre vir joar un muan weerhu… B. Wa Fortini het mer gseit das hettischt nöit sollun loan dérre z’holz vür z’tach… A. Vür z’tach na, mogoara, wa déi vür weerhun, d’loadi, d’loadi allz…mussun dérre vir joar, vür z’tach na, süscht hettidŝchi ardriet un…wa tanto ardrieie tuts dŝchi darnoa, ischt dén krat glljéich; z’holz hentsch ghannut da winter, mogoara, zu z’tach hentsch dén gmachut grech da summer ol d’hérbscht… B. Ja, ja, ischt nöit gsinh gseits das… A. Dŝch’hen dén auch toan wi dŝch’hen mua antweege du ischt gsinh allz zar hann, neh… B. Ischt kannhen zéit. A. Oh mon Dieu, mon Dieu… B. E non avevano carriole e… A. Mah le carriole…tante volte nel Lys non potevano neanche andare. B. Forse era più facile con la gerla. A. Almeno fuori dal Lys la dovevano portare con la gerla, in genere, e poi c’era magari uno che andava su per i boschi, andava a tagliare gli alberi; i più belli…ne sceglievano due belli per il tetto… B. La trave maestra? A. La trave maestra e tutte le altre. B. Quello lo lasci più o meno intero, quell’albero. A. Sì, sì, sceglievano quelli un po’ più belli, lunghi, poi tanti li tagliavano e segavano, facevano le assi, le assi per fare… B. Le assi anche tutte a mano? A. Tutte a mano, assi e travi per fare la casa, e le punte, con le punte facevano tutti i travicelli, le punte e gli alberelli, alberelli che non potevano segare, perché una volta facevano tanti travicelli che prendevano tutto il tetto, interi alberelli. B. Sì, se no dovevi giuntare o… A. Sì, tanti…una volta facevano tutto un unico pezzo… B. Era più comodo… A. Più bello, più resistente, era tutto…tutti quegli alberelli gli sceglievano per i boschi, oh, hanno lavorato! B. Lì cosa tagliavano, abeti? A. Larici in genere, in genere larici, anche abeti ma in genere larici, il larice è…dura più a lungo… B. Va meglio per fare i tetti. A. Dura di più, e poi fatte tutte le assi e le travi, poi le assi devono stagionare quattro anni per poter lavorare… B. Ma Fortini mi ha detto che non dovevi lasciare stagionare il legname per il tetto… A. Per il tetto no, magari, ma quelle per lavorare, le assi, le assi tutte…dovevano stagionare quattro anni, per il tetto no, altrimenti si torce e…ma tanto si torce poi in seguito, è poi lo stesso; il legname lo preparavano in inverno, magari, poi il tetto lo facevano forse in estate o in autunno… B. Sì, sì, non era detto che… A. Facevano poi anche come potevano perché allora era tutto a mano, neh… B. Ci andava tempo. A. Oh mio Dio, mio Dio… B. Tu anche sei andato a tagliare gli alberi? A. Sì, sì, euh, il cortile di là, qualcosa siamo andati a tagliare a Tschentschiri, passati vicino al lago. B. Sì, allora i muratori facevano un po’ di tutto, via! A. In inverno quando non costruivano…quando non potevano costruire, facevano un po’ di tutto, preparavano le pietre, preparavano il legname e…poi c’erano anche quelli…proprio i segantini, in genere nei boschi andavano i segantini, tagliavano gli alberi… — 51 — A U G U S T A Alpeggio di Vlu (vallone di San Grato). B. Dou bischt auch kannhe trommun d’bauma? A. Jia, jia, euh, da hof héi dür, an bitz séwer kannhen trommun in Tschentschiri, passrut dar tur da sia. B. Ja, dé d’houfara hen toan as söiri alltsch, via! A. Da winter wénn dŝch’hen nöit ghoufurut…wénn dŝch’hen nöit muan houfuru, hentsch toan as söiri alltsch, ghannut d’steina, ghannut z’holz un…zu ischt auch gsinh déi…franh d’soagara, z’merteil tur d’woalda sén kannhen d’soagara, trommut d’bauma… B. Ja, d’soagara hen nuan trommut d’bauma. A. Trommut un gsoagut un…dŝch’hen mogoara auch gmachut d’houfara wa z’merteil…das doa ischt gsinh endri, a schupputu, amanka dröi ol… B. Ja, ja, sén kannhen as poar süscht wértintsch nöit kannhe vürsich. A. Na, dŝch’hetti nöit muan weerhu. B. Jia antweegen bélla z’trussunh hen mussun sinh inner zwei. A. Génh zwei un soagun un machun loadi zwei ol auch dröi. B. Sì, i segantini tagliavano solo gli alberi. A. Tagliavano e segavano e…facevano forse anche i muratori ma in genere… quelli erano altri, tanti, almeno tre o… B. Sì, sì, ce ne andava qualcuno altrimenti non sarebbero andati avanti. A. No, non avrebbero potuto lavorare. B. Sì perché anche il segone era da usare in due. A. Sempre due per segare e fare le assi, due o anche tre. B. Anche due o tre. A. Tante volte erano anche tre, uno sopra e due sotto, facevano il cavalletto… quello lo vedi ancora qualche volta, i vecchi mestieri, eh adesso quello… mio Dio, una volta… B. Allora quando era tutto pronto cominciavate a costruire? A. In primavera cominciavano a scavare, tutto a mano… B. Con il piccone? A. Il piccone, la pala, la carriola… B. Poi facevi un buco quadrato? A. Un buco quadrato fino a che bastava, guardare anche il posto poi, in genere, la casa guardavano anche, quando potevano, un po’ rialzata e piuttosto lontano dalle acque e dai canaloni, un po’ rialzato se potevano, e poi una volta le case le costruivano anche assieme, in genere, per non rovinare i prati. B. I prati erano preziosi. A. Una volta le case le costruivano tutte assieme, avevano tutte lo stesso cortile, vedi dappertutto… B. Sì, sono le frazioni…tutte assieme. A. Invece adesso ce n’è una qui e una lì invece allora no per non rovinare i prati, il cortile era per tutti lo stesso, non rovinare prati perché allora… B. Ce n’era bisogno dei prati. Allora lì nel buco cosa buttavi, cemento? A. No, no, allora neanche, una volta, in genere… B. No, per fare le fondamenta? A. No, facevano così le fondamenta, non mettevano… una volta non c’era… B. Allora cosa mettevi? A. Pietre, pietre e malta, lì sovente avevano la calce, la facevano affiorare… B. Allora la calce… A. La calce era in blocchi, blocchi… B. Compravano i blocchi, li mettevano a mollo. — 52 — A U G U S T A B. Auch zwei ol dröi. A. Vill sén unza gsinh dröi, eis drouf un zwei drunner, hentsch gmachut da sattal…das doa gsischt wol wéilu voart noch, i vecchi mestieri, eh nunh das doa…mon Dieu, a voart… B. Dé wénn ischt gsinh allz zweg hedder gvoan a z’houfuru? A. D’oustaga hentsch dé gvoan a z’groabe, allz zar hann… B. Mit dam pickunh? A. Z’pickunh, d’schouvlu, d’stuassbeeru… B. Zu hescht gmachut as karruts luch? A. As karruts luch unz das hentsch kheen gnug, lugun auch d’wéiti té zu, z’merteil, z’hous hentsch auch glugut, wénn dŝch’hen mua, as söiri burts un as söiri wéit van d’wasseri un d’schluchtini, as söiri burts wénn dŝch’hen mua, un té a voart d’housanha hentsch auch gmachut zseeme, z’merteil, um nöit gschénte matti. B. D’matti sén gsinh roatschugu. A. A voart d’housanha hentsch dŝchu gmachut allu zseeme, zu hentsch kheen ellji da selbe hof, gsischt phieri… B. Jia, ischt d’kantunhi…allu zseeme. A. Invece nunh ischt eis héi eis doa invece du na um nöit gschénte matti, da hof hentsch kheen ellji da selbe, nöit gschénte matti antweege du… B. Ischt dŝchi gsinh manhal matti. Un dé doa im luch was hescht khéit, simmanh? A. Na, na, du njanka, a voart, z’merteil… B. Na, um machun le fondamenta? A. Na, dŝch’hen gsoassut sua, dŝchi hen nöit gleit…a voart ischt nöit gsinh… B. Dé was hescht gleit? A. Steina, steina un vloaschter, doa vill hentsch kheen da chalch, hentsch nen gleit afiururu… B. Dé da chalch… A. Da chalch ischt gsinh zockla, zockla… B. Hentsch gchauft zockla, hentsch dŝchi gleit milde. A. Gleit milden im wasser. B. Un té dan tag drouf ischt gsinh wi… A. Té zu hentsch tribbe, dan tag drouf hentsch tribbe mit dam sann, dan tag drouf ol…s’het mussun milden as poar stünni, là, da chalch ischt gsinh zockla. B. Nunh vinneschne mogoara aschuan zweg… A. Nunh ja, wa ben…wa nunh…a voart di zockla ischt nuan gmildit was da ischt gsinh guts invece nunh ischter gmoalni, ischt allz guts; a voart, lécken milden, ischt gsinh stükh z’khéjen awek, nunh den gmoalni z’khéjen awek ischt khés dinh un… B. Dé hescht kheen etwa béssur… A. Ah jia, béssur… B. Antweegen was da ischt nöit gschmolze hescht gleit z’séitu, hescht khéit awek. A. Das doa hescht khéit awek, das het gsotten doa, ah ischt gcheen as dinh wi… A. Li mettevano a mollo nell’acqua. B. Poi il giorno dopo era come… A. Poi mescolavano, il giorno dopo mescolavano con la sabbia, il giorno dopo o…doveva ammollare qualche ora, là, la calce era in blocchi. B. Adesso la trovi magari già pronta… A. Adesso sì, ma ben…ma adesso…una volta dei blocchi ammollava solo quello che era buono invece adesso è macinato, è tutto buono; una volta, mettendo a mollo, c’erano pezzi da buttare via, adesso che è macinato da buttare via non c’è niente… B. Allora forse era meglio… A. Ah sì, meglio… B. Perché quello che non scioglieva lo mettevi da parte, lo buttavi via. A. Quello lo buttavi via, quello cuoceva lì, ah diventava una cosa come… B. E la malta? A. La malta la mescolavi anche a mano, noi avevamo una cosa quasi come un sarchio, la marra, era quasi come un sarchio, per mescolare. B. E quello…cosa mettevi lì dentro? A. Calce e sabbia. B. Niente altro… A. No, allora il cemento non c’era, calce e sabbia. B. Quindi mettevi una pietra e, con la cazzuola, stendevi un po’ di malta. A. Sì…poi mescolavano e per portarla su la prendevano sulle spalle, c’erano due assicelle così e due bastoni, la portavano sulle spalle, vuagal lo chiamavano, lo portavano su i ragazzi, dove c’era la casa facevano un lungo ponteggio tutto intorno alla casa, andava tutto su…allora non c’era niente, si portava tutto sulle spalle, eh, le pietre le portavano su con la carriola, due con la carriola, un lungo ponteggio, faceva…andava su, girava intorno alla casa fino a che bastava. B. Sì, andavi di seguito e arrivavi… A. Cominciavi dal basso e quando la casa era piccola magari mettevi un pezzo, altrimenti facevi il giro o magari anche oltre, da dove potevano prendere lungo… B. Dovevano un po’…e avevate il filo a piombo per vedere che il muro fosse più o meno… A. Sì, il filo a piombo, la squadra e la mazzetta e la mazza a cuneo… B. Tutto per fare i muri? A. Per fare i muri. B. Per vedere la dirittura. A. Sì, e la mazzetta e la mazza a cuneo per lavorare le pietre, adesso hanno pietre già tutte lavorate… B. Adesso è troppo facile. A. Sì, sì, neanche più bello! No, non è più bello come… B. No, no, non hai più il piacere. A. Sì, e poi anche il lavoro non è più come… B. No, ma si vede perché le case sono un po’ così, — 53 — A U G U S T A B. Un da vloaschter? A. Da vloaschter hescht auch tribben zar hann, wir hen kheen as dinh wi a roabjir villje, z’moddunh, ischt gsinh villje wi a roabjir, um tréibe. B. Un den…was hescht gleit doa dri? A. Chalch un sann. B. Un nöit anner… A. Na, du z’simmanh ischt nöit gsinh, chalch un sann. B. Dé hescht gleit a stein un, mit da mourlöffil, hescht gleit as söiri vloaschter. A. Jia…zu hentsch tribbe un um troan ouf hentsch kiet vom rück, sén gsinh zwei loadjini sua un té zwia schnetza, hentsch troan ouf vom rück, da vuagal hentsch mu gseit, troan ouf d’boffi, woa da housunh hentsch gmachut a lénhe steg allz um un um d’housunh, allz kannhen ouf…du ischt nöit gsinh khés dinh, allz troan ouf vom rück, eh, d’steina hentsch troan ouf mit da steinbeeru, zwei mit da steinbeeru, a lénhe steg, het gmachut…kannhen ouf, gchiert um da housunh unz das ischt gsinh gnug. B. Ja, bischt kannhen zu un zu un bischt arrivurut… A. Hescht gvoan a z’undruscht un té wénn da housunh ischt gsinh lljicki hescht gleit mogoara a stukh, süscht mogoara gmachut dan tor ol mogoara unza bundanh, van woa dŝch’hen muan gian lénh… quelle che fanno adesso. A. Ha un’altra faccia fatto…euh sì…erano magari due muratori e due ragazzi, uno faceva la malta e uno la portava su… B. Il boccia? A. Sì. B. Allora per fare una porta lasci un metro o… A. Sì, neanche, quasi qualcosa in meno…a seconda di come la volessero larga, novanta, un metro. B. Avevi il progetto da seguire? A. Ah sì, i geometri ci sono sempre stati…qualcosa, ah sì, ci davano sempre…allora era più facile di adesso, non ci andavano tante carte, adesso… B. Anche quello…adesso è un disastro. A. Un disastro, adesso è un disastro. B. E per fare sopra la porta cosa avevi, una pietra, una grossa pietra lunga o… A. L’architrave o a volte…in alcuni posti mettevano… in tanti posti mettevano il legno dentro e la pietra fuori, c’era una lunga pietra fuori, come qui a Pioani sono tutte pietre fuori, una volta era…sì, dentro mettevano il legno e fuori la pietra. B. Poi arrivavi all’altezza a cui dovevi arrivare e cominciavi a mettere giù le travi per fare il tetto? A. Sì, il tetto, e il più difficile, una volta, erano le lose, Interno di una abitazione, il piellje (soggiorno). — 54 — A U G U S T A B. Hentsch dŝchi mussun as söiri…un té hedder kheen da sénhgjil um lugun a peu près das d’mouru wérti… A. Jia, da sénhgjil, dan koare un an bickhjil un da schléggil… B. Allz um machun d’mouri? A. Um machun d’mouri. B. Um lugun as söiri d’schlechti. A. Ja, un dan bickhjil un da schléggil um weerhun d’steina, nunh hentsch steina aschuan allu gweerhutu… B. Nunh ischt z’vill tellz, gauch. A. Jia, jia, njanka mé hübs! Na, ischt nümmi hübsch wi… B. Na, na, hescht nümmi le plaisir. A. Ja, un té zu anche z’weerch ischt nümmi wi… B. Na, wa mu gsit antweegen d’ketschi sén as söiri sua doa, déju das machuntsch nunh. A. Is het an andre minnu gmachuts…euh sì…sén mogoara gsinh zwia houfara un zwian boffi, eis het gmachut da vloaschter un ein het nen troan ouf… B. Il bocia? A. Jia. B. Dé vür machun an tür loascht a meischter ol eis… A. Ja, njanka, villjen aswas minnur…selon wi dŝch’wéllji breiti, nöinzg, a meischter. B. Hescht kheen z’prodŝchet z’süivuru? A. Ah jia, les geomètres sén génh gsinh…etwas, ah jia, dŝchi hennündŝch génh kee…du ischt gsinh tellur dé nunh, ischt nöit kannhe sövvil pappara, nunh… B. Das auch…nunh ischt a wildi. A. A wildi, nunh ischt a wildi. B. Un vür machun z’uabruscht di tür was hescht kheen, a stein, an gruasse stein lénnhur ol… A. An bdéckhjer ol wéilu voart…in éttlljigi üerter hentsch gleit…in vill üerter hentsch gleit z’holz van inna un da stein van ousna, ischt gsinh a lénnhe stein van ousna, wi héi ouf in d’Pioani ischt allz steina van ousna, a voart ischt gsinh…jia, van inna hentsch gleit as holz un van ousna a stein. B. Zu bischt arrivurut unz in d’hüeji woa di hescht kheen z’arrivuru un hescht gvoan a z’lécken di troali um machun z’tach? A. Jia, z’tach, un z’tschebschta, a voart, ischt gsinh d’blatti, z’tschebschta. B. D’blatti hedder auch mussun… A. D’blatti séntsch kannhe süjen dabbiri. B. Dabbiri…ter d’guvveri? A. Tur d’guvveri, steina as söiri gspoaltnu, un té zu ischt nöit gsinh villuru das sén gsinh guti z’machun blatti, d’blatti ischt gsinh z’tschebschtun dinh das ischt gsinh. B. Ah, sédder nöit kannhe chaufe… A. Du ischt nöit gsinh blatti z’chaufe, etwas z’Uberlann, hentsch etwa varchauft blatti süscht… il più difficile. B. Le lose dovevate anche… A. Le lose andavano a cercarle per lì. B. Per lì…nelle pietraie? A. Nelle pietraie, pietre un po’ spaccate, e poi non erano in molti a saper fare le lose, le lose erano la cosa più difficile che c’era. B. Ah, non andavate a comperarle…. A. Allora non c’erano lose da comperare, qualcosa a Gaby, forse vendevano lose ma altrimenti… B. Non c’erano. A. Non c’erano…le lose andavano a cercarle nelle pietraie, pietre che si spaccavano facilmente e poi erano solo alcuni a saper fare le lose, piano piano con lo scalpello, andavano avanti, poi le aprivano e le lavoravano con lo scalpello…il peggio erano le lose, il peggio… B. Poi dopo fai il camino? A. Il camino lo facevano mano a mano, su su… B. Sì, voglio dire, non metti le lose prima… A. Cosa? B. Fai il camino, il camino lo fai subito e poi dopo metti le lose. A. Sì, le lose dopo, sì, sì, si fa il camino e dopo si posano le lose, una volta che hai posato la travatura si fa il camino, poi quando sistemavano la travatura era una grande festa, quando mettevano su la trave maestra. B. Ah sì. A. Era una festa, quando mettevano su la trave maestra era… B. Allora il proprietario pagava da bere. A. Da bere e da mangiare e la cena, era una festa mettere su la trave maestra perché era… B. Vedevi il lavoro finito. A. Finito no ma a buon punto, là! Ah, poi il legname grosso, tutto il piccolo, i travicelli e le lose e tutto…poi venivano quelli che fanno il tetto. B. Allora quelli che fanno il tetto mettono solo le lose? A. Solo le lose, quelli che fanno il tetto sono solo alcuni; a fare le lose e metterle sul tetto erano solo alcuni, in genere i muratori non erano capaci di fare le lose, alcuni, ma se no fare le lose era difficile… B. Sì, ma non tutti. A. No, no, fare le lose era difficile, non c’erano le pietre, adesso vengono da… B. Dalla Norvegia… A. Norvegia o India o…Allora era più facile perché non c’erano tante carte… B. Quello sì, lì hai ragione. A. Se no c’è da tribolare anche, allora era facile… B. Sì, ma c’era da tribolare sul lavoro, sì, non andare per uffici e i bolli, carte e documenti… A. No, no, anche a mettere su la travatura c’era sempre tanta gente…E poi, in seguito, cominciavano pian piano dentro… B. Intonacare… — 55 — A U G U S T A Abitazione in muratura affiancata ad uno stadel del XVI sec., villaggio di Benecade. B. Ischt nöit gsinh. A. Ischt nöit gsinh…d’blatti séntsch kannhe süjen tur d’guvveri, steina das hen as söiri gspoalten tell un té zu sén nuan gsinh éttlljigi das sén gsinh guti z’machun blatti, allz lljéis lljéis mit dam sissjil, kannhen zu, zu artoan un beckschut mit dam sissjil…z’wuschta ischt gsinh d’blatti z’wuschta… B. Un té darnoa machischt z’chömmi? A. Z’chömmi hentsch gleit ouf a si, ouf ouf… B. Ja, will see, léckischt nöit darvür d’blatti… A. Was? B. Machischt z’chömmi, z’chömmi machischt sibit un té darnoa léckischt d’blatti. A. Jia, darnoa d’blatti, jia, jia, mach dŝchi z’chömmi un té darnoa leit dŝchi d’blatti, a voart das hescht toan d’holzer mach dŝchi z’chömmi, zu wénn dŝch’hen gmachut d’holzer ischt gsinh an gruasse virtag, wénn dŝch’hen gleit ouf d’vist. B. Ah jia. A. Ischt gsinh a virtag, wénn dŝch’hen gleit ouf d’vist ischt gsinh… B. Dé dar meischter het zallt z’tringhje. A. Z’tringhje un z’esse un z’nechtmuss, ischt gsinh a virtag lécken ouf d’vist antweegen ischt gsinh… B. Hescht gsian z’weerch glljéivruts. A. Glljéivruts na wa wol dra, là! Ah, zu d’gruassu holzer, ellji d’lljicku, d’lljickun troali (roavi) un d’blatti un allz…zu sén dén gcheen di tachara. B. Dé di tachara lécken nuan d’blatti? A. Nuan d’blatti, tachara ischt auch nuan éttlljigi; machun blatti un tachun sén nuan gsinh éttlljigi, z’merteil d’houfara sén nöit gsinh guti z’machun blatti, éttlljigi, wa süscht machun blatti ischt gsinh tscheb… B. Ja, wa nöit ellji. A. Na, na, machun d’blatti ischt gsinh tscheb, ischt nöit gsinh d’steina, nunh cheentsch van… B. Van la Norvegia… A. Norvegia ol India ol…Du ischt gsinh tellur das ischt nöit gsinh vill pappara… B. Das jia, doa hescht recht. A. Süscht ischt z’tribuluru auch, du ischt gsinh tellz… A. Tutto intonacare e fare i pavimenti e piazzare le porte e finestre. B. Lì c’era il falegname. A. Il falegname li costruiva e i muratori li piazzavano, sì, in genere le travi le mettevano già man mano che salivano, se le avevano…adesso anche portare su tutto sul tetto, prendere le lose a spalle e portarle sul tetto e perfino lose pesanti… B. Una alla volta. A. Ah sì, e perfino lose pesanti, adesso vanno su come… B. Adesso hanno la gru. A. Neanche, adesso hanno…come chiamano quei… B. Quegli elevatori, quei carrelli… A. Quei grossi, come quello che c’è di là a Gran Proa dei pompieri. B. Quelle autogru, non so… A. Non so più come si chiama, quelli che alzano su… — 56 — A U G U S T A Particolare della foto precedente. Parti lignee che delimitano il loggiato, riparato dalle falde molto sporgenti del tetto, sul fianco di uno stadel (stalla, granaio e fienile), nel villaggio di Benecade. B. Ja, wa ischt gsinh z’tribuluru vom weerch, ja, nöit goan in t’i uffici un bolli, pappara un documenti… A. Na, na, bélla lécken ouf d’holzer ischt génh gsinh an troppe lljöit auch…Un té zu darnoa hentsch dén gvoan a lljéis lljéis van inna… B. Bschloage… A. Allz bschloan un té machun d’sollara un lécken ouf di türri un fenschtri. B. Doa ischt gsinh dar holzmeischter. A. Dar holzmeischter het gmachut un té d’houfara hen gleit ouf, jia, z’merteil di troali hentsch aschuan gleit a si das sén kannhen ouf, wénn dŝch’hen dŝchi khee…nunh bella troan ouf allz vom tach, gien d’blatti vom rück un troan ouf vom tach un unza schwier blatti… B. Eina zar voart. A. Ah dŝchacki, un unza schwier blatti, nunh goantsch ouf wi… B. Nunh hentsch la gru. A. Njanka, nunh hentsch…wi seentsch déi… B. Cugli elevatori, cui carrelli… A. Déi gruassu, wi das das ischt dür doa in Gran Proa van i pompiers. B. Culle autogru, wiss nöit… A. Wiss nümmi wi z’heissi, déi das bürren ouf… B. Ben dé d’noami van di trüeli ouf ol ab hewer gseit ellji. A. Ja, trüeli hentsch nöit kheen sövvil dinnhi, du d’houfara hen kheen a sénhgjil, a soagu, z’tésti un da schléggil un dan bickhjil. B. Z’tésti? Was wérti das? A. Ja, z’tésti, auch eis um trommun d’steina. B. Ja, etwas wi da schléggil. A. Da schléggil, du hentsch kheen ellji dan bickhjil. B. Un groabe? A. Um groabe d’schouvlu, pickunh un schouvlu. B. Da mourlöffil… A. Da mourlöffil, jia, das… B. Doa, woa hescht khéit dri…wa ischt etwa njanka gsinh…déi karrutun dinnhi woa khéjischt dri büttinh ol vloaschter… A. Na, na, ischt nöit gsinh du, allz tribben zar hann, du hentsch khee…ischt gsinh villje wi a hawu, as gruass…z’moddunh um tréibe. B. Dé séwer etwa a post. B. Bene, allora i nomi degli attrezzi più o meno li abbiamo detti tutti. A. Sì, di attrezzi non avevano tante cose, allora i muratori avevano un filo a piombo, una sega, la mazzetta e la mazza a cuneo e un’altra mazzetta. B. Il tésti? Cosa sarebbe? A. Sì, il tésti, anche uno per tagliare le pietre. B. Sì, qualcosa come la mazza a cuneo. A. La mazza a cuneo, allora avevano tutti la mazzetta. B. E scavare? A. Per scavare la pala, piccone e pala. B. La cazzuola… A. La cazzuola, sì, quella… B. Lì, dove buttavi dentro…ma forse non c’era neanche…quei cosi quadrati dove metti calcina o malta… A. No, no, non