Teoria della letteratura
A.A. 2011-12
Corso per gli studenti della Laurea magistrale
• Mutuato anche per gli studenti della Facoltà di Lettere
• 6 cfu; circa 30 ore
Orari delle lezioni:
• Lun. 12.00-13.30, Aula D, Presidenza Lingue
• Mar. 12.00-13.30, Aula I, Dip. Lingue e LSM
• Mer. 10.15-11.45, Aula E, Presidenza Lingue
Esami: A partire dal 19 marzo
Ricevimento (Italianistica, Studio 33, terzo piano):
• Feb.-mar. 2010: Lunedì 10.00-11.30, Mercoledì 12.00-13.00
• Da aprile 2010: Martedì 10.00-13.00
Alcune parole-chiave
Esperienza
- Testimonianza
- Esperienza vissuta (Erlebnis) ed esperienza accumulata (Erfahrung)
- Inesperienza, perdita o crisi dell’esperienza
Storia
- Guerra, violenza, trauma
- Destino
- Epica, Tragedia
Scrittura
- Oralità e scrittura
- Esperienza e scrittura
- Funzioni della scrittura (testimoniale, terapeutica, conoscitiva…)
Narrazione
- Dicibile/indicibile
- Silenzio
- Intreccio, trama
Alcune parole-chiave
Autobiografia
- Soggetto
- Identità
- Autofiction
Memoria
- Ricordo
- Oblio (volontario/involontario)
- “Derive della memoria”
Realtà
- Verità, veridicità, autenticità
- Realismo, verosimiglianza, credibilità
- Documento
Finzione
- Menzogna
- Artificio
- Trasfigurazione
Principi di classificazione, 1: Contenuto tematico
Hegel, Estetica, c’è un nesso profondo tra guerra e narrazione
epica:
“Nel modo più generale si può indicare come la situazione
più appropriata all'epos il conflitto dello stato di guerra. Infatti
in guerra è tutta la nazione che è messa in movimento ed
esperimenta nelle sue condizioni generali un vivo stimolo ad
agire […] in guerra l'interesse principale risulta il coraggio, ed
il coraggio è uno stato dell'anima ed una attività adatti
soprattutto per la descrizione epica [...]”.
In altri termini, nella narrazione della guerra si realizza un
senso di totalità, di integrazione organica tra l’individuo e la
collettività, tra le vicende personali dell’eroe e lo sfondo dei
grandi avvenimenti storici
Principi di classificazione, 1: Contenuto tematico
Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991 (1994): “Le
guerre del ventesimo secolo […] hanno raggiunto dimensioni
mai toccate prima. […] dal 1914 in poi, le guerre furono
indubbiamente guerre di massa […] impiegarono e distrussero
nel corso dei combattimenti una quantità fino ad allora
inimmaginabile di materiali e di prodotti. [...] I conflitti generali
si trasformarono in ‘guerre di popolo’ […] Le guerre condotte
in entrambi gli schieramenti da professionisti o da specialisti,
soprattutto se costoro appartengono a strati sociali affini, non
escludono il reciproco rispetto e l’accettazione di regole perfino
cavalleresche. La violenza ha le sue regole. […] Ma le guerre
totali del nostro secolo furono molto lontane dagli schemi della
politica bismarckiana o di quella settecentesca. Nessuna guerra
in cui si fa appello a sentimenti nazionali di massa può avere
carattere limitato come lo avevano le guerre aristocratiche. […]
Principi di classificazione, 1: Contenuto tematico
Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991 (1994):
“Un’altra ragione fu la conduzione impersonale della guerra, in
base alla quale uccidere e ferire diventavano conseguenze
remote del premere un pulsante o del muovere una leva. La
tecnologia rendeva invisibili le sue vittime, mentre ciò non
accadeva quando si sventravano i nemici con la baionetta o li si
inquadrava nel mirino del fucile. Di fronte ai cannoni in
postazione sul fronte occidentale non c’erano uomini, ma cifre
statistiche […] Laggiù, al suolo sotto i bombardieri, non
c’erano persone che stavano per essere bruciate o maciullate,
ma obiettivi […]”.
Principi di classificazione, 2: Distanza e testimonianza
Gérard Genette, Figure III (1972):
[La funzione testimoniale, o di attestazione] “è la funzione
che informa sulla parte presa dal narratore, in quanto tale, alla
storia da lui narrata, cioè sul rapporto fra narratore e storia:
rapporto affettivo, certo, ma anche morale o intellettuale, e che
può prendere la forma di una semplice testimonianza, come
quando il narratore indica la fonte da cui deriva la sua
informazione, o il grado di precisione dei suoi ricordi personali,
o i sentimenti risvegliati in lui da un certo episodio”.
Principi di classificazione, 2: Distanza e testimonianza
Primo Levi, I sommersi e i salvati (1986):
“Per una conoscenza dei Lager, i Lager stessi non erano
sempre un buon osservatorio: nelle condizioni disumane a cui
erano assoggettati, era raro che i prigionieri potessero acquisire
una visione d’insieme del loro universo. […]
Da questa carenza sono state condizionate le testimonianze,
verbali o scritte, dei prigionieri ‘normali’, dei non privilegiati,
di quelli cioè che costituivano il nerbo dei campi, e che sono
scampati alla morte solo per una combinazione di eventi
improbabili”.
Principi di classificazione, 2: Distanza e testimonianza
Primo Levi, I sommersi e i salvati:
“La storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente da
chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha
fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era
paralizzata dalla sofferenza e dall’incomprensione”.
“Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È
questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a
poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza
di anni. Noi sopravvissuti […] siamo quelli che, per loro
prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo.
Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per
raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i ‘mussulmani’, i
sommersi, i testimoni integrali”.
Principi di classificazione, 2: Distanza e testimonianza
Primo Levi, I sommersi e i salvati:
“Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o
minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma
anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un
discorso ‘per conto di terzi’, il racconto di cose viste da vicino,
non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a
termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come
nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi,
anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero
testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di
quella corporale. […] Parliamo noi in loro vece, per delega”.
