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Dai fax ai girotondi
Quell’eterna pretesa del monopolio morale
Ancora una volta l?uso politico
dell?«onestà». Non l?onestà che
si richiede a tutti, la
precondizione dell?agire politico,
risorsa che nessuno
schieramento può pretendere di
monopolizzare. Ma l?«onestà»
come arma contundente, il tic
del dare del «disonesto»
all?avversario politico. Malgrado
le smentite, resta nel sospetto di
«disonestà» lanciato ieri da
Landini sui sostenitori di Renzi il
retrogusto di un luogo comune
avvelenato molto diffuso negli
anni agonici della Prima
Repubblica e nel cuore della
Seconda: la pretesa della propria
superiorità morale, la condanna
nel girone infernale della
«disonestà» del Nemico
considerato antropologicamente
portato all?immoralità. Una
pretesa sempre meno fondata e
credibile, tra l?altro, vista
l?universalità trasversale di
comportamenti eticamente
discutibili. Nessuno è più
autorizzato a scagliare la prima
pietra.È una corrente sotterranea
che esonda e invade le piazze.
Prima il «popolo dei fax», poi
quello del «post it», poi i
girotondi che si stringono non
attorno a una fabbrica, luogo del
lavoro e della sinistra del lavoro,
ma attorno a un tribunale, luogo
della legge e dell?ordine, ma
soprattutto tempio dei magistrati
che come angeli vendicatori
rappresentavano per quel popolo
là fuori il surrogato della lotta
politica, la casta in toga deputata
a ripulire la Nazione dai
«disonesti» che la politica dei
partiti, dei voti, della democrazia
non riusciva a cacciar via. Una
storia antica, una pretesa
antica.All?inizio degli anni
Ottanta il dibattito politico
italiano ruotò intorno al surreale
quesito se i comunisti fossero da
considerarsi veramente
moralmente superiori agli altri
oppure no. Una pretesa assurda
ma che fu presa sul serio da tutti.
La «questione morale» agitata
da Enrico Berlinguer era questo:
il dogma della propria diversità,
il presupposto che tutti fossero
cattivi, malvagi, ladri, disonesti,
lottizzatori tranne i comunisti.
La dicotomia di un mondo pulito
e incorrotto, quello del Pci e di
ciò che gli ruotava attorno, e di
uno impuro, peccaminoso,
immerso nel Male, quello che si
identificava con tutti gli altri
partiti.Il povero Aldo Moro,
prima di essere rapito e
ammazzato con la sua scorta,
invano in Parlamento assicurava
che la Dc non si sarebbe fatta
«processare» nelle pubbliche
piazze. E invece la Democrazia
Cristiana (con gli altri partiti di
governo) si è fatta eccome
processare nelle pubbliche piazze
oltreché nei tribunali. Erano i
«forchettoni» bersagliati dal
Togliatti che nel frattempo
faceva affluire nelle casse del Pci
rubli a dismisura. Ma i
«forchettoni» erano sempre gli
altri. Nelle parole di Landini,
certamente eccessive nella foga
tipica del personaggio, e poi
attenuate, parla inconsciamente
questa tradizione. La stessa
tradizione che portò un qualche
«popolo» eterodiretto a
circondare il Raphael, rifugio
dell?Orco, dell?Arcinemico,
Bettino Craxi e a umiliarlo in
favor di telecamera con
sprezzanti monetine: «Rubati
anche queste». Non era forse il
campione della Disonestà da
linciare in piazza prima ancora
che un tribunale ne decretasse
l?eventuale colpevolezza?Ma c?è
sempre a sinistra uno più puro
che ti epura, sosteneva Pietro
Nenni, memore delle
degenerazioni del giacobinismo
che sfociò nel Terrore e nella
mistica della ghigliottina tanto
cara al Robespierre che veniva
infatti glorificato come
l?«Incorruttibile» (ma dopo
averne mozzate tante, anche lui
ebbe infine la testa mozzata). E
anche nella Seconda Repubblica
accadde che una setta dei puri,
capitanata da Antonio Di Pietro,
diventasse la casa di tutti gli
epuratori. Per la verità non è che
l?Italia dei Valori, con Razzi e
Scilipoti, abbia richiamato
sempre intransigenti seguaci
dell?incorruttibilità alla
Robespierre. E nei partiti che
erediteranno la storia del Pci la
pretesa tardo-berlingueriana di
essere i portabandiera della
«questione morale» non è stata
accompagnata sempre da visibili
applicazioni pratiche di quegli
austeri princìpi. Era parso che il
sindacato, aduso a ben altri
impegni a difesa del lavoro, non
si fosse fatto contaminare dai
cascami velenosi del
giustizialismo forcaiolo. Ma le
parole (per quanto poi frenate)
di Landini smentiscono questa
convinzione. Noi onesti, loro
disonesti appare ancora oggi una
retorica facile da usare.©
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Battista Pierluigi
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«Sicilia da tempo mal amministrata, nodi al pettine»
Mario Barresi
Catania. Rilancia la sfida a Matteo
Renzi («non governa, ma accarezza
l'onda delle paure») e con il suo
nuovo movimento, Italia Unica, punta
a rappresentare chi «no si rassegna
alla scelta perversa tra
l'inconcludenza renziana o le sparate
estremiste di Matteo Salvini». L'ex
ministro Corrado Passera lancia
un'ambizioso "programma-choc" (400
miliardi di investimenti) per «salvare il
Paese» e un'organizzazione, basata
sulle "Porte", di cui già una decina
nell'Isola, per radicarsi sui territori
«senza pagare pedaggi ai signori
delle tessere». Parlando di Sicilia:
«Soffre di decenni di mala
amministrazione, ora i problemi
arrivano al pettine tutti insieme». E di
Ponte: «Non è prioritario, ma non
penso che non si debba fare».