c’era allora, mescolavamo tutto a mano, allora avevano…era quasi come una zappa, un grosso…la marra per mescolare. B. Allora siamo a posto. — 57 — A U G U S T A La cerealicoltura sul versante meridionale del Monte Rosa in età tardo-medievale Roberto Fantoni La principale attività attualmente praticata nelle comunità alpine nel settore agro-pastorale è l’allevamento. Le fonti documentarie attestano invece l’importanza nel passato, anche in insediamenti fondati a quote elevate, della cerealicoltura. Questo lavoro esamina la sua diffusione nelle comunità insediate in età tardo-medievale sul versante meridionale del Monte Rosa. I l progetto di colonizzazione tardo-medievale del versante meridionale del Monte Rosa, attuato tra il Duecento e il Quattrocento, è chiaramente espresso negli atti di fondazione dei nuovi insediamenti. Nel 1270 il capitolo di S. Giulio d’Orta concedeva a titolo enfiteutico a coloni walser l’alpe Rimella affinché vi potessero costruire case e mulini e impiantare prati e campi (Fornaseri, 1958, d. CXIII). Un’espressione simile era utilizzata nel 1420 dai testimoni al processo informativo sulle alpi del vescovo di Novara in alta Valsesia, che asserivano che su queste alpi trasformate in insediamenti permanenti i coloni creavano casamenta et haedificia ac prata et campos (Fantoni e Fantoni, 1995, d. 13). Attorno al nucleo abitato, costituito da case che accorpavano le funzioni civili e rurali, gli atti notarili del Quattrocento e Cinquecento presentano un uso del territorio caratterizzato da orti, campi, limidi, gerbidi, prati, meali, pasquate, trasari e pascoli, che denunciano chiaramente la vocazione agricola e pastorale della comunità. Negli inventari cinquecenteschi gli utensili per la lavorazione dei campi figurano a fianco di quelli per l’allevamento e la fienagione: in un elenco di beni della famiglia Viotti di Rima del 1563 sono significativamente citati in sequenza una sappa e una ranza (Fantoni, 2007a). I cereali sul versante meridionale del Monte Rosa La distribuzione altitudinale dei cereali coltivati in età tardomedievale è ricostruibile attraverso l’ampia documentazione disponibile per la Valsesia, costituita dai contratti di affitto con canoni in natura, dalle decime stabilite al momento della fondazione delle parrocchie e dalle forme consuetudinarie (originate a partire dalla fondazione degli insediamenti) riportate nelle disposizioni testamentarie e nelle norme delle Congregazioni di carità. La segale, caratterizzata da una germinazione rapida anche alle basse temperature e da un breve ciclo vegetativo, era indubbiamente la specie più diffusa (anche alle alte quote, ove rimase persistente nel tempo). Ma era presente in maniera diffusa anche l’orzo, che, sebbene meno resistente al freddo della segale, cresceva anche dove il frumento non si adattava bene. Non mancavano inoltre cereali tipicamente medievali, come il miglio e il panico. Solo in alcune località della bassa valle era presente anche il frumento. A Crevola (445 m), in un elenco di fitti in natura del 3 maggio 1323, compaiono quartatolas biave1, medietas sicalis et alia medietas panici (Mor, 1933, c. LXXVIII). Sempre a Crevola, tra le diposizioni testamentarie del 1322 di Alaxia compare un legato per la distribuzione annuale di un sestario di segale alla Carità di S. Spirito (Mor, 1933, c. LXXVI). In un contratto d’affitto del 1563 per un campo nel territorio di Isola di Vocca (521 m) compaiono 24 starie di grano, 8 di segale, 9 di miglio e 7 di panico (Fantoni, 2001, pp. 73). In un documento del 1327 Arienta di Boccioleto (656 m) istituisce un legato di una mina di segale ed una mina di panico nella misura della Curia superiore che i suoi eredi sono tenuti a pagare ogni anno alla Confraternita di S. Spirito (Fantoni e Fantoni, 1995, d. 1b). L’ampia gamma di cereali coltivati nei campi delle località più basse e solatie dell’alta valle è fornita dall’elenco delle decime che il prete Zali riscuoteva nel 1617 nel territorio di Rossa2, costituite da 15 some di segale, 13 some di panico, … 2 staia di formento, 2 staia di arbelie et orzo (Fantoni e Cucciola, 1998, p. 230). In una “memoria” allegata agli Atti di visita del 1594 risulta che la Carità detta ellemosina del pane di S.to Spirito distribuiva nel giorno dell’Annunciazione a Scopello (679 m) staro uno di novarese staro uno miglio, mina una miglio, mina una panicho per un totale di sachi vinti in cira misura novaresa (ASDN, AVi, v. 24, f. 17r). Carità di S. Spirito che distribuivano grani sono documentate negli stessi Atti di visita anche a Piode (f. 30r), Campertogno (f. 56r) e Riva (f. 74r). Nelle comunità dell’alta valle la produzione era molto meno differenziata. Il Bescapé, per la Confraternita di S. Spirito di Campertogno (796 m), scriveva che 100 confratelli devono ciascuno uno staio di segale che serve per fare pane da distribuire ai poveri forestieri e del paese (Molino, 2006, p. 121). termine con cui in ambito pedemontano si indicavano in modo generico tutti i tipi di cereali, ma in particolar modo quelli primaverili o una mistura composta da segale, miglio e panìco (Nada Patrone, 1981, p. 63). 2 Costituito da insediamenti sparsi, esposti prevalentemente a sud, distribuiti tra 585 e 1059 metri. 1 — 58 — A U G U S T A L’allevamento Nel testamento del 1516 di Antonia vedova di Giacomo di Spinfoglio di Rassa (923 m) compare la distribuzione ai poveri della valle di Rassa di 15 sestari di segale “confectos in pane” (Briciole …, pp. 259-260) In un documento del 1345, che costituisce la più antica attestazione di cereali in Valsesia, compare a Piè d’Alzarella (frazione di Riva. 1229 m) un appezzamento di terra colta et seminata cum sicali (Mor, 1933, d. XCI, pp. 222). In un documento del 1523 un appezzamento di terra a prato e campo nella stessa comunità è gravato dell’onere perpetuo di “starium unum sichali” da consegnare alla Carità di S. Spirito (Briciole …, p. 185). A Rimella3 una disposizione ricorrente nei testamenti riguardava la distribuzione di staia di segale in forma di pane. Nel testamento rogato il 16 dicembre 1481 Antonio fu Giovanni Jogli de Scarampogl si dispone la distribuzione di otto staia di sale e quaranta staia di segale da confezionare in pane da distribuire in tutto il territorio di Rimella; per le anime delle sue consorti il testatore destina ai Rimellesi altre otto staia di sale e sessanta staia di segale. La stessa forma è replicata nel testamento del 7 febbraio 1547 di Biagio fu Giovanni Maria Traglio, che dispone per l’anima sua e di sua moglie, la distribuzione di 40 staia di segale in forma di pane per l’intero territorio rimellese (Vasina, 2004, pp. 96-97). Ogni famiglia doveva inoltre alla Confraternita di Santo Spirito alcune staia di grani, poi detto “grano dei morti”. In un elenco del 3 4 13 maggio 1616, da pagarsi ogni anno a memoria de viventi, compaiono tutti i contribuenti, che versano quantità di segale variabili tra 0,5 e 7 coppi di segale, per un totale di circa 250 litri di grani (Dellarole e Papale, 2004, p. 254; Tonella Regis, 2004, p. 172). A Rimella è inoltre documentato il toponimo campum avene (Dellarole e Papale, 2004, p. 255). A Rima4, negli atti notarili del Cinquecento, viene ripetutamente citato l’appezzamento di terra intus campos de avena (o campos avene; Fantoni, 2006, p. 73). La persistenza toponomastica esprime bene il limite ecologico del territorio di Rima. L’avena, oltre ad adattarsi bene ai climi freddi come cereale a semina estiva, può essere facilmente coltivata nei terreni recentemente roncati, in quanto non necessita zappature profonde. Nonostante l’avena sia uno dei cereali più nutrienti, sicuramente quello con potere calorico più elevato, il suo scarso rendimento in farina ne limitava l’uso prevalentemente all’alimentazione animale e nell’alimentazione umana veniva generalmente impiegata in grani. Ma anche a Rima, come nel resto della valle, era coltivata la segale. Nel 1612 il Bescapè (ed. 1878, p. 156) scriveva che “di notte cade la neve che danneggia i grani di segale non ancora maturata, e scarsi ivi sono questi grani”. Ma la coltivazione di cereali nelle valli adiacenti a quelle del Sesia raggiunse anche quote superiori. In un documento del 2 febbraio 1476, i curatori e del custode della chiesa di S. Maria di Macugnaga reclamano il mancato Con insediamenti sparsi con diversa esposizione, distribuiti tra 969 e 1420 metri. Insediamento accentrato ubicato a 1404 metri. — 59 — A U G U S T A Le scorte cerealicole e i mulini Le scorte cerealicole denunciate negli inventari cinquecenteschi sono costituite quasi esclusivamente dai cereali di cui è documentata la crescita sul luogo. In alta valle sono citate riserve generiche di grani e riserve di segale (ad esempio 30 staia di segale, contenute in un’”arca di legno”, ad Oro in val Vogna nel 1548; Briciole, pp. 227-228). In un altro inventario del 1671 della val Vogna sono esplicitamente citate stara 5 biada trovata nei campi (Papale, 1988, p. 14). A Rimella, in un inventario di beni di Giovanni Braga del 1606, compaiono contemporaneamente scorte di grani, farine e pane: staia 15 di segala, 3 di miglio, 6 di pane e 4 di farina di meliga (Pizzetta, 2004, p. 241). Poiché le farine si alterano molto più rapidamente dei cereali in granella, la trasformazione veniva effettuata costantemente nell’arco dell’anno in numerosi mulini sparsi su tutto il territorio. Questi edifici compaiono già come parte integrante degli atti di fondazione dei nuovi insediamenti colonici. A Rimella, nel 1256, compariva già uno ius molendini (Fornaseri, 1958, d. C). Nella concessione enfiteutica del 1270 era chiaramente indicato il diritto di “costruire case e mulini, impiantare prati e campi” (Fornaseri, 1958, d. CXIII); tra le decime figurava la blava. Il contratto univa quindi in modo esemplare il bene (campi), il suo prodotto (blava) e il suo strumento di trasformazione in alimento (mulino)5. La sappa e la ranza (da De Marchi, 2006) pagamento da circa 23 anni dell’elemosina a favore dei poveri di staria duo sichalis cocti in pane stabilito con legato di Giovanni fu Tomaso Yuineler (Rizzi, 2004, p. 104; 2006, p. 131; Bertamini, 2005, v. 1, p. 545; v. 2, pp. 37-38). A Macugnaga, secondo quanto riportava una relazione di Joachim de Annono del 1553 si riusciva a coltivare solo un seminerio, cioè di segale, o di miglio, o di panico (Bianchetti, 1878). Nella visita pastorale del 1582 viene annotata la presenza di una elemosina denominata Spenda, che viene convertita in pane e formaggio da distribuire ai poveri della parrocchia e ammonta a 24 emine (circa 390 litri) di segale e 10 libbre (circa 50 kg) di formaggio (Bertamini, 2005, v. 1, p. 545). La coltivazione dei cereali arrivava nella vicina valle di Gressoney sino all’insediamento di Tschaval (1823 m), ove è attestata da un documento del 1440 relativo al pagamento di un canone d’affitto in natura costituito da orzo (Rizzi, 1992, p. 58); il documento censisce i beni colonici che Antonio figlio di Yoglin Vuelchin gode per conto dei Vallaise; tra questi compare un appezzamento di terra a campo nel luogo di Forey, che si stimava potesse produrre 3 quaternari di orzo ogni anno nella misura grossa (Rizzi, 2004, p. 168). In Valtournenche, a Singlin, è attestata la coltivazione di orzo (1385), siliginis (1377, 1385) e avena (1376, 1385) (Tognan e Liviero, 2003, pp. 133-134). I forni e la panificazione La panificazione veniva effettuata nei forni frazionali, ampiamente citati nei documenti tardomedievali6. Numerosi forni sono ancora presenti in val Vogna e in val d’Otro7. A fianco dei forni dislocati in edifici appositamente attrezzati erano presenti forni ubicati in locali appositamente destinati nel piano seminterrato di costruzioni polifunzionali (Ca Vescovo, Bellosta e Bellosta, 1988, p. 97). I forni per la panificazione richiedevano un notevole dispendio di combustibile per portarsi in temperatura. Per questo motivo la panificazione veniva concentrata in un numero limitato di occasioni e veniva praticata collettivamente. A Macugnaga la panificazione era tradizionalmente praticata nel periodo prenatalizio. Il delegato governativo Gioacchino de Annone il 26 maggio 1553 annotava con meraviglia di aver visto ancora del pane di segale duro come un sasso, cotto a Natale, come mi hanno giurato ed anco provato. Questo uso era confermato ancora alla fine del Settecento dall’abate Amoretti (1794), che riferisce che a Macugnaga nel sol dì di Santa Caterina (25 novembre) si fa pane per tutto l’anno (Bertamini, 2005, v. 1, p. 477; Rizzi, 2006, p. 136). Era invece praticata in modo molto più costante nel tempo la produzione di un altro impasto cotto di cerali: le miacce. Sulla distribuzione dei mulini nelle valli Egua e Sermenza nel periodo immediatamente seguente alla colonizzazione si rimanda a Fantoni (2001). Per un dettaglio sul territorio di Rima si rimanda a Fantoni (2006). In letteratura sono inoltre disponibili i censimenti degli edifici esistenti sino a tempi relativamente recenti di alcune località valsesiane (Molino, 1985, per Campertogno; Fantoni, 2001, per la val Cavaione). Nell’ambito del progetto ecomuseale dell’alta Valsesia sono stati recentemente ristrutturati due mulini a Mollia e Alagna. 6 Un forno era già citato in un documento del 1308 a Isolello (pezza di terra aput furnum, Mor, 1933, c. LXVIII). 7 In val Vogna sono tuttora conservati a Vogna di sotto, Ca di Janzo, Oro, Ca Morca, Sant’Antonio e Rabernardo (Bellosta e Bellosta, 1988, pp. 59, 71, 77, 89, 97, 103, 112). 5 — 60 — A U G U S T A Le miacce Le miacce sono probabilmente il prodotto alimentare più noto della Valsesia. Grazie alla loro facilità di preparazione e alla gran versatilità alimentare sono diventate le protagoniste di tutte le feste valsesiane8. Guide turistiche, letteratura locale e riviste specializzate propongono diverse ricette delle miacce valsesiane9. In un recente volume dedicato alla cucina valsesiana (AA. VV., 2001, p. 8) sono indicati come ingredienti farina bianca, latte intero, uova intere, panna, poca acqua e sale. Una composizione simile è indicata per Riva Valdobbia da Bello Lanzavecchia (s.d., p. 29). Ma la ricetta indicata da Molino (1985, p. 72; 2006, p. 67) in un volume dedicato al territorio di Campertogno prevede anche la presenza di farina gialla ed olio10. L’utilizzo di farina di granoturco era indicata anche in un articolo comparso sull’Almanacco Valsesiano del 1873 (ora anche in Di Vitto, 2004, pp. 187-188). Queste differenze indicano una diversificazione del prodotto nel tempo, che mantenne costante la ricetta ma modificò gli ingredienti in funzione della disponibilità locale. I diversi ingredienti sono mescolati in un apposito recipiente sino ad ottenere un impasto di media consistenza. La cottura avviene sul fuoco vivo mediante due piastre di ferro. Un cucchiaio dell’impasto viene versato al centro della piastra inferiore e allargato a tutta la superficie dalla pressione esercitata dalla chiusura della piastra superiore. Per esporre tutte le parti al fuoco la miaccia viene ruotata con una paletta piatta e i ferri vengono periodicamente capovolti. La farina di miglio L’ingrediente essenziale delle miacce è attualmente costituito da farina di frumento (o di mais). In Valsesia la crescita del frumento in età tardo-medievale era circoscritta a qualche campo della bassa valle e anche successivamente l’utilizzo di questa farina rimase limitato alla modeste quantità introdotte in valle dalla pianura novarese. L’introduzione della farina di granoturco, avvenne in epoca sicuramente successiva al Seicento, periodo in cui il granoturco iniziò ad essere coltivato anche in Italia settentrionale. L’ingrediente principale in passato doveva dunque essere costituito da altri cereali e la voce migliaccio, con cui viene comunemente identificato il prodotto nei documenti del Cinquecento, sembra indicare nella farina di miglio il costituente principale. Il miglio era ampiamente diffuso in tutta Europa durante il Medio Evo, e fu poi soppiantato dalla comparsa di cereali con maggior valore produttivo e qualitativo. Era impiegato in chicchi o in farina; nelle minestre era impiegato in semi interi (assieme al panico e all’orzo) e in semi “pestati” (assieme al panico). La sua farina, grazie alle ottime capacità di lievitazione, era ordinariamente impiegata sino al Seicento nella panificazione e nella produzione di dolci rustici, che ricordano nel nome (migliaccio, pan de mej) l’ingrediente principale. Un dolce prodotto in Lombardia, indicato dialettalmente come miascia, era già descritto da Martino da Como nel suo Libro de Arte Coquinaria redatto a metà Quattrocento. Nonostante le elevate esigenze termiche (che richiedono un minimo termico di 10-12°C per la germinazione e di 17-18°C per la fioritura e la maturazione) il miglio era coltivato anche in alta Valsesia per la brevità del ciclo vegetativo, che si compie in condizioni ottimali in un periodo di 60-80 giorni. Con farina di miglio erano probabilmente preparati sino al Settecento anche numerosi piatti “tradizionali” a base di farina di granoturco descritti nella letteratura locale11. Il suo impiego per la preparazione delle miacce non è attualmente documentato ma del suo utilizzo rimane una vaga memoria storica12. In un inventario di beni Antonio Verno di Vogna del 1674 compaiono 3 stare di farina per fare migliazzi (Papale, 1988, p. 14); in quello di Giuseppe Prato delle Piane, redatto nel 1769, è citata 1 mina di farina per far migliacci (Ragozza, 1983, p. 132)13. In entrambe i casi non è indicato il cereale d’origine. Ferrum ad facendum miliacia La diffusione delle miacce nell’alimentazione tradizionale valsesiana è confermata da numerose attestazioni documentarie. I ferri per la preparazione delle miacce compaiono infatti tra i pochi utensili presenti nelle case valsesiane in quasi tutti gli inventari di beni redatti dai notai valsesiani a partire dalla fine del Medio Evo14. Questo paragrafo costituisce un aggiornamento di testi precedentemente pubblicati su diverse riviste e libri (Fantoni, 2002, 2006, 2007b). Ad Alagna sono chiamati millentschu (Giordani, 1891; ed. 1974, p. 153). 10 Le miacce erano note anche nella valle del Lys, ove venivano preparate con gli stessi ingredienti e con le stesse modalità di cottura (Noro Desaymonet, 2000, p. 114), le miasse (milljantscha nel dialetto tedesco) sono ricordate ad Issime anche da Ronco e Musso (1998, pp. 120-121), che indicano come ingredienti farina di mais e farina di frumento. Una ricetta di miacioi, con farina di grano tostato, è tramandata per il Cusio da Nazarena S., delle scuole di Casale Corte Cerro (www. lagodorta.net/scheda.asp? contID0189). La cottura della pastella avviene sull’anvarola (attrezzo ricordato anche in Valsesia). A Quarna sono noti i mijecc, fatti con farina di mais e cotti su una pioda o su una piastra di ferro, di cui rimane memoria storica (Milan, 2002, p. 69; Cecchetti, 2002, p. 65); gli Autori ipotizzano che una volta fossero fatte con farina di miglio. 11 Per Campertogno si rimanda a Molino (1985, p. 71; 2006; per Rimella a Remogna (1993, 1994). Anche la polenta, attualmente associata quasi esclusivamente alla farina di granoturco era in origine preparata con farina di miglio. Una polenta … con farina di miglio era citata nel 1569 ad esempio da Agostino Gallo ne Le venti giornate dell’agricoltura e de piaceri della Villa. 12 Anche secondo Ragozza (1983, p. 134) le miacce si ottenevano tradizionalmente utilizzando la farina di miglio. 13 Nello stesso inventario sono citati anche 1 coppo di avena pista, 1 coppo di orzo pisto, 1 staro di orzo e mellio tutto insieme, 6 stara di farina di biada. La diversa consistenza (e il diverso valore) delle riserve cerealicole presenti in un nucleo familiare è deducibile da un altro inventario del 1751 in cui compaiono 121 staia di miglio (che valevano 242 lire) e solo 3 staia di farina di frumento (che valevano 10 lire e 10 soldi) (Ragozza, 1983, pp. 132-133). Some, staia e mine sono misure di capacità per aridi; 1 soma corrisponde a 9 staia; 1 staio a 2 mine. Uno staio equivale a 18,28 litri, che per granaglie corrisponde circa a 32 kg. 14 I ferri, nella tradizione popolare, avevano anche capacità divinatorie. Nelle sue note sui pregiudizi popolari in Valsesia l’abate Carestia (s.d., p. 17) scriveva che la posizione che assumevano i grani di diversi cereali durante la torrefazione il 1 gennaio indicava le loro variazioni di prezzo nel corso dell’anno: se venivano verso il cucinatore sarebbero diminuiti, se andavano in direzione opposta sarebbero aumentati. 