LA REGOLA DI SAN FRANCESCO
appunti di fr. Dino Dozzi, ofmcap
“Per giungere alla casa del sommo Padre, nella quale, come dice il Figlio, vi sono tanti posti, è
possibile seguire molte strade diverse... raccomandate da vari santi padri, cosicché abbiamo la
Regola del beato Basilio, quella del beato Agostino, quella del beato Benedetto. Ma queste non
sono la sorgente della religione, sono solo propaggini; non sono la radice, ma solo rami; non sono il
capo, ma solo membra. Una sola infatti è la fede e quindi una sola è la fondamentale regola delle
regole per la salvezza, da cui scaturiscono, come ruscelli da un'unica sorgente, tutte le altre regole.
Questa regola delle regole è il santo vangelo... Uniti dunque come tralci alla vera vite che è Cristo,
fate il possibile, col suo aiuto, per osservare i precetti del suo vangelo; in modo che, se vi
domanderanno qual è il vostro ordine o la vostra regola, voi possiate rispondere che siete cristiani e
che la vostra regola è il vangelo, fonte e principio di tutte le regole...”.
La resistenza che Francesco lungamente oppose alla richiesta di scrivere una sua Regola, rivela che
egli certamente condivideva questo Prologo della Regula sancti Stephani, approvata da Clemente
III nel 11881. Nel suo Testamento dirà: “E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi
mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la
forma del santo vangelo e io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor papa me
la confermò” (Test 14-15: FF 116). Era probabilmente il 1209, e noi quest’anno ricordiamo l’ottavo
centenario della protoregola, che sarà seguita poi dalla Regola non bollata del 1221 e da quella
bollata nel 1223. Qui non mettiamo a confronto le 3 Regole (oltre tutto, la prima, quella del 1209
non la conserviamo più), ma parliamo unitariamente della Regola di Francesco, con suo significato
globale ed essenziale.
La Regola di Francesco nasce come risposta al Signore che gli parla nel vangelo. Ecco allora i punti
che svilupperemo. 1. “Così dice il Signore”: la Parola di Dio apre gli occhi e guarisce il cuore di
Francesco, rendendolo in grado di seguire il Signore. 2. “Così risponde Francesco”: obbedisce a
Cristo che gli parla nel Vangelo vissuto nella Chiesa da fratello minore. 3. Ne deriva una “regola e
vita” di riconoscenza; 4. una “regola e vita” che lui stesso definirà “vita del vangelo di Gesù
Cristo”. 5. Concluderemo notando che quella di Francesco è una “regola e vita” in perenne tensione
tra ideale e storia.
1
PL 204, 1135-1137; CCCM 8, 65-67.
2
1. “Così dice il Signore”:
la Parola di Dio apre gli occhi e guarisce il cuore di Francesco rendendolo
in grado di seguire il Signore
Per Francesco la Bibbia non è parola “su” Dio, ma Parola “di” Dio. Il ritornello che usa per
introdurre le citazioni evangeliche, è il seguente: “Così dice il Signore”, sempre al presente2, e non
si tratta di un presente storico. Il Vangelo per lui non è un testo del passato, ma lo strumento di cui
il Signore, risorto e vivo, si serve per parlare a lui oggi. Come dirà chiaramente nell’Ammonizione
VII3 - giustamente ritenuta un piccolo trattato di ermeneutica biblica di Francesco - “sono uccisi
dalla lettera coloro che desiderano sapere unicamente le sole parole”, non cogliendovi la viva
presenza del Signore; “e sono uccisi dalla lettera anche coloro che non vogliono seguire lo spirito
della divina Scrittura”, cioè non vogliono seguire il Signore che, attraverso la Parola, li chiama a
seguirlo; “sono vivificati dallo spirito della divina Scrittura” coloro che le permettono di produrre
frutti di rivelazione e di bene, restituendola così “all’altissimo Signore Dio”. Lo spirito della divina
Scrittura di cui parla qui Francesco è la viva presenza del Signore, frutto dello Spirito di Cristo, che
“è Signore e dà la vita”.
La grande intuizione da cui parte tutta l’ermeneutica di Francesco è una cosa semplicissima, ma,
forse perché tanto semplice, così facile da dimenticare: si tratta della presenza di Cristo nel Vangelo
e nella vita cristiana. Francesco ha la stessa devozione per l'Eucaristia e per la Parola di Dio, perché
in ambedue sente vivo e presente Gesù Cristo. È quanto afferma solennemente il Vaticano II nella
Sacrosanctum Concilium, 7 e nella Dei Verbum, 21. K. Eßer parlò giustamente di “scioccante
anticipazione dell'insegnamento del Concilio da parte di Francesco”. Ma in Francesco troviamo in
qualche modo anticipate, o almeno intuite, anche altre grandi riscoperte dell'ermeneutica di oggi4.
In Francesco primeggia la categoria “presenza”: vede tutti e tutto impregnati della presenza divina.
Nel Testamento, Francesco rilegge le tappe della sua vita non con date ma con l’enumerazione dei
doni del Signore: “Il Signore concesse a me di incominciare così a fare penitenza… il Signore mi
dette tanta fede nelle chiese… il Signore mi dette tanta fede nei sacerdoti… il Signore mi donò dei
frati… l’Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo… il Signore mi
rivelò che dovessi dire questo saluto: Il Signore ti dia pace”. Una vita scandita dai doni di Dio e
dagli incontri riconoscenti con lui e con i suoi doni.
L’incontro con la Parola di Dio permette a Francesco di incontrare Dio e l’incontro con Dio gli
permette di incontrare in modo nuovo tutti e tutto. Dice P. Ricoeur che comprendere un testo è
comprendersi di fronte al testo. Vale anche per Francesco e per la sua comprensione della Parola di
Dio. All’apertura dei Vangeli, Francesco esclamò: “Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di
fare con tutto il cuore!” (1 Cel 22: FF 356). La domanda di Francesco è espressa nello stile che gli è
tipico: “Chi sei tu e chi sono io?”; e la risposta è: “Dio mio e mio tutto”5. La Parola di Dio, per
Francesco, prima di tutto apre gli occhi.
Magari il cristiano fosse sempre migliore degli altri; ma non è indispensabile: il cristiano, prima di
tutto, non è uno che “fa”, ma uno che, avendo visto-sperimentato, “sa”, è stato raggiunto da una
2
Eccetto quando cita le frasi dell’ultima cena, influenzato com’è dalla liturgia.
3
FF 156.
M.-D. Chenu: “Di fronte al Mistero della presenza viva di Cristo, il solo mezzo di comunicazione possibile è la
testimonianza”. H. de Lubac: “Il Mistero cristiano non è da contemplare come un puro oggetto di scienza, ma da
interiorizzare e da vivere... La Parola di Dio si realizza pienamente solo quando trasforma colui che la riceve”. P.
Ricoeur: “La verità di fede è un cammino da seguire”. S. Kierkegaard: “Non si accede alla verità che nella misura in cui
ci si impegna di fronte ad essa e la si testimonia, trasformando in base ad essa la propria esistenza”. Se al testo biblico si
domandano solo cose del passato o cose accademiche, il testo risponderà solo in questo senso.
4
5
G. POZZI, Lo stile di san Francesco, in “Italia medioevale e umanistica”, XLI (2000), 7-72.
3
bella notizia. Sa che Dio c’è, sa che ha il volto di Padre perché così ce lo ha rivelato Gesù Cristo, il
Figlio di Dio, sa che Dio ha creato tutto ciò che esiste, sa che Dio ama tutti gli uomini come suoi
figli, sa che la salvezza non è più da guadagnare con le nostre opere, ma gli viene regalata in
anticipo, sa che l’uomo può vivere con gioiosa e riconoscente “parresía” nella casa del Padre.
Questo è ciò che prima di tutto distingue il cristiano da chi non lo è. La vita cristiana sarà, non
condizione, ma conseguenza della salvezza ricevuta in dono: vita evangelica come conseguenza
dell’accoglienza della bella notizia evangelica.
Alla luce della Parola, che gli rivela un solo Dio e Padre di tutti, Francesco attorno a sé vede solo
fratelli e sorelle. Perfino gli animali e le cose, nella solidarietà creaturale, egli chiama fratelli e
sorelle. Francesco sente vivamente la presenza, non solo di Dio, ma anche degli altri e delle cose; ed
entra attivamente in rapporto non solo con Dio, ma anche con i fratelli, con gli uomini di tutto il
mondo, con gli animali, con le cose inanimate. Per lui nessuno e niente è anonimo: dà un nome a
tutti e a tutto; tutti e tutto gli parlano; con tutti e con tutto egli parla. Francesco ha sperimentato che
è l’incontro che cambia. Basta leggere il suo Testamento e si coglie subito l’importanza
dell’incontro nella sua vita. Per incontrare i lebbrosi salta le mura di Assisi e scende giù nella piana;
per incontrare i ladri di Montecasale salta le mura della fraternità; per incontrare il sultano salta le
mura della cristianità.
Accoglie non solo Dio con incontenibile gioia, ma ogni persona: “E chiunque verrà da loro, amico o
avversario, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà” (Rnb VII,14: FF 26). Le parole che ritornano
più frequentemente negli scritti di Francesco sono “Dominus” (410 volte) e “frater”-“fratres” (306
volte). Alla luce del rapporto creaturale e filiale con Dio nasce in lui il rapporto e il comportamento
fraterno. La parola fraternità è indissolubilmente legata a Francesco d’Assisi. Egli non solo
proclamò che l’uomo è fratello dell’uomo, ma volle anche vivere evangelicamente in un gruppo di
fratelli, dove nessuno deve avere dominio sugli altri, nessuno deve chiamarsi priore, ma tutti “frati
minori”, lavandosi i piedi a vicenda6, amandosi e prendendosi cura maternamente gli uni degli
altri7.
È sempre la Parola a far conoscere e a far sperimentare che il Signore è sempre con noi e che è “via,
verità e vita”: tema caro a Francesco8, che ama sottolinearne la corporea visibilità, pur nella fede:
“Dello stesso altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente in questo mondo, se non il
santissimo corpo e il santissimo sangue suo””9.
La Parola di Dio non solo apre gli occhi a Francesco, ma guarisce il cuore dell’uomo, rendendolo in
grado di seguire il Signore. Nel capitolo XXII della Rnb troviamo uno straordinario trattato di
“terapia cardiologica spirituale”.
Francesco descrive in quattro tappe la storia del cuore dell’uomo: nella prima tappa descrive il
cuore malato dell’uomo, un cuore da cui escono, secondo la parola stessa di Gesù, solo pensieri e
azioni cattive. L’uomo è così, nasce così. Come farà a seguire il Signore che gli chiede, per
esempio, di amare i nemici?
Ecco la seconda tappa: l’unica via d’uscita è quella di accogliere e mantenere la Parola del Signore,
come terreno buono. Bisogna custodire la Parola nel cuore e guardarsi bene dal perderla, dato che
Satana cerca di tornare in quel cuore da cui è stato cacciato al momento della venuta della Parola.
Parola e Spirito, se mantenuti nel cuore, lo guariscono, lo purificano e lo rendono gradualmente
capace di servire, amare, onorare e adorare il Signore Iddio. Questa purificazione del cuore per
opera della parola richiama la frase giovannea: “Voi siete già mondi per la parola che vi ho detto”
6
Rnb VI,3-4: “Et nullus vocetur prior, sed generaliter omnes vocentur fratres minores. Et alter alterius lavet pedes”.
7
Rnb IX,10-11: “Et secure manifestet unus alteri necessitatem suam, ut sibi necessaria inveniat et ministret. Et quilibet
diligat e nutriat fratrem suum, sicut mater diligit et nutrit filium suum”.
8
Cf. Adm I.
9
Test 10.
4
(Gv 15,3). Si è realizzata la promessa della nuova alleanza di Ger 31 e di Ez 36: un cuore nuovo,
uno Spirito nuovo.
Ed ecco la terza tappa: se la Parola rimane nel cuore, l’uomo rimane in Cristo, scoprendolo maestro,
via, verità e vita, buon pastore, casa della Trinità.
Rimanendo in Cristo da figli nel Figlio - ecco la quarta tappa - si potrà vedere la gloria del Padre. Il
cammino di sequela di Cristo via, verità e vita, è arrivato alla fine: alla contemplazione gioiosa del
Padre. Quel cuore malato, che ha accolto e mantenuto la Parola di Dio animata dallo Spirito che dà
la vita, si trova ora ad essere cuore puro, luogo dell’inabitazione trinitaria e della contemplazione
del Padre.
È solo con questo “cuore puro” che è possibile adorare il Padre “in Spirito e verità” e conoscerlo e
vederlo da figli “perché solo il Padre conosce il Figlio e solo il Figlio conosce il Padre”.
L’interiorizzazione della parola nel cuore ha fatto sì che il cuore sia stato “cristificato” e che dunque
sia divenuto il tempio in cui adorare Dio.
2. “Così risponde Francesco”:
obbedisce a Gesù Cristo che parla nel Vangelo
vissuto nella Chiesa da fratello minore
Così dice il Signore, così risponde Francesco, che non è un uditore sordo del Vangelo. Di fronte alla
Parola del Signore nasce e cresce “la regola e vita” (Rnb I,1): Francesco preferisce il termine “vita”
a quello di “regola” (Rnb Prol 2; II,1; XXIV,1.4) e questo ci dice già a sufficienza il radicamento
esistenziale-esperienziale della regola nella vita. Per Francesco il Vangelo è il Wort, la “regola e
vita” è l’Ant-Wort, la risposta a quella Parola. Come si diceva, il Vangelo è la regola delle regole
per tutti e la sequela di Cristo è la perfezione per tutti, ma è vero anche che ogni spiritualità ha un
suo modo caratteristico di avvicinarsi al Vangelo e di seguire Cristo.
Francesco sente che Cristo è presente nel Vangelo e lo invita a seguirlo. Ma Francesco sente che
Cristo è presente anche nella sua Chiesa, e la sua ermeneutica evangelica può essere sintetizzata
così: obbedire a Gesù Cristo che parla nel Vangelo vissuto nella Chiesa da fratello minore.