Principi di classificazione, 3: Il tempo
Testimoni diretti:
• Alcuni raccontano “a caldo”, subito dopo l’esperienza vissuta
(Levi, Calvino, Vittorini, Pavese…)
• Alcuni raccontano dopo molti anni (Meneghello, Semprún)
Testimoni indiretti: ricostruzione documentaria, rapporto dialettico
tra passato e presente, e tra le diverse generazioni
François Dosse, Renaissance de l’événement (2010): “La storia è un
discorso intorno a una ‘presenza mancante’, un discorso che
istituisce una frattura irreversibile perché questo essere-stato è per
sempre assente e rende impossibile ogni tentativo di ritrovare la voce
dei viventi del passato: ‘Si costruisce una letteratura a partire da
impronte definitivamente mute; ciò che è passato non tornerà più e
la voce è perduta per sempre’” [la cit. è tratta da Michel de Certeau,
L’Absent de l’histoire, 1973, p. 11] (p. 113).
Principi di classificazione, 4: Il genere letterario
a) Autobiografia
Narrazione retrospettiva che un individuo fa della propria vita
Cfr. Philippe Lejeune, Il patto autobiografico: A=N=P
Si manifesta in forme varie: diario, cronaca, memorialistica
ecc.
b) Autofiction
Termine coniato da Serge Dubrovsky a proposito del suo
romanzo Fils (1977)
Genere che mescola autobiografia e invenzione narrativa,
mette in scena l’autore reale ma gli attribuisce anche
esperienze fittizie
c) Romanzo (storico)
“Un multicolore universo di storie”
Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”
• Nel 1954 esce la seconda edizione del libro, sempre per
Einaudi, nella collana “Piccola Biblioteca Scientificoletteraria”;
• In questa circostanza emerge nettamente il senso di
distacco che Calvino prova nei confronti del romanzo: cfr.
la Lettera del 29 set. 1954 a Giuseppe Zigaina (un
disegnatore che doveva realizzare l’illustrazione della
copertina):
“Einaudi vuol ristampare il mio Sentiero dei nidi di ragno,
da tempo esaurito, nella ‘Piccola biblioteca ScientificoLetteraria’. […] Non so se tu hai il libro (che è un libro
invecchiato, che per anni non ho voluto ristampare, e a cui
ora acconsento, appunto perché è distaccato nel tempo, non
può essere letto se non ‘retrospettivamente’”.
“Un multicolore universo di storie”
Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”
• Nel 1964 esce la terza e definitiva edizione nei “Coralli”. Il
testo viene sottoposto a un ulteriore lavoro di revisione e
accompagnato dalla Prefazione.
Lettera del maggio 1977, in cui ribadisce il rapporto
problematico con il libro:
“È un libro di cui posso parlare con distacco, perché mi è
difficile identificarmi con chi l’ha scritto, più di trent’anni
fa. Ma il fatto che con questo libro io abbia sempre avuto
rapporti difficili, più che con qualsiasi altro mio libro, mi
rimanda a un momento della mia giovinezza in cui c’erano
tutti i presupposti d’una nevrosi bella e buona”.
“Un multicolore universo di storie”
Domenico Scarpa, Italo Calvino:
Siamo di fronte a “una serie di prove di discorso troncate
a mezzo per dichiarata incapacità di trovare il filo nel
mentre stesso che il discorso si avvia, si sviluppa e assume
una fisionomia sempre più definita a forza di scossoni e di
brusche correzioni, ammettendo i lettore nel backstage
dell’autore e portando sulla scena le sue perplessità e i suoi
balbettii meditabondi con arte teatrale e sopraffina. […] È
teatro, questa Prefazione, ma è anche cinema: è come una
sequenza che vada via via restringendo il campo. Calvino
aggiusta il suo obiettivo scalando le distanze
dall’inquadratura panoramica (l’atmosfera generale
dell’epoca in cui il Sentiero fu scritto) fino al dettaglio in
primissimo piano (i risvolti autobiografici dell’opera).
Prima d’inaugurare una nuova fase creativa, Calvino salda i
“Un multicolore universo di storie”
Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”:
“Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la
prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti.
Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più
che come un'opera mia lo leggo come un libro nato
anonimamente dal clima generale d'un’epoca, da una
tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui
la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale”.
“Un multicolore universo di storie”
Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”:
“L'esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che
un fatto d'arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo.
Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani che avevamo
fatto appena in tempo a fare il partigiano non ce ne
sentivamo schiacciati, vinti, ‘bruciati’, ma vincitori, spinti
dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa,
depositari esclusivi d'una sua eredità. Non era facile
ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt'altro: quello di cui ci
sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa
che può ricominciare da zero, un rovello problematico
generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo
sbaraglio; ma l'accento che vi mettevamo era quello d'una
spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e
anche il piglio dei miei primi racconti e del primo
“Un multicolore universo di storie”
Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”:
“Questo ci tocca oggi, soprattutto: la voce anonima dell’epoca, più
forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte. L’essere
usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva
risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di
comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a
faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva
avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche
avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà
di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei
treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi
di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli
sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni
avventore delle ‘mense del popolo’, ogni donna nelle code dei
negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre
epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie”.
“Un multicolore universo di storie”
Primo Levi, Se questo è un uomo (1947): [fine della premessa]
“Il bisogno di raccontare agli ‘altri’, di fare gli ‘altri’
partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e
dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto
da rivaleggiare con altri bisogni elementari; il libro è stato
scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo
quindi a scopo di liberazione interiore”.
“Un multicolore universo di storie”
Primo Levi, Il sistema periodico (1975):
“Io ero ritornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le
cose viste e sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più
vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo,
perché gli uomini avevano edificato Auschwitz […] Mi
pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo
simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in
strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la
sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose,
raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a
poco a poco ne nacque poi un libro: scrivendo trovavo
breve pace e mi sentivo ridiventare uomo, uno come tutti”
(p. 155).
“Un multicolore universo di storie”
Primo Levi, Intervista del 17 set. 1979: “Io sono tornato dal Lager
con una carica narrativa patologica addirittura. Mi ricordo molto
bene certi viaggi in treno fatti nel ’45, appena ritornato […] E in
treno mi ricordo di aver raccontato le mie cose ai primi che
capitavano. Ho citato a questo proposito il vecchio marinaio di
Coleridge, che racconta la sua storia a gente che va a nozze e che
se ne infischia di lui. Ecco, io facevo proprio lo stesso […]
Spesso ho pensato a Ulisse quando arriva alla corte dei Feaci.
Stanco com’è passa la notte a raccontare le sue avventure. È
comune a tutti i reduci raccontare quello che hanno fatto”.
Primo Levi, Conversazione con Anthony Rudolf (ottobre 1986): “Per
me fu una sorta di terapia scrivere Se questo è un uomo. Quando
tornai a casa non mi sentivo assolutamente in pace. Mi sentivo
invece profondamente turbato. Un certo istinto mi spinse a
raccontare la mia vicenda. La raccontai verbalmente [cioè
oralmente] a chiunque, anche a persone sconosciute.
