Quando era “La Comense”
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““SSoonnoo eennttrraattoo ccoonn ii ppaannttaalloonnii ccoorrttii
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QUANDO ERA
“LA COMENSE”
Dedicato a tutti coloro
che in quella tinto-stamperia
spesero anni della loro vita
LLaa TTiiccoossaa vviissttaa ddaallll’’iinntteerrnnoo
SSttoorriiaa ee aanneeddddoottii ddeellllaa ggrraannddee aazziieennddaa
ccoom
maassccaa
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Quando era “La Comense”
LA FONDAZIONE
Era la più grande tinto-stamperia per conto terzi italiana.
Nel 1863 il milanese Saba Frontini, abitante a Como nel
Borgo di S.Abbondio, dà vita ad una attività di tintura
filati di seta impiegando circa trenta operai.
Il 10 ottobre 1872 nasce, sullo stesso luogo, la “Società
Anonima Tintoria e Apparecchiatura Comense” che
rileva la ditta di Saba Frontini e nomina, attraverso il
consiglio di amministrazione, nella qualità di Direttore e
vice-direttore i figli del precedente proprietario.
Ai primi del XX secolo una potente dinastia industriale
francese, la famiglia Gillet, già proprietaria di
stabilimenti di tintoria in Lione ed in altre nazioni,
decide di investire a Como per vincere la concorrenza di
altre tintorie estere operanti in città.
La Gillet & Fils ha sede a Lione come società in nome
collettivo al n.8 Quai de Serin: è stata costituita il 1°
Luglio 1875.
Nel 1902 la ditta Gillet avanza la proposta di acquistare
la “Società Anonima Tintoria e Apparecchiatura
Comense”.
Il 14 marzo il quotidiano LA PROVINCIA scrive:
"Sembra che il grandioso nostro stabilimento cittadino,
Tintoria Comense, sia stato acquistato dalla potente ditta
Gillet di Lione. I giornali di Milano assicurano della cosa
già combinata ed al proposito verrebbe convocata
l'assemblea degli azionisti per ratificare il contratto".
Il giorno seguente il Consiglio D'Amministrazione,
anche attraverso la stampa, smentisce la notizia.
Martedì 8 aprile lo stesso Consiglio comunica
ufficialmente però che per il giorno 20 è convocata
l'assemblea generale dei soci che vede all'ordine del
giorno, tra l'altro: comunicazione della proposta
pervenuta al Consiglio per la vendita dello stabilimento
alla ditta Gillet e figli di Lione e relativa deliberazione.
LA PROVINCIA di lunedì 21 maggio riporta in
consuntivo i seguenti dati: "Sono ammessi alla votazione
135 soci in rappresentanza di 3633 azioni. Risultato:
SI 2039 per la reiezione
NO 1536 per la vendita ".
Il giorno seguente il titolo del giornale non lascia dubbi:
“LA TINTORIA COMENSE RESTA COMASCA”
Il 1° maggio 1904 la Gillet & Fils acquista la Tintoria
Castagna di Piazza Castello (l'attuale piazza del Popolo).
Lo stabilimento era localizzato nella zona dove ora sorge
l'ex Casa del Fascio, la sede della ASL e quella
dell'INPS.
Tuttavia l'attività avrà breve durata (fino al 1906).
Rappresentante della società francese è nominato in data
16 maggio 1904 il Sig. Ivo Walter.
La chiusura della Tintoria Castagna comportò lunghe e
laboriose trattative con il Comune di Como. Infatti lo
stabilimento si approvvigionava dell'acqua necessaria
lungo il torrente Vòo nelle proprietà della signora Emilia
Bonola, moglie di Ivo Walter, ed il Comune ritenne
opportuno poter intervenire per allargare la propria rete
distributiva.
Alla fine si conveniva che per l'importo di 360.000 lire il
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Quando era “La Comense”
Comune di Como acquistava lo stabilimento ex
Castagna, ora Gillet.
Sembra strano ma la necessità di approvvigionamento
idrico ritorna d'attualità, per il Comune di Como, anche
alla chiusura del 1980, ben settantaquattro anni dopo.
Con l'acquisizione di tutto lo spazio sud il Comune potè
usufruire anche dell'impianto di pescaggio dell'acqua del
lago e se ne servì, subito, per integrare dapprima
l'impianto di distribuzione dell'acqua potabile e poi
definitivamente filtrando l'acqua del lago e dandola...da
bere ai cittadini.
Joseph Gillet, non disarma, anzi intensifica il proprio
interesse e acquista tramite Ivo Walter terreni a
Tavernola in Via Polano e altri in città. Il terreno di
Tavernola in gran parte rimasto senza edifici, venne in
seguito lottizzato e dato in uso gratuito a dipendenti e
pensionati che ne ricavarono orti ad uso personale. Dopo
la seconda guerra mondiale furono costruiti tre complessi
abitativi destinati a dipendenti della Società e di una
consociata.
Il 10 luglio 1906 la ditta Gillet & Fils acquista la
Tintoria Comense (ex Saba Frontini) per l'importo di L.
1.625.000.
Precedentemente Ivo Walter aveva segnalato alla Casa
Madre di Lione che tecnicamente l'azienda di Piazza
Castello era in condizioni molto arretrate e necessitava di
una conduzione non solo più moderna ma anche con
capacità organizzative migliori.
Accompagnato dallo stesso Charles Gillet giunge a
Como un tecnico francese, Charles Marnas, che
diventerà in seguito uomo chiave per l'attività in Italia
del complesso Gillet-Comense.
La nuova società riprende l'attività della “Tintoria
Comense” denominandosi “Tintoria Gillet & Fils
Como”. Ne sono direttori gli stessi responsabili della
Gillet- Castagna: Ivo Walter e Charles Marnas.
Alla fine del 1909, dopo 30 anni di collaborazione col
gruppo, Ivo Walter lasciava la Direzione e vi subentrava
Charles Marnas.
La potenza espansiva della società lionese continua
subito dopo la cessazione della prima guerra mondiale.
Infatti il 30 novembre 1918 la Gillet & Fils acquista da
Arturo Pessina lo stabilimento di tintoria e
apparecchiatura di Tavernola. Era stato costruito nel
1912 ed era specializzato per la tintura e la carica della
seta. Il rilancio e la riorganizzazione di questo
stabilimento sono affidati al signor Pierron che era
discendente della famiglia di Marie Pierron, moglie di
Francois Gillet, genitori di Joseph Luois Gillet fondatore
della società.
Nel 1919 la Gillet & Fils acquista il primo lotto di
terreno a sud dello stabilimento di Via S. Abbondio.
Dal 1° dicembre 1919 nasce la “Società Anonima
Tintoria Comense - già Gillet & Fils” - con sede in
Milano in Via Cerva, 35. La nuova Società viene
costituita con un capitale di L. 4.000.000. La Gillet &
Fils sottoscrive azioni per un valore di L. 3.500.000
mediante gli stabili e l'attività della Gillet & Fils di Via
S. Abbondio, dei beni in località S. Giuseppe, dello
stabilimento, della villa e del fabbricato rurale di
Tavernola ex Tintoria Arturo Pessina; L. 500.000 sono
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versate in contanti dal sig. Charles Marnas.
