Quando era “La Comense” SSA AN ND DRRO O CCIIM MA A VVIIVVA ARREELLLLII ““SSoonnoo eennttrraattoo ccoonn ii ppaannttaalloonnii ccoorrttii ssoonnoo uusscciittoo ccoonn ii ccaappeellllii bbiiaanncchhii”” QUANDO ERA “LA COMENSE” Dedicato a tutti coloro che in quella tinto-stamperia spesero anni della loro vita LLaa TTiiccoossaa vviissttaa ddaallll’’iinntteerrnnoo SSttoorriiaa ee aanneeddddoottii ddeellllaa ggrraannddee aazziieennddaa ccoom maassccaa 2 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Quando era “La Comense” LA FONDAZIONE Era la più grande tinto-stamperia per conto terzi italiana. Nel 1863 il milanese Saba Frontini, abitante a Como nel Borgo di S.Abbondio, dà vita ad una attività di tintura filati di seta impiegando circa trenta operai. Il 10 ottobre 1872 nasce, sullo stesso luogo, la “Società Anonima Tintoria e Apparecchiatura Comense” che rileva la ditta di Saba Frontini e nomina, attraverso il consiglio di amministrazione, nella qualità di Direttore e vice-direttore i figli del precedente proprietario. Ai primi del XX secolo una potente dinastia industriale francese, la famiglia Gillet, già proprietaria di stabilimenti di tintoria in Lione ed in altre nazioni, decide di investire a Como per vincere la concorrenza di altre tintorie estere operanti in città. La Gillet & Fils ha sede a Lione come società in nome collettivo al n.8 Quai de Serin: è stata costituita il 1° Luglio 1875. Nel 1902 la ditta Gillet avanza la proposta di acquistare la “Società Anonima Tintoria e Apparecchiatura Comense”. Il 14 marzo il quotidiano LA PROVINCIA scrive: "Sembra che il grandioso nostro stabilimento cittadino, Tintoria Comense, sia stato acquistato dalla potente ditta Gillet di Lione. I giornali di Milano assicurano della cosa già combinata ed al proposito verrebbe convocata l'assemblea degli azionisti per ratificare il contratto". Il giorno seguente il Consiglio D'Amministrazione, anche attraverso la stampa, smentisce la notizia. Martedì 8 aprile lo stesso Consiglio comunica ufficialmente però che per il giorno 20 è convocata l'assemblea generale dei soci che vede all'ordine del giorno, tra l'altro: comunicazione della proposta pervenuta al Consiglio per la vendita dello stabilimento alla ditta Gillet e figli di Lione e relativa deliberazione. LA PROVINCIA di lunedì 21 maggio riporta in consuntivo i seguenti dati: "Sono ammessi alla votazione 135 soci in rappresentanza di 3633 azioni. Risultato: SI 2039 per la reiezione NO 1536 per la vendita ". Il giorno seguente il titolo del giornale non lascia dubbi: “LA TINTORIA COMENSE RESTA COMASCA” Il 1° maggio 1904 la Gillet & Fils acquista la Tintoria Castagna di Piazza Castello (l'attuale piazza del Popolo). Lo stabilimento era localizzato nella zona dove ora sorge l'ex Casa del Fascio, la sede della ASL e quella dell'INPS. Tuttavia l'attività avrà breve durata (fino al 1906). Rappresentante della società francese è nominato in data 16 maggio 1904 il Sig. Ivo Walter. La chiusura della Tintoria Castagna comportò lunghe e laboriose trattative con il Comune di Como. Infatti lo stabilimento si approvvigionava dell'acqua necessaria lungo il torrente Vòo nelle proprietà della signora Emilia Bonola, moglie di Ivo Walter, ed il Comune ritenne opportuno poter intervenire per allargare la propria rete distributiva. Alla fine si conveniva che per l'importo di 360.000 lire il 4 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Comune di Como acquistava lo stabilimento ex Castagna, ora Gillet. Sembra strano ma la necessità di approvvigionamento idrico ritorna d'attualità, per il Comune di Como, anche alla chiusura del 1980, ben settantaquattro anni dopo. Con l'acquisizione di tutto lo spazio sud il Comune potè usufruire anche dell'impianto di pescaggio dell'acqua del lago e se ne servì, subito, per integrare dapprima l'impianto di distribuzione dell'acqua potabile e poi definitivamente filtrando l'acqua del lago e dandola...da bere ai cittadini. Joseph Gillet, non disarma, anzi intensifica il proprio interesse e acquista tramite Ivo Walter terreni a Tavernola in Via Polano e altri in città. Il terreno di Tavernola in gran parte rimasto senza edifici, venne in seguito lottizzato e dato in uso gratuito a dipendenti e pensionati che ne ricavarono orti ad uso personale. Dopo la seconda guerra mondiale furono costruiti tre complessi abitativi destinati a dipendenti della Società e di una consociata. Il 10 luglio 1906 la ditta Gillet & Fils acquista la Tintoria Comense (ex Saba Frontini) per l'importo di L. 1.625.000. Precedentemente Ivo Walter aveva segnalato alla Casa Madre di Lione che tecnicamente l'azienda di Piazza Castello era in condizioni molto arretrate e necessitava di una conduzione non solo più moderna ma anche con capacità organizzative migliori. Accompagnato dallo stesso Charles Gillet giunge a Como un tecnico francese, Charles Marnas, che diventerà in seguito uomo chiave per l'attività in Italia del complesso Gillet-Comense. La nuova società riprende l'attività della “Tintoria Comense” denominandosi “Tintoria Gillet & Fils Como”. Ne sono direttori gli stessi responsabili della Gillet- Castagna: Ivo Walter e Charles Marnas. Alla fine del 1909, dopo 30 anni di collaborazione col gruppo, Ivo Walter lasciava la Direzione e vi subentrava Charles Marnas. La potenza espansiva della società lionese continua subito dopo la cessazione della prima guerra mondiale. Infatti il 30 novembre 1918 la Gillet & Fils acquista da Arturo Pessina lo stabilimento di tintoria e apparecchiatura di Tavernola. Era stato costruito nel 1912 ed era specializzato per la tintura e la carica della seta. Il rilancio e la riorganizzazione di questo stabilimento sono affidati al signor Pierron che era discendente della famiglia di Marie Pierron, moglie di Francois Gillet, genitori di Joseph Luois Gillet fondatore della società. Nel 1919 la Gillet & Fils acquista il primo lotto di terreno a sud dello stabilimento di Via S. Abbondio. Dal 1° dicembre 1919 nasce la “Società Anonima Tintoria Comense - già Gillet & Fils” - con sede in Milano in Via Cerva, 35. La nuova Società viene costituita con un capitale di L. 4.000.000. La Gillet & Fils sottoscrive azioni per un valore di L. 3.500.000 mediante gli stabili e l'attività della Gillet & Fils di Via S. Abbondio, dei beni in località S. Giuseppe, dello stabilimento, della villa e del fabbricato rurale di Tavernola ex Tintoria Arturo Pessina; L. 500.000 sono 5 6 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” versate in contanti dal sig. Charles Marnas. Il Consiglio di Amministrazione è così composto: Edmond Gillet, Paolo Gillet, Carlo Gillet, Enrico Balay, Carlo Marnas. Sindaci effettivi Ivo Walter, avv. Renzo Pirovano, Luigi Scatin. Supplenti Leone Cristmann, Francois Balay. Presidente è nominato Edmond Gillet. Charles Marnas azionista per 1/8, già Direttore Generale della Casa Madre a Lione termina in questa occasione la sua attività e lascia il posto a due giovani successori: Umberto Walter e Antonio Albertini. Entra sulla scena Umberto Walter con la procura per gli atti di ordinaria amministrazione. Fino ad allora ricopriva la carica di Capo Reparto stoffe ed apparecchiatura. Ancora ventenne era entrato nella società nel 1908, dopo esperienze nel settore in Francia, Germania e Stati Uniti. La stessa procura è pure conferita ad Antonio Albertini che in precedenza aveva ricoperto la carica di Capo Reparto “fabbricazioni chimiche e recuperazioni”. Nel 1923 la “Tintoria Comense” acquista anche il secondo lotto del terreno a Sud e poi ancora altri terreni adiacenti fino a raggiungere la massima estensione di 87.000 mq. di cui 42.000 sono a Nord e 45.000 posizionati a Sud. 1 – DAL 1924 AL 1946 La brillante situazione economica-finanziaria spinge a molte innovazioni (alcune all'avanguardia) sia nel settore tecnico che in quello delle costruzioni tanto che proprio nella loro erezioni veniva applicato l'uso del cemento armato, per la prima volta, negli opifici industriali. Nel 1927/28, tra l'altro, avveniva la costruzione di un impianto che automatizzava e rendeva più veloce l'alimentazione delle caldaie con un alta resa tecnica. La carbonaia (eretta a Sud al confine con la Via Regina) conteneva fino a 2.000 ton. di carbone che per mezzo delle pale di un mulino veniva polverizzato e attraverso compressori spinto in un tubo di 120 mm di diametro giungeva alle caldaie. Nello stesso periodo è pure realizzato l'impianto per la presa d'acqua a lago che sottolinea la grandiosità e lo spirito innovatore della direzione e della ditta. Il 26 gennaio 1933 XI E.F. a seguito anche della grande crisi economica mondiale del 1929 con pesanti ripercussioni sul settore serico comasco la GilletComense decide la chiusura dello stabilimento di Tavernola accentrando il tutto nello stabilimento di Via S. Abbondio. Nel marzo del 1937 Antonio Albertini si dimette sia da Consigliere che da Direttore della Società. La carica di direttore viene affidata ad Umberto Walter che conserva sia la carica di Consigliere che quella di Amministratore Delegato. Nel giugno del 1937 la società comunica alla Camera di 7 8 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Commercio di Como che alla normale attività produttiva si aggiunge anche la coesionatura delle fibre artificiali e l'esercizio in proprio dei trasporti. Il Consiglio di Amministrazione con delibera in data 30 agosto 1937 affianca all'Amministratore Delegato il Dr. Ing. Augusto Brunner nella carica di Direttore della Società e Luigi Guggiari nella qualità di Direttore dei servizi commerciali con delega all'ordinaria amministrazione e con firma congiunta. Il dr. Brunner era nell'azienda fin dal 1929 come titolare del laboratorio studi e ricerche, mentre Luigi Guggiari si era formato nei quadri commerciali interni. Le leggi razziali furono approvate dal Gran Consiglio del Partito Fascista nella notte tra il 6 e il 7 ottobre 1938 e stabilivano, anzitutto il divieto di matrimoni di italiani e italiane "con elementi appartenenti alle razze camita, semita, e altre razze non ariane" e inoltre il divieto, per i dipendenti pubblici (sottinteso uomini) di sposare straniere "di qualsiasi razza", e l'espulsione di quegli ebrei stranieri che non avessero superato i 65 anni. Per gli ebrei non discriminati il Gran Consiglio prescriveva, inoltre, che non potessero essere iscritti al Partito nazionale Fascista nè possedere o dirigere aziende che impiegavano più di cento persone, ne essere possessori di oltre cinquanta ettari di terreno, nè prestare servizio militare in pace e in guerra. Il 10 novembre 1938 un decreto legge ricalcò, con qualche modifica, le disposizioni del Gran Consiglio che pertanto divennero operanti su tutto il territorio. I venti di guerra che vedevano contrapposti i due Paesi (Francia e Italia) nella gestione della Comense spinsero la proprietà francese ad adottare le necessarie misure e quella italiana ad adeguarsi. Proprio nel giugno del 1940, infatti, il consiglio di Amministrazione risulta così strutturato: - Presidente e consigliere delegato Walter Umberto fu Ivo, italiano, ariano, cattolico; - Consiglieri: Durio Eriberto fu Secondo, italiano, ariano, cattolico e Peter Rodolfo fu Carlo, cittadino svizzero, ariano, evangelico; - Presidente collegio sindacale Ricca Argentino fu Filippo, italiano, ariano, cattolico; - Sindaci: Mambretti Giacomo, italiano, ariano, cattolico e Piatti Pericle, italiano, ariano, cattolico; - Direttore Brunner Augusto fu Giacomo, cittadino svizzero, ariano, evangelico; - Direttore Guggiari Luigi fu Angelo, italiano, ariano, cattolico. La seconda guerra mondiale reca non pochi disagi e ristrettezze per la caduta delle commesse, non compensate da quelle di guerra, per la mancanza di prodotti chimici, per le carenze di combustibile. Il periodo della Repubblica di Salò, con l’occupazione nazista, unitamente alla preparazione dei tessuti in seta per paracadute, portò purtroppo anche delle conseguenze estreme finite in tragedie. Il movimento sindacale ha sempre avuto all'interno della Comense un peso determinante ed in questo storico periodo si sviluppò un forte movimento di resistenza che con gli scioperi in alta Italia del 1944 manifestò il proprio dissenso alla dittatura nazifascista. 9 10 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Il Governo Militare Alleato il 19 luglio 1945 in difesa della proprietà dei cittadini alleati nomina il Dr. Luigi Masciadri “Amministratore temporaneo”. Nello stesso anno, nel segno del ritorno alla normalità, sono nominati Amministratori Delegati i direttori : Augusto Brunner e Luigi Guggiari. Il periodo peggiore che la Tintoria Comense S.p.A. ha attraversato, prima del tracollo, finale, è stato quello riferito ai due anni centrali del conflitto 1940/45. Come si evince dalla relazione al Consiglio d'Amministrazione il 1943 ha registrato 254 giornate lavorative di cui 230 piene e 24 a mezza giornata. Le sospensioni sono state quelle dal 1 al 24 gennaio per mancanza di combustibile e dal 19 al 28 febbraio per mancanza di energia elettrica. Inoltre tutti i sabati e parzialmente i lunedì non sono stati lavorativi per mancanze di combustibile. La produzione per il 1943 è stata di mt. 17.113.353 con una media giornaliera di mt. 67.275. Il 1944 ha visto diminuire ancora le giornate lavorative che sono state solo 204 di cui 198 intere e 6 mezze. Per mancanza di combustibile lo stabilimento è stato fermo per 99 giorni e la produzione è scesa a mt. 12.534.110 con una media giornaliera di 61.441. Dopo la fine della guerra e col cambiamento politico e sociale iniziarono anche i processi, in conseguenza dei gravi fatti avvenuti durante il periodo bellico, quale collaborazionismo, denuncie, delazioni, e tutto quanto per anni il popolo aveva subìto e pagato a duro prezzo a volte anche con la vita. I fatti avvenuti in Tintoria Comense S.p.A. il mattino del 6 marzo 1944 quando gli operai del reparto stampa a quadro si posero in sciopero e che conseguentemente portarono poi alla deportazione in Germania di sei di essi di cui tre morirono in quei campi di sterminio ed un quarto rientrò al termine del conflitto in gravissime condizioni per un male ivi contratto che presto lo portò alla morte. Altre due rientrarono fortunatamente a fine conflitto. Il 22 ottobre 1945 la Corte straordinaria di Assise di Como ritenne responsabile di quanto accaduto il direttore del reparto Giovanni Badiani, il capo reparto Alfredo Capriotti e Maria Roncoroni perché aveva denunciato due delle arrestate quali promotrici dello sciopero. Le condanne furono: Alfredo Capriotti anni dodici di reclusione; Giovanni Badiani anni otto e quattro mesi di reclusione; Maria Roncoroni anni otto e quattro mesi di reclusione. La Corte Suprema di Cassazione, Seconda sezione Penale, in nome di S.A.R. Umberto di Savoia, Principe di Piemonte e Luogotenente Generale del Regno in udienza pubblica del 20 febbraio 1946 in accoglimento dei ricorsi presentati dai condannati annullò la sentenza pronunciata dalla Corte straordinaria d'Assise di Como per mancanza e contraddittorietà di motivazione sul dolo nei confronti di tutti e tre gli imputati. Rinviando i tre imputati al giudizio della Sezione Speciale della Corte di Assise di Milano. Il 1946 fu un anno importante per l'Italia: il 9 maggio l'abdicazione di Vittorio Emanuele III a favore del figlio Umberto II, il 2 giugno il referendum istituzionale con la 11 12 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” nascita della Repubblica, il 13 giugno Umberto II lascia l'Italia per l'esilio, il 28 giugno Enrico De Nicola è eletto Presidente provvisorio della Repubblica, il 16 luglio nasce il secondo Governo De Gasperi (Dc, Psiup, Pci, Pri), il 21 luglio inizia a Parigi la Conferenza per la pace e il 5 settembre si firma l'accordo per l'Alto Adige fra De Gasperi e Gruber. In quell'anno il Governo era preoccupato per l'ordine pubblico che considerava, non a torto, la vera misura della sua efficienza. I due ministeri di competenza erano affidati a due uomini, entrambi di sinistra, entrambi repubblicani dichiarati: Palmiro Togliatti, comunista, ministro di Grazia e Giustizia, e Giuseppe Romita, socialista, ministro dell'interno. Nell'Italia disastrata del primo dopoguerra, con la mattanza di fascisti al Nord, con il fenomeno di banditismo non solo al Sud ma un po' ovunque, Togliatti aveva riconosciuto la necessità di una amnistia che cancellasse almeno in parte i troppi conti politici e giudiziari in sospeso. Un provvedimento atto a riappacificare le parti e a gettare le basi per una civile convivenza. Tuttavia l'amnistia, pur approvata a fine maggio, volle che fosse promulgata dopo il "referendum" perchè il Re non se ne potesse attribuire il merito. Per effetto dell'amnistia tutto decadde e anche i tre presunti imputati dei fatti del marzo '44 in Comense ne furono beneficiati. 2 - 76150 : la INES Con questo numero marchiato sul braccio sinistro, Ines Figini, ex operaia della Tintoria Comense, dopo mezzo secolo, racconta la sua triste esperienza vissuta come deportata nel famigerato campo di sterminio di Auschwitz! Lo scopo di questa testimonianza è quello di indicare a tutti il valore più alto che ogni uomo desidera avere: la libertà. In quella primavera del 1944 le industrie del Nord si fermarono, per la prima volta sotto il dominio fascista, per uno sciopero. La storia di Ines Figini comincia proprio da quel momento. 6 Marzo 1944 una data indimenticabile scolpita a fuoco nei miei ricordi. 6 “Marzo 2002, cinquantotto anni sono così trascorsi e ripensandoci mi sembra impossibile che tanti anni, mesi e giorni siano passati così velocemente. Il ricordo di quel 6 Marzo, tuttavia, è sempre vivo in me. Ricordo ogni cosa e tutto quanto avvenne Era un giorno apparentemente come un'altro: la guerra era quasi alla fine e tutti noi si viveva in un clima di attesa e niente lasciava presagire quello che accadde lungo l'arco di quella giornata. Come tutti i giorni entrai in fabbrica, la Tintoria Comense, appena giunta in reparto capii subito che c'era qualche cosa di insolito. Di fatto erano in circolazione dei manifestini che incitavano ad uno sciopero. C'era fermento in tutte le fabbriche perché non era più possibile lavorare nelle condizioni che il fascismo ed i 13 14 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” tedeschi ci costringevano a sopportare. Il cibo e la merce era tutta tesserata e non bastava per vivere e il mercato nero fioriva ma solo per chi aveva la possibilità di approfittarne. Ad un segnale tutta la Tintoria Comense si fermò. Qualcuno avvisò la polizia e ben presto arrivarono i fascisti, frugarono negli spogliatoi e nei reparti. A mezzogiorno tutti in massa ci avviammo ai cancelli d'uscita. Il reparto stampa era al completo ma quando giungemmo nel cortile i cancelli erano chiusi. Ad aspettarci c'era il Questore Pozzoli e i suoi uomini armati e naturalmente anche la Direzione dello stabilimento. Nel silenzio, improvvisamente, chiara e distinta si alzò la voce del Questore che leggeva da una lista alcuni nomi: - Fontana Rinaldo - Malacrida Giuseppe - Meroni Angelo - Molteni Angelo - Scovacricchi Pietro - Borgomainero Ada - Tagliabue Celestina - Rezzonico Irene Urlò, inoltre, che gli scioperi dovevano essere stroncati e disse che per le persone citate sarebbero stati presi dei provvedimenti e quindi diede l'ordine di aprire i cancelli: tutta la maestranza taceva. I cancelli non erano ancora aperti che non so come mi trovai sola davanti al Questore e gli dissi chiaramente che non era giusto l'arresto degli otto compagni di lavoro perché con loro tutti noi avevamo scioperato e che tutti eravamo solidali con loro. A questo punto il Questore Pozzoli fece nuovamente chiudere i cancelli, venne vicino a me e mi chiese di spiegare i motivi dell'astensione dal lavoro e di dire i nomi di chi aveva organizzato ogni cosa. Alla prima domanda risposi, alla seconda no. Difesi i miei compagni a spada tratta con tutta la forza della mia volontà e con tutta l'incoscienza della mia giovane età. Pozzoli per un momento tacque poi, nuovamente, mi si avvicinò e mi appoggiò una mano sulla spalla e calmo mi disse : - Ascolta. Se tu mi garantisci che oggi riprenderete il lavoro, io libero subito i tuoi compagni. Per un momento lo guardai fisso negli occhi ma, decisa, acconsentii. Non sapevo niente ma promisi. I cancelli si riaprirono e noi, contenti perché tutto sembrava risolto per il meglio, li varcammo: io ero la più felice di tutti”. 15 16 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it IL VIAGGIO Poi cosa avvenne? Come fu che la situazione precipitò? “Qualcuno, non della Direzione, andò subito dal Prefetto Scasellati riferendo che la decisione del Questore non era giusta poiché essendo la Tintoria Comense la più grossa e rinomata della zona doveva costituire un esempio per le altre fabbriche e che quindi occorreva colpire drasticamente chi si opponeva al regime e ai tedeschi. Così nella notte scattò l'ordine di arrestare tutti coloro che erano stati lasciati liberi dal Questore e di trasferirli in Germania. Nel numero fui inclusa anch'io. Nella notte due poliziotti irruppero col mitra spianato © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” nella mia camera da letto. Li seguii dopo aver controllato l'ordine firmato dal Prefetto che disponeva di arrestarmi e di inviarmi in un campo di lavoro in Germania. Salii sul furgone della polizia dove c'erano altri miei compagni e quindi, per ultimo, passammo a prendere Ada Borgomainero. Ci portarono in Questura dove fummo interrogati da Saletta e poi rinchiusi in guardina. Una nostra collega, Irene Rezzonico, fu subito rilasciata. Rimanemmo in tre donne che fummo subito rinchiuse in una cella di fronte alle seterie Boselli. Riuscii ad arrampicarmi sulla finestra e a buttare un biglietto, scritto frettolosamente, con un numero telefonico di una mia vicina di casa e con alcune spiegazioni per la mia famiglia. Mio padre andò subito dall'avvocato Benini che si recò immediatamente dal Questore Pozzoli il quale non poté più fare nulla in quanto l'ordine d'arresto era partito dal Prefetto che era la maggiore autorità. Il giorno dopo ci trasferirono tutti nella palestra Mariani dove già si trovavano altri prigionieri ed ebrei. Nell'ora dell'aria riuscii a vedere mia sorella ma poi, un mattino presto, ci fecero partire per Bergamo dove ci rinchiusero nella caserma del 78 fanteria. Qui si aggiunsero altre cinque donne di Lecco arrestate per lo stesso motivo. Dormivamo sulla paglia e non sapevamo nulla riguardo la nostra situazione. Il giorno seguente Celestina Tagliabue aveva le gambe ed i piedi gonfi e chiamammo il medico che era un italiano. Dopo la visita disse che avrebbe fatto il possibile per rimandarla a casa. Anche Ada Borgomainero aveva un ginocchio gonfio ma il medico disse chiaramente che non poteva aiutare tutti e che comunque avrebbe perorato la causa facendo rapporto al medico tedesco. Questi venne più tardi per un controllo, firmò per la Celestina ma non per Ada. La Tagliabue tornò quindi a casa e proseguì la lotta mentre noi fummo portati alla stazione unitamente ad altri prigionieri. Si formò, così, una lunga tradotta. Eravamo poche ragazze, sette in tutto: cinque di Lecco e noi due di Como e per questo, forse, ci concessero di viaggiare sulla carrozza Comando. In tutte le stazioni, dove il treno si fermava, ho trovato gente che ci offriva pane, biscotti, caramelle. Più di una volta ricordo di essere scesa, scortata da un militare tedesco,per abbracciare questa gente sconosciuta che ci offriva cibo e poi di essere andata a cercare, lungo il convoglio, il carro dove erano rinchiusi gli altri compagni della Tintoria Comense per dare a loro quello che riuscivo raccogliere. Erano pigiati nei carri come bestie e sono stata l'ultima persona che ho parlato con loro cercando di incoraggiarli. Non avvertivo nessuna paura e solo adesso riconosco di aver avuto una grande incoscienza. Nelle occasioni durante le quali ho potuto andare lungo i marciapiedi per cercarli udivo le loro voci che mi chiamavano in modo di individuarli quasi subito. Il Comandante che viaggiava con noi era abbastanza permissivo e inoltre parlava bene l'italiano, conosceva dei miei amici di Como e si dimostrò gentile accettando una lettera da consegnare ai miei genitori procurandomi anche la matita e la carta. La lettera fu regolarmente consegnata e la conservo tuttora. Questi militari tedeschi ci accompagnarono fino al 17 18 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” confine e qui ci consegnarono alle SS". “Da quel momento non potei più scendere ne parlare con i miei compagni di fabbrica. Il nostro viaggio proseguì fino a Mauthausen. Qui ci rinchiusero ancora in una cella per aspettare un'altro treno che ci doveva condurre ad Auschwitz. Infatti dopo qualche giorno arrivò il convoglio e dopo un lungo viaggio arrivammo verso sera in questo famigerato lager. Nevicchiava, il campo era illuminato e la neve che cadeva rendeva ancor più spettrale il posto. Fummo scaricate al pari delle bestie, passammo in un blok dove ci marchiarono il braccio sinistro tatuandoci un numero che da quel momento era la nostra identità. A me fu impresso il numero 76150. Capii che non avevamo più il nostro nome e per la prima volta mi resi completamente conto a che cosa andavo incontro. Ci fecero spogliare e ci diedero la divisa: un rustico vestito di cotone a righe grigio e blu e un foulard per la testa. Il freddo, la fame e l'ignorare quello che ci attendeva ci facevano tremare e come pecore ci stringevamo una all'altra. Ci portarono in un'altro blok dove già c'erano un centinaio di donne che dormivano in grandi cuccette con sacconi di paglia: ci diedero delle coperte e ci abbandonarono alla nostra sorte. Eravamo smarrite e ci guardavamo una con l'altra senza parlare. Cercammo un posto per coricarci: lo trovammo e tutte assieme tentammo di addormentarci. Era ancora buio quando il gong suonò in tutto il campo facendoci sobbalzare. La Kapò passava fra le corsie con un frustino in mano e se qualcuna indugiava per lei c'era la frusta a sibilare. Ci diedero un tipo di scodella tonda in metallo e un cucchiaio raccomandandoci di non perderle e di non farsele rubare perché non ce ne sarebbero state delle altre. Arrivarono, quindi, dei bidoni colmi di un intruglio nero: una specie di acqua sporca intesa come caffè o tè. Era comunque calda e la bevvi avidamente. Come scimmie cercavamo di copiare ogni cosa tra l'indifferenza delle altre prigioniere: impossibile parlare. In quel blok non c'erano altre italiane e per noi era pure impossibile esprimersi in russo, polacco o tedesco e inoltre era proibito parlare. Cominciarono a presentarsi le prime necessità: dove era il gabinetto, l'acqua per lavarsi e così via. Non possedevamo nulla, ne carta igienica e qualche piccola salvietta. Seguimmo le altre e trovammo i gabinetti: una cosa orribile. In un lungo stanzone un rialzo in legno, per tutta la lunghezza del camerone, sul quale c'erano dei buchi da tutte due i lati alla distanza di circa cinquanta centimetri e appollaiati su questi buchi una quarantina di donne: il fetore era insopportabile. L'orlo di questi buchi era tutto ricoperto di escrementi: mi si bloccò lo stomaco, poi uscii. Dopo qualche giorno diventai anch'io indifferente e dovetti abituarmi. Ho assistito anche a scene incredibili. La guardiana dei gabinetti, chiamiamola così, più di una volta quando le ebree sporcavano l'orlo del buco ed era facilissimo in quanto la dissenteria faceva strage, prendeva queste poverette e con forza appoggiava il loro viso su tutta la 19 20 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it “LI VIDI PER L’ULTIMA VOLTA” - Come continuò quindi il viaggio? © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” porcheria facendola pulire con la lingua. Le poverette si dibattevano imbrattandosi tutta la faccia e le mani. Più di una volta pensai che io fossi già morta e che quello era l'inferno”. -Dopo questi tristissimi episodi come si svolgeva la vita al Campo ? “Imparammo presto la routine. Al mattino sveglia presto, brodaglia, gabinetto e subito a lavarsi. I posti per le pulizie erano letteralmente assaliti: erano delle lunghe vasche in zinco con sopra dei rubinetti. L'acqua non c'era o era così poca che se non eravamo più che svelte non riuscivamo neppure a lavarci i denti. Per asciugarmi adoperavo l'orlo del vestito. Il freddo era terribile e dovevamo essere pronte al fischio della sirena per l'appello. Così il più delle volte non ci si poteva neppure lavare gli occhi e quindi presi l'abitudine di lavarmi la faccia con quanto ci davano da bere il mattino: metà l'ingoiavo e quello che rimaneva mi serviva per lavarmi: era almeno qualcosa di caldo. La ciotola la portavamo sempre con noi legata alla vita e il cucchiaio infilato nelle asole del vestito: non avevamo altro. Gli abiti non li cambiavamo mai, la scabbia era sovrana e vedevo molte prigioniere con le braccia, le mani e le gambe messe talmente male che io ritenevo fossero lebbrose. Quando giungevano all'ultimo stadio, ogni tanto c'erano le selezioni, queste poverette anche se “ariane” finivano nelle camere a gas. Ogni giorno venivo a conoscenza di crudeltà inimmaginabili. Io pregavo, pregavo e con me le mie compagne. Lavoravamo duramente. La zona era paludosa e con pale e picconi dovevamo scavare dei canali. Eravamo continuamente vigilate dai soldati e da feroci cani. La terra era argillosa e si attaccava agli zoccoli e quando poi pioveva era una situazione ancora più difficile in quanto non avevamo nulla per il ricambio. Avevamo quell'unico vestito e la notte, mi ricordo, lo appoggiavo sul saccone di paglia dormendoci sopra perché al mattino fosse almeno caldo da poterlo infilare. Non mi dilungo oltre nella descrizione poiché ritengo che tutti ormai attraverso film, documentari e rievocazioni conoscano questi orrori e per quanto si possa capire solo chi ha vissuto questa incredibile esperienza dei campi di sterminio penetra fino in fondo a tali esempi di degenerazione. La mia compagna di Como era all'ospedale ed io rimasi sola con le ragazze di Lecco alle quali si aggiunsero altre ragazze lombarde”. - La situazione intanto precipitava. Gli Alleati avevano scatenata l'offensiva finale. E voi ? “I Russi si avvicinavano e cominciavamo a sentire i colpi dei cannoni e sovente qualche aereo sorvolava la zona. I tedeschi cominciavano a cedere e noi ci accorgevamo delle loro perdite perché i forni crematori lavoravano giorno e notte e anche perché diventavano sempre più cattivi. Interi convogli passavano subito alle camere a gas. Centinaia di migliaia di persone non furono nemmeno annotate e archiviate: sparite per sempre. 