Teoria della letteratura A.A. 2011-12 Corso per gli studenti della Laurea magistrale • Mutuato anche per gli studenti della Facoltà di Lettere • 6 cfu; circa 30 ore Orari delle lezioni: • Lun. 12.00-13.30, Aula D, Presidenza Lingue • Mar. 12.00-13.30, Aula I, Dip. Lingue e LSM • Mer. 10.15-11.45, Aula E, Presidenza Lingue Esami: A partire dal 19 marzo Ricevimento (Italianistica, Studio 33, terzo piano): • Feb.-mar. 2010: Lunedì 10.00-11.30, Mercoledì 12.00-13.00 • Da aprile 2010: Martedì 10.00-13.00 Alcune parole-chiave Esperienza - Testimonianza - Esperienza vissuta (Erlebnis) ed esperienza accumulata (Erfahrung) - Inesperienza, perdita o crisi dell’esperienza Storia - Guerra, violenza, trauma - Destino - Epica, Tragedia Scrittura - Oralità e scrittura - Esperienza e scrittura - Funzioni della scrittura (testimoniale, terapeutica, conoscitiva…) Narrazione - Dicibile/indicibile - Silenzio - Intreccio, trama Alcune parole-chiave Autobiografia - Soggetto - Identità - Autofiction Memoria - Ricordo - Oblio (volontario/involontario) - “Derive della memoria” Realtà - Verità, veridicità, autenticità - Realismo, verosimiglianza, credibilità - Documento Finzione - Menzogna - Artificio - Trasfigurazione Principi di classificazione, 1: Contenuto tematico Hegel, Estetica, c’è un nesso profondo tra guerra e narrazione epica: “Nel modo più generale si può indicare come la situazione più appropriata all'epos il conflitto dello stato di guerra. Infatti in guerra è tutta la nazione che è messa in movimento ed esperimenta nelle sue condizioni generali un vivo stimolo ad agire […] in guerra l'interesse principale risulta il coraggio, ed il coraggio è uno stato dell'anima ed una attività adatti soprattutto per la descrizione epica [...]”. In altri termini, nella narrazione della guerra si realizza un senso di totalità, di integrazione organica tra l’individuo e la collettività, tra le vicende personali dell’eroe e lo sfondo dei grandi avvenimenti storici Principi di classificazione, 1: Contenuto tematico Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991 (1994): “Le guerre del ventesimo secolo […] hanno raggiunto dimensioni mai toccate prima. […] dal 1914 in poi, le guerre furono indubbiamente guerre di massa […] impiegarono e distrussero nel corso dei combattimenti una quantità fino ad allora inimmaginabile di materiali e di prodotti. [...] I conflitti generali si trasformarono in ‘guerre di popolo’ […] Le guerre condotte in entrambi gli schieramenti da professionisti o da specialisti, soprattutto se costoro appartengono a strati sociali affini, non escludono il reciproco rispetto e l’accettazione di regole perfino cavalleresche. La violenza ha le sue regole. […] Ma le guerre totali del nostro secolo furono molto lontane dagli schemi della politica bismarckiana o di quella settecentesca. Nessuna guerra in cui si fa appello a sentimenti nazionali di massa può avere carattere limitato come lo avevano le guerre aristocratiche. […] Principi di classificazione, 1: Contenuto tematico Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991 (1994): “Un’altra ragione fu la conduzione impersonale della guerra, in base alla quale uccidere e ferire diventavano conseguenze remote del premere un pulsante o del muovere una leva. La tecnologia rendeva invisibili le sue vittime, mentre ciò non accadeva quando si sventravano i nemici con la baionetta o li si inquadrava nel mirino del fucile. Di fronte ai cannoni in postazione sul fronte occidentale non c’erano uomini, ma cifre statistiche […] Laggiù, al suolo sotto i bombardieri, non c’erano persone che stavano per essere bruciate o maciullate, ma obiettivi […]”. Principi di classificazione, 2: Distanza e testimonianza Gérard Genette, Figure III (1972): [La funzione testimoniale, o di attestazione] “è la funzione che informa sulla parte presa dal narratore, in quanto tale, alla storia da lui narrata, cioè sul rapporto fra narratore e storia: rapporto affettivo, certo, ma anche morale o intellettuale, e che può prendere la forma di una semplice testimonianza, come quando il narratore indica la fonte da cui deriva la sua informazione, o il grado di precisione dei suoi ricordi personali, o i sentimenti risvegliati in lui da un certo episodio”. Principi di classificazione, 2: Distanza e testimonianza Primo Levi, I sommersi e i salvati (1986): “Per una conoscenza dei Lager, i Lager stessi non erano sempre un buon osservatorio: nelle condizioni disumane a cui erano assoggettati, era raro che i prigionieri potessero acquisire una visione d’insieme del loro universo. […] Da questa carenza sono state condizionate le testimonianze, verbali o scritte, dei prigionieri ‘normali’, dei non privilegiati, di quelli cioè che costituivano il nerbo dei campi, e che sono scampati alla morte solo per una combinazione di eventi improbabili”. Principi di classificazione, 2: Distanza e testimonianza Primo Levi, I sommersi e i salvati: “La storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata dalla sofferenza e dall’incomprensione”. “Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti […] siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i ‘mussulmani’, i sommersi, i testimoni integrali”. Principi di classificazione, 2: Distanza e testimonianza Primo Levi, I sommersi e i salvati: “Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso ‘per conto di terzi’, il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. […] Parliamo noi in loro vece, per delega”. Principi di classificazione, 3: Il tempo Testimoni diretti: • Alcuni raccontano “a caldo”, subito dopo l’esperienza vissuta (Levi, Calvino, Vittorini, Pavese…) • Alcuni raccontano dopo molti anni (Meneghello, Semprún) Testimoni indiretti: ricostruzione documentaria, rapporto dialettico tra passato e presente, e tra le diverse generazioni François Dosse, Renaissance de l’événement (2010): “La storia è un discorso intorno a una ‘presenza mancante’, un discorso che istituisce una frattura irreversibile perché questo