Il Consiglio di Amministrazione è così composto:
Edmond Gillet, Paolo Gillet, Carlo Gillet, Enrico Balay,
Carlo Marnas. Sindaci effettivi Ivo Walter, avv. Renzo
Pirovano, Luigi Scatin. Supplenti Leone Cristmann,
Francois Balay. Presidente è nominato Edmond Gillet.
Charles Marnas azionista per 1/8, già Direttore Generale
della Casa Madre a Lione termina in questa occasione la
sua attività e lascia il posto a due giovani successori:
Umberto Walter e Antonio Albertini.
Entra sulla scena Umberto Walter con la procura per gli
atti di ordinaria amministrazione. Fino ad allora
ricopriva la carica di Capo Reparto stoffe ed
apparecchiatura. Ancora ventenne era entrato nella
società nel 1908, dopo esperienze nel settore in Francia,
Germania e Stati Uniti. La stessa procura è pure
conferita ad Antonio Albertini che in precedenza aveva
ricoperto la carica di Capo Reparto “fabbricazioni
chimiche e recuperazioni”.
Nel 1923 la “Tintoria Comense” acquista anche il
secondo lotto del terreno a Sud e poi ancora altri terreni
adiacenti fino a raggiungere la massima estensione di
87.000 mq. di cui 42.000 sono a Nord e 45.000
posizionati a Sud.
1 – DAL 1924 AL 1946
La brillante situazione economica-finanziaria spinge a
molte innovazioni (alcune all'avanguardia) sia nel settore
tecnico che in quello delle costruzioni tanto che proprio
nella loro erezioni veniva applicato l'uso del cemento
armato, per la prima volta, negli opifici industriali.
Nel 1927/28, tra l'altro, avveniva la costruzione di un
impianto che automatizzava e rendeva più veloce
l'alimentazione delle caldaie con un alta resa tecnica. La
carbonaia (eretta a Sud al confine con la Via Regina)
conteneva fino a 2.000 ton. di carbone che per mezzo
delle pale di un mulino veniva polverizzato e attraverso
compressori spinto in un tubo di 120 mm di diametro
giungeva alle caldaie.
Nello stesso periodo è pure realizzato l'impianto per la
presa d'acqua a lago che sottolinea la grandiosità e lo
spirito innovatore della direzione e della ditta.
Il 26 gennaio 1933 XI E.F. a seguito anche della grande
crisi economica mondiale del 1929 con pesanti
ripercussioni sul settore serico comasco la GilletComense decide la chiusura dello stabilimento di
Tavernola accentrando il tutto nello stabilimento di Via
S. Abbondio.
Nel marzo del 1937 Antonio Albertini si dimette sia da
Consigliere che da Direttore della Società. La carica di
direttore viene affidata ad Umberto Walter che conserva
sia la carica di Consigliere che quella di Amministratore
Delegato.
Nel giugno del 1937 la società comunica alla Camera di
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Commercio di Como che alla normale attività produttiva
si aggiunge anche la coesionatura delle fibre artificiali e
l'esercizio in proprio dei trasporti.
Il Consiglio di Amministrazione con delibera in data 30
agosto 1937 affianca all'Amministratore Delegato il Dr.
Ing. Augusto Brunner nella carica di Direttore della
Società e Luigi Guggiari nella qualità di Direttore dei
servizi
commerciali
con
delega
all'ordinaria
amministrazione e con firma congiunta.
Il dr. Brunner era nell'azienda fin dal 1929 come titolare
del laboratorio studi e ricerche, mentre Luigi Guggiari si
era formato nei quadri commerciali interni.
Le leggi razziali furono approvate dal Gran Consiglio del
Partito Fascista nella notte tra il 6 e il 7 ottobre 1938 e
stabilivano, anzitutto il divieto di matrimoni di italiani e
italiane "con elementi appartenenti alle razze camita,
semita, e altre razze non ariane" e inoltre il divieto, per i
dipendenti pubblici (sottinteso uomini) di sposare
straniere "di qualsiasi razza", e l'espulsione di quegli
ebrei stranieri che non avessero superato i 65 anni. Per
gli ebrei non discriminati il Gran Consiglio prescriveva,
inoltre, che non potessero essere iscritti al Partito
nazionale Fascista nè possedere o dirigere aziende che
impiegavano più di cento persone, ne essere possessori
di oltre cinquanta ettari di terreno, nè prestare servizio
militare in pace e in guerra.
Il 10 novembre 1938 un decreto legge ricalcò, con
qualche modifica, le disposizioni del Gran Consiglio che
pertanto divennero operanti su tutto il territorio.
I venti di guerra che vedevano contrapposti i due Paesi
(Francia e Italia) nella gestione della Comense spinsero
la proprietà francese ad adottare le necessarie misure e
quella italiana ad adeguarsi. Proprio nel giugno del 1940,
infatti, il consiglio di Amministrazione risulta così
strutturato:
- Presidente e consigliere delegato Walter Umberto fu
Ivo, italiano, ariano, cattolico;
- Consiglieri: Durio Eriberto fu Secondo, italiano, ariano,
cattolico e Peter Rodolfo fu Carlo, cittadino svizzero,
ariano, evangelico;
- Presidente collegio sindacale Ricca Argentino fu
Filippo, italiano, ariano, cattolico;
- Sindaci: Mambretti Giacomo, italiano, ariano, cattolico
e Piatti Pericle, italiano, ariano, cattolico;
- Direttore Brunner Augusto fu Giacomo, cittadino
svizzero, ariano, evangelico;
- Direttore Guggiari Luigi fu Angelo, italiano, ariano,
cattolico.
La seconda guerra mondiale reca non pochi disagi e
ristrettezze per la caduta delle commesse, non
compensate da quelle di guerra, per la mancanza di
prodotti chimici, per le carenze di combustibile.
Il periodo della Repubblica di Salò, con l’occupazione
nazista, unitamente alla preparazione dei tessuti in seta
per paracadute, portò purtroppo anche delle conseguenze
estreme finite in tragedie.
Il movimento sindacale ha sempre avuto all'interno della
Comense un peso determinante ed in questo storico
periodo si sviluppò un forte movimento di resistenza che
con gli scioperi in alta Italia del 1944 manifestò il
proprio dissenso alla dittatura nazifascista.
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Il Governo Militare Alleato il 19 luglio 1945 in difesa
della proprietà dei cittadini alleati nomina il Dr. Luigi
Masciadri “Amministratore temporaneo”.
Nello stesso anno, nel segno del ritorno alla normalità,
sono nominati Amministratori Delegati i direttori :
Augusto Brunner e Luigi Guggiari.
Il periodo peggiore che la Tintoria Comense S.p.A. ha
attraversato, prima del tracollo, finale, è stato quello
riferito ai due anni centrali del conflitto 1940/45.