Passera, lei ha detto, in sintesi
brutale, che Renzi è un irresponsabile
perché non riesce a gestire la
degerazione della crisi italiana.
«È una sintesi, appunto, brutale. La
mia valutazione è semplice: il premier
non fa esercizio di verità verso gli
italiani. Non spiega la realtà dei
problemi che abbiamo di fronte
preferendo rifugiarsi in una narrazione
consolatoria e di comodo, di fatto
intrisa di demagogia, tutta volta a
cercare presunti nemici da abbattere dal sindacato all'Europa, agli
imprenditori - piuttosto che affrontare i
nodi che strangolano il Paese. In una
parola non governa: semplicemente
accarezza l'onda di paure e
insicurezze degli italiani».
Dove vuole arrivare con Italia unica?
Non bastava già la versione del Pd
renziano come "partito unico"?
«Il nostro obiettivo è esattamente il
contrario: ci battiamo perché non
prevalga il partito unico renziano o
della nazione che dir si voglia. Italia
Unica vuole favorire le condizioni di
una democrazia veramente matura e
di stampo europeo allestendo l'altra
gamba del sistema democratico,
quella non di sinistra e che raggruppa
tutti quegli italiani che non si
rassegnano alla scelta perversa tra
l'inconcludenza renziana o le sparate
estremiste di Matteo Salvini, che ora
cerca consensi nel Mezzogiorno
puntando sulla memoria corta di tanti
elettori».
Cos'è, in sintesi, il programma-choc
da 400 miliardi per salvare il nostro
Paese in sala rianimazione?
«È la risposta giusta ai bisogni del
Paese, la strada vera per uscire dalla
crisi. L'Italia ha bisogno di interventi di
grande portata, non le manovrine del
governo. Dunque: cento miliardi
immessi nell'economia dal pagamento
effettivo dei debiti della pubblica
amministrazione con il meccanismo
usato in Spagna; cento miliardi di
investimenti da un miglior uso dei
fondi strutturali europei con priorità al
Sud: completare i grandi corridoi
europei per collegarlo al resto d'Italia
e d'Europa, ammodernando porti e
ferrovie meridionali. Cento miliardi da
contratti di produttività e dalla
possibilità di immettere una parte del
Tfr in busta paga senza aggravi fiscali
e non come ha invece fatto il governo.
Cento miliardi di maggior credito alle
aziende rafforzando il Fondo Centrale
di Garanzia e usando la Cassa
depositi e prestiti sul modello tedesco.
Oltre alla riduzione forte delle tasse e
delle spese pubbliche inutili e a un
miglior uso dell'immenso patrimonio
pubblico».
In che area si colloca Italia Unica?
Non c'è il rischio che resti l'ennesima
meteora leaderista della politica
italiana?
«In parte ho già risposto. Vogliamo
costruire un'alternativa per far
funzionare correttamente la
democrazia attraverso il bipolarismo
compiuto; ci collochiamo in quell'area
politica fatta di milioni di italiani che
hanno rispetto delle regole, che
impugnano come bussole merito,
capacità, competenza, trasparenza.
Quanto al leaderismo, non a caso ho
parlato di squadra e di leadership
diffusa sul territorio. Io non credo al
leader solo al comando, anzi ne
diffido. Ho intitolato il mio libro "Io
Siamo" proprio perché occorre
coniugare l'impegno personale con il
lavoro di gruppo».
Ha anticipato l'apertura di 150 "Porte".
Di cosa si tratta? La Sicilia come è
coinvolta? Chi sono i suoi compagni
di avventura nella nostra Isola?
«Ho parlato di partito diverso. E infatti
ci stiamo strutturando sul territorio
attraverso Porte che sono il modo di
entrare nel nostro movimento senza
pagare pedaggi a signori delle tessere
e senza altri passaggi opachi. Le
Porte sono le cellule del nostro
organismo, lo vivificano immettendo il
sangue fresco delle idee e dei
contributi di ciascuno. In Sicilia ce ne
sono già dieci tra Palermo, Agrigento,
Catania, Mazara del Vallo e molte
altre sono in apertura».
