da Giorgio Franchetti a Giorgio Franchetti. Collezionismi alla Ca’ d’Oro Giorgio Franchetti (1865 – 1922) Una vita per l’arte: Venezia, i marmi, la musica testo di Claudia Cremonini, curatore Il profilo biografico, di notevole incisività, redatto da Ugo Ojetti in occasione della morte prematura del barone nel dicembre del 1922, ci consegna l’immagine di un uomo schivo, riservato, umile e dimesso, per certi versi misterioso e sfuggente, che ha lasciato tracce di sé e del proprio pensiero nelle arti, nell’attività appassionata di mecenate, di collezionista e di musicista, con un’inconsueta parsimonia di dichiarazioni e testimonianze scritte. «Era un misantropo; eppure adorava l’arte che è il più dolce e sicuro mezzo dato agli uomini per comunicare tra loro, per unire perfino i morti ai vivi». All’omaggio commemorativo di Ojetti si affiancano le note di Gino Fogolari – Soprintendente alle Gallerie di Venezia, che ebbe modo di lavorare fianco a fianco col barone nei sette anni tribolati di impegno congiunto per i restauri e la musealizzazione della Ca’ d’Oro – preposte alle prime guide a stampa del museo (1929), che rimangono a tutt’oggi alla base delle nostre conoscenze per inquadrare la figura del barone Franchetti nell’ambito della cultura veneziana a cavallo tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi anni del Novecento e per riflettere nuovamente sull’originalità della vicenda allestitiva della Galleria nel panorama più vasto della museografia italiana di quegli anni. Discendente di una famiglia di ricchi mercanti insediati nel Cinquecento in territorio mantovano, Giorgio Franchetti era nato a Torino il 18 gennaio del 1865, dal barone Raimondo (1828‐1905) – pragmatico esponente di un mondo moderno dedito all’industria e all’agricoltura che legò a Venezia la sua fama di imprenditore alla vetreria Franchetti di Murano – e dalla baronessa viennese Luisa Rothschild (1834‐
1924), figlia di Anselm Salomon e di Charlotte Rothschild. Compositore e musicista sofisticato ‐ ancorché meno noto del più celebre fratello Alberto ‐, con interessi spiccati anche nel capo della fotografia, promotore di restauri (tra cui vanno ricordati gli interventi di finanziamento del restauro del Castelvecchio di Verona e quello dei mosaici della Basilica di San Marco di Venezia), Giorgio aveva dedicato al pianoforte, soprattutto in gioventù, gran parte delle sue energie e aspirazioni, componendo testi e realizzando anche apprezzati concerti a Monaco e a Vienna. Gli anni giovanili Mentre il padre con rispetto per la volontà dei figli maggiori Alberto ed Edoardo accettava che questi scegliessero strade che li avrebbero portati lontani dalle attività imprenditoriali della famiglia, assecondando la carriera musicale del primo e quella diplomatica del secondo, a Giorgio ‐ il più giovane ‐ doveva toccare il compito residuale di occuparsi della cura delle proprietà e delle aziende paterne, in netto contrasto con la propria indole e con la volontà di seguire le orme del fratello Alberto nello studio della musica. Terminati gli studi alla Scuola Militare di Torino, da cui, a detta di Gino Fogolari «trasse quella sua impronta severa di uomo disciplinatissimo» che 1
sempre connotò l’ombrosa figura del barone, fu la passione per la musica e il pianoforte, «con amara delusione del padre», a condurlo dapprima a Dresda, dove si trovava anche il fratello Alberto, e in seguito a Monaco, dove frequentò la casa degli Hornstein, ritrovo a quel tempo dell’aristocrazia cittadina e luogo di incontro privilegiato di personaggi di cultura. Fu qui che conobbe Marion von Hornstein, la figlia più giovane del padrone di casa, che sposò nel 1890. Cognata del celebre ritrattista Franz von Lenbach (1836‐1904), lei stessa pittrice dilettante, fu una figura importante nella vita di Giorgio, per cui costituì un punto di appoggio spirituale e di convergenza culturale nei primi anni del breve matrimonio. Gli anni fiorentini Il trasferimento della coppia a Firenze, nel 1890, in un ambiente in cui si muovevano i più importanti collezionisti e studiosi d’arte internazionali, segnò una tappa decisiva nella definizione dell’idea di una vera e propria raccolta d’arte, che andò col tempo costituendosi sul più antico nucleo di pezzi d’arredo tra cui i preziosi tappeti persiani e un arazzo fiammingo del XVI secolo. A Firenze Franchetti si dedicò alla raccolta di dipinti, toscani soprattutto, ma anche dell’Italia centrale, dal XV al XVI secolo, scegliendo con gusto sicuro e istintivo soprattutto pezzi di maestri rari e minori, ancor oggi ammirabili nel grande salone d’angolo al primo piano della Ca’ d’Oro. I numerosi soggiorni all’estero e i contatti con il mondo antiquario dell’epoca, intensificatesi a cavallo fra fine Ottocento e inizi Novecento, furono occasione per ulteriori acquisti di opere rinascimentali e sei‐settecentesche, italiane e fiamminghe, che andarono ad accrescere l’originalissima pinacoteca che il barone destinò alla costituenda Galleria. L’acquisto e i lavori di restauro della Ca’ d’Oro Un topos della biografia del nobiluomo è l’antitesi caratteriale e culturale col padre, incarnata idealmente dal confronto con le due imprese di restauro promosse nei due palazzi veneziani divenuti di proprietà della famiglia: quella esibita nella magniloquente ristrutturazione