Come si evince dalla relazione al Consiglio
d'Amministrazione il 1943 ha registrato 254 giornate
lavorative di cui 230 piene e 24 a mezza giornata. Le
sospensioni sono state quelle dal 1 al 24 gennaio per
mancanza di combustibile e dal 19 al 28 febbraio per
mancanza di energia elettrica. Inoltre tutti i sabati e
parzialmente i lunedì non sono stati lavorativi per
mancanze di combustibile. La produzione per il 1943 è
stata di mt. 17.113.353 con una media giornaliera di mt.
67.275.
Il 1944 ha visto diminuire ancora le giornate lavorative
che sono state solo 204 di cui 198 intere e 6 mezze. Per
mancanza di combustibile lo stabilimento è stato fermo
per 99 giorni e la produzione è scesa a mt. 12.534.110
con una media giornaliera di 61.441.
Dopo la fine della guerra e col cambiamento politico e
sociale iniziarono anche i processi, in conseguenza dei
gravi fatti avvenuti durante il periodo bellico, quale
collaborazionismo, denuncie, delazioni, e tutto quanto
per anni il popolo aveva subìto e pagato a duro prezzo a
volte anche con la vita.
I fatti avvenuti in Tintoria Comense S.p.A. il mattino del
6 marzo 1944 quando gli operai del reparto stampa a
quadro si posero in sciopero e che conseguentemente
portarono poi alla deportazione in Germania di sei di essi
di cui tre morirono in quei campi di sterminio ed un
quarto rientrò al termine del conflitto in gravissime
condizioni per un male ivi contratto che presto lo portò
alla morte. Altre due rientrarono fortunatamente a fine
conflitto.
Il 22 ottobre 1945 la Corte straordinaria di Assise di
Como ritenne responsabile di quanto accaduto il direttore
del reparto Giovanni Badiani, il capo reparto Alfredo
Capriotti e Maria Roncoroni perché aveva denunciato
due delle arrestate quali promotrici dello sciopero.
Le condanne furono: Alfredo Capriotti anni dodici di
reclusione;
Giovanni Badiani anni otto e quattro mesi di reclusione;
Maria Roncoroni anni otto e quattro mesi di reclusione.
La Corte Suprema di Cassazione, Seconda sezione
Penale, in nome di S.A.R. Umberto di Savoia, Principe
di Piemonte e Luogotenente Generale del Regno in
udienza pubblica del 20 febbraio 1946 in accoglimento
dei ricorsi presentati dai condannati annullò la sentenza
pronunciata dalla Corte straordinaria d'Assise di Como
per mancanza e contraddittorietà di motivazione sul dolo
nei confronti di tutti e tre gli imputati.
Rinviando i tre imputati al giudizio della Sezione
Speciale della Corte di Assise di Milano.
Il 1946 fu un anno importante per l'Italia: il 9 maggio
l'abdicazione di Vittorio Emanuele III a favore del figlio
Umberto II, il 2 giugno il referendum istituzionale con la
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nascita della Repubblica, il 13 giugno Umberto II lascia
l'Italia per l'esilio, il 28 giugno Enrico De Nicola è eletto
Presidente provvisorio della Repubblica, il 16 luglio
nasce il secondo Governo De Gasperi (Dc, Psiup, Pci,
Pri), il 21 luglio inizia a Parigi la Conferenza per la pace
e il 5 settembre si firma l'accordo per l'Alto Adige fra De
Gasperi e Gruber.
In quell'anno il Governo era preoccupato per l'ordine
pubblico che considerava, non a torto, la vera misura
della sua efficienza. I due ministeri di competenza erano
affidati a due uomini, entrambi di sinistra, entrambi
repubblicani dichiarati: Palmiro Togliatti, comunista,
ministro di Grazia e Giustizia, e Giuseppe Romita,
socialista, ministro dell'interno.
Nell'Italia disastrata del primo dopoguerra, con la
mattanza di fascisti al Nord, con il fenomeno di
banditismo non solo al Sud ma un po' ovunque, Togliatti
aveva riconosciuto la necessità di una amnistia che
cancellasse almeno in parte i troppi conti politici e
giudiziari in sospeso. Un provvedimento atto a
riappacificare le parti e a gettare le basi per una civile
convivenza. Tuttavia l'amnistia, pur approvata a fine
maggio, volle che fosse promulgata dopo il
"referendum" perchè il Re non se ne potesse attribuire il
merito.
Per effetto dell'amnistia tutto decadde e anche i tre
presunti imputati dei fatti del marzo '44 in Comense ne
furono beneficiati.
2 - 76150 : la INES
Con questo numero marchiato sul braccio sinistro, Ines
Figini, ex operaia della Tintoria Comense, dopo mezzo
secolo, racconta la sua triste esperienza vissuta come
deportata nel famigerato campo di sterminio di
Auschwitz!
Lo scopo di questa testimonianza è quello di indicare a
tutti il valore più alto che ogni uomo desidera avere: la
libertà.
In quella primavera del 1944 le industrie del Nord si
fermarono, per la prima volta sotto il dominio fascista,
per uno sciopero.
La storia di Ines Figini comincia proprio da quel
momento.
6 Marzo 1944 una data indimenticabile scolpita a fuoco
nei miei ricordi. 6 “Marzo 2002, cinquantotto anni sono
così trascorsi e ripensandoci mi sembra impossibile che
tanti anni, mesi e giorni siano passati così velocemente.
Il ricordo di quel 6 Marzo, tuttavia, è sempre vivo in me.
Ricordo ogni cosa e tutto quanto avvenne
Era un giorno apparentemente come un'altro: la guerra
era quasi alla fine e tutti noi si viveva in un clima di
attesa e niente lasciava presagire quello che accadde
lungo l'arco di quella giornata. Come tutti i giorni entrai
in fabbrica, la Tintoria Comense, appena giunta in
reparto capii subito che c'era qualche cosa di insolito.
Di fatto erano in circolazione dei manifestini che
incitavano ad uno sciopero.
C'era fermento in tutte le fabbriche perché non era più
possibile lavorare nelle condizioni che il fascismo ed i
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tedeschi ci costringevano a sopportare. Il cibo e la
merce era tutta tesserata e non bastava per vivere e il
mercato nero fioriva ma solo per chi aveva la possibilità
di approfittarne.
Ad un segnale tutta la Tintoria Comense si fermò.
Qualcuno avvisò la polizia e ben presto arrivarono i
fascisti, frugarono negli spogliatoi e nei reparti. A
mezzogiorno tutti in massa ci avviammo ai cancelli
d'uscita. Il reparto stampa era al completo ma quando
giungemmo nel cortile i cancelli erano chiusi. Ad
aspettarci c'era il Questore Pozzoli e i suoi uomini
armati e naturalmente anche la Direzione dello
stabilimento.