21 22 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Non ricordo esattamente la data ma qualche tempo prima di Natale tutti coloro ancora in grado di lavorare furono in fretta fatti sgomberare da Auschwitz. Rimasero solo i malati, chi non si reggevano in piedi e gli ultimi ebrei. Anche la Borgomainero rimase al campo. I russi liberarono il campo il 29 gennaio '45 e salvarono tutti quelli rimasti destinati a morire nelle camere a gas. I tedeschi fecero saltare anche i forni crematori ma non fecero in tempo a far scomparire tutte le prove. Così oggi Auschwitz è un museo che testimonia una vicenda troppo amara, di crudeltà, di sofferenza e di morte. Il campo femminile è rimasto come allora, così come i Russi lo hanno trovato: qualche blok ancora in piedi, forni crematori e camere a gas fatti saltare in aria ma non completamente distrutti. Tutti i reperti ritrovati sono catalogati, in fondo un grande monumento ricorda a tutti i popoli del mondo il genocidio di sei milioni di morti”. “A Ravensbruk e non seppi più nulla delle mie compagne. Questa volta lavoravo in una fabbrica bellica la Siemens. La settimana era dura: dodici ore di notte alternate a dodici ore di giorno. Arrotolavo bobine di filo di ferro e per tutte le dodici ore ero ferma in piedi vicino ad una macchina continuamente vigilata dai militari. Sovente c'erano i bombardamenti aerei e ogni giorno la situazione diventava insostenibile. Verso marzo fui di nuovo trasportata in un'altro lager: i Russi erano vicinissimi. In questo nuovo lager non si lavorava più: chiuse nelle baracche e per magiare solo un pane ogni cinque persone. Non ci reggevamo più in piedi e anch'io come le altre mi sentivo sfinita. Avevo, però, sempre il morale alto e il mio motto era : “Qualunque cosa accada sono certa di tornare a casa”. Un giorno, improvvisamente, ci distribuirono dei viveri, qualche coperta, aprirono i cancelli e in fila, sempre con i militari al fianco, ci incamminammo chissà per dove. Si andava verso nord e lungo la strada vidi e capii cosa significava la disfatta di un esercito: carri armati, cannoni, camion abbandonati lungo i bordi della strada, soldati sbandati con le divise stracciate e sbottonate che si trascinavano a testa china. Mi sembrava impossibile riconoscere in loro quei soldati così orgogliosi e baldanzosi di qualche mese prima. Noi marciavamo quasi per tutto il giorno e la notte si dormiva nei boschi: eravamo sfinite. Per chi abbandonava la fila e stanca si sedeva sul ciglio della strada, l'ultimo soldato della colonna con un colpo di pistola poneva fine ad ogni cosa. Io camminavo come in trance senza rendermi conto di dove mi trovavo: avevo un solo pensiero, quello di non fermarmi. Verso sera arrivammo alla periferia di un piccolo paese e ci accampammo in un fienile. Dopo qualche ora i soldati tedeschi ci abbandonarono e capimmo che i Russi erano più vicini di quanto potevamo immaginare. Eravamo cinque o sei italiane e le altre tutte prigioniere russe. Con le mie compagne quando mi accorsi che non c'erano più soldati e guardie uscimmo e ci incamminammo verso il paese. Improvvisamente sentii 23 24 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 5 MAGGIO 1945 - Tu eri fra quelli fatti sgomberare. Dove ti portarono ? © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” parlare italiano, mi volsi e vidi dei soldati italiani. Ci abbracciammo ed essi piansero nel vederci così ridotte: denutrite, sfinite e sporche. Avevano già organizzato la raccolta di viveri che divisero con noi. Ci diedero anche una bottiglia contenente una specie di grappa. Ritornammo al fienile felici e le mie compagne, sebbene fossi la più giovane, affidarono a me tutto questo ben di Dio per razionarlo. Quella sera ci coricammo tutte euforiche. Sentivamo sempre più vicino i cannoni e ci addormentammo felici, sature anche di tante emozioni. Verso le cinque mi svegliai improvvisamente ed istintivamente guardai verso il portone. Nelle prime luci dell'alba, quasi controluce, distinsi una figura. Guardai meglio: era un soldato russo con il classico colbacco e con un giaccone trapuntato. Non svegliai le mie amiche e credo che i venti metri che mi separavano dal portone non li vidi nemmeno. Corsi con tutte le mie forze verso quella figura di soldato che si stagliava netta nella foschia mattutina. Gli saltai letteralmente addosso tanto il mio abbraccio era impetuoso e come una pazza incominciai a gridare: ”Sono arrivati! Sono arrivati i liberatori!” Il giovane soldato russo, avrà avuto non più di vent'anni, rideva dimostrando tuttavia una certa commozione per l'inaspettata accoglienza. Nel frattempo anche tutte le altre si erano svegliate alle mie urla di gioia. Lui capì che ero italiana e si fermò con noi; bevve con noi e mi chiese di cantargli “Mamma”. Mamma son tanto felice perché ritorno da te. La mia canzone ti dice che è il più bel giorno per me. Mamma son tanto felice viver lontano, perché ? Mamma, solo per te la mia canzone vola, Mamma, sarai con me, tu non sarai più sola. quanto ti voglio bene Noi cantavamo e piangevamo e lui con noi. Seduto, ci guardava con il viso pieno di lacrime. Ci disse che la guerra era finita, e che Mussolini era kaput. Capimmo solamente che la guerra era finita. Andò dai suoi connazionali e tutti assieme andammo al Comando russo. Ci dissero di stare calme e che presto saremmo state tutte rimpatriate. Passarono una decina di giorni poi il Comando russo ci radunò annunciandoci che bisognava raggiungere la zona di Breslao dove c'erano campi di militari italiani e dove sarebbe stata organizzata ogni cosa per il rimpatrio. Breslao era distante circa 80 chilometri da noi. Come fare per raggiungerla? Mi misi all'opera: trovai due cavalli e un carro che portai al campo base. Non so come feci ma organizzai ogni cosa: eravamo solo cinque donne e nessuna di noi sapeva guidare un carro con due cavalli e sorsero, di conseguenza, tanti problemi: come nutrirli, qual'era la strada da percorrere, come guidarli. Non mi scoraggiai. Girai tutto il campo in cerca di qualcuno che potesse aiutarci a risolvere la nostra nuova situazione. Trovai due militari che mi diedero fiducia; andammo al 25 26 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Comando per le direttive, per avere le scorte e dopo aver recuperato il foraggio per i cavalli partimmo come zingari. Ero felice! Assaporavo di nuovo il sapore della libertà. Era il 5 maggio 1945”. “Il viaggio andò benissimo. Ci fermavamo a bivaccare nei boschi e dormivamo nelle case abbandonate. Dopo circa una settimana arrivammo a Breslao e ci presentammo al Comando italiano. Qui erano predisposti dei capannoni e dei fienili. Noi ragazze trovammo una specie di roulotte e ne prendemmo possesso. Ci diedero delle balle di paglia e facemmo un letto unico. Coprimmo il tutto con un grande tappeto ed eravamo contente: ci sembrava di aver ritrovato una casa che fosse tutta nostra. Alla sera ci riunivamo tutti assieme. Si mangiava, si cantava, si ballava. Dopo qualche settimana scoppiò un'epidemia di tifo ed io, sfinita, lo presi in pieno. Fui ricoverata in un ospedale russo e fui presa da una disperazione enorme. Avevo paura che tutti partissero per l'Italia e che io, invece, restassi lì. All'ospedale fui curata da un maggiore medico russo. Entrai ai primi di luglio e per qualche mese rimasi incosciente. Quindi poi, poco a poco, mi ripresi e mi sembrava di essere tornata dall'aldilà. La febbre si alternava dal minimo al massimo ed io vivevo come sospesa per aria. Certe volte mi sembrava di essere già morta e di vagare in un mare di nubi e quando riprendevo conoscenza la realtà era tristemente terribile. Ero lì a letto, non mi potevo muovere perché la gamba sinistra era stata colpita da una flebite. Le mie vicine di letto morivano ed anch'io avevo paura di fare la stessa fine. Dopo essere sopravvissuta a tutto l'inferno precedente, ora che la meta era vicina, mio Dio, morire aveva il sapore atroce di una beffa. Pregavo il Signore che se avesse deciso di farmi morire lo facesse dopo avermi concesso la gioia di riabbracciare i miei cari. Avvenne poi, quasi, un miracolo. I miei amici del campo mi recapitarono una lettera nella quale mi si diceva che fra una settimana sarebbe stato pronto il trasporto verso l'Italia. Quella notte non dormii: avevo ancora la febbre alta e al mattino, quando passò il medico, gli accennai di questa possibilità del ritorno sostenendo che anch'io volevo tornare. Mi disse, naturalmente, che era impossibile, date le mie condizioni, poiché avevo ancora la febbre alta e la gamba con la flebite mi poteva creare qualche ulteriore problema. Inoltre, avendo una malattia infettiva, dovevo fare la quarantena. Piangevo disperatamente. Il pensiero di rimanere sola, giovane, indifesa, senza sapere cosa ancora mi attendeva mi faceva impazzire. Il mio pianto e il mio dolore non avevano limiti. Il medico, tuttavia, cercava di spiegarmi che tutto quanto mi proponeva era per il mio bene. Non volevo sentire ragioni. Avevo un solo pensiero: quello di tornare a casa mia. Alla fine, messosi pietà, mi disse : “Senti, se stai almeno una settimana senza febbre, ti porterò io stesso 27 28 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it - Riprendeva la vita finalmente. In seguito, poi, cosa avvenne ? © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” alla stazione”. Quella notte mi addormentai serena. Al risveglio non avevo febbre ma aspettavo ansiosamente la sera. E quella volta anche alla sera la febbre non c'era. Non osavo sperare. Ne il giorno dopo, ne l'indomani la febbre non c'era. Cercai, allora, di alzarmi dal letto. Era quella la prima volta, dopo molti mesi, che mettevo i piedi fuori. Attaccata alle sbarre del letto cercavo di muovermi: le gambe non rispondevano alla mia volontà, feci pochi passi e poi, sfinita, ritornai a sdraiarmi. Mattina e sera ci riprovavo. Sapevo che avrei dovuto affrontare un lungo viaggio e non certamente in prima classe. Il medico passava ogni giorno e mi incoraggiava”. IL RITORNO -Lentamente, comunque, miglioravi e la data della partenza si avvicinava sempre più: vero ? “Quel giorno finalmente arrivò. Quel mattino non capivo più niente. Il medico mantenne la promessa e mi accompagnò alla stazione su un carro tirato da due buoi. Seduta accanto a lui mi sembrava di essere su una Roll Royce. Ritrovai i miei compagni. Ci diedero dei viveri e ci caricarono sulla carrozza: eravamo circa una cinquantina. Mi misi sul fondo accucciata: non potevo neppure parlare tanta era la mia gioia, la mia felicità e tanto il cuore mi cantava. Il viaggio fu veramente lungo e faticoso ma io non avvertivo niente. Mi nutrivo solo di pane e di acqua. Avevo un'immensa paura di mangiare. Arrivammo in Austria e qui, finalmente, ricevemmo zuppe calde. C'erano l'Opera Pontificia e gli Americani che assistevano tutti i prigionieri che rientravano. Cominciavo a sentire l'odore di casa mia e tutto mi dava una forza incredibile. Non avvertivo la stanchezza, non sentivo né fame né sete. Quando passai il confine mi sembrava di essere nella mia casa di Como. La tradotta si fermò a Bolzano. Gli ex prigionieri scesero tutti: si abbracciavano, urlavano, ridevano, era tutta un'esplosione di gioia. Mi tirarono giù dal vagone e dovetti appoggiarmi subito al carro: non potevo stare ritta. Con le mani sul viso piangevo disperatamente e il singhiozzo mi saliva dal profondo del cuore. Gli altoparlanti diffondevano canti come “Mamma”, la “Canzone del Piave” e queste note tutte italiane aumentarono al massimo la mia emozione, la mia felicità, la mia immensa gioia di essere ritornata”. -Non ci sono parole, credo, per descrivere una situazione come questa. Come continuò, poi, il viaggio ? “Vennero dei militi con delle crocerossine e mi portarono su un treno-ospedale. Mi visitarono e non volevano che io proseguissi il viaggio per Como. A nulla valsero i loro consigli. Essi non potevano capire la mia fretta, il mio desiderio di essere finalmente tra i miei cari. Niente e nessuno mi avrebbe fermato. Allora mi aggregarono ad una auto-colonna americana o inglese (non ricordo bene) che unitamente ad altri ex prigionieri ci condussero fino a Pescantina. Qui c'era l'assistenza dell'Opera Pontificia e mi lasciarono a loro. 29 30 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Fui rifocillata e dopo tanto tempo mangiai del pane bianco. Lo gustavo ghiottamente e mi sembrava di sentire il sapore della mia terra. Passai la notte avvolta in una coperta sotto una tenda e il mattino dopo sempre in auto-colonna proseguii per Milano dove giunsi verso sera. Assieme ad altri quattro o cinque militari raggiunsi Como in treno. Non so chi mi diede la forza di arrivare fino a casa mia. Abitavo allora in Via Tommaso Grossi e ricordo, però, il tempo impiegato. Zoppicavo e fino al semaforo di via Dante mi sorressero due militari che mi sembra abitassero a Lora. Poi proseguii da sola fermandomi quasi ad ogni passo: ero a circa duecentocinquanta metri dai miei cari. Nessuno di loro sapeva del mio arrivo anche se ogni giorno speravano nella certezza del mio rientro. Questa era la mia strada; la strada che portava diritto alla mia casa. Ad un tratto sentii un rumore. Mi fermai e mi girai. Qualcuno parlava solo e diceva il mio nome, era buio e non riuscivo a distinguere chi fosse ma udivo la sua voce che mormorava come fra se: “Ma è la Ines o l'è minga le? No, no l'è impussibil! Ma dicono che è morta? Ma si è lei è proprio lei...”. Quel signore mi venne accanto e riconobbi un mio vicino di casa e gli dissi: ”Sono proprio io in carne ed ossa, forse più ossa che carne ma sono io veramente”. Si può immaginare la commozione e l'emozione di quest'uomo. Volle essere lui a portare la notizia alla mia famiglia. Avevo tanto desiderato di essere io a suonare il campanello e farmi trovare sull'uscio dai miei cari ma l'emozione, forse, poteva essere troppa e così accettai quanto lui mi consigliava. Quando arrivai nel mio cortile tutti mi corsero incontro e tutti i vicini erano al balcone: che emozione! 31 32 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Dopo cinquantasette anni neppure oggi riesco trovare le parole per descrivere tutto questo. Ci sono delle gioie e dei dolori che appartengono solo a noi stessi e che non si possono trasmettere agli altri. Tutto era finito. Ero a casa mia ed ero ancora me stessa”. Questo è il drammatico racconto dell'amara esperienza di Ines Figini. Per tutti noi, per tutti gli uomini di buona volontà nel mondo rimanga il monito di queste ore triste e cupe, il ricordo di sofferenze e morti, di atrocità e ferocia. Per ognuno di noi l'impegno vivo e presente per operare per la pace e la serenità tre i popoli. E la Ines aggiunge : “Per i miei compagni morti: FONTANA RINALDO O4-4-1944 MALACRIDA GIUSEPPE 14-1-1946 MERONI ANGELO 14-2.1945 SCOVACRICCHI PIETRO 27-6-1944 il mio saluto, il mio ricordo, la mia preghiera: che essi riposino in pace”. Lento e solenne, grave nella sua estensione, sembra di sentire salire al cielo, suonate da un'argentea tromba, le note del silenzio fuori ordinanza. Le due sopravvissute di Auschwitz rientrarono in Tintoria Comense e furono addette a lavori impiegatizi fino al raggiungimento dell'età pensionabile. Ada © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Borgomaienero è deceduta nel 2000 mentre Ines Figini, oggi ultraottantenne, è stata nominata Commendatore della Repubblica dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi. Un giusto riconoscimento alle sue sofferenze, alle sue pene, ai suoi momenti tristi ed indimenticabili. Ines ha poi avuto la fortuna di viaggiare parecchio, di aver visto un po' tutto. Ciò nonostante, quasi ogni anno, si reca in Polonia, in quel campo, ricerca il suo blok e lì si inginocchia, prega, ricorda, rivive e si ricarica lontana dai rumori, quasi fuori dal mondo, con la pace e la tranquillità e l'insegnamento che da quelle zolle, da quella terra santificata da milioni di morti, esce e si diffonde in ogni dove per testimoniare ovunque ciò che è accaduto, e che ognuno si augura mai più accada nel mondo. Perché ognuno possa essere sovrano della propria Libertà. La bufera è cessata: ritorna il sereno. 3 - LA “CUMENSA” COMASCHI NELL'ORGOGLIO DEI Le pagine che seguono non sono di fantasia, sono pagine che narrano vicende vere - incredibilmente vere - a volte umoristiche, altre tremendamente serie, velate forse da un pizzico di nostalgia. Perché? Semplicemente in quanto ne sono stato testimone, avendo speso una vita (più di 33 anni) all'interno dello stabilimento di via S. Abbondio. I personaggi non sono inventati ma appartengono per sempre alla vita della Tintoria Comense e come tali testimoniano i fatti più rilevanti degli ultimi anni della sua vita. Una vita semplice, fatta di lavoro, di vittorie e di sconfitte con protagonista l'uomo, dal più umile al più dotto, che per 74 anni ha fatto della "Cumensa" (come dialettalmente veniva semplicemente chiamata) motivo di orgoglio, punto di riferimento, elemento di sicurezza economica, il centro del suo modo di essere. Non è una favola: è la verità, nemmeno tanto romanzata, semplicemente narrata. Le prime parole potevano essere:" C'era una volta..." ma sarebbero state indicative di una piacevole invenzione. Inizio invece con una data... 33 34 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” 4 – TANTO TEMPO FA … persone fisicamente presenti e conosciute. 15 febbraio 1947, mattina: era un sabato. Avevo quattordici anni, cinque mesi e nove giorni: era il mio primo giorno di lavoro! Iniziava, stranamente di sabato, il mio rapporto di lavoro con la Tintoria Comense. Era la più grande industria di trasformazione tessile di Como e della provincia e sicuramente, per quei tempi, anche d'Europa. Dall'uso della ragione in avanti ho sempre sentito parlare della “Cumensa” e tutto quanto avveniva al suo interno era cosa familiare per me. Non rappresentavano quindi una novità i personaggi e le persone di quella grande azienda, come pure non mi erano sconosciuti né gli umori né il clima. Mio padre vi lavorava da oltre trent'anni e ogni sfumatura, ogni avvenimento, dal più importante al più banale, dal razionale all'irrazionale, finivano per essere raccontati in casa e quale migliore occasione se non la tavola? La mia curiosità, dapprima infantile e poi giovanile, rimaneva attratta dal susseguirsi degli avvenimenti che mio padre vivacizzava con mimica, tonalità di voce, inflessioni dialettali, tanto che il tutto assumeva la forma di uno spettacolo: lo spettacolo della Tintoria Comense. Per me, quindi, diventava così quasi un luogo comune sentir “parlare” di quella azienda, tanto da considerarla quasi alla pari di un componente della famiglia, un'altra persona a tavola. Nel susseguirsi delle citazioni, che mio padre sapeva rendere in modo esemplare, via via prendevano corpo e fisionomia i protagonisti, tanto che mi sembravano 5- QUEL COMMENDATORE... Il protagonista in assoluto, per quei tempi antecedenti la mia assunzione, era il presidente e consigliere delegato comm. Umberto Walter (che non ho conosciuto) di cui, per l'appunto, mi erano però noti i suoi comportamenti ed i suoi umori. Persona rispettabilissima, precisa, quadrata, in conformità forse del proprio cognome di teutonica memoria, ostentava un cipiglio, un comportamento che incuteva rispetto e timore. Lo supportava una tonalità di voce e una certa inflessione dialettale con sfumature milanesi che contribuivano, non poco, ad accrescerne l'alone di severità che lo circondava. Giocando su queste innate qualità naturali imponeva, dall'alto della sua carica, le sue decisioni, le sue osservazioni, i suoi continui interventi con il personale. Era, quindi, il simbolo dell'azienda, il capitano, il condottiero: era evidentemente “La Cumensa”. Quando, naturalmente, confederazioni generali del lavoro e statuto dei lavoratori erano ancora di là da venire, il lunedì mattina si poneva davanti al cancello d'ingresso di Via S. Abbondio a gambe divaricate ricordandosi d'essere stato ufficiale di cavalleria estraendo dal panciotto l'orologio sostenuto da una consistente catena d'oro per controllare l'ingresso dei dipendenti. Se qualcuno di essi era in ritardo... “Uei se te fà iersera? Te ciapà la gaina? Al lavoro si giunge puntuali... Ti cum'è mai te set in ritard ? Te ghet la mieè giuvina 35 36 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” eh? Se te fusset inscì precis a lavurà cum’è a arrivà in ritard....” Quando il Commendatore entrava negli uffici o in qualche piccolo reparto dove regnavano il disordine e la sporcizia e cosa, abbastanza consueta, pendevano dal soffitto vistose ragnatele, allora sbuffava:”Se ghè? Festa in burg? Mettum fò i sandalin? Dev passà la processiun?”. Proseguiva poi rimuginando da solo dapprima sottovoce e quindi a piena gola, in modo che tutti sentissero:”Bacilli del tifo, della meningite, del colera, della peste bubbonica...” A questo punto, al massimo dello sfogo... il tutto terminava con una grande sbattuta della porta che immancabilmente si scardinava, se di legno, o andava in frantumi se con i riquadri in vetro. Dopo mezz'ora entrava in scena ul Lisandar legnamè, il capo falegname e il tutto veniva sistemato, mentre disordine e ragnatele che continuavano a penzolare, restavano inalterate. Il commendatore Umberto, inoltre, conduceva una personale battaglia contro il fumo. Non tanto per combattere il tabagismo ma piuttosto per punire coloro che trasgredivano i suoi ordini. Gli operai avvezzi a questo vizio, e cioè fumare anche sul posto di lavoro, avevano solo due modi per farlo. Mettere alla bocca velocemente la sigaretta, aspirare furtivamente, nascondendola nell'incavo della mano destra e poi dietro la schiena, proteggerla con la sinistra. Altra soluzione era di riparare, anche senza averne bisogno, al cesso. Per i tintori un aiuto in più era dato dal vapore (in gergo ul baff) che specialmente nelle giornate piovose o umide rendeva difficile l'individuazione di cose e persone anche a pochi metri. I cessi della Tintoria Comense, in quei tempi, erano qualche cosa di particolare, una alternativa tra un box per i cavalli e un gabinetto di decenza: piccoli, stretti e senza porta d'ingresso. L'occlusione era costituita da una "fetta" di porta senza la parte terminale né quella superiore. Era quindi una "chiusura" che permetteva il "controllo a vista". Fendendo ul baff improvvisamente il commendatore piombava nei cessi e iniziando la "visita" incominciava:”Ti te fumet...Ti te fumet”...indicando il reo o i rei con l'indice della mano destra con un'espressione del viso tra il compiaciuto ed il sorpreso, il serio e il faceto. Fatto sta, però, che per chi veniva colto in "flagranza" scattava la multa o la sospensione. In quel periodo i rapporti con il personale erano esclusivamente a conduzione paternalistica ed il direttore era la persona più “qualificata” per questi tipi d'intervento. Il commendatore era convinto che molti, durante il lavoro, approfittassero per tingere o manipolare anche effetti personali, oppure che altri poco onesti si appropriassero di pezzi di stoffa o altro. Era evidente che questa persona incutesse non solo timore ma anche paura mentre da par loro i dipendenti diventavano bersagli preferiti per la caccia. Una mattina il commendatore Umberto irruppe come una belva inferocita nel laboratorio di tintoria dove un operaio stava alzando e abbassando ritmicamente nella provetta - anzi meglio il godet (una specie d'imbuto 37 38 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” tronco per le prove) - un paio di calze di seta della signora Teodolinda responsabile di un'importante ufficio. L’operaio per smacchiare le calze dal grasso di un carrello si era appositamente piazzato vicino alla finestra che dava sulla strada interna della ditta con il proposito di farsi notare nell'operazione. Sulla finestra era posto un grosso specchio che serviva, tra l'altro, per notare chi arrivava lungo la strada dalla parte opposta e quella mattina, appunto, stava arrivando il commendatore: ”Finalment tu catà...l'è tri mes che te curi...Cossa l'è chel lavurà lì...” L’operaio con calma olimpica: “Niente commendatore sono le calze della signora Teodolinda macchiate di grasso”. Improvvisamente la porta si apre e appare la signora Teodolinda che interpellata dal commendatore conferma la versione data dall’operaio. Sogghigno tremendo del commendatore, angolatura della bocca storta e immancabile sbattimento della porta. Così ciascuno ebbe il suo: la signora Teodolinda le calze di seta smacchiate e pulite, l’operaio la soddisfazione della verità, il commendatore l'ormai quotidiana arrabbiatura ed il buon Lisander legnamè la solita porta da riparare. Lasciato alle spalle il Viale F.D. Roosvelt sulla Bianchi anni trenta imbucammo, mio padre ai pedali ed io seduto sulla canna, il tratto terminale di Via S. Abbondio che portava all'ingresso principale. Notai subito un affollamento di persone; chi a piedi, molti in bicicletta, tutti infreddoliti, alcuni con la “mantellina” stile primo novecento. C'erano uomini anziani, giovani, molte donne e qualche ragazzotto. Tutti, comunque, entravano dalla porta d'ingresso loro riservata: molto ampia per gli operai, più stretta per gli impiegati. Scesi dalla canna mentre mio padre salutava qualche collega e lo vidi entrare in un locale molto angusto e confabulare con uno dei portieri che allora erano meglio noti “controlor”, gesticolare parecchio e quindi uscire dicendomi “vieni”. Prese il cartellino dall'apposita cartelliera, timbrò la presenza, scese i due scalini che immettevano nel cortile: lo seguii. Mancavano pochi minuti alle sette, per la prima volta varcai così la soglia della Tintoria Comense. Una luce fioca illuminava pallidamente il cortile che intanto, quasi per magia, si era svuotato di tutte le presenze. Seguendo mio padre m'incamminai sotto il portico. Alla destra, diviso da una grande vetrata sotto la luce intensa di un faro, vidi un uomo grosso e massiccio chino su alcuni fogli verdi e allora chiesi “Chi è?” - “Ah, ul Martinel del magazzin”. Infatti poco più avanti vidi accatastate damigiane, fusti, sacchi e un operaio che trasportava una damigiana su un carrello. “Che fa?” – “Trasporta acido acetico"” fu la risposta. Improvvisamente sentii un rumore strano, quasi uno stridio e allora, indirizzando meglio lo sguardo verso la provenienza del rumore, notai una gigantesca affettatrice che, anziché ottimo insaccato, affettava in minuscole scaglie pani di sapone verde. Mi venne spontanea la domanda “Perché?” – “Altrimenti possono rubare pezzi di sapone”. Proseguendo ancora con la bicicletta a mano mio padre mi introdusse, questa volta, aprendo una porta a ventola, 39 40 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 6 – L’IMPATTO © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” in un locale semibuio umido e freddo dove già erano depositate altre biciclette. “Si lascia qui” mi disse e mi indicò la scala. Due rampe di una decina di scalini ciascuna con gradini in sasso sporchi dove si rifletteva il bagliore di una lampadina di pochissimi watt sulla quale, facendo roteare il capo si poteva leggere: “Rubata in Tintoria Comense”. In alto alla scala, sulla destra, c'era una porticina di servizio che introduceva agli uffici amministrativi. Erano due locali lunghi e relativamente stretti e attorniati, quasi in continuazione, da pesanti armadi di legno con antine a vetro ruvido e dove sbirciando si intravedevano pacchi di carte, scartoffie, raccoglitori, documenti, pezzi di stoffa colorati e no. Le scrivanie, che altro non erano che tavoli comuni, erano anche loro stracolme di carte, campioni e macchine calcolatrici: le famose “Comptometer”. Sotto qualche scrivania/tavolo c'erano delle pedane oblique per appoggiare i piedi. Il pavimento era di legno ingrigito dall'usura e da una patina di terra e polvere ormai divenuta parte integrante del pavimento stesso. Ogni scrivania, inoltre, era dotata di una lampada da tavolo a gomito affrancata ad un lato. Dall'alto cascavano nel modo più disparato fili elettrici quasi a formare un groviglio: come delle liane nella giungla in una zona misteriosa, affascinante e ricca d'imprevisti. Sulla parete di fondo c'era una cassaforte ed il box per il cassiere, a fianco un cabina telefonica imbottita e trapuntata in pelle o similare color verde (per non far sentire all'esterno la telefonata), la quale però aveva principalmente il compito di collegare, passandovi attraverso, un terzo locale. Il cassiere, allora, era il rag. F. Butti che per via della sua statura era chiamato comunemente ul Butina. Attraversata la porta-cabina mi trovai sul posto di lavoro: un tavolo come i precedenti, ma senza fili pendenti, con parecchie scartoffie, la “Comptometer” e di fronte un tavolo da disegno sul quale era accennato lo schema di “un piano amministrativo” e qua e là, soprattutto negli angoli, qualche abbozzo di nudo femminile. Il riscaldamento era assicurato da stufe in terracotta piazzate nei tre ambienti. Fuori era ancora buio e silenzio, i tavoli non erano ancora ravvivati dalla luce delle lampade a gomito, mentre il bagliore delle stufe, già accese, dava un sinistro gioco di luci e ombre quasi ad evocare misteriose congiure... ma erano solamente gli uffici amministrativi della “Cumensa”. Improvvisamente si aprì la porta che dava sulla scala e apparve la Luigia, la donna addetta alle pulizie. Alta non più di un metro e cinquanta, con il volto rugoso, infagottata in abiti smessi e sporchi con ai piedi un paio di scarponi militari da uomo, richiamava più la befana che non l'addetta alle pulizie negli uffici. Alzò il chiavistello dell'altra metà della porta e scomparve. Dopo qualche attimo ricomparve spingendo una carriola da muratore tutta incrostata di calce e cemento, piena di pezzi di legna, torba, tronchi ed altro. Portò il suo carico al centro degli uffici e senza pensarci troppo rovesciò tutto il contenuto e con lo stesso modo con il quale una domestica avrebbe detto: “Il pranzo è servito”, disse: “Anche per oggi questo è fatto”. Uscì con la sua carriola, chiuse la porta e se ne andò. Ora si poteva cominciare a lavorare: non mancava 41 42 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” proprio niente. Fuori, intanto, si rischiarava. Mio padre mi disse: “Stai attento, devi prendere questi cartoncini e dividerli per tipo...vedi, così”. Ed io incominciai... molti mesi di inattività ed alcuni risvolti politici ne avevano fiaccato lo spirito. 