essere-stato è per sempre assente e rende impossibile ogni tentativo di ritrovare la voce dei viventi del passato: ‘Si costruisce una letteratura a partire da impronte definitivamente mute; ciò che è passato non tornerà più e la voce è perduta per sempre’” [la cit. è tratta da Michel de Certeau, L’Absent de l’histoire, 1973, p. 11] (p. 113). Principi di classificazione, 4: Il genere letterario a) Autobiografia Narrazione retrospettiva che un individuo fa della propria vita Cfr. Philippe Lejeune, Il patto autobiografico: A=N=P Si manifesta in forme varie: diario, cronaca, memorialistica ecc. b) Autofiction Termine coniato da Serge Dubrovsky a proposito del suo romanzo Fils (1977) Genere che mescola autobiografia e invenzione narrativa, mette in scena l’autore reale ma gli attribuisce anche esperienze fittizie c) Romanzo (storico) “Un multicolore universo di storie” Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno” • Nel 1954 esce la seconda edizione del libro, sempre per Einaudi, nella collana “Piccola Biblioteca Scientificoletteraria”; • In questa circostanza emerge nettamente il senso di distacco che Calvino prova nei confronti del romanzo: cfr. la Lettera del 29 set. 1954 a Giuseppe Zigaina (un disegnatore che doveva realizzare l’illustrazione della copertina): “Einaudi vuol ristampare il mio Sentiero dei nidi di ragno, da tempo esaurito, nella ‘Piccola biblioteca ScientificoLetteraria’. […] Non so se tu hai il libro (che è un libro invecchiato, che per anni non ho voluto ristampare, e a cui ora acconsento, appunto perché è distaccato nel tempo, non può essere letto se non ‘retrospettivamente’”. “Un multicolore universo di storie” Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno” • Nel 1964 esce la terza e definitiva edizione nei “Coralli”. Il testo viene sottoposto a un ulteriore lavoro di revisione e accompagnato dalla Prefazione. Lettera del maggio 1977, in cui ribadisce il rapporto problematico con il libro: “È un libro di cui posso parlare con distacco, perché mi è difficile identificarmi con chi l’ha scritto, più di trent’anni fa. Ma il fatto che con questo libro io abbia sempre avuto rapporti difficili, più che con qualsiasi altro mio libro, mi rimanda a un momento della mia giovinezza in cui c’erano tutti i presupposti d’una nevrosi bella e buona”. “Un multicolore universo di storie” Domenico Scarpa, Italo Calvino: Siamo di fronte a “una serie di prove di discorso troncate a mezzo per dichiarata incapacità di trovare il filo nel mentre stesso che il discorso si avvia, si sviluppa e assume una fisionomia sempre più definita a forza di scossoni e di brusche correzioni, ammettendo i lettore nel backstage dell’autore e portando sulla scena le sue perplessità e i suoi balbettii meditabondi con arte teatrale e sopraffina. […] È teatro, questa Prefazione, ma è anche cinema: è come una sequenza che vada via via restringendo il campo. Calvino aggiusta il suo obiettivo scalando le distanze dall’inquadratura panoramica (l’atmosfera generale dell’epoca in cui il Sentiero fu scritto) fino al dettaglio in primissimo piano (i risvolti autobiografici dell’opera). Prima d’inaugurare una nuova fase creativa, Calvino salda i “Un multicolore universo di storie” Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”: “Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un'opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale d'un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale”. “Un multicolore universo di storie” Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”: “L'esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d'arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, ‘bruciati’, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d'una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt'altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l'accento che vi mettevamo era quello d'una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del primo “Un multicolore universo di storie” Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”: “Questo ci tocca oggi, soprattutto: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte. L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore delle ‘mense del popolo’, ogni donna nelle code dei negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie”. “Un multicolore universo di storie” Primo Levi, Se questo è un uomo (1947): [fine della premessa] “Il bisogno di raccontare agli ‘altri’, di fare gli ‘altri’ partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con altri bisogni elementari; il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore”. “Un multicolore universo di storie” Primo Levi, Il sistema periodico (1975): “Io ero ritornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz […] Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a poco a poco ne nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare uomo, uno come tutti” (p. 155). “Un multicolore universo di storie” Primo Levi, Intervista del 17 set. 1979: “Io sono tornato dal Lager con una carica narrativa patologica addirittura. Mi ricordo molto bene certi viaggi in treno fatti nel ’45, appena ritornato […] E in treno mi ricordo di aver raccontato le mie cose ai primi che capitavano. Ho citato a questo proposito il vecchio marinaio di Coleridge, che racconta la sua storia a gente che va a nozze e che se ne infischia di lui. Ecco, io facevo proprio lo stesso […] Spesso ho pensato a Ulisse quando arriva alla corte dei Feaci. Stanco com’è passa la notte a raccontare le sue avventure. È comune a tutti i reduci raccontare quello che hanno fatto”. Primo Levi, Conversazione con Anthony Rudolf (ottobre 1986): “Per me fu una sorta di terapia scrivere Se questo è un uomo. Quando tornai a casa non mi sentivo assolutamente in pace. Mi sentivo invece profondamente turbato. Un certo istinto mi spinse a raccontare la mia vicenda. La raccontai verbalmente [cioè oralmente] a chiunque, anche a persone sconosciute. “Un multicolore universo di