Nel silenzio, improvvisamente, chiara e distinta si alzò la
voce del Questore che leggeva da una lista alcuni nomi:
- Fontana Rinaldo
- Malacrida Giuseppe
- Meroni Angelo
- Molteni Angelo
- Scovacricchi Pietro
- Borgomainero Ada
- Tagliabue Celestina
- Rezzonico Irene
Urlò, inoltre, che gli scioperi dovevano essere stroncati
e disse che per le persone citate sarebbero stati presi dei
provvedimenti e quindi diede l'ordine di aprire i
cancelli: tutta la maestranza taceva. I cancelli non erano
ancora aperti che non so come mi trovai sola davanti al
Questore e gli dissi chiaramente che non era giusto
l'arresto degli otto compagni di lavoro perché con loro
tutti noi avevamo scioperato e che tutti eravamo solidali
con loro. A questo punto il Questore Pozzoli fece
nuovamente chiudere i cancelli, venne vicino a me e mi
chiese di spiegare i motivi dell'astensione dal lavoro e di
dire i nomi di chi aveva organizzato ogni cosa. Alla
prima domanda risposi, alla seconda no.
Difesi i miei compagni a spada tratta con tutta la forza
della mia volontà e con tutta l'incoscienza della mia
giovane età.
Pozzoli per un momento tacque poi, nuovamente, mi si
avvicinò e mi appoggiò una mano sulla spalla e calmo
mi disse :
- Ascolta. Se tu mi garantisci che oggi riprenderete il
lavoro, io libero subito i tuoi compagni.
Per un momento lo guardai fisso negli occhi ma, decisa,
acconsentii. Non sapevo niente ma promisi. I cancelli si
riaprirono e noi, contenti perché tutto sembrava risolto
per il meglio, li varcammo: io ero la più felice di tutti”.
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IL VIAGGIO
Poi cosa avvenne? Come fu che la situazione precipitò?
“Qualcuno, non della Direzione, andò subito dal
Prefetto Scasellati riferendo che la decisione del
Questore non era giusta poiché essendo la Tintoria
Comense la più grossa e rinomata della zona doveva
costituire un esempio per le altre fabbriche e che quindi
occorreva colpire drasticamente chi si opponeva al
regime e ai tedeschi. Così nella notte scattò l'ordine di
arrestare tutti coloro che erano stati lasciati liberi dal
Questore e di trasferirli in Germania. Nel numero fui
inclusa anch'io.
Nella notte due poliziotti irruppero col mitra spianato
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Quando era “La Comense”
nella mia camera da letto. Li seguii dopo aver
controllato l'ordine firmato dal Prefetto che disponeva di
arrestarmi e di inviarmi in un campo di lavoro in
Germania. Salii sul furgone della polizia dove c'erano
altri miei compagni e quindi, per ultimo, passammo a
prendere Ada Borgomainero. Ci portarono in Questura
dove fummo interrogati da Saletta e poi rinchiusi in
guardina. Una nostra collega, Irene Rezzonico, fu subito
rilasciata. Rimanemmo in tre donne che fummo subito
rinchiuse in una cella di fronte alle seterie Boselli.
Riuscii ad arrampicarmi sulla finestra e a buttare un
biglietto, scritto frettolosamente, con un numero
telefonico di una mia vicina di casa e con alcune
spiegazioni per la mia famiglia. Mio padre andò subito
dall'avvocato Benini che si recò immediatamente dal
Questore Pozzoli il quale non poté più fare nulla in
quanto l'ordine d'arresto era partito dal Prefetto che era
la maggiore autorità.
Il giorno dopo ci trasferirono tutti nella palestra
Mariani dove già si trovavano altri prigionieri ed ebrei.
Nell'ora dell'aria riuscii a vedere mia sorella ma poi, un
mattino presto, ci fecero partire per Bergamo dove ci
rinchiusero nella caserma del 78 fanteria. Qui si
aggiunsero altre cinque donne di Lecco arrestate per lo
stesso motivo. Dormivamo sulla paglia e non sapevamo
nulla riguardo la nostra situazione.
Il giorno seguente Celestina Tagliabue aveva le gambe
ed i piedi gonfi e chiamammo il medico che era un
italiano. Dopo la visita disse che avrebbe fatto il
possibile per rimandarla a casa. Anche Ada
Borgomainero aveva un ginocchio gonfio ma il medico
disse chiaramente che non poteva aiutare tutti e che
comunque avrebbe perorato la causa facendo rapporto
al medico tedesco. Questi venne più tardi per un
controllo, firmò per la Celestina ma non per Ada. La
Tagliabue tornò quindi a casa e proseguì la lotta mentre
noi fummo portati alla stazione unitamente ad altri
prigionieri. Si formò, così, una lunga tradotta.
Eravamo poche ragazze, sette in tutto: cinque di Lecco e
noi due di Como e per questo, forse, ci concessero di
viaggiare sulla carrozza Comando. In tutte le stazioni,
dove il treno si fermava, ho trovato gente che ci offriva
pane, biscotti, caramelle. Più di una volta ricordo di
essere scesa, scortata da un militare tedesco,per
abbracciare questa gente sconosciuta che ci offriva cibo
e poi di essere andata a cercare, lungo il convoglio, il
carro dove erano rinchiusi gli altri compagni della
Tintoria Comense per dare a loro quello che riuscivo
raccogliere.
Erano pigiati nei carri come bestie e sono stata l'ultima
persona che ho parlato con loro cercando di
incoraggiarli.
Non avvertivo nessuna paura e solo adesso riconosco di
aver avuto una grande incoscienza. Nelle occasioni
durante le quali ho potuto andare lungo i marciapiedi
per cercarli udivo le loro voci che mi chiamavano in
modo di individuarli quasi subito.
Il Comandante che viaggiava con noi era abbastanza
permissivo e inoltre parlava bene l'italiano, conosceva
dei miei amici di Como e si dimostrò gentile accettando
una lettera da consegnare ai miei genitori procurandomi
anche la matita e la carta. La lettera fu regolarmente
consegnata e la conservo tuttora.
Questi militari tedeschi ci accompagnarono fino al
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© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
confine e qui ci consegnarono alle SS".
“Da quel momento non potei più scendere ne parlare
con i miei compagni di fabbrica. Il nostro viaggio
proseguì fino a Mauthausen. Qui ci rinchiusero ancora
in una cella per aspettare un'altro treno che ci doveva
condurre ad Auschwitz. Infatti dopo qualche giorno
arrivò il convoglio e dopo un lungo viaggio arrivammo
verso sera in questo famigerato lager. Nevicchiava, il
campo era illuminato e la neve che cadeva rendeva
ancor più spettrale il posto. Fummo scaricate al pari
delle bestie, passammo in un blok dove ci marchiarono il
braccio sinistro tatuandoci un numero che da quel
momento era la nostra identità. A me fu impresso il
numero 76150. Capii che non avevamo più il nostro
nome e per la prima volta mi resi completamente conto a
che cosa andavo incontro.
Ci fecero spogliare e ci diedero la divisa: un rustico
vestito di cotone a righe grigio e blu e un foulard per la
testa. Il freddo, la fame e l'ignorare quello che ci
attendeva ci facevano tremare e come pecore ci
stringevamo una all'altra. Ci portarono in un'altro blok
dove già c'erano un centinaio di donne che dormivano in
grandi cuccette con sacconi di paglia: ci diedero delle
coperte e ci abbandonarono alla nostra sorte. Eravamo
smarrite e ci guardavamo una con l'altra senza parlare.
Cercammo un posto per coricarci: lo trovammo e tutte
assieme tentammo di addormentarci.