8 - PROCESSI EPURAZIONI Giorno dopo giorno cominciavo ad inserirmi, ad orientarmi, a muovermi e a lavorare nella grande azienda comasca. Tutto sembrava essersi fermato, malgrado le apparenze, a qualche anno prima. La cosa, in se stessa, era abbastanza normale se si considera che la “Comense” aveva subito, come altre industrie, le inevitabili conseguenze della guerra (anche se non aveva subito bombardamenti) ed era ancora nella fase della “ricostruzione” ed erano evidenti i segni di anni difficili e pericolosi trascorsi. Ricordo le autorizzazioni per la circolazione degli automezzi, per l'acquisto di nafta, dei coloranti, delle materie prime per le esigenze di funzionamento. Le caldaie bruciavano di tutto: dal carburante alla torba, dai gusci di noci, noccioline e arachidi a tutto ciò che si riusciva, con notevole sforzo, a raffazzonare. Erano, quelli, sicuramente tempi di ripresa ma contornati dall'alone del recente passato che la maestranza aveva ancora ben presente nel modo di rapportarsi quotidianamente. La Tintoria Comense aveva subito grosse perdite specialmente negli ultimi anni del conflitto e la ripresa, seppur confortata da una buona presenza di lavoro, non era, tuttavia, una cosa né semplice né facile. C'erano stati I responsabili delle denunce ai tedeschi dovevano pagare il loro debito alla Giustizia. Processi ed epurazioni avevano messo la parola fine al triste capitolo ma non avevano, sicuramente, cancellato di colpo ferite, lutti e drammi di una delle più tristi pagine dell'intera vita aziendale. Imputato per le deportazioni, assieme ad altri, fu ritenuto il comm. Umberto Walter il quale, però, con un secco colpo di pistola pose fine ai suoi giorni prima ancora dell'inizio del processo. E questo avvenne nei primi giorni del giugno '45. Il suo comportamento, il suo carattere, il suo stile di vita, evidentemente, lo avevano tradito. Spinto da umana necessità per giorni e giorni, nel periodo del rientro dei deportati, era stato a Bolzano vagando di carrozza in carrozza alla ricerca di questo o quello nella speranza di ritrovare e di aiutare le persone che in precedenza aveva contribuito a far deportare. Nel susseguirsi di situazioni di ogni genere la sua vita si è chiusa a sorpresa con un colpo di pistola, fermata così tragicamente, portando con sé il segreto di scelte, di errori e quasi sicuramente di colpe. Nel periodo dell'occupazione nazista la “Comense” aveva aperto il cancello alle truppe germaniche per le quali "lavorava" la seta per la realizzazione dei paracaduti. Un “comando” nazista era alloggiato negli uffici e settimanalmente colonne di autocarri militari 43 44 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 7 - LA RIPRESA NEL DOPOGUERRA © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” trasportavano la seta lavorata dalla fabbrica comasca alle ditte confezionatrici e quindi al fronte. 9- COME ERA Il clima, anche dopo due anni dal termine del conflitto, risentiva parecchio del passato, anche se erano evidentissimi i segni di una netta ripresa morale ed economica. La vita normale, poi, gradatamente ebbe il sopravvento. Com'era strutturata nel 1947 la Tintoria Comense? Occupava lo stesso spazio ancora oggi oggetto d'interesse, di progetti e di accesi dibattiti. Era situata sulle rive del Cosia e si propagava da Via Benzi fino alla Via S. Abbondio, costituendo ciò che all'interno veniva definito con la denominazione “Nord”. Proseguiva, quindi, da Via S. Abbondio fino alla Via Albricci con l'altro appellativo di “Sud”. Al Nord erano disposti, nell'ordine, gli uffici amministrativi, ancora riconoscibili dal grande orologio (perennemente fermo) posto sopra un grande finestrone rettangolare che era, allora, quello dell'ufficio dell'Amministratore Delegato. Sotto il portico, il magazzino droghe e colori con relativo ufficio e la grande pesa basculante. Subito dopo il portico a sinistra iniziava il reparto purga, ossia la preparazione dei tessuti per le lavorazioni seguenti, invece, un terzo del fianco destro era noleggiato alla Farmitalia sfollata a Como per le note vicende belliche. Più avanti sulla sinistra il reparto greggi che si ergeva fino al terzo piano e di seguito il reparto tintoria con i sussidiari di spremitura e asciugamento. Sempre sulla sinistra seguiva il magazzino metalli, l'officina meccanica e quella dei falegnami; poi la palazzina riservata all'Ufficio Tecnico con la relativa direzione. Di seguito il grande reparto 45 46 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” dell'apparecchio ossia il finissaggio e la confezione dei tessuti lavorati. Sul lato destro la continuazione di queste lavorazioni in alcuni capannoni che erano definiti i negar poiché in tempi assai remoti si tingevano i filati appunto di colore nero. Al di là di via S. Abbondio, appena oltre il cancello, sulla destra c’era il garage per la manutenzione ed il riparo degli automezzi; le scuderie poiché, forse come residuato di guerra, si adoperavano ancora alcuni cavalli per il trasporto. Dirimpetto il grande edificio delle caldaie. Poco più avanti, sempre sulla destra, il reparto della seta, dalla purga alla tintura e una decina di jigger per la tintura in largo su rulli. Sulla strada che fiancheggiava questo lungo edificio confinante con altre proprietà erano posti dei grandi contenitori per alcuni acidi (muriatico, cloridrico, solforico). Si arrivava quindi al famoso “corpo a C”, ossia tre palazzoni di 3 e 4 piani, detti comunemente “la stampa”, dove in effetti si procedeva appunto alla stampa sui tessuti. Nei tre palazzi erano inclusi anche tutti gli uffici relativi alla procedura (registrazioni, disposizioni e ricettazione). Al quarto piano, prospiciente il cimitero maggiore, erano alloggiati i disegnatori, i lucidisti e tutti gli sgabuzzini per i fotoincisori. Al piano terra, nei capannoni adiacenti, erano posizionate le nove macchine per la stampa a cilindro in rame e tutti i servizi del dopostampa: lavaggi, fissaggio, asciugamento e visita. Ancora più avanti, verso il borgo di S. Rocco, la carbunera di cui si è già detto. In seguito sarà poi adibita a grande vasca per il deposito della nafta. La Tintoria Comense eseguiva tutte le lavorazioni per conto terzi e non produceva assolutamente nulla in proprio. Nel 1947 si lavorava unicamente sul tessuto avendo già prediletta questa scelta da tempo. I filati dalla gloriosa storia e attraverso i quali si erano formati e cresciuti generazioni di veri tintori erano stati affidati alla “Tintoria Colora”, già F.lli Pagani di Via Viganò a Como. 47 48 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Lo staff dirigenziale era così composto: Amministratore Delegato Dr. Ing. Augusto Brunner Direttore Amministrativo e Commerciale Comm. Luigi Guggiari Direttore Servizi Tecnici Ing. Carlo Ciccardi Capi piazzisti GianMaria Perlasca Mario Cavalleri Capo del Personale Mario Girola Naturalmente seguivano poi un nutrito numero di Capo Reparto, Capo Ufficio e via via. Cominciava ad affiorare la figura del Capo del Personale che fu affidata, per quel tempo, al Sig. Mario Girola proveniente dalla Stipel e che aveva un passato di comando militare. Erano tempi in cui bisognava sorvegliare tutto, dando tuttavia l'impressione della socializzazione. Non era quindi infrequente che il Capo del Personale, in bicicletta, nel suo girovagare mattutino si fermasse a colloquiare con alcuni operai. Spesso ciò accadeva davanti ad un carrello carico di tessuti, greggi o finiti, e che tutto infervorato si lasciasse andare a toccare, facendola scorrere tra il pollice e l'indice, la stoffa magari dicendo: ”Ma che bel tessuto...che ottima mano © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” che ha” dimenticandosi, di togliersi i guanti di pelle! Le maestranze della Tintoria Comense erano composte da preparatori, tintori, stampatori, apparecchiatori, da ausiliari ma anche da autisti, meccanici, falegnami, idraulici, muratori, verniciatori, fotoincisori, fattorini, controllori e impiegati sia tecnici che amministrativi. l'abilità dello stampatore, ad evitare il magro ed il grasso, due termini tecnici per indicare quello che in fotografia si identifica con sottoesposto e sovresposto. La seta, incontrastata protagonista del tessile stava lentamente uscendo dalla scena che aveva dominato per lunghi decenni e incominciava a prendere decisamente la prevalenza il tessuto in fibra vegetale e soprattutto quello artificiale: la fuffa. Per il profano meglio sarebbe a dire il fiocco. Come se lo stagno prevalesse sull'oro. Evidentemente era questo un segno dei tempi ma anche l'inizio di un periodo che chiudeva industrialmente con il passato. Progressivamente, e conseguentemente, al tipo di attività prescelto, si cercava di abbandonare alcuni metodi artigianali per dare una parvenza più industriale ma spariva, anche, la figura del tintore. Dalla tintura “alla tazza” dove il tintore costruiva con la propria abilità il tono di colore richiesto, si passava a quella dove l'operaio diventava di fatto un semplice esecutore di ordini I primi carrelli di stampa a mano le macchinette in gergo hanno accantonato abilità e ricerca della perfezione, rendendo quasi meccanico l'andare e venire della spatola, eliminato spilli e sottotele e completamente cancellato il gusto dello stampare che tendeva anche, attraverso La lunga lavorazione della seta per i doppioni, gli shantung e altri tipi, le interminabili e operose manipolazioni in quadro per levare la sericina, il particolare della tintura in bagno acido, rendevano sempre più costose le esecuzioni riducendo sensibilmente i guadagni fino a quando anche la lavorazione completa della seta tessuta fu definitivamente abbandonata. Il rilevamento della produzione era regolato da un sistema veramente all'avanguardia realizzato nei primi anni Quaranta da una consulenza tedesca che permetteva, contemporaneamente, di osservare anche l'avanzamento delle lavorazioni. Il tutto era regolato dall'emissione per ogni partita (ossia il quantitativo disposto per la lavorazione, tipo di colore, di stampa e di finissaggio) di una serie di bolle (secondo il percorso tra i reparti interessati) di cui l'ultima stampata su cartoncino costituiva il foglio di lavorazione. Su quest'ultimo nella parte bassa c'era tutta una serie di piccoli coupons che comunemente erano chiamati tagliandini, che staccati di volta in volta nei vari reparti, evidenziavano il quantitativo trattato. La somma di questi tagliandini per tipo di lavorazione e reparto, permetteva di stabilire quanto si produceva in chili e in metri giorno per giorno. Dal rilevamento della produzione mi accorsi che mancavano in misura eccessiva tagliandini relativi al reparto seta indicato con lo 04. Era un pomeriggio di un’estate molto calda. Ultimo capo reparto seta era ul 49 50 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 10- CREPUSCOLO DELLA SETA E AVVENTO DELLA FIBRA ARTIFICIALE © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Daniel che, per via dei consueti sbuffeggiamenti che a mo' di tic emetteva sovente, era soprannominato ul bufa. Già piuttosto avanti con gli anni e forse per il fatto che già alle prime ore del mattino era sul posto di lavoro (in regola col vecchio cliché), lo trovai piuttosto “spossato”. Nel reparto, che già aveva terminato l'orario di lavoro, aleggiavano residui di vapore, odori più o meno aspri, mentre una vasca perdeva acqua e in un'altra da un tubo cadevano gocce, qua e là carrelli, sacchi, tele e altro. Alla mia richiesta di tagliandini, ul Daniel mi squadrò tutto chiudendo un occhio, forse per aprire meglio l'altro, si passò una mano prima sulla fronte e poi sui capelli argentei e mi disse: “Set chi a rump i ball?”. Alla mia insistenza, alfine, cedette e rovistando tra le tasche mi versò una quantità, quasi infinita di tagliandini sbuffando così violentemente che buona parte di essi volarono via.... Pensare che c'era un ufficio apposito per la rilevazione e un altro per la notifica dell'avanzamento della produzione. Certo non era ancora pianificazione... era comunque un embrione. Ma il vero “boom” per la Tintoria Comense fu la rivoluzionaria idea, per quei tempi, di rendere il finissaggio del fiocco “antipiega”. Il Nuera per il fiocco e il Norplia per il cotone costituirono uno dei cardini produttivi e contribuirono non poco ad incrementare l'attività. Una continua e minuziosa ricerca di aggiornamento e di studio (era da anni funzionante un apposito laboratorio) portò, sotto l'oculata direzione dell'amministratore delegato Dr. Ing. Augusto Brunner, l'industria comasca all'apice. Mentre si abbandonavano tutte le lavorazioni ritenute troppo onerose e intese anche come sovrapposizione ad una linea standard, contemporaneamente, se ne introducevano altre richieste dal mercato. Si passò alle lavorazioni su bobina, ossia accumulo di più ordinazioni, anche di diverso cliente, ma similari tra loro eliminando il frazionamento in casse: si introdussero attraverso licenze o brevetti le lavorazioni del clò-clò consistente in un effetto a sbalzo su cotone destinato all'abbigliamento femminile, la stampa flock ossia motivo in rilievo su tessuto ottenuta con cascame di pelo di fiocco o seta sottilissimo applicato con quadro alla lionese. Nel contempo si abbandonarono, quasi definitivamente le lavorazioni sulla lana (follatura ecc.), sui taffettà, mentre prendevano sempre più corpo le lavorazioni di sbianca, mercerizzazione e tintura del cotone. Fu pure abbandonata la tintura “in largo” eseguita sulle cosiddette stelle a vantaggio di quella su jiggers e foularda. Nella stampa si perfezionava la stampa con carrello manuale (ideato in azienda negli anni 1937/38) mentre iniziavano i primi tentativi per quella in continuo. Un buon successo ebbe anche il watro ossia l'impermeabilizzazione sul cotone, quasi sempre color 51 52 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it La Comense andava inquadrandosi, tuttavia, nella generale ripresa che doveva portare, qualche anno più avanti, al famosissimo boom italiano con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti. 11 – UN’IDEA RIVOLUZIONARIA © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” kaki, mediante spalmatura e fissazione in rameuse. Nel frattempo si andava mutando anche l'assetto territoriale della Cumensa. Si erano liberati tutti i locali del settore Nord affittati alla Farmitalia e anche la palazzina a suo tempo concessa alla Mafbo confezioni tessili. La grande ditta di medicinali poi, forse in segno di riconoscenza o meglio forse per contratto, contribuì non poco alla erezione di quel grande edificio posto a lato di Viale Innocenzo XI che fino alla chiusura ospitò la grande insegna luminosa della ditta. In conseguenza di un miglior assestamento del comparto Sud furono localizzati tutti i servizi (manutenzione, officina meccanica, falegnami, magazzino metalli) mentre i locali a Nord, resi liberi da questi spostamenti, permisero l'allargamento del reparto finissaggio con l'allestimento di più moderne rameuses, cosi come da Sud rientravano alcuni reparti di tintoria ottenendo la creazione nel grande spazio rimasto del reparto cotone. Anche il reparto greggi che era posto in una palazzina a tre piani (con un'inutile costo aggiuntivo per portare le pezze poi al pianterreno per la lavorazione) trovò una più congeniale sistemazione in uno spazio lasciato libero dalla Farmitalia. Il reparto stampa subiva, intanto, delle modificazioni con l'estensione su tutti i tavoli delle soffierie per facilitare l'asciugamento delle pezze e una moderna canalizzazione della luce elettrica con l'introduzione della luce al neon. Un altro importante aggiornamento tecnico fu l'applicazione del motore elettrico applicato alle singole barche di tintoria in sostituzione della superata trasmissione a cinghia. Dal 47' al 54, furono anni difficili sotto il profilo politico-sindacale. La Commissione Interna per diversi anni fu presieduta dal “compagno” Carlo Viganò. Un uomo che a modo suo si è battuto per affermare diversi diritti poi riconosciuti dalla Statuto dei Lavoratori ma che politicamente ed anche dall'aspetto era un facsimile di alcuni personaggi creati dalla fantasia di Giovanni Guareschi. Era, il Viganò, soprattutto un grande agitatore di masse e quindi non era infrequente la sospensione del lavoro per scioperi improvvisati indetti ad ogni minima controversia. Il susseguirsi di duri scontri verbali con direttori, dirigenti e capi-reparto, le irruzioni nei reparti per protestare con il seguito dei suoi più attivi collaboratori-compagni preparavano, via via, lo scontro che poi avvenne. Il “compagno” Viganò fu licenziato in tronco perché sorpreso dall'Amministratore Delegato in stato di ubriachezza. Scoppiò il finimondo... qualche giorno di sciopero, qualche tensione e poi tutto passò... anche il “Vigano”: era il 1949. 12- RITI E PRIVILEGI C'erano all'interno della vita aziendale alcuni riti che per le migliaia di persone che negli anni vi hanno lavorato sono risultati indimenticabili e fonte di molti ricordi.... Ogni mattina lavorativa i componenti la Direzione avevano il privilegio della manutenzione e della pulizia della loro automobile. Il garage per qualche ora diventava tutto un fervore; il più delle volte occorreva anche andare all'uscita di qualche reparto a prelevare la 53 54 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” macchina, portarla sul piazzale e cominciare tutta l'operazione, o meglio il rituale. Lavaggio, sgrassaggio, manutenzione, olio, benzina, controllo gomme ed eventuale gonfiatura. Si può dedurre che le automobili della direzione erano meglio curate degli automezzi di servizio e che, sicuramente, una continua e così minuziosa manutenzione non l'hanno mai avuta. Per quanto concerne gli impiegati l'avvicinarsi del Natale creava una speciale atmosfera che superava di gran lunga quella tipica e classica del periodo. Qualche giorno prima del 25 dicembre la direzione procedeva alla distribuzione della tredicesima, la cosiddetta busta, convocando uno ad uno tutti gli impiegati. Ma il giorno esatto non lo conosceva nessuno. Quando il calendario cominciava ad indicare i giorni dopo il 20 scattava una sorte di infiammazione generale. La vedetta era il buon Ugo Rossi, capo-magazziniere, che in quei giorni incrementava non poco il suo andare e venire per essere il primo a cogliere il segnale del grande evento. La Direzione era ubicata sopra il cortile di accesso e vi si accedeva attraverso uno scala interna di una ventina di gradini che immetteva, poi, in uno stretto corridoio poco luminoso che, a sua volta, introduceva nell'ufficio segreteria e da qui, attraverso una porta di servizio, in direzione. Quando scoccava l'ora "X" era come se fosse scoppiato un incendio; non si gridava “al fuoco al fuoco” ma tutti pensavano “al posto al posto” intendendo così, una posizione strategica da cogliere sul percorso. Le donne subito correvano alla toilette per aggiustarsi, mentre gli uomini pur celando una calma solo apparente erano anch'essi presi dall'emozione. Qualcuno, addirittura, faceva una corsa a casa per mettersi il vestito buono. Lentamente, ma poi non tanto, gli impiegati cominciavano ad ammassarsi mentre si svolgeva il rituale. Scendevano dalla Foto, dalla Stampa, arrivavano dagli uffici, dai reparti, salivano dalla Tintoria, dall'Apparecchio, era una vera migrazione alla ricerca del pascolo, dove per tale si intendeva il dovuto. La cerimonia era strettamente collegata ad un fatto sonoro e visivo che assumeva nel folto pubblico presente (perché di rappresentazione si trattava) un'importanza assoluta. Le cose andavano così: l'ingresso in direzione era regolato dal suono, o meglio, dal gracchiare di un campanello e dall'accendersi contemporaneamente di una luce rossa che indicava l’occupato. Per gli impiegati radunati per la cerimonia la lunghezza della permanenza in direzione era segno di grande interessamento e d'importanza per il convenuto. All'interno, e cioè in direzione, le cose andavano invece così: dietro una gigantesca scrivania sedevano sorridenti l'Amministratore Delegato Dott. Ing. Augusto Brunner e il Direttore Commerciale Comm. Luigi Guggiari. Sulla scrivania due cassette rettangolari contenente le “buste”. Dopo un breve saluto o domande di circostanza, si finiva sovente con il parlare di cose di nessuna importanza che andavano magari per le lunghe. Per quelli fuori erano questi i momenti salienti poiché l'orologio girava, la luce era accesa e quello dentro era una persona importante! 55 56 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Nei primi anni del dopoguerra iniziarono la loro collaborazione con l'azienda il Dott. Emilio Walter, figlio del Comm. Umberto e il Dott. Vincenzo Foti che negli anni a seguire andranno ad assumere importanti cariche direttive. 13- “SARA L'ACQUA E VERT UL VAPUR” La produzione era costantemente in aumento e la qualità, ma meglio sarebbe dire “la nobilitazione”, era di ottimo livello. Le lavorazioni per conto terzi, quali erano fondamentalmente gli impegni produttivi, hanno sempre avuto andamenti stagionali causando vuoti preoccupanti in alcune specialità. Una stagione o un periodo tirava l'unito e conseguentemente era la stampa ad entrare in crisi. Viceversa trionfava lo stampato e allora come conseguenza era l’unito ad entrare in crisi. Orbene, in Tintoria Comense per lunghi anni non si è mai fatto ricorso alla Cassa Integrazione. Il reparto o i reparti in crisi superavano il momento difficile mettendo in movimento tutto un esercito improvvisato di pulitori, restauratori, verniciatori, costituito dagli operai addetti alle lavorazioni. Una manutenzione straordinaria eseguita da uno stuolo armato di pennelli, vernice, pale, rastrelli e attrezzi vari che iniziava a riassettare, pulire, imbiancare, tutto quanto era necessario. Particolare era la pulizia dei vetri e ancora più caratteristica l'estirpazione dell'erba che allora cresceva all'interno della ditta nelle strade con l'acciottolato. della Direzione di quei tempi, fu quella di installare l'impianto Caliqua. Una vera e propria rivoluzione del sistema di riscaldamento delle barche di tintoria e una proiezione innovativa che, in seguito, si è sempre dimostrata fino alla chiusura, una delle più oculate e delle più utili. Il sistema, apparentemente semplice, sfruttava a livello industriale il principio dell'acqua calda che ognuno ha installato nella propria abitazione. Per portare alla temperatura occorrente le barche di tintoria (oltre 70) che erano di misure diverse (500, 750, 1000, 2000, 3000 litri) si procedeva, prima di questo impianto, inserendo la cosiddetta “baionetta”, che era una presa di vapore e aprendo il relativo rubinetto. Da ciò anche il famoso detto prettamente comasco “sara l'acqua e vert ul vapur”. Con il sistema Caliqua il riscaldamento dell'acqua avveniva attraverso una serpentina inserita nella barca per tutta la totalità dell'ampiezza nella quale passava acqua surriscaldata che poi raffreddandosi, ma non completamente, ritornava al grande contenitore ancora tiepida e quindi surriscaldandosi nuovamente in minor tempo ed a costo contenuto. La realizzazione di un tale sistema comportò la stesura di migliaia di metri di tubazioni, l'installazione di numerose pompe, la creazione di un nuovo settore con la realizzazione di una nuova costruzione per contenere i due giganteschi boiler. Fra gli operatori giunti dalla Germania e coadiuvati anche dai tecnici indigeni si distinse il “Franz” abilissimo saldatore che fungeva anche da “capoccia”. Una delle grandi e futuristiche imprese messe in atto 57 58 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” 14 - IL “SEGRETO” DEI NUOVI MACCHINARI L'arrivo di un macchinario nuovo faceva scattare negli addetti al montaggio una grande preoccupazione: quella di far sparire ogni e qualsiasi riferimento di provenienza. Le casse e gli imballi erano scortate a vista fino a quando non venivano sacralmente distrutti. Era forse questo il modo per mantenere il segreto, che poi era quello di Pulcinella, ma indicava il segno di una politica aziendale che certamente aveva fatto il suo tempo. Ma tutte le preoccupazioni del caso non servirono per il Sanfor poiché portava fuso su una spalla non solo il nome della ditta costruttrice ma anche: “Questa macchina è stata ottenuta attraverso l'aiuto Americano...” Il Sanfor aprì una nuova era in Tintoria Comense: quella del finissaggio del cotone e dello sviluppo di questo settore merceologico. Il sistema Sanfor, in sé era molto semplice. Consisteva nella bagnatura del cotone per favorirne il naturale restringimento e quindi, subito dopo, attraverso il passaggio del tessuto, dapprima su pochi metri di una rameuses per la definitiva sistemazione dell'altezza, e poi su un grande cilindro surriscaldato, in gergo chiamato palmer, alla stiratura e quindi alla confezione. La novità era costituita non solo dall'irrestringibilità del tessuto ma anche dal fatto che tutte queste operazioni, per la prima volta all'interno dello stabilimento, erano eseguite in continuo, cioè senza frazionamento di lavorazione. A fungere da capo reparto fu nominato il Gigi Binaghi che in seguito abbinò il suo nome alla lavorazione tanto da divenire per tutti il “Gigi del Sanfor”. La prima lavorazione, in un clima generale di crescente interesse, fu un capitolato militare: entrarono parecchi autocarri a rimorchio cariche di tele color kaki che misero, naturalmente in giro, le voci più disparate e fantasiose. In seguito le lavorazioni si allargarono con lo specializzarsi in alcuni settori, come quelli per gli interno-colli e gli interno-polsi per le camice da uomo. Il reparto restò sempre in funzione di norma con due turni giornalieri per un totale di 15 ore e anche con tre in certi momenti di punta. Le grandi rameuses coperte e le grandi macchine per l'asciugamento avevano tutte un nome di battaglia che non erano quelli nominati dalla ditta costruttrice, bensì quelli che la direzione imponeva.Dominante la scelta dei venti: così c'erano quelli locali come “Breva” e “Tivan”, ma anche quelli più impegnativi come “Tifone”, “Tornado”, “Grecale”, “Monsone”, “Ghibli”, “Maestrale” e così via... Le "rameuses" sono macchine destinate al reparto finissaggio ed hanno un impiego poliedrico. Esse sono destinate a svolgere, a livello industriale, il lavoro che una casalinga fa quando stira, con qualche specifica in più. Esse sono costituite da diverse campate (quattro o sei) dove attraverso una catena il tessuto viene introdotto per subire, a secondo dell'esigenza, il trattamento desiderato. Le campate sono molto calde; in esse circola aria a 180 e 59 60 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” più gradi e la catena, formata da piccole pinze a spilli prende il tessuto sia a destra che a sinistra e lo introduce. Solitamente per certi tessuti occorre riportare l'altezza alla misura desiderata (90, 120, 140 centimetri) poiché le operazioni di tintura hanno ridotto tale altezza. La catena partendo dalla misura più bassa, lentamente e in pochi metri la riporta a quella desiderata e passando nel calore la "fissa" cioè la rende stabile. Contemporaneamente la stoffa prima di entrare in "rameuses" attraverso una "foularda" (semplicemente una serie di tamburi messi in verticali con davanti una bacinella dove è posto un "bagno" per l'appretto, l'antipiega, o altro) si bagna e si impregna. All'uscita dopo un percorso di 50/70 metri e più il tessuto sarà perfetto così come ogni donna lo vorrebbe. Il "palmer" era un precursore della "rameuses" e veniva usato particolarmente con la seta per darle quel tocco tipico di questo tessuto. Era costituito da un grosso cilindro metallico dal diametro di 4/6 metri surriscaldato a vapore sui cui un grosso panno faceva da base al tessuto che leggermente spruzzato d'acqua si "stirava" e faceva impreziosire twill, schantung, e altre meraviglie seriche. ed il secondo, qualche metro più in la, poco più in alto ed anch'esso elicoidale in modo, una volta in funzione di far cadere la pezza nella vasca per il tempo di immergersi nel"bagno" ossia il colore e poi di nuovo scorrere e rituffarsi. Questa era la prima tecnica poi l'incorsatura diventò automatica e bastava infilare il primo capo della pezza in un apposito anello all'entrata e avviando la macchina con il proprio motorino indipendente aspettare l'arrivo all'uscita, cucire le due testate e via. Un tempo le"barche" erano scoperte poi furono coperte e chiuse con sportelloni pesantissimi sia davanti che dietro. Ad ogni tipo di stoffa (cotone, seta, lana, fiocco, nylon, ecc.) corrisponde un diverso tipo di tintura sopratutto per il tipo di colorante e di acidi necessari. La tintura avviene sempre con "bagno caldo" per un determinato numero di tempo e quando si è raggiunto il "campione" ossia il tono di colore desiderato, si procede al lavaggio in acqua fredda. Le "barche" di tintoria sono delle vasche ora di acciaio inossidabile, un tempo di legno, dove le stoffe o pezze vengono tinte. Per far ciò a seconda della quantità ci sono "barche" piccole, medie, grandi e grandissime con centinaia e migliaia di litri d'acqua ognuna. La stoffa viene messa in acqua pezza per pezza creando, cucendo l'inizio e la fine, una catena che rimane stesa fra il primo aspo elicoidale Un momento drammatico era quando si spaccava il tubo di portata dell'acqua. Il rifornimento era garantito da un impianto autonomo di pompaggio dell'acqua lacustre che veniva pescata circa all'altezza di Villa Olmo. Una centralina posta al centro dei giardini pubblici a lago, di fianco al Tempio Voltiano, pompava acqua fino ai serbatoi in ditta. Erano quattro pompe dalla capacità di 200 L/sec. cadauna. Erano talmente potenti che fornivano acqua anche alla Colora e negli ultimi anni anche alla tintoria Pecco & Malinverno, alla SmartCastagna, alla tintoria Lombarda e alla tessitura Terragni. 