“Un multicolore universo di storie”
Primo Levi, Conversazione con Anthony Rudolf: “Poi qualcuno mi
consigliò, dicendomi che avrei anche potuto scriverla. Così ci
provai, e attraverso l’atto della scrittura provai un senso di
progressiva guarigione. E infine guarii. […] Quando, dopo la
guerra, lessi la poesia di Coleridge, ne rimasi profondamente
turbato perché riconobbi me stesso in quel personaggio. Sino a
quando non scrissi Se questo è un uomo, agivo esattamente come
il vecchio marinaio, fermando la gente per strada. Ricordo che
alcuni giorni dopo il ritorno a casa dovetti fare alcuni viaggi tra
Torino e Milano per ricostruire e riprendere la mia carriera di
chimico. Ricordo bene che su un treno stavo parlando a ruota
libera con gente che non conoscevo. Tra di loro vi era un prete.
Era attonito, turbato, e mi chiese perché mi rivolgessi a persone
che non conoscevo; gli risposi che non avevo altra scelta, che
non riuscivo a trattenermi e che non potevo spegnere questo
bisogno interiore di raccontare la mia storia”.
“Un multicolore universo di storie”
Sergio Antonielli, Il campo 29 (1949):
“Il punto non era che tutti o quasi, compresi gli analfabeti,
si sentivano autorizzati a diventare scrittori. Il punto era che
a quel grado di turbamento davanti al reale non si era mai
arrivati. […] La partecipazione di massa al dolore fisico e
morale, alla precarietà della vita, agli imperativi della
sopravvivenza quotidiana, alle innumerevoli umiliazioni,
era sembrata di proporzioni mostruose perfino a un popolo
come il nostro, educato per secoli ad arrangiarsi e a tirare a
campare, cioè a scampare, a salvarsi […] Scrivere di questo
dolore non in generale, ma portando ciascuno il contributo
della propria particolare esperienza, significava offrire la
testimonianza che gli scampati da analoghe prove
desideravano per aiutarsi a superare il turbamento provato.
“Un multicolore universo di storie”
Sergio Antonielli, Il campo 29 (1949):
Era come un parlare fra naufraghi del comune accidente.
In questo senso, una letteratura che avesse trovato il tono
giusto avrebbe ritrovato anche le radici sociali della
letteratura, le ragioni profonde del mettersi a scrivere. Il rito
era quello antichissimo del parlare delle comuni sventure
per congedarsi dal passato e puntare all’avvenire”.
“Il momento più vivido della mia vita”
Vittorio Sereni, Una donna vesita di rosso (prefazione al libro
di Antonielli):
“Certo, credevamo tutti in quegli anni di avere avuto ‘una
storia degna di essere raccontata’. C’era anzitutto
l’eccezionale soggettivo – in quanto essere stati
individualmente colpiti da un evento ci era bastato a farcelo
ritenere eccezionale – e c’era l’eccezionale oggettivo,
quello che non solo si presentava con i più vistosi o atroci
caratteri dell’eccezionalità, ma era sotto gli occhi di tutti già
al suo semplice enunciarsi”.
“Il momento più vivido della mia vita”
Luigi Meneghello, I piccoli maestri:
“[…] È in questo punto della crosta terrestre che ho
passato il momento più vivido della mia vita”.
“Qui si sente davvero com'è fatto l'Altipiano; la grande spalla
liscia, pura, lo delimita come un mondo a parte, e da questo
punto si misura con uno sguardo quanto è alto, quanto è
remoto. Non è meraviglia che da allora per anni e anni
figurandomi tra la veglia e il sonno la condizione più
perfetta in cui vorrei trovarmi, sia tornato sempre in cima a
questa spalla, in una delle casotte di pietra che ci sono qua e
là, di notte, ad aspettare con due o tre compagni che
arrivino i convogli dei rastrellatori, per difendere l'Altipano
in questo punto. Militarmente sarebbe una gran
stupidaggine, ma questo sogno di perfezione non è
militare”.
“Il momento più vivido della mia vita”
Giorgio Caproni, Il labirinto (1946):
“io mi sentivo troppo solo in quell’ora che intuivo
eccezionalmente grande”; “si vedeva che quelle non erano
ore ordinarie”.
Franco Fortini, Sere in Valdossola (1946):
“Vi fu un momento, in quei mesi, in cui parve che dal
profondo si scuotesse qualcosa, lasciando intravedere un
volto della gente dei nostri paesi fino allora sconosciuto; e
d’improvviso motivi ed espressioni, gesti e sofferenze di
quella gente si situarono ad una misura tale, ad un livello
che avevamo creduto negato loro dalla bassezza dei tempi:
il livello che si suol dire della storia, cioè della azione
consapevole”.
“Il momento più vivido della mia vita”
Italo Calvino, Lettera a Marcello Venturi del 7 feb. 1947:
“Forse è bene che smettiamo di scrivere di partigiani, se
no cadiamo nella cifra. E cosa scriviamo poi? Dove
potremo avere un’esperienza tanto completa come quella
della resistenza?”.
“Il momento più vivido della mia vita”
Primo Levi, Conversazione con Daniela Amsallem (15 luglio 1980):
“Il ritrovare la libertà, per me ha coinciso […] con la scoperta
dello scrivere; con, paradossalmente, la scoperta di avere in
mano un’esperienza estremamente dolorosa ma preziosa, che
poteva durare, come un capitale che dà frutto, e che infatti
continua a dare frutto, in qualche modo; cioè mi ha fornito una
certa comprensione del mondo, e la facoltà di ragionarci sopra, e
questo lo considero positivo. Per cui, può sembrare, come dire…
empio addirittura, ma la somma, la somma algebrica del male di
Auschwitz più quello che è venuto dopo, per me è positiva, non
è negativa. [Pausa] È difficile fare delle ipotesi: se non fossi
stato ad Auschwitz, chi lo sa cosa sarebbe successo, non lo so,
ma ho l’impressione che avrei adesso una vita più povera”.
“L’unico dovere che ha l’uomo al mondo, secondo me, laico, è di
evitare la sofferenza agli altri e a se stessi”.
“Il momento più vivido della mia vita”
Primo Levi, Intervista di Philip Roth (1986):
“Primo Levi […] Ricordo di aver vissuto il mio anno di
Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente
viva. […] non ho mai smesso di registrare il mondo e gli
uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi
un’immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un
desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una
curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del
naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso
ma nuovo, mostruosamente nuovo […].