8 9 — 61 — A U G U S T A Campi coltivati a fine Ottocento a Riva Ragozza (1983, p. 134) segnala, senza indicarne la fonte e il contesto, la citazione di un ferrum ad facienda miliacia in un inventario della fine del Quattrocento. Tonetti (1894) segnala un documento del 1544 in cui sono citati brandinalem unum cum ferro uno a migliatio et nevarolam unam ferri. Nel documento i ferri per la cottura delle miacce sono associati ad altri due utensili da focolare: la varola, che nel dialetto valsesiano identifica la paletta da fuoco a margini non ripiegati, e il brandinale, l’alare dove si appoggiava il ferro rovente (Tonetti, 1894, pp. 66, 317; Molino, 1985, p. 56). A partire dal Cinquecento le citazioni divengono frequenti. Nell’inventario dei beni degli eredi di Giovanni Francesco di Vogna, redatto nel 1548, sono citati “brandale unum cum ferris tribus a migliazio” (Briciole…, p. 227). Nell’inventario del 1591 riguardante i beni degli eredi d’Antonio Giadolli del Solivo di Fervento compaiono paria 2 ferri a miliazzi e ben nove brandali a miliazzi (Fantoni, 2002; 2006, pp. 75-77). Nel Settecento i ferri compaiono in quasi tutti gli inventari delle valli del Sesia. In questo periodo il valore di un servizio completo, costituito da ferri da miliazie con varola e brandinale, era indicato in 4 lire (Ragozza, 1983, pp. 129-130)15. I ferri attualmente più utilizzati, prodotti da artigiani locali, sono costituiti da due pesanti piastre circolari incernierate e sostenute da due lunghi manici. Ma gli utensili più antichi, ancora presenti in molte case valsesiane, erano costituiti da due piastre rettangolari, separate, che venivano appoggiate su un apposito supporto. I ferri da miacce e gli altri utensili citati negli inventari cinquecenteschi erano probabilmente realizzati nelle fucine documentate in alcune località valsesiane. I ferri censiti a Riva In val Grande un para ferri di migliazzo compare nell’inventario del 16 marzo 1717 dell’eredità di Marco Avondetti di Guaifola e nell’inventario dell’eredità di Giovanni Pietro Lancia dei Ronchi di Boccioleto, il 10 marzo 1794 sono elencati li ferri da miliazzo con suo brandinale e varola (Fantoni, 2002; 2006, pp. 75-77). I ferri da migliacci con loro palette di ferro e brandale sono presenti in tutti gli inventari settecenteschi di case di Scopello (Sasso, 2008). In val Vogna ferri da migliaccio col suo brandinale compaiono in un inventario del 1709 (Ragozza, 1983, p. 129). In val Sermenza, nell’inventario di Margherita Lancina di San Giuseppe del 10 maggio 1793 erano compresi una palletta per levare il migliazzo e li ferri da miliazzo con brandinale e varola; a Rima i ferri delle miacce compaiono negli inventari di Guglielmo appellato Job (metta de ferri del migliazzo, 1706) e di Anna Maria Bastucchi, vedova Axerio (una cattena da fuoco con li ferri dal migliazzo, brandinale e varola, 1752). In val Mastallone in data 26 luglio 1778, fra i beni di Maria Domenica Cengo di Rimella, troviamo un paja di ferri per i migliacci (Fantoni, 2002; 2006, pp. 75-77). L’attrezzo era presente anche nelle case dei parroci; nel 1737 compare tra i beni di don Antonio Ferraris ad Alagna (Ragozza, 1983, p. 132). 15 — 62 — A U G U S T A merciale, potrebbe essere ed Alagna provenivano proassunto ad emblema gastrobabilmente dalle officine che nomico della valle16. producevano ribebbe ed attrezzi in ferro a Mollia e Riva. Il declino della La produzione è documentata cerealicoltura a partire dal 1524, ma la preL’esaurimento delle possibilisenza di fucine in questo trattà d’espansione delle risorse to della valle doveva risalire agro-pastorali coincise con un almeno al secolo precedente, sensibile deterioramento dei quando è attestato il toponiparametri climatici che regomo Piana Fuseria (1433). I lavano le potenzialità di alleferri documentati nelle valli vamento e cerealicoltura, che Egua e Sermenza potevano subirono una forte contrazioinvece provenire da una fucine. Questo periodo di generana documentata a Boccioleto le deterioramento climatico, nel 1566 (Fantoni, 2001, p. 80; 2002; 2006, pp. 75-77). è caratterizzato da un cambio Cinquecento anni dopo la loro di regime demografico, deprima attestazione prosegue la terminato dall’inizio dell’emiproduzione di questi utensili, grazione stagionale (Fantoni, 2007, con bibliografia). Queche fortunatamente non sono ste trasformazioni incisero relegati a reperti museali. sulle modalità di gestione delNell’Ottocento le miacce le risorse e determinarono un erano descritte nelle pagine cambiamento nella produziodell’Almanacco Valsesiano, ne agraria e nelle forme di alierano citate nelle poesie diamentazione della popolazione lettali ed erano ricordate nella valsesiana (Papale, 2007, pp. corrispondenza degli emi21-25). granti. A Rima la millatsch era La riduzione dell’attività agricelebrata anche in una poesia cola provocò una drastica ridi Piaru Axerio (Mornese, 1995, p. 118). Negli stessi duzione della produzione alianni erano celebrate da un’almentare locale. Questa dimiLa panificazione ad Alagna a fine Ottocento tra poesia di Cesare Frigiolini nuzione fu compensata dalle (E ciò lu godi voiauti matacci, risorse economiche derivanti godi in gremma, i barguulli, i miacci). In una lettera del 26 dal lavoro esercitato fuori dalla valle, che permise l’acquisto agosto 1927 dalla Francia, Pietro Rimella scriveva alla soreldi prodotti alimentari importati dalla pianura lombarda e piela Marta ad Alagna che alcuni compaesani gli avevano “dato montese. I cereali prodotti dalla pianura assunsero un ruolo da mangiare migliuca fatti coi ferri di quegli stessi che tu hai fondamentale nell’alimentazione della popolazione valsesiache fanno la forma di fiori con tanti quadrettini” e chiude la na e la limitazione alla loro importazione fu uno dei fattori frase affermando, soddisfatto, che “è la prima volta che maninnescanti la rivolta montana del 1678 (Tonetti, 1875, pp. 503-512). gio migliuca in Francia” (Fantoni, 2007b, p. 57). Già allora costituivano già la principale attrattiva gastronoOltre ai cereali usati nella panificazione e nella preparazione mica delle feste valsesiane. Ne è un esempio il ruolo cendi pappe e polente, nel Seicento è documentata anche negli trale sostenuto ad una festa di Carnevale della Famiglia valinventari dell’alta valle la presenza di scorte di riso, che prosesiana di Milano nel 1925 (Corriere Valsesiano, 28 febbraio babilmente sostituì nelle minestre molti cereali tipicamente 1925), quando costituirono il piatto unico della serata e furomedievali. Ad Alagna il riso entra in numerose minestre: no celebrate da alcune sestine dialettali lette dall’avvocato bangada (minestra), bangadu nessi (brodo di minestra) e baVigna. nitsha (risotto al latte), i cui nomi sono associati da Giordani (1891, p. 51) al termine bangu, panico17. Le miacce continuano ad essere prodotte in tutte le località A fianco dei prodotti tradizionalmente coltivati in pianura valsesiane e sono costantemente proposte in quasi tutte le furono introdotte in valle anche le coltivazioni importate feste tradizionali. Il prodotto, proprio per l’antica attestaziodall’America. La disponibilità botanica di queste specie non ne documentaria coniugata alla recente affermazione comNella Deliberazione della Giunta Regionale 15 aprile 2002 nr. 46/5823 (“individuazione elenco aggiornato dei prodotti agroalimentari del Piemonte” ai sensi dell’art. 8 del Digs. 30 aprile 1998, n. 1739) tra le “paste fresche e prodotti della panetteria, della biscotteria, della pasticceria e della confetteria”, compaiono le “miacce” valsesiane e le “miasse” canavesane. Nella scheda allegata la ricetta delle prime è basata sulla farina bianca e sull’uso degli strumenti recenti; la ricetta delle seconde con farina di granoturco e strumenti tradizionali. 17 Piatti a base di latte vaccino e riso sono attestati anche nella cucina di Issime (Bodo, MUSSO, SARASSO, 1998, p. 193). 16 — 63 — A U G U S T A coincise però con la loro diffusione agraria. Il mais comparve sporadicamente in alcune vallate alpine alla fine del Cinquecento, si diffuse durante il Seicento e si affermò solo nel corso del Settecento, con forti differenze tra i diversi settori della catena alpina. Ancora più lenta fu la diffusione della patata, che raggiunse le Alpi solo nella seconda metà del Settecento (Mathieu, 1998, trad. it. 2000, pp. 72-74; tab. 3:1, p. 75). A differenza del mais, la cui coltivazione si arrestò nei settori inferiori della valli alpine, la patata si dimostrò però idonea alla coltivazione anche negli insediamenti montani. La cerealicoltura fu relegata, dalle variazioni climatiche e dalla carenza di risorse umane, ad un ruolo marginale. A Macugnaga, anche nei periodi più freddi della Piccola Età Glaciale, veniva ancora coltivata la segale invernale, seminata in estate e raccolta l’anno successivo (Rizzi, 2003, p. 21). Nell’estimo del 1722 si trova che si semina ogni anno segale e se ne raccoglie un anno con l’altro (Rizzi, 2006, p. 134). Una testimonianza di questa attività è presente anche nella relazione del Cesati, delegato del Magistraro delle regie entrate del governo di Milano del 26 dicembre 1651: il raccolto poi non consistere in altro che in un poco di segale, che si semina e raccoglie nel mese di agosto (Bianchetti, ed 1987, citato in Rizzi, 2003, p. 21, con riferimento bibliografico a p. 59; Bertamini, 2006, v. I, p. 18; v. 2, pp. 174-176)18. Nell’estimo del 1722 si legge che i terreni di Macugnaga sono tutti lavorati dai proprietari. Si semina ogni anno segale che si raccoglie un anno con l’altro… il terreno aratorio o sia zappatorio darà stare tre di segale per pertica compresa la semenza d’uno staro di formento per pertica19. In una statistica redatta nel 1822 dal consigliere comunale Filippa, controfirmata dal notaio Michele Cusa, si ricava che a Rimella si producevano ancora 4 quintali di segale (Vercellino, 2004, p. 396). Nel corso del Novecento l’emigrazione divenne permanente, determinando un veloce abbandono di tutte le tradizionali attività agro-pastorali. Il lento ma progressivo declino della cerealicoltura si è concluso, con la sua scomparsa totale, nel secondo dopoguerra, anche se il ricordo della produzione cerealicola e il suo utilizzo nell’alimentazione non è ancora completamente scomparso dalla memoria storica della popolazione valsesiana (Regis e Sasso, 2007). Ringraziamenti Si ringraziano Angela Regis (Varallo) per la lettura critica del manoscritto. Bibliografia AA. VV. (2001) - L’Arte in cucina. Dalle genti del Rosa a quelle di pianura alla scoperta dei piatti tradizionali, e non solo …, Borgosesia,pp. 158. Andre I. e Barell A. (1998) – Cultura dell’alimentazione a Gressoney. Centro studi e cultura walser della valle d’Aosta, Aosta, pp.271. Bello Lanzavecchia E. (s.d.) – Riva Valdobbia (Ripa Petrarum Gemellarum). Un angolo poco conosciuto del Piemonte. pp. 94. Bellosta S. e Bellosta R. 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Ancora nel 1722 a Salecchio si seminavano ogni anno 4 stare tra segale ed orzo e se ne raccoglievano 12, purchè non venghino tempeste o altre disgrazie dal cielo (Rizzi, 2003, p. 18). In un altro documento del 1726 si precisava che la raccolta della scarsa segale avveniva solo quando la quantità delle nevi li permettono li riflessi solari per arrivare alla minor maturatezza (Zucca, 2003, p. 24). 19 A Macugnaga solo nel Settecento arriva il pane bianco, fatto con il grano proveniente dalla pianura, attestato in docuementi del 1720 e 1741 (Bertamini, 2005, v. 1, pp. 128). 18 — 64 — A U G U S T A La cotture delle miacce Fantoni B. e Fantoni R. (1995) - La colonizzazione tardomedioevale delle Valli Sermenza ed Egua (alta Valsesia) - de Valle Sicida, a. VI, n. 1, pp. 19-104. Fornaseri G. (1958, a cura di) – Le pergamene di S. Giulio d’Orta dell’archivio di Stato di Torino – Bibl. St. Subalp., v. CLXXX, p. I, pp. 253, Dep. Sub. St. Patria, Torino. De Marchi S. (2006) - Album di Ricordi. 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(ma fine Ottocento) (sezione di Archivio di Stato di Varallo, Fondo Calderini). — 65 — A U G U S T A Le leggende walser fonti per un’interpretazione del fenomeno stregonico documentato sulla catena alpina centrale e nordoccidentale in età moderna Battista Beccaria Qualche anno fa, su questa stessa rivista, ho voluto istituire un confronto tra i vescovi controriformisti novaresi e quelli aostani nei loro rapporti con le comunità walser presenti sulle rispettive diocesi, in un periodo in cui si temeva seriamente che la diffusione dell’eresia calvinista potesse penetrare più facilmente fra questa gente germanofona, in grado di comprendere il sermone protestante d’oltralpe. Fortunatamente per questi presuli, salvo rarissime eccezioni riguardanti più che altro parroci colti o gente letterata, l’eresia non toccò minimamente le comunità alemanniche, le quali rimasero tenacemente fedeli al cattolicesimo romano, e questo nonostante le stagionali emigrazioni in Paesi calvinisti o luterani, che li metteva in contatto continuo con “gli heretici” per causa di lavoro o di commercio. Oggi voglio, invece, ricorrere all’abbondante letteratura leggendaria presente negli areali walser valdostani e novaresi, letteratura raccolta da valenti antropologi, ma anche mutuata dai racconti di persone semplici, per dipingere il quadro di un immaginario collettivo preziosissimo, a mio parere, per un’interpretazione del fenomeno stregonico cinque-seicentesco presente sulle Alpi centro-occidentali e in special modo nei villaggi alpini d’alta quota. È, infatti, risaputo, presso gli studiosi di processi alle streghe in Età moderna, come la stregoneria sia un fenomeno quasi esclusivamente alpino e solo in minima parte prealpino, completamente assente in aree di pianura e in contesti urbani, dove la paura della strega è presente solo a livello di credenza e di racconto, ma mai di fenomeno estatico od onirico poi confuso, da colui che lo vive e sperimenta, con la realtà e, in quanto tale, scatenante accuse da parte delle comunità in cui è di casa e coinvolgente i tribunali ecclesiastici o civili, massime i tribunali della Santa Inquisizione domenicana o francescana. La montagna, quale area marginale rispetto ai contesti urbani, è conservativa di molti fenomeni che in città o in contesti di pianura sono precocemente scomparsi o mutati. Noi storici della Chiesa sappiamo, ad esempio, che la dissoluzione delle antiche pievi medioevali in nuove entità più spezzettate, le parrocchie, è avvenuta nelle aree di pianura già nel Trecento. In montagna, al contrario, il fenomeno si presenta in ritardo di duetrecent’anni, cosicché possiamo assistere alla formazione delle parrocchie, che si staccano da antiche Chiese matrici, ancora alla fine del Cinquecento o nei primi decenni del Seicento. Questo scarto di secoli ci permette di avere informazioni sì più tardive, ma pure più illuminanti e maggiormente documentate anche per capire quanto era già accaduto in pianura nel Tardo Medioevo, epoca che ci ha lasciato, al contrario, scarsissime testimonianze di tale processo evolutivo. Lo stesso è accaduto per il fenomeno delle persistenze pagane, fortemente criminalizzate e capillarmente condannate e perseguite in Età controriformistica da una Chiesa cattolica e protestante, le quali mettono in atto una violenta campagna di “modernizzazione” del pensiero, con una mentalità, almeno nei loro vertici istituzionali, già di stampo razionalista, mentre la cultura del magico e del pre-scientifico, combattuta su tutti i fronti, rimane ai margini e si rifugia in campagna e soprattutto in montagna. Così la stregoneria, che in Età tardomedioevale è ancora testimoniata anche in aree di pianura e, seppur più raramente, pure in città, diventa da metà Cinquecento una realtà che si può riscontrare documentariamente quasi solo in montagna. E, tanto più il contesto montano è ai margini e in zone impervie o di alta quota, tanto maggiore è la probabilità di trovarvi un massiccio fenomeno stregonico attestato dalle fonti archivistiche ecclesiastiche pervenute fino a noi. Una forma di stregoneria, che io chiamerei Particolare dell’affresco sulla facciata della chiesa di Issime, inferno donne tormentate all’interno di fiamme. Francesco Biondi 1698. — 66 — A U G U S T A impropriamente “minore” (operative witchcraft, come la definiva Margareth Murray), è capillarmente presente in tutte le zone dell’areale alpino, indipendentemente da fattori d’altura o di isolamento. Essa è riassumibile in quella cultura e mentalità pre-scientifica che attribuisce malattie, disgrazie, morti premature, morìe di bestiame, calamità naturali (frane, valanghe, esondazioni, temporali rovinosi, ecc.) a una causa dotata di consapevolezza e volontà, cioè, in pratica, a una persona malefica, invidiosa, cattiva e in grado di nuocere, la quale fa sì che il male colpisca qualcuno mediante il semplice contatto fisico, o attraverso cibo offerto alla vittima, o con sguardi maliardi o, ancora, con maledizioni pronunciate a voce, ecc. Questa persona, che in genere è contigua al maleficiato (una vicina di casa, una compaesana, ecc.), inizialmente è ritenuta magicamente dotata di poteri malèfici, cioè è essa stessa causa efficiente del male. Col procedere del tempo e con l’avvento dei trattati demonologici e di certa teologia (e filosofia) demenziale quattro-cinquecentesca, da parte dei detentori del sapere ufficiale - soprattutto teologi, ma anche giuristi, medici, addetti all’amministrazione giudiziaria, ecc.- il vantato potere magico di queste persone, streghe e stregoni, viene negato ed è posto in campo un elemento nuovo, il demonio. Essendo il potere di gettare inspiegabilmente malattia e morte contro qualcuno un fatto non naturale ma soprannaturale, non può la strega, per sé sola, essere causa efficiente di tutto questo. E quindi, di conseguenza, la strega, in quanto tale, non è sufficiente a spiegare il maleficium. Per un fatto soprannaturale ci vuole una causa adeguata pure soprannaturale, così ragionano filosofi e teologi. Di conseguenza, la strega viene declassata a semplice strumento o intermediario attraverso cui il demonio, vera causa efficiente del male, lo indirizza contro qualcuno. La strega, per invidia, odio e malevolenza vuole maleficiare qualcuno, ma non avendone da sola il potere, è costretta a chiamare in campo, prima un non meglio specificato “spirito” malvagio, e poi il demonio con cui ha contratto un patto di sottomissione. La predicazione dal pulpito giunge a compiere allora questa saldatura tra strega e demonio che la gente recepisce come indissolubile, a tal punto che persino la strega medesima se ne convince, e tale si ritiene, cioè serva e strumento del diavolo. La strega che compie il malefìcio, secondo gli schemi mentali di questa cultura magico-prescientifica, è poi ambivalente. Essa è endomalèfica ed esobenefica, ovvero la strega è nociva per i suoi vicini di casa o compaesani, ma è benefica per i forestieri degli altri paesi, che, infatti, si rivolgono a lei e ai suoi poteri (magici prima, demoniaci poi) per guarire o essere liberati dai malefìci che ritengono esser loro buttàti addosso da una strega compaesana. E quindi anche viceversa, cioè i vicini e compaesani della strega si rivolgeranno, per guarire dai malefìci, alla strega del paese confinante che, a sua volta, è malèfica nei confronti dei suoi compatrioti o vicini di cantone! Non posso insistere oltre sul meccanismo che regola l’operative witchcraft, ovvero la strega maleficiante, anche se questo meccanismo è senz’altro più complesso di quanto qui da me frettolosamente esposto! Se, per questi abitanti di montagna dalla mentalità ancora pre-scentifica, il male non può essere spiegato diversamente, non può cioè essere casuale, prodotto da entità inconsapevoli, da eventi naturali, ma solo da esseri consapevoli e dalla volontà malvagia, la strega e lo stregone malèfici diventano una presenza necessaria per l’immaginario col- lettivo e la cultura di queste popolazioni marginali e dal modo di pensare tout-court magico ed animistico. Ma, accanto a questa, che ho definito stregonerìa minore, ve n’è un’altra, più rara, e circoscritta generalmente alle aree d’alta quota, che potrei, ancor più impropriamente definire “maggiore” (ritual witchcraf, secondo la bipartizione murrayana). Essa ci presenta la strega stricto sensu, cioè quella strega che, oltre ad essere malèfica e succube del demonio, vola, in certe notti dell’anno (le “quattro tempora”) o della settimana (in genere il giovedì notte), su un bastone (Macugnaga) o su un cavallo nero (Formazza, Sempione) o in groppa a un diavolo, suo moroso, e dal nome generalmente pittoresco (Croveo, Baceno, Agaro, Premia, Rivasco, Formazza), alla volta del luogo del Sabba chiamato qui “Gioco del diavolo”, che generalmente è la cima di un’alta Montagna (il Rosa, il Cervandone, il monte Cazzola, i ghiacciai del Vannino o del Gries, ecc.), o un’estesa pietraia (la Rossa sul Devero), un ghiacciaio (sul Rosa, sul Vannino o il Gries), una balma, un’ampia grotta dentro le viscere della montagna (in Valle Antigorio). Insomma la roccia e la montagna sono il luogo deputato all’incontro fra umani e dèmoni o, in altri casi, spiriti ultramondani, e, quando l’ibridazione tra Aldilà pagano e Aldilà cristiano si sarà ben amalgamata, dalla montagna e dal suo ventre usciranno le processioni dei Morti con o senza il mignolo acceso a mo’ di candeletta. Non posso trattare qui e ora di cosa sia tale forma di stregoneria e in che consista fondamentalmente, riservandomi di scriverne, su queste stesse pagine, in un prossimo intervento in cui intendo confrontare la ricca letteratura stregonica presente nella diocesi novarese con quella valdostana e, in particolare, con un processo che riguarda una donna di Issime. I processi novaresi dell’Archivio vescovile della diocesi gaudenziana che, da anni oramai, collaboro a catalogare con l’archivista di Curia, e che in parte ho trascritto, pubblicato e fatto argomento di studi sulla stregoneria e sulla interpretazione-decriptazione del Sabba ossolano (particolarmente quello antigorino e formazzino), andranno confrontati non solo con quelli altrettanto ricchi delle confinanti diocesi di Como, di Milano o di Vercelli, ma soprattuttto coi pochi documenti (finora resi pubblici) della diocesi augustana e, in particolar modo, con eventuali processi issimesi e gressonari. La forte incidenza in àmbito walser del fenomeno stregonico con presenza di Sabba mi induce a pensare che per l’arco alpino centrale e centro-occidentale lo studio dell’immaginario collettivo raccolto attraverso le leggende e i racconti degli anziani, e cioè in primis della Mitologia walser, sia fondamentale per una interpretazione della stregoneria “maggiore” (ritual witchcraf) e soprattutto del suo correlato sabbatico. Non anticiperò qui interpretazioni provvisorie già formulate in altri miei studi, condotti sulla stessa lunghezza d’onda delle pionieristiche ricerche di Carlo Ginzburg o di Massimo Centini, che vedrebbero, nella strega che vola, un fenomeno di tipo estatico-sciamanico simile a quello dei “benandanti” friulani o dei lupi mannari estoni, ma, in particolare come storico della Chiesa, vorrei rintracciare nel Sabba antichi culti estatici