storie” Primo Levi, Conversazione con Anthony Rudolf: “Poi qualcuno mi consigliò, dicendomi che avrei anche potuto scriverla. Così ci provai, e attraverso l’atto della scrittura provai un senso di progressiva guarigione. E infine guarii. […] Quando, dopo la guerra, lessi la poesia di Coleridge, ne rimasi profondamente turbato perché riconobbi me stesso in quel personaggio. Sino a quando non scrissi Se questo è un uomo, agivo esattamente come il vecchio marinaio, fermando la gente per strada. Ricordo che alcuni giorni dopo il ritorno a casa dovetti fare alcuni viaggi tra Torino e Milano per ricostruire e riprendere la mia carriera di chimico. Ricordo bene che su un treno stavo parlando a ruota libera con gente che non conoscevo. Tra di loro vi era un prete. Era attonito, turbato, e mi chiese perché mi rivolgessi a persone che non conoscevo; gli risposi che non avevo altra scelta, che non riuscivo a trattenermi e che non potevo spegnere questo bisogno interiore di raccontare la mia storia”. “Un multicolore universo di storie” Sergio Antonielli, Il campo 29 (1949): “Il punto non era che tutti o quasi, compresi gli analfabeti, si sentivano autorizzati a diventare scrittori. Il punto era che a quel grado di turbamento davanti al reale non si era mai arrivati. […] La partecipazione di massa al dolore fisico e morale, alla precarietà della vita, agli imperativi della sopravvivenza quotidiana, alle innumerevoli umiliazioni, era sembrata di proporzioni mostruose perfino a un popolo come il nostro, educato per secoli ad arrangiarsi e a tirare a campare, cioè a scampare, a salvarsi […] Scrivere di questo dolore non in generale, ma portando ciascuno il contributo della propria particolare esperienza, significava offrire la testimonianza che gli scampati da analoghe prove desideravano per aiutarsi a superare il turbamento provato. “Un multicolore universo di storie” Sergio Antonielli, Il campo 29 (1949): Era come un parlare fra naufraghi del comune accidente. In questo senso, una letteratura che avesse trovato il tono giusto avrebbe ritrovato anche le radici sociali della letteratura, le ragioni profonde del mettersi a scrivere. Il rito era quello antichissimo del parlare delle comuni sventure per congedarsi dal passato e puntare all’avvenire”. “Il momento più vivido della mia vita” Vittorio Sereni, Una donna vesita di rosso (prefazione al libro di Antonielli): “Certo, credevamo tutti in quegli anni di avere avuto ‘una storia degna di essere raccontata’. C’era anzitutto l’eccezionale soggettivo – in quanto essere stati individualmente colpiti da un evento ci era bastato a farcelo ritenere eccezionale – e c’era l’eccezionale oggettivo, quello che non solo si presentava con i più vistosi o atroci caratteri dell’eccezionalità, ma era sotto gli occhi di tutti già al suo semplice enunciarsi”. “Il momento più vivido della mia vita” Luigi Meneghello, I piccoli maestri: “[…] È in questo punto della crosta terrestre che ho passato il momento più vivido della mia vita”. “Qui si sente davvero com'è fatto l'Altipiano; la grande spalla liscia, pura, lo delimita come un mondo a parte, e da questo punto si misura con uno sguardo quanto è alto, quanto è remoto. Non è meraviglia che da allora per anni e anni figurandomi tra la veglia e il sonno la condizione più perfetta in cui vorrei trovarmi, sia tornato sempre in cima a questa spalla, in una delle casotte di pietra che ci sono qua e là, di notte, ad aspettare con due o tre compagni che arrivino i convogli dei rastrellatori, per difendere l'Altipano in questo punto. Militarmente sarebbe una gran stupidaggine, ma questo sogno di perfezione non è militare”. “Il momento più vivido della mia vita” Giorgio Caproni, Il labirinto (1946): “io mi sentivo troppo solo in quell’ora che intuivo eccezionalmente grande”; “si vedeva che quelle non erano ore ordinarie”. Franco Fortini, Sere in Valdossola (1946): “Vi fu un momento, in quei mesi, in cui parve che dal profondo si scuotesse qualcosa, lasciando intravedere un volto della gente dei nostri paesi fino allora sconosciuto; e d’improvviso motivi ed espressioni, gesti e sofferenze di quella gente si situarono ad una misura tale, ad un livello che avevamo creduto negato loro dalla bassezza dei tempi: il livello che si suol dire della storia, cioè della azione consapevole”. “Il momento più vivido della mia vita” Italo Calvino, Lettera a Marcello Venturi del 7 feb. 1947: “Forse è bene che smettiamo di scrivere di partigiani, se no cadiamo nella cifra. E cosa scriviamo poi? Dove potremo avere un’esperienza tanto completa come quella della resistenza?”. “Il momento più vivido della mia vita” Primo Levi, Conversazione con Daniela Amsallem (15 luglio 1980): “Il ritrovare la libertà, per me ha coinciso […] con la scoperta dello scrivere; con, paradossalmente, la scoperta di avere in mano un’esperienza estremamente dolorosa ma preziosa, che poteva durare, come un capitale che dà frutto, e che infatti continua a dare frutto, in qualche modo; cioè mi ha fornito una certa comprensione del mondo, e la facoltà di ragionarci sopra, e questo lo considero positivo. Per cui, può sembrare, come dire… empio addirittura, ma la somma, la somma algebrica del male di Auschwitz più quello che è venuto dopo, per me è positiva, non è negativa. [Pausa] È difficile fare delle ipotesi: se non fossi stato ad Auschwitz, chi lo sa cosa sarebbe successo, non lo so, ma ho l’impressione che avrei adesso una vita più povera”. “L’unico dovere che ha l’uomo al mondo, secondo me, laico, è di evitare la sofferenza agli altri e a se stessi”. “Il momento più vivido della mia vita” Primo Levi, Intervista di Philip Roth (1986): “Primo Levi […] Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva. […] non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un’immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo […]. “Il momento più vivido della mia vita” Primo Levi, Intervista di Philip Roth (1986): “Philip Roth [A proposito del viaggio di ritorno poi