“Il momento più vivido della mia vita”
Primo Levi, Intervista di Philip Roth (1986):
“Philip Roth [A proposito del viaggio di ritorno poi
narrato nella Tregua] […] mi sono domandato se nonostante
la fame, il freddo e le ansie, persino nonostante i ricordi,
davvero tu abbia mai vissuto mesi migliori di quelli che
definisci ‘una parentesi di disponibilità illimitata, un
provvidenziale ma irripetibile dono del destino’ […]
Primo Levi Un mio amico […] mi ha detto molti anni fa:
‘I tuoi ricordi di prima e di dopo sono in bianco e nero;
quelli di Auschwitz e del viaggio di ritorno sono in
technicolor’. Aveva ragione. La famiglia, la casa e la
fabbrica sono cose buone in sé, ma mi hanno privato di
qualcosa di cui ancora oggi sento la mancanza, cioè
dell’avventura. Il mio destino ha voluto che io trovassi
l’avventura proprio in mezzo al disordine dell’Europa
“Il momento più vivido della mia vita”
Semprún, La scrittura o la vita: dice che quello passato a
Buchenwald è stato “un periodo cruciale dell’esistenza” (p. 164).
Nelle notti insonni, il ricordo di una frase urlata durante i
bombardamenti (“Crematorio, spegnete!”) lo fa ritrovare “nella
realtà del campo, in una notte di allarme aereo. Udivo la voce
tedesca che impartiva l’ordine di spegnere il crematorio, ma non
avvertivo alcuna angoscia. Da principio, al contrario, mi
invadeva una sorta di serenità, di pace: come se ritrovassi
un’identità, una trasparenza a me stesso in un luogo abitabile.
Come se – ammetto che l’affermazione possa apparire indecente,
o quantomeno radicale, ma pur sempre veritiera − come se la
notte sull’Ettersberg, le fiamme sul crematorio, il sonno agitato
dei compagni ammassati nelle brande, il rantolo flebile dei
moribondi, fossero una sorta di patria, il luogo di una pienezza,
di una coerenza vitale, nonostante la voce autoritaria che con
tono irritato ripeteva: Krematorium, ausmachen!” (pp. 146-147).
“Il momento più vivido della mia vita”
Testimonianze femminili raccolte nel volume La resistenza
taciuta (a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina,
1976):
“Per me è stato il periodo più bello della vita. Ma è stato
anche tragico, perché ho visto morire tanti ragazzi quando
avrei voluto dare la mia vita cento volte per salvare la loro,
e questa è stata una sofferenza atroce”.
“Si rischiava la morte, però talmente c’era la gioia di
vivere! Delle volte leggo che i compagni erano tetri. Non è
vero. Eravamo sereni. Anzi, eravamo proprio felici […].
Quel tempo è stato stupendo, un periodo molto bello. Non
ho mai più vissuto una vita bella così. Sofferenze sì, ma una
cosa!”.
“Il momento più vivido della mia vita”
Ada Gobetti, Diario partigiano (scritto nel 1947, sulla base di
alcuni taccuini di appunti presi giorno per giorno negli anni
della guerra):
[Episodio in cui racconta di un trasferimento notturno con
alcuni compagni, al freddo, sotto una neve incessante; a un
certo punto entrano in una galleria e si fermano a riposare]
“Ci sedemmo e accendemmo una sigaretta: fosse il
benessere fisico del trovarsi per un momento al riparo o
l’effetto delle mie chiacchiere ottimistiche, sta di fatto che
in quel momento ci sentimmo tutti e tre assolutamente
felici. E ce lo dicemmo, tra timidi e stupiti. A guardar le
cose oggettivamente, non c’era davvero nessuna ragione di
felicità; ma è proprio quel che ci permette di vivere questo
zampillar di gioia improvvisa che non ha radici in nulla di
esterno, ma semplicemente in noi.
“Il momento più vivido della mia vita”
Ada Gobetti, Diario partigiano:
Ed è tanto più vivo quanto più la vita è intensa: gli attimi
di serenità più perfetta – appagamento, completezza,
armonia – li ho provati proprio nei momenti di maggior
pericolo. Gli è che quando le acque scorrono con ritmo
normale levigano, ottundendole, le pietre che formano il
fondo; e solo quando la tempesta le sconvolge, queste pietre
raccolgono e riflettono, pur rabbrividendo, barbagli di più
vivida luce. / Ma queste sono divagazioni d’oggi. Quel
giorno […] non facevamo tante considerazioni. Eravam
felici, e basta. E guardavamo l’avvenire e il mondo con
ottimistica serenità”.
“Il momento più vivido della mia vita”
Semprún, La scrittura o la vita:
“Dovevo raggiungere in fretta il mio blocco.
Fuori la notte era chiara, la burrasca di neve era cessata.
Delle stelle brillavano nel cielo di Turingia. Ho camminato
con passo spedito nella neve che scricchiolava, fra gli alberi
del boschetto che circondava i blocchi dell’infermeria.
Nonostante il suono stridente dei fischi, in lontananza, la
notte era bella, calma, serena. Il mondo si offriva a me nello
splendente mistero di un’oscura luce lunare. Mi sono
fermato per riprendere fiato. Il cuore mi batteva forte. Mi
ricorderò per tutta la vita di questa felicità insensata, mi
dissi. Di questa bellezza notturna.
Ho alzato gli occhi.
Sulla cresta dell’Ettersberg, delle fiamme di color arancio
svettavano sulla tozza ciminiera del crematorio” (p. 283).
Il dispositivo d’eccezione
Manzoni, I promessi sposi (cap. XXXIII):
[Mentre sta seguendo in parallelo le vicende di vari personaggi,
spostandosi dall’uno all’altro,] Il narratore ammette che la storia
di Renzo, “non sarebbe mai stata intralciata con [quella di don
Rodrigo], se lui non l’avesse voluto per forza; anzi si può dire di
certo che non avrebbero avuto storia né l’uno né l’altro”.
Il dispositivo d’eccezione
Tzvetan Todorov, La grammatica del racconto (in Poetica della
prosa, 1971):
“L’intreccio minimale completo consiste nel passaggio da un
equilibrio a un altro. Un racconto ideale inizia con una
situazione stabile, che una forza qualunque viene a turbare. Ne
risulta uno stato di squilibrio; mediante l’azione di una forza
diretta in senso opposto, l’equilibrio viene ristabilito; il secondo
equilibrio è simile al primo, ma i due non sono mai identici”.