pagani, demonizzati dalla Chiesa medesima, e poi ibridatisi con apporti cristiani maldigeriti e mal metabolizzati in un melting-pot, il quale diventerà col tempo lo schema stereotipo presentatoci dai più classici (e demenziali) manuali ad usum inquisitorum che andavano di moda e impazzavano tra XV e XVI secolo in tutta l’Europa cristiana (non esclusa quella lutera- — 67 — A U G U S T A Particolare dell’affresco sulla facciata della chiesa di Issime, il nocchiero Caronte traghetta le anime . Francesco Biondi 1698. na e calvinista). Posto che la Teologia sta al Cristianesimo così come la Mitologia sta al Paganesimo precristiano, vediamo attraverso la Mitologia walser, estremamente conservativa e rimasta ai margini della civiltà urbana, quale sia la concezione e credenza nell’Ultramondo o Aldilà presso queste popolazioni fortemente decentrate e insediate in alta quota. Con gran meraviglia constateremo che, sotto una leggera patina di ibridazione cristiano-cattolica, si nasconde una concezione ancora fondamentalmente pagana del mondo Ultraterreno. Purtroppo devo ancora preliminarmente chiarire cosa intendo io per “paganesimo”. La parola è ambigua, perché fu usata dai cristiani del IV secolo per stigmatizzare non già la religione veramente praticata nel pagus, ma quella praticata in città (urbs) da personaggi rimasti fedeli ai culti romani dei loro avi. Il termine ha quindi assunto un’accezione negativa e dispregiativa, quasi a significare “religione dei paesani, dei rustici, dei rozzi montanari”! Ma la religione, praticata dagli irriducibili cultori dell’Olimpo greco romano, era completamente diversa da quanto vien fatto derivare dall’etimo della parola paganesimo. Il pagus è, infatti, l’esatto contrario della civitas o urbs. La religione cittadina, già evoluta (in essa le varie divinità sono oramai “personificate”) andrebbe più correttamente definita “urbanesimo precristiano”. Essa è una religione “funzionale”. Le sue divinità, infatti, rappresentano “le funzioni” presenti in una CittàStato quali potevano essere le civitates e i municipia dell’Impero romano. Giove è il re, Mercurio il commerciante, Apollo il medico, Marte il guerriero, ecc. Fatte le debite distinzioni, i nostri Santi protettori non sono molto dissimili dalle divinità protettrici dei vari mestieri o “funzioni” presenti nella città antica! Per questo il primitivo cristianesimo si affermò con facilità in città, mentre non fu capito in campagna e in montagna, cioè in periferia. Il poeta Endelechio già lamentava «Cristo si venera solo in città». Passare da divinità “personali” a un Dio in tre persone, o ai santi, pure essi persone, non fu un salto culturale traumatico per i cittadini del mondo antico. Viceversa lo fu per i rustici delle campagne e della montagna. Questi adoravano forze (inanimate) della Natura: particolari rocce, certe montangne, massi erratici, pietre ritenute dotate di poteri taumaturgici; e poi fonti sacre, fiumi, stagni, specchi d’acqua; infine alberi sacri, boschi particolari (németon, lucus). Si potrebbe dire che vi è una specie di “trinità pagana” data dalla triade roccia sacra-fonte sacra-albero sacro, contro cui tuonano non tanto gli scrittori antichi (che snobbano la cosa come stupida superstizione da contadini, da bifolchi incolti) bensì le fonti ecclesiastiche dei primi Concili, delle grandi Sinodo provinciali, le raccolte di omelìe dei padri della Chiesa e dei primi vescovi del IV-V secolo, i Capitolari degli imperatori e re carolingi, i cosiddetti “Libri penitenziali” dell’Alto medioevo, scrittori e omileti fino al X-XI secolo! Non posso qui riportare, ovviamente, in dettaglio né canoni conciliari, né divieti regi, né dure penitenze a pane e acqua per chi accendeva ceri sulle rocce sacre ancora nel X secolo della nostra èra: costoro, i veneratores lapidum, i veneratores fontium, i veneratores arborum venivano complessivamente tacciati di essere veneratores demonum! Ma queste persone, definite adoratori del demònio, erano tutte dello strato sociale infimo, presente nelle campagne e sulla montagna, erano i cosiddetti rustici, gli humiliores del Tardo antico, gli homines de muntanea dell’Alto Medioevo. Per Ambrogio di Milano e Agostino di Ippona portare il Vangelo a costoro era impresa, non solo disperata, ma impossibile, per la distanza siderale che intercorreva tra la cultura urbana e quella pagana appunto. Dopo un tentativo poco convinto e malriuscito, anzi sfociato in tragedia (i martiri della Val di Non), in cui gli evangelizzatori furono linciati dalla folla dei montanari inferociti mentre tentavano di fermare una processione di Ambarvalia (lustratio camporum), Ambrogio di Milano e Vigilio di Trento pensarono di soprassedere alla conversione dei rustici, che furono però costretti con la forza dai loro padroni latifondisti (possessores cristiani), su preciso invito dei vescovi delle civitates del Nord, a rinunciare ai loro “sordidi culti pagani”. Ancora nell’Alto Medioevo vaste zone della campagna e della montagna, fuori e lontane dagli àmbiti cittadini, rimasero tenacemente attaccate ai culti antichi delle fonti e delle pietre, e anche di certe particolari “Montagne sacre”! Tutta questa digressione sul concetto vero ed etimologico di “paganesimo” non è oziosa, ci aiuterà a capire come mai, ad esempio, e lo scrive Martino di Braga un vescovo ispanico del V secolo, nel suo De correctione rusticorum, le lamiae, ovvero le streghe, fossero solite volare sopra stagni d’acqua! Su per la catena appenninica centrale e nel Sud dell’Italia le streghe usavano invece volare su certi grossi — 68 — A U G U S T A alberi, come la più famosa “noce di Benevento”. Sulla catena alpina o del Jura francese e svizzero, o ancora sulle Alpi austro bavaresi, le streghe, infine, volavano sopra particolari montagne o ghiacciai. Si va dal celebre Blocksberg germanico caro alle Valchirie, ai più vicini Monte Rosa, Cervandone, Cazzola, il gruppo del Cistella, i ghiacciai del Gries e del Vannino, in zone desolate e pietrose. I tre elementi della roccia, dell’albero e dell’acqua ricorrono dunque nelle varie specificità locali di “stregoneria” con volo al Sabba. Ma questo è spiegabile considerando il duplice approccio che la Chiesa - impossibilitata a trasmettere a culture primitive e animiste concetti complessi di origine giudaica, poi filtrati attraverso l’ellenismo e la romanità, com’è appunto il messaggio cristiano - mise in atto onde avvicinare i “pagani”a un cristianesimo per loro comprensibile e quindi accettabile o, al contrario, per allontanarli dai loro culti atavici. Da un lato l’appropriazione o esaugurazione di culti pagani, come gli Ambarvalia, che divennero, senza una strutturale modifica del rito, il triduo delle Rogazioni cristiane. O il culto delle rocce di fecondità, che vennero spesso inglobate nelle absidi di chiese (Santuari di Boca e Varallo Sesia) o circoscritte dentro le stesse navate di Santuari mariani frequentatissimi (navata sinistra del Santuario vecchio di Oropa) dove la roccia nera e fecondatrice diventa una Madonna nera o, in altre situazioni, una Madonna del latte. Dall’altro lato la criminalizzazione o demonizzazione di altri culti pagani, che lasciano, soprattutto in montagna, una toponomastica inequivocabile: il sasso del diavolo, il laghetto delle streghe, la grotta dei diavoli, ecc. Io stesso ho potuto constatare de visu i segni di ripetuti esorcismi fatti in varie epoche su un enorme masso fessurato ai bordi del “laghetto delle streghe” in quel dell’Alpe Devero, sopra Baceno. In uno spettacolare maxiprocesso a carico di 24 tra streghe e stregoni di Croveo e Baceno, celebrato nel 1611 nel Palazzo episcopale di Novara, alcune streghe raccontavano al Vicario generale (giudice) e al Fiscale di Curia (pubblico ministero) che il diavolo appariva loro all’improvviso, uscendo da quella fessura del masso erratico. Ebbene, ispezionando accuratamente l’enorme roccione, con gran meraviglia della guida del parco che mai le aveva notate, trovai incise tre croci in tre punti diversi, di cui una con accanto la data cinquecentesca dell’avvenuto esorcismo. Numerosi sono i dipinti medioevali, ma anche cinque-seicenteschi, dove è affrescato un santo che scaccia o esorcizza uno o più diavoli, i quali sono raffigurati come uscenti da una roccia o da un grosso sasso! Nel celebre ciclo di affreschi del chiostro dentro l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore in Toscana, il Sodoma, raccontando la vita e i miracoli di San Benedetto, dipinge, in uno dei riquadri, il santo nell’atto di esorcizzare un masso da cui escono tre piccoli diavoli. Ma gli esempi non si contano. Sempre nel sopraccitato maxiprocesso bacenese del 1611, la strega Gianola raccontava che, in un pianoro sopra Croveo dove pascolava le capre, vide il diavolo che usciva da un masso e le ordinava di fare una danza “con le unghie rampinate” a mo’ di volpe, con la quale danza la tramutò... in volpe, per l’appunto! La roccia è onnipresente nei racconti di Sabba antigorini e formazzini. Dal luogo dove si celebra “il Gioco del diavolo”, al masso piatto e rotondeggiante dove le streghe si ungono il corpo prima di volare, alla pietra sotto la quale nascondono “l’onto o medicina”, alla balma sotto cui accendono il fuoco per cuocere il bambino nel paiolo, alla grotta nella quale banchettano e Affresco chiesa di Issime, particolare donne legate e tormentate da un diavolo. Francesco Biondi 1698. danzano “co’ diavoli loro morosi”, dai nomi pittoreschi di Aribello, Piatonacio, Rondonacio, Trombone (ma suonatore di violino nel concerto sabbatico), Ariotto, Amasio, Martino, ecc. Insomma la montagna, il masso erratico, la pietraia desolata sopra il ghiacciaio, la grotta, la balma, il pianoro roccioso sono una costante che, direi, non è del tutto casuale nell’economia del rito sabbatico (ritual witchcraft). In un recente convegno internazionale tenutosi a Verbania, sul Lago Maggiore, sul tema dell’iconografia trinitaria, e rivolto al Sacro Monte della SS. Trinità di Ghiffa, ho voluto dare un mio modesto contributo dal titolo Preistoria dei Sacri Monti. Quel Sacro Monte, formato da un Santuario attorniato da tre sole cappelle e intitolato alla Trinità, sorge su un’altura rocciosa, anzi il centro del complesso insiste proprio su un enorme masso-altare di roccia. La primitiva chiesetta, pur non essendo né pieve nei secoli medioevali, né parrocchia dopo il Cinquecento, era mèta di frequenti e imponenti pellegrinaggi di comunità che provenivano, non solo dalla sponda occidentale del Lago Maggiore, ma pure da quella lombarda. Non sapendosi capacitare del fenomeno, il vescovo novarese Cesare Speciano, impressionato dal gran concorso di genti verso il luogo dotato di un modesto chiesuolo, pensò di farne un Sacro Monte a presidio dei confini verso la vicina Svizzera, infetta di protestantesimo. Oltre al masso-altare, su cui sorge la cappella centrale e più importante, il complesso, su tre lati è circondato da fitti boschi e, sul restante, si affaccia sullo specchio d’acqua del Lago Maggiore. Anche qui si potrebbe scorgere quella triade roccia-albero-acqua che caratterizza, in certo — 69 — A U G U S T A qual modo, una trinità pagana-precristiana. La gente, abituata ab immemorabili a confluirvi come a luogo di culti ancestrali (sennò perché mai tanto concorso di gente verso un chiesuolo insignificante ancora lungo i secoli medioevali e fino agli inizi dell’Età moderna?) viene assecondata dal vescovo novarese, che approfitta della straordinaria e inspiegabile frequentazione del luogo per creare proprio lì uno dei Sacri Monti novaresi. Si tratta in questo caso, come ben si può scorgere, di una forma di appropriazione-esaugurazione tardiva (il Sacro Monte) sul luogo di una precedente esaugurazione medioevale (la chiesetta primitiva), a sua volta sostitutiva di un sito di culto pagano, che attirava folle di pellegrini ancora nell’Alto Medioevo. Ma, se osserviamo ancor più attentamente il fenomeno, lo stesso avviene per il Sacro Monte di Orta che si affaccia sul lago omonimo, o per il Sacro Monte di Varese, o ancora per il Sacro Monte di Varallo, che domina dall’alto su una piana d’acque dove la Sesia si allarga a dismisura! Montagne sacre e Sacri Monti sono forse uno dei tanti casi di quel sacrum continuum che ha caratterizzato, ancor prima, i siti del sorgere di pievi e santuari mariani! Dove mai, infatti, possiamo trovare lapidaria ed epigrafia con tracce evidenti di luoghi di culto romani o addirittura preromani? Evidentemente, come ci insegna l’esperienza e l’archeologia, presso antiche chiese pievane! I conti, dunque, tornano. Dove la gente era abituata a confluire per i suoi culti precristiani, proprio lì la Chiesa primitiva e quella altomedioevale hanno edificato chiese battesimali prima e plebanali poi! È stato uno dei tanti “dolci inganni” con cui l’Autorità ecclesiastica ha voluto perseguire e favorire l’evangelizzazione delle campagne, del mondo cioè dei rustici e degli illetterati, abituati, dalla notte dei tempi, a recarsi per abitudine inveterata in certi particolari luoghi a chiedere favori alla divinità presente in una roccia o in una fonte, coll’accendervi ceri e col farvi offerte. L’archeologia francese, abituata a cercare insediamenti umani protostorici e santuari pagani, non solamente necropoli come fa quella italica, trova spesso in questi siti testimonianze di ex voto e di offerte risalenti al periodo precristiano. Ma torniamo al primitivo mio assunto. Ho detto innanzi che la Teologia sta al cristianesimo, così come la Mitologia sta al paganesimo. Ebbene, proprio nei miti walser e nella letteratura leggendaria di questa popolazione alemannica, vissuta sempre al di fuori dei contesti urbani e anzi, in certo qual senso, isolatasi in alto lontano dal più diffuso habitat, troviamo resti consistenti di una concezione dell’Aldilà “pagano”, nel senso da noi specificato più sopra. Mi avvarrò per utilizzare tale mitologia dello straordinario lavoro di uno studioso rosminiano, Renzo Mortarotti, che ha raccolto l’abbondante letteratura leggendaria in proposito, presente in numerose località dell’Ossola, in modo particolare Macugnaga (Makanà), Formazza (Pomatt), Agaro, Salecchio. Una sintesi illuminante è stata, a suo tempo, pubblicata dallo stesso Autore in un articolo apparso su “Novarien.” (N. 9 del 1989), rivista di Storia della Chiesa su cui pubblico anch’io da ormai venticinque anni. Accennerò, in modo molto riassuntivo, anche a quanto, sulle oltre quaranta annate della rivista “Augusta”, è stato possibile apprendere dalla viva voce dei vecchi, in linguaggio töitschu, della tradizione di racconti leggendari giunti fino ai giorni nostri. Tradizione che non si allontana, se non per varianti del tutto ininfluenti, da quella presente nelle comunità dell’ Ossola e della Valsesia. Le leggende dei Walser dell’Ossola Nel mondo walser non esiste, come per il cristianesimo, un inferno e un paradiso dove le anime possano ricevere un premio o un castigo, ma tutt’al più una specie di purgatorio dove gli spiriti umani, dopo la morte, soggiornano per alcun tempo in espiazione delle loro malefatte, in attesa di partire per un non meglio precisato “destino” che li attende, destino che non ha nulla comunque a che vedere col paradiso cristiano neppur lontanamente. Inoltre, anche questo, che ho impropriamente chiamato purgatorio, in realtà è molto più vicino a una specie di Ade degli antichi, un luogo di dimora di ombre, di morti, di spiriti, di dàimones nel senso greco del termine, molto lontani dai demòni del cristianesimo e per nulla omologabili con questi. In un racconto mitologico, circolante fino al secolo XX a Macugnaga, vi sarebbe adombrato sia il mondo delle divinità infere, poi trasformate dagli inquisitori in demòni, sia le ultime reminiscenze del Sabba presentato in tale narrazione in una versione, potremmo dire, moderna. Il racconto si intitola Il ballo e il diavolo. Nella “Casa del fico”, a Pecetto, si svolge una serata danzante con abbondanza di libagioni. Presi dai fumi dell’alcol e dall’euforìa di accattivanti musiche, danzatori e danzatrici si spogliano e danno il via a balli sfrenati e licenziosi. A un certo momento, entra nella casa un bel giovane che si mette a ballare, a turno, con tutte le ragazze presenti. Una di queste, però, s’accorge all’improvviso e con raccapriccio che quel bel giovane non ha piedi umani ma zampe di becco. Grida dallo spavento e tutti, a quella vista, fuggono fuor di casa. Un gruppo di quei giovani decide allora di scendere a Pieve Vergonte a cercare il parroco, che a Macugnaga non c’è ancora, perché salga al paese per esorcizzare la casa e farvi sloggiare l’uomocaprone (da questo particolare deduco che la leggenda risale almeno al Cinquecento N.d.R.) Arrivato su il pievanoesorcista a dorso di mulo, dal fondovalle fino a Macugnaga, intima alla “bestia”: «In nome di Dio vieni fuori di lì». Dalla casa esce allora un becco. Il prete gli ingiunge di precederlo fino a un prato dove è piantata una croce. Lì giunti il prete-esorcista si rivolge al caprone e: «Ti maledico e scongiuro (torna) negli eterni ghiacciai del Monte Rosa. Lì dovrai rimanere in eterno! ». In questo racconto l’Aldilà è già stato cristianizzato in una specie di inferno eterno dove ha sede il demonio (il caprone), ma questo inferno senza fuoco (e, anzi, “polare”) è ancora collocato lassù in cima ai ghiacciai e ai crepacci del Rosa, e non sottoterra come nell’immaginario cristiano! Questo Aldilà è anche il regno delle anime dei defunti, che devono dimorare per alcun tempo sul ghiacciaio della Montagna in attesa di raggiungere un imprecisato loro “destino”. In una leggenda di Agaro intitolata L’ostessa briccona questa credenza è bene evidenziata. A Montepiano, sulla strada tra Baceno e Crodo, un pastore di Agaro che scendeva verso Domodossola incontrò di notte una donna che faceva la strada in senso inverso con le scarpe in mano. Quando riconobbe in lei l’ostessa di Oira le chiese dove andasse a quell’ora insolita. “Vado al ghiacciaio a fare penitenza, perché ho mescolato il vino con l’acqua”. Lì per lì non capì bene il senso di quella risposta, ma tutto si chiarì alla sua mente quando, giunto a Oira, chiese della donna e gli fu risposto che era morta proprio quella notte. Stesso racconto, con poche varianti, è quello intitolato L’oste maledetto, ambientato tra Calasca e Macugnaga. Questa volta è un abitante di Makanà che vede salire a cavallo, alla volta dei ghiacciai del Rosa, l’oste — 70 — A U G U S T A dell’osteria di Valbianca di Calasca, paese dove nel frattempo si sta celebrando il suo funerale. Molte anime di morti vagano senza pace perché morte prematuramente o di morte violenta, o perché rimaste senza sepoltura. Compito del prete non è già quello di suffragarle perché raggiungano il paradiso ma quello di aiutarle a salire sulla Montagna verso il loro “destino”. Nel racconto Un difficile esorcismo il prete accompagna un’anima inquieta ed errabonda che ha assunto sembianza di animale, nel caso di un cagnolino. Il cagnolino segue il prete che lo accompagna dal cimitero verso il ghiacciaio dove quell’anima finalmente “va al suo destino”. Ma, per accompagnare queste anime al loro destino, lassù in cima alla Montagna, ci vogliono preti dalla vita irreprensibile. Anche ne Lo spirito di Cicerval si narra di un’anima che va vagando su per un’alpe e, quando il sagrestano Della Vedova, a nome e per conto del parroco di Macugnaga, lo esorcizza, lo fa con queste parole: «Vai dove sei destinato. Lascia in pace questo alpeggio e chi ci lavora!». Periodicamente i morti escono dal ventre della Montagna e tornano di qua in processione tenendo in mano dei lumini, o meglio, col mignolo acceso a mo’ di candeletta, e passano vicino alle loro case e nei loro paesi e frazioni dove, però, sono pochi i privilegiati che possono vedere questi cortei di morti. A volte, il loro apparire nei pressi di una casa può voler dire o che in vita vi ci hanno abitato o che qualcuno che vi abita morirà di lì a poco. Il racconto Segnali di morte ci dice che anche coloro che sono morti lontano da casa, in paesi lontani di emigrazione, annunciano la loro dipartita ai parenti, facendo rumori tremendi di notte nella casa dove sono vissuti. Dove l’apporto cristiano si è, inve- ce, già ibridato col racconto originario, il morto si fa sentire sui tetti delle baite per chiedere suffragi per la sua anima imprigionata nel ghiaccio, oppure, come nella leggenda Il rosario dei morti, i defunti vengono a rispondere al rosario recitato da una donna, la quale quella stessa notte morirà. Nelle leggende di Antigorio, e in specie di Agaro, la condanna di coloro che hanno commesso gravi peccati non è il fuoco eterno; essi devono scontare la loro pena nel ghiacciaio di Curzalma. Queste anime di un “purgatorio pagano” sono chiamate i “turnant” (coloro che ritornano) perché appunto, in certe notti, scendono dal ghiacciaio e tornano al loro paese d’origine per riferire ai vivi dove si trovano a scontare la pena per poi “andare al proprio destino”. Che sotto queste credenze e dietro queste “visioni” di alcuni montanari, che scorgevano o credevano di vedere le processioni dei morti, vi siano chiari fenomeni sciamanici o “estatici”, come avveniva in Friuli per i benandanti o i taltos ungheresi o i nò aidi lapponi o i lupi mannari estoni, è chiaramente espresso in un altro racconto: “Mentre il corpo di Melchar Zampa (della famiglia Deini) riposava di notte nel suo letto, lo spirito andava in processione con i morti e parlava con essi…”. Il meccanismo di trance estatica è il medesimo che presiede al “vissuto del Sabba”, vissuto sperimentato in somnis dalle cosiddette streghe. Si dà il caso di streghe (e di “benandanti” friulani) che la sera in cui dovevano partire in volo per il Sabba (o per il combattimento nell’aria per salvare i raccolti agricoli) raccomandavano al partner, che dormiva nello stesso letto, di non spostare il loro corpo dalla posizione in cui giaceva “perché, tornando poi indietro, il loro spirito avrebbe potuto non Affresco chiesa di Issime, pene corporali. Francesco Biondi 1698. — 71 — A U G U S T A trovarlo più lì e quindi vagare disperato in cerca del suo involucro”! Non potendo dilungarmi oltre nella disamina di questi miti, rimando il lettore ai saggi del Mortarotti e di altri studiosi che si sono interessati a questo tema. Già dal poco che si può intravvedere nell’esame di questa mitologia la quale, come abbiamo già rilevato, è il substrato teologico di un paganesimo precristiano, sopravvissuto per secoli a coté di un cristianesimo di superficie, in larghi strati di popolazione montana ai margini, si può scorgere un atavico culto della Montagna intesa come Aldilà, regno di numerosi spiriti e, forse ancor prima, divinità ctonie. I morti escono dalle viscere della montagna e tornano in processione verso i loro paesi e le loro case e chiese. Tutto ciò è ben ravvisabile in racconti di Macugnaga come La donna zoppa, o Tre giorni, una vita intera, o ancora La donna senza lume. La credenza che una volta all’anno i morti scendessero dal Rosa per riunirsi nella chiesa vecchia del cimitero di Makanà, e lì fare la conta di coloro che sarebbero morti in quell’anno, ci dice che credenze pagane (montagna e ghiacciaio come sede dei morti) potevano ben mescolarsi con credenze cristiane (i morti radunati nella chiesa del cimitero) senza che i portatori di tali concezioni ne percepissero la ben minima contraddizione. D’altronde le cosiddette streghe vivevano tranquillamente e senza contraddizione alcuna il loro stato interiore dualistico, per non dire quasi schizofrenico: la notte del giovedì andavano al rito del Sabba coi diavoli in forma estatica, la domenica andavano alla messa in latino col corpo, e davanti agli inquisitori protestavano di essere brave cristiane. Nel maxiprocesso di Croveo-Baceno queste donne, mentre non avevano né vergogna, né ritegno a raccontare, nei minimi particolari scabrosi, l’orgia coi diavoli e le diavolesse nel “Gioco” al Cervandone, non pronunciavano mai il nome della montagna (Cervandone), anzi negavano di sapere come si chiamasse o dove fosse e protestavano di non averla mai vista né sentita! Cosa che rendeva stupefatti i giudici, i quali ribattevano: «Ma come? Anche i bambini a Baceno sanno dov’è e che cos’è il Cervandone, basta uscire dalla porta della chiesa di San Gaudenzio (la parrocchiale) e subito il Cervandone appare allo sguardo di chiunque alzi gli occhi!». Ma tutte le donne inquisite, nessuna esclusa, continuavano caparbiamente a negare contro ogni buonsenso ed evidenza, che no, loro non sapevano affatto dove fosse, né sapevano cosa fosse il Cervandone! Sembra quasi vìgere presso queste persone il divieto biblico del secondo Comandamento: “Non nominare il nome di Dio!”