61 62 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Quando il flusso scendeva paurosamente allora era evidente che si era rotto il tubo. Ma dove? Questo era l'interrogativo. Subito le maestranze venivano immediatamente spedite a casa e le lavorazioni cessavano. Entrava, però, in stato permanente di agitazione tutto lo staff tecnico con l'ingegnere in testa. Seguivano tutti i subalterni dagli addetti alla manutenzione, ai tubisti, agli elettricisti, ai muratori. Saliva la tensione mentre i praticoni cominciavano direi, quasi ad annusare metro per metro il percorso per capire dove il tubo perdeva acqua. Quando la falla veniva individuata (il più delle volte dopo diverse ore, se non giorni, perché l'acqua appariva in superficie) allora entravano in funzione tutti gli addetti al tubo che senza sosta, qualche volta anche per qualche notte, spalavano, scoprivano, aggiustavano o sostituivano il tubo guasto. Si vivevano ore molto agitate mentre la maggior parte, inoperosa, alla domanda “Ma cosa fai a casa”? Rispondevano: “Un tubo, per via del tubo rotto”. Alla fine, quando tutto rientrava nella normalità, si notavano i tecnici e gli operai che avevano proceduto alla riparazione varcare i cancelli come se fossero reduci da una vittoriosa battaglia: lo sguardo fiero, il volto segnato con l'aureola del glorioso, le pale e rastrelli al vento come armi simboliche. Il tubo ancora una volta era salvo!. Tutta una documentazione corredata da disegni esternava le varie rotture del tubo, come a sottolineare che il tubo ricopriva un ruolo determinante nella storia aziendale: insomma il tubo era la vita!. 15 - LE GITE AZIENDALI Non sono mancati anche momenti di aggregazione e ricreativi organizzati dalla stessa ditta. Ne ricordo due: il primo il 22 ottobre 1949 per festeggiare la venuta a Como della famiglia Gillet ed il secondo per una gita collettiva sul Lago Maggiore. Al primo non ho partecipato perché non ne avevo l'età in quanto la manifestazione era riservata ai dipendenti con un certo traguardo d'anzianità. Sulla riviera ligure fu offerto un ricco pranzo a ogni dipendente ed un premio di mille lire per ogni anno di servizio: sicuramente per la Tintoria Comense erano quelli tempi d'oro. Il secondo, ossia la gita sul Lago Maggiore, assomigliò a qualche cosa come la spedizione dei Mille. In treno da Como a Laveno con un vecchio Gibuti delle Ferrovie Nord. Per Gibuti i pendolari intendevano quei vecchi treni con panche in legno, maleodoranti e stridenti. A Laveno, attraversata la piazza a lago, tutti a bordo di due battelli appositamente noleggiati e quindi partenza con destinazione all’Isola Bella e all’Isola dei Pescatori. Giornata serena, stupenda. Nell’approssimarsi del mezzogiorno si iniziò la prima circumnavigazione dell'Isola Bella. Intanto “i mille”, guardando l'orologio si chiedevano: “Quando si mangia?” “Bella l'isola...tutto bello...però?” Quando i battelli iniziarono il secondo giro dell'isola, si fece sempre più pressante l'interrogativo: “Si mangia oppure no”? Ancora una volta i battelli iniziarono nuovamente il periplo dell'isola e improvvisamente quasi per miracolo iniziò la distribuzione dei cestini da viaggio e l'incubo, tra una morsicata e l'altra, svanì. 63 64 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Finalmente i battelli accostarono e si scese per visitare l'isola. Chi entrò in un bar, chi passeggiò sognando chissà quali avventure...chi visitò il giardino botanico della stupenda villa. Il cielo nel frattempo cominciò ad oscurarsi...soffiava un vento foriero di tempesta che inevitabilmente poco dopo scoppiò violenta. Fuggi fuggi generale sui battelli e via per la traversata di ritorno. “I mille” vissero l'avventura come se stessero per attraversare il canale della Manica. Si ondeggiava come non mai e finalmente arrivò l'attracco avventuroso al pontile di Laveno. In volata l’attraversamento della piazza sotto l'acqua scrosciante cercando poi riparo nella vicina stazione ferroviaria. Un fischio e il treno partì...qualcuno rimase “invischiato” in qualche bar o in una trattoria. Sarebbe tornato con i mezzi propri... La mattina del giorno dopo lunedì, cielo sereno, limpido e tutti al lavoro. I “mille” avevano anticipato di molto il Rag. Ugo Fantozzi... Ai primi degli anni cinquanta, quando la Tintoria Comense era in piena efficienza, la Direzione ritenne opportuno svecchiare gli uffici centrali direzionali, almeno nelle apparenze. In effetti, quando ebbi il primo impatto con gli uffici principali provai la stessa sensazione di disagio che una persona può provare quando dopo tanta immaginazione si trova davanti la cruda realtà. L'occasione si presentò propizia quando, costruito il nuovo laboratorio in fondo alla zona nord, si liberò una buona parte del primo piano interno del palazzo centrale. Trasferito nella nuova sede il laboratorio, lo spazio fu assegnato all'Ufficio paga e conseguentemente si passò alla sistemazione degli uffici amministrativi. In primo luogo si crearono dai precedenti due stanzoni tre aree così destinate: una sala abbastanza capiente per i piazzisti con le scrivanie dei maggiori responsabili, sig, Perlasca e sig. Cavalleri, quindi un salone centrale per la cassa, le primenotiste e l'amministrazione varia e quindi la fatturazione divisa in due scomparti da un corridoio di collegamento. Questa volta non si badò a spese: tutto fu rifatto. Il soffitto fu abbassato con dei lucernari, il pavimento in legno fu sostituito con quello in linoleum, le vecchie stufe in cotto con i termosifoni, le prese aeree rimasero un ricordo con le linee tutte incassate, i vecchi tavoli con moderne scrivanie. A capo dell'Amministrazione fu nominato il Dott. Palmiro Brenna che al primo contatto suscitò l'impressione, nei diretti dipendenti, di una persona così a modo, così fine da far pensare che forse, a suo tempo, aveva intrappreso gli studi ecclesiastici. Via via, però, acquistò appieno il ruolo tanto da far dimenticare le apparenze non solo per le capacità dimostrate ma anche per la severità che sapeva imporre. E questo comportamento lo subivano le addette alla fatturazione che finirono per averne quasi il terrore. 65 66 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Nei primi anni cinquanta lasciava la direzione tecnica l'Ing. Carlo Cicardi e veniva sostituito dall'Ing. Giulio Veronesi. 16- SI CAMBIA FACCIA... © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” La fatturazione, a quel tempo, non solo era divisa in due attraverso il corridoio ma era anche scrutabile da vetrate che separavano i due locali e da una terza che lasciava intravvedere l'amministrazione. Le donne, in fatturazione, erano in maggioranza sugli uomini che erano solamente quattro. La stessa fatturazione era divisa in due anche nelle competenze: una specie di mente e braccio. Al di qua oltre alla responsabile, c'erano gli addetti alle conferme prezzi, al controllo della fatture, alla spedizione delle stesse e alla catalogazione dei prezzi per cliente e lavorazione. Di la chi batteva su un'apposita macchina elettromeccanica la fattura vera e propria, chi la preparava, chi riordinava le bolle di spedizione e alla fine chi provvedeva alla ripartizione del dopo fattura per reparto e qualità del fatturato. La disposizione delle scrivanie in questa zona prevedeva che tutte fossero rivolte di spalle all'amministrazione e che solo chi batteva le fatture e chi raccoglieva le bolle fossero rivolte con la faccia dalla parte opposta. Il corridoio che divideva i due locali aveva anche un transito notevole di persone da e per l'amministrazione o per i piazzisti regolato, tuttavia, da un ingresso con la porta. Accadeva che ogni venerdì pomeriggio alle quindici mentre si lavorava si procedeva pure alla recita del rosario. Era la Clementina che sgranava il rosario e la scena era pressapoco questa: lei era china su alcune bolle con un'alto pacco piuttosto voluminoso davanti, mentre sbiacicava.... e tutte le altre, più o meno sistemate allo stesso modo, rispondevano. Gli occhi delle due che potevano vedere sia l'amministrazione che la responsabile erano attenti affinchè tutto procedesse regolarmente, ossia nessuno dei capi si muovesse. Di tutt'altro tenore era se la porta d'ingresso si apriva furtivamente. Ma in questo caso la Clementina furba ed esperta che poco prima aveva avviato l'Ave Maria era pronta a gridare: "Passami l'Ones, e anche il Mantero, dov'è il Bellora?" mentre le altre alcune si alzavano in piedi e altre ancora fingevano di scrivere o di cercare qualcosa. Passata la persona e lo spavento, tutto ricomiciava come prima fino alla fine dello sgranare dei cinque misteri. E così.....era! 67 68 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 17 - DA "TINTORIA COMENSE" a "TICOSA" Il 9 maggio 1956 l'assemblea straordinaria dei soci deliberò la modifica dell'art.1 dello Statuto secondo la quale la società adotta la denominazione “TICOSA s.p.a. - industria comense per la tintura-stamperia e finissaggi tessili”. La Tintoria Comense lasciò, così, il nome alla più moderna TICOSA che altro poi non era se non l'abbreviazione della vecchia denominazione. Infatti TI stava per Tintoria, CO per Comense e SA per s.p.a. Ma erano anche tempi in cui occorreva guardare avanti per pararsi dalla concorrenza sempre più agguerrita e per avviare diverse iniziative industriali. Infatti un anno prima, quale processo di diversificazione, la Ticosa aveva acquistato il brevetto Heberlein avviando un reparto sperimentale denominato Filanca che con un © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” prototipo di una macchina Heberlein a fornello elettrico iniziò l'elasticizzazione di filato di poliammide, destinato alla confezione di calze. Sono inoltre provati anche altri tipi di filati elasticizzati che in seguito saranno commercializzati con il marchio registrato: Ban-Lon e Agilon. Questi tessuti poi saranno modificati, riducendo buona parte dell'elasticità e favorendo, in tal modo, l'impiego in tessitura con il filato testurizzato. Il nuovo reparto denominato Filanca cominciò a lavorare a pieno regime nel 1958 e responsabile fu nominato il Dr. Vincenzo Foti. 18 - IL BOOM DELLA FILANCA RECLUTAMENTO DEGLI IMMIGRATI E IL La TICOSA raggiunse il massimo livello produttivo come terzista tintostampatore e finitore a cavallo del decennio che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino ai primi degli anni Sessanta, con volumi di produzione fino a 55/60 milioni di metri anno. Le lavorazioni erano costituite da tintura su mulinello, overflow, jet, siluro, foularda e jigger. Stampa su tavoli a coppia di stampatori o con carrello manuale singolo. Stampa a rulli in rame con la possibilità massima di dieci colori. Stampa manomacchina (6 impianti). A tale proposito è interessante rilevare che in Ticosa fu installata la prima macchina Buser venduta in Italia (e seconda venduta in Europa). Stampa a cilindri rotativa: un nuovo processo di stampa con velocità da 30 a 80 metri al minuto. Finissaggio attrezzato con tutte le macchine necessarie alla fase di lavorazione. Uso di licenze e marchi registrati: Nuera, Nuolan, Watro, Rainova, Norplia, Durasec, Everglaze, Sanfor, Ragi, Repella, Cinz e Sempralux. Il reparto Filanca si rivelò subito come un filone d'oro e entrò in produzione nel comparto Nord, in edifici interni fino ad allora poco sfruttati e andò continuamente espandendosi, conquistando tanto spazio che alla fine un quarto di tutta l'area TICOSA era destinato a questa attività. Le macchine per questa ben remunerata lavorazione erano, tutto sommato, non eccessivamente impegnative: ognuna di esse portava da 24 a 48 bobine ed il caricamento e lo svuotamento avveniva ogni 12 o 24 ore. La mano d'opera adibita a questa speciale lavorazione fu scelta, per la maggior parte tra gli immigrati, specialmente meridionali. Il reclutamento avveniva direttamente alla stazione centrale di Milano, dove ad aspettare l'arrivo del “treno del sud” c'erano il capo del personale e qualche fidato collaboratore. Combinata l'intesa, lo spaesato meridionale con gli occhi sbarrati, la valigia di cartone tenuta con una corda, senza nemmeno capacitarsene, si trovava a bordo di un automezzo (un camion senza sedili) sballottato fino a Como. Con l'installazione del nuovo reparto la TICOSA in collaborazione con altre ditte che operavano nel settore dell'elasticizzato-testurizzato (Banfi, Abegg, Dubini) creò una società commerciale denominata “Fitra-filati trasformati” per la vendita di questi prodotti. Qualche anno dopo la società fu sciolta e nuovamente la TICOSA diede vita ad una propria società la “Sorim” che in 69 70 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” seguito divenne titolare di altre varie rappresentanze tessili. Con una produzione annua di tremila tonnellate la divisione Filanca divenne una fonte importante di prestigio industriale e di notevole redditività economica. 19 - LA PRODUZIONE DI BARCHE IN RESINA Continuando il processo di diversificazione nel 1957, la TICOSA iniziò la fabbricazione dei separatori Diaflex per accumulatori elettrici, seguita, nel 1958 da quella di barche in resina di poliestere con fibre di vetro che portò alla società controllata “Crestliner s.p.a.” che trovò sistemazione (con le dovute modifiche) nella celeberrima carbonaia e nella palazzina accanto di diversi piani a forma di parallelepipedo. Nel 1959 si iniziò anche la fabbricazione di tubi in resina di poliestere (vetroresina) per condutture idriche con la denominazione Tula. L'attività fu abbastanza breve per carenza di affidabilità del prodotto nel tempo poiché era richiesta una garanzia di durata minima di 40 anni. la lavorazione, controllare qualche difetto, per intavolare discussioni sempre inerenti le lavorazioni, coordinare alcune tariffe da applicare ai cosiddetti tipi, ossia quei tessuti che i clienti per la prima volta inviavano in TICOSA. Al terzo piano furono collocati alcuni uffici quali la Contabilità Industriale, il Tempi e Metodi e subito dopo il C.E.D. (centro elaborazioni dati) che iniziò a lavorare con la perforazione a schede attraverso un sistema I.B.M. Il secondo piano restò, invece, disabitato a lungo. Nel 1957/58 si iniziò pure ad occupare quel grande palazzone prospiciente la Via Innocenzo XI collocando al piano terra, a sinistra il reparto spedizione ed a destra, diviso dall'ingresso principale, le sale per il ricevimento dei clienti e fornitori ed uno spazio maggiore dove ogni mattino si trovavano i piazzisti, il direttore commerciale ed i vari capi-reparto per la cosiddetta “visita”. In pratica si trattava di osservare qualche tipo di tessuto nuovo già lavorato o da lavorare per indicare o correggere appunto 71 72 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” 20- LA TIMBRATURA DEL CARTELLINO Come in tutte le aziende esisteva il luogo deputato all'entrata delle maestranze e alla conseguente uscita. Pur rimanendo, per quasi tutto il periodo della sua esistenza, localizzato nello stesso posto, la metodologia per accedervi ha cambiato nel corso degli anni diverse modalità. Tutte le maestranze avevano accesso allo stabilimento da Via S. Abbondio sia per coloro che erano localizzati a Nord che per coloro che lo erano a Sud. Tanto per intenderci: a Nord c’erano i reparti di preparazione, purga, tintoria, finissaggio, confezione e spedizione, a Sud il reparto seta poi divenuto cotone, il Sanfor, la stampa, il vaporissaggio, la fotoincisione e la manutenzione. Anche gli impiegati seguivano lo stesso andamento. La palazzina, ancora oggi visibile sul lato destro subito dopo il cancello d'entrata, era suddivisa da due porte con due ingressi: una stretta, la prima, riservata agli impiegati ed una molto più larga, la seconda, per gli operai. Ora, l'accesso era regolato dallo scaglionarsi degli orari che iniziavano dalle sei del mattino e continuavano fino alle otto, con una più larga concentrazione tra le sette e trenta e le otto. Un secondo affollamento avveniva dalle tredici alle quattordici quando entravano gli operai del secondo turno e gli impiegati. Una minore concentrazione, infine, attorno alle 20,30 per i turnisti della notte. L'uscita, invece, vedeva molto affollate le ore dalle dodici alle quattordici e dalle diciassette alle diciotto. Una minore uscita poi attorno alle ventuno per gli operai del secondo turno. In mezzo alle due entrate/uscite comunicante con i due ingressi c’era un piccolo studiolo dove operavano i controllori, ossia dei portieri con l'incarico di sorvegliare tutto l'andamento del popoloso andirivieni. E' da premettere che fino quasi al termine degli anni Quaranta gli impiegati non avevano nessun obbligo di timbratura, anzi non esisteva nemmeno l'orologio nell'apposita cartelliera. Poi, forse anche per effetto dei contratti di lavoro, anche per essi scattò l'obbligo, escluso i capi, del “cartellino”. Ma la timbratura non c'era nemmeno per gli operai: per questi c'era il sistema della “medaglia”. Ad ognuno, al momento dell'assunzione e dell'assegnazione del reparto, veniva dato un numero con la rispettiva medaglia che doveva essere appesa nella rastrelliera all'entrata. Quando l'operaio arrivava staccava la propria medaglia, la portava nel reparto e l'appendeva alla rastrelliera. Avvenivano poi due controlli: all'ingresso si notava subito chi era assente (non aveva staccato la medaglia) e in reparto, uno degli addetti alla segreteria, annotava le presenze. Certo era impressionante guardare queste rastrelliere per il numero enorme (qualche migliaio) di porta medaglie, un semplice uncino con sotto scritto il relativo numero e altrettanto rilevante la cerimonia dello staccare e dell'appendere la rispettiva medaglia sotto la fretta concitata dell'arrivo e quella più precipitosa della partenza. 73 74 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Poi cambiò tutto anche per gli operai con l'introduzione del cartellino e della timbratura che tuttavia restavano sempre localizzati nello stesso punto. Furono piazzati diversi orologi, per evitare il formarsi di eccessive code ma rimaneva sempre il fatto che per taluni c'era un bel po' di strada da percorrere per andare (o giungere) al proprio reparto. Ed e' proprio per questo che nell'orario di mezzogiorno avvenivano delle vere e proprie corse, lungo la strada interna, per guadagnare qualche minuto in più sul tempo di pausa. In uno stabilimento così strutturato e anche frazionato, nasceva il sospetto del furto, dell'appropriarsi di qualche metro di stoffa, di seta , di lana o di cotone. Allora, per gli operai, fu instaurato un sistema di controllo casuale affidato ad un meccanismo legato all'orologio di timbratura all'uscita che al momento dell'inserimento del cartellino accendeva una lampadina rossa che obbligava l'operaio alla visita d'ispezione da parte dei controllori che avevano anche l'incarico di osservare ogni borsa che gli operai avevano con sé e che doveva essere aperta sotto i loro occhi. L'introduzione dello Statuto dei Lavoratori eliminò questo sistema che era ingiusto e che divideva, ancora una volta di fatto, le maestranze in due tronconi: gli operai e gli impiegati. Fino all'inizio degli anni Sessanta, cioè l'avvio della motorizzazione tra le grandi masse, alla Comense, per la maggior parte, si giungeva in bicicletta. Era necessario, quindi, allestire appositi spazi per posteggiare il più semplice dei mezzi di trasporto. Col tempo furono attrezzate due postazioni: una era costituita da un grande salone appena entrati, sulla sinistra, dall'ingresso degli operai e dove le biciclette venivano sistemate su dei grossi ganci appendendole per il manubrio. Un'altra sul lato opposto della strada, sulla sinistra, per accedere ai reparti a Sud. Il sistema era lo stesso, solamente che le bici erano custodite sotto una tettoia all'aperto. Era un po' emozionante osservare tutte queste biciclette, dai tipi più disparati, dal Biancone robusto nero, al tipo sportivo colorato, da quella da donna con l'immancabile retina sulla ruota posteriore per evitare che la gonna entrasse nei raggi a quella da corsa. Dal carrettone arrugginito a quella all'ultimo grido. Una cosa, tuttavia, era importante: richiuderla sempre e non lasciare attaccata alla canna la pompa. La prima era una naturale forma di protezione, la seconda una necessità perché immancabilmente spariva, così come alle volte il campanello. 75 76 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 21 - BICICLETTE, VESPE, SEICENTO E...LA FINE DI UN EPOCA Con l'inizio della motorizzazione qualcuno cominciò a parcheggiare all'interno dello stabilimento il proprio mezzo di trasporto. Certamente non tutti ma una parte di capi, capetti e di impiegati ritennero di arrivare nei pressi del loro reparto o ufficio per trovare un posto e sistemare adeguatamente il mezzo. Cominciarono a far bella mostra: Guzzi e Vespe, Gilere e Lambrette fino ad arrivare all'immancabile Seicento Fiat. Il tutto continuò per parecchio tempo con disagi, specialmente durante l'uscita del mezzogiorno(la più © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” numerosa), perché occorreva una discreta attenzione sia per chi era motorizzato che per chi proseguiva a piedi. Sembra quasi una storiella ma invece è uno dei tenti episodi che costellano la vita aziendale e che nel contempo ne evidenziano, nel bene e nel male, la sua semplice struttura, il clima “da grande famiglia” e alle volte l'estrema leggerezza o durezza delle regole interne. Il signor Bruno era giunto in Tintoria Comense nel dopoguerra proveniente dalla Fiat di Torino ed era stato Capo Officina meccanica prima e dal 1958 Capo Ufficio Tempi & Metodi. Era uno di quei Capi che parcheggiava la propria Seicento all'interno. Essendo stato un dipendente della ditta torinese era anche un cultore della seicento ed in particolar modo della sua. Era una bicolore (come allora si usava) beige con il tetto bordeaux che lui teneva lustra e sempre in perfetto ordine. Era sua cura pulirla, lucidarla, ispezionarla in ogni dove dall'interno all'esterno, dal motore alla carrozzeria. Diceva anche di aver conseguito il titolo d'ingegnere in Belgio e diceva anche altre molte cose sia personali che aziendali. Diceva e faceva poiché la manutenzione alla sua seicento lui l'attuava all'interno dello stabilimento e durante le ore di lavoro. Quando era Capo Officina si racconta che una volta, d'estate, si presentò tutto elegante con un abito di quelli cangianti e come sua abitudine decise di rafforzare la batteria aggiungendo acqua ed acido solforico. L'operazione andò certamente bene se non che alla fine prese uno straccetto imbevuto di acido solforico lo strizzò e lo sbatté così forte che una infinità di goccioline finirono sul suo ottimo abito estivo che da quel momento divenne anche traforato per via dell'acido che aveva così svolto il suo compito. Un'altra volta pulendo e accudendo la propria macchina si sporcò tutta la cravatta di grasso e di unto. Niente paura! “Portami un po' di solvente” disse al suo segretario. Smacchiò tutto per bene, anzi benissimo inzuppando tutta la cravatta e poi ordinò:“Vai sulla fucina e asciugala” Cosa che il segretario fece. Sulla fucina rovente della cravatta rimase solo il pezzetto che il solerte aiutante teneva in mano! Ma quella mattina decise di dare una bella rovistata e pulizia alla sua seicento e portò il mezzo (per lavorare bene) in un posto remoto detto dei Negher perché inizialmente era il reparto per la tintura dei filati neri e che ora era praticamente in disuso e serviva, più che altro, come deposito di tutto ciò che non era più utilizzabile. I Negher erano posizionati in un grande scantinato posto sotto l'attuale supermercato in una zona di tutta tranquillità. Ma non andò così. In quel giorno era presente, come ogni tanto avveniva, il Presidente del Gruppo, Francois Balay, che era anche uso visitare i reparti dello stabilimento. Non procedeva da solo nella sue visite: era accompagnato dall'Amministratore Delegato e da altri dirigenti. Per quale strano caso, nessuno lo sa, quella volta volle passare dai “Negher” e trovò molto impegnato nella sua operazione di revisione e pulizia il signor Bruno che indifferentemente continuò la propria opera, salutò tutti 77 78 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Ma un giorno accadde che... © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” educatamente addirittura tenendo in mano un'innaffiatoio da una parte ed un oliatore dall'altra. Nessuno profferì altre parole. La ronda andò oltre e tutto apparentemente finì. Il giorno seguente fu appeso a tutti gli albi un comunicato della Direzione che proibiva nel modo più assoluto l'ingresso nello stabilimento di qualsiasi mezzo personale di trasporto. Era la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra: quella di un modernismo giusto che toglieva, però, quel sapore nostrano di una convivenza basata sulla reciproca fiducia. 22 - ADEGUARSI AI TEMPI: LA PUBBLICITA' di Via Innocenzo XI (ben visibile percorrendo la strada in direzione sud) apparve una gigantografia a colori riproducente una macchina di stampa a cilindro con la pezza che si stava imprimendo e con l'addetto le cui mani erano pacificamente e bellamente appoggiate sui cilindri in movimento. Sotto appariva la scritta: “Noi lavoriamo così”. Capirono tutti ciò che avveniva in TICOSA! Più o meno in quegli anni l'Ing. Giulio Veronesi, che tanto operò con il suo contributo di abilità e capacità alla modernizzazione tecnica dell'azienda, decise di ritirarsi avviando un'attività in proprio. La direzione tecnica fu affidata all'Ing. Alessandro Roda, che già da qualche tempo affiancava il responsabile e che rimase titolare dell’ufficio fino alla chiusura. Nel 1962, sempre per il processo di diversificazione, si avviò anche un'attività per la produzione di articoli destinati alla cartellonistica. Forse per adeguarsi ai tempi occorreva fare della pubblicità; dare un'immagine all'azienda. In TICOSA si è sempre avuta la presunzione di saper far tutto, meglio se in proprio. Si trovò, quindi, il modo di allestire un ufficio affidandone la conduzione ad una persona estrosa quale era il Felice. Non esistono parametri per misurare se l'iniziativa sia stata coronata da successo o meno. Però alcune cose sono rimaste impresse: su alcuni automezzi fu disegnata a colori vivaci una pezza che si spiegazzava e si apriva al vento con sotto la scritta: “Nobilitazioni tessili”. Capirono tutti cosa si faceva in TICOSA. Forse per provare gli articoli destinati alla cartellonistica, su un fianco del palazzone La consueta cerimonia natalizia per quell'anno (forse il 1962) fu programmata nel salone completamente vuoto al secondo piano dello stabile di Via Innocenzo. Come già detto in precedenza tutto il grande spazio non era ancora stato occupato. La mattina della vigilia (tra l'altro nevicava copiosamente) ci trovammo tutti in questo desolato posto: freddo, grigio, scarno come può essere l'interno di un fabbricato industriale non utilizzato. Per ravvivare l'atmosfera qualcuno in precedenza aveva avuto la brillante idea di far scendere dal soffitto qua e là, delle strisce argentee, forse per simulare addobbi nordici, forse con l'intento di rallegrare i convenuti. Era questa la prima esperienza collettiva della distribuzione della tredicesima, che però raggelò tutti 79 80 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” quanti per il clima di desolazione che si era creato. L'anno successivo si corse ai ripari... Tuttavia uno spazio così grande esigeva una sistemazione che fu trovata spostando dalla tradizionale sede di Via S. Abbondio tutta la direzione, l'ufficio amministrativo, la fatturazione e l'ufficio paghe. Inoltre si era creato anche un ufficio pianificazione del lavoro, con diversi impiegati, che con il titolo di “product manager” curavano la messa in lavorazione degli ordini, ciascuno per un proprio elenco di clienti. Ora il palazzone in riva al Cosia era al completo e sulla facciata apparve anche, con le luci al neon, il logo TICOSA. La maggior parte di loro veniva convogliata al reparto Filanca, altri magari alla stampa o in tintoria. Molti di questi, però, rinunciavano quasi subito. Figurarsi! Solo pochi giorni prima avevano lasciato campi verdi o aranceti ed ora si trovavano ovattati dal baff della tintoria con l’odore aspro degli acidi e delle tinture, in mezzo all'umidità, quasi fosse una bolgia infernale! In mezzo a queste trasformazioni è bello, tuttavia, ricordarne altre non meno importanti. Abbiamo già annotato come il reparto Filanca fosse per la maggior parte composto da operai meridionali e come questi venissero reclutati alla stazione ferroviaria di Milano Centrale con l'arrivo del treno dal Sud. Quando giungevano a Como, venivano ospitati in una casaalbergo nell'attesa di una sistemazione. Inizialmente dovevano sostenere una visita medica che naturalmente avveniva nelle strutture interne, disponendo la TICOSA di un gabinetto medico comunemente detto "l'infermeria". Capitava, pertanto, di dover vedere una lunga teoria di persone, sistemata sulle due rampe di scale che portavano allo studio medico, appoggiate al muro con il pappagallo in mano nell'attesa di fare pipì per l'analisi, mentre all'interno la voce tonante del dott. Giancarlo Galfetti gridava: "avanti!" Il reparto stampa, costituito essenzialmente dal corpo a C, era suddiviso in tre settori: la stampa a quadro detta P da "plance", quella a rullo detta R e quella a manomacchina detta TX. La denominazione di quest'ultimo tipo derivava dal fatto che i primi esperimenti furono eseguiti con una macchina svedese che recava il nome di texilpex, da cui l'abbreviazione TX. Negli anni del boom iniziò anche la lavorazione delle tendine, ossia di quei tessuti prevalentemente di fibre sintetiche destinate a questo specifico tipo di arredamento. La lavorazione consisteva in una lunga e meticolosa preparazione per avvolgere migliaia di metri per volta (da 5 a 6 mila) su una grossa bobina che veniva collocata poi con un mezzo argano nella barcaccia costruita all'interno dell'azienda su consiglio del dott. Foti. Si trattava di un grosso contenitore che permetteva di purgare e tingere il tessuto in oggetto sotto pressione. Seguiva poi l'asciugatura e la spianatura su rameuses e la relativa confezione. Per molti anni questa lavorazione ha portato la sua parte di utile fino a quando i quantitativi erano ottimali. In seguito per la diminuzione della richiesta (oramai di abitazioni se ne erano costruite tante) i quantitativi diventarono meno robusti spezzettando troppo la 81 82 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” lavorazione. Attorno agli anni settanta la lavorazione fu sospesa definitivamente. Il brusio, nell'attesa, aumentava sempre più fino a smorzarsi quando improvvisamente, sbattendo la porta a ventola, la voluminosa signorina Cesarina, segretaria di direzione, precedeva il "Macchinetta" che in tuta da lavoro, berretto sul capo, stivaloni calzati, portava saldamente sotto il braccio le due cassette contenenti le "buste" della tredicesima. Poi il brusio, dopo l'attimo di stupore e di attenzione, riprendeva mentre le cassette, adeguatamente sorvegliate, venivano poste su di un tavolo pronte per essere distribuite. La direzione , tuttavia, non arrivava...aumentava invece la tensione specialmente della signorina Cesarina che, ingannando l'attesa, apriva una finestra che dava sulla via interna per osservare il tanto atteso arrivo. Agli impiegati presenti non rimaneva pertanto che ammirare il voluminoso "patapeo" della signorina in attesa di tempi migliori che poi venivano annunciati dalla stessa con voce tremante e forse commossa dicendo: " In scià! Arrivan". Allora si spegnevano tutte le luci, si accendevano le candeline sull'albero e un disco gracchiante diffondeva "Stille Nacht". Nel frattempo, approfittando del buio, le sette/otto bellezze saltavano sui tavoli ammassati sul fondo in modo che al riaccendersi delle luci erano perfettamente in mostra, favorendo addirittura la visuale dal basso verso l'alto. All'accendersi delle luci i direttori erano nella loro posizione dominante per iniziare per bocca dell'amministratore delegato il cosiddetto "discorso della corona" che altro non era se non una generica panoramica sulle cose accadute nel mondo (!) e particolari raccomandazioni alle mogli di comperare ai mariti le cravatte stampate e di mettere le gonne e gli abiti stampati se la carenza di lavoro riguardava il reparto stampa e all'incontrario se in crisi era il reparto dell'unito. Per appello nominale si procedeva quindi alla distribuzione delle buste mentre faceva la comparsa 83 84 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 23 - NATALE IN TICOSA I tempi erano maturi per modificare l'adunata natalizia e dopo la poco felice esperienza del localone dell'anno precedente si passò dall'affollata scala che portava alla direzione al salone (si fa per dire) del laboratorio anche perché per via dei contratti collettivi molte categorie venivano unificate a quelle degli impiegati. Il raduno avveniva sempre la settimana precedente il Natale attorno alle ore 17. In una atmosfera forzatamente allegra e distesa cominciavano a giungere gli impiegati che sembrava arrivassero da chissà dove, tanto ero lo stupore nel vedersi. Fatto strano era poi che finivano tutti per raggrupparsi secondo l'ufficio o il reparto di provenienza. Sempre ultimi arrivavano quelli della stampa, forse perché la loro "trasferta" era lunga dovendo attraversare tutta la Ticosa da cima a fondo, da sud a nord. Gli "organizzatori" fremevano nell'attesa dell'arrivo della direzione. In fondo al salone (!) venivano ammassati diversi tavoli e a fianco, sovente, compariva un albero di Natale con tanto di candeline. Nelle edizioni migliori del raduno a pure fatto capolino qualche giradischi. © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” qualche cameriere con bottiglie di spumante e fette di panettone. Tutti bevevano e mangiavano affrettatamente, perché ora la cosa più importante era di trovare un posto riservato in qualche reparto, o dietro una cassa al buio o addirittura al gabinetto, per aprire la busta per vedere quanta "regalia" conteneva. Non sono mancati casi clamorosi di direttori che al 24 di dicembre hanno esordito con la frase “l'occasione mi coglie impreparato” o di un'altro di recente nomina che esordì, anziché con un discorso, con un semplice ma accorato: “Ma raccumandi fieu de tirà su i manic...”