del quattrocentesco Palazzo Cavalli Franchetti a San Vidal, che il barone Raimondo aveva comprato nel 1878, delegando il pesante intervento di ampliamento all’architetto di grido Camillo Boito, e quella tormentata, meditatissima e partecipe della Ca’ d’Oro, avviata faticosamente nell’ultimo decennio dell’Ottocento da Giorgio, che estranea ad ogni urgenza di carattere pratico‐abitativo o di rappresentanza, si configurò sin dall’inizio come strumento volto al recupero e alla tutela del prezioso e degradato scrigno tardogotico. Il principio che informerà tutti i lavori intrapresi dal nobiluomo tra il 1894 (data di acquisto della Ca’ d’Oro) e il 1922 (anno della morte) nel restauro dell’edificio, vide infatti divenire l’intero palazzo l’oggetto primario di una collezione ideale che il barone andava assemblando e che deciderà poi di donare allo Stato italiano nel 1916 ‐ assieme al suo monumentale contenitore ‐ per poter proseguire, con forze raddoppiate, la gravosa impresa di ristrutturazione e musealizzazione. Da quel momento ‐ e grazie alle successive donazioni di opere d’arte da parte del figlio Carlo e della famiglia e agli acquisti stessi dello Stato a beneficio del museo ‐ i dipinti, le sculture, gli arazzi, i mobili raccolti nel tempo da Franchetti, andarono sempre più precisando il loro carattere di speciali “pezzi d’arredo” di un organismo spaziale unitario, esposti per il loro pregio e valore artistico, ma anche nell’intento preciso di esaltare gli spazi straordinari, le luci e gli ambienti di uno dei più celebri palazzi di Venezia. 2
Il clima culturale entro cui il progetto della Galleria si inserisce vedrà partecipi anche alcuni protagonisti della scena veneziana contemporanea come Gabriele D’ Annunzio e Mariano Fortuny, legati da un rapporto di stima e amicizia con il barone, che contribuirono ad orientarne in un primo tempo, secondo il gusto estetizzante dell’epoca, alcune delle scelte operative legate alla ristrutturazione e futura destinazione dell’edificio. La passione per la musica e per le arti Dominante, accanto al tema del collezionismo, restò sempre la passione per la musica, ereditata dalla madre e coltivata in parallelo al fratello Alberto, che accompagnò Giorgio nelle innumerevoli peregrinazioni tra Europa, Firenze, Londra, Roma e Venezia, patria elettiva del barone ‐ quest’ultima ‐ specie negli anni di intensa ripresa dei lavori per la Ca’ d’Oro, in pieno conflitto bellico. Esigente, scrupoloso e rispettoso fino all’esasperazione nei confronti dell’originalità di ogni autentica creazione artistica – fosse essa legata al restauro di un intero edificio, al recupero di tecniche artigianali perdute per la messa in posa di un mosaico pavimentale o all’esecuzione di un brano musicale – il barone era tuttavia capace di grandi e inaspettati slanci creativi qualora l’acribia filologica non fosse adeguatamente supportata da elementi certi, in una oscillazione costante tra umile annientamento della propria personalità ed espressione acclamata delle proprie intuizioni e talento individuale, che finì col legare ‐ in una sempre più sfibrata aspirazione incondizionata alla bellezza e all’armonia ‐ scelte estetiche e vicenda umana intera di questo originale e poco noto protagonista della scena artistica e culturale tra Otto e Novecento. Racconta Ugo Ojetti: «v’invitava ad andare a prendere il tè da lui, ché egli avrebbe suonato il primo atto dell’Alceste di Gluck sopra una spinetta del 1767 e l’ultimo atto del “Così fan tutte” di Mozart sopra a un clavicembalo del 1790, che erano gli anni precisi in cui quelle opere erano state composte. […] Non vi sarà nessuno: la Duse, Bourget, Hoffmansthal, Fortuny, la contessa Morosini e, credo, D’Annunzio. – E suonava come un angelo, anche nel senso che gli angeli sono invisibili, tanta era la sua volontà di confondersi umilmente con lo spirito del compositore …». Gino Fogolari testimonia, nella sua lunga nota biografica a prefazione della prima guida della Galleria, della condizione tormentata e sempre più sofferta di solitudine che precedette gli ultimi tempi prima della morte, quando al dolore per la sopraggiunta malattia si sommò lo sconforto per il ritardo dei finanziamenti statali necessari al completamento dei lavori per il costituendo Museo: «Viveva, negli ultimi anni, in una stanzetta semplicissima, quasi dimessa, contigua alla loggia della Ca’ d’Oro […] perché diceva, appena morto sarebbe trasmigrato di là nel suo regno; e pur aveva detto, ma quasi per ischerzo, passeggiando sui suoi mosaici, che avrebbe voluto che le sue ceneri fossero poste lì sotto per sentire, anche morto quel che i critici dicevano e riderne». Assicurava che il giorno dell’inaugurazione avrebbe voluto essere lontano, come il destino decise poi per lui. Gravemente malato, Giorgio Franchetti si suicidò nel proprio letto con un colpo di rivoltella nella notte tra il 16 e il 17 dicembre del 1922. Le sue ceneri riposano ancor oggi nel portico terreno della Ca’d’Oro sotto un cippo funerario in porfido, a vegliare idealmente il destino della tanto agognata Galleria, inaugurata infine nel 1927, grazie anche alla collaborazione generosa degli eredi che supportarono il Ministero e l’allora Soprintendenza nel completamento dell’impresa. 3
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