Il dispositivo d’eccezione
Peter Brooks, Trame (1984): “La trama del racconto è una
deviazione o una trasgressione rispetto alla norma, uno stato di
errore e di irregolarità, il solo stato ‘raccontabile’”.
“La trama si pone come una sorta di divergenza o devianza [...].
Perché la trama inizia (o deve dare l’illusione di iniziare) al
momento in cui la storia, [...] ubbidendo a qualche stimolo, passa
da uno stato di quiescenza a uno stato di ‘narrabilità’, a una
condizione di tensione, di inquietudine, che esige appunto di essere
raccontata. [...] La narrazione che segue viene mantenuta in uno
stato di tensione, come una prolungata deviazione rispetto alla
quiete della ‘normalità’, del non-raccontabile, finché giunge alla
quiescenza terminale della conclusione”.
“La devianza è condizione necessaria perché la vita sia
raccontabile, e la normalità manca di qualsiasi interesse, di
qualsiasi energia”.
Il dispositivo d’eccezione: il caso di Levi
Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz: “Auschwitz è
precisamente il luogo in cui lo stato di eccezione coincide
perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il
paradigma stesso del quotidiano” (p. 44).
Primo Levi, Appendice a Se questo è un uomo (ed. 1956):
“Se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente
non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo,
per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e
scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica,
ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non
aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata
l’esperienza del Lager a costringermi a scrivere […]”.
Il dispositivo d’eccezione: il caso di Levi
Primo Levi, La chiave a stella (1978):
“Se non ci fossero delle difficoltà ci sarebbe poi meno gusto dopo a
raccontare; e raccontare […] è una delle gioie della vita”.
Daniele Giglioli, Narratore, in “Riga”, n. 13, 1997:
“Che la fame e la ricerca del cibo abbiano dato origine a furti, litigi,
trattative, sogni, rievocazioni, gesti abietti, imprese coraggiose e
avventure di ogni tipo, è del tutto ovvio, nella situazione in cui Levi si
è trovato; che egli ce ne riferisca è in un certo senso altrettanto ovvio,
fa parte del contratto di genere della memorialistica; ma che ad
esempio la ricerca di un silo pieno di patate venga descritta con gli
stessi termini di una caccia al tesoro […] è cosa che appartiene al
dominio della letteratura, a quel processo di costante reinvestimento
dei dati dell’esperienza in strutture significanti autonome e capaci non
solo di tramandare, ma anche di generare, in chi legge, nuove
esperienze”.
Il dispositivo d’eccezione: il caso di Levi
Daniele Giglioli, Narratore, in “Riga”, n. 13, 1997:
Dunque, “la situazione eccezionale ha fatto sorgere, dalle
spoglie di chi era stato ‘uno studente mediocre di italiano e
scadente in storia’, un narratore. Di questa situazione
eccezionale il cibo, o meglio la sua mancanza, era la
quintessenza […]: dunque quel narratore doveva parlarne. […]
la memoria si è fatta racconto, e l’eccezione è stata reintegrata,
come letteratura, nell’universo della norma. Non del tutto, però;
certo gli oggetti che ne erano stati la sostanza (la fame, il freddo,
le percosse, la morte, e poi la liberazione, il ritorno alla vita, il
viaggio, l’ignoto e l’avventura) sono stati riassorbiti e
neutralizzati per effetto del potere taumaturgico della scrittura.
Eppure, essi devono aver lasciato in Levi come un calco, una
forma vuota, o forse una macchina disinserita che attendeva solo
di essere riaccesa […].
Il dispositivo d’eccezione: il caso di Levi
Daniele Giglioli, Narratore, in “Riga”, n. 13, 1997:
Per questo, lasciatosi alle spalle i due libri che l’urgenza della
memoria gli aveva imposto di scrivere, Levi si è trovato ad avere
ancora storie da narrare […]: perché se con il Lager e col viaggio
di ritorno […] egli poteva ritenere di aver chiuso il conto, il
debito con il dispositivo stesso dell’eccezione, che lo aveva fatto
nascere come narratore, poteva dirsi tutt’altro che pagato. Per
questo lo ritroveremo sempre, quel dispositivo, puntuale e
servizievole, ma anche irremovibile, nei racconti e nei romanzi
scritti dopo La tregua”.
La voce del narratore
Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”:
“Chi cominciò a scrivere allora si trovò cosi a trattare la
medesima materia dell'anonimo narratore orale: alle storie
che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati
spettatori s'aggiungevano quelle che ci erano arrivate già
come racconti, con una voce, una cadenza, un'espressione
mimica. Durante la guerra partigiana le storie appena
vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie
raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno
stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca
d'effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune
pagine di questo romanzo hanno all'origine questa
tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio”.
La voce del narratore
Corrado Alvaro, Quaderno. Alcune pagine d’un diario fra il
luglio 1943 e il giugno 1944 (1944):
“Inerzia. E in questo stato d’inerzia si raccontano leggende di
fatti accaduti altrove, atti di coraggio, iscrizioni sui muri, più in
là, in un altro quartiere […]. Generalmente se ne dà il vanto ai
quartieri popolari, Trastevere o Testaccio”.
Levi, Intervista del 17 settembre 1979: “Direi che io sono
costruito così: mi piace raccontare le mie cose. E infatti le
racconto, in maggior misura quelle che mi sono successe
veramente, o anche quelle che mi vengono raccontate. A
riraccontarle mi pare di allinearmi con una dinastia millenaria
che risale addirittura ai raccontatori popolari che ci sono in
Africa e in Asia”.
Il silenzio del narratore
Testimonianze femminili raccolte nel volume La resistenza
taciuta (a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina,
1976):
«Noi donne siamo restie a parlare. Tanto gli uomini sono
pieni di loro, tanto le donne preferiscono tacere».
Il silenzio del narratore
Theodor Adorno, Critica della cultura e società (1951):
“Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di
barbarie e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché
è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”.
Theodor Adorno, Dialettica negativa (1966):
"La sofferenza incessante ha tanto il diritto di esprimersi
quanto il martirizzato di urlare; perciò sarà stata un errore la
frase che dopo Auschwitz non si possono più scrivere
poesie" (p. 326);
“Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento
della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta
la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze
illuministiche, dice molto di piú che essa, lo spirito, non sia
riuscito a raggiungere e modificare gli uomini.