. Che tradotta vorrebbe dire: "Mi raccomando ragazzi rimbocchiamoci le maniche". Se non che in dialetto comasco "manic" vuole anche dire volgarmente l'organo maschile per eccellenza.... 24 - IL FURTO DEL SECOLO Verso la metà degli anni Sessanta avvenne un fatto sensazionale: quello che fu considerato il "furto del secolo". Accadde in una notte invernale, quando, alcuni sconosciuti forzarono la cassaforte dell'ufficio paghe, appropriandosi di 20 milioni. Da qualche tempo il nuovo capo del personale era il sig. Alfonso Gagliardi e naturalmente questo ufficio era direttamente sotto la sua responsabilità. Quella era una notte stellata, tipica dell'inverno lombardo: una notte fatta per romanticismi e non per furti: ma avvenne. Ci fu chi compì il malfatto e fuggì dai tetti che da via S. Abbondio permetteva di trovarsi all'inizio di via Innocenzo XI. Non se ne venne mai a capo, anche se i giornali locali di allora titolavano i loro servizi con "Si stringe il cerchio attorno agli autori del furto". Ma gli autori rimasero impuniti e sconosciuti, la Ticosa segnò un'altro "rosso" e qualcuno uscì male dalla vicenda. Nella drammaticità del fatto non mancò, per uno strano gioco del destino, anche il lato comico. Di sicuro si accertò che il furto avvenne nelle prime ore della serata. Per uno di quegli scombussolamenti atmosferici imprevedibili più tardi la stupenda serata invernale si trasformò in una tipica nottata d'inverno con neve e gelo. Il mattino seguente qualche centimetro di neve imbrattava le strade. Le maestranze rimasero sorprese quando, recandosi al lavoro, trovarono tutti gli ingressi sbarrati. Non si entrava in ditta senza un accurato controllo personale a cura dei carabinieri. Gli zelanti rappresentanti della Benemerita obbligarono ogni dipendente ad imprimere le impronte delle loro scarpe sul retro di un tabulato in disuso. Probabilmente qualcuno si dimenticò di un particolare importante: le scarpe messe quel mattino non potevano essere quelle della sera precedente per il semplice motivo che le condizioni delle strade erano completamente diverse... 25 - AMORI, ...CHIACCHIERE MATRIMONI, AMANTI E In una comunità, come quella che via via si è costituita, lungo il cammino del tempo all'interno della Tintoria Comense o della TICOSA, dove uomini e donne sono 85 86 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” stati i protagonisti assoluti dell'operosità, dell'ingegno, della bravura, della competenza tecnica, della laboriosità, dell'inventiva, della creatività e dell'impegno, qualche volta il biondo Cupido si è divertito a lanciare i suoi strali, a colpire al cuore e a legarne assieme alcuni, anzi molti. In una promiscuità vissuta per tante ore giornaliere assieme che spesso, nel totale, superava il tempo trascorso al di fuori dello stabilimento, non era improbabile che nascessero simpatie, attenzioni, che sfociassero, prima o poi, degli amori, dei corteggiamenti, ed infine dei matrimoni. Le donne erano un po' ovunque, e se si esclude la manutenzione ed il reparto di tintoria, occupavano ogni altro luogo dagli uffici ai reparti di lavorazione. Certo alcuni reparti abbondavano di mano d'opera femminile e altri meno, ma ciò era dovuto al genere di lavoro che si svolgeva in quel settore. Il reparto "greggi" dove si predisponevano le pezze per l'entrata in lavorazione, escludendo l'ufficio ed alcuni uomini adibiti al trasporto abbastanza oneroso, era costituito prevalentemente da donne che cucivano, assemblavano i giusti quantitativi per l'avvio della lunga catena di trattamenti necessari per ottenere il risultato desiderato dal cliente. Nel reparto di apparecchiatura, la confezione, ossia la presentazione del prodotto finito in pezze da 30/40 metri o anche meno o più secondo le richieste è sempre stata assegnata, in maggioranza, alle donne sia per la delicatezza dell'operazione che per la compilazione delle relative etichette di specificazione. Una considerazione a parte riguarda, invece, il reparto stampa in quanto le migliorie tecniche apportate sul finire degli anni Cinquanta, hanno quasi del tutto eliminato l'apporto del lavoro femminile. Prima di allora il loro intervento era determinante per la preparazione dei tavoli di stampa prima e per staccare le pezze stampate, dopo. Per procedere alla stampa a quadro a mano di una pezza era necessario dapprima stendere una sottopezza di tela per tutta la lunghezza del tavolo (solitamente 30/35 metri) e quindi con una particolare attenzione e abilità con gli spilli, ogni 10/15 centimetri affrancare la pezza stendendola senza pieghe per poterla, poi, stampare. Per far questo occorrevano, anche per questione di rapidità, diverse coppie per tavolo. La stamperia era situata in quello che ora viene definito il corpo a C, dalla sua forma, ed era costituito da tre piani che lateralmente ospitavano sei tavoli e centralmente otto. Il quarto piano esteso solo sul lato che guarda la via Regina riguardava la fotoincisione. Ora le coppie di donne dovevano lavorare, puntando gli spilli, parallelamente da un lato e dall'altro del tavolo. Siccome, però, i tavoli di stampa sono distanti mediamente 70/80 centimetri l'uno dall'altro, sovente capitava che lo stampatore del tavolo di fianco veniva ad incontrarsi con la donna che spillava e non era improbabile, specie se la donna era giovane e piacente, qualche "toccatina" che oggi avrebbe fatto la fortuna di avvocati sotto la voce "molestie sessuali". Un altro "posto" per cosi dire "ad hoc" era in fotoincisione. Dopo il grande salone riservato ai disegnatori ed ai lucidisti con in fondo uno studiolo per il Capo incominciava il vero e proprio reparto. Per 87 88 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” impressionare un quadro di stampa si segue, grosso modo, la tecnica riservata inizialmente alla fotografia. Il quadro che dapprima era in legno con il tessuto di seta e colorato poi di materia impermeabile color arancione è diventato poi in seguito un supporto di metallo con tessuto sintetico color azzurro - speciale gelatina- che permette di fissare, attraverso una camera oscura dove solo una grande luce e per pochi minuti, attraverso il lucido, ripete il motivo che forma il disegno di stampa. Ad ogni colore un lucido così se un disegno è a otto colori occorrono otto quadri. L'abilità dell'operatore sta nel rapportare perfettamente per ogni quadro il motivo che necessita, quindi, di diversi interventi consistenti nel fissare il lucido, coprire la parte da non impressionare con la luce, creare il buio ed accendere il faro e così via. Dal grande salone si entrava quindi nella zona operativa. Il buio la faceva da padrone tanto che i muri di uno stretto corridoio, forse un metro di larghezza ed il soffitto erano tutti dipinti di nero con una sinistra luce rossa in fondo che indicava una porta d'uscita. Il fatto era però che tanto a sinistra che a destra c'erano tutti questi piccoli posti di lavoro per la realizzazione dei quadri e che il tutto, per forza di cose , si svolgeva con l'aiuto delle tenebre. Orbene questo stretto corridoio era una "prova" non da poco per quelle donne che per lavoro o altro vi dovevano passare. Fino agli anni Sessanta il terzo piano del corpo a C era riservato al magazzino quadri. Qui erano accatastati in ordine centinaia di quadri su appositi scaffali, Vi regnava il silenzio assoluto e quasi nessuno era presente costantemente in loco. Questa zona, abbastanza tetra, spesso rappresentava un buon terreno per coloro che avevano intenzione di fare qualche "scherzo" alle donne. Tuttavia non si creda che l'occupazione maggiore fosse quella di molestare le donne, certo la promiscuità, spesso creava l'occasione, ma il buon senso, alla fine, ridimensionava il tutto. I matrimoni sono stati molti, nel corso del tempo, che si sono felicemente realizzati. Famiglie si sono così formate, sono nati dei figli e moltissimi hanno avuto un esito più che positivo. Stranamente, però, questi matrimoni si sono sempre realizzati fra operai ed operai o fra impiegati ed impiegati, fra impiegati ed operai ma mai fra un dirigente ed un subalterno. Tuttavia quando qualche matrimonio doveva essere celebrato colleghi ed amici si apprestavano ad una colletta per il regalo. A questo punto c'era sempre qualche "maneggiona" che ne assumeva le operazioni. E c'era sempre qualcuno che al momento non aveva la somma, che la portava il giorno dopo e c'era sempre qualcuno che aveva "cronicamente" la borsa stretta. Tuttavia i regali non mancavano mai ed è qui, che stranamente, diventavano tutti esperti di arredamento. I consigli abbondavano sullo stile, sulla forma, sulla qualità del regalo. Non si sono mai visti tanti esperti di vasellame come in occasione di un matrimonio. Spuntavano esperti da ogni dove: chi conosceva le ceramiche di Sevre, chi quelle di Bassano o di Capodimonte, chi a fondo tutte le specie dei cristalli di Boemia, chi sapeva tutto dell'arte povera, chi era esperto di legno massello, chi conosceva a fondo le posaterie più alla moda, chi consigliava questo o quello. Alla fine un grande pacco con i "migliori auguri" siglava 89 90 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” il tutto fra il sorriso del destinatario e la leggera forma di ironia dei donatori. Ma quel paffutello di Cupido, riccioluto e biondo, qualche scherzo si è divertito a farlo, tirando le frecce dove non avrebbe dovuto. Ed ad essere colpiti sono state persone che già avevano un legame ed anche una famiglia. Nascevano, così, quegli "amori" sottointesi che vivevano i loro "momenti" con maggior frequenza all'interno dello stabilimento. Alle volte era uno sguardo, altre una frase sussurata, un bigliettino lasciato cadere sul posto di lavoro, una telefonata galeotta, un piccolo "cadeau" per un giorno particolare (magari la vigilia di Natale o il giorno prima della chiusura per le ferie), alle volte una mazzetto di fiori e così via. Poi qualche fermata all'angolo di un reparto o di un ufficio, una piccola rincorsa lungo le scale, un (occasionale) passaggio sull'ascensore, un lieve contatto al momento della timbratura.... E per qualcuno c'erano anche i momenti forti: quelli dell'abbandono totale. Il luogo: i più inusitati. La "mansarda" così era chiamato quell'enorme costruzione posta dietro le macchine di stampa a rullo che aveva la funzione, abbondantemente riscaldato, di far asciugare le pezze fresche di stampa si prestava alla bisogna. Quando cessato il lavoro e parzialmente raffreddata, nella semi-oscurità, da una porticina ci si infilava e nel tepore si accendevano al massimo le passioni. Anche i gabinetti, strano luogo, avevano a volte il loro fascino per quelle coppie che non sapevano aspettare e che fremevano troppo. Le cataste di pezze ammucchiate al reparto greggi hanno retto il lume sicuramente a diverse coppie che nascosti sotto quintali di stoffe vivevano il loro intenso incontro. Così come qualche sgabuzzino sparso qua e la, qualche cassa tenuta volutamente vuota, e qualche tavolo sono stati complici di furtivi incontri. Ma le frecce di Cupido hanno colpito anche sul fronte dirigenziale: chi aveva le preferenze per una bionda, chi per una bruna, chi per un viso carino, chi per un corpo prorompente. Certo il tutto si svolgeva con la massima discrezione e con una "paterna" protezione. Ci sono stati dei Capi-ufficio che sono andati completamente in crisi per un'impiegata e dei direttori che sapevano "pascolare" anche fuori ditta offrendo alla bisogna dei passaggi in macchina alle dipendenti... Ma tutti questi "casi" erano inconsciamente protetti da una specie di omertà. Tutti sapevano, tutti malignavano, tutti sussurravano ma nessuno ha mai parlato, indicato, evidenziato. E le cose sono continuate fino alla fine.... Ma in mezzo all'avvicendarsi di tutto ciò sono nate anche delle primordiali "leggende metropolitane" di cui nessuno ha mai stabilito la veridicità ma a cui molti hanno creduto. E' il caso di quella giovane ragazza del reparto stampa che attendeva la "maggior età" per entrare nel giro dei bordelli e che nel frattempo si "allenava" sotto i tavoli di stampa. E' il caso di vecchi "marpioni" che non trovavano di meglio che praticare un foro nelle pareti delle docce 91 92 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” riservate alle donne per "guardare" alla maniera della cabine al mare... E' il caso di quel tale visto saltare una finestra di un gabinetto a piano terra mentre, contemporaneamente, la sua "bella" usciva bellamente dalla porta..... E' il caso di qualcuno che aveva sempre gli "straordinari" da fare che si concretizzavano con una seduta amorosa in qualche angolo remoto.... E' il caso di tante altre storie che la memoria non ricorda, che sono avvenute, che hanno avuto una loro parabola, che sono svanite avvolte nella fantasia e disperse, come nubi evanescenti, nell'oblio. 26 - LA HOLDING PRICEL Nei primi anni Sessanta la Ticosa era divenuta un'azienda facente parte della holding francese Pricel della quale la famiglia Gillet aveva assunto il controllo. Una holding di tutto rispetto che comprendeva molte altre aziende operanti non solo in Italia ma anche in Francia e in altri parti dell'Europa e del mondo. La grande famiglia di Lione decise nel 1967 di nominare membro del Consiglio di Amministrazione della Ticosa il dr. Robert Chatin che, unico esponente della proprietà lungo tutta la storia dell'azienda, si stabilì in Italia. Era forse il segno che qualcosa stava cambiando? A cavallo degli anni Sessanta/Settanta della Holding Pricel facevano parte: TICOSA (con tessuti e filati) COLORA BANFI SOCOTA TESS. SER. BERNASCONI CRESTLINER SORIM FLEXA Nel 1969 nelle Tessiture Seriche Bernasconi il capitale sottoscritto e versato era per il 31% Ticosa, il 34% Colores Holding di Basilea e il resto di azionisti estranei al gruppo. La Banfi negli anni successivi diventerà, specializzandosi, una tintostamperia per tessuti a maglia 93 94 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” con acquisto di greggio che tingeva e stampava e vendeva direttamente con notevole successo di redditività. Iniziava, forse, una generale presa di coscienza sulla "salute" della TICOSA tanto che nel 1967 si studiò anche la possibilità di trasferire tutta l'azienda fuori città. Si trattava di costruire uno stabilimento basato su criteri moderni e con impianti tecnicamente avanzati. La realizzazione fallì soprattutto per due motivi ritenuti fondamentali: il piano regolatore del Comune di Como del 1959 destinava l'immensa area della TICOSA a verde pubblico e la quasi impossibilità di reperire un'alimentazione idrica sufficiente per tutti i processi produttivi. Questi era un'importante società di cui la Pricel ne possedeva la maggioranza e che operava nel campo della spugna sintetica oltre che naturale e inoltre anche in quella di tela cellulosica per casalinghi e nastri per usi industriali. Interessi Novacel erano presenti anche in Belgio, Olanda e Germania. In Italia i suoi prodotti erano commercializzati con il marchio "Spontex". Nel 1969 sempre la Pricel con la società "Texamid" specializzata in prodotti di interno fodere da applicare ai supporti tessili secondo le esigenze inizia ad operare anch'essa in Ticosa. 27 - UN SOLO AMMINISTRATORE DELEGATO Sul finire del 1966 uno dei due amministratori delegati della Ticosa il comm. Luigi Guggiari si dimette dalla carica e ne assume, tuttavia, una analoga presso le Tessiture Seriche Bernasconi della quale era presidente il Dr. Robert Chatin dal 1967 quando la Pricel/Ticosa con il Gruppo Filande e Tessitura Costa ne avevano assunto il controllo dopo la cessazione degli eredi, del gruppo Bernasconi. In Ticosa rimaneva, quindi, un solo amministratore delegato nella persona del dr. Augusto Brunner. Il 1967, tuttavia, è destinato a rimanere nella storia dell'azienda anche per un altro provvedimento organizzativo: la suddivisione di due distinte divisioni tessuti e filati - e l'inizio in alcune aree cedute in affitto presso la Ticosa dell'attività della "Novacel". Non mancavano i campanelli d'allarme se già dai primi anni Sessanta da Lione si pensò d'incaricare un'ufficio di comprovata esperienza organizzativa per "dare uno sguardo" alla vetusta Ticosa per annotare se occorreva intervenire con qualche rimedio per aumentare la "consunta" prestazione. In effetti giunsero in Ticosa gli esperti del Gabinet Fevre di Parigi che iniziarono lo studio approfondito della situazione. Non si capì mai, però, se la direzione favorì questa operazione, evidentemente imposta dall'alto, o se fece di tutto per ingarbugliare maggiormente la situazione. In Ticosa già dal 1957 era stato costituito l'Ufficio Tempi & Metodi, proprio per studiare le soluzioni più idonee ad uno sviluppo adeguato alla produzione, al lavoro, ai metodi un po' stantii di tutto ciò che interessava la parte produttiva. 95 96 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 28 - UN CAMPANELLO D'ALLARME © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” L'impegno principale era la riduzione dei "tempi morti" ossia di tutte quelle cause extra-lavorazione che influivano, non poco, sia sul costo di fabbrica e sui tempi di consegna. Un'efficiente organizzazione deve soprattutto basare la sua impostazione su uno studio serio e concreto di ogni singola fase della lavorazione per trarne tutte le indicazioni più idonee al contenimento di quanto concorre alla sua elaborazione: mezzi, personale, materiali, energia, ecc. Forse l'Ufficio Tempi & Metodi fu voluto e realizzato da chi, in seguito, non lo valorizzò mai e che nemmeno ne accettava l'inserimento all'interno dell'azienda. Era tollerato, sopportato e forse...considerato alla guisa di un oggetto ornamentale. L'organizzazione scientifica del lavoro trova una valida conferma nello studio dei problemi organizzativi con il fine di incrementare la produttività degli uomini e dei mezzi impiegati nella produzione di beni e servizi. Pertanto ogni intervento, qualunque sia il settore, deve essere affrontato seguendo una procedura ben definita per offrire sufficienti garanzie di buona risoluzione. La costituzione di un ufficio Tempi & Metodi serve per: - un'analisi e raccolta di dati - un esame critico degli elementi raccolti - uno studio delle probabili soluzioni e la scelta di quella ritenuta migliore. Lo studio del lavoro ha, come fine principale, quello di esaminare il modo di lavorare, inteso nel senso più lato della parola, sostituendolo con un modo di procedere razionale quello approssimativo ed empirico basato sull'intuizione e la consuetudine, dando nel contempo notevoli vantaggi in produzione con spese minime. La procedura, quindi, si realizza attraverso lo studio dei Metodi e dei Tempi. Il miglioramento dei metodi di lavoro può essere esteso a tutti i più svariati campi dell'attività umana al fine di rendere minimi i tempi morti, cioè inattivi sia dell'uomo che della macchina. Nel campo del lavoro nelle aziende, il miglioramento metodi può essere applicato sia nei lavori d'ufficio che di officina e può riguardare un intero ciclo di lavorazione come una semplice operazione. Un procedimento perciò deve essere suddiviso nei suoi elementi costitutivi per farne conseguentemente l'analisi critica per poter individuare quegli elementi la cui eliminazione o sostituzione in altri più semplici e di più facile esecuzione possa renderlo più agevole ed economico. L'altro elemento indispensabile è quello riservato ai tempi di lavorazione in quanto consente di determinare la durata normale di una operazione eseguita da un normale operatore. I principali sistemi in atto per lo studio dei tempi sono: - la stima - il rilievo diretto - i metodi statistici Gli strumenti per il rilievo dei tempi sono molteplici e l'adozione di uno strumento è funzione sia della natura del lavoro sia della precisione con cui i tempi devono essere rilevati. Il rilievo diretto può essere eseguito: - con la macchina da presa cinematografica; - con apparecchi registratori del tempo; - con il cronometro: 97 98 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” - con metodi statistici; oppure, nel caso di preventivazione a mezzo di prontuari (tabelle, diagrammi, ecc.). Tuttavia nel rilevamento diretto lo strumento più usato per la sua praticità ed economicità risulta essere ancora il cronometro. dell'esercito della salvezza". Ora, gli inviati del Gabinet Fevre di Parigi erano tutti docenti universitari, non degli sprovveduti, non degli incapaci, con molti risultati positivi alle loro spalle. Ma in TICOSA furono considerati buoni a nulla, e alla fine additati come venditori di fumo. Oltre al cronometraggio nei vari reparti l'ufficio Tempi & Metodi aveva, in Ticosa, il compito anche di determinare la percentuale di ottimazione delle macchine più importanti lungo la catena di lavorazione. Per far ciò furono installati su di esse degli appositi orologi con dischetto segnalatore che piazzati sui rulli non comandati meccanicamente ma su quelli trascinati dal tessuto registravano il tempo di funzionamento e quello di fermata. Codificando i tempi di fermata si stabilivano le percentuali d'incidenza e quelle di effettivo funzionamento. Per quale motivo questo ufficio fu realizzato non lo si capì mai anche se esso rimase funzionante fino al 1972. Il vento di un eventuale rinnovamento, basato su una concezione moderna del lavoro, dalla sua esecuzione alla sua amministrazione, soffiava troppo fastidiosamente all'orecchio dei numerosi capi, capetti e responsabili. Questi traevano, invece, dalla loro presunta abilità e dal loro personalismo la forza di ritenersi superiori a tutti, quasi fossero degli intoccabili (anche perché favoriti da un paternalismo troppo evidente che aveva assegnato loro incarichi spesso superiori alle loro capacità). Infatti, vinsero la battaglia e gli organizzatori del Gabinet Fevre furono allontanati, meglio sarebbe a dire scacciati. Prima, però, stesero un rapporto dove a chiare lettere sentenziarono che con uno "staff" di quel tipo la Ticosa avrebbe avuto i giorni contati. Alla fine degli anni Sessanta la cosa, naturalmente, fu considerata con una alzata di spallucce generale. Dieci anni dopo, stranamente, la "profezia" si avverava. Il Gabinet Fevre, al contrario, propose il suo potenziamento aumentandone il personale da tre a dodici unità. Furono reclutati all'interno (secondo tradizione) dei baldi "ragazzotti" che iniziarono un corso per l'apprendimento di tutte le tecniche necessarie all'espletamento del non facile incarico. Quando, terminato il periodo dell'istruzione, gli addetti inziarono il loro compito nei vari reparti, iniziò contemporaneamente anche una adeguata opera di declassamento facendo circolare, tra l'altro, voci come "addetti" all'Ufficio Passatempi, oppure " Ecco i giovani 29 - ANICE E LIMONE E' un erba aromatica con frutti verdastri ovoidali e coperti di peluria la "Pimpinella anisam" che tutti comunemente chiamiamo Anice. La si usa, abitualmente, in farmacia, nella pasticceria e nell'industria dei liquori mentre il limone è un albero spinoso a fiori bianchi 99 100 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” venati di rosso che proviene dall'Indo-Malesia. Lo si coltiva da almeno 2000 anni nei paesi temperati-caldi per il frutto a buccia gialla o verde, ricco di succo contenente acido citrico, olio essenziale, zuccheri e vitamine. E' usato nell'industria per l'estrazione dell'acido citrico e dell'olio essenziale che si ottiene dalla buccia. Il limone ha azione dissetante, rinfrescante, astringente e antiscorbutica. I due frutti hanno affinità con le proprietà dissetanti ma difficilmente sono usati assieme, anzi sovente, sono offerti separatamente. Come mai questo accostamento tra anice e limone all'interno di una ditta di nobilitazioni tessili qual'era la Tintoria Comense o Ticosa di più recente memoria ? Occorre risalire a più di cinquant'anni fa al periodo estivo e particolarmente torrido. I pomeriggi erano veramente pesanti quando non esistevano areatori o condizionatori di sorta e nemmeno un refolo d'aria fresca filtrava da qualche parte a portare un piccolo attimo di refrigerio. Né bastava, in alcuni reparti, all'inizio della stagione, dare una pesante mano di "biancone" ai vetri dei tetti a shed per filtrare i raggi cocenti del sole e per dare la sensazione di frescura che nemmeno un pur piccolo refolo di aria riusciva ad arrecare. In tintoria dove le pezze si tingono in acqua bollente per diverse ore e dove pur con i relativi lavaggi a freddo la temperatura è sempre elevata, e si pensi a 60/70 "barche", ossia vasche di migliaia di litri di acqua, che producono contemporaneamente vapore e caldo in una giornata dove il termometro fuori supera o raggiunge i 30 gradi: un inferno ! Non diversa la situazione al reparto "confezione" dove pur non essendoci grandi fonti di calore dirette (salvo qualche vecchia rameuses e vecchio palmer) ma forse per la disposizione del reparto e per la stagnazione dell'aria, d'estate, il clima era parecchio pesante ed il grado d'umidità elevato portava ad un disagio non indifferente. Ecco allora per alleviare, come era possibile in quei tempi, la distribuzione di acqua fresca miscelata all'anice che sembrava una panacea, un oasi di ristoro, quasi un miraggio in un deserto, una luce splendente in una scena buia. In tintoria, invece, la distribuzione di acqua sempre fresca, era corretta con l'acido citrico, e la limonata così ottenuta dava quel sollievo, seppur momentaneo, che aiutava a trascorrere le ultime ore di lavoro in quell'ambiente terribilmente afoso e pesante, carico di odori, a volte nauseanti, dove gli acidi vi giocavano un ruolo importante. Certo, il caldo si "sentiva" ovunque nei reparti e negli uffici dove, in qualche caso, i ventilatori non ottenevano che di smuovere aria calda. Fu così che un pomeriggio, passando per il reparto "finissaggio", dove le macchine sono surriscaldate a temperatura elevata, all'uscita di una di queste dove le pezze si arrotolano su grandi bobine e un operaio ha il compito di sorveglianza e controllo, notai uno degli addetti, prossimo al pensionamento, che seduto davanti a queste bobine, stremato dal caldo si era completamente addormentato: le braccia a penzoloni e la testa protesa in avanti con ritmici andamenti a ciondoloni. Il tutto per la serie: "Noi lavoriamo così". 