Di Gesù Cristo i fratelli debbono “seguire l’insegnamento e le orme” (I, 1) , soprattutto la sua
umiltà e la sua povertà, perché egli dice di vendere tutto e di seguirlo (I, 2), di rinnegare se stessi e
di seguirlo (I, 3), di preferire lui a chiunque altro (I, 4), di lasciare tutto il resto per lui (I, 5): “questa
regola e vita” consiste nel seguire Gesù Cristo, nell’obbedirgli mettendo in pratica tutte queste cose
che egli dice. L’insegnamento e le orme di Gesù Cristo da seguire sono indicati nel Vangelo; per
seguire Gesù Cristo bisogna concretamente obbedire al Vangelo.
In Prol. 2 la “vita del Vangelo di Gesù Cristo” è quella che “frate Francesco chiese al signor papa di
concedere e di confermare e che il signor papa concesse e confermò”. Francesco ama parlare della
“santa chiesa” e della “santa madre chiesa”. Tali espressioni acquistano tutto il loro risalto se
contestualizzate in un tempo in cui da molte parti la chiesa veniva vivacemente contestata proprio
per la sua “non santità” e si andava dicendo che, se si voleva seguire il Vangelo, bisognava uscire
dalla chiesa. La vita di Francesco e quella dei suoi frati sarà una vita di fedeltà piena e di
obbedienza sincera alla Chiesa, sarà una “vita nella Chiesa”. Nelle Regole vien detto ripetutamente
che nessuno potrà essere ricevuto contro la forma e l'istituzione della santa chiesa, che nessuno
dovrà predicare contro di essa, che tutti i frati dovranno vivere e parlare cattolicamente.
Francesco seppe essere figlio obbediente e fedele di una Chiesa messa in discussione e che egli
chiamò “santa madre Chiesa”. Seppe essere uomo non violento in una società conflittuale. Seppe
5
essere uomo aperto a tutti10 in una società rigidamente divisa in classi sociali. Per sé e per i suoi
scelse la collocazione più bassa, quella dei minores. Nessuno va giudicato, condannato o
disprezzato11; volle essere rispettoso di tutti e sottomesso a tutti12.
L’“alter Christus”, è anche “l’uomo del Vangelo” e “l’uomo della Chiesa”. Per Francesco sono
equivalenti le tre espressioni: “Seguire le orme di Cristo”, “vivere secondo la forma del santo
Vangelo”, “vivere secondo la forma e l’istituzione della santa madre Chiesa”.
La Rb (XII, 5) si conclude con queste parole che sintetizzano bene il contenuto della vita evangelica
alla sequela di Cristo secondo san Francesco: “...affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della
medesima santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l’umiltà e il santo
Vangelo del Signor nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso”.
È talmente importante l’obbedienza a Gesù Cristo, al Vangelo e alla Chiesa che “questa regola e
vita” vien chiamata più di una volta “obbedienza” (II, 9.10.13). Ma in che rapporto sono tra di loro
queste tre obbedienze? In realtà non si tratta di tre obbedienze, ma di una sola obbedienza:
obbedienza a Gesù Cristo che parla nel Vangelo vissuto nella Chiesa. Si noterà l'importanza
ermeneutica di questo collegamento.
Per obbedire a Gesù Cristo, bisogna obbedire a quello che egli dice nel Vangelo (I,1; II,14; III,1-2);
la vita del Vangelo di Gesù Cristo ha bisogno di essere concessa e confermata dal papa, e il
rapporto di obbedienza nei confronti del Vangelo e di Gesù Cristo dev’essere accompagnato dalla
continua obbedienza al papa (Prol. 3-4) e alla Chiesa (II,12); è per questo che vengono accolte nella
“regola e vita” dei fratelli le norme della Chiesa sull'anno di prova (c. II) e sul vestiario (c. III),
norme che non figurano nel Vangelo.
In Rnb XXIV, 1 Francesco scrive: “Nel nome del Signore prego tutti i frati affinché imparino il
tenore e il senso di tutto ciò che è scritto in questa vita”; e al v. 4 aggiunge con forza: “E da parte di
Dio onnipotente e del signor papa e per obbedienza, io frate Francesco fermamente ordino e
comando che da queste cose che sono state scritte in questa vita, nessuno tolga o aggiunga parola,
né i frati abbiano un’altra Regola”. Perché?
Proprio perché la regola e vita qui presentata consiste nell'obbedire a Gesù Cristo che parla nel
Vangelo vissuto nella Chiesa: è questo “il tenore e il senso” della Regola. I fratelli non dovranno (e
non potranno) avere altra regola perché in questa regola di vita non c’è nulla da aggiungere (c’è già
tutto l’essenziale) e nulla da togliere (è tutto indispensabile). In ogni circostanza si tratterà di
obbedire a Cristo che parla nel Vangelo vissuto nella Chiesa, e questi tre elementi sono inscindibili:
qui c'è tutto il contenuto della vita evangelica di sequela secondo Francesco, una sequela di Cristo
nella fedeltà e nella creatività. È tipica di Francesco questa chiarezza nell’identificare il contenuto
della vita evangelica alla sequela di Cristo. Ma sono altrettanto chiare e tipiche in Francesco alcune
modalità della vita evangelica alla sequela di Cristo.
Francesco legge il Vangelo “a modo suo”, omettendo alcune cose e sottolineandone altre. Un
esempio evidente di questo suo modo selettivo è offerto nella “magna charta” della missionarietà
che egli presenta in Rnb XIV-XVII. Tutti e quattro i brani evangelici di missione sottolineano con
forza i poteri che Gesù dà ai suoi inviati per cacciare i demoni e guarire i malati (Mc 6,7b; Lc 9,12); notano inoltre l’ordine di servirsi di questi poteri: “Curate gli infermi, risuscitate i morti,
mondate i lebbrosi, scacciate i demoni” (Mt 10,8a); e infine raccontano come gli inviati si sono
serviti di questi poteri (Mc 6,13; Lc 9,6.10; 10,17). In Rnb XIV-XVII tutto questo tipo di materiale è
sistematicamente tralasciato. Ed ecco che cosa invece Francesco sottolinea: non portare nulla con sé
se non lo Spirito del Signore, vivere come pecore in mezzo ai lupi per amore del Signore, non
gloriarsi di alcun bene ma riferirlo-restituirlo solo a Dio.
10
Cf. EpFid 1-2; Rnb VII,15; XXIII,7.
11
Cf. Rnb IX.
12
Cf. Rb III,11-12; Test 19; Rnb XVI,6.
6
Rnb XIV,1 presenta l’elenco evangelico delle cose da non portare con sé non solo nella vita
apostolica e missionaria: tale elenco non attinge solo dai testi evangelici di missione (Mt 10, 1-42;
Lc 9, 1-6. 10; e 10, 1-20; Mc 6, 7-13. 30-32), ma anche da Mt 5-7: i frati non dovranno portare con
sé neppure il diritto di difendere i propri diritti. Una modalità fondamentale della sequela di Cristo
sarà la testimonianza del Regno di Dio consistente nel non portare nulla con sé se non lo Spirito del
Signore: l'efficacia dell'apostolato non deriva da ciò che si porta. Il “nihil portent per viam” se non
lo Spirito del Signore è già in se stesso sequela di Cristo e testimonianza del Regno di Dio in quanto
è proclamazione gioiosa di incondizionata fiducia in Dio e fare spazio allo Spirito del Signore,
l'unico evangelizzatore nostro e di tutti.
In Rnb XVI,1 leggiamo: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi”. La frase è preceduta da
un semplicissimo “dice il Signore”. Le pecore in mezzo ai lupi vengono sbranate; i fratelli debbono
andare in mezzo ai “lupi” coscienti che “chi perderà la sua vita per me la salverà per l'eternità”. Se
il Signore li invia come pecore in mezzo ai lupi, è perché lui stesso è già andato volontariamente
“come pecora al macello” (At 8, 32) e ha verificato che è questa la strada per la vita eterna.
Il vivere come pecore in mezzo ai lupi per amore del Signore non è solo o tanto una conseguenza
della sequela evangelica di Cristo e della testimonianza del Regno di Dio, ma è in se stesso sequela
di Cristo e testimonianza del Regno di Dio, perché sequela del Signore sulla via del Calvario, con la
croce sulle spalle. È una modalità sconcertante, ma è quella scelta dal Signore per la salvezza
dell'umanità e per questo proposta come fondamentale.
E non dovranno mai gloriarsi del bene compiuto (Rnb XVII,5-6). I fratelli dovranno restare al loro
posto, senza neppure porsi il problema dei risultati: a questi, infatti, c'è un Altro che pensa. I frati
dovranno seguire Cristo, annunciare il Regno di Dio e invitare alla penitenza-conversione non
gloriandosi di alcun bene, ma riferendolo sempre e solo a Dio. E questa sarà vera vita evangelica
alla sequela di Cristo e vera evangelizzazione in quanto testimonia Dio come sorgente unica di ogni
bene, la sua signorìa totalmente accettata, la penitenza-conversione come un affidarsi
incondizionato a lui.
Nel leggere il Vangelo Francesco tralascia ciò che si riferisce alla forza, al potere, ai risultati e
sottolinea gli atteggiamenti e le parole di Gesù che fanno riferimento all’umiltà, alla povertà, alla
minorità. I suoi frati li chiama “frati minori”. Il programma evangelico di Francesco si può
riassumere così: minori sempre e di tutti per essere fratelli sempre e di tutti. Per Francesco, la
grande scelta è quella della fraternità, universale e incondizionata. All’interno del divieto
rigidissimo di ricevere denaro che troviamo nella Rnb, troviamo però due eccezioni, che riguardano
i fratelli infermi e i lebbrosi (cf. Rnb VIII, 3. 10): la fraternità è più importante della minorità, e la
minorità è in funzione della fraternità. Francesco vuol vivere da minore sempre e di tutti per poter
vivere da fratello sempre e di tutti. Questo rivela non solo una precisa gerarchia di valori, ma anche
una concezione della fraternità che, volendo includere tutti e avendo bisogno di esprimersi
concretamente nella condivisione di vita con tutti, non può far a meno di porre coraggiosamente i
frati a livello degli ultimi.
La regola e vita di Francesco deriva dalla sua teologia biblica, e i due termini perdono qui la loro
componente astratta e teorica per assumere quella pienamente esperienziale. Come la sua teologia si
esprime non in trattati ma in preghiere, così la sua regola e vita si esprime in atteggiamenti e
consigli di fraternità minoritica. È dai rapporti tra le persone divine, dove nessuna è mai superiore
alle altre, che Francesco impara a vivere la fraternità-minorità, che esclude qualsiasi forma di
dominazione sull’altro. È dall’umiltà di Dio13 che Francesco impara la povertà-minorità. È da Dio
fatto uomo in Gesù, inginocchiato a lavare i piedi dei suoi discepoli e crocifisso per amore di tutti,
che Francesco impara la fraternità come servizio-obbedienza vicendevole14. Al Signore che gli parla
e l’invita a seguirlo Francesco risponde obbedendo a Geù Cristo che parla nel Vangelo vissuto nella
Chiesa da fratello minore.
13
LaudDei, 4: “Tu es humilitas”.
14
Rnb V,14: “Per caritatem spiritus voluntarie serviant eo obediant invicem”.
7
3. “Ti rendiamo grazie” (cf. Rnb XXIII):
una “regola e vita” di riconoscenza
La “regola e vita” di Francesco è essenzialmente “riconoscenza”. È dalla Parola di Dio che
Francesco attinge le parole della sua riconoscenza, lode e restituzione, soprattutto nelle sue
splendide preghiere. Le Lodi di Dio Altissimo, il capitolo XXIII della Rnb sono esempi di come
parla di Dio lodandolo e ringraziandolo un innamorato come Francesco, a cui pare non bastino le
parole per dire il suo Dio.
Nel Cantico delle creature Francesco benedice, loda e restituisce tutto a Dio servendosi delle stesse
creature. Francesco sa che solo a Dio appartiene ogni onore, ogni gloria e ogni lode. Di fronte a
15
questo Dio altissimo, onnipotente e buono, l'uomo, che pure è indegno anche solo di nominarlo ,
non può far altro che benedirlo e lodarlo. E per non farlo direttamente, l’uomo loda il suo Dio
servendosi delle “sue” creature: sono creature di Dio, ma sono anche nostri fratelli e nostre sorelle.
Ecco le credenziali per il ruolo di mediazione della lode che le creature sono chiamate a svolgere tra
l’uomo e Dio. Ed ecco allora il tragitto della lode: Francesco-creature-Signore (“Laudato si, mi
Signore, per...”).
E se il Signore viene benedetto e lodato tramite tutte le creature, in modo ancor più chiaro ed
intenso questo avviene nelle creature umane, soprattutto quando esse diventano strumenti coscienti
di lode. Questo accade particolarmente in quattro casi ricordati nella seconda parte del Cantico:
16
quando gli uomini perdonano (10a-b) , quando sopportano in pace infermità e tribolazioni (10c-11),
quando riescono a considerare sorella la morte (12) e quando essi si troveranno fino alla fine nelle
17
“santissime voluntati” del Signore (14) . È interessante e importante notare come la lode e la gioia
di cui è impregnata la prima parte del Cantico – che potremmo chiamare “cosmologica” –, trovino
la loro continuazione nella seconda parte – che potremmo definire “antropologica” –, la quale
prende in considerazione non le persone sane, felici, soddisfatte, bensì le persone delle beatitudini
evangeliche, quelle che sopportano ingiustizie e perdonano, quelle che soffrono e restano in pace.
Francesco, allenato a cogliere l’aspetto rivelativo della Parola di Dio, sa coglierlo ed esprimerlo
anche nel suo Cantico, che è anche rivelazione di chi è Dio, creatore e signore di tutti e di tutto, che
si prende cura dell’uomo attraverso le sue creature, che è “Signore”, ma anche “mio Signore”.