Il silenzio del narratore
Theodor Adorno, Dialettica negativa (1966):
In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di
autarchia, sta di casa la non verità. Tutta la cultura dopo
Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è
spazzatura. […] Chi parla per la conservazione della cultura
radicalmente colpevole e miserevole diventa
collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce
immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la
cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso:
esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva
con lo stato di verità oggettiva e cosí la degrada ancora una
volta a menzogna”.
Il silenzio del narratore
Primo Levi, Intervista del 1984:
“Sono un uomo che crede poco alla poesia e tuttavia la
pratica. Adorno ha scritto che dopo Auschwitz non si può
più fare poesia, ma la mia esperienza è stata opposta. Allora
(1945-46) mi sembrò che la poesia fosse più idonea della
prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. Dicendo
poesia, non penso a niente di lirico. In quegli anni, semmai,
avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non
si può più fare poesia se non su Auschwitz”.
Il silenzio del narratore
Primo Levi, I sommersi e i salvati (1986):
“Coloro che hanno sperimentato la prigionia (e, molto più
in generale, tutti gli individui che hanno attraversato
esperienze severe) si dividono in due categorie ben distinte,
con rare sfumature intermedie: quelli che tacciono e quelli
che raccontano. Entrambi obbediscono a valide ragioni:
tacciono coloro che provano più profondamente quel
disagio che per semplificare ho chiamato ‘vergogna’, coloro
che non si sentono in pace con se stessi, o le cui ferite
ancora bruciano. Parlano, e spesso parlano molto, gli altri,
obbedendo a spinte diverse. Parlano perché, a vari livelli di
consapevolezza, ravvisano nella loro (anche se ormai
lontana) prigionia il centro della loro vita, l'evento che nel
bene e nel male ha segnato la loro esistenza intiera.
Il silenzio del narratore
Primo Levi, I sommersi e i salvati (1986):
Parlano perché sanno di essere testimoni di un processo
di dimensione planetaria e secolare. Parlano perché (recita
un detto jiddisch) ‘è bello raccontare i guai passati’;
Francesca dice a Dante che non c'è ‘nessun maggior dolore /
che ricordarsi del tempo felice / nella miseria’, ma è vero
anche l'inverso, come sa ogni reduce: è bello sedere al
caldo, davanti al cibo ed al vino, e ricordare a sé ed agli altri
la fatica, il freddo e la fame: così subito cede all'urgenza del
raccontare, davanti alla mensa imbandita, Ulisse alla corte
del re dei Feaci”.
Il silenzio del narratore
Manifesto del Futurismo (20 feb. 1909, punto 9):
“Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del
mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore
dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo
della donna”.
Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia.
Annotazione datata 15 maggio 1918:
“La guerra finirà, speriamo che finisca, e io non ci sarò
più stato: non fatiche amorosamente portate, non sacrifici di
stomaco e di cervello e di gambe con gioia compiuti, non
solitudine gioiosa sotto la tenda mentre croscia la pioggia
autunnale, non i divini momenti del pericolo, i sublimi atti
della battaglia […] Questa è la mia rabbia, questo è
l’ossessionante dolore, che mi porta alla demenza. […]
Il silenzio del narratore
Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato:
“Invecchieremo, falliti. Saremo la gente che ha fallito il
suo destino. […] Fra milioni di vite, c’era un minuto per
noi; e non l’avremo vissuto. Saremo stati sull’orlo, sul
margine estremo; il vento ci investiva e ci sollevava i
capelli sulla fronte; nei piedi immobili tremava e saliva la
vertigine dello slancio. E siamo rimasti fermi.
Invecchieremo, ricordandoci di questo. Noi, quelli della mia
generazione; che arriviamo adesso al limite, o l’abbiamo
passato di poco; gente sciupata e superba”.
Il silenzio del narratore
Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza (2006):
“Lungo l’intero corso dell’800, e fino al primo conflitto
mondiale, il Mito dell’Esperienza della Guerra è stato il
mito dell’esperienza stessa. L’allentamento dei legami
comunitari, la giuridificazione dei rapporti interpersonali,
l’impersonalità degli apparati burocratici, l’alienazione del
lavoro industriale, la repressione degli istinti sessuali nella
famiglia patriarcale, il principio del risparmio a cui
s’improntava l’economia fordista, l’anonimato
dell’esistenza nelle grandi aree urbane, l’avvento delle
masse sulla scena della storia […] furono tutti fattori che
contribuirono a fare della società borghese un sistema
particolarmente oppressivo. Un sistema in cui il singolo
uomo non era più misura del mondo, il brandello di vita
(della sua stessa vita) che l’individuo poteva vivere in prima
Il silenzio del narratore
Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza (2006):
Le esistenze scarnificate degli individui sottoposti a
questo tipo di giogo morbido ma intoglibile vagheggiarono,
perciò, nella guerra, il momento di massima
intensificazione vitale, l’attimo di plenitudine esperienziale
che li avrebbe riscattati dall’inanità delle loro routine
quotidiane. Ma, con il primo conflitto mondiale, la guerra
produsse la più devastante delle autodemistificazioni. Come
notò Walter Benjamin, fu proprio con la ‘grande guerra’ che
si realizzò la ‘caduta delle azioni dell’esperienza’:
all’opposto di ciò che si era creduto, i reduci tornavano
dalle trincee del tutto privi di esperienza comunicabile”.
Il silenzio del narratore
Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di
Nicola Leskov (1936):
“Il narratore – per quanto il suo nome possa esserci familiare
– non ci è affatto presente nella sua viva attività. È qualcosa
di già remoto, e che continua ad allontanarsi. […] l’arte del
narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado
d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa
come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso
quando, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di
sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di
una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura
di tutte: la capacità di scambiare esperienze”.
Il silenzio del narratore
Walter Benjamin, Il narratore:
“Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni
dell’esperienza [Erfahrung] sono cadute. E si direbbe che
continuino a cadere senza fondo. […] Con la guerra
mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora
non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra,
che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca,
ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi,
dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri
di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca
in bocca. E ciò non stupisce.
Il silenzio del narratore
Walter Benjamin, Il narratore:
Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di
quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle
economiche dall' inflazione, di quelle fisiche dalle battaglie
caratterizzate da grande dispiego di mezzi e materiali, di
quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che
era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava,
sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto
immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo di
forze attraversato da micidiali correnti ed esplosioni, il
minuto e fragile corpo dell' uomo”.