101 102 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Altro caso analogo per quella volta che avendo bisogno mi recai al magazzino scorte. Questi era ubicato sul retro del primo piano dello stabile che ancora adesso reca un grande orologio (sempre fermo) visibile da via S. Abbondio salendo a destra. Anche qui il caldo giocava un ruolo non indifferente se si tiene pure conto che il tetto si surriscaldava per la lunga esposizione al sole e che il pavimento era di legno non certamente lucidato, ma di tipo industriale che il tempo aveva reso anche carico di polvere e di terra. Ora, il materiale accatastato, dalla carta agli abiti da lavoro, dagli stivali in gomma alle matite, dalla carta igienica ad ogni tipo di spazzola e così via, pur non volendo, emanavano ciascuno il proprio odore contribuendo a diffondere una sensazione di stantio e di chiuso. Non si poteva entrare ed il richiedente doveva attendere ad una porta-sportello che l'incaricato venisse per ottenere, attraverso un buono firmato dal capo-reparto o dal capo-ufficio, ciò di cui aveva bisogno. Quel pomeriggio mi recai al magazzino. C'era un silenzio di tomba ed il caldo era opprimente. Alla portasportello non c'era nessuno: attesi e poi suonai l'apposito campanello. Ancora nessuno. Mi incuriosii e mentre attendevo che qualcuno si facesse vivo cominciai a scrutare lo studiolo che era distante circa una decina di metri. Mi sembrava di vedere qualcuno ma il buio, forse creato ad hoc, non mi lasciava molta visuale. Staccai il gancio che dall'interno fermava la porta-sportello e mi avvicinai allo studiolo. Quando fui vicino la scena mi apparve in tutta la sua consistenza: l’incaricato, anch'esso prossimo alla pensione, non solo dormiva ma russava assorto in un "coccolone" con qualche cadenzato sbuffamento. Non ebbi, dico la verità, il coraggio di svegliarlo, anzi mi allontanai in punta di piedi per non recargli disturbo: buon riposo! Anice e limone, dulz e brusch, bianco e nero, diritto e rovescio questi i contrasti di un tessuto dismonogeneo che però, trovata la giusta compattezza, quando abilità ed esperienza tecnica, alacrità e consapevolezza, formavano un tutt'uno si otteneva quel prodotto nobilitato che faceva della Tintoria Comense e poi della TICOSA il punto qualificante. 103 104 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 30 - CAFFE' E BIBITE L'estate era molto pesante, allora, quando non esistevano i distributori automatici di bevande che fecero la loro trionfale apparizione durante gli anni Settanta. E, improvvisamente, le abitudini cambiarono. Sparsi un po' ovunque divennero presto il luogo di ritrovo, il posto dove scambiare due chiacchere o solo per augurarsi la buona giornata o l'altrettanto buona serata. Essi distribuivano le bevande fredde (Coca Cola, Fanta e Sprite) oppure tè, caffè, cappuccino e cioccolata. C'erano, tuttavia, dei momenti di super affollamento come attorno alle dieci del mattino e alla sedici del pomeriggio quando addirittura bisognava mettersi in coda per potersi servire. Poi c'erano quelli che operavano non solo per se ma anche per conto di altri per cui le attese, a volte, diventavano lunghe e qualche volta snervanti. © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” 31 - TRA IL PERSONALE (di tutto un po') Sempre nel periodo estivo sul finire degli anni Quaranta o ai primi dei Cinquanta fece abbastanza scalpore il modo, forse per quei tempi, di presentarsi di uno dei più validi "piazzisti". Diverse volte lo notai, lui così spedito nel camminare, con quei suoi occhi vivaci e brillanti, con quei suoi gesti ritmici e con quella sua parlata secca, attraversare tutto lo stabilimento Nord: dalla "visita", allora situata presso il reparto confezione fino al suo ufficio, sempre in quegli anni, situato in via S. Abbondio vestito con un abito un po' troppo "avantista". Portava un gessato bleu-royal, la cravatta pure bleu a pois bianchi ed in testa una paglietta bordata bleu, come l'abito ed a pois come la cravatta. Sembrava un "figurino", uno di quei modelli uscito dalle riviste specializzate. Era certamente elegante, forse anche troppo, ma dava spesso l'impressione, magari anche sbagliata, di essere una "macchietta". Fu probabilmente uno slancio giovanile di una persona estremamente valida che poi in seguitò divenne Direttore Commerciale, Direttore di fabbrica e anche responsabile di una Divisione interna. Molti anni dopo mi recai al reparto stampa dovendo staccare la rilevazione giornaliera della saturazione di alcune macchine. L'apparecchio registratore era alloggiato in una sala adibita al controllo, da parte dei capi-reparto, dei alcuni risultati di lavorazione o agli incontri con i clienti. Quando aprii la porta rimasi stupito: davanti a me c'era un cliente tutto vestito di velluto color porpora cardinalizia, con le scarpe pure di velluto dello stesso colore e con tanto di fibbia dorata e con i capelli bianchi lunghi fino alle spalle e con un pesante ciondolo al collo. Mi chiesi "cosa fa un porporato in Ticosa?". Poi, riflettendo, pensai che non poteva essere un cardinale, tanto era il profumo che lo avvolgeva. Salutai ed uscii. Più tardi, quando seppi che se ne era andato, chiesi chi fosse. Scoprii che era il grande creatore di moda, noto in tutto il mondo per le sue bizzarrie e per il modo di trattare i colori: Ken Scott ! 32 - "LILI' MARLEN" Quella di "Lilì Marlen", così era sopranominata, è una storia che tutto sommato racchiude amarezza e sconforto e che, in un certo senso, dà l'idea di che cosa anche si vivesse all'interno della fabbrica. Si diceva che fosse diplomata alla Magistrali o che ben poco mancasse per terminare gli studi quando ebbe un crollo fisico e mentale così grave per il quale non si riprese più. Non so neppure come arrivò in Tintoria Comense: alcuni mi dissero che dapprima fosse occupata all'Ufficio paghe, sta di fatto che quando la notai era impegnata in ben diverse e povere mansioni. Era vestita in modo molto dimesso, anche con stracci rattoppati addosso, sporca e, qualche volta, non certo profumati. Veniva al lavoro a piedi scalzi, estate ed inverno, recando in mano un paio di zoccole, vecchie e consunte, che si metteva ai piedi solo a pochi mentri dall'ingresso e spesso si alimentava con gli scarti degli altri o anche rovistando fra l'immondizia. Inoltre il suo posto di lavoro era nella tromba delle scale, 105 106 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” in fondo al reparto stampa ed il suo compito era quello di accudire all'asciugamento delle sottopezze. L'operazione avveniva attraverso una serie di grossi rulli messi in verticale e fortemente surriscaldati in modo tale che dopo una lunga serie di incorsature, le sottopezze, uscissero stirate e pronte di nuovo al loro uso. Il fatto che il tutto fosse circoscritto nella tromba delle scale, quasi al buio, con questi cilindri sbuffanti vapori e con un costante odore nauseabondo, dava l'impressione, oltretutto con la sua presenza di trovarsi nell'antro del Mago. Lei così concia, così magra e, ahimè, anche brutta, sembrava la strega di Biancaneve. E allora, ogni tanto, cessato l'orario di lavoro, c'erano quattro mani che la prendevano, la denudavano e la mettevano in una grande vasca di lavaggio e compivano non solo un'opera di pulizia ma anche quella di una "umana" opera di pietà. Ma la sua condizione mentale era poi tale che raccoglieva ovunque pezzi di sapone e di saponette e se le portava a casa, ma non per usarle, ma solo allo scopo di accantonarle. Sta di fatto che ogni estate, o quasi, i vicini di casa erano costretti, dal puzzo proveniente dal suo locale, a chiamare l'Ufficio comunale competente per la disinfestazione che, tra l'altro evidenziava la giacenza di parecchi chili di sapone in putrefazione. Ma il fatto ancor più strano era che il giorno di paga trovava la strada per andare in banca a depositare tutti i suoi soldi e che alla sua morte fu trovata, sul suo conto, una somma interessante di denaro. Povera "Lilì Marlen" per lei una vita vissuta bene; per noi, invece, una vita anomala, vissuta male e povera sotto tanti punti di vista. 33 - GA N'ERA V'UNA CHE... Non sono mancate, certo, figure caratteristiche fra tutte le persone che per anni hanno lavorato nell'azienda. Ma in molti ricordano, ancora oggi, un'operaia tanto zelante ed operosa quanto abbastanza strana e dalla bocca decisamente tagliente che non risparmiava nessuno. Era una che non perdeva occasioni per dimostrare bonariamente il suo modo di essere stravagante come quando, un giorno in piena estate fu trovata con un secchio d'acqua fresca mentre si faceva le abluzioni e a chi le chiedesse il perché si dice abbia risposto: "Perché fa caldo e anche lì bisogna rinfrescarsi". Certo, l'estate a volte fa brutti scherzi, magari il sabato pomeriggio quando all'interno dell'azienda l'attenzione generale si attenua: succedeva così che, quella stessa operaia, si tuffasse, completamente nuda, in una capiente vasca di lavaggio oltre che per rinfrescarsi, anche per esibirsi in pose pseudo-erotiche... 34 - UL GRAZIANO Era uno dei personaggi più popolari all'interno dello stabilimento. Non ho mai capito quale precisa funzione svolgesse ma di certo godeva di una certa "libertà" poiché non era vincolato ad un compito unico e specifico. Non era un operaio, ne tintore ne apparecchiatore, non era uno stampatore e nemmeno fotoincisore. Credo che forse è stato, prima che io lo conoscessi, un addetto alla manutenzione, forse un falegname, e che debba aver avuto anche qualche incidente avendo nella schiena il suo punto debole. 107 108 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Piccolo, gioviale, un po' inclinato in avanti lo accompagnava quasi sempre la fedele bicicletta. Quando lo notai per la prima volta mi dissero che era addetto alla mensa. Occorre precisare che a quei tempi la mensa era intesa come una grande "cucina" dove si preparava per tutti i giorni lavorativi, unicamente la "minestra". Poco prima del fatidico mezzogiorno, un motocarro composto dalla cabina e da un assale e guidato dal "Lumazz", trasportava nei due punti, uno a nord e uno a sud, il prezioso contenuto. Ul Graziano aveva il compito di provvedere alla richiesta della verdura e di tutto il necessario per cucinare. Con lui lavoravano anche alcune operaie che chissà per quale sorte diventarono così "provette" cuoche. Nel corso di questa attività, per il suo modo di fare molto espansivo, ul Graziano, lentamente ma progressivamente finiva per contattare un po' tutti riuscendo a capirne, a sua volta, il carattere. Così, con la sua semplicità comunicativa sapeva tutto di tutti e quando poi la "mensa" divenne quasi una cosa seria con la gestione affidata a ditte specializzate ed estranee alla Ticosa, egli modificò il suo "lavoro". Continuava ad essere impegnato attorno a quella che in un Istituto o in una Scuola chiamerebbero "refezione" ma con compiti diversi, magari di controllo o semplicemente di sorveglianza. Tuttavia trovò modo di allestire nel locale mensa un piccolo "box" dove a titolo personale vendeva di tutto: saponette, carta igienica, profumi, pannolini e perfino bottoni. Siccome il tempo della mensa non occupava tutte le otto ore gli furono affidati anche compiti di carattere sociale: svolgeva ogni tipo di pratica esterna, si interessava per le carte di identità, per il rinnovo dei bolli scaduti su passaporti ed altro, sapeva consigliare per questo o quello dove rivolgersi o al comune o alla Questura o alla Prefettura prestandosi poi, per la riuscita della cosa. Pagava le bollette di luce e gas e staccava anche gli abbonamenti ai bus o alle filovie. Insomma divenne il "factotum" non della città, come nella nota opera rossiniana, ma della Ticosa tanto che addirittura più di una impiegata che abitava nella case della ditta lungo l'attuale via S. Eutichio, affidava a lui le chiavi di casa per andare alle undici e mezza ad accendere il gas per far bollire per tempo l'acqua degli spaghetti. Graziano di qua, Graziano di là, Graziano di su , Graziano di giù veramente erano in molti a chiamarlo e lui sempre ha detto di sì, sincero e quasi entusiasta. Ciao, Graziano ! 109 110 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 35 - IL TRIO STAMPA Non è questo il nome di un trio di attrazione varia, tutt'altro ! E' invece la fortunata formula, che per anni, ha diretto il reparto stampa nelle varie diversificazioni. Angelo Grassi per la stampa a quadro, Argeo Belluschi per la mano-macchina, Cesare Molteni per quella a cilindro. In precedenza i capi furono altri, ma questi non solo sono stati gli ultimi ma anche quelli che hanno diretto un periodo di massima efficienza, qualitativa e produttiva, con perizia e capacità. Il Grassi aveva doti di comando non comuni, a volte © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” anche un po' troppi rudi, ma a lui si deve una buona e assidua cura del personale attraverso addirittura dei corsi interni che , alla fine, hanno creato ottimi capi e altrettanto validi stampatori. Aveva, tuttavia, un difetto: abbondava con le multe (allora si poteva) e per questo non fu mai ben voluto. Se ne andò via, mentre stava per scoppiare la bufera, a seguito di incomprensioni con il Direttore generale. Il Belluschi, cui era affidato uno dei reparti più giovani, quello della stampa a mano-macchina, disponeva di un validissimo staff e di alcuni capi di comprovata esperienza, e pur non assumendo quasi mai atteggiamenti provocatori, sapeva cogliere il senso delle cose e con il ragionamento e la calma ( a volte celata) sapeva ottenere ciò che voleva. Quando proprio stava per "scoppiare", oppure osservando una stampa in corso di esecuzione che non lo soddisfaceva, "tirava" una "sbuffata delle sue" e se ne andava.... Di altra pasta era invece il Molteni (forse il più giovane dei tre), scattante, un po' nervosetto, di poche parole. Certo aveva qualità tecniche e sapeva svolgere con altrettanta consapevolezza il suo compito. Era supportato anche lui da uno staff di qualità nel quale qualche anziano portava l'esperienza e la saggezza di chi ha visto nascere il reparto. Anche la cucina colori era alle sue dipendenze dirette e battersi ogni giorno, anche ogni ora, fra esigenze produttive, qualità di colori, tempismo, creavano non poche tensioni, che sempre riuscì a contenere con non poco stile. Non era il trio delle meraviglie certo, ma un assieme di persone che sempre hanno collaborato al meglio per dare alla TICOSA il necessario apporto finché fosse sinonimo di qualità, sicurezza di lavorazione per la nobilitazione del tessuto. 111 112 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 36 - LE SEGRETARIE Come in ogni azienda che si rispetti per dimensione di affari, per qualità del prodotto, per il nome che porta, la segretaria o le segretarie, giocano un ruolo determinante all'interno di ogni direzione per il loro contributo in un ruolo delicato e importante. Quando nel 1947 arrivai negli uffici amministrativi della Tintoria Comense la segretaria per antonomasia era una sola: la Cesarina. Era "tanta" in tutto; nella mole (piccola e tonda), nella pluriennale esperienza, nella simpatia, nella generosità, nel ruolo che aveva ricoperto in precedenza che era, tutto sommato, anche quello che ricopriva in quel periodo. Perchè ? Era stata fino al tragico 1945 la segretaria factotum e anche confidente del Comm. Umberto Walter, il padre-padrone della tintostamperia. Conosceva tutto anche della famiglia che frequentava nella villa di Viale Geno. Dopo il 1945 divideva il suo compito tra i due pezzi grossi dell'azienda: il Dott. Augusto Brunner - Amministratore Delegato - e il Comm. Luigi Guggiari, Direttore Commerciale. Gli anni passano certamente per tutti anche la Cesarina un giorno è messa al corrente che arriverà, per aiutarla (in genere si dice sempre così) un'altra segretaria. Infatti, molto più giovane, nell'ufficio confinante con il Dott. Brunner prende posto la signora Helga. Come si nota un nome straniero che si attaglia con la persona che lo porta: carattere un po' introverso, asciutto a volte anche aspro. © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Non ci sono contrasti tra le due ma a lungo andare quasi tutto passa nelle mani della nuova arrivata e la Cesarina finisce col vivere di ricordi nel fascino di un passato che l'ha vista protagonista in assoluto di una buona parte di ogni vicenda interna ed esterna alla grande azienda. L'avvicendarsi e il susseguirsi dei cambiamenti interni, nel corso degli anni a seguire creano altre necessità. Così il Direttore di tutto il compendio Nord (tintoriafinissaggio-apparecchiatura e relativi servizi tecnici) abbisogna di una segretaria che divida pure il suo compito assistendo il Direttore del reparto Filanca. Così il Dott. Emilio Walter e il Dott. Vincenzo Foti hanno nella signorina Rosalba la collaboratrice necessaria. Simpatica, sempre gentile, ha ricoperto il ruolo in modo perfetto senza far pesare il gravoso compito che assolveva a nessuno. Quando gli eventi interni hanno portato alla ribalta dapprima il Dott. Robert Chatin e poi dal 1972 il nuovo Amministratore Delegato Hulsbus la nuova segretaria è la signorina Francesca che si è dimostrata, in quegli anni difficili, non solo all'altezza di ogni situazione, ma perfettamente coerente al suo ruolo usando con tutti un'educazione esemplare, una gentile squisitezza di carattere, una dolcezza forse inusitata fino a quel periodo. A molti sembrava ricordare la Cesarina dei primi tempi ma sicuramente con molta più classe piano spetta di diritto, all'Ufficio Paghe. Non erano poi molti gli addetti, più o meno una quindicina, ma per lunghi decenni pur alternandosi le persone, esso ha sempre rappresentato l'immagine, il volto, di quel grosso complesso. Si pensi che i pagamenti, tutti calcolati a mano, erano rivolti a tutta la maestranza che era suddivisa in operai a giornata, settimanali, quindicinali, equiparati e mensili. Fino agli anni Settanta quando iniziò ad operare il C.E.D. (Centro Elaborazioni Dati) puntualmente, alla scadenza, tutti venivano retribuiti. Il venerdì era il giorno di paga per gli operai e per anni il rituale si è sempre svolto allo stesso modo: gli impiegati dell'Ufficio Paghe si sguinzagliavano per i reparti recando sotto ascella una o più cassette contenenti le buste con i soldi tutti anche loro imbustati a mano, per la distribuzione. E tutto ha sempre funzionato per il meglio, con pochissimi errori, con pochissime contestazioni. E' doveroso ricordare tutti coloro che vi hanno lavorato, per la dedizione e la precisione del loro non facile compito. Tra gli altri: il Broli, il Masola, il Marco e il Croci che erano quelli che settimanalmente si recavano nei reparti per la distribuzione ed anche la Maria, la Lidia e l'Adone che con loro ed altri accudivano al non facile compito di contabilizzare il tutto. Ricordo pure il Girola che fu il capostipite dei Capi del Personale e poi il dr. Margara e l’Alfonso Gagliardi. Poi verso la fine fu un susseguirsi tale di nomi che vorticosamente si sono succeduti che è difficile tenere il conto... 37 - L'UFFICIO PAGHE Nella lunga storia della Tintoria Comense, un primo 113 114 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” 38 - IL TIFONE "ARGENTINA" L'attività di terzista, tuttavia, evidenziava già da tempo una situazione critica che la proprietà nel corso del 1970 tentò di rimediare anche per rimettere ordine all'interno di tutto il "gruppo" adottando un provvedimento radicale. Dall'Argentina, dove dirigeva una grande industria nel settore della lavorazione del latte la "Vascongada" - facente parte del complesso francese, fu richiamato John F. Hulsbus che godeva di grande prestigio presso la famiglia Gillet. Il 5 novembre 1970 il consiglio di amministrazione della Ticosa lo nomina suo membro. Lo stesso consiglio, contemporaneamente, prende atto delle dimissioni di Renaud Gillet dalla carica di presidente e di amministratore e nomina presidente il dr. Augusto Brunner con conferma della carica di amministratore delegato. Un altro membro della famiglia Gillet, Charles Albert de Waziers è nominato vice-presidente (era nel consiglio di amministrazione dal 25/5/1964). Il dott. Brunner rassegna le dimissioni da direttore generale e al suo posto è nominato il dott. Robert Chatin. Il 28 novembre 1970 Jhon F. Hulsbus, pochi giorni dopo il suo ingresso in consiglio d'amministrazione, si presenta ai direttori generali delle diverse società tessili del gruppo (ad esclusione della Flexa che rimarrà sempre fuori dalle sue competenze) per presentare il suo programma che, per essere realizzato, necessita di due supporti essenziali: marketing nel senso più intenso del termine e politica del personale. Il suo programma si articola poi negli obiettivi ipotizzando il 15% di profitto sul capitale investito e il 20% annuo come sviluppo dei profitti. Inoltre entro il 1971 far rientrare tutte le situazioni difficili. Osservando l'organizzazione trova quella attuale troppo semplicistica e auspica una più approfondita coordinazione. Per il personale ritiene necessaria una politica comune incentrata su un unico responsabile per tutto il gruppo. Riguardo al marketing attiva un maggior impegno personale e di gruppo con una più intensa collaborazione fra i responsabili. Secondo il suo stile nomina subito due commissioni di cui una formata dai direttori delle società del gruppo (Ricca per Banfi, Trivi per Sorim, Foti per Filanca, Bonzanigo per Colora, Brunelli per Socota, Perlasca per Ticosa, Di Lorenzo per Bernasconi) denominata "Comitato per analisi di mercato in gruppo a breve termine" i cui lavori devono concludersi entro il 1971. Questa commissione è coordinata dal dott. G. Sgarbi che in seguito sarà poi l'ultimo direttore generale della Bernasconi prima della chiusura. La seconda commissione, invece, formata dal direttore di produzione della Ticosa sig. Volmeier, dal capo contabile rag. Francesco Fiore e dal p.i. Ettore Roncoroni dirigente amministrativo e capo del personale della Bernasconi ha il compito di redigere un "manuale di politiche del personale" valido per tutte le aziende del gruppo basandosi su quanto già realizzato in proposito dall'azienda argentina "Vascongada". L'ascesa dell'uomo forte venuto dall'Argentina si concretizza nell'assemblea ordinaria del consiglio di amministrazione del gruppo Ticosa del 12 maggio 1971 115 116 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” quando il dott. A. Brunner lascia la carica di direttore generale e di amministratore delegato conservando quella di presidente e John F. Hulsbus è nominato amministratore delegato con tutti i poteri di ordinaria amministrazione. Il trio venuto da oltre Oceano elabora un piano che, a partire dal 1971, prevede l'avvio di due iniziative ritenute forti e decisive per le strategie della società: la ristrutturazione della tintostamperia conto terzi con il relativo alleggerimento attraverso un nuovo lay-out e la "verticalizzazione". Verso la metà dell'anno la proposta di trasferire tutte le lavorazioni su tessuto per conto terzi nella parte Sud dello stabilimento, razionalizzando la disposizione dei reparti e dei relativi macchinari anche rinnovandoli, investendo somme di rilievo, fu resa pubblica. L'operazione prevedeva pure più alti livelli di efficienza e di produttività. Per ottenere ciò l'azienda presentò un piano, con tanto di esposizione pubblica, che prevedeva la riduzione del personale di circa 300 unità operaie e di 30 unità tra gli impiegati. In quell'estate scoppiò la bufera! Scioperi, assemblee, cortei di protesta, ma l'amministratore delegato non cedeva di un millimetro. Da buon olandese, questa la sua nazionalità, era abituato alle lotte in "casa d'altri". Occorse la mediazione del Prefetto per trovare una soluzione. Ricordo quella mattina nel cortile della Prefettura in via Volta: quando il sig. Hulsbus scese le scale del palazzo governativo ci fu un assembramento così violento da parte dei dipendenti che lo aspettavano con una carica tale da temere per la sua incolumità. Era la prima volta che lo vedevo ma non scorderò mai la sua espressione rigida, tesa e il suo volto cadaverico. L'azienda fu costretta ad un compromesso, anche attraverso le rappresentanze sindacali, che prevedeva le dimissioni volontarie incentivate. Le conseguenze furono catastrofiche tanto che solo dopo due mesi l'azienda dovette sospendere le dimissioni volontarie: se ne andarono 200 persone tra le più valide per età e 117 118 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 39 - I "COLOSSI" ESCONO DI SCENA Tuttavia pochi mesi dopo con l'assemblea del 28 dicembre 1971 i due "colossi" del vertice aziendale che avevano portato, con il loro operato, la Ticosa ai massimi livelli escono definitivamente dagli organi amministrativi della società. Sono il Dr. Ing. Augusto Brunner, presidente e consigliere, e il comm. Luigi Guggiari consigliere. Si chiude definitivamente un'epoca, un periodo di ascesa, di affermazioni, di grandi e innovative iniziative. Nella stesso consiglio Charles Albert de Waziers diventa il nuovo presidente della Ticosa s.p.a. 40 - VERTICALIZZAZIONE Assieme al riformatore Jhonn F. Hulsbus erano giunti dall'Argentina due signori di sua completa fiducia con il compito di aiutarlo in una prima fase di studio e di controllo ed una focalizzazione dei problemi. Erano Lopez Mosquera, professore universitario esperto di problemi amministrativi/finanziari e A. Manley esperto di organizzazione e di analisi gerarchico/funzionali. © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” professionalità. Lasciarono la Ticosa i più efficienti, i migliori, gli specialisti. Rimasero gli anziani, i meno efficienti e quelli prossimi al pensionamento. Ci si preparava, insomma, al dolce...trapasso. Sorsero non poche polemiche per la conclusione di questo accordo. Decisione che molti dirigenti e parecchi dipendenti giudicarono come la causa prima del futuro dissesto aziendale Il secondo progetto quello della "verticalizzazione" partiva dalla convinzione che la commercializzazione dei vari prodotti che dovevano subire all'interno il ciclo della lavorazione (preparazione di tessitura-tinturanobilitazione in tintostamperia) potesse incrementare maggiormente la redditività complessiva. In attuazione di questo piano a seguito della messa in liquidazione delle Tessiture Seriche Bernasconi, la Ticosa versando al liquidatore Bernasconi un importo di L. 100 milioni, acquistò il marchio che godeva, malgrado tutto, ancora di un notevole prestigio. Avvenne così il trasferimento presso lo stabilimento di Como del personale ritenuto necessario a continuare per quanto concerne solo la linea dell'abbigliamento femminile, l'approntamento delle collezioni e la vendita dei prodotti finiti. Fu così costituita la "divisione Bernasconi" il cui nome al neon andò ad aggiungersi, sul palazzone di via Innocenzo a quello già esistente di Ticosa. Brancaleone" che finì, tutto sommato, col sovrapporsi a strutture, uffici e persone, già operanti creando non pochi doppioni. Certo l'operazione fu condotta nell'intento di acquisire buona parte del mercato estero in cui la "Bernasconi" aveva una parte predominante. Proseguendo nell'inserimento, però, ci si accorse che il mercato estero era immensamente frazionato con quantitativi poco remunerativi. Forse l'intera operazione aveva finito per portare a casa un'altro paziente ... in fin di vita. A seguito di questa operazione dell'inserimento Bernasconi in Ticosa i due principali azionisti Pricel/Ticosa e gruppo Costa di Genova - diedero vita ad un'altra società la "Multifibre s.p.a." che concentrando le attrezzature più valide del complesso che veniva liquidato, trasferendole tutte in un unico stabilimento a Solbiate, avesse il compito di funzionare quale primo anello della catena di verticalizzazione, fornendo alla divisione i tessuti occorrenti. Nello stesso tempo fu creata un'altra divisione denominata "Cindy" per la produzione di tessuti per la casa. 42 - AGGIUSTAMENTI DIVISIONALI Dal paese lacustre si riversò una specie di "armata Questi aggiustamenti di politica aziendale di gruppo orientati alla logica divisionale portò alla seguente situazione: TICOSA - trasformazione tessile per conto terzi BERNASCONI - converter abbigliamento femminile TUSCANY - converter abbigliamento maschile 119 120 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 41 - ARRIVANO I "LAGHEE" © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” CINDY - converter biancheria per la casa FILANCA - testurizzazione filo Accanto a queste divisioni già da alcuni anni quale converter dell'arredamento di alta qualità per la casa operava la consociata Socota s.p.a. che aveva anch'essa il compito di alimentare la tintostamperia della Ticosa. Nel 1973 sorgeva un'altra divisione a seguito dell'assorbimento parziale con il versamento di 10.000 azioni Ticosa per un importo di 150 milioni della Colora che operava in un settore abbastanza modesto della nobilitazione dei filati sintetici e artificiali. Ebbe, però, vita breve perché nel giugno del 1974 la Colora emise l'ultimo respiro. Sempre durante il 1973 per incrementare la vendita delle divisioni converter sui mercati europei l'amministrazione, malgrado l'opposizione dello staff dirigenziale, decideva di costituire due società estere una a Parigi e l'altra a Londra quali agenzie esclusive della Ticosa s.p.a. Furono pure avviate due nuove attività: quella del "Pronto Moda" con la linea "Viva Viva" ed un altra denominata "Tempo Libero" per la commercializzazione di confezioni Casual. Furono esperienze brevi e del tutto negative: la prima terminerà nel febbraio 1976 e la seconda subito nel 1975. Nel corso del 1975 veniva posta in liquidazione la Sorim s.p.a. per (strano caso) la defezione di tutti i suoi funzionari di vendita e lo scarso interesse nei suoi riguardi della stessa Ticosa. 