15
A “nullo omo è digno te mentovare” del Cantico (2b) fa eco “Nos omnes miseri et peccatores non sumus digni
nominare te” del cap. XXIII della Rnb. E, mentre nel secondo caso, per ringraziare degnamente il Padre, viene chiesto
l’aiuto di Cristo, dello Spirito Santo, di Maria, degli angeli e dei santi, nel Cantico, per poter lodare e benedire il
Signore, viene chiesto aiuto alle creature.
16
La Leggenda perugina, 44 racconta che i vv. 10-11 del Cantico furono composti e aggiunti in occasione di un
violento dissidio tra vescovo e podestà di Assisi, dissidio che Francesco riuscì a comporre. C. PAOLAZZI, Francesco
d’Assisi, 106-107, avanza l’ipotesi abbastanza convincente che l’aggiunta consista nel solo 10b: “(per quelli che)
perdonano per lo tuo amore”.
17
La Leggenda perugina, 100 ci dice che i vv. 12-14 furono composti da Francesco e inseriti nel Cantico quando gli fu
notificato che stava per morire. Al “Beati” del v. 14 corrisponde il “Guai” del v. 13. Anche in Regola non bollata
XXI,7-8 troviamo questo concetto e questo accostamento: “Beati qui moriuntur in poenitentia, quia erunt in regno
caelorum. Vae illis qui non moriuntur in poenitentia, quia erunt filii diaboli”.
8
Nel Cantico troviamo una perfetta integrazione tra i due grandi libri scritti dalla mano di Dio: il
libro della Parola e quello della creazione. Due libri che parlano dello stesso Dio, ma che, per essere
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letti e compresi nella loro rivelazione, hanno bisogno di un occhio di fede .
Oltre che inno di lode e di rivelazione, il Cantico - come, d’altra parte, gli altri scritti di Francesco si presenta anche come restituzione. “Restituire” significa ridare una cosa al suo proprietario: “Tue [del Signore] so le laude, la gloria e l’onore e onne benedizione” e in 2a si aggiunge che “a te solo,
Altissimo, se confano”. Ogni lode, ogni gloria, ogni onore e ogni benedizione appartengono solo al
Signore, a lui solo si addicono; sono cose sue e a lui solo vanno restituite. La lode diventa il modo
concreto di restituire a Dio tutto ciò che gli appartiene e diventa anche il modo per fare
continuamente spazio dentro di sé al dono di Dio, cioè a Dio stesso che si dona totalmente
all’uomo. In questo senso, è efficacissima la contrapposizione nulla-tutto che troviamo nella Lettera
di Francesco al Capitolo generale e a tutti i frati: “Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché
19
tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre” .
Tutta la creazione benedice Dio lodandolo, rivelandolo e restituendosi a lui. Ma è ovvio che la lode,
la rivelazione e, ancor più, la restituzione, hanno luogo soprattutto nell’uomo. È solo l’uomo, infatti,
che può diventare voce cosciente di ogni creatura, raccogliendo e indirizzando a Dio la lode, la rivelazione e la restituzione.
Ma ci sono momenti in cui la restituzione dell’uomo diventa particolarmente chiara e forte: sono i
momenti in cui l’uomo “divinamente” perdona (“per lo tuo amore”) e soffre “in pace” (10-11), e i
momenti in cui l'uomo riesce a considerare sorella la morte e a farsi da lei trovare nelle “santissime
voluntati” del Signore (12-14). Questi momenti particolarmente chiari e forti di restituzione coincidono con i momenti in cui più arduo diventa cogliere tutti e tutto come dono di Dio e più difficile
diventa quindi lodarlo, rivelarlo come datore di ogni dono, restituirgli tutto e restituirsi totalmente a
lui. Il rapporto uomo-creature-Dio come restituzione è basato sul rapporto Dio-creature-uomo come
dono. Siamo in una chiara coscienza di fede e nella circolarità del dono: tutto è dono di Dio e tutto
va restituito a Dio sotto forma di lode e di ringraziamento. La “regola e vita” di Francesco è
impregnata di riconoscenza, è riconoscenza nei suoi due significati di “riconoscere” la vita come
dono di Dio e di “esserne riconoscenti”.
18
È stato giustamente notato come Francesco, ormai quasi cieco, sia attirato nel Cantico dalle strutture luminose; ma
occorre altresì notare la limpidezza con cui egli passa dalla luce e dall’illuminazione fisica a quella spirituale della fede.
È soprattutto come sorgente di luce che il sole “porta significazione” di Dio.
19
EpOrd 29.
9
4. “Questa è la vita del Vangelo di Gesù Cristo” (Rnb Prol. 2):
facendo nostra questa “regola e vita” diventiamo “madri di Cristo”
(Lettera i fedeli II, 53)
Nel prologo della Regola non bollata troviamo un’espressione suggestiva: “Questa è la vita del
Vangelo di Gesù Cristo”20. Il primo significato dell’'espressione fa certamente riferimento al vivere
il Vangelo di Gesù Cristo (genitivo oggettivo). Ma c’è un secondo significato possibile e
complementare: vivendo il Vangelo alla sequela di Cristo, si diventa il luogo in cui possono
continuare a vivere il Vangelo e Gesù Cristo stesso (genitivo soggettivo). Per Francesco,
l’incarnazione continua nella vita di chi prende il Vangelo come propria regola e lo vive
semplicemente e integralmente.
Gli “ingredienti” dell’incarnazione sono la Parola, lo Spirito e un luogo umano accogliente. Per
Francesco, in una vita secondo il Vangelo continua l'incarnazione della Parola per opera dello
Spirito Santo. Per Francesco, la verità del Vangelo è la presenza in esso di Cristo-verità. La verità
della vita cristiana è la presenza in essa di Cristo-verità, vita cristiana che può allora giustamente
venir definita “vita del Vangelo di Gesù Cristo”.
Nella Lettera a tutti i fedeli, 53, leggiamo: “Siamo madri sue (di Cristo), quando lo portiamo nel
cuore e nel nostro corpo con l'amore e con la pura e sincera coscienza, e lo partoriamo attraverso
sante opere che devono risplendere agli altri in esempio”. È qui che la “cristificazione” viene
espressa in modo estremamente plastico e coraggioso, suggerendo l'idea del concepimento (tramite
il “seme” della parola accolta e custodita) e della gestazione (“lo portiamo nel cuore e nel nostro
corpo”) e usando esplicitamente il verbo “partorire” (parturìmus).
Concepimento, gestazione e parto presentano qui magnificamente il cammino della progressiva
cristificazione, frutto della sequela di Cristo, come un materno, unitario e progressivo processo che
dà la vita a Cristo. Negli scritti di Francesco, soprattutto nella Lettera a tutti i fedeli e nel cap. XXII
della Rnb viene suggerita l’idea che, nella sequela, Cristo dà la vita divina a noi (cristificazione
nostra), e noi diamo vita umana a Cristo (incarnazione di Cristo). È il concetto dell’“incarnazione
che continua” che ha questo significato: come in Maria, per opera dello Spirito Santo, la parola di
Dio si fece carne, così, per opera della parola e dello Spirito Santo, nei credenti che seguono Cristo
in un cammino di fede operosa viene nuovamente concepito e partorito Cristo. Nella fede e nella
vita dei credenti, per opera dello Spirito Santo, la parola di Dio riprende “carne”: quando, seguendo
Cristo, il Vangelo diventa vita, è Cristo che riprende vita, continuando così la sua missione di
rivelazione e di salvezza.
Per Francesco, il cammino evangelico della sequela inizia dal riconoscere la presenza di Cristo, ed
ha come conseguenza il diventare strumenti di quella stessa presenza. Vangelo, vita e Cristo sono
per Francesco tre realtà intimamente connese tra loro. Il Vangelo è un modo di vivere che consiste
nell'obbedire a Cristo che parla nel Vangelo vissuto nella Chiesa, da fratelli minori sempre e di tutti.
Questo modo di vivere fa vivere il Vangelo: che diventa via percorsa, verità risplendente, vita
vissuta. Questo modo di vivere fa vivere Gesù Cristo: è l'incarnazione che continua con i suoi due
fondamentali aspetti di rivelazione e di salvezza. Dove si vive il Vangelo, lì vive il Vangelo e vive
Gesù Cristo.
Gesù Cristo, Vangelo, vita: sono tre realtà che, per Francesco, si richiamano, si illuminano e si
esigono vicendevolmente. In questa ermeneutica della presenza incarnata si ha una straordinaria
eppur semplice fusione di orizzonti non solo tra passato e presente e tra testo e vita, ma anche tra
ermeneutiche settoriali ed ermeneutica generale: individuata nella viva presenza di Cristo per opera
20
Ci sono alcuni dubbi testuali sull’espressione. Esser e “Fontes franciscani” la ritengono autentica; “Scritti” e la
seconda edizione di “Fonti francescane” la ritengono interpolazione di Angelo Clareno. Comunque sia, resta
espressione altamente significativa.
10
dello Spirito Santo, la vera chiave di lettura di tutto il reale e in ogni tempo, Francesco sa
riconoscere, amare e servire questa Verità.
Per Francesco, la verità del Vangelo è la presenza in esso di Cristo-verità21. La verità della vita
cristiana è la presenza in essa di Cristo-verità22. Il compito dell'ermeneutica è quello di rivelare la
presenza di Cristo-verità nel Vangelo e di aiutare ad incarnare la presenza di Cristo-verità nella
propria vita, che può allora giustamente venir definita con Francesco “vita del Vangelo di Gesù
Cristo”.
Nella Basilica inferiore di Assisi, Pietro Lorenzetti ha dipinto Maria con il Bambino tra Giovanni
evangelista e san Francesco. Evidente è il significato di “novus evangelista” riferito a Francesco23
rispetto al quarto evangelista. Ma non bisogna trascurare un significato ancor più raffinato e
profondo: Francesco presentato come “nova mater Christi”. La vita cristiana è grembo materno
come quello di Maria, dove ancora e sempre la Parola si fa carne per opera dello Spirito Santo.
5. La regola francescana tra ideale e storia24
La Regola di san Francesco ha costituito in passato e costituisce ancor oggi uno dei più forti
“motori trainanti” della spiritualità e del rinnovamento continuo in ambito cristiano.
La Regola-spiritualità del francescanesimo è caratterizzata dalla minorità, cioè dal distacco dal
possesso, dal potere, dal dominio: l’espropriarsi di Francesco perfino degli abiti è divenuto il
simbolo della sua scelta radicale.
Francesco è un “genio della santità” (Jean Guitton); ma nascono due domande:
- questo distacco totale, questo eroico “senza nulla di proprio” può diventare regola per persone
comuni?
- come quantificare il “senza nulla di proprio”? Dove finisce il necessario e dove comincia il
superfluo?
Questi due interrogativi nascono già tra la prima e la seconda Regola, ancora vivente Francesco.
Francesco e alcuni fedelissimi restano fedeli ad una lettura “sine glossa” del Vangelo e della
Regola, ma la famiglia cresce e Francesco stesso è costretto a “mediare”, anche se “il tutto
dell’amore” continua a caratterizzare i suoi scritti (cf. Rnb XXIII).
Sotto il profilo giuridico l’unica Regola vincolante è quella bollata, ma sotto il profilo ispirativo la
Rnb esprime il sogno evangelico originario di Francesco (il cui nucleo fu probabilmente presentato
e oralmente approvato da Innocenzo III nel 1209); lo stesso Testamento rimanda alla Rnb e alla
prima esperienza francescana dal 1209 al 1221.
Al Capitolo delle stuoie (1222) ci sono 5.000 frati e non hanno già più la fisionomia della prima
fraternità: ci sono rappresentanti della borghesia, classe sociale emergente, e del clero, classe
culturalmente egemone.
Il più tenace oppositore del radicalismo di Francesco - anche se suo amico ed estimatore - fu il
cardinale Ugolino, futuro papa, che vide nel francescanesimo una grande forza missionaria per la
Chiesa: consigliò e ottenne l’adattamento della povertà al numero dei frati e al loro compito di
21
La viva presenza del Signore nell’umanità del Gesù della storia, nell’Eucaristia e nella Parola è il grande tema della
Ammonizione I: FF 141-145, che non a caso termina con la citazione del versetto versetto conclusivo del vangelo di
Matteo: “Ecco io sono con voi sino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
22
Cf. il Prologo e il c.I della Rnb, dove “vita dei frati” e “vita del vangelo” sono messi in parallelo.
23
Tommaso da Celano è il primo a riferire il titolo a Francesco d’Assisi (cf. 1 Cel 89: FF 475).
24
Cf. Salvatore Nicolosi, “La regola francescana tra tensione ideale e concretezza storica” in Italia francescana LXXIII
(2003), 1, pp. 111-162.
11
collaborazione con la gerarchia. Innocenzo III dimostrò lungimiranza nel concedere la facoltà di
predicare a questi frati senza cultura: li avvicinò ai chierici, pose le premesse per un loro prestigio
sociale, ma anche per tutte le problematiche che nasceranno sull’interpretazione della Regola.
Ecco dunque il passaggio dalla Rnb alla Rb: sostanziale continuità, ma adattamento dell’eroismo
iniziale ed elitario alle possibilità concrete di un enorme numero di frati. Il Capitolo delle stuoie
segna il passaggio dal francescanesimo eroico delle origini al francescanesimo ufficiale.
Non bisogna cadere nella facile semplificazione sabatieriana di pensare che il passaggio dalla Rnb
alla Rb sia dettato dal semplice diminuire del fervore primitivo. In realtà sono due modi diversi,
ambedue legittimi, di vivere il francescanesimo. Quello che Francesco non accetta è la
“mondanizzazione”, cedere alla logica del potere, del possesso e del denaro.
Ma rifiutare del tutto il denaro per migliaia di frati equivale a rinunciare alla possibilità di
sopravvivenza: o si torna al baratto o si ricorre all’elemosina. La società di Francesco è agricola e
artigianale; vivere “sine glossa” la Regola si rivelò molto problematico già al suo tempo. E in una
società industriale come la nostra?