Era ancora buio quando il gong suonò in tutto il campo
facendoci sobbalzare. La Kapò passava fra le corsie con
un frustino in mano e se qualcuna indugiava per lei c'era
la frusta a sibilare. Ci diedero un tipo di scodella tonda
in metallo e un cucchiaio raccomandandoci di non
perderle e di non farsele rubare perché non ce ne
sarebbero state delle altre. Arrivarono, quindi, dei
bidoni colmi di un intruglio nero: una specie di acqua
sporca intesa come caffè o tè. Era comunque calda e la
bevvi avidamente.
Come scimmie cercavamo di copiare ogni cosa tra
l'indifferenza delle altre prigioniere: impossibile
parlare. In quel blok non c'erano altre italiane e per noi
era pure impossibile esprimersi in russo, polacco o
tedesco e inoltre era proibito parlare.
Cominciarono a presentarsi le prime necessità: dove era
il gabinetto, l'acqua per lavarsi e così via. Non
possedevamo nulla, ne carta igienica e qualche piccola
salvietta. Seguimmo le altre e trovammo i gabinetti: una
cosa orribile. In un lungo stanzone un rialzo in legno,
per tutta la lunghezza del camerone, sul quale c'erano
dei buchi da tutte due i lati alla distanza di circa
cinquanta centimetri e appollaiati su questi buchi una
quarantina di donne: il fetore era insopportabile. L'orlo
di questi buchi era tutto ricoperto di escrementi: mi si
bloccò lo stomaco, poi uscii. Dopo qualche giorno
diventai anch'io indifferente e dovetti abituarmi. Ho
assistito anche a scene incredibili. La guardiana dei
gabinetti, chiamiamola così, più di una volta quando le
ebree sporcavano l'orlo del buco ed era facilissimo in
quanto la dissenteria faceva strage, prendeva queste
poverette e con forza appoggiava il loro viso su tutta la
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“LI VIDI PER L’ULTIMA VOLTA”
- Come continuò quindi il viaggio?
© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
porcheria facendola pulire con la lingua. Le poverette si
dibattevano imbrattandosi tutta la faccia e le mani.
Più di una volta pensai che io fossi già morta e che
quello era l'inferno”.
-Dopo questi tristissimi episodi come si svolgeva la vita
al Campo ?
“Imparammo presto la routine. Al mattino sveglia
presto, brodaglia, gabinetto e subito a lavarsi. I posti
per le pulizie erano letteralmente assaliti: erano delle
lunghe vasche in zinco con sopra dei rubinetti. L'acqua
non c'era o era così poca che se non eravamo più che
svelte non riuscivamo neppure a lavarci i denti. Per
asciugarmi adoperavo l'orlo del vestito. Il freddo era
terribile e dovevamo essere pronte al fischio della sirena
per l'appello. Così il più delle volte non ci si poteva
neppure lavare gli occhi e quindi presi l'abitudine di
lavarmi la faccia con quanto ci davano da bere il
mattino: metà l'ingoiavo e quello che rimaneva mi
serviva per lavarmi: era almeno qualcosa di caldo.
La ciotola la portavamo sempre con noi legata alla vita
e il cucchiaio infilato nelle asole del vestito: non
avevamo altro.
Gli abiti non li cambiavamo mai, la scabbia era sovrana
e vedevo molte prigioniere con le braccia, le mani e le
gambe messe talmente male che io ritenevo fossero
lebbrose. Quando giungevano all'ultimo stadio, ogni
tanto c'erano le selezioni, queste poverette anche se
“ariane” finivano nelle camere a gas.
Ogni giorno venivo a conoscenza di crudeltà
inimmaginabili. Io pregavo, pregavo e con me le mie
compagne. Lavoravamo duramente. La zona era
paludosa e con pale e picconi dovevamo scavare dei
canali. Eravamo continuamente vigilate dai soldati e da
feroci cani. La terra era argillosa e si attaccava agli
zoccoli e quando poi pioveva era una situazione ancora
più difficile in quanto non avevamo nulla per il
ricambio. Avevamo quell'unico vestito e la notte, mi
ricordo, lo appoggiavo sul saccone di paglia
dormendoci sopra perché al mattino fosse almeno caldo
da poterlo infilare.
Non mi dilungo oltre nella descrizione poiché ritengo
che tutti ormai attraverso film, documentari e
rievocazioni conoscano questi orrori e per quanto si
possa capire solo chi ha vissuto questa incredibile
esperienza dei campi di sterminio penetra fino in fondo a
tali esempi di degenerazione.
La mia compagna di Como era all'ospedale ed io rimasi
sola con le ragazze di Lecco alle quali si aggiunsero
altre ragazze lombarde”.
- La situazione intanto precipitava. Gli Alleati avevano
scatenata l'offensiva finale. E voi ?
“I Russi si avvicinavano e cominciavamo a sentire i
colpi dei cannoni e sovente qualche aereo sorvolava la
zona. I tedeschi cominciavano a cedere e noi ci
accorgevamo delle loro perdite perché i forni crematori
lavoravano giorno e notte e anche perché diventavano
sempre più cattivi. Interi convogli passavano subito alle
camere a gas. Centinaia di migliaia di persone non
furono nemmeno annotate e archiviate: sparite per
sempre.
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© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
Non ricordo esattamente la data ma qualche tempo
prima di Natale tutti coloro ancora in grado di lavorare
furono in fretta fatti sgomberare da Auschwitz. Rimasero
solo i malati, chi non si reggevano in piedi e gli ultimi
ebrei.
Anche la Borgomainero rimase al campo. I russi
liberarono il campo il 29 gennaio '45 e salvarono tutti
quelli rimasti destinati a morire nelle camere a gas. I
tedeschi fecero saltare anche i forni crematori ma non
fecero in tempo a far scomparire tutte le prove. Così
oggi Auschwitz è un museo che testimonia una vicenda
troppo amara, di crudeltà, di sofferenza e di morte.
Il campo femminile è rimasto come allora, così come i
Russi lo hanno trovato: qualche blok ancora in piedi,
forni crematori e camere a gas fatti saltare in aria ma
non completamente distrutti. Tutti i reperti ritrovati sono
catalogati, in fondo un grande monumento ricorda a
tutti i popoli del mondo il genocidio di sei milioni di
morti”.
“A Ravensbruk e non seppi più nulla delle mie
compagne. Questa volta lavoravo in una fabbrica bellica
la Siemens. La settimana era dura: dodici ore di notte
alternate a dodici ore di giorno. Arrotolavo bobine di
filo di ferro e per tutte le dodici ore ero ferma in piedi
vicino ad una macchina continuamente vigilata dai
militari. Sovente c'erano i bombardamenti aerei e ogni
giorno la situazione diventava insostenibile. Verso
marzo fui di nuovo trasportata in un'altro lager: i Russi
erano vicinissimi. In questo nuovo lager non si lavorava
più: chiuse nelle baracche e per magiare solo un pane
ogni cinque persone. Non ci reggevamo più in piedi e
anch'io come le altre mi sentivo sfinita. Avevo, però,
sempre il morale alto e il mio motto era : “Qualunque
cosa accada sono certa di tornare a casa”.