43 - COLOSSALE TRASFERIMENTO NORD-SUD L'impresa colossale del trasferimento a Sud di tutta la parte Nord è stata l'iniziativa più difficile e meglio riuscita. Occorre dare atto alla direzione tecnica nella persona dell'Ing. Alessandro Roda della buona riuscita dell'operazione che ha permesso un perfetto allineamento ed una maggior funzionalità di tutta l'azienda. Furono studiati anche i minimi particolari, sfruttati tutti gli spazi. Modificati, rifatti, ampliati tratti già esistenti, congiunti fabbricati con altri coprendo cortili. Finalmente il lay-out era perfetto, tutto funzionava come avrebbe dovuto, però.... Furono trasferiti anche tutti gli uffici inerenti all'attività della tintostamperia compreso il Ced che oramai aveva concentrato gran parte del lavoro su di se: non uscivano solo tabulati ma anche le fatture, le paghe, la contabilità industriale, quella amministrativa e altro. Per ultimo fu ristrutturato e occupato il famoso "parallelepipedo" della non meno famosa "carbonera" che ospitò tutti gli uffici amministrativi, il Ced e la stessa Direzione. Visti i tempi il palazzo fu denominato "Forte Apaches" poiché dava l'impressione di essere l'ultimo baluardo di resistenza per un ultimo assalto. Era l'ultima speranza... e tale fu. Della vecchia e cara "Cumensa" non rimaneva ora che la parte Sud; quella a Nord, fatta eccezione per i fabbricati "Filanca" ed il "palazzone" è stata venduta al fine di realizzare economicamente per fronteggiare il...futuro. 121 122 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” 44 - LA FAMIGLIA GILLET CEDE IL CONTROLLO DELLA PRICEL 45 - SCOSSA TELLURICA NEL CONSIGLIO D'AMMINISTRAZIONE Nel tentativo di realizzare il suo piano, J.Hulsbus, operò parecchio nella distribuzione delle cariche direttive nei diversi rami della società, alternandone diverse in ruoli diversi. Su sua proposta il consiglio di amministrazione del 27 febbraio 1973 nomina direttore generale della tintostamperia conto terzi Vittorio Donadoni, assunto, qualche tempo prima, per sostituire il direttore di produzione O. Volmeier. Egli, in seguito, giocherà ruoli determinanti negli anni 78/79/80. L'11 ottobre 1976 Charles de Waziers presenta le dimissioni che il consiglio di amministrazione ratifica nella riunione del 18/10/1976 e nella circostanza nomina presidente Guy du Plessix. Ma la scossa tellurica continua nel consiglio d'amministrazione del 3 dicembre 1976 quando per cooptazione nomina amministratori Noel Goutard e l'ing. Rinaldo Mazzetti e revoca i poteri a J. Hulsbus precedentemente dimissionario. Seduta stante l'ing, Mazzetti è nominato amministratore delegato e Noel Goutard Presidente della soocietà, in sostituzione del dimissionario Guy de Plessix. Evidentemente la situazione era più seria di quanto si potesse immaginare. Da notare che Noel Goutard era, in precedenza, un esponente del nuovo Gruppo finanziario e che rimarrà presidente fino alla scioglimento della società. Nei primi mesi del 1976 accade a livello societario/finanziario un vero e proprio terremoto senz'altro causato dal preoccupante andamento del gruppo. La famiglia Gillet cede il controllo della holding Pricel, quotata alla borsa di Parigi, al gruppo Schlumberger. Il cambiamento porta al comando della finanziaria il francese Gerome Saydoux, il quale, in seguito guiderà la Pricel nel grande gruppo Schargeurs Reunis. Il passaggio è importante in quanto, in breve tempo, le azioni Pricel saranno convertite in azioni Schargeurs. Il movimento azionario reca, conseguentemente, diversi cambiamenti ai livelli più alti della Ticosa. La gestione Hulsbus dal 1971 al 1976 pur considerando la grossa mole d'iniziative e l'attuazione del piano da lui stesso presentato ed attuato non ha dato, tuttavia, i risultati che si proponeva. Di fatto gli investimenti finanziari per quel periodo sono stati di 4825 milioni. Cifra parzialmente coperta attraverso finanziamenti a lungo termine a tasso agevolato concessi dagli istituti specializzati. Nello stesso periodo il fatturato complessivo del gruppo passò da 6.500 milioni a 20.000 ma ciò dovuto anche al cambiamento del mix produttivo che ora teneva conto anche delle vendite dirette delle varie divisioni. Il 123 124 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” bilancio per lo stesso periodo annotava 2.607 milioni di perdita. L'unico anno positivo il 1973, ebbe un utile di 302 milioni. 46 - UNA NUOVA STRATEGIA L'ing. Rinaldo Mazzetti, proveniente dalla Montedison filati, imposta una strategia, molto diversa dal suo predecessore, puntando su un programma che vede al primo posto lo sviluppo delle lavorazioni conto terzi e meno vendite di tessuti in proprio. Egli vuole anche modificare il sistema interno per quanto concerne l'avanzamento del lavoro, il controllo, la contabilità industriale ed altro introducendo i mezzi moderni informativi e di gestione quali i computer piazzati nei reparti e negli uffici interessati. La proposta non verrà mai realizzata per la forte opposizione dei capi-reparto, dei capi-ufficio e di tutti coloro che nutrivano non solo avversione alla nuova metodica,(ma anche pechè temevano di perdere o d'importanza o di prestigio, per altro effimero). A far data dal 1977 inizia una vera e propria fuga di gran parte del personale dirigente che oltre ad ostacolare le politiche di ristrutturazione, produrrà all'esterno una generale sfiducia nell'ambiente tessile nei riguardi della Ticosa. La strada dell'Ing, R. Mazzetti sarà molto corta. Nel 1977, inoltre, la tintostamperia-converter Banfi s.p.a. entrava in crisi e pertanto, decidendo la sua riconversione in una azienda di nobilitazioni dei tessuti per conto terzi e l'assorbimento seppur parziale della linea creativa e commerciale all'interno della Ticosa generava, di fatto, una nuova divisione converter specializzata negli articoli a maglia per l'abbigliamento femminile. Nello stesso anno veniva incorporata l'altra controllata società Socota che metteva alla luce, così, l'ottava divisione che si occupava dell'arredamento per la casa. 47 - BILANCIO IN ROSSO Ma il 1977 era destinato proprio a segnare la storia della Ticosa presentando un bilancio nettamente in rosso con una perdita di 2.220 milioni e il contemporaneo crollo dell'attività della testurizzazione (divisione Filanca). Occorreva correre immediatamente ai ripari e di fatto la direzione della holding decideva (guarda caso) di sostituire nuovamente l'amministratore delegato. Il 22 febbraio 1978 il consiglio di amministrazione nomina Vittorio Donadoni amministratore delegato e un mese dopo, il 28 marzo lo nomina direttore generale della società. Iniziando il suo nuovo ruolo, Donadoni studia e concorda con i responsabili della finanziaria un altro piano di ristrutturazione aziendale che si concretizza nei seguenti punti: - Cessazione dell'attività della divisione Filanca entro il 31/10/1979; - Entro il 30/9/79 decisione definitiva riguardo al futuro dell'attività del tinto in filo (Colora); - Piano d'investimenti per gli anni 1978/79 e 1980/81; - Rendiconto periodico alle organizzazione sindacali sull'attuazione del piano; - Riduzione del personale in Ticosa con l'impegno futuro 125 126 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” di ricostituire l'occupazione esistente attraverso l'ipotecato sviluppo dell'azienda e favorendo l'inserimento di dipendenti nelle società (creatrice di posti di lavoro) che hanno acquistato le aree rese libere nell'area Nord; - Impegno dell'azienda a reinvestire il ricavato delle vendite di dette aree; - Impegno delle parti per ottenere dal Comune di Como la modifica del "vincolo urbanistico del P.R.U.G. da area ad uso pubblico ad area industriale". riserva speciale, l'aumento del capitale da 0 a 2 miliardi mediante l'emissione di 400.000 azioni di lire 5.000 cadauna. Dopo il confronto con i lavoratori e i sindacati in data 19 luglio 1978 il piano viene sottoscritto da tutte le parti interessate. Ma gli azionisti minori: Miranda s.a. - Partecipations Financières et Industrielles - Ticosa s.p.a. e Socota (in liquidazione) dichiarano di rinunciare al diritto di opzione. L’azionista Colores Holding s.a. sottoscrive e versa 1 miliardo e 900 milioni per 380.000 azioni e PRICEL A.G. sottoscrive e versa 100 milioni per 20.000 azioni. Non è un grande successo perché sì la società viene ricapitalizzata ma solo per coprire le perdite e per fronteggiare i debiti pregressi. 48 - SI RICAPITOLIZZA MA... 49 - IL DOCUMENTO "DONADONI" Pochi giorni dopo il 28 luglio l'assemblea straordinaria degli azionisti delibera un aumento di capitale nella misura di 2 miliardi mediante l'emissione di 400 mila azioni del valore di lire 5.000 cadauna. La Colores Holding s.a. sottoscrive e versa un importo pari ad 1 miliardo e 830 milioni e la PRICEL A.G. 29 milioni e 625 mila lire. Gli altri azionisti minori rinunciano al diritto di opzione e in tal modo l'aumento del capitale deliberato non viene realizzato. Il 18 dicembre dello stesso anno il Consiglio d'Amministrazione delibera, pertanto, la necessità di ridurre il capitale stabilito il 28 luglio, la necessità di azzerare tale capitale per le perdite degli ultimi mesi, superiori al capitale sociale, la copertura della residua perdita di lire 9.846.898 lire mediante l'utilizzo della Con tutta probabilità per "Parigi" la Ticosa era non solo in coma ma in attesa dell'ultimo respiro. A Como, invece, nessuno se ne accorgeva, nessuno si rendeva conto di ciò. Apparentemente tutto funzionava, o non funzionava, come sempre e nessuno osava pensare il peggio. Si avvertiva un certo malessere, questo sì, ma ognuno dentro di sè sperava che l'ammalato guarisse non che soccombesse. Almeno nessuno riteneva che il "paziente" fosse così grave. 127 128 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Attraverso l'apporto dei sindacati e delle forze politiche con il particolare impegno del Partito Comunista Italiano il Consiglio Comunale con la deliberazione N°1 del 21 gennaio 1979 adotta la cosiddetta "Variante Ticosa" © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” denominandola "Interventi di salvaguardia del settore produttivo - Provvedimenti urbanistici nell'ambito della Circoscrizione N°7 - Como-Centro-Como Ovest". Non è che cambi molto. Nel 1978 le perdite di bilancio si stabilirono a 1 miliardo e 276 milioni di lire e nel 1979 a 595 milioni ma stralciando la plusvalenza di 2 miliardi e 513 milioni provenienti dalla vendita degli immobili nell'area Nord esse salivano a ben 3 miliardi e 118 milioni. Il Presidente della società e amministratore delegato Vittorio Donadoni nel tentativo di salvare la Ticosa elabora un documento che verrà chiamato poi " Documento Donadoni" interessando tutte le forze politiche, sindacali, economiche e la stessa popolazione della città. Il documento reca la data 30 novembre 1979 e sottolinea, tra l'altro, che: "Consolidare e salvaguardare le attività in atto diventa uno degli obiettivi primari dell'opinione pubblica e della Società". Nelle proposte operative evidenzia la vendita a lotti della parte a Nord ad aziende che attraverso il loro operato avrebbero assicurato all'occupazione un saldo complessivo non negativo rispetto alla riduzione del personale paventata e che la Società prevedeva di realizzare. Si poteva ipotizzare un risultato finale di questo tipo: Operatore economico 1981 1978 TICOSA SpA 450 700 NOVACEL SpA 85 85 COMOFIL SpA 35 SATURNO SpA 40 - R.MANTERO SpA BERNASCONI sas BARADELLO SpA SICAR SpA SIGEDA SpA quota disponibile TOTALE 30 40 38 47 9 40 22 6 25 3 - 814 841 Dopo considerazioni e proposte riguardanti i "problemi riflessi" il Documento Donadoni concludeva così: "La lettura a posteriori della vicenda TICOSA, sia per quanto riguarda gli aspetti soggettivi - attività e pluralismo aziendale - sia per quanto si riferisce agli aspetti oggettivi - crescita dell'azienda per staccati episodi edilizi - è finalizzata a riodinare, razionalizzare, coordinare l'esistente con il futuro, al fine di non vanificare lo sforzo che in questi ultimi tempi è stato profuso dall'azionariato, dai lavoratori, dal Comune, dai Sindacati e dalle Forze Politiche". 50 - E IL RISULTATO ? Che cosa ottenne questo "Documento" ? Poco o niente e soprattutto nessuna soluzione radicale. Entrarono in scena forze sindacali e politiche con discussioni infinite con i dipendenti evidentemente scossi dalle prospettive. Da qualche tempo nell'azienda la produzione più evidente non era costituita dai tessuti ma dalle "riunioni". Si riunivano tutti in qualsiasi momento; erano in riunione gli operai, gli impiegati, i capi e i capi-macchina, i venditori con gli addetti agli uffici predisposti, i direttori. 129 130 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Non ricordo se anche gli addetti alle pulizie, ogni tanto, fossero anche loro in riunione. Dalle "riunioni" uscì di tutto un po': proposte, piani, progetti, contro-progetti, non mancarono agitazioni sindacali per accordi stipulati e poi disattesi. Insomma in TICOSA, in quell'ultimo anno, dominava il caos, il disordine, forse la paura. Da ultimo si chiamò la massima società di consulenza tecnico/amministrativa in campo tessile: la svizzera Gherzi. Anche per lei seguì la sorte di tutte le società di consulenza che nel tempo operarono, perché chiamate, in Ticosa: il nulla ! 51 - LA SITUAZIONE SI AGGRAVA La situazione è grave tanto che nel corso del consiglio di amministrazione dell'8 settembre 1980, per divergenze di vedute con il presidente Noel Goutard, Vittorio Donadoni si dimette da amministratore delegato e da consigliere. Per cooptazione è subito nominato amministratore delegato Eduardo Malone, nato a Buenos Ayres il 19/6/1949, domiciliato a Parigi e cittadino argentino. A lui viene anche assegnato l'incarico di provvedere alla vendita di parecchi immobili in V.le Innocenzo n. 70 (il famoso palazzone), altri in via S. Eutichio, a Cernobbio in via Perlasca (case date da lungo tempo in concessione ai dipendenti). Viene elaborato un ennesimo piano di ristrutturazione che prevede, tra l'altro, una riduzione del personale di 200 unità. Il giorno successivo nella riunione presso l'Unione Industriali di Como è lo stesso presidente della multinazionale, Noel Goutard a chiedere la messa in cassa integrazione a zero ore di 207 dei 514 dipendenti. L'atteggiamento degli azionisti della Pricel non lascia margini alla trattativa in ordine alla riduzione del personale. I sindacati erano da parte loro convinti che il dissesto societario fosse dovuto ad una mancata o bassa capitalizzazione e da una cattiva gestione tecnicocommerciale e dichiararono apertamente il loro dissenso soprattutto nel far ricadere sui lavoratori errori dirigenziali. Gli incontri con i sindacati continuarono in un clima sempre più difficile sinché non si arrivò ad una rottura. Prosperarono le assemblee in fabbrica, i volantinaggi, i presidi in città nel tentativo di coinvolgere nella vertenza anche tutte le altre società tessili del gruppo. La situazione, nel frattempo, continuava a precipitare. 52 - SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETA' Il consiglio di amministrazione del 29 settembre 1980 con le presenze dei sigg. Noel Goutard, Robert Chatin, Edoardo Malone e l'intero collegio sindacale nelle persone dei sigg. Dr. Pericle Piatti, Henry Rochat, dr. Vittorio Monari sindaci effettivi; tutti i soci intestatari delle 300.000 azioni sentono dalle parole del presidente che dalle situazioni patrimoniali ed economiche redatte al 30 giugno e al 31 agosto 1980, risulta che il capitale sociale è andato completamente perduto. Essendo la gestione in corso non foriera di previsioni favorevoli per il futuro in modo tale da contenere le perdite, sulla scorta degli articoli 2447-2448 del Codice 131 132 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Civile propone lo scioglimento anticipato e la sua conseguente messa in liquidazione della società. Il Consiglio di Amministrazione dopo un'esauriente discussione delibera : Nel 1978 gli azionisti hanno messo in opera un piano di risanamento articolato in sette punti: ammodernamento dei macchinari e delle attrezzature di produzione; razionalizzazione e accentramento di reparti, magazzini e uffici; sviluppo commerciale degli articoli tessili di qualità; vendita delle attività in deficit; vendita della parte di attivo immobiliare resasi disponibile; notevole miglioramento della produttività, cioè riduzione del livello occupazionale; ricostituzione del capitale e dei mezzi finanziari. Nella speranza che il realismo avrebbe avuto prima o poi il sopravvento gli azionisti hanno fornito un supporto finanziario di 9 miliardi di lire nell'arco di tempo dal 1978 al 1980 evitando in tal modo il crollo della società. A questo conferimento di capitale vanno aggiunti 4 miliardi di lire ricavati dalla vendita di componenti all'attivo immobiliare e industriale. Questi 13 miliardi sono stati inghiottiti dalle enormi perdite di gestione della società. I rappresentanti degli azionisti compiendo un ultimo sforzo e consapevoli che la sopravvivenza della TICOSA dipendeva in ultima analisi da un consenso sociale sull'obiettivo di produttività accettato da ambo le parti, si sono messi direttamente in contatto all'inizio del mese di giugno '80 con i rappresentanti di fabbrica e dei sindacati. Durante la riunione tenutasi il 9 settembre scorso con il Consiglio di fabbrica e dei Sindacati, i rappresentanti degli azionisti hanno fatto una dichiarazione precisando con chiarezza quale fosse la posta in giuoco nelle trattative, ossia l'esistenza della società. Il testo di questa dichiarazione è stato portato a conoscenza di tutti i dipendenti a cura della TICOSA. Durante le successive riunioni i rappresentanti degli azionisti hanno proposto di completare i progetti di ammodernamento e di razionalizzazione già portati molto avanti e di stanziare 8 miliardi per evitare la cessazione dell'attività, alla condizione di mettere 207 dipendenti in cassa integrazione straordinaria e conseguentemente ricorrere alla mobilità esterna. 133 134 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it 1 - di sciogliere anticipatamente la società ponendola di conseguenza in liquidazione; 2 - di nominare unico liquidatore Edoardo Malone conferendo allo stesso tutti i più ampi poteri in ordine alla detta liquidazione nessuno escluso od eccettuato; 3 - di dare mandato al sig. Malone Eduardo ad introdurre nelle presenti deliberazioni tutte le modifiche e le aggiunte eventualmente richieste in sede di omologazione. Alle ore 18,44 di venerdì 3 ottobre un Telex proveniente da Parigi, sede della multinazionale Pricel, giunge in Ticosa annunciando la chiusura e la cessazione dell'attività. IL TELEX DELLA PRICEL (dalla PROVINCIA di COMO di sabato 4 ottobre 1980) © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Su quest'ultima proposta non si è potuto addivenire ad un accordo per la posizione del sindacato rimasta immutata. Secondo tale posizione la TICOSA non si trova davanti ad una crisi strutturale di mercato, ma soltanto ad una temporanea recessione, di cui bisogna attendere la fine con la futura espansione delle vendite. Gli azionisti della TICOSA non possono fare altro che prendere atto che questa posizione è teorica e in totale contrapposizione con le proprie conclusioni e che la stessa è comunque smentita dall'esperienza degli ultimi anni e dal grave deterioramento della situazione commerciale della società. Nell'attuale contesto aziendale il Consiglio di Amministrazione e la Direzione Generale si sono trovati nell'impossibilità di esercitare il loro ruolo; consci quindi di aver fatto tutto il possibile per salvare la società, gli azionisti sono costretti a decidere la cessazione dell'attività. In adempimento del suo mandato il liquidatore Edoardo Malone deposita i libri societari in Tribunale a Milano, dove è ubicata la sede sociale della Ticosa, chiedendo la concessione del concordato preventivo che veniva rapidamente accordato. Mercoledì 8 ottobre sono numerosissimi i lavoratori che partecipano allo sciopero e al corteo che si svolge per le vie della città concludendosi con discorsi dei rappresentanti sindacali. Della vicenda si occupano il Consiglio comunale, l'Amministrazione Provinciale mentre vengono interessati anche i ministeri dell'Industria e del Lavoro e la Regione Lombardia. L'obiettivo, a questo punto, è di riprendere i contatti con la Pricel, per rimettere in gioco tutto quanto. Ma da parte francese si è irremovibili :"Nous avons tournée la page" noi abbiamo voltato pagina ribadisce, il presidente Noel Goutard. Il Tribunale di Milano nomina prima un giudice delegato poi un commissario giudiziale per avviare la procedura di concordato preventivo, chiesto dalla società. Ma il problema più grave è quello di ottenere al più presto le provvidenze della cassa integrazione per tutti i dipendenti della Ticosa, rimasti praticamente senza lavoro e senza retribuzione. Si deve, inoltre, cercare per il futuro una soluzione che consenta la ripresa dell'attività produttiva. Il presidente della Regione Lombardia, avv. Guzzetti, riesce ad incontrare Noel Goutard, il quale, pur confermando il definitivo disimpegno della Pricel per la Ticosa, mostra disponibilità in merito sia alla ricerca di qualche imprenditore che subentri alla multinazionale sia alla richiesta di cassa integrazione (che deve essere avanzata dalla azienda stessa). Le parti si ritrovano a Milano martedì' 21 ottobre presente il commissario giudiziale avv. Pedersoli per trovare un accordo. Dopo una lunghissima discussione viene raggiunto un'ipotesi per ottenere la provvidenza per i lavoratori. L'intesa prevede la messa in cassa integrazione a zero ore di tutti i dipendenti a partire dal 6 ottobre e per la durata di sei mesi. Durante questi sei mesi, (nei quali operai e impiegati riceveranno circa il 90 per cento della retribuzione fino ad un massimo di 600 mila lire), 135 136 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” l'azienda si impegnerà a trovare soluzioni imprenditoriali alternative. Se al termine dei sei mesi non si fosse raggiunto alcun risultato in merito al subentro di nuovi imprenditori, l'azienda chiederà la cassa integrazione per soli 250 dipendenti; gli altri verrebbero messi in mobilità esterna con la possibilità di beneficiare di provvidenze che assicurano circa l'80 per cento della retribuzione per altri sei mesi. A coloro, inoltre, che si licenzieranno entro il 31 dicembre verrà assicurato il pagamento della liquidazione spettante entro i primi dieci giorni del mese di gennaio 1981. L'ipotesi di accordo prevede infine che l'attività produttiva venga ripresa fino al 30 novembre '80 limitatamente alle operazioni necessarie per realizzare gli ordini cui il liquidatore ritenga possa essere dato corso. L'assemblea dei lavoratori del 25 ottobre approva a larga maggioranza questa ipotesi di accordo. Prende l'avvio l'iter relativo alla cassa integrazione e si sviluppano anche i primi contatti per la ricerca di un imprenditore che subentri. ecc.) ebbero quanto dovuto alle normali scadenze ed i creditori chirografari furono pagati al 100 per cento seppure con notevoli ritardi. 53 - LA STAMPA CITTADINA Tuttavia sia ben chiaro la TICOSA non fallì, cessò, visto la situazione economica-finanziaria, la propria attività, tanto che i creditori privilegiati (Enti pubblici, dipendenti La stampa locale già da tempo aveva sentore che qualche cosa non funzionava per il verso giusto all'interno dell'azienda se il direttore de La Provincia Gianni De Simoni,nel suo quotidiano "Fogli d'appunti" con i lettori giovedì 11 settembre '80, tra l'altro scrive: " A Como, ad esempio, c'è la crisi della Ticosa. Non è di proporzioni "oceaniche" come quella della Fiat, dove si parla di dodici/quindicimila persone da licenziare, il numero delle persone che la Ticosa vuol mettere in cassa integrazione si aggira sulle duecento unità, il quaranta per cento degli effettivi. Però il fatto per Como città è un fatto grave". Il giornale, nella stessa edizione in "Cronaca cittadina", dà notizia del ridimensionamento e il cronista così si esprime: " Che la Ticosa navighi da anni in cattive acque, a Como è noto a tutti. La principale industria della città soffre di un gigantismo cronico, che la sua posizione nel mercato e nella produzione che da tempo non consentono più, che la perdita di dieci miliardi negli ultimi tre anni dimostra ampiamente. (...) Significativi elementi di novità non sono venuti certo dal "cambio della guardia" fra il vecchio amministratore delegato, Vittorio Donadoni, e il nuovo, Edoard Malone. (...) L'alternativa non è il fallimento, ma la chiusura probabilmente sì". L'ignoto cronista aveva visto giusto ed il previsto, 137 138 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Non si trovò nessuno. La Ticosa, oramai era chiaro a tutti, non poteva essere più quella di prima. Anzi caddero tutte le illusioni o speranze e la "Cumensa" , secondo il buon detto comasco, entrò in agonia e al 1° dicembre 1980 si spense per sempre. © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” tragicamente, si attua. Sabato 4 ottobre '80 Gianni De Simoni dedica il suo editoriale alla Ticosa e scrive amaramente : " Quello di ieri resterà nella storia della Ticosa, una delle aziende più grosse nella nostra comunità, il "giorno zero". (...) Le parole sono racconto, ma quando si fanno cronaca diventano pietra. La comunicazione di cessare l'attività è giunta in Ticosa con un lungo "Telex" quando ancora si stava trattando una riduzione di personale con la messa in cassa integrazione di più di 200 operai. (...) La replica degli operai, conosciuta l'esistenza del "Telex", è stata immediata: la fabbrica è stata occupata, i sindacati sollecitano azioni di solidarietà. Se si guardano le cifre del bilancio si possono fare un paio di osservazioni: gli azionisti della Ticosa sono stati dei cretini e si sono affidati per far gestire la loro azienda a dirigenti incapaci. Non si può lasciare navigare l'azienda tra i debiti per dieci anni, poi di colpo ridimensionarla e potenziarla, come si sostiene, per poi permettere alla stessa di perdere 13 miliardi in meno di due anni, e questo senza intervenire o intervenendo solo all'ultimo brutalmente con un "ci dispiace ma non possiamo fare altro". (...) Che l'azienda sia decotta non fa impressione. Quello che fa impressione è come gli azionisti della società abbiano gettato nel "calderone" 13 miliardi in meno di due anni senza alcuna prospettiva. E' questo che segna offesa ai lavoratori e a tutta la città. (...) E' vero che la società è francese, ma il bene e il male dell'azienda erano e sono a Como". Con il titolo: "Ticosa, il giorno dopo" il direttore de LA PROVINCIA ritorna sull'argomento per l'edizione di domenica 5 ottobre, scrivendo: "Della situazione Ticosa s'è detto e tranquillamente possiamo ripeterlo, tutto il male possibile nei confronti di un consiglio di amministrazione che ha avuto piuttosto sbadatamente nei confronti di un'azienda che meritava, nei momenti di tensione e di caduta della produzione, ben altri dirigenti. (...) E' inaccettabile, invece, che avvenga una chiusura d'azienda con il preavviso di un solo "Telex". E' vero che viviamo nell' "era spaziale", ma è altrettanto vero che debbono essere mantenuti quei rapporti umani che sono alla base, anche se dilaniati da scontri, del buon senso comune". Pochi giorni dopo, mercoledì 8 ottobre, il quotidiano ed il suo direttore ritornano sul tema in occasione di uno sciopero di solidarietà indetto dai sindacati. "Oggi,la città, sciopererà per i lavoratori della Ticosa, un'azienda che è stata messa in liquidazione dal consiglio degli azionisti. Dei modi incivili usati dalla prioprietà (il "Telex") per mettere in liquidazione l'azienda abbiamo già detto tutto il male possibile. (...) Che l'azienda Ticosa andasse male lo si sapeva da tempo. Che fosse nell'aria "qualcosa" di non magico era altrettanto noto. L'azienda aveva fatto una proposta: 207 dipendenti in cassa integrazione, gli altri restano a lavorare oppure si chiude. L'aveva detto all'inizio degli incontri con il sindacato. Da parte sindacale s'è risposto con un atteggiamento altrettanto rigido: sui 207 non si discute, anzi vogliamo discutere sui futuri dell'azienda. 139 140 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” (...) Si è arrivati al muro contro muro e l'azienda di proprietà straniera, ha chiuso e i suoi bilanci in "rosso" li ha portati al Tribunale di Milano, sede della società. Valeva la pena di arrivare fino a questo punto solo per dimostrare che il sindacato è più forte dell'azienda? (...) La Ticosa è un'azienda di trasformazione e non di creazione. Più sta ferma più diventa irrecuperabile". Sabato 4 ottobre L'ORDINE titola così a sei colonne in prima pagina: "LA TICOSA CHIUDE". L'articolo scritto da Luciano Barocco inizia in questo modo: "Bien recu ?" e continua: "Così concludeva ieri un lungo telex giunto da Parigi alle 18,44 nel quale si comunicava che "Gli azionisti della Ticosa S.p.A. hanno deliberato di cessare l'attività della Società, riconoscendone con ciò l'insuccesso di lunghi e notevoli sforzi intrapresi ai fini del risanamento della Società stessa". (...) "Per oltre dieci anni - prosegue il telex - sino al 1978, la Ticosa è stato un deficit. Infatti durante sessanta anni di funzionamento le strutture della Società sono diventate ipertrofiche e gli estesissimi impianti industriali si erano resi vetusti e inadeguati. In conseguenza della concorrenza nazionale ed estera, molto più competitiva, la situazione commerciale e finanziaria della Ticosa era venuta a deteriorarsi". Il telex prosegue poi ricordando che: "Nel 1978 gli azionisti hanno messo in opera un piano di risanamento articolato in sette punti: ammodernamento dei macchinari e delle attrezzature di produzione; razionalizzazione e accentramento dei reparti, magazzini e uffici; sviluppo commerciale degli articoli tessili di qualità; vendita della parte di attivo immobiliare resasi disponibile; notevole miglioramento della produttività, cioè riduzione del livello occupazionale; ristrutturazione del capitale e dei mezzi finanziari. Nella speranza prosegue il comunicato degli azionisti - che il realismo avrebbe avuto prima o poi il sopravvento, gli azionisti hanno fornito un supporto finanziario di nove miliardi di lire nell'arco di tempo dal 1978 al'80, evitando in tal modo il crollo della Società. A questo conferimento di capitale vanno aggiunti quattro miliardi di lire ricavati dalla vendita di componenti dell'attivo immobiliare e industriale. Questi tredici miliardi sono stati inghiottiti dalle enormi perdite di gestione della Società". Il comunicato prosegue poi con una serie di valutazioni negative sull'operato dei sindacati rei, secondo gli azionisti, di essersi "opposti sistematicamente all'applicazione dei provvedimenti idonei a risolvere il grave problema". Il Telex conclude dicendo che: "Nell'attuale contesto aziendale il Consiglio d'Amministrazione e la Direzione Generale si sono trovati nell'impossibilità di esercitare il loro ruolo, consci quindi di aver fatto tutto il possibile per salvare la Società, gli azionisti sono costretti a decidere la cessazione dell'attività. A prescindere dalle gravissime perdite subite gli azionisti si rammaricano delle conseguenze sociali ed economiche derivanti da questi eventi, in particolar modo per i dipendenti". (...) La Ticosa è nella storia di Como. Se la Ticosa muore viene meno un preciso punto di riferimento per ciascun comasco. E da oggi per 514 famiglie l'incubo della disoccupazione è una realtà". 