Francesco, ricco rampollo di una famiglia ricca di mercanti, propone lo stile di vita dei lavoratori
più poveri, quelli confinati al limite della sopravvivenza e insicuri del domani. Questo tipo di vita
“senza nulla di proprio” “anticipa” una vita che “meglio in gloria del ciel si canterebbe” (Dante).
Viene rifiutata la ricchezza come abbondanza e come accumulo del superfluo; viene rifiutato il
possesso del necessario; si accetta solo l’uso del necessario. Francesco sceglie liberamente lo stile
di vita che i poveri sono costretti a subire; accetta con amore le privazioni che gli emarginati
subiscono con rancore.
La domanda che sorse e che sorge è la seguente: la santità può essere oggetto di una Regola? E si
ripresenta la domanda: l’eroismo richiesto dalla Regola può essere imposto come norma ordinaria?
Vennero fuori ben presto delle “scappatoie” (accettazione del denaro purché offerto
spontaneamente dal donatore, proprietà giuridicamente riservata al Papa, amici dei frati).
Francesco non è manicheo: seppe unire insieme la rinuncia al possesso delle cose con l’amore per
tutte le creature, fino a scrivere quel capolavoro che è il “Cantico delle creature”.
Kant diceva che la legge non si rivolge al santo, per il quale è superflua, e neppure al bruto, per il
quale è incomprensibile: la legge è necessaria per l’uomo “normale”.
Francesco forse non aveva il carisma manageriale per tradurre in strutture organizzative le sue
intuizioni evangeliche: nel momento del passaggio dalla Rnb alla Rb, egli rinuncia al generalato,
anche se resta nell’Ordine e continua ad essere punto di riferimento per tutti.
Rivotorto (1209), Capitolo delle Stuoie a Santa Maria degli Angeli (1222), inaugurazione della
Basilica di san Francesco (1230) sono tappe significative anche per l’evoluzione del concetto e della
pratica della povertà e per il modo di intendere la Regola.
Una grande comunità non può far a meno di provviste per il giorno dopo e di edifici grandi.
Altro problema è quello dei “chierici” che presto entrano nell’Ordine con la loro cultura: tante
energie era opportuno utilizzarle al meglio. Da “operai salariati” - non con denaro - diventarono
maestri della dottrina evangelica e i papi incanalarono quel prezioso grande torrente di energie
nuove nel servizio fedele della Chiesa.
Nel 1240 il ministro generale Aimone di Faversham emanò quella norma rivoluzionaria che
escludeva i frati “laici” da tutte le cariche all’interno dell’Ordine, riservandole ai soli “chierici”.
Dopo la grandiosa costruzione della basilica di san Francesco e del sacro convento da parte del laico
frate Elia, giungevano ora le innovazioni istituzionali di un ordine divenuto clericale. Arrivarono
presto la facoltà di confessare e l’ufficio di parroco. Bonaventura completerà l’opera con la richiesta
di cattedre universitarie per i francescani a Parigi.
La Regola era stata scritta per una piccola famiglia di emarginati, i quali non dovevano possedere
nulla, neppure il Vangelo o il libro dell’Ufficio divino. In pochi decenni, le grandi costruzioni, i
privilegi papali, la clericalizzazione, i progetti curiali, la cultura, la porpora cardinalizia di
Bonaventura fecero del Francescanesimo una grande potenza. Dalla fase eroica dei “poveracci”
descritta da Giacomo da Vitry si era passati alla fase dei “maestri” guidati dal grande Bonaventura.
12
A partire dal 1274, anno della morte di Bonaventura, avviene la scissione dell’Ordine francescano.
Le due correnti della Comunità e degli Spirituali sono divise sulla interpretazione della Regola: la
prima vuole adattarla alle nuove esigenze, i secondi vogliono interpretarla “sine glossa” e accusano
la Comunità di lassismo. Ma fervore e tiepidezza erano in entrambi i campi.
Già le bolle di Clemente V, soprattutto “Exivi de Paradiso” (1311), incoraggiano a leggere la
Regola con occhi nuovi e con cuore antico. Ogni Regola ha un aspetto giuridico-legale e uno
morale-affettivo; ogni Regola è un tentativo di dare corpo ad un’anima.
Nell’infinita discussione sulla povertà, ad un certo punto ci si rende conto che neppure Gesù e gli
Apostoli l’hanno praticata come richiesto dalla Regola francescana; e diventa pericoloso voler
essere più poveri di Gesù.
Francesco riuscì a realizzare l’ideale della povertà più austera con la semplicità e la naturalezza del
genio, ma pretese dai suoi frati lo stesso grado di eroismo, dimenticando che l’eroismo è per pochi.
Nella generosità del suo eroismo, Francesco rifugge dai cavilli giuridici ed ecclesiastici con cui si
cercava di addolcire il suo radicalismo. Nel vangelo egli non vede “metafore” (cavarsi l’occhio
destro) o forme iperboliche. Intende sempre “tutto” anche quando forse è sufficiente intendere solo
una “parte”.
Le “glosse” possono essere cavilli per giustificare la mediocrità, oppure riflessioni critiche per
tradurre i simboli in saggezza quotidiana.
La Regola indica la direzione e il significato di fondo, non ciò che si deve fare ad ogni momento.
Non c’è nulla da aggiungere o nulla da togliere: non alle singole esemplificazioni, ma all’obbedire a
Cristo che parla nel vangelo vissuto nella Chiesa da frati minori.
La Regola francescana è il manifesto della libertà dello spirito sulla materia in rapporto alle forme
di ricchezza e di potere del secolo XIII, ma contiene un messaggio di respiro universale che può e
deve adattarsi ai vari tempi e ai vari luoghi, un’eco del discorso della montagna.
Il laicissimo Clémenceau criticando la sterilità inconcludente dei cattolici del suo tempo, disse
all’amico abbé Chautard: “Se nelle vene di ogni cristiano scorresse anche solo una goccia del
sangue di Francesco d’Assisi, la Chiesa avrebbe già conquistato e salvato il mondo”.
Alla logica della ricchezza e del potere Francesco oppone quella della povertà e della minorità per
costruire un mondo di fratelli. La storia del francescanesimo è piena di tentativi di interpretare la
Regola di Francesco per adattarla a molti o per conservarla per una élite. Ognuna delle due
interpretazioni va considerata con rispetto.
In ogni caso, l’interpretazione più vera della Regola deve essere fatta all’interno e dall’interno: ogni
frate deve “inventarla” ogni giorno nella sua vita, trasmettendo la propria testimonianza
dell’invisibile.
La proibizione di andare a cavallo è oggi fuori del tempo, ma resta valido il criterio di usare il
mezzo efficiente più povero. La proibizione di accettare denaro è oggi normalmente irrealizzabile,
ma resta valido il non accumulare, l’accettare lavori umili, l’accontentarsi di un compenso povero,
il vivere la povertà e l’austerità con gioia e condivisione, da fratelli minori.
Dall’unica Regola di Francesco potevano nascere, sono nate e possono ancora nascere forme
diverse di francescanesimo. Il tronco francescano è tanto pieno di vita evangelica che continua a
germinare polloni sempre nuovi e la vita di Francesco continua ad essere per tutti il punto di
riferimento e di verifica, personale e comunitario.
I due ultimi CPO dei Cappuccini (VI e VII) si sono mossi in questa direzione, ricercando l’intentio
di Francesco d’Assisi e proponendosi di attualizzarla nel nostro contesto storico e geografico.
13
NUCLEI CENTRALI DELLA REGOLA DI S. FRANCESCO PER IL CAMMINO SPIRITUALE
fr. Cesare Vaiani, ofm
Il dialogo personale di ciascuno con la Regola
Iniziamo un tentativo di dialogo – confronto - scontro con la Regola, riprendendo alcuni
suggerimenti dell’ermeneutica.
La Regola sta davanti a noi come un testo, e questo testo ci interpella, come ogni testo: io ho delle
domande-idee da porgli (le mie precomprensioni) e il testo ha delle domande-idee da proporre a me
(intenzione del testo). Un dialogo serrato, a volte un dibattito. È importante essere consapevole di
questo dialogo: non ci accostiamo senza precomprensioni, perché non è la prima volta che
affrontiamo il testo della Regola.
Dovremo allora essere coscienti delle nostre idee e precomprensioni sulla Regola: dal noviziato in
poi, quando ce l’hanno fatta studiare in un certo modo (non stiamo a giudicare il modo, cerchiamo
solo di capire), ce la siamo spiegata in una certa maniera, ce la siamo imparata magari a memoria,
abbiamo cercato onestamente di capire cosa voleva da noi, ci siamo impegnati a interpretare i
singoli passi e capitoli. È la storia della mia (e vostra) personale interpretazione della Regola, che ci
accompagna: secondo le acquisizioni dell’ermeneutica, questa storia non può essere cancellata, non
è possibile un rapporto “neutro” con il testo. Poiché ho delle precomprensioni, devo semplicemente
esserne consapevole, farle emergere.
Forse, per qualcuno, c’è anche il rischio che la Regola sia diventata un monologo: è lei sola a
parlare, e io non ho nulla da dire. O anche che non mi dica niente. Anche questo, infatti, è possibile;
ed anche in questo caso sono invitato a mettermi davanti a questo testo disponibile a lasciarmi
provocare.
Perché anche la Regola ha delle precomprensioni, che sono la sua storia, e ha delle intenzioni, che
sono i suoi obiettivi, più o meno scoperti. La sua storia è il passaggio dalla Forma di vita che
Francesco fece scrivere “con poche e semplici parole” e che “il Signor Papa gli confermò” (Test
15), attraverso le varie tappe della redazione della Regola non bollata, fino ai 23 capitoli della sua
redazione (anno 1221), che possediamo, e fino al testo attuale, più corto e succinto, della Regola
bollata (anno 1223) di cui noi ci occupiamo. Questa storia ci aiuta ad interpretare il nostro testo,
facendo ricorso al testo precedente: perché la vita ha sempre preceduto la stesura di un testo scritto,
e per capirlo bene bisogna guardare alla vita. Nel caso della Regola bollata siamo fortunati, perché
possediamo il testo della Regola non bollata, che la precede, e che in alcuni casi permette di
interpretarla meglio.
Dichiaro subito che noi, oggi, non faremo questo lavoro (da solo prenderebbe tutto il nostro tempo),
che però segnalo perché è certamente interessante e importante.
Ho detto che, oltre alla sua storia, la Regola ha anche delle intenzioni, che sono i suoi obiettivi, e li
dichiara onestamente in fine del testo: “affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima
santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l'umiltà e il santo Vangelo del Signore
nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso”. L’obiettivo di fondo, secondo questo testo,
è quello di permetterci l’osservanza del vangelo: siamo avvertiti! Frate avvisato, mezzo salvato.
14
La Regola per noi frati
Siamo dei frati che leggono la Regola, e questo fa parte delle nostre precomprensioni; mentre ho
cercato prima di evocare soprattutto le precomprensioni personali di ciascuno, qui ricordo qualche
tratto più comune per tutti noi. Mi pare vero, infatti, che la Regola per noi frati è un testo con alcune
proprie caratteristiche, che lo rendono in parte diverso dagli altri.
Prima caratteristica, che è una reale e importante differenza: questo testo è la Regola che abbiamo
professato. Francesco la definisce “la Regola che abbiamo promesso al Signore” (Test 14). Nella
coscienza comune dei frati (soprattutto giovani?) si è forse affievolita la differenza tra la Regola e
gli altri Scritti di Francesco: eppure non ho professato il Cantico! Sono legato a questo testo da un
legame singolare, specifico: me la fa guardare diversamente. Quale differenza? Solo un peso
ulteriore? Questa consapevolezza, che è la “regola professata” rischia forse di evocare (soprattutto
nei più anziani) lo spettro della lettura “giuridica” della Regola, con i 24 precetti, le 17 esortazioni,
e le 7 libertà della Regola: oggi ci appare una maniera un po’ povera di ridurre il testo. Se dobbiamo
riconoscere che oggi è certamente scomparsa la lettura giuridica, dobbiamo però chiederci quale
lettura applichiamo.
Seconda caratteristica: la voce di Francesco in prima persona. Una voce che trovo anche altrove,
negli Scritti (Testamento, Rnb, alcune lettere), ma qui certamente impegnativa ed evocatrice, ed
anche, diciamolo pure, un po’ strana in una Regola:
Questi interventi in prima persona sono nove, nel testo:
Quattro volte sono ordini chiari e incisivi, espressi con formule di comando molto precise, che
riguardano atti definiti, ben identificabili:
4,1 “Comando fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano denari o pecunia”,
10,3 “perciò comando loro fermamente di obbedire ai loro ministri in tutte quelle cose che
promisero al Signore di osservare”
11,1 “Comando fermamente a tutti i frati di non avere rapporti o conversazioni sospette con
donne”
12, 3 “Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei
cardinali…”
Cinque volte sono espressi con una formula esortativa, che per quattro volte comprende i verbi
“ammonisco ed esorto” (moneo et exhortor):
2,17 “Li ammonisco, però, e li esorto a non disprezzare e a non giudicare gli uomini che
vedono vestiti di abiti molli e colorati e usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno
giudichi e disprezzi se stesso”.
3,10 “Consiglio invece, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo che, quando
vanno per il mondo, non litighino ed evitino le dispute di parole, e non giudichino gli altri; ma
siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come
conviene”.
9,3 “Ammonisco anche ed esorto gli stessi frati che, nella loro predicazione, le loro parole siano
ponderate e caste, a utilità e edificazione del popolo, annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la
pena e la gloria con brevità di discorso, perché il Signore sulla terra parlò con parole brevi”.
10,7 “Ammonisco, poi, ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che si guardino i frati da ogni
superbia, vana gloria, invidia, avarizia, cure o preoccupazioni di questo mondo, dalla detrazione
e dalla mormorazione, 8 e coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle,
ma facciano attenzione che ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del
Signore e la sua santa operazione, ecc. ”.