Un giorno, improvvisamente, ci distribuirono dei viveri,
qualche coperta, aprirono i cancelli e in fila, sempre con
i militari al fianco, ci incamminammo chissà per dove.
Si andava verso nord e lungo la strada vidi e capii cosa
significava la disfatta di un esercito: carri armati,
cannoni, camion abbandonati lungo i bordi della strada,
soldati sbandati con le divise stracciate e sbottonate che
si trascinavano a testa china.
Mi sembrava impossibile riconoscere in loro quei soldati
così orgogliosi e baldanzosi di qualche mese prima. Noi
marciavamo quasi per tutto il giorno e la notte si
dormiva nei boschi: eravamo sfinite. Per chi
abbandonava la fila e stanca si sedeva sul ciglio della
strada, l'ultimo soldato della colonna con un colpo di
pistola poneva fine ad ogni cosa. Io camminavo come in
trance senza rendermi conto di dove mi trovavo: avevo
un solo pensiero, quello di non fermarmi.
Verso sera arrivammo alla periferia di un piccolo paese
e ci accampammo in un fienile. Dopo qualche ora i
soldati tedeschi ci abbandonarono e capimmo che i
Russi erano più vicini di quanto potevamo immaginare.
Eravamo cinque o sei italiane e le altre tutte prigioniere
russe. Con le mie compagne quando mi accorsi che non
c'erano più soldati e guardie uscimmo e ci
incamminammo verso il paese. Improvvisamente sentii
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5 MAGGIO 1945
- Tu eri fra quelli fatti sgomberare. Dove ti portarono ?
© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
parlare italiano, mi volsi e vidi dei soldati italiani. Ci
abbracciammo ed essi piansero nel vederci così ridotte:
denutrite, sfinite e sporche. Avevano già organizzato la
raccolta di viveri che divisero con noi. Ci diedero anche
una bottiglia contenente una specie di grappa.
Ritornammo al fienile felici e le mie compagne, sebbene
fossi la più giovane, affidarono a me tutto questo ben di
Dio per razionarlo. Quella sera ci coricammo tutte
euforiche. Sentivamo sempre più vicino i cannoni e ci
addormentammo felici, sature anche di tante emozioni.
Verso le cinque mi svegliai improvvisamente ed
istintivamente guardai verso il portone. Nelle prime luci
dell'alba, quasi controluce, distinsi una figura. Guardai
meglio: era un soldato russo con il classico colbacco e
con un giaccone trapuntato. Non svegliai le mie amiche
e credo che i venti metri che mi separavano dal portone
non li vidi nemmeno. Corsi con tutte le mie forze verso
quella figura di soldato che si stagliava netta nella
foschia mattutina. Gli saltai letteralmente addosso tanto
il mio abbraccio era impetuoso e come una pazza
incominciai a gridare: ”Sono arrivati! Sono arrivati i
liberatori!”
Il giovane soldato russo, avrà avuto non più di vent'anni,
rideva dimostrando tuttavia una certa commozione per
l'inaspettata accoglienza. Nel frattempo anche tutte le
altre si erano svegliate alle mie urla di gioia. Lui capì
che ero italiana e si fermò con noi; bevve con noi e mi
chiese di cantargli “Mamma”.
Mamma son tanto felice
perché ritorno da te.
La mia canzone ti dice
che è il più bel giorno per me.
Mamma son tanto felice
viver lontano, perché ?
Mamma,
solo per te la mia canzone vola,
Mamma,
sarai con me, tu non sarai più sola.
quanto ti voglio bene
Noi cantavamo e piangevamo e lui con noi. Seduto, ci
guardava con il viso pieno di lacrime. Ci disse che la
guerra era finita, e che Mussolini era kaput.
Capimmo solamente che la guerra era finita. Andò dai
suoi connazionali e tutti assieme andammo al Comando
russo. Ci dissero di stare calme e che presto saremmo
state tutte rimpatriate. Passarono una decina di giorni
poi il Comando russo ci radunò annunciandoci che
bisognava raggiungere la zona di Breslao dove c'erano
campi di militari italiani e dove sarebbe stata
organizzata ogni cosa per il rimpatrio. Breslao era
distante circa 80 chilometri da noi. Come fare per
raggiungerla? Mi misi all'opera: trovai due cavalli e un
carro che portai al campo base. Non so come feci ma
organizzai ogni cosa: eravamo solo cinque donne e
nessuna di noi sapeva guidare un carro con due cavalli e
sorsero, di conseguenza, tanti problemi: come nutrirli,
qual'era la strada da percorrere, come guidarli. Non mi
scoraggiai. Girai tutto il campo in cerca di qualcuno che
potesse aiutarci a risolvere la nostra nuova situazione.
Trovai due militari che mi diedero fiducia; andammo al
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Quando era “La Comense”
Comando per le direttive, per avere le scorte e dopo aver
recuperato il foraggio per i cavalli partimmo come
zingari.
Ero felice! Assaporavo di nuovo il sapore della libertà.
Era il 5 maggio 1945”.
“Il viaggio andò benissimo. Ci fermavamo a bivaccare
nei boschi e dormivamo nelle case abbandonate. Dopo
circa una settimana arrivammo a Breslao e ci
presentammo al Comando italiano. Qui erano
predisposti dei capannoni e dei fienili. Noi ragazze
trovammo una specie di roulotte e ne prendemmo
possesso. Ci diedero delle balle di paglia e facemmo un
letto unico. Coprimmo il tutto con un grande tappeto ed
eravamo contente: ci sembrava di aver ritrovato una
casa che fosse tutta nostra.
Alla sera ci riunivamo tutti assieme. Si mangiava, si
cantava, si ballava. Dopo qualche settimana scoppiò
un'epidemia di tifo ed io, sfinita, lo presi in pieno.
Fui ricoverata in un ospedale russo e fui presa da una
disperazione enorme. Avevo paura che tutti partissero
per l'Italia e che io, invece, restassi lì.
All'ospedale fui curata da un maggiore medico russo.
Entrai ai primi di luglio e per qualche mese rimasi
incosciente. Quindi poi, poco a poco, mi ripresi e mi
sembrava di essere tornata dall'aldilà. La febbre si
alternava dal minimo al massimo ed io vivevo come
sospesa per aria. Certe volte mi sembrava di essere già
morta e di vagare in un mare di nubi e quando
riprendevo conoscenza la realtà era tristemente
terribile.
Ero lì a letto, non mi potevo muovere perché la gamba
sinistra era stata colpita da una flebite. Le mie vicine di
letto morivano ed anch'io avevo paura di fare la stessa
fine.
Dopo essere sopravvissuta a tutto l'inferno precedente,
ora che la meta era vicina, mio Dio, morire aveva il
sapore atroce di una beffa. Pregavo il Signore che se
avesse deciso di farmi morire lo facesse dopo avermi
concesso la gioia di riabbracciare i miei cari.