narrato nella Tregua] […] mi sono domandato se nonostante la fame, il freddo e le ansie, persino nonostante i ricordi, davvero tu abbia mai vissuto mesi migliori di quelli che definisci ‘una parentesi di disponibilità illimitata, un provvidenziale ma irripetibile dono del destino’ […] Primo Levi Un mio amico […] mi ha detto molti anni fa: ‘I tuoi ricordi di prima e di dopo sono in bianco e nero; quelli di Auschwitz e del viaggio di ritorno sono in technicolor’. Aveva ragione. La famiglia, la casa e la fabbrica sono cose buone in sé, ma mi hanno privato di qualcosa di cui ancora oggi sento la mancanza, cioè dell’avventura. Il mio destino ha voluto che io trovassi l’avventura proprio in mezzo al disordine dell’Europa “Il momento più vivido della mia vita” Semprún, La scrittura o la vita: dice che quello passato a Buchenwald è stato “un periodo cruciale dell’esistenza” (p. 164). Nelle notti insonni, il ricordo di una frase urlata durante i bombardamenti (“Crematorio, spegnete!”) lo fa ritrovare “nella realtà del campo, in una notte di allarme aereo. Udivo la voce tedesca che impartiva l’ordine di spegnere il crematorio, ma non avvertivo alcuna angoscia. Da principio, al contrario, mi invadeva una sorta di serenità, di pace: come se ritrovassi un’identità, una trasparenza a me stesso in un luogo abitabile. Come se – ammetto che l’affermazione possa apparire indecente, o quantomeno radicale, ma pur sempre veritiera − come se la notte sull’Ettersberg, le fiamme sul crematorio, il sonno agitato dei compagni ammassati nelle brande, il rantolo flebile dei moribondi, fossero una sorta di patria, il luogo di una pienezza, di una coerenza vitale, nonostante la voce autoritaria che con tono irritato ripeteva: Krematorium, ausmachen!” (pp. 146-147). “Il momento più vivido della mia vita” Testimonianze femminili raccolte nel volume La resistenza taciuta (a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, 1976): “Per me è stato il periodo più bello della vita. Ma è stato anche tragico, perché ho visto morire tanti ragazzi quando avrei voluto dare la mia vita cento volte per salvare la loro, e questa è stata una sofferenza atroce”. “Si rischiava la morte, però talmente c’era la gioia di vivere! Delle volte leggo che i compagni erano tetri. Non è vero. Eravamo sereni. Anzi, eravamo proprio felici […]. Quel tempo è stato stupendo, un periodo molto bello. Non ho mai più vissuto una vita bella così. Sofferenze sì, ma una cosa!”. “Il momento più vivido della mia vita” Ada Gobetti, Diario partigiano (scritto nel 1947, sulla base di alcuni taccuini di appunti presi giorno per giorno negli anni della guerra): [Episodio in cui racconta di un trasferimento notturno con alcuni compagni, al freddo, sotto una neve incessante; a un certo punto entrano in una galleria e si fermano a riposare] “Ci sedemmo e accendemmo una sigaretta: fosse il benessere fisico del trovarsi per un momento al riparo o l’effetto delle mie chiacchiere ottimistiche, sta di fatto che in quel momento ci sentimmo tutti e tre assolutamente felici. E ce lo dicemmo, tra timidi e stupiti. A guardar le cose oggettivamente, non c’era davvero nessuna ragione di felicità; ma è proprio quel che ci permette di vivere questo zampillar di gioia improvvisa che non ha radici in nulla di esterno, ma semplicemente in noi. “Il momento più vivido della mia vita” Ada Gobetti, Diario partigiano: Ed è tanto più vivo quanto più la vita è intensa: gli attimi di serenità più perfetta – appagamento, completezza, armonia – li ho provati proprio nei momenti di maggior pericolo. Gli è che quando le acque scorrono con ritmo normale levigano, ottundendole, le pietre che formano il fondo; e solo quando la tempesta le sconvolge, queste pietre raccolgono e riflettono, pur rabbrividendo, barbagli di più vivida luce. / Ma queste sono divagazioni d’oggi. Quel giorno […] non facevamo tante considerazioni. Eravam felici, e basta. E guardavamo l’avvenire e il mondo con ottimistica serenità”. “Il momento più vivido della mia vita” Semprún, La scrittura o la vita: “Dovevo raggiungere in fretta il mio blocco. Fuori la notte era chiara, la burrasca di neve era cessata. Delle stelle brillavano nel cielo di Turingia. Ho camminato con passo spedito nella neve che scricchiolava, fra gli alberi del boschetto che circondava i blocchi dell’infermeria. Nonostante il suono stridente dei fischi, in lontananza, la notte era bella, calma, serena. Il mondo si offriva a me nello splendente mistero di un’oscura luce lunare. Mi sono fermato per riprendere fiato. Il cuore mi batteva forte. Mi ricorderò per tutta la vita di questa felicità insensata, mi dissi. Di questa bellezza notturna. Ho alzato gli occhi. Sulla cresta dell’Ettersberg, delle fiamme di color arancio svettavano sulla tozza ciminiera del crematorio” (p. 283). Il dispositivo d’eccezione Manzoni, I promessi sposi (cap. XXXIII): [Mentre sta seguendo in parallelo le vicende di vari personaggi, spostandosi dall’uno all’altro,] Il narratore ammette che la storia di Renzo, “non sarebbe mai stata intralciata con [quella di don Rodrigo], se lui non l’avesse voluto per forza; anzi si può dire di certo che non avrebbero avuto storia né l’uno né l’altro”. Il dispositivo d’eccezione Tzvetan Todorov, La grammatica del racconto (in Poetica della prosa, 1971): “L’intreccio minimale completo consiste nel passaggio da un equilibrio a un altro. Un racconto ideale inizia con una situazione stabile, che una forza qualunque viene a turbare. Ne risulta uno stato di squilibrio; mediante l’azione di una forza diretta in senso opposto, l’equilibrio viene ristabilito; il secondo equilibrio è simile al primo, ma i due non sono mai identici”. Il dispositivo d’eccezione Peter Brooks, Trame (1984): “La trama del racconto è una deviazione o una trasgressione rispetto alla norma, uno stato di errore e di irregolarità, il solo stato ‘raccontabile’”. “La trama si pone come una sorta di divergenza o devianza [...]