Una quinta volta l’intervento di Francesco è ancora esortativo, ma espresso in maniera più sfumata,
con un appello ai frati, chiamati per due volte “fratelli carissimi”:
6,4 “Questa è la sublimità dell'altissima povertà, quella che ha costituito voi, fratelli miei
carissimi, eredi e re del regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. 5 Questa sia la
15
vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi. 6 E, aderendo totalmente a
questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo,
per il nome del Signore nostro Gesù Cristo”.
I testi che abbiamo elencato sgomberano dal campo una interpretazione dominante sulla Regola
bollata, che sarebbe una sorta di cedimento di Francesco, accettato da lui a malincuore; Le Goff
scrive addirittura: “Con la morte nell’animo Francesco accettò la regola così deformata”25. L’elenco
dei testi che abbiamo fornito, in cui Francesco interviene energicamente in prima persona non
mostra un uomo “con la morte nell’animo”: si tratta di un testo in cui Francesco è ben presente e nel
quale parla in prima persona, senza mostrare alcun cedimento. Sappiamo tutti che la Regola non
bollata ha capitoli molto belli e un “tono” generale diverso dalla Regola bollata: ma questo non
significa che Francesco sia presente nell’una e assente nell’altra. Bisogna piuttosto fare i conti con
questa capacità di Francesco di “inserirsi” con tutta la sua forza e la sua intuizione in documenti
dalla diversa tonalità, come le due Regole. Bisognerebbe anche ricordare che sul punto del
maneggio del denaro da parte dei frati la Regola bollata è più rigida della Regola non bollata,
eliminando le due eccezioni previste nel testo precedente, relative agli infermi e lebbrosi (Cfr Rnb
8,3; 8,10 a confronto con Rb 4).
Emerge qui la singolare presenza di Francesco nella spiritualità francescana, che è una presenza
molto “personale”, più forte che in altre tradizioni spirituali: tutto il dibattito del primo secolo gira
intorno alla vera immagine di Francesco, perché ripresentare quell’immagine significava presentare
un modello di vita concreta. I frati della prima generazione non discutevano sul “vero” Francesco
per erudizione, ma perché lo percepivano come “forma minorum”. Nella Regola emerge questa
significativa presenza di Francesco in prima persona.
Terza caratteristica: ci troviamo di fronte a un testo datato, per certi versi antico, e che ci viene
incontro attraverso una lettura di generazioni di frati. Fin dal 1230 (solo 4 anni dopo la morte di
Francesco!), con la Quo Elongati, sono iniziati i dibattiti a proposito dell’interpretazione della
Regola; e nei secoli si sono succedute diverse dichiarazioni pontificie, che spiegavano
autorevolmente il testo della Regola, proponendo una interpretazione autorevole che per noi, oggi, è
costituita sostanzialmente dalle Costituzioni generali, che vengono ritenute dalla Santa Sede
interpretazione autentica della Regola. Anche noi ci accostiamo alle Regola attraverso la
mediazione di queste interpretazioni: un esempio è la maniera in cui leggiamo le norme riguardanti
l’elezione del ministro generale. Raramente siamo immediatamente consapevoli che secondo la
Regola il Ministro generale è a vita, e che si elegge il Ministro (nel modo che abbiamo presente)
quando il predecessore è morto: Rb 8,2: “alla sua morte” (quo decedente). Infatti leggiamo la
Regola con la precomprensione di una storia che dal 1239 ha cambiato (legittimamente) registro su
questo punto, avvalendosi peraltro della libertà concessa dalla Regola stessa: “E se talora ai ministri
provinciali ed ai custodi all'unanimità sembrasse che detto ministro non fosse idoneo al servizio e alla
comune utilità dei frati, i predetti frati ai quali è commessa l'elezione, siano tenuti, nel nome del
Signore, ad eleggersi un altro come loro custode” (Rb 8, 4).
Queste tre caratteristiche, e forse anche altre, fanno parte del nostro vissuto di frati nei confronti
della Regola: non la accostiamo come uno studioso laico, o uno storico, che può cercare di leggere
questo testo in maniera “asettica” (in verità, anche lo studioso ha le sue precomprensioni). Per noi è
un testo “caldo”, con il quale riconosciamo legami personali e legami di famiglia, che sono
importanti per noi.
25
J. LE GOFF, San Francesco d’Assisi, Laterza, Roma – Bari 2000, p. 52.
16
TEMI SIGNIFICATIVI EMERGENTI
Prima di tutto, la vita
Il titolo dell’intera Regola e l’inizio del primo versetto (1,1): “Nel nome del Signore. Incomincia la
vita dei frati minori. La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè…”; e nel Capitolo secondo,
all’inizio “Se alcuni vorranno accogliere questa vita (hanc vitam accipere) e verranno dai nostri
frati…” e verso la fine (v.11) “siano ricevuti all'obbedienza, promettendo di osservare sempre questa
vita e Regola”.
Nel Testamento, quando Francesco ricorda la prima stesura della Regola, dice che “lo stesso Altissimo
mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. E io la feci scrivere con poche e
semplici parole e il Signor Papa me la confermò”: si tratta di “vivere”, è la scoperta di una vita secondo
il Vangelo.
Questa insistenza sulla vita è significativa e va registrata; cfr anche “avere lo Spirito del Signore e la
sua santa operazione” (Rb 10,9), in cui emerge l’importanza dell’agire, e la preghiera davanti al
crocifisso in cui Francesco chiede “senno e cognoscemento che io faccia il tuo santo e verace
comandamento”.
Emerge il rifiuto di una formazione solo teorica o intellettuale, mentre viene privilegiato un pensare
nella vita e a partire dalla vita. Addirittura la vita permette una migliore comprensione della parola:
cfr. l’episodio dell’ascolto del vangelo alla Porziuncola, con una iniziale messa in pratica della
parola udita attraverso il cambio d’abito, che permette una migliore comprensione della parola
stessa; oppure, nella stessa linea, si pensi all’attuazione dell’invito del crocifisso di san Damiano,
attraverso una riparazione materiale del tetto della chiesa.
Questo riferimento alla vita diventa anche attitudine pratica, “drammatica”, tipica della spiritualità
francescana: ne sono una prova, se pure a livelli diversi, il presepio di Greccio o le stimmate.
Francesco è convinto che attraverso il fare si impari più che da tanta teoria: cfr. Fioretti 30: FF
1864, con la predica di frate Rufino mandato nudo ad Assisi e seguito da Francesco ugualmente
nudo. Si tratta di un episodio, tra i tanti, in cui emerge la valenza “formativa” dell’agire di
Francesco.
Il valore da lui attribuito al gesto risulta anche dalla “predica della cenere”, da lui tenuta davanti a
Chiara e alle sue sorelle (2 Cel 207 FF 796).
Se è vero che ogni spiritualità è un vissuto, prima di essere una dottrina, questo è particolarmente vero
per la spiritualità francescana, che porta nativamente con sé questo legame con la vita che è ben
espresso fin dalle righe iniziali della Regola.
Ispirazione – Spirito – grazia – discernimento
Segnaliamo anzitutto una serie di testi della Regola che mostrano l’ampio spazio dato all’azione
dello Spirito:
2,7: “dispongano delle loro cose liberamente, secondo l'ispirazione del Signore”.
2,10: “a meno che qualche volta ai ministri non sembri diversamente secondo Dio”.
2,16: “E tutti i frati si vestano di abiti vili e possano rattopparli … con la benedizione di Dio”.
3,6: “coloro che volontariamente la digiunano siano benedetti dal Signore, e coloro che non
vogliono non vi siano obbligati”.
3,10: “Consiglio invece, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo…”.
4,2: “secondo i luoghi e i tempi e i paesi freddi, così come sembrerà convenire alla necessità”
5,1: “Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino…”.
7,2: “I ministri…impongano con misericordia ad essi la penitenza… così come sembrerà ad
essi più opportuno, secondo Dio”.
8,4: “E se talora ai ministri provinciali ed ai custodi all'unanimità sembrasse che detto ministro
non fosse idoneo … siano tenuti, nel nome del Signore, ad eleggersi un altro come loro
custode”.
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10,4: “E dovunque vi siano dei frati che si rendono conto e riconoscano di non poter osservare
spiritualmente la Regola, debbano e possono ricorrere ai loro ministri”.
10,8: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua
santa operazione”.
12,1: “Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri
infedeli”.
In questa dozzina di testi della Regola si fa riferimento più o meno esplicito all’ispirazione del
Signore, all’agire “spiritualmente” (spiritualiter), all’azione (operazione) dello Spirito, al
discernimento “secondo Dio” o “con la benedizione di Dio” o “nel nome del Signore”o anche
secondo “la necessità”, alla grazia (riferita al lavoro, ma sempre grazia “concessa dal Signore”).
Sono espressioni che rivelano il grande spazio concesso da Francesco e dalla Regola all’azione
dello Spirito, che si esprime in un corretto discernimento spirituale. Il tema dell’ “avere lo Spirito
del Signore” è tema centrale nell’esperienza di Francesco, e può essere identificato come il motore
da cui tutto prende vita: per rispettare l’ordine proposto da Francesco, bisogna partire dallo Spirito
del Signore, che purifica, illumina e accende quanti vogliono conoscere Dio, e li abilita a seguire le
orme di Cristo per poter così giungere all’Altissimo Padre, ultimo ed infinito orizzonte della santa
Trinità. Dallo Spirito, al Figlio, al Padre: questo sembra essere l’itinerario spirituale che Francesco
ha sperimentato e che rivela anche nella Regola, in questo abbondante spazio dato allo Spirito.
Possiamo infine notare come l’azione dello Spirito rimandi al discernimento: si tratta di capire cosa
è bene fare secondo Dio, e questo è l’ambito del discernimento spirituale, cioè animato dallo
Spirito.
Il Vangelo
La Regola nasce dall’ascolto del Vangelo, come dice Francesco nel Testamento (14-15) e come ci
confermano i racconti biografici (2 Cel 15 FF 601; 3 Comp. 27-29 FF1429-1432) che parlano della
triplice apertura del Vangelo, alla base della Forma vitae e della Regola.
Il rapporto Regola – Vangelo è affermato espressamente all’inizio e alla fine della stessa, in una
specie di significativa inclusione; all’inizio si afferma “La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè
osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo” e alla fine si conclude ugualmente con il
riferimento al Vangelo “affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa,
stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l'umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù
Cristo, che abbiamo fermamente promesso”.
Da notare che il Vangelo è “il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo”: potremo ritenere
relative al Vangelo anche le espressioni che rimandano semplicemente al modello di Gesù, perché è
questo il contenuto del Vangelo.
Possiamo allargare il riferimento dal Vangelo in senso stretto ai vari testi biblici che si presentano nel
testo. Infatti, mentre nel testo della Rnb le citazioni della Scrittura sono molte ed esplicite, sembrerebbe
che nella Regola bollata ce ne siano meno; in verità non è così.
Il riferimento al Vangelo, al modello di Gesù e alla parola della Scrittura non si limita alla “cornice”
di inizio e fine, pure molto significativa, e ritorna spesso nel corpo della Regola:
2,5: “dicano ad essi la parola del santo Vangelo, che vadano e vendano tutto quello che
posseggono e procurino di darlo ai poveri.
2,12-13: “E in nessun modo sarà loro lecito di uscire da questa Religione, secondo il decreto
del signor Papa; poiché, come dice il Vangelo nessuno che mette la mano all'aratro e poi si
volge indietro è adatto per il regno di Dio.
3,13-14: “In qualunque casa entreranno dicano, prima di tutto: Pace a questa casa; e, secondo
il santo Vangelo, è loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro presentati”.
5,2: “non estinguano lo spirito della santa orazione e devozione” (1 Ts 5,19)
6,2: “ma come pellegrini e forestieri” (1 Pt 2,11)
6,3: “Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo (cfr
2 Cor 8,9)”.
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6,5: “questa sia la vostra parte che conduce nella terra dei viventi” (Sal 141, 6)
6,9: “gli altri frati lo servano come vorrebbero essere serviti essi stessi” (cfr Mt 7,12)
9,3: “le loro parole siano ponderate e caste” (Sal 11,7)
9,4: “con brevità di discorso, poiché il Signore sulla terra parlò con parole brevi (verbum
abbreviatum fecit Dominus Rm 9,28, che a sua volta cita Is 10,23)”.
10,10-12: “poiché dice il Signore: Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano e vi calunniano (Mt 5,44); beati quelli che sopportano persecuzione a causa della
giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,10). E chi persevererà fino alla fine, questi
sarà salvo (Mt 10,22)”.
Ma forse il testo più convincente da questo punto di vista è Rb 3, 10-11, che indica come i frati
debbano andare per il mondo, ed è un tessuto di citazioni bibliche dalla 2 Tm (v 14: “scongiurandoli
davanti a Dio di evitare le dispute di parole” e v 24 “Un servo di Dio non deve litigare, ma
dev’essere mite con tutti”), da Tt 3,2 (“Ricorda loro di non parlar male di nessuno, di evitare le
contese, di essere mansueti”), dalle beatitudini di Mt 5, 4 (“Beati i miti”) e Mt 5,9 (“beati i
pacifici”) e Lc 6, 37(“Non giudicate e non sarete giudicati”).
10
Consiglio invece, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo che, quando
vanno per il mondo,
non litighino (2 Tm, 2, 24; Tt 3,2
ed evitino le dispute di parole, 2 Tm 2, 14
e non giudichino gli altri; Lc 6,37
11
ma siano miti, Mt 5,4
pacifici Mt 5,9
e modesti, mansueti 2 Tm 2,24; Tt 3,2
e umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene.
È una vera e propria composizione a mosaico che lascia intravedere che l’autore del testo è
“impregnato” della parola delle Scritture.