Il silenzio del narratore
Walter Benjamin, Il narratore:
“Il primo segno di un processo che porterà al declino della
narrazione è la nascita del romanzo alle soglie dell’età
moderna. Ciò che separa il romanzo dalla narrazione (e
dall’epico in senso stretto) è il suo riferimento strettissimo
al libro. La diffusione del romanzo diventa possibile solo
con l’invenzione della stampa. Ciò che si lascia tramandare
oralmente, il patrimonio dell’epica, è di altra natura da ciò
che costituisce il fondo del romanzo. Il romanzo si distingue
da tutte le altre forme di letteratura in prosa – fiaba,
leggenda, e anche dalla novella – per il fatto che non esce
da una tradizione orale e non ritorna a confluire in essa. Ma
soprattutto dal narrare.
Il silenzio del narratore
Walter Benjamin, Il narratore:
Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla
propria o da quella che gli è stata riferita –; e lo trasforma in
esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Il
romanziere si è tirato in disparte. Il luogo di nascita del
romanzo è l’individuo nel suo isolamento […]. Scrivere un
romanzo significa esasperare l’incommensurabile nella
rappresentazione della vita umana. Pur nella ricchezza della
vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo
attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente”.
Il silenzio del narratore
Theodor Adorno, Minima Moralia:
“Già la volta scorsa [cioè durante la Prima guerra]
l’inadeguatezza del corpo alla battaglia dei materiali
rendeva impossibile una vera esperienza [Erfahrung].
Nessuno avrebbe potuto raccontare di quella guerra al modo
in cui si era raccontato delle battaglie del generale
d’artiglieria Bonaparte. […] Ma la seconda guerra mondiale
è sottratta altrettanto radicalmente all’esperienza quanto il
funzionamento di una macchina ai movimenti del corpo
[…]. Come questa guerra non possiede continuità, storia,
l’elemento ‘epico’, ma in certo qual modo ricomincia da
capo ad ogni fase, così non lascia dietro di sé un ricordo
resistente e inconsciamente conservato. Dovunque, ad ogni
esplosione, essa ha infranto la pellicola protettiva sotto cui
si forma l’esperienza”.
Il silenzio del narratore
Robert Musil, L’uomo senza qualità (1930-33):
“In campagna gli dèi visitano ancora gli uomini, – egli pensò, – si
è qualcuno e si vive qualcosa, ma in città, dove gli eventi sono
mille volte più numerosi, non si è più capaci di trovare il
nostro rapporto con essi; e di lì ha origine la famigerata
astrattezza della vita. [...]
Come uno dei pensieri apparentemente distaccati e astratti
che così spesso nella sua vita acquistavano un valore
immediato, gli venne in mente che la legge di questa vita a cui
si aspira oppressi, sognando la semplicità, non è se non quella
dell’ordine narrativo, quell’ordine normale che consiste nel
poter dire: ‘Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro’.
Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a
una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente
varietà della vita;
Il silenzio del narratore
Robert Musil, L’uomo senza qualità (1930-33):
infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche
il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e
nello spazio! Beato colui che può dire: ‘allorché’, ‘prima che’ e
‘dopo che’! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto
dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel
loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli
riscaldasse lo stomaco. [...] Nella relazione fondamentale con
se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. [...] A loro
piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità,
e grazie all’impressione che la vita abbia un ‘corso’ si sentono
in qualche modo protetti in mezzo al caos. E Ulrich si accorse
di aver smarrito quell’epica primitiva a cui la vita privata
ancora si tien salda, benché pubblicamente tutto sia già
diventato non narrativo e non segua più un ‘filo’ ma si allarghi
Il silenzio del narratore
Robert Musil, Lettera del 26 gen. 1931 a un giornalista tedesco:
“Lei dice questo: il primo volume rinuncia alla dimensione del
tempo, del suo scorrere, dell’evoluzione temporale (e voglio
subito aggiungere: dunque anche di quella causale). Lei
giustamente vede che tutto ciò presuppone la rinuncia allo
‘stile narrativo’. Il prima e il dopo non sono cogenti, il
progresso è solo intellettuale e spaziale. Il contenuto si
espande in modo atemporale, tutto in fondo è sempre
presente tutto insieme”.
“Gli avvenimenti del nostro mondo attuale sono perlopiù
soltanto qualcosa di schematico [...], vale a dire di tipico, di
concettuale e per giunta di esangue. Perciò Ulrich cerca una
via d’uscita, una determinazione reale delle sue azioni, senza
con questo voler rinnegare il proprio essere ‘senza qualità’
Il silenzio del narratore
Robert Musil, Lettera del 26 gen. 1931 a un giornalista tedesco:
Per lui non c’è un accadere. Ciò che sembra tale non è che un
fantasma. Non vi sono motivazioni sufficienti e dunque vi è
soltanto uno sviluppo causale che non lo riguarda affatto benché
lui vi partecipi, e perciò in questo ‘prima’ anche il tempo per lui
non rappresenta una successione provvista di contenuto. [...]
Mentre il tempo scorre, le sue esperienze straripano da tutte le
parti, senza che questo ‘straripare’ gli piaccia. A un certo punto
dico persino che la sua e la nostra vita hanno perduto il ‘filo del
racconto’ e aggiungo alcune osservazioni in proposito”.
Il silenzio del narratore
Robert Musil, L’uomo senza qualità:
“Non s’è notato come le esperienze si sian rese indipendenti
dall’uomo? […] È sorto un mondo di qualità senza uomo, di
esperienze senza colui che le vive, e si può quasi immaginare
che nel caso limite l’uomo non potrà più vivere nessuna
esperienza privata […]. Probabilmente la decomposizione del
rapporto antropocentrico che per tanto tempo ha posto l’uomo
come centro dell’universo, ma è in ribasso da secoli, è giunta
finalmente all’Io, perché l’idea che l’importante dell’esperienza
è il viverla, e dell’azione il farla, incomincia a sembrare
un’ingenuità alla maggior parte degli uomini”.