. Perché la trama inizia (o deve dare l’illusione di iniziare) al momento in cui la storia, [...] ubbidendo a qualche stimolo, passa da uno stato di quiescenza a uno stato di ‘narrabilità’, a una condizione di tensione, di inquietudine, che esige appunto di essere raccontata. [...] La narrazione che segue viene mantenuta in uno stato di tensione, come una prolungata deviazione rispetto alla quiete della ‘normalità’, del non-raccontabile, finché giunge alla quiescenza terminale della conclusione”. “La devianza è condizione necessaria perché la vita sia raccontabile, e la normalità manca di qualsiasi interesse, di qualsiasi energia”. Il dispositivo d’eccezione: il caso di Levi Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz: “Auschwitz è precisamente il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano” (p. 44). Primo Levi, Appendice a Se questo è un uomo (ed. 1956): “Se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata l’esperienza del Lager a costringermi a scrivere […]”. Il dispositivo d’eccezione: il caso di Levi Primo Levi, La chiave a stella (1978): “Se non ci fossero delle difficoltà ci sarebbe poi meno gusto dopo a raccontare; e raccontare […] è una delle gioie della vita”. Daniele Giglioli, Narratore, in “Riga”, n. 13, 1997: “Che la fame e la ricerca del cibo abbiano dato origine a furti, litigi, trattative, sogni, rievocazioni, gesti abietti, imprese coraggiose e avventure di ogni tipo, è del tutto ovvio, nella situazione in cui Levi si è trovato; che egli ce ne riferisca è in un certo senso altrettanto ovvio, fa parte del contratto di genere della memorialistica; ma che ad esempio la ricerca di un silo pieno di patate venga descritta con gli stessi termini di una caccia al tesoro […] è cosa che appartiene al dominio della letteratura, a quel processo di costante reinvestimento dei dati dell’esperienza in strutture significanti autonome e capaci non solo di tramandare, ma anche di generare, in chi legge, nuove esperienze”. Il dispositivo d’eccezione: il caso di Levi Daniele Giglioli, Narratore, in “Riga”, n. 13, 1997: Dunque, “la situazione eccezionale ha fatto sorgere, dalle spoglie di chi era stato ‘uno studente mediocre di italiano e scadente in storia’, un narratore. Di questa situazione eccezionale il cibo, o meglio la sua mancanza, era la quintessenza […]: dunque quel narratore doveva parlarne. […] la memoria si è fatta racconto, e l’eccezione è stata reintegrata, come letteratura, nell’universo della norma. Non del tutto, però; certo gli oggetti che ne erano stati la sostanza (la fame, il freddo, le percosse, la morte, e poi la liberazione, il ritorno alla vita, il viaggio, l’ignoto e l’avventura) sono stati riassorbiti e neutralizzati per effetto del potere taumaturgico della scrittura. Eppure, essi devono aver lasciato in Levi come un calco, una forma vuota, o forse una macchina disinserita che attendeva solo di essere riaccesa […]. Il dispositivo d’eccezione: il caso di Levi Daniele Giglioli, Narratore, in “Riga”, n. 13, 1997: Per questo, lasciatosi alle spalle i due libri che l’urgenza della memoria gli aveva imposto di scrivere, Levi si è trovato ad avere ancora storie da narrare […]: perché se con il Lager e col viaggio di ritorno […] egli poteva ritenere di aver chiuso il conto, il debito con il dispositivo stesso dell’eccezione, che lo aveva fatto nascere come narratore, poteva dirsi tutt’altro che pagato. Per questo lo ritroveremo sempre, quel dispositivo, puntuale e servizievole, ma anche irremovibile, nei racconti e nei romanzi scritti dopo La tregua”. La voce del narratore Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”: “Chi cominciò a scrivere allora si trovò cosi a trattare la medesima materia dell'anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s'aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un'espressione mimica. Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca d'effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all'origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio”. La voce del narratore Corrado Alvaro, Quaderno. Alcune pagine d’un diario fra il luglio 1943 e il giugno 1944 (1944): “Inerzia. E in questo stato d’inerzia si raccontano leggende di fatti accaduti altrove, atti di coraggio, iscrizioni sui muri, più in là, in un altro quartiere […]. Generalmente se ne dà il vanto ai quartieri popolari, Trastevere o Testaccio”. Levi, Intervista del 17 settembre 1979: “Direi che io sono costruito così: mi piace raccontare le mie cose. E infatti le racconto, in maggior misura quelle che mi sono successe veramente, o anche quelle che mi vengono raccontate. A riraccontarle mi pare di allinearmi con una dinastia millenaria che risale addirittura ai raccontatori popolari che ci sono in Africa e in Asia”. Il silenzio del narratore Testimonianze femminili raccolte nel volume La resistenza taciuta (a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, 1976): «Noi donne siamo restie a parlare. Tanto gli uomini sono pieni di loro, tanto le donne preferiscono tacere». Il silenzio del narratore Theodor Adorno, Critica della cultura e società (1951): “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”. Theodor Adorno, Dialettica negativa (1966): "La sofferenza incessante ha tanto il diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò sarà stata un errore la frase che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie" (p. 326); “Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di piú che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. Il silenzio del narratore Theodor Adorno, Dialettica negativa (1966): In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità. Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. […] Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e cosí la degrada ancora una volta a menzogna”. Il silenzio del narratore Primo Levi, Intervista del 1984: “Sono un uomo che crede poco alla poesia e tuttavia la pratica. Adorno ha scritto che dopo Auschwitz non si può più fare poesia, ma la mia esperienza è stata opposta. Allora (1945-46) mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. Dicendo poesia, non penso a niente di lirico. In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz”. Il silenzio del narratore Primo Levi, I sommersi e i salvati (1986): “Coloro che hanno sperimentato la prigionia (e, molto più in generale, tutti gli individui che hanno attraversato esperienze severe) si dividono in due categorie ben distinte, con rare sfumature intermedie: quelli che tacciono e quelli che raccontano. Entrambi obbediscono a valide ragioni: tacciono coloro che provano più profondamente quel disagio che per semplificare ho chiamato ‘vergogna’, coloro che non si sentono in pace con se stessi, o le cui ferite ancora bruciano. Parlano, e spesso parlano molto, gli altri, obbedendo a spinte diverse. Parlano perché, a vari livelli di consapevolezza, ravvisano nella loro (anche se ormai lontana) prigionia il centro della loro vita, l'evento che nel bene e nel male ha segnato la loro esistenza intiera. Il silenzio del narratore Primo Levi, I sommersi e i salvati (1986): Parlano perché sanno di essere testimoni di un processo di dimensione planetaria e secolare. Parlano perché (recita un detto jiddisch) ‘è bello raccontare i guai passati’; Francesca dice a Dante che non c'è ‘nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria’, ma è vero anche l'inverso, come sa ogni reduce: è bello sedere al caldo, davanti al cibo ed al vino, e ricordare a sé ed agli altri la fatica, il freddo e la fame: così subito cede all'urgenza del raccontare, davanti alla mensa imbandita, Ulisse alla corte del re dei Feaci”. Il silenzio del narratore Manifesto del Futurismo (20 feb. 1909, punto 9): “Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia. Annotazione datata 15 maggio 1918: “La guerra finirà, speriamo che finisca, e io non ci sarò più stato: non fatiche amorosamente portate, non sacrifici di stomaco e di cervello e di gambe con gioia compiuti, non solitudine gioiosa sotto la tenda mentre croscia la pioggia autunnale, non i divini momenti del pericolo, i sublimi atti della battaglia […] Questa è la mia rabbia, questo è l’ossessionante dolore, che mi porta alla demenza. […] Il silenzio del narratore Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato: “Invecchieremo, falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. […] Fra milioni di vite, c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto. Saremo stati sull’orlo, sul margine estremo; il vento ci investiva e ci sollevava i capelli sulla fronte; nei piedi immobili tremava e saliva la vertigine dello slancio. E siamo rimasti fermi. Invecchieremo, ricordandoci di questo. Noi, quelli della mia generazione; che arriviamo adesso al limite, o l’abbiamo passato di poco; gente sciupata e superba”. Il silenzio del narratore Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza (2006): “Lungo l’intero corso dell’800, e fino al primo conflitto mondiale, il Mito dell’Esperienza della Guerra è stato il mito dell’esperienza stessa. L’allentamento dei legami comunitari, la giuridificazione dei rapporti interpersonali, l’impersonalità degli apparati burocratici, l’alienazione del lavoro industriale, la repressione degli istinti sessuali nella famiglia patriarcale, il principio del risparmio a cui s’improntava l’economia fordista, l’anonimato dell’esistenza nelle grandi aree urbane, l’avvento delle masse sulla scena della storia […] furono tutti fattori che contribuirono a fare della società borghese un sistema particolarmente oppressivo. Un sistema in cui il singolo uomo non era più misura del mondo, il brandello di vita (della sua stessa vita) che l’individuo poteva vivere in prima Il silenzio del narratore Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza (2006): Le esistenze scarnificate degli individui sottoposti a questo tipo di giogo morbido ma intoglibile vagheggiarono, perciò, nella guerra, il momento di massima intensificazione vitale, l’attimo di plenitudine esperienziale che li avrebbe riscattati dall’inanità delle loro routine quotidiane. Ma, con il primo conflitto mondiale, la guerra produsse la più devastante delle autodemistificazioni. Come notò Walter Benjamin, fu proprio con la ‘grande guerra’ che si realizzò la ‘caduta delle azioni dell’esperienza’: all’opposto di ciò che si era creduto, i reduci tornavano dalle trincee del tutto privi di esperienza comunicabile”. Il silenzio del narratore Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov (1936): “Il narratore – per quanto il suo nome possa esserci familiare – non ci è affatto presente nella sua viva attività. È qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi. […] l’arte del narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”. Il silenzio del narratore Walter Benjamin, Il narratore: “Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni dell’esperienza [Erfahrung] sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo. […] Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca. E ciò non stupisce. Il silenzio del narratore Walter Benjamin, Il narratore: Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall' inflazione, di quelle fisiche dalle battaglie caratterizzate da grande dispiego di mezzi e materiali, di quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo di forze attraversato da micidiali correnti ed esplosioni, il minuto e fragile corpo dell' uomo”. Il silenzio del narratore Walter Benjamin, Il narratore: “Il primo segno di un processo che porterà al declino della narrazione è la nascita del romanzo alle soglie dell’età moderna. Ciò che separa il romanzo dalla narrazione (e dall’epico in senso stretto) è il suo riferimento strettissimo al libro. La diffusione del romanzo diventa possibile solo con l’invenzione della stampa. Ciò che si lascia tramandare oralmente, il patrimonio dell’epica, è di altra natura da ciò che costituisce il fondo del romanzo. Il romanzo si distingue da tutte le altre forme di letteratura in prosa – fiaba, leggenda, e anche dalla novella – per il fatto che non esce da una tradizione orale e non ritorna a confluire in essa. Ma soprattutto dal narrare. Il silenzio del narratore Walter Benjamin, Il narratore: Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita –; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Il romanziere si è tirato in disparte. Il luogo di nascita del romanzo è l’individuo nel suo isolamento […]. Scrivere un romanzo significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita umana. Pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente”. Il silenzio del narratore Theodor Adorno, Minima Moralia: “Già la volta scorsa [cioè durante la Prima guerra] l’inadeguatezza del corpo alla battaglia dei materiali rendeva impossibile una vera esperienza [Erfahrung]. Nessuno avrebbe potuto raccontare di quella guerra al modo in cui si era raccontato delle battaglie del generale d’artiglieria Bonaparte. […] Ma la seconda guerra mondiale è sottratta altrettanto radicalmente all’esperienza quanto il funzionamento di una macchina ai movimenti del corpo […]. Come questa guerra non possiede continuità, storia, l’elemento ‘epico’, ma in certo qual modo ricomincia da capo ad ogni fase, così non lascia dietro di sé un ricordo resistente e inconsciamente conservato. Dovunque, ad ogni esplosione, essa ha infranto la pellicola protettiva sotto cui si forma l’esperienza”. Il silenzio del narratore Robert Musil, L’uomo senza qualità (1930-33): “In campagna gli dèi visitano ancora gli uomini, – egli pensò, – si è qualcuno e si vive qualcosa, ma in città, dove gli eventi sono mille volte più numerosi, non si è più capaci di trovare il nostro rapporto con essi; e di lì ha origine la famigerata astrattezza della vita. [...] Come uno dei pensieri apparentemente distaccati e astratti che così spesso nella sua vita acquistavano un valore immediato, gli venne in mente che la legge di questa vita a cui si aspira oppressi, sognando la semplicità, non è se non quella dell’ordine narrativo, quell’ordine normale che consiste nel poter dire: ‘Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro’. Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita; Il silenzio del narratore Robert Musil, L’uomo senza qualità (1930-33): infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire: ‘allorché’, ‘prima che’ e ‘dopo che’! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco. [...] Nella relazione fondamentale con se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. [...] A loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all’impressione che la vita abbia un ‘corso’ si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos. E Ulrich si accorse di aver smarrito quell’epica primitiva a cui la vita privata ancora si tien salda, benché pubblicamente tutto sia già diventato non narrativo e non segua più un ‘filo’ ma si allarghi Il silenzio del narratore Robert Musil, Lettera del 26 gen. 1931 a un giornalista tedesco: “Lei dice questo: il primo volume rinuncia alla dimensione del tempo, del suo scorrere, dell’evoluzione temporale (e voglio subito aggiungere: dunque anche di quella causale). Lei giustamente vede che tutto ciò presuppone la rinuncia allo ‘stile narrativo’. Il prima e il dopo non sono cogenti, il progresso è solo intellettuale e spaziale. Il contenuto si espande in modo atemporale, tutto in fondo è sempre presente tutto insieme”. “Gli avvenimenti del nostro mondo attuale sono perlopiù soltanto qualcosa di schematico [...], vale a dire di tipico, di concettuale e per giunta di esangue. Perciò Ulrich cerca una via d’uscita, una determinazione reale delle sue azioni, senza con questo voler rinnegare il proprio essere ‘senza qualità’ Il silenzio del narratore Robert Musil, Lettera del 26 gen. 1931 a un giornalista tedesco: Per lui non c’è un accadere. Ciò che sembra tale non è che un fantasma. Non vi sono motivazioni sufficienti e dunque vi è soltanto uno sviluppo causale che non lo riguarda affatto benché lui vi partecipi, e perciò in questo ‘prima’ anche il tempo per lui non rappresenta una successione provvista di contenuto. [...] Mentre il tempo scorre, le sue esperienze straripano da tutte le parti, senza che questo ‘straripare’ gli piaccia. A un certo punto dico persino che la sua e la nostra vita hanno perduto il ‘filo del racconto’ e aggiungo alcune osservazioni in proposito”. Il silenzio del narratore Robert Musil, L’uomo senza qualità: “Non s’è notato come le esperienze si sian rese indipendenti dall’uomo? […] È sorto un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive, e si può quasi immaginare che nel caso limite l’uomo non potrà più vivere nessuna esperienza privata […]. Probabilmente la decomposizione del rapporto antropocentrico che per tanto tempo ha posto l’uomo come centro dell’universo, ma è in ribasso da secoli, è giunta finalmente all’Io, perché l’idea che l’importante dell’esperienza è il viverla, e dell’azione il farla, incomincia a sembrare un’ingenuità alla maggior parte degli uomini”. L’esperienza e la scrittura Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”: “Questo romanzo è il primo che ho scritto, quasi la prima cosa che ho scritto. Cosa ne posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. […] Per coloro che da giovani cominciarono a scrivere dopo un’esperienza di quelle con tante cose da raccontare (la guerra, in questo e in molti altri casi), il primo libro diventa subito un diaframma tra te e l’esperienza, taglia i fili che ti legano ai fatti, brucia il tesoro di memoria − quello che sarebbe diventato un tesoro se avessi avuto la pazienza di custodirlo, se non avessi avuto tanta fretta di spenderlo, di scialacquarlo, d’imporre una gerarchia arbitraria tra le immagini che avevi immagazzinato, di separare le privilegiate, presunte depositarie d’una emozione poetica, dalle altre, quelle che sembravano riguardarti troppo o troppo poco per poterle rappresentare, insomma d’istituire di prepotenza un’altra