Avvenne poi, quasi, un miracolo. I miei amici del campo
mi recapitarono una lettera nella quale mi si diceva che
fra una settimana sarebbe stato pronto il trasporto verso
l'Italia. Quella notte non dormii: avevo ancora la febbre
alta e al mattino, quando passò il medico, gli accennai
di questa possibilità del ritorno sostenendo che anch'io
volevo tornare. Mi disse, naturalmente, che era
impossibile, date le mie condizioni, poiché avevo ancora
la febbre alta e la gamba con la flebite mi poteva creare
qualche ulteriore problema. Inoltre, avendo una malattia
infettiva, dovevo fare la quarantena. Piangevo
disperatamente. Il pensiero di rimanere sola, giovane,
indifesa, senza sapere cosa ancora mi attendeva mi
faceva impazzire.
Il mio pianto e il mio dolore non avevano limiti. Il
medico, tuttavia, cercava di spiegarmi che tutto quanto
mi proponeva era per il mio bene. Non volevo sentire
ragioni. Avevo un solo pensiero: quello di tornare a casa
mia. Alla fine, messosi pietà, mi disse : “Senti, se stai
almeno una settimana senza febbre, ti porterò io stesso
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- Riprendeva la vita finalmente. In seguito, poi, cosa
avvenne ?
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Quando era “La Comense”
alla stazione”. Quella notte mi addormentai serena.
Al risveglio non avevo febbre ma aspettavo
ansiosamente la sera. E quella volta anche alla sera la
febbre non c'era. Non osavo sperare. Ne il giorno dopo,
ne l'indomani la febbre non c'era.
Cercai, allora, di alzarmi dal letto. Era quella la prima
volta, dopo molti mesi, che mettevo i piedi fuori.
Attaccata alle sbarre del letto cercavo di muovermi: le
gambe non rispondevano alla mia volontà, feci pochi
passi e poi, sfinita, ritornai a sdraiarmi.
Mattina e sera ci riprovavo. Sapevo che avrei dovuto
affrontare un lungo viaggio e non certamente in prima
classe. Il medico passava ogni giorno e mi
incoraggiava”.
IL RITORNO
-Lentamente, comunque, miglioravi e la data della
partenza si avvicinava sempre più: vero ?
“Quel giorno finalmente arrivò. Quel mattino non
capivo più niente. Il medico mantenne la promessa e mi
accompagnò alla stazione su un carro tirato da due
buoi. Seduta accanto a lui mi sembrava di essere su una
Roll Royce. Ritrovai i miei compagni. Ci diedero dei
viveri e ci caricarono sulla carrozza: eravamo circa una
cinquantina. Mi misi sul fondo accucciata: non potevo
neppure parlare tanta era la mia gioia, la mia felicità e
tanto il cuore mi cantava.
Il viaggio fu veramente lungo e faticoso ma io non
avvertivo niente. Mi nutrivo solo di pane e di acqua.
Avevo un'immensa paura di mangiare. Arrivammo in
Austria e qui, finalmente, ricevemmo zuppe calde.
C'erano l'Opera Pontificia e gli Americani che
assistevano tutti i prigionieri che rientravano.
Cominciavo a sentire l'odore di casa mia e tutto mi dava
una forza incredibile. Non avvertivo la stanchezza, non
sentivo né fame né sete.
Quando passai il confine mi sembrava di essere nella
mia casa di Como. La tradotta si fermò a Bolzano. Gli
ex prigionieri scesero tutti: si abbracciavano, urlavano,
ridevano, era tutta un'esplosione di gioia. Mi tirarono
giù dal vagone e dovetti appoggiarmi subito al carro:
non potevo stare ritta. Con le mani sul viso piangevo
disperatamente e il singhiozzo mi saliva dal profondo del
cuore.
Gli altoparlanti diffondevano canti come “Mamma”, la
“Canzone del Piave” e queste note tutte italiane
aumentarono al massimo la mia emozione, la mia
felicità, la mia immensa gioia di essere ritornata”.
-Non ci sono parole, credo, per descrivere una situazione
come questa. Come continuò, poi, il viaggio ?
“Vennero dei militi con delle crocerossine e mi
portarono su un treno-ospedale. Mi visitarono e non
volevano che io proseguissi il viaggio per Como. A nulla
valsero i loro consigli. Essi non potevano capire la mia
fretta, il mio desiderio di essere finalmente tra i miei
cari. Niente e nessuno mi avrebbe fermato.
Allora mi aggregarono ad una auto-colonna americana
o inglese (non ricordo bene) che unitamente ad altri ex
prigionieri ci condussero fino a Pescantina. Qui c'era
l'assistenza dell'Opera Pontificia e mi lasciarono a loro.
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Quando era “La Comense”
Fui rifocillata e dopo tanto tempo mangiai del pane
bianco. Lo gustavo ghiottamente e mi sembrava di
sentire il sapore della mia terra. Passai la notte avvolta
in una coperta sotto una tenda e il mattino dopo sempre
in auto-colonna proseguii per Milano dove giunsi verso
sera.
Assieme ad altri quattro o cinque militari raggiunsi
Como in treno. Non so chi mi diede la forza di arrivare
fino a casa mia. Abitavo allora in Via Tommaso Grossi e
ricordo, però, il tempo impiegato. Zoppicavo e fino al
semaforo di via Dante mi sorressero due militari che mi
sembra abitassero a Lora. Poi proseguii da sola
fermandomi quasi ad ogni passo: ero a circa
duecentocinquanta metri dai miei cari. Nessuno di loro
sapeva del mio arrivo anche se ogni giorno speravano
nella certezza del mio rientro.
Questa era la mia strada; la strada che portava diritto
alla mia casa. Ad un tratto sentii un rumore. Mi fermai e
mi girai. Qualcuno parlava solo e diceva il mio nome,
era buio e non riuscivo a distinguere chi fosse ma udivo
la sua voce che mormorava come fra se: “Ma è la Ines o
l'è minga le? No, no l'è impussibil! Ma dicono che è
morta? Ma si è lei è proprio lei...”. Quel signore mi
venne accanto e riconobbi un mio vicino di casa e gli
dissi: ”Sono proprio io in carne ed ossa, forse più ossa
che carne ma sono io veramente”. Si può immaginare la
commozione e l'emozione di quest'uomo. Volle essere lui
a portare la notizia alla mia famiglia. Avevo tanto
desiderato di essere io a suonare il campanello e farmi
trovare sull'uscio dai miei cari ma l'emozione, forse,
poteva essere troppa e così accettai quanto lui mi
consigliava.
Quando arrivai nel mio cortile tutti mi corsero incontro
e tutti i vicini erano al balcone: che emozione!
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Dopo cinquantasette anni neppure oggi riesco trovare le
parole per descrivere tutto questo. Ci sono delle gioie e
dei dolori che appartengono solo a noi stessi e che non
si possono trasmettere agli altri. Tutto era finito. Ero a
casa mia ed ero ancora me stessa”.
Questo è il drammatico racconto dell'amara esperienza di
Ines Figini. Per tutti noi, per tutti gli uomini di buona
volontà nel mondo rimanga il monito di queste ore triste
e cupe, il ricordo di sofferenze e morti, di atrocità e
ferocia. Per ognuno di noi l'impegno vivo e presente per
operare per la pace e la serenità tre i popoli.