. Il teatro del Sabba, lo ricordiamo ancora una volta, è un luogo di pietre (pietraia, masso piatto e largo, grotta, balma), il diavolo, quando appare a una strega, esce dalle crepe di un masso erratico, le streghe si ungono il corpo per il volo stando sedute su un pietrone rotondo a mo’ di tavolo circolare, l’onto è conservato nascosto sotto una preda. Tutto congiura a vedervi residui di antichissimi culti precristiani della roccia mai esaugurati, ma piuttosto demonizzati dal clero (e i segni esorcistici incisi su particolari massi ne sarebbero una prova), fatti infine confluire nel Sabba dallo stereotipo dei manuali inquisitoriali, che fanno sì un condensato unico e ripetitivo degli svariati racconti di Sabba raccolti, ma dove in ogni singolo processo locale il Sabba particolare ivi descritto lascia vistose tracce di culti e credenze presenti su quel territorio. Qui da noi residui di culti della roccia, altrove dell’albero, nella Spagna di Martino di Braga forse degli stagni sacri! E quelle rintracciabili a Issime Anche sfogliando solo sommariamente qua e là le varie annate di Augusta, nei racconti registrati da trascrittori in lingua töitschu, affiorano alcune di queste credenze comuni ai vari areali walser. E comuni anche a paesi italofoni confinanti con loro, come Baceno, Croveo, Premia, Rivasco per il contesto formazzino, o Massiola di Valstrona per il contesto “valsesiano” di Campello Monti. Noi, un po’ semplicisticamente, siamo soliti concepire come assolutamente isolate, e “pure” da contaminazioni, le comunità walser, ma non era affatto così nella realtà storica: per favorire una certa esogamia, necessaria al ricambio di sangue, oltre che per mille altri motivi ovvii, i matrimoni “misti” erano frequentissimi. In Valle Strona, ad esempio, gli uomini di Massiola “importavano” soprattutto giovani vedove da Campello, talché, vista la frequenza della cosa, un parroco di Massiola del Seicento aveva imposto una taxe d’entrage su tali matrimoni. La donna walser, diventata massiolese, non trasmetteva più l’idioma titschu-rimellese ai figli, come invece continuava a fare la donna campellese, ma esportava tradizioni, credenze, leggende, cultura materiale, che rimanevano patrimonio anche di Massiola. E viceversa. Oggi che Campello non ha più abitanti residenti in modo permanente, il poco “dna” rimasto in valle di questa antica poplazione si trova forse più a Massiola che altrove, anche se nessuno dei quattro cognomi storici originari di Campello (Guglianetti, Ianetti, Tensi e Guglielminetti) si è conservato in questo paese di frequenti scambi esogamici (i campellesi aborrivano mescolarsi, per atavica rivalità, coi più vicini abitanti di Forno), ma solo negli oriundi campellesi della diaspora. I processi maggiormente spettacolari della Val Antigorio-Val Formazza alle streghe, e alcune leggende meglio conservatesi, non si trovano a Pomatt, ma a Baceno Croveo ed Agaro. La forte consorteria di commercianti bacenesi e croveesi, che nel Cinque-Seicento, ad ogni estate, faceva spola tra Formazza e Vallese, possedeva perfettamente gli idiomi vallesani, anche se i due paesi erano italofoni, parlanti correntemente dialetto lombardo-novarese. Renzo Mortarotti, e dietro a lui il confratello rosminiano Tullio Bertamini, giustamente tendono a definire “ossolano” e non riduttivamente “walser” l’immaginario collettivo presente in Antigorio-Formazza, perché è difficile separare e tagliare col coltello una cultura-mélange dagli interscambi secolari e pressoché diuturni. Anche Issime ha avuto apporti franco provenzali, piemontesi, francofoni e italofoni e questo, ovviamente, non solo nel suo idioma ma altresì in campo culturale. La rivista Augusta sembra privilegiare l’aspetto linguistico dei suoi racconti e delle sue tradizioni, in realtà, facendo questo, ci testimonia insieme credenze e mondo immaginifico. Anche qui è ben evidente la presenza stregonica, ritenuta causa della carenza improvvisa di latte nelle mucche (il latte viene inibito magicamente), causa di malefìci (contrastati con le catene del camino arroventate con legna bianca lavata dal Lys, o attraverso cibi e bevande offerti alla maliarda per ammansirla). Le streghe locali, poi, andavano a radunarsi per i loro riti sabbatici notturni su pianori d’altura, come all’alpe Simulettu, nei pressi di Leikier (Lago chiaro), a Siawa (laghi), al Galm, alla Vlu, allo stesso modo che altre streghe ossolane, anziché sulle cime di monti particolari, dicevano di recarsi sulla piana del lago Vannino, in Alta Val Formazza. La testimonianza, quasi agghiacciante, del fe- — 72 — A U G U S T A La cappella della Madonna delle Nevi all’alpe di Mühni, ex-voto della famiglia Querra (1660). nomeno, accaduto nel 1909, delle pietre volanti nel vallone di Tourrison e della presenza demoniaca “di töivla”, sottoscritta nientepopodimeno che dal parroco di Issime Grat Vesan; fenomeno che, secondo le testimonianze in paese, ha origine da un malefìcio perpetrato da una vecchia, Hantsch Anni, ai danni della famiglia Stévenin (Djanet) oriunda del Gaby, è sintomatica dell’humus di credenze su cui allignano tali paure collettive. Il fatto è testimoniato, oltre che dal parroco, anche dai carabinieri accorsi sul posto e da alcuni abitanti del luogo degni di fede. Bisognerebbe indagare se si sia trattato di fenomeno indotto da suggestione collettiva o di movimento cinetico delle pietre prodotto dalla psiche della cosiddetta strega. La capacità di guarire malattie mediante toccamenti accompagnati da formule e preghiere o quella di rimettere in quadro ossa slogate o fratture, senza avere avuto cognizioni mediche o anatomiche di sorta, potrebbe far pensare a un funzionamento dell’altro emisfero cerebrale, quello che non usiamo più e che in noi “ipercivilizzati” è una facoltà oramai completamente atrofizzata. La stessa facoltà che, forse, metteva in moto la trance estatica durante il vissuto e le visioni sabbatiche, o ancora il volo dei “benandanti” friulani, che si recavano al combattimento onirico, per salvare i raccolti, armati essi di mazze di finocchio contro streghe e stregoni armati di canne di sorgo. Ma queste ipotesi di spiegazione non sono materia da farsi trattare dallo storico e forse neppure dall’antropologo! Certo già nel Cinquecento, mentre teologi e giuristi tiravano in ballo, a sproposito, il soprannaturale con l’intervento di diavoli e diavolesse infere per dare consistenza alla stregoneria, scienziati dello stampo di un Tostato o di un Della Porta facevano già esperimenti scientifici sulle streghe in stato di catalessi che, al risveglio, asserivano di essere state in volo e avere visto località e cose lontanissime, poi rivelatesi realmente esistenti a una successiva verifica. Nelle credenze issimesi sono testimoniate addirittura processioni di streghe con campanacci e “tole”, che schiamazzano, rumoreggiando e terrorizzando chi le incontra sul suo cammino. Il demonio, poi, è una presenza inquietante, che ricorre in semplici racconti, come Karuntjisch rossji (cavallino di Caronte) spauracchio per i bambini, o in credenze dove trasforma in suoi cavalli le donne che tentano di sedurre un prete, o imperversa nelle tenebre dopo il suono dell’Ave Maria, per cui è consigliabile stare ritirati in casa. Ma, oltre al diavolo, vi è la presenza costante anche dei morti che tornano in mezzo ai vivi. Dalla classica processione dei morti, ai singoli defunti che sono visti, attraverso le finestre illuminate all’imbrunire, nella casa dove in vita avevano dimorato. In sostanza anche a Issime e Gressoney l’immaginario degli abitanti in tempi passati, remoti o meno remoti, ci testimonia della continua presenza dell’elemento soprannaturale nella vita di ogni giorno, del commercio ininterrotto tra il mondo reale e quello dello spirito, lontano da una visione, però, del tutto cristiana come da un immaginario classico o latino. Non ci dilunghiamo poi a parlare del mito della Valle perduta (Das verlorene Tal), situata oltre i monti, e che richiama la patria del Vallese, comune a Gressoney, ad Alagna come a Macugnaga. Così come alla presenza e credenza nei folletti e negli gnomi (tockhjini), piccoli, agili, nudi e, in genere, deformi, bonari e servizievoli ma insieme anche dispettosi. Questo discorso sul mondo leggendario e in pari tempo sulle credenze che per secoli hanno accompagnato la vita di questi eroici emigranti, pastori e contadini, ma anche abili artigiani e ingegnosi inventori, ci dovrà servire, in un prossimo intervento su questa rivista, a capire, o meglio a cercare di interpretare il fenomeno stregonico anche nella valle del Lys. Esamineremo alcuni processi valdostani più in generale, e uno di Issime più in particolare, per cercare di scorgere negli interrogatori e, soprattutto nelle risposte che le inquisite danno, i resti di antichi culti o i pochi frammenti residui di una religiosità pagana, mista oramai a sovrastrutture cristiane, rimasta impigliata, nei secoli, su per le montagne della Valle del Lys. Per ragioni di spazio non ho qui potuto fare un confronto o un parallelo tra i miti walser, quelli più in generale della mon- — 73 — A U G U S T A tagna, e i miti celtici. Sarebbe stato molto illuminante anche perché l’Aldilà walser è, per certi versi, quasi identico all’Annwn o alla Sidhe degli antichi Celti europei. Ricordiamo che i Celti della Tarda Età del Bronzo e della Prima Età del Ferro (1200- 500 a.C.), i cosiddetti “Celti halsttattiani”, non erano presenti solo in Cisalpina, nell’attuale Francia, Spagna, Belgio, Renania, Austria e Boemia, ma anche in vaste aree della Germania, e, in specie, nella zona poi occupata in età storica dalle tribù alemanniche coi loro oppida. Gli Alemanni si spostarono, in seguito in Età romana, nell’attuale Svizzera dove, nella Seconda Età del Ferro (500-30 a.C.), fiorì la civiltà dei “Celti lateniani”. Questi Germani-Alamanni sono a tutti gli effetti un popolo che ha vissuto per più di mille anni nell’àmbito o, come dicono i francesi, in una couche completamente celtizzata! Molto del loro più atavico “immaginario” viene dai Celti, popolazione della Prima Europa, dove le druidesse sono - come dire? - delle streghe ante litteram! Ma di tutto questo in una prossima puntata. Bibliografia essenziale: R. Mortarotti, Il mondo leggendario dei Walser dell’Ossola, in “Novarien” N. 9 (1978-1979) pp. 275-325. Vedi, inoltre, le annate della rivista “Oscellana” dove si trovano, qua e là, analoghi racconti folklorici; J.J. Christillin, Leggende e racconti della Valle del Lys, Edizioni Guindani, 2001 (4 me); B. Beccaria, Le streghe di Baceno (1609-1611). Le ultime sacerdotesse di una religione pagana sopravvissuta sui monti d’Antigorio, in Domina et Madonna. La figura femminile tra Ossola e Lago Maggiore dall’Antichità all’Ottocento, Mergozzo - Verbania 1997, pp. 111-193; E. Rizzi, Gli “intrighi delle montagne”. La caccia alle streghe nelle Alpi walser, in Le streghe nelle Alpi, Fondazione Monti-Anzola d’Ossola 2002, pp. 113-137; M. Crenna, L’inquisizione nel Novarese, in “BSPN” LXXX - I (1989), pp. 177-262; B. Beccaria, Inquisizione e stregoneria a Novara tra Cinque e Seicento, in Una terra tra due fiumi, la provincia di Novara nella storia, Voll. 3. Volume II: l’Età moderna (secoli XVI-XVIII), Novara 2003, pp. 545-581; B. Beccaria, L’Inquisitore, Peter di Macugnaga e il diavolo vestito di verde, in “Campello e i Walser”, Atti del Quattordicesimo Convegno di Studi, Campello Monti: 5 agosto 2006, pp. 45-67; M.A. Murray, The Witch-Cult in Western Europe, 1921. Ora in traduzione italiana: M.A. Murray, Le streghe nell’Europa occidentale, Roma 1978. Eadem, Il dio delle streghe, Roma 1972; B. Beccaria, Inquisizione episcopale e inquisizione romano domenicana di fronte alla stregoneria nella Novara post-tridentina (1570-1615). I processi del Buelli (1580) conservati al Trinity College di Dublino, in “Novarien.” N. 34 (2005), pp. 165-221; B. Beccaria, Inquisizione vescovile, maghi, guaritori, sfatturator di malefici stregoneschi a Novara sullo scorcio del XVI secolo, in “Novarien.” N. 38 (2009), pp. 51-140; T. Deutscher, The role of the episcopal tribunal of Novara in the suppression of heresy and witchcraft (1563-1615), in “The catholic historical rewiew” vol. LXXVII, N° 3 (juli 1991), The Catholic University of America Press, pp. 403-421; B. Beccaria (s.v. G. Beccaria), Massiola tra Cinque e Seicento. Note e documenti per una storia dei primi cin- Trave di colmo con inciso il simbolo religioso IHS, la data 1828, le iniziali CC (Cristoforo Consol) e il nodo savoia, all’alpeggio di Tschannavellje (Tchavanöi), Vallone di Tourrison. quant’anni della parrocchia di S. Maria di Massiola, Omegna 1994; M. Crenna, I modi inquisitoriali nel Novarese, in “BSPN” LXXX - II (1989), pp. 455-491; B. Beccaria, Credenze, superstizioni, ritualità nelle valli della Diocesi di Novara fino al XVI e XVII secolo. Dalla persistenza del paganesimo nell’Alto Medioevo alle superstizioni come relitti dello stesso nel Basso Medioevo e nell’Epoca moderna, in Atti del Convegno Donne di montagna. Donne in montagna, Varallo Sesia - Centro Congressi Palazzo d’Adda (19-20 ottobre 2002), Borgosesia 2004, pp. 93-140; B. Beccaria, Persistenze pagane, religiosità popolare, movimenti di riforma nella Chiesa, pietà e fenomeni devozionali, in Storia della Diocesi di Novara, nella collana “Storia religiosa della Lombardia. Complementi”, a cura di L. Vaccaro - D. Tuniz, Editrice La Scuola, Brescia 2007, pp.639-652; B. Beccaria, Perché un santuario e un culto trinitario sulle alture sopra Ghiffa? Preistoria e protostoria di un santuario, in AA. VV., L’iconografia della SS. Trinità nel Sacro Monte di Ghiffa. Contesto e confronti. Atti del Convegno Internazionale, Verbania, Villa Giulia: 23-24 marzo 2007, pp. 57-70; B. Beccaria (s.v. G. Beccaria), Culti preromani in territorio novarese. Il “milieu” religioso all’arrivo del cristianesimo primitivo nelle campagne, in “Novarien.” N. 23 (1993), pp. 3-36; Battista Beccaria (s.v. G. Beccaria), Gli studi novaresi sulle Culture Preromane, Romane e Barbariche, in “Novarien.” N. 24 (1994), pp. 225-233. — 74 — A U G U S T A Cenni storici sulla cappella di Ricourt ad Issime Saint Louis, Roi de France Jolanda Stévenin T utte le cappelle dei nostri villaggi di montagna sono espressione e simbolo della religiosità popolare di chi ci ha preceduti. Dedicate di volta in volta alla Vergine Maria, agli Angeli o ai Santi protettori, le cappelle rappresentano un prezioso retaggio di una tradizione plurisecolare. A noi spetta il compito di mantenere viva quest’esperienza di fede, consci che il passato, anche il più remoto, è presente in ciascuno di noi e attorno a noi. Le cappelle sono nella maggior parte dei casi degli exvoto di un singolo benefattore, di una famiglia o di un intero nucleo abitato. Esse furono erette per chiedere la salute del corpo e dello spirito, la fecondità dei pascoli e degli armenti, l’abbondanza dei raccolti, la protezione del villaggio contro i cataclismi di ogni genere. La cappella del Ricourt du milieu, come attestano i documenti, risale al 1663, ed è intitolata a Saint Louis, roi de France (25 agosto). San Luigi (dal germanico Hlodowig, latinizzato in Clodoveus e poi nel francese Louis) fu uno dei maggiori Re capetingi, un governatore energico e celebre per la sua santità, un Re che si propose di vivere e di governare secondo i precetti della religione. Ma, potremmo chiederci come mai fosse stato eletto un personaggio così remoto quale protettore di una cappella in un villaggio sperduto tra i monti della Valle d’Aosta. Verosimilmente perché si trattava del Santo patrono del testatore stesso: infatti la cappella fu eretta per volontà di Louis de feu Jacques Lintin de Issime, il quale, con un testamento del 15 luglio 1661, impegnò i suoi eredi a costruire una cappella al Ricourt du Milieu, intitolata a Notre-Dame du Rosaire. Il testamento, redatto dal notaio Jean Biolley in presenza dei Domp Gabriel Goyet, de Christophle de Joconde Busso, prebstres, de Vuillermin Biolley, de Jean de feu Pierre Ronco et de Mathieu de feu Jacques Busso, du dict Issime, le 15 juillet 1661, debutta con la formula di rito: “Sçachent tous comme ainsy soit qu’il convient à tous mourir et qu’il n’y a chose plus certaine que la mort, ni plus incertaine que l’heure d’icelle”. Il testatore prende quindi a dettare le sue volontà dopo aver fatto il segno della croce e aver raccomandato la sua anima a Dio e alla beata Vergine Maria. L’atto di cui sopra elenca le disposizioni del testatore: • che vengano celebrate quattro messe, di cui una di requiem, al momento della sua sepoltura; • che si offrano un pranzo agli amici e parenti e un’elemosina ai poveri, con luminarie e altre oblazioni; • alla venerabile chiesa parrocchiale di Issime sono legati dodici scudi del ducato di Aosta; • alle tre confraternite, presenti nella parrocchia di Issime, diciotto scudi; • al reverendo parroco un double d’Espagne per le messe gregoriane e des Cinq Playes; • è prevista poi la costruzione di una cappella al Ricourt, là dove si trova le Fort Vieux, • per la suddetta costruzione il legato è di £ 500,00; • alle tre figlie legittime, Mathée, Jeanne, Jacomine, sono assegnati cento ducati ciascuna, oltre a una vacca, una pecora e il corredo e, fino al loro matrimonio, l’usufrutto della maison focale et pelliou, siti a Ricourd du Milieu; • si parla inoltre degli appezzamenti: Chanovrier, les Fresnes, le Mollin Rope dell’alpe Val Freyda (mulino del quale oggi rimangono le fondamenta nei pressi di Stubbi, lungo il corso d’acqua che scende da Valfreida, nel Vallone di San Grato, con la data 1605 scolpita su un architrave di apertura); • tra gli altri beni sono citate due vacche, due coperte e tutti i mobili; • alla moglie Stefana il testatore lega un prato e un campo, un domicilio, un bosco e altri beni siti a Ricourt Dessus; un appezzamento detto les Sirfumine, oltre a due vacche, due coperte, due lenzuola e i mobili; • ai suoi figli Jacques et Jean, sono assegnati la metà di una stalla e cinque stadel, oltre agli altri beni del Ricourt du Milieu. In ottemperanza a quanto disposto dal padre Louis de feu Jacques Lintin, i figli fecero subito edificare una cappella a Ricourt “a la forme du dict légat”, dotandola dell’arredo e dei paramenti necessari e di una messa annuale da celebrarsi le samedi avant le dimanche soit fête du Saint Rosaire, con dotazione di £ 4,00, di cui £1,00 per la celebrazione della messa e il resto per la manutenzione della cappella. In data 24 luglio 1666 il vicario generale J. Rol diede la — 75 — A U G U S T A sua approvazione a tutti gli atti relativi al legato del Louis Lintin e delegò il parroco d’Issime a benedire la cappella in oggetto. Pierre Roncoz et ensuite le sus dit Jean Jacques Linty, pour ses autres biens… laquelle fondation a été faite par Louis de Jacque Lintin l’année 1661, le 15 La cappella incominciò juillet… ad essere citata in occaPlus une autre fondation sione della visita pastorad’une messe annuelle et le del 14 agosto 1693: perpétuelle, fondée en la Dai registri si possono dite chapelle par Jean de