memoria, una memoria trasfigurata al posto della L’esperienza e la scrittura Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”: Di questa violenza che le hai fatto scrivendo, la memoria non si riavrà più […] La memoria − o meglio l’esperienza, che è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso −, l’esperienza primo nutrimento anche dell’opera letteraria (ma non solo di quella), ricchezza vera dello scrittore (ma non solo di lui), ecco che appena ha dato forma a un’opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli uomini. L’esperienza e la scrittura Italo Calvino, Prefazione 1964 al “Sentiero dei nidi di ragno”: Così mi guardo indietro, a quella stagione che mi si presentò gremita d’immagini e di significati: la guerra partigiana, i mesi che hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe poter continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e pensieri ed episodi e parole e commozioni: e tutto è lontano e nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole, le pagine scritte già in polemica con una memoria che era ancora un fatto presente, massiccio, che pareva stabile, dato una volta per tutte, l’esperienza, − e non mi servono, avrei bisogno di tutto il resto, proprio di quello che lì non c’è. Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo”. “Una funzione del capire” Luigi Meneghello, Nota (1976) ai Piccoli maestri: “Per anni ho continuato a tentare di dar forma a singoli pezzi di questa materia: sapevo che per formarla bisognava capirla, scrivere è una funzione del capire”. Franco Calamandrei, Raccontare significa chiarire a noi stessi la vita (“Il Politecnico”, dic. 1945): “Raccontare, narrare, vuol dire rappresentare i fatti della vita nel loro determinarsi reciproco, nei loro rapporti scambievoli; vuol dire scoprire e mostrare per mezzo di parole scritte come un fatto nasce da un altro fatto, come a sua volta influisce sul fatto che l’ha originato, e a sua volta dà origine a un fatto nuovo; vuol dire chiarire in quale maniera di continuo si trasformi la vita, e per quali svolgimenti si formino in essa le vicende degli individui”. “Una funzione del capire” Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio) (1967): “Tutto cominciò con il primo narratore della tribù. Già gli uomini scambiavano tra loro suoni articolati, riferendosi alle necessità pratiche della loro vita […]. Il numero delle parole era limitato: alle prese col mondo multiforme e innumerevole gli uomini si difendevano opponendo un numero finito di suoni variamente combinati. […] Il narratore cominciò a profferire parole non perché gli altri gli rispondessero altre prevedibili parole, ma per sperimentare fino a che punto le parole potevano combinarsi l’una con l’altra, generarsi una dall’altra: per dedurre una spiegazione del mondo dal filo d’ogni discorsoracconto possibile, dall’arabesco che nomi e verbi, soggetti e predicati, disegnavano diramandosi gli uni dagli altri”. “Una funzione del capire” Paul Ricoeur, Tempo e racconto (3 voll., 1984-85): Ha introdotto la nozione di “intelligenza narrativa”, cioè una funzione primaria della mente umana che presiede alla configurazione degli intrecci, delle concatenzioni temporali e causali tra gli eventi; ha manifestato grande fiducia nella sopravvivenza della “funzione narrativa”: “Questo perché non sappiamo che cosa sarebbe una cultura nella quale non si sappia più che cosa significhi raccontare”. “Una funzione del capire” Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (1984): «Ogni racconto, dal più semplice al più elaborato, è intenzionalmente ermeneutico, in quanto ripercorre gli avvenimenti passati allo scopo di porli al servizio della consapevolezza». «Noi leggiamo, senza dubbio, per soddisfare ogni tipo di passioni, ma sempre e comunque animati dalla passione di venire a sapere, di scoprire, di arrivare alla produzione del senso; […] di arrivare a cogliere l’ordine semantico conferito all’esperienza dalla struttura del racconto». “Una funzione del capire” Stephen Jay Gould, So Near and Yet so Far (1995): “Siamo creature che raccontano storie; la nostra specie avrebbero dovuto chiamarla Homo narrator (o forse Homo mendax per riconoscere l’aspetto fuorviante che c’è nella narrazione di storie) anziché con il termine spesso non appropriato di Homo sapiens. La modalità narrativa ci riesce naturale, come uno stile per organizzare pensieri e idee”. “Una funzione del capire” Jerome Bruner, La cultura dell’educazione (1997), in cui ha contrapposto il “pensiero logico-scientifico” e il “pensiero narrativo”: «Gli esseri umani danno un significato al mondo raccontando storie su di esso». «È consuetudine della maggior parte delle scuole trattare le arti narrative – la canzone, il dramma, il romanzo, il teatro e via dicendo – come qualcosa di più “decorativo” che necessario, qualcosa con cui ingentilire le ore di svago, a volte come qualcosa di moralmente esemplare. Ciò non toglie che noi costruiamo in forma narrativa l’analisi delle nostre origini culturali e delle credenze che ci sono più care, e non è solo il “contenuto” di quei racconti ad affascinarci, ma anche l’abilità con cui vengono narrati. “Una funzione del capire” Jerome Bruner, La cultura dell’educazione (1997) : Anche la nostra esperienza immediata, quello che ci è successo ieri o l’altroieri, la esprimiamo sotto forma di racconto. Cosa ancor più significativa, rappresentiamo la nostra vita (a noi stessi e agli altri) in forma di narrazione. Non è sorprendente che gli psicoanalisti oggi riconoscano che la personalità implica una narrazione, poiché la “nevrosi” è un riflesso di una storia insufficiente, incompleta o inadeguata su se stessi. Ricorderete che quando Peter Pan chiede a Wendy di ritornare con lui nell’Isola che non c’è, per convincerla le spiega che potrebbe insegnare come si raccontano storie ai Ragazzi perduti che vi si trovano. Se essi imparassero come si organizza un racconto, i Ragazzi perduti sarebbero forse in grado di crescere».