Questo rapporto Regola – Vangelo non è esclusivo della Regola francescana, e costituisce un dato
costante della tradizione della vita consacrata. Certamente nel testo di Francesco emerge una
consapevolezza molto forte che la regola non sostituisce il Vangelo, ma è come una lente per
meglio leggerlo e soprattutto per meglio osservarlo (la “regola e vita”).
Questo riferimento al Vangelo è inteso da Francesco come riferimento a Cristo che parla oggi nel
Vangelo. Si veda ad esempio la Forma vivendi per Chiara: FF 139: l’espressione “avete scelto di
vivere secondo la perfezione del santo Vangelo”, inserita dopo il riferimento al Padre, di cui “vi
siete fatte figlie”, e accanto allo Spirito, di cui siete divenute spose, indica che la perfezione del
Vangelo rimanda semplicemente a Cristo. Potremmo dire, in certo modo, che il Vangelo è Cristo.
Per noi credo sia da sottolineare l’importanza del riferimento al Vangelo inteso come l’oggettivo
della fede, per evitare il rischio di una naturale religiosità che si costruisce l’amico immaginario.
Il riferimento al Vangelo si coniuga con l’azione dello Spirito del Signore, che abbiamo già
evocato, perché soltanto se la lettura del Vangelo avviene nello Spirito diventa percezione di una
parola viva, che è presenza oggi di Cristo, vivente oggi. Si può evocare il testo di Dei Verbum 12:
“La Sacra Scrittura deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale
è stata scritta”. Francesco ne è ben consapevole, come mostra, ad esempio, l’Ammonizione 7,
dedicata ad illustrare la frase “La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita”.
Nelle fonti biografiche questo tema è ben espresso dal sogno / parabola di Francesco, che da molte
briciole di pane (che sono le parole evangeliche) compone un’unica ostia da porgere ai frati (2 Cel
209: FF 799), come pure dalle espressioni riportate dal Celano a proposito della Regola e da lui
attribuite a Francesco: “Questa, ripeteva, è il libro della vita, speranza di salvezza, midollo del
Vangelo, via della perfezione, chiave del Paradiso, patto di eterna alleanza” (2 Cel 208: FF 797).
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Chiesa / Papa
Un tema certamente importante è il rapporto con la Chiesa romana e con il Papa: esso ritorna
anzitutto nella Bolla pontificia che inquadra il testo della Regola e che ne fa parte, per noi frati, a
pieno titolo; il soggetto dell’approvazione nella Bolla è “Onorio vescovo” e la “Sede apostolica”,
ed è la loro autorità, insieme a quella dei santi apostoli, ad essere evocata per dare forza e autorità al
nostro testo.
Il Papa è presentato come colui che augura “salute e apostolica benedizione”, e la Sede apostolica
come quella che “suole accondiscendere ai pii voti e accordare benevolo favore agli onesti desideri dei
richiedenti”: e in queste parole la Chiesa appare come madre che si occupa dei suoi figli. Ma, accanto a
questa dimensione materna, bisogna rilevare che il registro principale è certamente quello gerarchico,
che menziona esplicitamente l’”autorità apostolica” e il “patrocinio del presente scritto”, e che motiva
il fatto che a nessuno sarà “lecito di invalidare questo scritto della nostra conferma o di opporsi ad esso
con audacia e temerarietà”.
L’immagine di Chiesa che emerge dalla Bolla è dunque da una parte quella di madre, ma dall’altra è
soprattutto quella dell’autorità.
E quale è l’immagine del rapporto di Francesco con la Chiesa?
1,2: “Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi
successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana”.
2,2: “I ministri, poi, diligentemente li esaminino intorno alla fede cattolica e ai sacramenti della
Chiesa”
2,12: “E in nessun modo sarà loro lecito di uscire da questa Religione, secondo il decreto del
signor Papa”.
3,1: “I chierici recitino il divino ufficio, secondo il rito della santa Chiesa romana”.
11,2: “non entrare in monasteri di monache, eccetto quelli ai quali è stata data dalla Sede
Apostolica una speciale licenza”.
12,3-4: “Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei
cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa
fraternità, affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella
fede cattolica, osserviamo la povertà, l'umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù
Cristo, che abbiamo fermamente promesso”.
In questi riferimenti della Regola è sicuramente importante il rapporto gerarchico, espresso in termini
di “obbedienza e reverenza” e di osservanza dei decreti e delle licenze del Papa, ma soprattutto
attraverso la istituzione del cardinale protettore, che assicura un legame diretto con il Papa. Accanto a
questo vincolo più gerarchico, la Chiesa romana ha anche il ruolo di norma, o regola sia per la dottrina
della fede (“la fede cattolica e i sacramenti della Chiesa”), sia per il rito liturgico.
Va notato che la Regola ha anche consapevolezza che il rapporto con la Chiesa non passa solo
attraverso il Papa e la chiesa universale, ma anche attraverso la dimensione della chiesa locale e il
riferimento ai vescovi:
2,4: “e non hanno mogli o, qualora le abbiano, esse siano già entrate in monastero o abbiano
dato loro il permesso con l'autorizzazione del vescovo diocesano”.
9,1: “I frati non predichino nella diocesi di alcun vescovo qualora dallo stesso vescovo sia stato
loro proibito”.
Quest’ultimo tratto ha un speciale significato per noi, oggi, dopo il Vaticano II, con la riscoperta
dell’importanza della chiesa locale, radunata intorno al vescovo.
Povertà
Elenco dapprima i testi in cui si fa riferimento esplicito al tema della povertà.
1,1: “vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità”.
2,5-8: “dicano ad essi la parola del santo Vangelo, che «vadano e vendano tutto quello che
posseggono e procurino di darlo ai poveri». Se non potranno farlo, basta ad essi la buona
volontà. E badino i frati e i loro ministri di non essere solleciti delle loro cose temporali,
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affinché dispongano delle loro cose liberamente, secondo l'ispirazione del Signore. Se tuttavia
fosse loro chiesto un consiglio i ministri abbiano la facoltà di mandarli da persone timorate di
Dio, perché con il loro consiglio i beni vengano elargiti ai poveri”.
2,14-16: “E coloro che hanno già promesso obbedienza, abbiano una tonaca con il cappuccio
e un'altra senza, coloro che la vorranno avere. E coloro che sono costretti da necessità possano
portare calzature. E tutti i frati si vestano di abiti vili e possano rattopparli con sacco e altre
pezze con la benedizione di Dio”.
3,11-12: “ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti,
così come conviene. E non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o
infermità”.
4: “Comando fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano denari o pecunia,
direttamente o per interposta persona. Tuttavia, i ministri e i custodi, ed essi soltanto, per mezzo
di amici spirituali, si prendano sollecita cura per le necessità dei malati e per vestire gli altri
frati, secondo i luoghi e i tempi e i paesi freddi, così come sembrerà convenire alla necessità,
salvo sempre il principio, come è stato detto, che non ricevano denari o pecunia”.
5,3-4: “Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro
fratelli, eccetto denari o pecunia, e questo umilmente, come conviene a servi di Dio e a seguaci
della santissima povertà”.
6,1-6: “I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come
pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per
l'elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in
questo mondo. Questa è la sublimità dell'altissima povertà, quella che ha costituito voi, fratelli
miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. Questa
sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi. E, aderendo
totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo
sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo”.
11,3: “Né si facciano padrini di uomini o di donne affinché per questa occasione non sorga
scandalo tra i frati o riguardo ai frati”.
12,4: “affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella
fede cattolica, osserviamo la povertà, l'umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù
Cristo, che abbiamo fermamente promesso”.
La Regola indica alcuni ambiti di vita in cui particolarmente è raccomandata la povertà:
anzitutto chiede ai candidati una espropriazione iniziale, con la sottolineatura che i beni vanno
possibilmente donati ai poveri; poi prevede una attenzione alla povertà nel vestito, nell’utilizzo dei
mezzi di trasporto (“i frati non vadano a cavallo”), nel lavoro, che va svolto da poveri, soprattutto per
quanto riguarda la retribuzione, e anche nelle relazioni sociali, con il precetto di non essere padrini,
perché tale legame comporta un ruolo sociale “proprietario”.
Tutto questo trova come una sintesi nel chiaro precetto di non usare denaro e di non possedere
proprietà immobili e mobili, formulato nei capitoli 4 e 6.
Si può sottolineare la dimensione “relazionale” della povertà, che significa che si è poveri nel rapporto
con gli altri, prima ancora che per la mancanza del possesso materiale di qualcosa.
È il suggerimento che emerge dalla Ammonizione 14: FF 163, dedicata a commentare la parola di
Gesù “beati i poveri in spirito”, e che fa consistere la povertà nella capacità di sopportare una parola
d’ingiuria rivolta a noi o la sottrazione di qualcosa che ritengo mio. Tale concezione “relazionale” della
povertà, nella Regola, emerge evidentemente nelle norme relative all’abito: esso deve essere “vile” e
questo non è tanto finalizzata alla penitenza, perché esso può benevolmente essere rattoppato, quindi
rinforzato per tenere più caldo e fare meno penitenza fisica, ma deve esprimere una certa relazione
verso gli altri, relazione umile che viene sottolineata con l’ammonizione a non “disprezzare e a non
giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma
piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso”. La stessa attenzione “relazionale” emerge nell’uso
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dei mezzi di trasporto, nel lavoro, nel non essere padrini, e probabilmente anche nel divieto di
maneggiare denaro, perché il denaro è un elemento essenziale per definire le relazioni tra uomini.
Ovviamente questo non significa che Francesco non pensi anche ad una povertà materiale, che è
ribadita soprattutto nel cap. 6, col divieto di appropriarsi di beni immobili e mobili. Questo capitolo
sviluppa soprattutto una riflessione sulla “mistica della povertà”, che riprenderemo poi.
Da segnalare anche il collegamento iniziale con obbedienza e castità: va considerato solo un dato
giuridico-canonico, legato all’emergere della dottrina dei tre voti per la vita religiosa, oppure si può
pensare anche alla vita sine proprio come denominatore comune dei tre voti? In tal caso i tre voti
possono configurarsi come una triplice espropriazione.
Relazioni fraterne
Il tema delle relazioni fraterne percorre tutta la regola, ogni volta che si parla di “frati minori”, o
semplicemente di “frati”, che andrebbe meglio tradotto “fratelli” (nel latino e nell’italiano dell’epoca le
due parole non si sono ancora distinte).
2,7: “E badino i frati e i loro ministri di non essere solleciti delle loro cose temporali”.
4,2: “Tuttavia, i ministri e i custodi, ed essi soltanto, per mezzo di amici spirituali, si prendano
sollecita cura per le necessità dei malati e per vestire gli altri frati, secondo i luoghi e i tempi e
i paesi freddi, così come sembrerà convenire alla necessità”.
5,3: “Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro
fratelli, eccetto denari o pecunia”.
6,7-9: “E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro
reciprocamente. E ciascuno manifesti con fiducia all'altro le sue necessità, poiché se la madre
nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo
fratello spirituale? E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come
vorrebbero essere serviti essi stessi”.
7,2-3: “I ministri, poi, se sono sacerdoti, loro stessi impongano con misericordia ad essi la
penitenza; se invece non sono sacerdoti, la facciano imporre da altri sacerdoti dell'Ordine, così
come sembrerà ad essi più opportuno, secondo Dio. E devono guardarsi dall'adirarsi e turbarsi
per il peccato di qualcuno, perché l'ira ed il turbamento impediscono la carità in sé e negli
altri”.
10,5-7: “I ministri, poi, li accolgano con carità e benevolenza e li trattino con tale familiarità
che quelli possano parlare e fare con essi così come parlano e fanno i padroni con i loro servi;
infatti, così deve essere, che i ministri siano i servi di tutti i frati. Ammonisco, poi, ed esorto nel
Signore Gesù Cristo, che si guardino i frati da ogni superbia, vana gloria, invidia, avarizia, cure
o preoccupazioni di questo mondo, dalla detrazione e dalla mormorazione”.
11,3: “Né si facciano padrini di uomini o di donne affinché per questa occasione non sorga
scandalo tra i frati o riguardo ai frati”.
La sintesi del comportamento richiesto ai fratelli nel rapporto fraterno è certamente nel capitolo 6, con
l’immagine del reciproco amore come una madre. La caratteristica materna, qui evocata, è soprattutto
quella del prendersi cura dell’altro, e tale caratteristica emerge anche in altri testi dedicati al rapporto
coi fratelli: ci si prende cura anzitutto dei fratelli malati (menzionati due volte, capp. 4,2 e 6,9), come
pure del vestire i fratelli, magari per mezzo di “amici spirituali”, e ci si prende cura dei fratelli
condividendo con loro la ricompensa del proprio lavoro.
Vengono evidenziati alcuni rischi del rapporto fraterno, che sono particolarmente la “superbia, vana
gloria, invidia, avarizia, cure o preoccupazioni di questo mondo, la detrazione e la mormorazione”del
capitolo 10: si tratta di diversi atteggiamenti che, in diverso modo, rimandano alla tentazione
dell’appropriazione nei rapporti con gli altri (così per superbia, vana gloria, invidia, avarizia) o al
tentativo di lederne l’immagine (particolarmente con la detrazione e la mormorazione). A questa
attenzione ad evitare l’appropriazione rimanda anche l’invito, nel capitolo 2, a “non essere solleciti
delle cose temporali” dei nuovi fratelli, mentre la preoccupazione di tutelare l’immagine dei fratelli
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emerge anche nella normativa del non essere padrini “affinché per questa occasione non sorga
scandalo tra i frati o riguardo ai frati”.
Infine, un ambito speciale del rapporto fraterno è quello con i ministri, segnato da “tale familiarità che i
frati possano parlare e fare con essi così come parlano e fanno i padroni con i loro servi”. In questo
rapporto coi ministri emerge il tema della necessaria correzione: le indicazioni in proposito riguardano
da una parte la misericordia nell’imporre la penitenza ai frati che peccano e dall’altra l’invito a
guardarsi dall’ira e dal turbamento per il peccato di qualcuno.