desumere alcune inforfeu Louis Lintin, l’année mazioni interessanti: 1682 et le deuxième du …la chapelle di Ricourt, mois d’avril, reçue par le soubs le titre de Saint notaire Louis, ayant trois mesGabriel Albert… ses, bien bastie et bien La susdite chapelle ne ornée, avec tous les parepossède ni argent ni ments, sans cloche. revenus, et qui est enIn un’altra visita pastoratretenue aux frais du le, quella del 14 maggio susdit sieur Jean Jac1700, apprendiamo che: ques Linty, possède un …il y a une messe d’oblicallice avec sa coupe gation pour laquelle le d’argent, dorée au decuré perçoit 15 sols et le dans et le pied de cuidîné […]. vre doré; et une pattène Identico rilievo fu fatto d’argent, dorée en bon nella visita pastorale del état; une chasuble avec 9 giugno 1703, son étole, son maniil 15 luglio 1713 è specipule, la bourse aussi en ficato che la cappella est bon état; trois nappes; entretenue par les hoirs le voile pour le callice; de Jean et Jacques frères purificateur, le tout Cappella di Ricourt. Lintin […]. en bon état; un devant C’è ancora una citazione autel de peau fleuragée della cappella in occasione della visita pastorale del 24 avec les coussins en un simple état; deux burettes en maggio 1727: médiocre état; une autre chapelle au lieu dit Ricort, érigée en l’honneur les cannons, crucifix, la face de l’aube le tout en sufisende Saint Louis, avec l’obligation de deux messes annuelce; un missel, quoique antique, en bon état. les. Le battiment de la ditte chapelle en bon état, après que le dit sieur Linty aura couvert avec de la chaux les fentes In data 7 febbraio 1786, il reverendo Jean-Ange Ronco, qui se trouvent à la voute de la ditte chapelle et refait cerparroco d’Issime, redige, a sua volta, l’ historique della tains coins de corniches autour des murailles de la ditte cappella sulla base dei dati che gli vengono forniti da Jean chapelle… Jacque fils du spectable avocat Linty (Jean Jacques Linty Cette chapelle a au devant, une grande grille, au lieu *1743+1791, figlio dell’avvocato e giudice Jean Pantaleon d’une muraille, sur le toit d’icelle, soit sur la muraille deLinty *1708+1771). vant, existe un petit clocher, dans lequel il y a une cloche Nella relazione si legge tra l’altro: pesant environ huit rups, en très bon état… “La chapelle sous le vocable de Saint Louis, roi de France, Le révérend curé de cette paroisse est obligé, annuellesituée en plaine, dans le village et pertinence de Ricourt ment, d’aller célébrer deux messes: une le jour du patron est distante de la mère église d’un tiers de lieue… d’icelle vingt cinq du mois d’aout, et l’autre le lendemain elle a été dotée, pour son entretien, soit pour la fondation s’il peut…” de la messe, en biens fonds en pré, herbage et vacolle,… Elle est sise sur la pièce appelée légat dont les fins sont Ma, con l’evolversi del tempo, l’antico legato diventa un impegno troppo oneroso per gli eredi. Jacque de feu Jean Louis Linty Rouer et Pierre de feu — 76 — A U G U S T A Così, dopo oltre due nuellement lires 5, secoli dalla fondapour la célébration zione della cappelde deux messes, et la, l’11 aprile 1896, lires 2,50 pour payer il parroco d’Issime, le déjeuner que l’on reverendo Ferdioffre aux deux prênand Collomb, protres… pone al vescovo di Chapelle de Ricourt, Aosta l’estinzione 2 messes annuelles del legato, mediante à la charge des hél’offerta di £ 200,00 ritiers de Jean Jacfatta dalla famiglia ques Linty de feu Linty, mentre le due l’avocat Jean Pantamesse obbligatorie léon… resteranno a carico Au sujet d’une mesdella Fabrique. se chantée, léguée L’obbligo di chiedepar Christillin Philire l’estinzione del lebert à Notre Dame gato pesa per 1/5 su de Pitié… Louis Joseph Linty Au sujet d’un chantal *1822+1904 (figlio à célébrer à la veille del notaio Jean Loude la Toussaint, is Linty *1764+1845, avec un demi-rub fu Jean Jacques à payer à l’Eglise *1743+1791), e per (Cahier de notices 4/5 sugli orfani sur divers legs de del notaio Blaise la paroisse d’Issime Linty *1843+1885, Saint Jacques par le anch’esso discencuré Grat Vesan, andente di Jean Pannée 1915). taleon Linty, rappresentati dal loro All’interno deltutore Jean Jérôme la cappella c’è un Stevenin Türksch, bell’altare barocco entrepreneur (resiin legno policromo dente ad Issime nel del settecento, dovillaggio di Ceresole tato di candelieri - Zinnesili, sposato e carte-gloria. La ad Emilia Linty sovolta e la parte suAltare della cappella del Ricourt. rella di Blaise Linty, periore delle pareti quest’ultimo padre sono decorate. C’è di Évangeline, Octave et Blaise). Il vescovo, Mgr Josepure una tela raffigurante la Madonna con angeli custodi. ph Auguste Duc, risponde positivamente alla richiesta di Le statue rappresentano il Padre Eterno, due angeli con estinzione del legato, stimando la somma offerta giusta tromba, i santi Giacomo, Giovanni Battista e Luigi, re di ed equa. Francia. Nel corso di quest’anno il parroco Don Saverio Dal cahier des comptes de la chapelle de Ricourt risulta Vallochera ha affidato l’incarico per il rifacimento del tetto, quanto segue: e, qualche anno fa, per il restauro dell’altare. l’entrepreneur Stevenin Jean Jérôme, nell’ottobre del 1896 versò la somme de lires 200 (deux cents) pour l’affranchissement du legs, dont lires 160 (4/5) au nom de Fonti: “Le cappelle nella Diocesi di Aosta”, Jean Domaises neveux Évangeline, Octave et Blaise, et lires 40 (1/5) ne, Aosta, 1987. au nom de Louis Linty… A.N.A. Fonds Donnas, Vol.238, notaire Jean BiolSur l’autorisation épiscopale le curé peut prélever anley. — 77 — A U G U S T A Zwian geitala ouf tur dan glétscher Due ragazzi su per il ghiacciaio Ugo Busso Schützerschdschoandsch Ich bsinnemich nöit franh z’joar, wén ich un méin küssinh Arturo, zwian géitala van in d’Kruasi, hennündsch gleit in z’hopt z’goan machun an spazirutu ouf tur Greschoney, un grech unz ouf tur déi alpi. Non mi ricordo l’anno preciso, in cui io con mio cugino Arturo, due ragazzi del villaggio di Crose, ci siamo messi in testa di fare una passeggiata fino a Gressoney e forse fino a quegli alpeggi. Zam hous hewer nöit gseit anner un sua hentsch nündsch gloan goa mi an lljicken rücksackh, dri zwian bisseti, as tricku un an dschakavent. A voart zweck hewer kiat la Corriera unz Greschoney-LaTrinité un van doa hewer kheen gmachut da rechtnunh z’goan ouvurur, grech unzana unz al Rifugio Quintino Sella. A casa non abbiamo detto altro e così ci hanno lasciati andare con un piccolo zaino con, dentro, due merendine, una maglia ed una giacca a vento. Una volta pronti abbiamo preso la Corriera fino a GressoneyLa-Trinité e di lì abbiamo messo in conto di andare più in su, forse fino al Rifugio Quintino Sella. Doa séiwer amoddurut z’vuss im chünuweg unz a Sant’Anna. Noa as poar stünni weg séiwer arrivurut in d’iestun alpu woa d’chü hen aschuan kheen gvoarit ouvurur. Lì ci siamo avviati a piedi sulla mulattiera fino a Sant’Anna. Dopo un paio d’ore di cammino siamo arrivati al primo alpeggio, dove le mucche avevano già transumato più in alto. Wa ischt doa das ischtmer bschit a leida: d’sualu van dan grobbe schu hetdschi anseilt un ich hen nümmi gwist was tun: hinner, Arturo het nöit wélljen goa un ich auch nöit, wa um goa vürsich wi tun? Ma è lì che mi è capitata una brutta sorpresa: la suola di uno scarpone si è staccata ed io non sapevo più che cosa fare. Arturo non voleva tornare indietro ed io neppure ma per proseguire, come potevamo fare? War séin dé kintrut im lieren goade süjen an stuckh éisene voade, un an puentu un, mi dscha chlöpfen mi am stein, hewer glochut d’sualu alli um un um. In déi luchjini, um seilljen d’sualu am schu, hewer gnéddelljit, eis un eis, kchnupfti zam béschte, stückjini éisene voade. Siamo entrati allora nella stalla vuota in cerca di un pezzo di fil di ferro e di un chiodo con cui, battendolo con una pietra, abbiamo bucato la suola tutta intorno. In quei piccoli buchi, per legare la suola allo scarpone abbiamo infilato uno ad uno, annodati alla meglio, pezzetti di fil di ferro. Noa das weerch, hennich gleit amum a, den uppege schu um nündsch amodduru wider il Rifugio. Dopo quel lavoro mi sono di nuovo rimesso quel povero scarpone per avviarci verso il Rifugio. Doa seiwer arrivurut wider oabe, an zéit um essen an bissetu z’nacht um, darnoa, goan machun an schiene schloaf oan noch wissu was war hetti noch muan tun da muarge. Lì siamo arrivati verso sera, in tempo per mangiare un po’ di cena, per poi andare a fare una bella dormita senza sapere ancora che cosa avremmo potuto fare al mattino. Wa krat arwachti an gruass schien sunnu dash het gschéinit ubber allu déi griat un déi glétschara hennünsch nümmi antheen z’goan noch ouvurur grech unz ubber déi zwia spitza dans heissen Castore un Polluce. Un sua hewer toan, génh mi méin uppig sualu un oan khén schnetz un oan as seil. Wa um arrivvurun unz doa musmu passrun ubber an leit un lénh kredsu volli kwiechtini ghoufiti vam win. Wén war wiarti arvallen ubber déi éischi un déi schürfi nöit nuan ündsch spazituru war auch ündsche lebtag wierti glljéivrut vür zéit. Darrum hewernünsch ackordurut z’nündsch hee hért an di zwian örmia van an dschacku un wén eis wierti gvallen Ma appena svegli, un gran bel sole che splendeva su tutte quelle montagne e su quei ghiacciai, non ci ha più trattenuti dall’andare più in su, forse anche su quelle due punte chiamate Castore e Polluce. E così abbiamo fatto, sempre con la mia povera suola e senza nessun bastone e senza una corda. Ma per arrivare fin lì, bisogna passare sopra una brutta e lunga cresta di neve ammucchiata dal vento. Se fossimo precipitati su quei ghiacci e quei dirupi, non solo la nostra passeggiata ma anche la nostra vita sarebbe finita prima del tempo. Perciò ci siamo messi d’accordo di tenerci saldamente alle due maniche di una giacca e se uno fosse caduto da una par- — 78 — A U G U S T A Punta Castore 4.228 m Colle Bettaforca 2.672 m Rif. Quintino Sella 3.585 m Passo del Naso 4.150 m Capanna Gnifetti 3.611 m Punta Felix 4.061 m Il Monte Rosa visto dalla Testa Grigia (Foto Davide Camisasca) abber an séitu dar kredzu z’andra, is auch oan loan dan andren örmil hettidschi gloa vallen in d’andru séitu un sua wiertewer blljibben ghangti ubber d’kredzu. Ich wiss nöit wi z’is wierti kannhen, antweegen war séin arrivurut in di zwia spitza oan arvalle. Sua auch séntsch cheeme hinner unz al Quintino Sella. te della cresta, l’altro, anche lui senza mollare l’altra manica, si sarebbe lasciato cadere dall’altra parte e così saremmo rimasti appesi sopra la cresta. Io non so come sarebbe andata perché siamo arrivati sulle due punte senza precipitare. Così pure tornando indietro fino al Quintino Sella. Wa doa ischt nündsch passrut in z’hopt an anner sturnéréi. Al Rifugio hewer gvunnen an skwoadru genoveisara mi üriu vürer un ejjli wol dineti mi seili, alpenstoka un groapi, das séin sinh amoderriti wider il Liskamm um z’is trevursuru ubber den glètscher das heist “Naso del Lyskamm”, um, zu van a chlémpu zu dar andra, beischurun al Gnifetti. Ma lì ci è passata per la testa un’altra pazzia: al Rifugio abbiamo trovato una squadra di genovesi con la loro guida e tutti ben equipaggiati con corde, piccozze e ramponi che erano incamminati verso il Lyskamm per attraversarlo sul ghiacciaio che si chiama “Il naso del Lyskamm” per poi, da un crepaccio all’altro, scendere alla capanna Gnifetti. Oan müssurun zwurru, noch génh oan sèil, groapi, un schnetz séiwernen kannhen zu. Ich noch génh mi méin sualu génh minnur sicheri. Senza pensarci due volte, ancora sempre senza corda, ramponi e piccozza, li abbiamo seguiti. Io ancora con la mia suola sempre meno sicura. Ischt sua das ubber déi noasu éisch das lljéivrut z’uabruscht an gruass schürfu méini chnau hen gvoan a z’réidugurun, antweegen was mi het noch anthee séin nuame gsinh dei chnüpf vam éisenen voade um un um d’sualu, un dan trit das hen gloan ubber z’éisch déi das séin ündsch gsinh vür. E così che su quel naso che finiva sopra un grosso precipizio le mie ginocchia incominciavano a tremare, perché ciò che mi teneva ancora su erano solo quei nodi del fil di ferro intorno alla suola e la traccia lasciata sul ghiaccio da quelli che ci camminavano davanti . Van la Gnifetti z’grünn, wol génh mi méin uppig sualu, séiwer kannhen ambri wi gémtschi um nöit varlljiren d’ létschtun Corriera vür Eischeme. Dalla Gnifetti al piano, ancora sempre con la mia povera suola, siamo scesi come camosci per non perdere l’ultima Corriera per Issime. Wa geit oan see, das zam hous hewer nöit zélt alz was ich bsinne sua wol noa sechzg joar: allu déi sturnéréi das war hen ghousut in déi zwian toaga wa das ündsche verousegen Lljibi Gott hennündsch nöit toan z’zalle mi ündschem junnhe lebtag wa das war séimu noch schuldig. Non occorre dire che a casa non abbiamo raccontato tutto ciò che ricordo così bene anche dopo sessant’anni: tutte le pazzie che in quei due giorni abbiamo combinato senza che il nostro straordinario Buon Dio non ci ha fatto pagare con la nostra giovane vita, ma di cui gli siamo rimasti ancora in debito. — 79 — A U G U S T A Cornici artigianali e stampe dell’iconografia popolare nell’area walser della valle d’Aosta e del Piemonte orientale: alcune peculiarità Guido Cavalli Premesse S.A.R. la Regina Margherita di Savoia Litografia acquerellata di Carlo Verdoni di Torino. Cornice in noce con doppio filetto in bosso L e vicende della colonizzazione di varie località del Piemonte e della valle d’Aosta da parte dei walser, sono state studiate e descritte da molti autorevoli studiosi; anche i dialetti alemanni, le particolari abitazioni rurali, l’alimentazione, gli usi e costumi, gli utensili, i proverbi e i rapporti con le popolazioni francofone e con i feudatari, sono stati oggetto di ampi studi, favoriti da svariate fondazioni culturali, da riviste e bollettini a testimonianza dell’interesse sull’argomento. Questa breve nota vuole trattare un aspetto abbastanza marginale e non del tutto peculiare del mondo walser, cioè l’iconografia religiosa e non, su supporto cartaceo, che a partire dall’inizio dell’800’ raggiunge praticamente tutte le case, le chiese, le cappelle, i santuari del mondo contadino rurale, in pianura come in montagna. Fino alla metà del 600’ le immagini a disposizione del popolo erano esclusivamente collettive, cioè gli affreschi delle chiese, i quadri dei santuari, con l’eccezione delle immaginette dei breviari. Già almeno un secolo prima cominciano a comparire matrici costruite su legni incisi, quindi lastre di rame, che consentirono un grande incremento delle tirature con un aumento dei formati; nascono così le prime stampe che anche il popolo poteva acquistare, incorniciare ed appendere al muro, a protezione della casa, della famiglia, del raccolto. È con l’avvento della litografia, all’inizio dell’800’ che la diffusione delle immagini diviene capillare per l’abbassarsi dei costi e per l’aumento delle tirature. Nascono in tutta Europa centinaia di stabilimenti litografici che fanno a gara per conquistare il mercato proponendo una sterminata offerta di soggetti realizzati con tecniche assai variabili. Venditori itineranti percorrono tutto il territorio, in botteghe, negozi, santuari, feste patronali, vengono vendute immagini di santi di ogni genere, immagini ingenue, molto colorate, che spesso semplificano il bene e il male, il premio e il castigo. Il soggetto religioso, anche se prevalente, non è esclusivo; si acquistano immagini di sovrani, allegorie, scene di caccia, di battaglie famose, di eventi importati legati al risorgimento, allo statuto e tanto altro ancora. Nella valle di Gressoney sono molto frequenti le immagini della regina Margherita di Savoia, che, come noto, frequentava ed amava questa valle. Dopo la metà dell’800’ compare una nuova tecnica, cioè la cromolitografia che di fatto soppianta, in una ventina d’anni la litografia acquerellata tradizionale, che, fino a quel momento era la tipologia più venduta. Anche le stampe realizza- te con questa tecnica godono di un grande successo, almeno fino alla seconda guerra mondiale, quando la fotografia, quindi le moderne tecnologie segneranno la fine della stampa popolare. Esempio di cromolitografia a soggetto risorgimentale, prodotta a Lìmburgo (città fra Bonn e Francoforte) intorno al 1880, proveniente dalla valle di Gressoney — 80 — A U G U S T A Naturalmente queste stampe, per essere appese avevano bisogno di una cornice che poteva essere già venduta con la stampa, oppure costruita su misura, dallo stesso acquirente o da un falegname. Anche sulle cornici esiste una infinita varietà che comprende pezzi dozzinali, ripetitivi, realizzati con legni poveri e pezzi estremamente complessi, filettati, intarsiati, cassonati di grande bellezza, che andavano a valorizzare al massimo la stampa. Possiamo affermare che nel mondo walser le cornici erano molto spesso di questo secondo tipo. Zone di produzione delle litografie Senza scendere troppo nel dettaglio, possiamo affermare che a metà 800’ le litografie più presenti nell’area nord occidentale d’Italia sono di produzione Torinese, Francese e Tedesca; cito tra gli altri Doyen, Verdoni, Cordey e Briola di Torino, Turgis e Agustoni di Parigi, Pellerin di Epinal, May di Francoforte. Più raramente incontriamo stampe di Bassano Veneto, ma quasi sempre cromolitografie, pezzi stampati a Milano da Luigi Costantini e da Vallardi, ma quasi sempre nell’area orientale del Piemonte. val Sesia e Re nel Verbano Cusio Ossola per la valle Vigezzo, Formazza, l’ossolano e la valle Anzasca. Fra i santuari “minori” ricordiamo quello di Boden a Ornavasso e la Madonna della Guardia a Perloz dove la popolazione della valle di Gressoney (alemanna e non ) partecipava ad un’annuale processione. Litografia acquerellata di Verdoni Torino. Immagine della madonna del sangue proveniente dal Piemonte orientale che reca la scritta: “Il vero ritratto della sacralissima vergine M. Miracolosa nella valle Vigezzo in Re” I santuari, gli eventi religiosi, le commemorazioni, nelle litografie Come abbiamo visto le stampe venivano acquistate da venditori itineranti, presso botteghe, feste patronali e santuari. I santuari principali, frequentati da popolazioni walser in area piemontese, erano sicuramente tre: Oropa presso Biella, per la valle di Gressoney e di Ayas, Boca nel novarese per la Litografia acquerellata di Verdoni Torino, proveniente dal Piemonte orientale che reca la scritta :” Vero ritratto del SS. Crocifisso che si venera nei boschi di Boca”. Litografia acquerellata di Verdoni Torino. Immagine della madonna di Oropa proveniente da Fontainemore. Certamente i walser dell’ossolano si recavano al santuario di Einsiedeln nella Svizzera centrale e ad Altotting in Baviera, entrambi dedicati a Madonne nere. In Italia venivano sicu- — 81 — A U G U S T A ramente frequentati, ma non in modo peculiare per la popolazione walser, la Consolata a Torino, Caravaggio presso Bergamo, quindi Loreto e, in Francia, Lourdes. Esistevano anche molti eventi religiosi non legati a santuari; riferiamo, a titolo di esempio, dell’ annuale processione dell’immacolata concezione che si svolgeva a Ceppomorelli presso Macugnaga e che viene celebrata con la litografia che presentiamo. Esistevano probabilmente santuari e feste anche in Svizzera e Germania alle quali, compatibilmente con lo stato dei valichi, i walser che si erano stabiliti in Piemonte orientale e valle d’Aosta, partecipavano. Litografia in bianco e nero commemorativa, prodotta da Doyen di Torino. Rappresenta la Madonna su una nuvola, con le mani aperte a simboleggiare l’erogazione di grazie. Sullo sfondo un cerchio di raggi luminosi con la scritta “Marie Mère des Graces priez pour nous”. La dedica recita: “Dediè a Monsigneour Jourdain Eveque d’Aoste e comte. Par l’Abbè In. Pre. Goyet Curè d’Issime St. Michel”. Frequentissimi erano i certificati di battesimo, prima comunione, cresima, che naturalmente in area walser erano in tedesco come quello qui sotto riportato, relativo alla prima comunione di una bambina della famiglia Menabrea di Gressoney-La-Trinité. La beata vergine Maria Immacolata. Di Agustoni Parigi. Litografia acquerellata. La stampa riporta in italiano : effige della B. V. M. Immacolata che si venera nel luogo di Ceppomorelli ove si porta processionalmente l’ultima domenica del mese di giugno”. Il priore Benemerito Giovanni Jachetti figlio del fu Antonio Maria di Mondelli 1844. Le botteghe litografiche realizzavano stampe per particolari eventi, come la seguente stampa proveniente da IssimeGaby. Questa litografia, con didascalie in francese, dimostra come fosse facile ordinare allo stampatore, in questo secondo caso a Torino, una particolare stampa dedicata alla commemorazione di un personaggio, di un evento, come una processione. Molte stamperie di Aosta, del Canavese e del Biellese, consegnavano alle parrocchie litografie di piccolo formato commemorative di feste di Natale, Pasqua, souvenir della Mission, con preghiere e indulgenze, spesso a firma del parroco, per esempio, nell’area di Issime, verso i primi del 900’, Vesan cure. Certificato di prima comunione datato 25 maggio 1848 di Maria Luise Menabrea a firma di Joseph Lateltin, proveniente da Gressoney. La litografia è stata prodotta ad Altkirch nell’alto Reno nella regione dell’Alsazia — 82 — A U G U S T A I soggetti In tutto il nord-ovest, compresa l’area walser, sono diffusissime le litografie acquerellate di produzione torinese con una grande prevalenza di crocifissioni, sacri cuori di Gesù e Maria, svariate immagini di Madonne, numerosissimi santi patroni (a Issime s. Giacomo, a Gaby s. Michele, poi s. Antonio abate a Fontainemore etc.). Molto frequente S. Giovanni Battista, patrono di Gressoney, come del resto della città di Torino. provengono. Ribadiamo che queste litografie acquerellate erano diffusissime in tutte le case, le chiese, le cappelle i santuari, dove ancor oggi si possono osservare. Litografia acquarellata proveniente