Da uomo di governo avrà più volte
avuto sul tavolo il "dossier Sicilia". La
nostra è davvero una terra
irredimibile? Da cosa possiamo
ripartire? Provi a diventare "ministro"
dello Sviluppo economico della Sicilia:
cosa farebbe?
«Certo che non è irridemibile, la
Sicilia: è purtroppo mal amministrata
da tanto tempo e oggi è allo stremo
con troppi problemi non risolti che
vengono al pettine tutti insieme. In
tanti turismi la Sicilia può essere
leader nel mondo, così pure nella
filiera agroalimentare o della sanità.
La Sicilia può essere terra di ricerca e
di startup in tanti campi. Ma bisogna
amministratori pubblici all'altezza del
compito e capaci di darsi un progetto
regionale di lungo periodo. Allo Stato
vanno chieste infrastrutture adeguate
di collegamento al resto di Italia e
all'Europa e portualità che metta
l'isola - non solo a parole - al centro
del Mediterraneo. Per questo
insistiamo per concentrare i Fondi
strutturali europei in questa
direzione».
Perché secondo lei il Ponte sullo
Stretto non s'ha da fare?
«Io non penso che non s'abbia da fare
in assoluto: penso che in questa fase
di ristrettezza di risorse ci sono opere
più prioritarie, in campo ferroviario,
stradale e portuale. Ma quando
avremo rimesso in moto sul serio
l'economia italiana si potrà pensare
anche a opere visionarie come quella
del Ponte».
twitter: @MarioBarresi
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Il Premio Cutuli dedicato alla giornalista del corriere della sera uccisa in afghanistan
Maria Grazia e quella promessa
di non arrendersi agli oppressori
Al Teatro Sangiorgi di Catania riconoscimenti per quattro giornalisti: Lynsey Addario, Amalia
De Simone, Andrea Tuttoilmondo, Laura Anello
di Felice Cavallaro
Il dolore per il sacrificio di Maria
Grazia Cutuli si rinnova ogni
anno, come l’impegno a seguire
la passione professionale
dell’inviata del Corriere della
Sera uccisa sulla strada per
Kabul il 19 novembre 2001,
mentre raccontava la liberazione
di un pezzo di Afghanistan dai
talebani alleati di Bin Laden. Un
dramma e una speranza evocati
ancora una volta
nell’anniversario fra Catania e
Santa Venerina, il paesino
dell’Etna dove Maria Grazia
nacque, con la decima edizione
del Premio a lei intitolato.
Occasione di riflessione sulla
tragedia di Paesi sempre più
sconvolti dai conflitti interni,
dalle carneficine dell’Isis,
dall’epilogo delle decapitazioni
in diretta, dall’esplosione di un
odio esaminato durante le due
giornate culminate ieri sera al
Teatro Sangiorgi di Catania nella
premiazione da parte della
Fondazione Cutuli e della giuria
presieduta dal direttore del
Corriere della Sera Ferruccio de
Bortoli di quattro giornalisti con
un minimo comune
denominatore, la stessa
attenzione di Maria Grazia ai
Sud del mondo: Lynsey Addario,
grande fotografa americana,
premiata per la sezione stampa
estera, Amalia De Simone,
direttrice di Radio Siani , per la
stampa italiana, Andrea
Tuttoilmondo come giovane
giornalista emergente siciliano e,
vincitrice del premio speciale
conferito dal presidente della
giuria, Laura Anello, impegnata
su tanti fronti per La Stampa e il
Giornale di Sicilia.
L’attenzione alle trincee in cui
l’umanità gioca sfide vitali
contro l’oppressione, spesso
motivata dall’impostura di un
impulso religioso, è lo sfondo di
un dibattito condotto da Maria
Cuffaro, l’inviata del Tg3 anche
lei in passato vincitrice dello
stesso Premio, fra Laura
Boldrini, la presidente della
Camera, l’inviato del Sole 24
Ore Alberto Negri e il direttore
de Bortoli.
Si impone massima attenzione
per la presidente Boldrini sugli
orrori del califfato dell’Isis: «Il
mondo civile deve impegnarsi
perché non passi l’idea che con il
terrorismo si può imporre
l’istituzione di uno Stato». Ma
allo stesso tempo bisogna
cancellare «la malsana idea che
tutti i musulmani siano in odore
di terrorismo».
Temi chiave per i vincitori anche
la prima sera a Santa Venerina
con il sindaco Salvatore Greco e
il professore Salvatore
Musumeci, ieri mattina
all’università di Catania con il
direttore del Dipartimento di
Scienze umanistiche Giancarlo
Magnano, presenti Mario,
Donata e Sabrina Cutuli, i fratelli
di Maria Grazia.
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2014-11-22e23 ance catania