141 142 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Lo stesso giorno il giornale riserva tutta la pagina 3 alla vicenda e in un riquadro non firmato si legge anche: " La © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” realtà, oggi, è che la Ticosa dovrebbe chiudere. Anzi, per i comaschi, a chiudere sarebbe la "Comense", perchè così era chiamata. e così la conoscevano tutti, per tanti anni, quando ancora non esercitavano (o soprattutto non proliferavano) le Holdings, quando il Marketing era affidato più semplicemente alla capacità e al "fiuto" dell'imprenditore, quando la conflittualità fra le parti non aveva ritmi spasmodici, quando l'occidente dettava legge nel mondo industriale e dell'economia". tre per ogni lato è stato volutamente lasciato all'incuria generale del tempo e delle persone (barboni, diseredati, extracomunitari) che in vari periodi l'hanno abitato. E' stata realizzata, tra l'altro, anche una piccola Moschea. Ora quello che era il comparto della "stampa" è lì a testimoniare con i suoi muri fatiscenti, le centinaia di vetri rotti, di pluviali storti e gocciolanti, ricchi di scritte e di disegni la totale disaffezione, la volontà politica di volervi realizzare di tutto (troppe proposte) per non fare nulla. Titolo a sei colonne nell'edizione di domenica 5 ottobre '80 de LA PROVINCIA di COMO: “Dopo la decisione degli azionisti della PRICEL di cessare l'attività dell'azienda TICOSA: SI CERCA UNA VIA D'USCITA Lavoratori e sindacati chiedono la ripresa delle trattative - La società ha comunque già presentato istanza al Tribunale per il concordato preventivo L'assemblea permanente dei dipendenti potrebbe trasformarsi in occupazione - Programmati turni di vigilanza della fabbrica.” 54 - CIO' CHE RESTA Sono passati ventisette anni. Dopo la cessata attività il Comune di Como ha acquistato tutto il comparto Sud, cioè quanto alla fine è rimasto della grande Tintoria Comense. Ha speso circa una decina di mliardi di Lire tra acquisto e interessi sui mutui accesi per adibirlo per buona parte a parcheggio mentre la parte del corpo a C – così chiamato per la sua forma - quattro piani al centro e 143 144 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” 55 - QUANDO SI SCENDEVA IN CAMPO Naturalmente tutta la bufera della guerra e del dopoguerra aveva necessariamente affievolito questi interessi relegandoli nel dimenticatoio. Sul finire degli anni quaranta l'occasione per ricominciare fu data da un torneo aziendale organizzato dalle Grafiche Testoni che vide per l'appunto la partecipazione della squadra calcistica della Tintoria Comense. Ero giovanissimo allora e come molti miei coetanei praticavo questo sport nel ruolo, ahimè ingrato, di portiere nelle squadre che molte società minori (Baradello, Vittanese, Saturnia e altre) avevano allestito. Pertanto fui avvicinato per dare la mia disponibilità all'allestimento della "squadra". Gli allenamenti si facevano in Piazza d'Armi, che ora non c'è più, ed era precisamente dove ora sorge la chiesa di S. Giuseppe, il Distretto Militare, un parcheggio e il campetto di calcio dell'AS Cittadella. Un grande spazio che oltre a servire i militari per l'addestramento era stato anche adibito a campo di calcio con le porte regolamentari: il terreno, invece, era completamente sabbioso. Quando mi trovai per il primo allenamento mi resi conto. per la mio giovane età, che mi trovavo circondato da persone che già avevano qualche...annetto. Inoltre non conoscevo nessuno o quasi per il semplice fatto che allora non giravo per i reparti ed ero da poco entrato nella "grande famiglia". Fu un'avventura, tuttavia, che si concluse brevemente dopo qualche partita che sicuramente perdemmo. Ricordo che il capitano era il Saldarini (il popolare Canetta) che aveva avuto trascorsi nella prima squadra del Como non so se in serie C o in qualcuna altra serie minore. Aveva un bel tiro, soprattutto su calcio d'angolo, 145 146 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Letto così, questo titolo può far pensare a chissà quali avvenimenti, siano essi politici o sindacali. Niente di tutto questo. La discesa in campo è da indentersi nel senso letterale poichè il campo era quello regolamentare di calcio, con le due porte, le regolari segnature. Si scendeva in campo per degli incontri di calcio a sfidarsi come dice il Manzoni a "singolar tenzone". In un assieme così numeroso di persone sembra quasi naturale che lo sport più popolare, il calcio, abbia trovato modo di esplicarsi e di essere vissuto in prima persona da parecchi dipendenti, impegnati in ruoli diversi all'interno dello stabilimento, ma accumunati dalla passione vibrante sempre pronti a sfidarsi tra loro e non solo. In Tintoria Comense l'attività sportiva non era del tutto assente :se un Gruppo Sportivo inizialmente si occupava quasi essenzialmente di escursionismo e, soprattutto, sul finire degli anni Trenta e all'inizio di quelli Quaranta, magari sotto la spinta dopolavoristica, era attiva una squadra femminile di pallavolo che tra un turno di lavoro e l'altro si allenava in un ampio locale della "carbonaia", l'immobile dove attualmente trovano sede un fruttivendolo all'ingrosso e un negozio di abbigliamento sportivo. E' naturale che il successo fosse assicurato perchè le ragazze erano belle e slanciate e avevano la possibilità anche di metter in mostra le gambe per via dei pantaloncini corti. © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” e un buon dribbling ma il fiato era quello che era. Inoltre ricordo il centro-mediano, allora era questo il ruolo del difensore centrale, sopranominato "Scatulin", un pezzo d'uomo che si faceva rispettare. Sulla scia di questa esperienza, qualche tempo dopo, all'interno si organizzò un incontro fra impiegati tecnici e amministrativi e questo rimase nella storia l'incontro del "secolo" forse.... Il campo scelto per la contesa era quello dell'Ardita di Rebbio, quasi in fondo alla via Paoli, ed il giorno un sabato pomeriggio. Un bel pomeriggio di primavera soleggiato vide così scendere in campo le due formazioni fra il vociare dei vari sostenitori e delle numerose donne presenti. Senza allenamenti da entrambi le parti, ne poteva uscire una specie d'incontro tra scapoli e ammogliati, e invece il furore agonistico fu tale che ne sortì una gara gagliarda e combattuta con anche qualche ferito per incidenti di gioco. Dapprima ricordo l'arbitro il Sig. Galeazzi che mai mi sarei aspettato di vedere svolgere tale compito e che invece dimostrò una certa propensione anche se per lui gli anni avevano un certo peso. Vediamo ora le formazioni incominciando da quella di cui difendevo la rete e che era quella degli amministrativi e tecnici nordisti (ossia la parte nord dello stabilimento). Certamente non li ricordo tutti, per via degli anni, ma qualcuno sì: il Pozzi (ricettista di tintoria) nel ruolo di terzino, il Barella (magazzino meccanici) che si stirò al secondo pallone che prese al volo e uscì, l'Antonelli ( un capo tintorico) che si destreggiava a centro-campo, il Maggi (contabilità industriale) nel ruolo di mezz'ala che toccava di fino il pallone con al fianco il Masola ( ufficio paga) ecclettico e imprevedibile centroavanti. Poi ricordo all'estrema ala il Dott. De Matteis (laboratorio chimico) che forse accettò per spirito cameratesco in quanto, questa, era la prima partita della sua vita.... Molto pimpanti gli avversari dei tecnici sudisti anche perchè giostravano quasi sempre nella mia area con le loro candide maglie bianche. In porta c'era il Molteni (responsabile stampa a rullo), in mediana un duo catalizzatore di tutti i palloni composto da Grassi (responsabile stampa a mano) e Duvia (dispositore stampa a mano). All'attacco schieravano il Masciadri (piazzista) il Dott. Lucio Ricca (piazzista) e il Renato Piatti (piazzista) giovani che ben supportati mi diedero parecchio da fare. Come finì non ricordo ma credo che vinsero loro. Nell'intervallo la Cesarina (segretaria di direzione) distribuì arance a tutti, le donne presenti cicaleggiavano, gli uomini commentavano, i direttori presenti osservavano, e noi, rifocillandoci, speravamo in un secondo tempo al pari del primo: e così fu. Nel tempo, poi, seguirono altre sfide, ma nessuna ottenne un successo come questa. Di minore importanza anche l'incontro di qualche anno dopo che opponeva la rappresentativa della "tintoria" a quella della "stampa" e al quale presi parte. Giocammo sempre sul campo di Rebbio e con i colori della Tintoria ricordo il Lucini Guglielmo meglio conosciuto come " ul 147 148 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Memo " ( ufficio paga ), Cantaluppi Gabriele (laboratorio), " ul Nuseda " e cioè Noseda di Civiglio (tintore). l'Alfonso Vittani ( responsabile di un settore tintorico), il Ferruccio Casartelli (tintoria), il Bollini Sandro (tintoria) che a conferma delle sue abilità aveva sostenuto anche un provino per l'Inter, il Ceruti Marino (laboratorio di tintoria). e anche il velocissimo Tosca (tintore) ed il Bianchi Gianni (tintoria) che anni dopo sarebbe stato l'ultimo a chiudere per sempre la porta dello stabilimento. Certo non sono tutti, come non ricordo nessuno della formazione avversaria. Ricordo, però, il risultato: un salomonico 1-1 e che il gol da me subìto fu una classica autorete del mio difensore Memo. L'allenatore dei "tintori" era l'Angelo Lucini detto "anguila" e il massaggiatore fu un altro tintore, il Segalini. L'ultimo incontro al quale partecipai sempre imperniato sul dualismo tecnici-amministrativi avvenne, con formazioni a sette, sul desertificato campo della Miani (oratorio dell'Annunciata) nella tarda primavera del 1957. Anche qui il risultato finale fu di parità 1-1. Ma di quell'incontro ricordo soprattutto le prodigiose parate del portiere avversario: il piazzista Tonsi che sicuramente salvò il risultato. Ci sono pure da ricordare uno e due tornei interni, forse a sette giocatori, fra le squadre della Stampa, Tintoria, Apparecchio e Manutenzione con quest'ultima formazione vincitrice. Negli anni seguirono altre partecipazioni al Torneo Aziendale Grafiche Testoni ma a dire il vero la " nazionale" della Tintoria Comense e poi della Ticosa non ottenne mai risultati altisonanti. Se si esclude l'eventualità di un passaggio ai quarti persa sul campo della Lario a Monteolimpino opposti all'Omita di Albate per 3-1 e un'altra possibilità gettata al vento sul finire degli anni settatanta sul campo di Albate opposti, credo, alla rappresentativa dell'Ospedale S.Anna per passare agli incontri decisivi al fine di un risultato onorevole, tutto il resto cade facilmente nell'anonimato. E' doveroso però ricordare qualche giocatore che nel corso degli anni ha gareggiato per i colori sociali. Anche questo è un elenco incompleto pescato nella memoria: il Lietti (apparecchio), il Luciano...........(garage). il Paradiso Franco (ricettista tintoria), Fasola Marino (stampa), il Gagliardi Maurizio ( Tempi & Metodi), il Pozzi Franco ( CED ). l'Anzani Norberto (contabilità industriale di fabbrica) ma soprattutto il Chinchella (asciugamento stampa) che per molti anni è stato l'infaticabile promotore dell'attività, il paziente curatore dell'amalgama, l'allenatore di molte, più o meno fortunate, formazioni. A metà degli anni '70 la "nazionale" partecipò per l'ultima volta al torneo e il buon Chinchella mi chiamò per perorare la causa, che in termini pratici significava chiedere alla direzione i soldi per partecipare e per acquistare le divise. Ottenni direttamente dall'amministratore delegato Sig. Hulsbus l'importo necessario con un accredito di un milione. Erano quelli i tempi che l'Olanda calcistica dettava legge e sapendo che il sig, Hulsbus era olandese scelsi, assieme 149 150 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” a Chinchella, la stessa identica divisa dei "tulipani" con l'unica eccezione, la scritta TICOSA, sul retro delle maglie. Oramai il tempo del "pallone" stava finendo per tutti. Dopo pochi mesi iniziò la crisi interna e nel "pallone" finì anche la storica TICOSA. 56 - ALLE 18.08 DEL 27 GENNAIO 2007 INIZIA LA DEMOLIZIONE DEL CORPO C Un freddo pungente ha accolto le migliaia di persone che sono accorse per assistere all'inizio dell'abbattimento dell'ultimo reparto della ex tintostamperia TICOSA: quello dedicato alla stampa dei tessuti. Tre e quattro piani, nella parte centrale, che comunemente era definito corpo "C" perché aveva appunto la forma della lettera dell'alfabeto. Tra la folla c'erano molti ex dipendenti che non hanno voluto mancare all'ultimo atto della incresciosa vicenda. E c'ero anch'io. Anzi in precedenza su invito del Comune avevo registrato il commento parlato al filmato che poi su grande schermo è stato presentato come introduzione alla cerimonia risolutiva. Attendevo il momento in disparte sul lato sinistro a fianco del palcoscenico dove le personalità civili e religiose evidenziavano cosa rappresentava per il futuro della città l'ultimo abbattimento del grande stabilimento. Quando alle 18,08 la gigantesca ruspa, lentamente, si è alzata fino al terzo piano - sala A - del fianco sinistro e ha afferrato, tra le ganasce, il primo pezzo, non solo ho provato un acuto dolore al cuore ma lentamente alcune lacrime mi scendevano dagli occhi. Non credo di essere stato l'unico. Per chi ha lasciato in quello stabilimento i migliori anni della sua vita, per chi ha contribuito al suo sviluppo con il proprio lavoro, impegno e sudore, è stato come un pezzo di un qualche cosa di suo che se ne andava per sempre. IL direttore del quotidiano IL CORRIERE DI COMO 151 152 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Mario Rapisarda conclude così il suo commento per l'edizione di domenica 28 Gennaio: "La Ticosa è stata, prima della chiusura, il cuore pulsante dell'attività manifatturiera in città. Il simbolo di una Como che non c'è più. Ha dato il pane a migliaia di comaschi. Abbattere i ruderi maleodoranti di oggi è un segno di rispetto per tutte le persone che lì dentro hanno lavorato, e non certo un insulto. Le ruspe non cancellano i ricordi. Così come non lavano le coscienze di chi ha permesso uno scempio ultraventennale. Avanti con il piccone". LA PROVINCIA dedica ampio spazio all'avvenimento e in prima pagina, in neretto, si legge: "Como ha voltato pagina. Musica e fuochi d'artificio hanno accompagnato ieri pomeriggio i primi colpi di ruspa che porteranno, entro qualche mese, all'abbattimento completo della ex tintostamperia Ticosa, l'area industriale dismessa e abbandonata dal 1980, da anni indicata come simbolo del degrado e dell'immobilismo politico della città. Al suo posto, entro quattro anni, sorgerà un centro residenziale-commerciale-terziario, realizzato da una multinazionale olandese.” "E' un giorno storico per la città, un punto di svolta dal passato verso il futuro" ha detto il sindaco Stefano Bruni, ed ha aggiunto: "Se rimanesse al passato questa città rischierebbe di rimanere nel torpore e nella tristezza". Ticosa". Ventisei anni dopo la chiusura dell'ultima grande industria tessile della città, 45mila metri quadrati, una cerimonia in stile hollywoodiano, ha sancito l'avvio della demolizione dell'enorme complesso abbandonato. (...) Spenti i fuochi - e svanita la grossa nuvola di fumo - ecco il momento clou di tutta la giornata. Un fascio di luce, dal terzo piano dell'ala opposta a quella prossima alla demolizione, ha inquadrato la gigantesca tenaglia dell'escavatore al centro della Ticosa che ha dunque preso a roteare, elevandosi verso i pilastri fatiscenti. Poi è stato un attimo: agganciato il primo pezzo di calcestruzzo, sono iniziati a piovere calcinacci. Tre o quattro secondi dopo, è caduto al suolo il primo blocco della Ticosa squarciata. Un tonfo sordo e liberatorio, almeno a giudicare dallo scrosciante applauso che si è levato". Emanuele Caso per il supplemento Lombardia del Corriere della Sera del 28 gennaio 2007 inizia il proprio pezzo così: "Como ha detto addio allo "scandalo Nei giorni seguenti sono continuamente passato a seguire lo svolgimento dei lavori. Colpo dopo colpo se ne è andato, circondato dal fumo, quello che era lo stabilimento primario non solo della città, ciò che per i comaschi era motivo di sicurezza e nello stesso tempo di fierezza. Un colpo e giù....un'altro e scompare un'altro angolo....poi i ricordi....poi si offusca tutto e nemmeno si rammentano giorni e date, persone e fatti. Della Ticosa ognuno, ora, porta dentro di se tutto quello che crede opportuno ma non potrà mai scordare tutti gli anni passati dentro quella mura tra nuvole di vapore, colori, quadri di stampa, barchette per avvolgere i tessuti, e migliaia e migliaia di metri di tessuto che erano il miglior biglietto da visita di Como nel mondo. Ciao TICOSA ! 153 154 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” 57 - IN ALCUNE NOTTI DI LUNA PIENA Eppure in alcune notti di luna, quando tutto è calmo e tira solo un refolo di vento, ho l'impressione che tutto sia come prima, come venti, trenta e oltre anni fa. Sento il compressore del "nuera" che pompa, mi arriva il dolciastro e l'aspro della "tintoria" e là sul tetto della stampa svolazzano le pezze al vento. Le costruzioni dei reparti, il palazzone, ed altri edifici sono tutti illuminati, la campanella cerca-persone batte come sempre ... Tan (pausa) e poi TanTanTan (è il numero 13).... E dentro e tutto un via vai di gente...Sì, sì sono tutti i miei colleghi, gli amici e no....e tutti lavorano. Lassù all'ultimo piano i disegnatori della "Foto" sono chini sui loro tavoli, qualcuno ha un pennello in bocca e là nell'ufficio ul Facchinetti.....e poi giù ai piani il capo reparto il Grassi Angelo che circola in mezzo ai tavoli con il suo grembiulone nero con appuntato sul bavero i biglietti per ricordarsi gli impegni, e giù al primo piano nell'ufficio la Milietta, sempre indaffarata, che sta dando ordini alle sue "aiutanti": sono l'Alba e l'Egidia. Di loro sento ancora il ciabattare quando di volata scendevano le scale.... Al pian terreno ancora negli uffici l'Anna, sempre scattante e con la risposta pronta e più in là la Claudia con le sue camicette sgargianti o a pois e con i suoi anelloni nelle orecchie.... i due Capi-Reparto il Molteni per la stampa R e il Belluschi Argeo per la mano-macchina......Ma rivedo anche ul Funsin che sapeva tutto per la stampa a macchina.... Ed ecco il "Sanfor" con il Capo Zanotti che quando s'arrabbiava non solo dava in escandescenze ma qualche volta mimava anche le azioni come quando disse : "...cosa volete che mi cali i pantaloni" e lo fece. Davanti alle "mercerizzatrici" vedo ancora la figura allampanata e smunta del Lucini detto appunto "lusertun"... E il Riva portinaio all'interno della sua guardiola che quando vedeva passare qualcuno a cui doveva comunicare qualcosa batteva violentemente il righello sul vetro...tactactac... Ma prima sul piazzale del "garage" ecco il Lomazzi che sul motocarro guida il carozzone per la mensa mentre trasporta la minestra di cui, mentre, cuoceva nel locale accanto, aveva infilzato con l'immancabile stecchino che teneva in bocca i vari bocconcini di pancetta che ribollendo venivano a galla...ul Macchinetta sempre con il berretto e con gli stivali... e tra il personale della manutenzione il Capo Brusadelli in costante movimento e il vecchio Luppieri, lattoniere, che ancora sul finire degli anni Quaranta veniva al lavoro con la divisa militare da fante con gli scarponi anch'essi militari.... Sulla via che attraversa il Nord con il Sud vedo la Florinda, una vecchia signora, che arrivava d'estate con l'ombrellino stile ottocento per ripararsi dal sole e che d'inverno invece portava calzettoni di lana rosa che gli avevano dato "i me dell'America"...e poi in bicicletta l'Adone, dell'ufficio paghe, con il portapacchi sia davanti che dietro sempre pieno di verdura che lui portava dai suoi orti di Blevio. D'inverno aveva la mantella a ruota nera che ricopriva anche i portapacchi stracolmi e il tutto sembrava di vedere una statua in movimento... Ecco all'ufficio fatturazione la sciura Adele, la responsabile a cui la sorella Clementina, per rispetto dava del "lei" in ufficio e del "tu" fuori servizio. In 155 156 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” contabilità la signorina Mimì dal petto prorompente e più in là la Licia e l'Almina, una strana coppia che oltre alle registrazioni curavano un misterioso magazzino dove confluivano gli scampoli, dove si smacchiavano i pantaloni dei capi, dove sovente si confezionavano misteriosi pacchi... Sotto il portico ul Martinell, un omone grande e grosso, che poco prima di mezzogiorno correva in mensa, lì accanto, e che poi si accomodava sul suo tavolo, sotto la luce di un riflettore, a mangiare l'abbondante minestra dentro un grossa gamella (contenitore per il colore di stampa) di maiolica biancoverde chiazzata. Al suo posto di lavoro zelante come non mai all'ufficio Greggi l'Adele che conosceva a memoria la composizione e la procedura per ogni tessuto...e sempre nello stesso reparto il Livio detto ul "Maverin" perché il suo nome era Mauro con il diminutivo di Maurino. In Tintoria c'e il capo Luciano De Cesari che impartiva ordini con la sua vocina stridula e poi ecco in ricettazione il responsabile, ul Puzz ossia il sig. Pozzi che lui la voce l'aveva squillante essendo stato, come hobby, insegnante di ginnastica artistica. Fuori nel reparto c'erano il Pinguino, il Tricheco e l'Anguilla soprannomi di altrettanto bravi tintori.... Come scordarsi l'Angelo Confalonieri detto "Cunfa" che iniziò come fattorino di lusso, poi divenne capo magazziniere metalli, zelante e attivo. Con la sua calma olimpica ecco il grande "popov" come era nomato il Bruno dapprima capo officina e poi responsabile dell'Ufficio Tempi & Metodi, il quale sapeva tutto di tutti, conosceva ogni cosa, dalla letteratura all'arte, dal cinema all'anedottica: il suo grande pregio era, tuttavia, il disegno tecnico. Su al primo piano dell'apposita palazzina ecco al lavoro il disegnatore Bianchi, detto della "pertica" perché sovente lo si vedeva circolare in bici con una grossa pertica che serviva per prendere le misure scomode e il Vittorio Milini con in ispalla un'istrumento di rilevazione che nessuno aveva mai capito a cosa servisse...Mentre si ritocca la giacca ecco ul Giovanin Masett addetto all'avanzamento delle lavorazioni....ecco ora il Guido Ambrosini sempre elegante con la cravatta ed i calzini sempre dello stesso colore, tanto gentile, tanto educato, quando non si arrabbiava perché allora...non c'erano più santi in Paradiso...vedo "ul Magi" che avviò il Centro Meccanografico e alla fine divenne anche funzionario...ed ecco anche, smagliante come sempre, “la bella Tina”, che infiammò molti cuori. Poi da ultimo ecco il Gianni Chiesa, economo responsabile dell'ufficio acquisti, che per far aumentare la quantità di materiale da vendere al macero, portava e buttava personalmente nell'apposito grosso contenitore anche le scatolette di latta che usava in famiglia: marmellata, conserve, alimenti per bambini ed altro. Dimenticavo: era uno svizzero! 157 158 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Dalle ciminiere si alza un filo di fumo leggermente nerastro mentre più sotto sibila un getto bianchissimo di vapore. Da ogni reparto mi giunge il rumore della gente che lavora... Improvvisamente all'orizzonte appare una nuvola, poi un'altra ancora. Ma che è? Una tempesta? Che cos'è questo vento che si alza impetuoso? Una perturbazione fortissima - mi dicono - che giunge dalla Francia. © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” E poi ci sono i volti di tutti coloro che ho incontrato in tanti anni di lavoro comune. Li riconosco, ricordo la loro fisionomia, rivedo i loro abiti, tute, grembiuli, bluse e cappelli, ma non ricordo più il loro nome, il loro cognome allora molto famigliare.... Sono ombre, sono fantasmi, sono figure che vagano nelle mente, nel cielo di una notte di luna piena: forse sono stelle di un firmamento che si è oscurato...... Tutto si offusca...non c'è più nulla...ma dov'è la Ticosa? La "Cumensa" dei comaschi...? Non c'è più...non c'è più. Era la più grande tintostamperia per conto terzi d'Italia e forse d'Europa. CHISSA' ? Sono passati ventisette anni da quei primi di ottobre del 1980 quando, quasi inaspettatamente, i fumi bianchi di vapore cessarono per sempre d'innalzarsi nel cielo autunnale di Como; quei fumi che indicavano l'operosità della TICOSA. Un giovane che si trovi ora a passare da via Grandi potrebbe anche chiedersi cosa rappresentino l'immagine decadente dei fabbricati industriali che si trova davanti. Egli, non sa, che quelli sono i "ruderi" del più grande opificio per conto terzi nel campo delle tintostamperie operante in Europa e ciò accadrà, se la situazione non cambierà velocemente, anche per le generazioni future. Se finalmente si metterà opera alla ristrutturazione di tutto il largo comprensorio cambierà sostanzialmente la struttura attuale e così, per una tragico destino, scomparirà un'altra fetta del passato cittadino. Certo il progresso avanza, ma inesorabilmente cancella le tracce del passato. Nella Tintoria Comense, poi divenuta Ticosa, si lavorava ogni tipo di tessuto, dai filati di seta dei primi anni, alle fibre sintetiche degli ultimi tempi, passando per cotone, lana, fiocco, viscosa, acetato e misti. Si tingeva, si stampava, si apprettava con tutte le operazioni relative di preparazione e finissaggio. La sua produzione raggiungeva quotidianamente i 200/250 mila metri di tessuto. Nel corso degli anni le lavorazioni, naturalmente, cambiarono: dai filati si passò alla lavorazione dei tessuti in largo per finire con la maglieria. Attraverso il reparto Filanca si passò all'elasticizzazione del filato sintetico così come in 159 160 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” precedenza per il fiocco si brevettò l'antipiega. Inoltre secondo le varie mode ed esigenze non si possono scordare le lavorazioni per l'effetto clò-clò, per la stampa a flock, la tintura delle tendine, così come il passaggio dalla stampa a tampone a quella a quadro, da quella a mano-macchina a rullo e alla rotativa. Per far tutto ciò occorreva tanta maestranza assortita nelle varie specialità, tante persone, tanto lavoro. Il corpo a C, era il cuore del reparto stampa e comprendeva 64 tavoli di stampa a mano, 6 impianti di stampa a mano-macchina, 3 rotative e 9 macchine per la stampa a rullo. Oggi di tutto questo è rimasto solo il ricordo in chi, fra quelle mura, ha sudato, faticato, lavorato, creato e dato. La città di Como, la sua Amministrazione, gli industriali, le associazioni, i sindacati devono fare in modo di ricordare, alle generazioni future, ciò che ha rappresentato quell'industria, quell'opificio, quel fumo bianco che per decine e decine di anni saliva verso il cielo per indicare lavoro, benessere a molte famiglie, per essere il distintivo di una città che, della seta e dei tessuti, ha fatto il marchio della sua popolarità. Migliaia e migliaia di lavoratori in quel luogo hanno passato anni di lavoro, generazioni di comaschi sono passati entro quelle mura, tutta una zona si rifletteva attorno a quelle ciminiere. Quando tutto sarà cambiato, auguriamoci che si possa trovare un'aiuola per far sorgere un piccolo monumento al TINTOSTAMPATORE emblema di una città, di una ditta, di un modo di essere comasco. Chiedo troppo ? A la fin de la fera L'éra ul vantu de Comm, Dopo la rana del Domm. La faseva séda, articial e lana De quatà ul caminùn de la Fagnana. Na faseva propri de tutt i culuur, Cun tintuur, apprettaduur e stampaduur. Gh'éra la Purga, ul Sanfor e la Sbianca E dopu g'àan tacalà anca la Filanca Gh'éra déntar propri de tutt, Legnamèe, trumbèe, mecanich e magütt, Piazista, autista,impiegaa e dutur Donn,òman, giuin e vécc lavuraduur. Gh'évan un gran de fà prim de séra Per fala finì in fin de la féra tuta quéla roba béla e lavurada De spedì per véss po fatürada. Quanti métar, quanti pézz, che lunghéza Cume l'é 'na strada in tuta larghéza. Tüta tengiüda o stampada a fiuur Fada cun passiun e tantu amuur. L'éra de utubar, quel brut dì Che ànn deciduu de fala finì. Sérum püssèe de mila a chi temp là Adéss semm in pooch e vémm a ca. 161 162 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it © Sandro Cima Vivarelli Quando era “La Comense” Pora gént, pora TICOSA, pora Cumensa Dopo tantu lavurà : che ricumpensa ! Fra un puu de témp, de tüta quéla gént Chi sa' recordarà, che l'è stada dént ? Almén in un pradéll, in un cantun Un zucurott, un quàdar, un cassùn 'Na spatula, trii gugitt, 'na barchéta Del tintostampaduur: la statuéta. RIFERIMENTI 1 ) Cartella "Comense" presso C.C.I.A.A. di Como 2 ) Ettore Roncoroni, Gillet-Tintoria Comense-Ticosa, Notiziario Tecnico Tessile N°3 1996 Ass. Ex-Allievi Istituito Nazionale di Setificio - Como 3 ) Como 1980 di Antonio Marino, Carlo Briccola, Pierangelo Marengo, Pier Luigi Comerio. Adéss, l'è propi finida. Stavolta Un pulverùn, e la va giù un tocch a la volta. Che nébia, che tristéza. Pica, picùn Vütum, a mandagiù ul magun ! E mò adéss,in fin de la féra Anca per Lee gh'è vegnù giù La séra! Sandro Cima 163 164 Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it Libro scaricato dal sito www.quandoeralacomense.it