esattamente dalla frazione Champriond nel comuniedi Issime, che reca la scritta : Druck u verlag v Ed Gust. May in Frankfurt a M. • Geheiligles herz Jesus (54 • Geheiligles herz Maria (55) • Sacre coeur de Jesus •The sacred heart of Chris • The holy heart of virgin Mary. Scritto a penna, su entrambe le stampe, Labaz Jean Jaques Ambroise 1880 Il numero di sante, vergini martiri, santi, beati è quasi infinito, ma anche scene bibliche, commemorazioni di prelati, famiglie reali. Il quadro non cambia con le cromolitografie, che confermano l’iconografia precedentemente descritta. Riportiamo, a titolo di esempio, le immagini di alcuni santi patroni dei comuni della valle del Lys, da dove i quadri Litografia acquerellata prodotta da Verdoni di Torino, proveniente da Issime che ritrae il S. patrono S. Giacomo — 83 — Litografia acquerellata attribuita Verdoni di Torino proveniente da Gressoney St. Jean Due litografie acquerellate prodotte da Cordey di Torino che rappresentano S. Michele arcangelo, patrono di Gaby e S. Antonio abate, patrono di Fontainemore, provenienti da questi due paesi A U G U S T A Peculiarità dell’area walser Certamente dalla valle di Gressoney, ma ancor più nell’Ossolano e dalle valli Formazza, Anzasca, Vigezzo e dai comuni walser della val Sesia, proviene un rilevante numero di stampe tedesche; erano piuttosto diffuse anche in ambito non walser, ma qui la frequenza dei ritrovamenti è di molto maggiore, soprattutto per le stampe di Gustav May di Francoforte, ma anche di Felgener e Steiner di Berlino. Da notare che queste stampe nella valle di Gressoney, sono presenti anche a Gaby e Fontainemore, comuni francofoni, ma ciò si può facilmente spiegare con un “rimescolamento” dovuto a matrimoni, eredità, trasferimenti. È del tutto normale che chi parlava tedesco preferisse un’immagine con una didascalia scritta in quella lingua, anche se spesso (in particolare Gustav May) proponeva stampe sottotitolate in 4 o anche 5 lingue (vedi sopra). Questa bottega di Francoforte produceva, tra l’altro, un particolare tipo di stampa fatta con carta compressa a formare una cornice ovale, poi dorata, nella quale è iscritta l’immagine del santo, a volte acquerellata. Litografie (Sacro cuore di Maria e Madonna di Czestochowska) con cornici dorate su carta compressa di Gustav May di Francoforte dalla valle di Gressoney Anche le botteghe berlinesi realizzano prodotti molto elaborati, probabilmente costosi, che dovevano essere molto richieste anche dai clienti walser. Non sappiamo se queste stampe venissero acquistate in occasione di viaggi oltralpe oppure da venditori itineranti L’uso dell’oro e del rilievo è frequente nelle stampe tedesche. Sono qui riprodotte tre di queste stampe, di piccolo formato, due provenienti dall’area di Macugnaga (il santuario Einsiedeln e S. Anna) e una dalla valle di Gressoney (S. Giovanni). Si tratta, in questo caso, di incisioni su rame, poi lavorate a rilievo, quindi dorate in parte e risalenti alla metà del 700’. Le cornici Particolare della litografia acquarellata con vistose dorature, che reca la scritta : “ Druck u. Verlag von A. Felgner Berlin PAPST PIUS IX Erinnerung an das 25 jahrige Papstjubilaum Papst pius des ix in Rom Am 16 Juni 1871” Dalla val d’Ossola Le cornici ritrovate in area walser sono quasi sempre di ottima qualità, con alcune eccellenze, per la realizzazione di filetti e intarsi e per l’uso quasi esclusivo di legni pregiati come noce e ciliegio, a testimonianza dell’abilità degli artigiani e della considerazione che essi avevano per l’immagine sacra e per la propria casa. Sappiamo che quasi in ogni frazione della valle di Gressoney esistevano laboratori di falegnameria, gestiti da abilissimi artigiani abituati da secoli a costruire con il legno case, stadel, utensili di ogni genere. Nel vallone di S. Grato, per esempio, la popolazione che vi abitava stabilmente, doveva tener conto delle condizioni climatiche invernali che spesso portavano all’isolamento per alcuni mesi. Esistevano quindi botteghe artigiane in grado — 84 — A U G U S T A Tre incisioni acquerellate e dorate di S. Anna, S. Giovanni, contornati da otto altri santi, e del santuario di Einsiedeln, realizzata con la stessa tecnica di sostenere la manutenzione degli edifici, a provvedere agli utensili e a tutto ciò che serviva agli abitanti. L’inverno favoriva anche le attività artigianali, come la costruzione di nuovi utensili, giocattoli per i bambini e, appunto, cornici. I falegnami sceglievano con grande sapienza i legni, selezionavano i colori, le vene giuste, sia per l’estetica sia per assicurare la durata nel tempo. La stagionatura era fondamentale per evitare il tarlo specie negli ambienti umidi delle case contadine. Raramente venivano usati chiodi per connettere le Esempio di cornice modanata in noce con doppio filetto in bosso e filetto centrale realizzato con piccoli rombi alternati in noce chiaro e noce scuro. Provenienza Fontainemore assicelle, ma incastri perfetti, colla animale, chiavette e caviglie di legno. L’artigiano creava decorazioni a filetto (spesso in legno di bosso) e altri intarsi servendosi di quadratini di legni di colori diversi, in genere ciliegio, noce scuro, acero e larice, al fine di ottenere effetti molto gradevoli che valorizzavano sia la cornice che la stampa che essa conteneva. Al contrario delle cornici “industriali” frequenti in pianura, quelle costruite in montagna e in particolare nell’area walser, mostrano un buono stato di conservazione e di stabilità proprio perché i materiali usati erano di alta qualità. Nella valle di Gressoney, in particolare nella parte centrale della valle cioè fra Issime (che nell’800’ comprendeva anche Gaby) e Fontainemore erano molto presenti alberi di noce, che fornivano il materiale migliore per la costruzione di mobili di ogni genere e anche di ottime cornici. Risalendo la valle altrettanto abili falegnami lavoravano in prevalenza conifere come larice e cirmolo, ma anche noce e ciliegio di importazione. Molti lavori sono stati pubblicati sulla casa walser, sia sull’architettura, sia per quanto riguarda gli interni, gli utensili, le stufe, l’utilizzo degli ambienti e tanto altro. I quadri dei santi, le foto degli antenati, piccole statue della Madonna, andavano spesso a costituire un angolo “devozionale” della casa, dove pregare con la famiglia unita, quando magari la neve non consentiva di scendere in paese per la messa domenicale. Le cornici fornivano un non trascurabile contributo all’arredamento anche di case rurali di una popolazione che, nonostante i bisogni primari, aveva una profonda fede e manifestava una non comune attenzione estetica e funzionale verso la propria casa. — 85 — A U G U S T A Il relitto di Issime. Una storia dimenticata Q Marco Soggetto uesta è la storia di una notte di tempesta, di un volo decollato in tempo di guerra. La vicenda di una complessa e disperata missione, nonché inevitabilmente degli uomini che vi hanno preso parte e che, in gran numero, hanno perso la vita. Un racconto che attraversa indifferente lo spazio ed i decenni, collegandosi alle vite di figli e nipoti, al dolore ed all’oblio, al ricordo. Una storia antica e dimenticata, un mistero custodito dalla montagna e nascosto agli occhi degli uomini, al ricordo delle generazioni: una presenza silenziosa appostata per lunghi anni ai margini della mia consapevolezza, un problema che da sempre ritenevo difficilmente risolvibile. Già, poiché si tratta anche della mia storia, della narrazione di una lunga caccia impossibile e del tutto ipotetica, improvvisamente virata - in una radiosa giornata estiva - su basi terribilmente concrete. A mia volta, ho spesso rischiato di smarrire la traccia, di perdere la rotta, come quegli sfortunati equipaggi dispersi in una notte di tempesta. La ricerca cui mi sono dedicato con passione da metà agosto 2009 a questa primavera del 2010 non era facilmente riconducibile a stereotipate categorie d’indagine; non potevo riunire i sospetti in una stanza per smascherare il colpevole, non c’erano antichi templi con geroglifici da identificare, né dati catastali da consultare. Da sempre persuaso che, da qualche parte, archivi e volumi custodissero la risposta ad ogni domanda, mi trovavo ora impossibilitato a chiedere consiglio: non vi erano docenti o saggi in grado di raccontarmi cosa successe in una notte di quasi sette decenni or sono, dunque avrei dovuto conquistare ogni indizio, ogni minuscola ed esile certezza, con tenacia e determinazione. Ad essere sincero, non osavo veramente credere che le montagne mi avrebbero messo a parte del perduto segreto che sfioravo da anni, negli incontri con pastori e bracconieri, anziani contadini ed alpigiani. Poi, senza soluzione di continuità, trovai ciò che da lunghi anni stavo sognando e cercando di localizzare, e non è impreciso affermare che la mia vita passò su frequenze più alte. Non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato, mi ripetevo in quel giorno di metà agosto in cui la mia mente sovraeccitata trovava spazio solo per il più grande stupore, per la curiosità, per qualche reminescenza evangelica. Questo articolo nacque infatti il giorno di Ferragosto 2009, pur avendo radici negli anni precedenti: è dunque necessario cominciare dall’inizio, tornando a quelle lunghe estati di sole, vento e montagna, punteggiate da saltuari cenni ad un obliato mistero durante alcune escursioni. Non ero certo l’unico depositario di questa complicata e ramificata leggenda, anzi, ne parlavano in molti. Dal cielo di Challand, dal cielo di Gaby o forse Issime, era caduto qualcosa: l’anno del disastro, la provenienza e la natura del misterioso velivolo erano avvolte da nebulose cortine di supposizioni e citazioni “per sentito dire”, di reiterati abbellimenti che variavano a seconda del mio interlocutore e del suo desiderio di compiacere il mio interesse. Ogni volta, curiose circostanze si ripetevano: non ero mai io a far cenno al mistero, e quasi mai le voci avevano dettagli in comune. Il paradiso per un cultore di leggende, l’inferno per uno storico alla ricerca di un concreto relitto, schiantatosi in un preciso spazio, esprimibile in solidi metri quadrati ed in una quota, graziosamente riassumibile in coordinate GPS. Si sarebbe trattato di un aereo tedesco, americano, italiano; era caduto subito dopo la Seconda guerra mondiale, come mi giurarono nel 2006 alcuni pastori intenti a ripulire il letto di un canale irriguo, lieti di poter fare una pausa sotto il sole a picco. Nient’affatto, l’aereo si era schiantato durante il conflitto, era stato abbattuto. Nessuno aveva mai trovato l’equipaggio, oppure, il pilota era morto ai comandi e qualcuno probabilmente l’aveva sepolto là, nel Lys. Le voci divergevano in modo ancor più sensazionale quando si entrava nel dettaglio: che fosse caduto mentre Hitler e Mussolini spadroneggiavano in Europa oppure quando Berlino era ormai ridotta ad un ammasso di macerie, di che aereo si trattava? Avendo sempre annotato le risposte in alcuni taccuini, abituato a prender nota di quote, direzioni e dislivelli durante la stesura del manuale Le Vette della Val d’Ayas, posso ora rendervi idea della disparità di aneddoti in merito: si trattava di un caccia americano, un grande caccia argenteo. No, si era schiantato solo un piccolo ricognitore tedesco, con alcune persone a bordo, del tipo con cui la Wehrmacht teneva d’occhio le montagne alla ricerca delle formazioni partigiane; uno Storch, dunque. Nient’affatto, era una “fortezza” americana ad esser caduta sulle rocce, frammentandosi nell’impatto in pezzi talmente minuti da risultare oggi indistinguibili dal paesaggio: un enorme bombardiere, una di quelle infinite fortezze volanti viste nel cielo di Brusson dalla giovanissima Rosetta Loy nelle notti estive del 1943 ed immortalate nel romanzo Ahi, Paloma. Mai mi ero confrontato con qualcosa di tanto etereo, in una ricerca basata su voci talmente altalenanti e, in ultima analisi, inconcludenti. Io che avevo creato un ampio sito in cui montagna, storia, geologia e toponomastica concorrevano nel creare una precisa immagine di Ayas, io che avevo pubblicato un manuale progettato per condurre le persone in montagna con grande precisione, mi trovavo a fronteggiare qualcosa di sfuggente. Imprendibile. Nelle ore di peggior sconforto, ricordavo come gli dèi usassero inorgoglire coloro che volevano distruggere: la mia passione per le sfide mi teneva avvinto a qualcosa di impossibile. La mia Balena Bianca. Nei primi giorni di maggio 2009 avevo trascorso sei monotone ore nell’aeroporto di Napoli Capodichino, armato di computer e tempo da far passare. Trovata una comoda postazione in uno dei bar che punteggiano quel colossale teorema di cemento, vetro ed acciaio, avevo compilato una dettagliata tabella in merito alle segnalazioni dell’aereo: incrociando i dati avrei potuto appressarmi ad una verità condivisa alla base delle tante leggende sviluppatesi negli anni. La tabella rivelò la più grande differenza nel definire la naziona- — 86 — A U G U S T A L’alpe di Vlu superiore ed un tratto della salita, non lontano dal luogo di ritrovamento del relitto. lità, la tipologia dell’aereo e l’anno del disastro, indicando con insistenza una collocazione geografica relativamente circoscritta. Un’area irregolare, estesa dalla Becca Torché al Colle di Chasten, al soprastante Nery; una zona selvaggia e meravigliosa, generalmente poco frequentata e spesso ignorata dalla bibliografia. Si trattava, naturalmente, di un approccio scarsamente raffinato ed efficiente: non forniva alcuna certezza circa la presenza del relitto in quell’area, né offriva un punto preciso, un alpeggio o un lago, intorno a cui circoscrivere le ricerche. Avrei potuto vantare maggiori speranze nel cercare il mitico tesoro custodito dal demonio ai piedi della Torché, nel cuore del perduto ghiacciaio. Sarebbe bastato presentarmi a domicilio la notte di Natale, armato di pala e di pensieri felici. Nel settembre 1985 Robert Ballard aveva triangolato la posizione del RMS Titanic partendo dai messaggi di soccorso inviati dalla disgraziata nave nel 1912, nonché dai diari di bordo di quanti ne avevano soccorso i naufraghi; sfortunatamente, non disponevo dei suoi mezzi per proseguire la ricerca. Non potevo certo contare sull’equivalente di sonar a scansione laterale, magnetometri e robot a controllo remoto; nel migliore dei casi, disponevo di un binocolo e di una bussola. Avevo salito più volte il Monte Nery e la fiera Torché, riparandone anche la croce di vetta, ed ero stato nel Vallone di Chasten: tuttavia un uomo, su terreno accidentato, può nel migliore dei casi controllare un tratto di terreno esteso per qualche metro ai propri lati, lungo la via di salita. La mia “copertura” dell’area grossolanamente circoscritta dalle brevi interviste ai pastori ed ai cacciatori, dunque, era assolutamente insufficiente; intorno a me si aprivano disarmanti estensioni di roccia e boschi, macchie di ginepri e rododendri, valloni e baratri, prati d’alta quota e nevai, per non parlare della dimensione verticale. Le possenti cime in questione elevano pendii e pareti per centinaia e centinaia di metri, rendendo impossibile giudicare cosa giaccia alla base di un versante, cosa sia stato catturato e sepolto da un cono detritico, da un fronte franoso, da una pietraia ormai interrata. Il Nery, visto da nord e dalla vetta della Soleron ad ovest, pare una turrita corona di selvagge guglie nere, tra cui la lama della vetta spicca eterea, in distanza, irraggiungibile. Con il passare degli anni la mia ricerca aveva conosciuto un andamento altalenante, simile agli strascichi mai sopiti di una vecchia relazione sentimentale: lunghi periodi di quiescenza in cui la caccia sembrava stagnare, improvvisi ritorni di fiamma e d’interesse allorquando una nuova testimonianza, l’ennesimo discorso riportato, tornavano a far cenno al relitto. Ed allora ripartiva la paziente ricerca della fonte primaria, secondo i rigorosi criteri appresi nei corsi di laurea: telefonate ed appuntamenti, preghiere e viaggi per vicoli e locali, fino a scoprire che il padre, il nonno, l’anziano vicino citato come colui che ha visto il relitto aveva in realtà tramandato una vicenda sentita raccontare, a sua volta, decine di anni or sono. Qualcosa sogghignava in lontananza ed il mistero tornava ad allontanarsi, nel vago sapore di una continua, eterna sconfitta. Non potevo onestamente definirmi ossessionato dal relitto, visti i lunghi periodi in cui nessuna nuova voce giungeva alle mie orecchie; ero invece profondamente frustrato dalla mia incapacità di scoprire un fondo di verità, una certezza basilare. Come era possibile, mi chiedevo, che tante persone di diverse età e background culturale, nelle valli di Ayas e del Lys, conoscessero questa leggenda se non fosse stata reale? Come era possibile che un aereo precipitasse in terre popolate sin dalla più remota preistoria, sin dall’epoca dei Salassi e dei Romani, senza diventare parte fondamentale ed indimenticabile della storia locale? Non si trattava di un pur grave incidente stradale, di un episodio della guerra partigiana o di un incendio, tragedie purtroppo conosciute da tante valli. Era qualcosa di forestiero, di alieno ed estraneo, che avrebbe dovuto lasciar traccia. Da anni collezionavo vecchi libri e manuali, ed avevo ormai riunito una nutrita biblioteca “di montagna”, analizzata e divulgata nella sezione Recensioni del mio sito, Varasc.it. Tuttavia non avevo trovato alcun cenno ad un incidente aereo nella bassa Ayas o nella contigua Valle del Lys. Nessun articolo, capitolo, nota a pié di pagina o riferimento apocrifo. Niente. Per anni, dunque, vegliai pazientemente una traccia troppo spesso raffreddata, nell’attesa di nuovi sviluppi: ero ben conscio che il mistero restava irrisolto e che, forse, non avrei mai conosciuto la verità. Nonostante la mia passione per la storia, per la cultura alpina e per le montagne, nonostante le ore spese su pietraie e ripidi declivi, nonostante l’impressionante novero di strumenti che la moderna tecnologia dispiegava sussiegosa ai miei piedi - accesso istantaneo ad Internet, tracciati GPS e fo- — 87 — A U G U S T A tografia digitale, per cominciare - dovevo riconoscere di essere appena oltre il punto di partenza: qualcosa era caduto, ma non era destino ch’io sapessi dove e quando. Il 15 agosto 2009, invece, trascorsi ore d’indescrivibile emozione sul luogo del disastro: uno scabroso, anonimo pendio in fortissima pendenza, talmente lontano da qualsiasi insediamento stagionale, villaggio e sentiero da non avere nemmeno un toponimo. Una landa di rocce a tal punto simile ai flutti di una cascata cristallizzatasi per magia, da provocare inquiete vertigini mentali, la visione laterale sempre persuasa di scorgere l’improvviso fluire della pietra, delle lastre. Anche quel momento di gioia e di incredulo stupore possedeva un antefatto. Il 21 agosto del 2008, salendo al Monte Nery da Tollegnaz, avevo incontrato ben oltre l’alpe Pera Picolla alcuni simpatici e capaci escursionisti, diretti a loro volta verso la lontana vetta: senza saperne il motivo avevo accennato alla mia lunga ricerca. Il risultato, dopo un istante di incredulo silenzio, era stata una esplosione di parole: i quattro amici avevano incontrato strani rottami arrugginiti, tempo prima, senza aver la minima idea della loro origine. Da quell’istante concesso dal Nery, gli avvenimenti erano entrati in una scansione temporale più rapida. In seguito al ritrovamento mi immersi nei notevoli problemi che minacciavano la mia ricerca: i rottami erano minuti e rovinati, apparentemente fusi da un notevole calore e danneggiati da decenni di frane, smottamenti, valanghe e disgeli. Come identificare l’aereo? Come giungere, finalmente, a quella sfuggente verità che agognavo da tanti anni? Prima di rendermi conto di cosa stessi effettivamente iniziando, mi ritrovai perso nei complicati percorsi alla base di un nuovo lavoro, di un nuovo libro: non già un testo di storia, bensì il racconto della mia ricerca, quasi un diario di bordo. Il progredire della ricerca non era scandito dalle pagine accumulate, bensì dalle scoperte, dagli errori, dalle conferme: mesi di paziente studio, di collaborazione con esperti internazionali, quali archeologi aeronautici, archivisti e storici, periti, curatori museali, meccanici e militari, avvocati e giornalisti, docenti di familiar history e di genealogia. Dall’Italia al Regno Unito, dal Canada all’Australia, dalla Germania alla Francia, alla Nuova Zelanda, agli Stati Uniti: mesi trascorsi a rincorrere archivi ed informazioni, a confrontare date e possibilità, sempre sul filo del rasoio, poiché il più piccolo intoppo - il raffreddarsi di una traccia, l’opinione divergente di due studiosi - avrebbero potuto far naufragare la mia speranza. Oggi è domenica 11 aprile 2010. Bruciato dal sole valdostano di ieri, sepolto sotto le cortine di pioggia di questa mattina, penso al mio lavoro: un libro nato insieme alla ricerca, un racconto che, senza mai averlo pianificato, coinvolge attivamente il lettore in ogni singolo passo, in ogni conquista, errore, rettifica, scoperta. Ho creduto all’ipotesi di un preciso bombardiere, l’ho messa alla prova e quindi scartata in base a fonti e prove contrarie; ho scoperto il vero aereo precipitato tanti anni fa dal cielo della Bassa Valle, ne ho inseguito le vicende, conoscendo passo dopo passo la più incredibile delle storie. Ho incontrato i testimoni sopravvissuti a quella insensata missione di guerra, ne ho analizzato i racconti; ho ricostruito la rotta dell’incursione e letto le parole stizzite ed incredule dei rapporti ufficiali, la rabbia Un reperto recuperato non lontano dal luogo dello schianto. dei piloti tornati per miracolo alle basi. Ho vissuto per questa caccia e, quasi a volermi premiare per tanta dedizione, la sorte ha concesso ch’io individuassi le famiglie di alcuni membri dell’equipaggio. Ciò ha