Obbedienza
Sono da ricordare anzitutto le volte in cui si dice: “comando fermamente” (3 volte) o “impongo per
obbedienza” (1 volta) e che abbiamo già citato a proposito degli interventi “in prima persona “ di
Francesco.
1,1-3: “vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità. Frate Francesco promette
obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla
Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori”.
2,11-14: “Terminato, poi, l'anno della prova, siano ricevuti all'obbedienza, promettendo di
osservare sempre questa vita e Regola. E in nessun modo sarà loro lecito di uscire da questa
Religione, secondo il decreto del signor Papa; poiché, come dice il Vangelo «nessuno che mette
la mano all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» (26). E coloro che hanno
già promesso obbedienza, abbiano una tonaca con il cappuccio e un'altra senza, coloro che la
vorranno avere”.
7,1: “Se dei frati, per istigazione del nemico, avranno mortalmente peccato, per quei peccati per
i quali sarà stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali, i predetti frati
siano tenuti a ricorrere ad essi, quanto prima potranno senza indugio”.
8,1-2: “Tutti i frati siano tenuti ad avere sempre uno dei frati di quest'Ordine come ministro
generale e servo di tutta la fraternità e a lui devono fermamente obbedire. Alla sua morte,
l'elezione del successore sia fatta dai ministri provinciali e dai custodi nel Capitolo di
Pentecoste, al quale i ministri provinciali siano tenuti sempre ad intervenire, dovunque sarà
stabilito dal ministro generale”.
9,2: “E nessun frate osi affatto predicare al popolo, se prima non sia stato esaminato ed
approvato dal ministro generale di questa fraternità e non abbia ricevuto dal medesimo
l'ufficio della predicazione”.
10,1-4: “I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, visitino ed ammoniscano i loro frati e
li correggano con umiltà e carità, non comandando ad essi niente che sia contro alla loro
anima e alla nostra Regola. I frati, poi, che sono sudditi, si ricordino che per Dio hanno
rinnegato la propria volontà. Perciò comando loro fermamente di obbedire ai loro ministri in
tutte quelle cose che promisero al Signore di osservare e non sono contrarie all'anima e alla
nostra Regola. E dovunque vi siano dei frati che si rendono conto e riconoscano di non poter
osservare spiritualmente la Regola, debbano e possono ricorrere ai loro ministri”.
12,1-4: “Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri
infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. I ministri poi non concedano a
nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati. Inoltre,
impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei cardinali della santa
Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, affinché,
sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa…”.
L’obbedienza emerge come spazio fraterno ed ecclesiale: l’immagine della Regola è quella dell’essere
“ricevuti all’obbedienza”, che sembra quasi uno spazio fisico nel quale si entra, e dal quale si può
uscire. In diversi testi (al di fuori della Regola) Francesco riprende i fratelli che vogliono “andar
vagando fuori dell’obbedienza “ (Rnb 2,10); “Lo stesso dico anche per tutti gli altri che vanno
26 Lc 9,62.
23
vagando, incuranti della disciplina della Regola; poiché il Signore nostro Gesù Cristo dette la sua vita
per non venir meno all'obbedienza del Padre santissimo (LOrd 45-46: FF 230). Il testo più illuminante
a questo proposito si trova nella Regola non bollata: “E tutti i frati, ogni volta che si allontaneranno dai
comandamenti del Signore e andranno vagando fuori dell'obbedienza, come dice il profeta, sappiano
che essi sono maledetti fuori dall'obbedienza, fino a quando rimarranno consapevolmente in tale
peccato. Se invece avranno perseverato nei comandamenti del Signore, che hanno promesso di
osservare seguendo il santo Vangelo e la loro forma di vita, sappiano che sono nella vera obbedienza, e
siano benedetti dal Signore” (Rnb 5,16-17: FF 21). Questa immagine dell’obbedienza come “spazio”
in cui stare mette in evidenza il legame tra obbedienza e fraternità: l’obbedienza è lo spazio della
fraternità, è il legame che mantiene uniti ai fratelli, nella comune osservanza della Regola, che è la
norma di questo vincolo fraterno.
Al tema dell’obbedienza si collega ovviamente quello dell’autorità: nella Regola emergono diverse
figure di autorità, che sono il Papa, il Cardinale protettore, Francesco stesso, il ministro generale e i
ministri. Queste figure sono tutte personali e ben identificabili: verso di loro si professa un legame di
obbedienza, che certamente entra dentro la più radicale obbedienza a Dio, ma che comunque implica
un preciso vincolo di obbedienza verso persone umane. Sappiamo che questo è un punto delicato della
teologia della vita consacrata a proposito del voto di obbedienza: come si giustifica l’obbedienza a una
creatura umana? Con il voto di obbedienza, che pur senza contraddire l’impegno fondamentale di
obbedire a Dio, lega tuttavia all’obbedienza ad un uomo, non c’è il rischio di contraddire quella libertà
che Cristo ci ha guadagnato? La Regola fornisce alcune importanti indicazioni a questo proposito: la
terminologia dell’obbedienza, oltre che per le creature umane, viene usata anche per il vincolo più
impersonale che lega all’obbedienza verso la “vita e regola” (2,11). Evidentemente il legame di
dipendenza professato verso alcune persone si accosta a quello verso la forma di vita, che per questo
fornisce anche i limiti entro i quali si realizza l’obbedienza ai superiori: i frati sanno che dovranno
“obbedire ai loro ministri in tutte quelle cose che promisero al Signore di osservare e non sono
contrarie all'anima e alla nostra Regola” (10,3). È la Regola stessa, dunque, che indica quali sono i
limiti dell’obbedienza, e dunque anche i limiti dell’autorità; d’altra parte, resta quel riferimento
all’anima, accanto alla Regola, che lascia forse aperti molti interrogativi, ma che invita ad una
interpretazione aperta alla vita e non solo schiava del diritto.
L’indicazione più preziosa che viene dalla Regola sul tema dell’obbedienza è espressa in una
brevissima frase che, in maniera folgorante, indica la ragione profonda del voto di obbedienza: “I frati,
poi, che sono sudditi, si ricordino che per Dio hanno rinnegato la propria volontà” (10,2). Il voto di
obbedienza è definito con estrema precisione teologica in queste parole, che lo delineano come un
rinnegare (il verbo usato è quello che Mt 16,24 utilizza per indicare la sequela di Gesù: “Chi vuol
venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”) per Dio la propria volontà. Si
dice “per Dio”, perché la ragione ultima rimanda a Lui, e alla vocazione speciale che da Lui procede,
che indica ad alcune persone una singolare maniera di conformarsi a Cristo, obbediente fino alla morte
di croce, attraverso il vincolo di obbedienza ad una creatura umana, all’interno dei limiti definiti da una
Regola di vita. Si dice che l’oggetto di questo rinnegamento è “la propria volontà” perché
l’obbedienza, in senso proprio, è sacrificio della propria volontà a Dio, e non della propria intelligenza.
Chi volesse approfondire la profonda visione teologica dell’obbedienza che emerge dagli scritti di
Francesco (che parlano di obbedienza più che di povertà) potrà utilmente leggere e meditare
l’Ammonizione 3.
Infine, sul tema dell’obbedienza, possiamo rilevare il rapporto tra divina ispirazione e obbedienza: sia
nel cap. 12, 1, dove si dice che i “frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra
gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali”, sia nel cap. 10,4, dove “i frati che
si rendono conto e riconoscano di non poter osservare spiritualmente la Regola, devono e possono
ricorrere ai loro ministri”, si constata un certo rapporto tra azione dello Spirito o osservanza spirituale
(che è lo stesso) e ricorso all’autorità gerarchica. Quest’ultima sembra avere il ruolo di dare o negare
una conferma rispetto alle ispirazioni spirituali, con un ruolo di discernimento importante, ribadito, ad
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esempio, col dire che “i ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi se non a quelli
che riterranno idonei ad essere mandati”.
Testimonianza
Sotto il titolo “testimonianza” raccogliamo i testi relativi sia alla predicazione, che è la forma più
esplicita di annuncio, sia i testi che sottintendono un annuncio implicito, più nella vita che nelle
parole, in cui consiste la testimonianza che tutti i frati (non solo i predicatori) devono dare. Si può
ricordare, a questo proposito, Rnb 17, 3: FF 46: “Tutti i frati predichino con le opere”.
2,17: “Li ammonisco, però, e li esorto a non disprezzare e a non giudicare gli uomini che
vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno
giudichi e disprezzi se stesso”.
3,10-11; 13-14: “Consiglio invece, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo
che, quando vanno per il mondo, non litighino ed evitino le dispute di parole, e non
giudichino gli altri; ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente
con tutti, così come conviene. In qualunque casa entreranno dicano, prima di tutto: Pace a
questa casa; e, secondo il santo Vangelo, è loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro
presentati”.
6,2-3: “E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed
umiltà, vadano per l'elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto
povero per noi in questo mondo”.
9, 1-4: “I frati non predichino nella diocesi di alcun vescovo qualora dallo stesso vescovo sia
stato loro proibito. E nessun frate osi affatto predicare al popolo, se prima non sia stato
esaminato ed approvato dal ministro generale di questa fraternità e non abbia ricevuto dal
medesimo l'ufficio della predicazione. Ammonisco anche ed esorto gli stessi frati che, nella
loro predicazione, le loro parole siano ponderate e caste, a utilità e a edificazione del popolo,
annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso, poiché il
Signore sulla terra parlò con parole brevi”.
11,1-3: “Comando fermamente a tutti i frati di non avere rapporti o conversazioni sospette
con donne, e di non entrare in monasteri di monache, eccetto quelli ai quali è stata data dalla
Sede Apostolica una speciale licenza. Né si facciano padrini di uomini o di donne affinché per
questa occasione non sorga scandalo tra i frati o riguardo ai frati”.
12,1-2: “Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri
infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. I ministri poi non concedano a
nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati”.
Il cap. 3, dedicato a come andare per il mondo, offre una buona sintesi della testimonianza che i frati
devono offrire, andando per il mondo, cioè nella loro vita tra la gente. Sostanzialmente, devono andare
umilmente, quindi non a cavallo, “mansueti e umili”: in particolare senza giudicare nessuno e senza
dispute, comportandosi secondo il vangelo (è il vangelo che giustifica la norma del mangiare di tutti i
cibi).
Vengono date anche poche, essenziali indicazioni sul contenuto dell’annuncio esplicito: nel cap. 3 è la
pace, come dice il Vangelo, e nel cap. 9, dedicato ai predicatori, sono menzionati “i vizi e le virtù, la
pena e la gloria”.
Oltre al richiamo al contenuto, si trova qualche indicazione sulla forma della predicazione: con parole
ponderate e caste (ci si può chiedere che cosa vuol dire) e con “brevità di discorso”. Quest’ultima è
giustificata in maniera esegeticamente discutibile, con riferimento ad un testo difficile di Paolo
secondo la Vulgata (“quia verbum breviatum faciet Dominus super terram” Rm 9, 28, che la CEI
traduce “poiché con pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra”); possiamo
comunque notare che anche in questo testo quel che importa a Francesco è il riferimento all’esempio
del Signore, che resta comunque la norma dell’agire.
Obiettivo dell’annuncio è “l’utilità e edificazione del popolo”.
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DUE TESTI SPECIALI DELLA REGOLA: CAP 6 E CAP 10
Capitolo 6
Il capitolo 6 si divide chiaramente in due parti, la prima delle quali è dedicata alla povertà, mentre la
seconda si occupa dei rapporti fraterni: e su entrambi i temi contiene alcune delle affermazioni più
significative di tutta la Regola.
Il capitolo inizia con una semplice e lapidaria disposizione riguardante la scelta di non possedere alcun
bene, mobile o immobile: “I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa”.
Se è vero quanto abbiamo detto riguardo la caratteristica “relazionale” del discorso di Francesco sulla
povertà, non bisogna dimenticare questa semplice e perentoria disposizione riguardante piuttosto la
povertà materiale, che viene richiesta senza esitazione.
Questa frase, lo sappiamo, è stata un punto di tormento e di contrasto nei secoli della storia
francescana; senza volere introdurre giustificazioni per i nostri comportamenti odierni, che certamente
non rispettano materialmente questa disposizione, e dei quali dobbiamo assumerci la responsabilità,
possiamo ricordare che già il Testamento di Francesco, scritto solo tre anni dopo la Regola, sembra
prevedere una situazione in cui la proprietà (di fatto se non di diritto) dei luoghi è in qualche modo
accettata da Francesco stesso, anche se sottoposta a dei criteri di discernimento che intendono salvare
la scelta di fondo: “Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e
quanto altro viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo
promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini” (Test 24: FF 122). Questa
frase del Testamento è interessante, perché propone un riferimento alla Regola in chiave dinamica,
quasi indicando un modo di riferirsi alla Regola che anche noi dovremmo assumere, al di là di una
osservanza puramente materiale del testo. La citazione esplicita dell’espressione “forestieri e
pellegrini” si riferisce proprio al capitolo 6.
Questo capitolo è certamente uno dei testi culmine della Regola, se non altro per la esplicita
indicazione di quella “celsitudo altissimae paupertatis” (tradotto come “sublimità dell'altissima
povertà”) che indica il punto più eccelso della pratica della povertà, individuandolo nella imitazione di
Cristo che “si è fatto povero per noi in questo mondo”. In questo riferimento cristologico sta il motivo
profondo della sublimità, piuttosto che nel solo riferimento alla questua: certamente, nel passo
precedente si invita ad andare “per l'elemosina con fiducia, servendo al Signore in povertà ed umiltà”,
ma è interessante notare che a tale invito segue subito l’esortazione a non vergognarsi, “perché il
Signore si è fatto povero per noi in questo mondo”. È proprio lo sguardo a Cristo, che si è fatto povero
per noi, a far sgorgare una specie di inno di lode: “questa è la sublimità dell'altissima povertà…”; è Lui
la vera sublimità dell’altissima povertà, ancor più che l’andare per l’elemosina, e possiamo dire che la
questua è una cosa grande perché Cristo si è fatto povero per noi. Una tale “concentrazione
cristologica” nel discorso sulla povertà riemerge anche nella frase del v. 6, nell’invito a non “possedere
niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo”, con cui si conclude
la sezione del capitolo dedicata alla povertà.