L’esperienza e la scrittura
Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”:
“Questo romanzo è il primo che ho scritto, quasi la prima cosa che
ho scritto. Cosa ne posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro
sarebbe meglio non averlo mai scritto. […] Per coloro che da
giovani cominciarono a scrivere dopo un’esperienza di quelle
con tante cose da raccontare (la guerra, in questo e in molti altri
casi), il primo libro diventa subito un diaframma tra te e
l’esperienza, taglia i fili che ti legano ai fatti, brucia il tesoro di
memoria − quello che sarebbe diventato un tesoro se avessi
avuto la pazienza di custodirlo, se non avessi avuto tanta fretta di
spenderlo, di scialacquarlo, d’imporre una gerarchia arbitraria
tra le immagini che avevi immagazzinato, di separare le
privilegiate, presunte depositarie d’una emozione poetica, dalle
altre, quelle che sembravano riguardarti troppo o troppo poco
per poterle rappresentare, insomma d’istituire di prepotenza
un’altra memoria, una memoria trasfigurata al posto della
L’esperienza e la scrittura
Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”:
Di questa violenza che le hai fatto scrivendo, la memoria non
si riavrà più […] La memoria − o meglio l’esperienza, che è
la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il
cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso −,
l’esperienza primo nutrimento anche dell’opera letteraria
(ma non solo di quella), ricchezza vera dello scrittore (ma
non solo di lui), ecco che appena ha dato forma a un’opera
letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad
essere il più povero degli uomini.
L’esperienza e la scrittura
Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”:
Così mi guardo indietro, a quella stagione che mi si presentò
gremita d’immagini e di significati: la guerra partigiana, i mesi
che hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe
poter continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e
pensieri ed episodi e parole e commozioni: e tutto è lontano e
nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza
che so bene ingannevole, le pagine scritte già in polemica con
una memoria che era ancora un fatto presente, massiccio, che
pareva stabile, dato una volta per tutte, l’esperienza, − e non mi
servono, avrei bisogno di tutto il resto, proprio di quello che lì
non c’è. Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho
distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni
della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non
mi è bastata che a scrivere il primo”.
“Una funzione del capire”
Luigi Meneghello, Nota (1976) ai Piccoli maestri:
“Per anni ho continuato a tentare di dar forma a singoli pezzi
di questa materia: sapevo che per formarla bisognava capirla,
scrivere è una funzione del capire”.
Franco Calamandrei, Raccontare significa chiarire a noi stessi
la vita (“Il Politecnico”, dic. 1945):
“Raccontare, narrare, vuol dire rappresentare i fatti della vita
nel loro determinarsi reciproco, nei loro rapporti scambievoli;
vuol dire scoprire e mostrare per mezzo di parole scritte come
un fatto nasce da un altro fatto, come a sua volta influisce sul
fatto che l’ha originato, e a sua volta dà origine a un fatto
nuovo; vuol dire chiarire in quale maniera di continuo si
trasformi la vita, e per quali svolgimenti si formino in essa le
vicende degli individui”.
“Una funzione del capire”
Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa
come processo combinatorio) (1967):
“Tutto cominciò con il primo narratore della tribù. Già gli
uomini scambiavano tra loro suoni articolati, riferendosi alle
necessità pratiche della loro vita […]. Il numero delle parole era
limitato: alle prese col mondo multiforme e innumerevole gli
uomini si difendevano opponendo un numero finito di suoni
variamente combinati. […] Il narratore cominciò a profferire
parole non perché gli altri gli rispondessero altre prevedibili
parole, ma per sperimentare fino a che punto le parole potevano
combinarsi l’una con l’altra, generarsi una dall’altra: per
dedurre una spiegazione del mondo dal filo d’ogni discorsoracconto possibile, dall’arabesco che nomi e verbi, soggetti e
predicati, disegnavano diramandosi gli uni dagli altri”.
“Una funzione del capire”
Paul Ricoeur, Tempo e racconto (3 voll., 1984-85):
Ha introdotto la nozione di “intelligenza narrativa”, cioè una
funzione primaria della mente umana che presiede alla
configurazione degli intrecci, delle concatenzioni temporali e
causali tra gli eventi; ha manifestato grande fiducia nella
sopravvivenza della “funzione narrativa”:
“Questo perché non sappiamo che cosa sarebbe una cultura
nella quale non si sappia più che cosa significhi raccontare”.
“Una funzione del capire”
Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo
(1984):
«Ogni racconto, dal più semplice al più elaborato, è
intenzionalmente ermeneutico, in quanto ripercorre gli
avvenimenti passati allo scopo di porli al servizio della
consapevolezza».
«Noi leggiamo, senza dubbio, per soddisfare ogni tipo di
passioni, ma sempre e comunque animati dalla passione di
venire a sapere, di scoprire, di arrivare alla produzione del
senso; […] di arrivare a cogliere l’ordine semantico conferito
all’esperienza dalla struttura del racconto».
“Una funzione del capire”
Stephen Jay Gould, So Near and Yet so Far (1995):
“Siamo creature che raccontano storie; la nostra specie
avrebbero dovuto chiamarla Homo narrator (o forse Homo
mendax per riconoscere l’aspetto fuorviante che c’è nella
narrazione di storie) anziché con il termine spesso non
appropriato di Homo sapiens. La modalità narrativa ci riesce
naturale, come uno stile per organizzare pensieri e idee”.
“Una funzione del capire”
Jerome Bruner, La cultura dell’educazione (1997), in cui ha
contrapposto il “pensiero logico-scientifico” e il “pensiero
narrativo”:
«Gli esseri umani danno un significato al mondo raccontando
storie su di esso».
«È consuetudine della maggior parte delle scuole trattare le
arti narrative – la canzone, il dramma, il romanzo, il teatro e via
dicendo – come qualcosa di più “decorativo” che necessario,
qualcosa con cui ingentilire le ore di svago, a volte come
qualcosa di moralmente esemplare. Ciò non toglie che noi
costruiamo in forma narrativa l’analisi delle nostre origini
culturali e delle credenze che ci sono più care, e non è solo il
“contenuto” di quei racconti ad affascinarci, ma anche l’abilità
con cui vengono narrati.
“Una funzione del capire”
Jerome Bruner, La cultura dell’educazione (1997) :
Anche la nostra esperienza immediata, quello che ci è
successo ieri o l’altroieri, la esprimiamo sotto forma di
racconto. Cosa ancor più significativa, rappresentiamo la nostra
vita (a noi stessi e agli altri) in forma di narrazione. Non è
sorprendente che gli psicoanalisti oggi riconoscano che la
personalità implica una narrazione, poiché la “nevrosi” è un
riflesso di una storia insufficiente, incompleta o inadeguata su
se stessi. Ricorderete che quando Peter Pan chiede a Wendy di
ritornare con lui nell’Isola che non c’è, per convincerla le
spiega che potrebbe insegnare come si raccontano storie ai
Ragazzi perduti che vi si trovano. Se essi imparassero come si
organizza un racconto, i Ragazzi perduti sarebbero forse in
grado di crescere».
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Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”