dato vita a più articoli su quotidiani stranieri, innescando una notevole partecipazione del pubblico e, in ultima analisi, consentendomi di incontrare altri preziosi testimoni, altri parenti delle vittime. Il libro è attualmente in fase di revisione ed impaginazione, mentre inizia la ricerca di un editore interessato alla pubblicazione; l’incontro con l’Associazione Augusta mi ha suggerito l’idea di questo articolo, in modo da chiedere l’aiuto degli abitanti di Issime e della Valle del Lys, invitando chiunque ricordasse gli eventi successivi allo schianto a contattarmi, a condividere le sue memorie, affinando e migliorando la mia narrazione. Malgrado le ricerche, difatti, le domande sono tante. Chi ricorda il momento dello schianto? Chi vide, negli anni immediatamente successivi al disastro, il relitto? Esistono fotografie o reperti del velivolo ancora custoditi da qualche famiglia? Lo scopo ultimo di questa mia indagine è semplice, un senso di bisogno con il quale ho mutamente convissuto per i lunghi mesi autunnali ed invernali: supplire ad una grave lacuna nella storia e nella memoria, non solo a livello locale, bensì internazionale. Portare alle famiglie dei caduti la verità su quanto successe in una spietata notte di guerra, fare in modo che un evento così drammatico ed insolito non possa mai più venire dimenticato. E forse, un giorno, racchiudere in una teca tutti i reperti ancora disponibili di quel vecchio naufragio: uno spazio che ricostruisca in più lingue la storia di questo volo sfortunato e della sua perduta gente, che riunisca dopo quasi sette decenni i frammenti gelosamente custoditi dalla montagna, colmando infine il vuoto nella storia recente di una comunità. Non solo una lapide destinata a screpolarsi in qualche decennio, bensì un ricordo vivo, accessibile, potenziale punto di partenza per ulteriori studi. Rivolgo questo appello a tutti i lettori de Augusta, storica e bella rivista che per tanti anni ha raccontato in modo così sobrio ed approfondito l’anima, la memoria e l’identità di un popolo e di una terra dalla struggevole bellezza, affinché il segreto che solo io ho portato dentro, per lunghi mesi, possa finalmente essere condiviso con tutti. E perché la vita e le gesta di quei giovani aviatori ingoiati da una notte di guerra, ormai obliati da tutti, possano tornare a rivivere nel pieno di un’epoca, finalmente, di pace. — 88 — A U G U S T A La bela mata dal Capio La Dama Bianca del Capio Rolando Balestroni I caciadur da campel cugnusevu bogn tuti i böc dal muntagni nduva s’ascundevu al camusi. Al Capio l’era ‘na montagna piena da vösi besti, ma l’era un post malacià da rivé e nimò un caciadur l’era bon da purtès fin anlò a cerché ‘l salvaig. Cuntevu che ‘na vota d’autùn al Capio l’era scundu nt’la nebia e usì al caciadur, sicur da vësa nuta vist, s’anviarà pion pion anver la culma d’la montagna par truvé un bel camùs. ‘na sperla d’sul an mez la nebia ag fa vögar, an ciuma la montagna, ‘na mata vistìa ad bianc, bela, ma usì bela da to’ ‘l fià. As muveiva ligèira c’la pareva vulè ‘ntl’aria. Al giùvu (giovane) al panseva da sugnè, ma al peiva nuta stè ferm e sù ‘d cursa anver la bela mata. Par la prèsa da rivè svelt pröva vësa maraviglia, al puurìn però al ruvìna lung la scarpàa d’la muntagna. Ad primavèira, via la fioca, as po’ vögar gni giù dal Capio crös piciu d’aiva bianca; in al lacrimi d’la bela mata c’la piang purqué l’ha pardù l’amur. I cacciatori di Campello conoscevano ogni anfratto delle montagne dove si nascondevano i camosci. Il Capio era quella dove i camosci si trovavano in abbondanza e, proprio per le sue pareti impervie, solo un cacciatore aveva l’ardire di arrampicarsi alla ricerca del selvatico. Un giorno d’autunno il Capio era avvolto da una nebbiolina e il cacciatore, certo di non essere visto, si inerpicò con prudenza lungo un canalone dove certamente avrebbe trovato un bel camoscio. Ad un tratto un raggio di sole si fece strada tra la nebbia e, alzando gli occhi verso la cima, il cacciatore vide una donna bionda vestita di bianco, d’una bellezza divina. Pareva fluttuasse leggera nell’aria e la nebbia rendeva ancora più misteriosa e affascinante questa visione. Il cacciatore rimase ammaliato e, incapace di resistere a questo richiamo, prese ad arrampicarsi con impeto, ansioso di trovarsi al cospetto di tanta bellezza. Innamorato e rapito dal sorriso della Dama Bianca, il cacciatore precipitò lungo la parete scoscesa. A primavera, quando le nevi si sciolgono, i rigagnoli bianchi che scendono dal Capio sono le lacrime della Dama Bianca che piange disperata per il perduto amore. Notizie riferite da Letizia Strambo e raccolte da Rolando Balestroni. Wisse frouwa tsch Kàppju Der Kàmpelj jàgrà hŝant pchant àllu d chlatte tŝch d béérgà wà d gamsche hantsche vàrbérgut. Der kàppju ìsch gŝchit wà ìsch gŝchit vìlj gamsche und nuwà e jàger hét ts miöt z schtràfu vàr ŝchiöhu ts fìje. E harpscht tàg der Kàppju ìsch gŝchit umwenkt vàn der nebàl und der jàger hét bschtràpt en em zlàkch wà hét gwest z vennu e hepsche gamschu. Àlts en er vàrt e ŝchunnunbljekch hét glocht der nebàl und, bet kukke der schpez, der jàger ìsch gŝchit en biund wib vìlj hepsche, ziérte wisse. Hét duncht dàs wib vloget en du nebàl… Der jàger ìsch blibt und, nid chunnu hét schtelts, hét schtràfut tschwend vàr chi ts hepscht wib. Vollts tsch hérzje vàr d wisse vrowà dàs hét wisslàcchet ìsch kàngut vàllu. Em üstàg, wanj der schnìj chech schmelze, d wiss schljéchtjene dàs gànt embrìn en dun Kàppju chint d troffà tsch d wisse vrowà dàs wainut und chech gé vàlörus vàr ts vàrlört hérzje. (titschu di Rimella) — 89 — A U G U S T A Gressoney-La-Trinité: Osservatorio Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.) Willy Monterin L elle tabelle comparative vengono riportati i valori delle temperature e delle precipitazioni degli anni 2008-2009, l’altezza massima raggiunta dal manto nevoso alle varie quote e la variazione frontale del ghiacciaio del Lys. Si fa presente che il notevole regresso frontale avvenuto quest’anno è stato causato dal distacco della lingua glaciale dalla parte superiore del ghiacciaio. 1) Temperature medie in °C all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.) 2) Precipitazioni in mm.di neve fusa e pioggia all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.) — 90 — A U G U S T A 3) Precipitazioni nevose in cm. all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.) 4) Precipitazioni nevose in cm. alla Stazione Pluviometrica ENEL del Lago Gabiet (m 2340 s.l.m.) Barografo per la registra-zione della pressione atmosferica. Stazione meteorologica di D’Ejola. Altezza massima del manto nevoso: D’Ejola (m 1850 s.l.m.) cm 215 il 16 dicembre 2008 • cm 200 il 28 aprile 2009 Gabiet (m 2340 s.l.m.) cm 147 il 15 gennaio 2008 • cm 435 il 29 aprile 2009 5) Variazioni annuali della fronte glaciale del Ghiacciaio del Lys (valori in metri). Ghiacciaio del Lys (quota della fronte m 2355) 2008 -6 — 91 — 2009 -23 A U G U S T A IN MEMORIAM Riconoscente memoria della signora Luciana Faletto Landi Ugo Busso, Presidente dell’Associazione Augusta di Issime Il 4 settembre scorso è deceduta ad Aosta la signora Luciana Faletto Landi all’età di 80 anni, vissuti intensamente a servizio della famiglia e delle tante associazioni civiche e culturali che l’hanno avuta come preziosa collaboratrice e che la rimpiangono con profonda riconoscenza e vivo rammarico. Con la sua scomparsa è in lutto soprattutto la cultura valdostana che Lei aveva arricchito con vari pubblicazioni e soprattutto con competenze linguistiche che le permettevano di esprimersi, oltre che nella madre lingua, in un perfetto e ricercato francese, attinto fin dai primi anni nella condizione di emigrata in Svizzera e poi con passione ed impegno da autodidatta fino alle ultime battute sul computer che l’hanno tenuta occupata fino alla vigilia del suo decesso. A ciò si aggiunge la perfetta conoscenza del piemontese attinto da papà Bartolomeo e la passione per la promozione e la salvaguardia del töitschu, il dialetto walser di Issime, la parlata di mamma Honorine Dandrès, la grande famiglia emigrata dal villaggio del Bioley ma di cui era fiera ed era sempre rimasta un riferimento affezionato ed attivo. È dunque in modo particolare che l’Associazione Augusta di Issime rimpiange la sua scomparsa. Era lei che nel 1967, insieme a Gustavo Buratti di Biella, all’allora sindaco di Issime Edmond Trenta, ad altri esponenti appassionati della cultura alpina e walser locale e ad illustri professori di università italiane ed estere, convenuti ad Issime in occasione di un Convegno Internazionale dell’A.I.D.L.C.M. (Association Internationale des Langues et Cultures Menacées), fondarono l’associazione Augusta. Di tale Associazione è rimasta Presidente, dal 1970, per quindici anni. Fino all’ultimo invece è rimasta Presidente del Comitato di redazione ed importante collaboratrice, per più di 40 anni della Rivista Augusta. Poteva scrivere pertanto in uno degli ultimi numeri: “Parvenue au but de ma vie, je suis fière d’avoir contribué à mettre en valeur les traditions et les usages de mes ancêtres moyennant cette Revue et d’avoir suscité des enthousiasmes auprès de la jeunesse qui a pris la relève”. Luciana Faletto Landi all’Assemblea dell’Associazione Augusta nel 2002 mentre presenta la Rivista, a fianco Claudine Remacle, Ugo Busso e Wilma Consol — 92 — A U G U S T A Villaggio del Bioley, anno 1966. A destra Onorina Dandrès, mamma di Luciana, con i parenti; al centro Fortunato Dandrès “Ras”. Con questa doverosa memoria la ricordiamo con riconoscenza e rimpianto ma con le parole di un canto della cantoria di Issime, la salutiamo con serena speranza Ischt dische an gruz va lljöit das tun anandre loan vür génh ol miawer noch nündsch beitun um anandre vidergsien? Rfr War goan nündsch vidergsien an tag, war goan nündsch vidergsien Jia, ellji gséllji un brudara um anandre arékhen d’hann. A conferma della suddetta memoria, la rivista Augusta ha pure il piacere di pubblicare un dettagliato e prestigioso curriculum della sua vita e della sua attività culturale. Points principaux de la biographie de Lucienne Faletto veuve Landi: Née à Martigny (CH, Valais) le 14 février 1929. La mère était Honorine D’Andrès, d’Issime (Vallée d’Aoste) et le père Bartolomeo Faletto (de Busano Canavese, Piémont), émigrés pour des raisons de travail (il était sculpteur de pierre) e qui continuent à se déplacer. En effet de 1935 au 1939 Lucienne fréquente la prestigieuse école primaire de l’institut religieux Sacré Cœur à Thonon Les Bains (France), sur le Lac Léman. De 1939 et pendant toute la période de la Seconde Guerre Mondiale elle vie au début à Turin (où elle continue les études) et après à Issime, dans la maison de famille. De 1946 à 1949 elle vie de nouveau en Suisse, où elle travaille à Saxon pour une importante entreprise commerciale. Au début de 1950 elle rentre en Vallée d’Aoste et travaille pour la naissante Région Autonome comme sténo-dactylographe et secrétaire à la Présidence du Gouvernement (le Président de l’époque était le fameux et important Severino Caveri). à la région elle connait le géomètre Astolfo Landi (d’origine de Turin mais établit à Aoste après une longue fréquentation de la Vallée comme vacancier) et en 1952 ils se marient. Tout de suite naissent les deux premières filles, Gemma en 1953 et Antonietta en 1954, et à cause de cela Lucienne quitte la Région. De la maison elle commence une intense activité intellectuelle et francophone (traductions, rédactions articles, leçons). Elle commence aussi à s’intéresser des Walsers de la Vallée du Lys, ethnie à laquelle elle appartient à moitié. En 1965 elle donne le jour à la troisième fille, Elena. La fin des années soixante est caractérisée par une intense activité d’enseignement du français d’un côté et de recherche historique — 93 — A U G U S T A de l’autre, avec la fondation en 1967 de l’Association Augusta (pour la défense des langues alémaniques walser). Dans les années 70 elle participe activement à la section Valdôtaine de l’UIJPLF (Union Internazionale des Journalistes et de la Presse en langue française) et en devient vite la Présidente pour y rester jusqu’à 1999. Elle collabore assidument avec M. René Willien, historien valdôtain de haut niveau. Ensemble ils publient un livre sur la vie et les œuvres de l’Abbé J.B. Cerlogne. A partir des années 80 elle collabore strictement avec le mari, Alpin en congé qui a fait la guerre et a été aussi déporté dans les camps nazistes comme militaire. Il est fondateur et directeur du journal L’Alpin Valdoten et président de la section valdôtaine de la Association Nationale des anciens déportés. Elle l’aide activement et à sa mort, en 2002, devient elle-même présidente ANEI VDA. Elle est aussi passionnée de cuisine et de son histoire. Elle publie des recettes dans un hebdo mais aime surtout en faire l’histoire sociale. Elle a aussi écrit beaucoup de poésies, jamais publiées, en français et en piémontais. Intense a été l’activité de recherche et recueil de documents et d’écrits autrui. Bibliographie principale : Les valdôtains à table; La cuisine au pied du Mont Rose ; La cuisine au pied du Mont Blanc ; Poésies inédites d’Edmond Trentaz ; Ai giovani perché sappiano (journal de camp naziste de trois déporté, dont un est le mari) ; Gli ex internati valdostani ; Le rôle de la femme dans la culture issimienne. Anche GUSTAVO BURATTI ci ha lasciati Il 18 dicembre 2009 è mancato, all’età di 77 anni, a Biella, Tavo Burat (Gustavo Buratti) anima fondante dell’associazione Augusta. Nell’inverno fra il 1966 e ‘67 viaggiò spesso fra Biella e Issime per organizzare, ad Issime, il secondo Convegno Internazionale dell’A.I.D.L.C.M. (Association Internationale des Langues et Cultures Menacées) ed incontrarsi con il Comitato organizzatore, composto da René Willien, Tita von Oetinger e Lucienne Faletto Landi ed altri uomini di cultura provenienti da tutta Europa, per fondare il 31 luglio 1967 l’associazione Augusta. In quell’occasione si volle tenere presente il valore simbolico della scelta di Issime come sede della prima sezione della Associazione Augusta, giacché punto di convergenza delle culture italiana, francese e tedesca. Fu impegnato sul fronte dei diritti delle minoranze linguistiche ed etniche di tutto il mondo, un grande paladino della lingua piemontese, da sempre segretario per l’Italia dell’A.I.D.L.C.M., il pulpito dal quale difendeva le minoranze. Fondò lungo l’arco alpino, e non solo, molte associazioni, in difesa del paesaggio naturale, culturale e linguistico, molte delle quali ancora oggi attive. Fu tra i padri fondatori dei Verdi italiani, di cui è stato consigliere nazionale. Memorabili le sue battaglie ambientaliste (biellesi e non). Fu insegnante, consigliere comunale per 40 anni, storico, poeta, membro della “Compania dij Brandé”, uno dei più grandi studiosi di Fra Dolcino e dei movimenti ereticali, alla guida del Centro studi dolciniani, socio fondatore del Consiglio federativo della Resistenza biellese, direttore di “Alp”; collaborò al “Bollettino del Centro studi piemontesi”, “Rivista biellese”, e “L’Alpe” (Grenoble). Di lui si è detto: “un vulcano di idee, di impegno, di intelligenza, scomodo, tenace, si battè con Pier Paolo Pasolini per “il valore della diversità”. Molti conoscono il cartello bilingue italiano/tedesco con la scritta “Acqua potabile – Trink wasser”, accanto alla fontana nel Duarf di Issime, vicino al nuovo negozio di merceria e intimo “Nadel und Faden”. Fu la prima insegna bilingue a comparire nella comunità walser di Issime, era l’inverno 1967, quando Tavo Burat ne affiggeva una in cartone con la stessa scritta e nello stesso punto. Questo cartello rappresenta la prima gemma di quella pianta i cui frutti, oggi, tutti raccolgono. L’associazione Augusta porta avanti con impegno e dedizione quelle idee che da sempre la animano, le stesse dettate da Tavo Buratt nel lontano 1967. — 94 — A U G U S T A Franzisch Maïa (1) D a vünvegen augschte 1804, krat das is het taggit, vill éischemera sén amoddurut van im Duarf un d’kantunhi um goan in d’Mühni vür dan patrunh. Sén noch nöit gsinh im Chröiz wénn E Imelda Ronco Hantsch n l’année 1804, le 5 du mois d’août, dès l’aurore une nombreuse caravane partit du chef-lieu d’Issime et des hameaux pour se rendre aux Mühnes à la fête patronale de la chapelle de Notre-Dame aux Neiges. Les pèlerins n’étaient pas encore à la hauteur de la chapelle de saint Grat lorsqu’ils aperçurent dans un pré une vieille femme qui secouait au soleil levant le foin fauché la veille. Cette femme était connue à Issime sous le nom de Franzisch Maïa. “O Gotta Maïa, dit un pèlerin, allonsnous à la messe aux Mühnes? “Je n’en ai pas le temps, répondit la vieille femme, il faut que je rentre mon foin”. Et elle ajouta: “T’schnee Weibji chimmer neüt helfen troan i ts’heü”. “La Femmelette de la Neige ne vient pas m’aider à rentrer le foin”. Personne ne répondit aux paroles irrévérencieuses de la Maïa, et les pèlerins firent leurs dévotions à la chapelle des Mühnes, puis, le soir, contents Il mayen del Bühl inverno 2009. — 95 — A U G U S T A dŝchi hen gsian in an eegurdu an oalt fümmala zétten z’hoei gmoats dan tag darvür. Déi gotta het kheisse Franzisch Maïa.(2) “Oh gotta Maïa”, seera eis, “goawer zar mesch in d’Mühni?” “Ich hen nöit zéit” antchit d’fümmala “ich muss widerzin z’hoei” un… “Z’Schnia Wéibji chint mer nöit helfen troan i z’hoei”. Khémentsch het antcheede diŝchene wüertere oan respit deer gotta; d’lljöit sén kannhen in d’Mühni bettu un luasen d’mesch un, wider oabe, séntsch arwunne kunten zam hous. Da winter drouf ischt gsinh hérti im beerg. Dan 23 un 24 gruasse moanutsch hets gschnout an ganzen dinh; Maïa un d’wetta hen dŝchi pheeben im Bühl mit zwia chü un as poar schmalvi. Z’moal du 25, doch das is het nöit gloan ab z’schnowe, d’wetta het kheen ouf an gruassen urrascht. Dŝchi hets gseit dar wettu un het mu keen a z’loan d’ketschu, woa dŝchi sén nöit gsinh sichiri antweegen dar lawunu. Maïa het nöit wélljen darva wissu, loan da housunh un z’weerch, het mu antcheeden übbil un ischt kannhe schloafen alli einigi. D’wetta het dŝchi gwandlut in an anner ketschu z’endruscht z’kantunh, ous tur le danger. In d’nacht a lawunu ischt passrut uber dan Bühl un het vargroaben i d’ketschu woa sén gsinh Maïa un z’via. Da muarge d’wetta het gsian le désastre. Khémentsch het dŝcha muan khüere fauru un ra helfe, ischt gsinh einigi im kantunh. Wa dŝchi het ra gmachut as mut un, mit ar leitru drouf a loade, ischt gcheemen unz zar tschappulu im Chröiz. Mit vill strekhun hetsch muan lljöiten d’klocku um hoeischun hilf un mit alli d’stérrji hetsch grawut: “Maïa ischt tuat un allz ischt varluarenz”. Van im Duarf un doa um hentsch khüert lljöiten un rawu, un a chupplutu lljöit sén parturut um ra goan z’hilf, wa ischt gsinh sövvil schnia das dŝchi sén arrivurut dan tag darnoa. Dŝchi hen dŝchi gleit a schouvlun um d’ketschu un hen gvunnen drunner Maïa un z’via, ellji vargroabni. D’lljöit sén gsinh sichiri das Maïa séji gsinh pünniriti antweegen dŝchi het kheen gvielt respit dar Lljibu Vrawu, z’Schniawéibji. de leur journée, ils rentrèrent dans leurs villages. L’hiver suivant fut rigoureux dans la montagne. Le 23 et le 24 janvier de l’année 1805, il tomba une énorme quantité de neige. A cette saison Franzisch Maïa et sa soeur se trouvaient seules au hameau du Bühl avec deux vaches et quelque menu bétail. Le soir du 25 janvier, comme il neigeait en abondance, la soeur de la Maïa fut en proie à une grande inquiétude. Elle en fit part à sa soeur et lui proposa de quitter la maison où elles n’étaient pas en sûreté à cause d’une avalanche qui la menaçait. Sourde à ces avertissements, la Maïa ne voulut pas abandonner son ménage et elle adressa même à sa soeur des paroles grossières. Finalement elle se coucha seule, tandis que sa soeur était allée habiter une autre maison à l’extrémité du hameau, hors de tout danger. Pendant la nuit une avalanche traversa le Bühl écrasant la maison qu’occupait Franzisch Maïa. Ce ne fut qu’au matin que sa soeur s’aperçut de la catastrophe. Personne ne pouvait entendre ses pleurs et la secourir, car elle était seule désormais dans ce hameau. Elle s’arma cependant de courage pour appeler à son secours les gens de la plaine. Au moyen d’une échelle posée à plat sur la neige et sur laquelle elle plaçat une planche elle put avancer vers la chapelle de saint Grat. Après bien des efforts, elle atteignit la chapelle et le clocheton et sonna toute la matinée pour donner l’alarme, puis, s’étant placée devant la chapelle, elle cria de toutes ses forces: “Maïa ist tod, und als ist verlorenz”. – Marie est morte, et tout est perdu. Du chef-lieu d’Issime et des environs on entendit le son de la cloche et les cris désespérés de la femme. Une caravane s’organisa aussitôt pour aller à son secours, mais la quantité de neige tombée était telle que les sauveteurs n’arrivèrent au Bühl que le lendemain. On déblaya la neige autour de la maison de la Maïa, et le jour suivant on trouva la pauvre femme et tous les animaux écrasés sous les ruines. Les gens du pays furent persuadés que Franzisch Maïa avait reçu sa punition pour l’irrévérence dont elle s’était rendue coupable le 5 août précédent envers la bonne Vierge des Mühnes, la Schnia Wéibji; comme elle l’avait appelée. Da “Légendes et Récits recueillis sur les bords du Lys” par J. J. Christillin. Traduzione in töitschu di Imelda Ronco Hantsch. Dai registri parrocchiali risulta, atto di morte “Goyet Maria filia quondam Joannis Pantaleonis Linty vidua a Joannis Jacobi Goyet, sexaginta circiter anni nata, morte subitanea et improvisa obiit die vigesima quinta januarii anno 1805”, atto di battesimo “Linty - Rüer [Rower, attuale soprannome di un ramo della famiglia Linty] / Maria Joanna filia Joannis Pantaleonis et Maria Joanna ex Fontanamorae jugalium Linty Rüer, baptisata fuit die 26 octobris 1745”. (1) (2) — 96 —