È importante sottolineare questa prospettiva cristologica, perché è quella che dà il senso tipicamente
cristiano alla scelta della povertà, che di per sé si può giustificare per molti diversi motivi. La povertà
infatti può avere il significato ascetico di libertà dai legami delle cose, che rischiano di impacciare e
incatenare il cuore: un tale significato, che è molto vero, non è un tratto tipicamente cristiano, e infatti è
condiviso da molte tradizioni religiose (pensiamo al buddismo). Il significato tipicamente cristiano
della povertà è piuttosto quello che guarda a Cristo e alla sua vita, ed è proprio tale sottolineatura che
emerge in queste righe della Regola, come pure in altri testi di Francesco; si pensi, ad esempio,
all’Ultima volontà per Chiara e le sorelle (FF 140), dove Francesco afferma: “Io, frate Francesco
piccolo, voglio seguire la vita e la povertà dell'altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua
santissima madre e perseverare in essa sino alla fine”.
Un tale riferimento a Cristo pone il credente nella situazione stessa di Cristo, che si è fatto povero, e
per questo Francesco può applicare ai fratelli che hanno scelto la povertà dei titoli che convengono
ugualmente a Cristo: “eredi e re del regno dei cieli”, “poveri di cose e ricchi di virtù”. Sono titoli che
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parlano di eredità e di regalità, e il tema della eredità è sottolineato ulteriormente, con l’affermazione
“questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi”: è chiaro che
l’eredità è riservata ai figli, ed in primo luogo al Figlio. Come ben sappiamo, noi siamo figli nel figlio e
partecipi della sua eredità: la scelta della povertà, che conforma profondamente a Cristo, ha l’effetto di
farci ulteriormente partecipi della sua condizione di erede e di Figlio.
Si tratta davvero di una teologia della povertà, che ne mostra il significato lungamente meditato da
Francesco.
La seconda parte del capitolo (vv. 7-9) indica un’altra eccellenza, dopo quella della povertà: è qui
evocato il culmine della vita fraterna, che consiste nell’amore reciproco alla maniera della madre per il
figlio. Da notare che si tratta di un testo che si trovava già nella Regola non bollata (Rnb 9,11: FF 32) e
che da là è passato nel nostro testo.
Sappiamo che Francesco è perentorio nel non dare a nessuna creatura umana il nome di padre, e a
rifiutarlo per sé, in ossequio alla parola del vangelo; ma è altrettanto chiaro che una tale censura
verbale non si applica all’immagine materna, che ritorna più volte negli scritti del Poverello: egli la
applica a sé stesso nel biglietto autografo a frate Leone, rivolgendosi a lui “come una madre” (FF 250),
e la utilizza nella cosiddetta Regola per gli eremi (FF 136), quando dice che “due dei fratelli facciano
da madri ed abbiano due figli”.
L’uso del termine “madre” viene pure applicato a Maria, madre del Signore, alla madre Chiesa e
addirittura ad ogni fedele cristiano, che nella Lettera ai fedeli è chiamato ad essere sposo, fratello e
madre del Signore Gesù Cristo.
Nel nostro testo l’immagine materna è usata per connotare le relazioni tra fratelli, che sono invitati a
mostrarsi familiari tra loro (domesticos inter se): è evidente il significato che assume l’immagine
materna nell’invito a manifestare all’altro le proprie necessità. La madre è immagine che evoca la cura
del figlio, perchè ella si prende cura delle sue necessità: per questo è qui usata da Francesco per
indicare il tipo di rapporto fraterno, che consiste nel prendersi cura del fratello. Tale significato è
ulteriormente sottolineato dalla frase seguente, che conclude il capitolo, che invita a servire il fratello
malato, proponendo così ancora una immagine di cura del fratello.
Un ulteriore tratto che va sottolineato in questo testo è quello della reciprocità: il mostrarsi familiari tra
loro è connotato da quel “reciprocamente” (invicem), che sottolinea il fatto che il prendersi cura è
sempre anche un essere accuditi dai fratelli, in una relazione che è fatta di un servire e di un essere
serviti, di un prendersi cura degli altri e di un essere da loro accuditi, che si intrecciano continuamente.
Capitolo 10
Il capitolo 10 si divide chiaramente in due parti: la prima, che corrisponde al titolo redazionale
(“Dell’ammonizione e della correzione dei frati”) va dal v. 1 al v. 6 e regola i rapporti tra i ministri e i
fratelli: il tema è dunque quello dell’obbedienza, che noi abbiamo già commentato, rilevando in
particolare la sintetica espressione del v. 2, che identifica l’obbedienza nel “rinnegare per Dio la
propria volontà”. Non commentiamo nuovamente questa parte, e ci dedichiamo invece alla seconda
metà del capitolo (vv. 7-12), che pur non avendo riscontro nel titolo generale introduce un tema
davvero fondamentale per Francesco: lo Spirito del Signore.
Metto anzitutto in guardia dalla possibilità che la traduzione italiana delle Fonti Francescane risulti
fuorviante, per una scorretta divisione delle frasi, che non rispetta la punteggiatura del latino, secondo
l’edizione Esser; tale divisione del testo impedisce di coglierne la semplice struttura, che è tutta giocata
sulla contrapposizione tra gli atteggiamenti negativi, da cui guardarsi, e quelli positivi, da coltivare, con
la citazione evangelica finale, che riporta quanto detto al fondamento evangelico.
Propongo la medesima traduzione italiana delle Fonti (nuova edizione 2004), ma con una diversa
punteggiatura e una disposizione grafica che faciliti la comprensione del testo. La giustificazione di
tale proposta, come accennato, sta nella punteggiatura dell’edizione Esser, che noi seguiamo più
fedelmente.
27
7
Ammonisco, poi, ed esorto nel Signore Gesù Cristo,
che si guardino (caveant) i frati
ma facciano attenzione (attendant) che
da ogni superbia, vana gloria,
invidia, avarizia,
cure o preoccupazioni di questo mondo,
dalla detrazione e dalla mormorazione,
8
e quelli che non sanno leggere, non si
preoccupino di imparare;
sopra ogni cosa devono desiderare di avere lo
Spirito del Signore e la sua santa operazione,
9
di pregarlo sempre con cuore puro
e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e
nella infermità,
10
e di amare quelli che ci perseguitano e ci
riprendono e ci accusano,
poiché dice il Signore: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano e vi
calunniano; 11 beati quelli che soffrono persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il
regno dei cieli. 12 E chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo».
Da questa divisione del testo appare chiaramente la contrapposizione tra ciò da cui i frati devono
guardarsi (caveant, che ritorna anche altre due volte nella nostra Regola, molte altre volte nella Regola
non bollata, ed una volta nel Testamento, sempre in testi normativi) e ciò cui i frati devono prestare
tutta la loro attenzione (attendant, sempre usato da Francesco nel senso di fare attenzione). Si tratta di
una semplice struttura di contrapposizione tra atteggiamenti negativi e positivi che ritroviamo anche
altrove negli scritti di Francesco: basti pensare allo schema della Lettera ai fedeli nella prima
redazione, che è divisa proprio in due capitoli riguardanti “quelli che fanno penitenza” e “quelli che
non fanno penitenza”, oppure al cap. 17 della Regola non bollata (vv. 11-16: FF 48), dove viene
giocata la contrapposizione tra spirito della carne e Spirito del Signore, illustrandone i comportamenti
differenti. Francesco dimostra di utilizzare volentieri questo semplice artificio letterario, che
contrappone il bene e il male, il bianco e il nero, con una indubbia efficacia pedagogica.
Se cerchiamo di cogliere i contenuti di questa ammonizione – esortazione potremmo dire che si tratta
prima di tutto di abbandonare lo spirito di appropriazione, che mi fa ritenere mio ciò che mio non è e
che si manifesta anche in un atteggiamento scorretto verso gli altri: a questo si riferiscono, in diversa
maniera, la “superbia, vana gloria, invidia, avarizia, cure o preoccupazioni di questo mondo, la
detrazione e la mormorazione”. A questi atteggiamenti di appropriazione, che sono l’opposto del
“vivere senza nulla di proprio” indicato da Francesco, si collega anche il desiderio di “imparare le
lettere” (che non significa speciali studi letterari, ma imparare a leggere, come traducono bene le
Fonti), che come ci insegna l’Ammonizione 7 (FF 156) può manifestare, in negativo, un forte desiderio
di appropriazione, “per essere ritenuti più sapienti in mezzo agli altri e potere acquistare grandi
ricchezze e darle a parenti e amici”.
A fronte di questa netta messa in guardia dai rischi dello spirito di appropriazione sta l’altra parte del
testo, che invita a “desiderare di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”. In questa
espressione possiamo individuare una sintesi di tutto il cammino spirituale di Francesco, che non
possiamo sviluppare qui in tutta la sua ricchezza27.
Ci limitiamo a segnalare da una parte il “desiderio” qui evocato, che è il segno della mancanza
(desidero ciò che mi manca) ma anche dell’aspirazione alla pienezza, e dall’altra parte lo stretto e
importante collegamento tra lo Spirito e la “santa operazione”, cioè tra la sfera spirituale e quella
pratica, che non appartengono a due mondi diversi, ma sono strettamente connesse. Francesco sa bene
che lo Spirito agisce e si manifesta nella vita, e che il vissuto (l’agire, l’operare) sono luoghi di
rivelazione dello Spirito. Il cristiano sa che, credendo in un Dio che si è fatto uomo, la storia, la prassi e
l’agire diventano luoghi teologici della manifestazione dello Spirito: ritorna lo stretto rapporto tra vita e
vangelo da cui siamo partiti.
27
Per tutta questa riflessione, mi permetto di rinviare al mio volumetto La via di Francesco, Edizioni Biblioteca
Francescana, Milano 1993 (ristampa 2005), dove è sviluppato il percorso dall’avere lo Spirito del Signore, attraverso il
vivere senza nulla di proprio, fino alla restituzione e al rendimento di grazie.
28
Segnaliamo anche i diversi ambiti in cui si manifesta questo “avere lo Spirito del Signore e la sua santa
operazione”: secondo il testo sono fondamentalmente tre, e cioè la preghiera, l’umiltà e la pazienza
nelle avversità e l’amore dei nemici. Si può riconoscere la direzione verso Dio (preghiera), sé stessi
(umiltà e pazienza) e verso il prossimo (amore dei nemici).
Il primo ambito riguarda il rapporto con Dio, attraverso la preghiera, della quale si danno due
caratteristiche: anzitutto deve svolgersi “sempre” e in secondo luogo deve essere caratterizzata dal
“cuore puro”. Il riferimento alla parola evangelica che invita a pregare sempre (cfr. Lc 18,1) ritorna
anche altre volte negli scritti 28, come pure ritorna il riferimento al cuore puro, cui è dedicata
l’Ammonizione 16 (FF 165), che riferisce la purezza di cuore all’ “adorare e vedere il Signore Dio,
vivo e vero”. Anche nella Regola non bollata (Rnb 22, 26: FF 60) il riferimento al cuore puro ritorna
nel contesto dell’invito a “servire, amare, adorare e onorare il Signore Iddio”: sembra dunque che il
cuore puro sia proprio una caratteristica della preghiera secondo Francesco.
La seconda caratteristica, che è l’umiltà e la pazienza, rimanda ad un rapporto vero e pacificato con sé
stessi e con gli eventi della propria vita. L’umiltà è innanzitutto verità, riconoscimento di quello che
sono davvero, è la forma del vivere senza nulla di proprio verso Dio (cui si contrappone l’orgoglio e la
vana gloria) e verso il prossimo, cui si contrappone la superbia e l’arroganza, ma anche l’ira e il
turbamento; nel suo fondo tutto questo è semplicemente verità, riconoscimento della mia verità. In tale
riconoscimento nasce “la pazienza nella persecuzione e nella infermità”: qui veniamo ricondotti al
rapporto con gli eventi della propria vita, che possono rimandare all’azione degli altri, come nel caso
della persecuzione, ma anche nascere dalle situazioni negative dell’esistenza, quali l’infermità e la
malattia. In ogni caso la pazienza è l’atteggiamento che permette a Francesco di conservare e
addirittura di trovare la pace: si noti lo stretto collegamento che negli scritti di Francesco intreccia la
parola sopportare – sostenere (e dunque la pazienza) con la parola pace: “Beati quelli ke 'I sosterrano in
pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati”29.
Infine, l’ultimo ambito evocato dal nostro testo è l’amore dei nemici, identificati in “quelli che ci
perseguitano e ci riprendono e ci accusano”. Si tratta anche in questo caso di un atteggiamento che
ritorna anche altrove negli scritti di Francesco, e che costituisce in qualche modo un culmine
dell’itinerario spirituale30.
A tale amore dei nemici si riferisce esplicitamente anche la prima delle tre citazioni evangeliche che
concludono l’intero capitolo “poiché dice il Signore: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano e vi calunniano”. La seconda citazione riprende il tema della persecuzione, già accennato
prima (“beati quelli che soffrono persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei
cieli”), fino ad allargare la prospettiva con l’ultima citazione, che si può applicare a tutto quanto è stato
detto in precedenza: “e chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo”.
28
Lettera ai fedeli (2° red) 21; Rnb 22, 27.29
29
Cfr anche Ammonizione 15: FF 164; Ammonizione 13: FF 162; Audite 5: FF 263/1.
30
Ammonizione 9: FF 158, Lettera ai fedeli (2° red) 38: FF 196, Regola non bollata 16,11: FF 45;
22,1: FF 56.
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La Regola di san Francesco - Frati Minori di Lombardia