E la Ines aggiunge :
“Per i miei compagni morti:
FONTANA RINALDO O4-4-1944
MALACRIDA GIUSEPPE 14-1-1946
MERONI ANGELO 14-2.1945
SCOVACRICCHI PIETRO 27-6-1944
il mio saluto, il mio ricordo, la mia preghiera: che essi
riposino in pace”.
Lento e solenne, grave nella sua estensione, sembra di
sentire salire al cielo, suonate da un'argentea tromba, le
note del silenzio fuori ordinanza.
Le due sopravvissute di Auschwitz rientrarono in
Tintoria Comense e furono addette a lavori impiegatizi
fino al raggiungimento dell'età pensionabile. Ada
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Quando era “La Comense”
Borgomaienero è deceduta nel 2000 mentre Ines Figini,
oggi ultraottantenne, è stata nominata Commendatore
della Repubblica dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Un giusto riconoscimento alle sue sofferenze, alle sue
pene, ai suoi momenti tristi ed indimenticabili.
Ines ha poi avuto la fortuna di viaggiare parecchio, di
aver visto un po' tutto. Ciò nonostante, quasi ogni anno,
si reca in Polonia, in quel campo, ricerca il suo blok e lì
si inginocchia, prega, ricorda, rivive e si ricarica lontana
dai rumori, quasi fuori dal mondo, con la pace e la
tranquillità e l'insegnamento che da quelle zolle, da
quella terra santificata da milioni di morti, esce e si
diffonde in ogni dove per testimoniare ovunque ciò che è
accaduto, e che ognuno si augura mai più accada nel
mondo. Perché ognuno possa essere sovrano della
propria Libertà.
La bufera è cessata: ritorna il sereno.
3 - LA “CUMENSA”
COMASCHI
NELL'ORGOGLIO
DEI
Le pagine che seguono non sono di fantasia, sono pagine
che narrano vicende vere - incredibilmente vere - a volte
umoristiche, altre tremendamente serie, velate forse da
un pizzico di nostalgia.
Perché? Semplicemente in quanto ne sono stato
testimone, avendo speso una vita (più di 33 anni)
all'interno dello stabilimento di via S. Abbondio.
I personaggi non sono inventati ma appartengono per
sempre alla vita della Tintoria Comense e come tali
testimoniano i fatti più rilevanti degli ultimi anni della
sua vita.
Una vita semplice, fatta di lavoro, di vittorie e di
sconfitte con protagonista l'uomo, dal più umile al più
dotto, che per 74 anni ha fatto della "Cumensa" (come
dialettalmente veniva semplicemente chiamata) motivo
di orgoglio, punto di riferimento, elemento di sicurezza
economica, il centro del suo modo di essere.
Non è una favola: è la verità, nemmeno tanto romanzata,
semplicemente narrata.
Le prime parole potevano essere:" C'era una volta..." ma
sarebbero state indicative di una piacevole invenzione.
Inizio invece con una data...
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Quando era “La Comense”
4 – TANTO TEMPO FA …
persone fisicamente presenti e conosciute.
15 febbraio 1947, mattina: era un sabato. Avevo
quattordici anni, cinque mesi e nove giorni: era il mio
primo giorno di lavoro! Iniziava, stranamente di sabato,
il mio rapporto di lavoro con la Tintoria Comense. Era la
più grande industria di trasformazione tessile di Como e
della provincia e sicuramente, per quei tempi, anche
d'Europa.
Dall'uso della ragione in avanti ho sempre sentito parlare
della “Cumensa” e tutto quanto avveniva al suo interno
era cosa familiare per me. Non rappresentavano quindi
una novità i personaggi e le persone di quella grande
azienda, come pure non mi erano sconosciuti né gli
umori né il clima.
Mio padre vi lavorava da oltre trent'anni e ogni
sfumatura, ogni avvenimento, dal più importante al più
banale, dal razionale all'irrazionale, finivano per essere
raccontati in casa e quale migliore occasione se non la
tavola?
La mia curiosità, dapprima infantile e poi giovanile,
rimaneva attratta dal susseguirsi degli avvenimenti che
mio padre vivacizzava con mimica, tonalità di voce,
inflessioni dialettali, tanto che il tutto assumeva la forma
di uno spettacolo: lo spettacolo della Tintoria Comense.
Per me, quindi, diventava così quasi un luogo comune
sentir “parlare” di quella azienda, tanto da considerarla
quasi alla pari di un componente della famiglia, un'altra
persona a tavola.
Nel susseguirsi delle citazioni, che mio padre sapeva
rendere in modo esemplare, via via prendevano corpo e
fisionomia i protagonisti, tanto che mi sembravano
5- QUEL COMMENDATORE...
Il protagonista in assoluto, per quei tempi antecedenti la
mia assunzione, era il presidente e consigliere delegato
comm. Umberto Walter (che non ho conosciuto) di cui,
per l'appunto, mi erano però noti i suoi comportamenti
ed i suoi umori.
Persona rispettabilissima, precisa, quadrata, in
conformità forse del proprio cognome di teutonica
memoria, ostentava un cipiglio, un comportamento che
incuteva rispetto e timore. Lo supportava una tonalità di
voce e una certa inflessione dialettale con sfumature
milanesi che contribuivano, non poco, ad accrescerne
l'alone di severità che lo circondava.
Giocando su queste innate qualità naturali imponeva,
dall'alto della sua carica, le sue decisioni, le sue
osservazioni, i suoi continui interventi con il personale.
Era, quindi, il simbolo dell'azienda, il capitano, il
condottiero: era evidentemente “La Cumensa”.
Quando, naturalmente, confederazioni generali del
lavoro e statuto dei lavoratori erano ancora di là da
venire, il lunedì mattina si poneva davanti al cancello
d'ingresso di Via S. Abbondio a gambe divaricate ricordandosi d'essere stato ufficiale di cavalleria estraendo dal panciotto l'orologio sostenuto da una
consistente catena d'oro per controllare l'ingresso dei
dipendenti. Se qualcuno di essi era in ritardo... “Uei se te
fà iersera? Te ciapà la gaina? Al lavoro si giunge
puntuali...
Ti cum'è mai te set in ritard ? Te ghet la mieè giuvina
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Quando era “La Comense”
eh? Se te fusset inscì precis a lavurà cum’è a arrivà in
ritard....”
Quando il Commendatore entrava negli uffici o in
qualche piccolo reparto dove regnavano il disordine e la
sporcizia e cosa, abbastanza consueta, pendevano dal
soffitto vistose ragnatele, allora sbuffava:”Se ghè? Festa
in burg? Mettum fò i sandalin? Dev passà la
processiun?”. Proseguiva poi rimuginando da solo
dapprima sottovoce e quindi a piena gola, in modo che
tutti sentissero:”Bacilli del tifo, della meningite, del
colera, della peste bubbonica...” A questo punto, al
massimo dello sfogo... il tutto terminava con una grande
sbattuta della porta che immancabilmente si scardinava,
se di legno, o andava in frantumi se con i riquadri in
vetro.
Dopo mezz'ora entrava in scena ul Lisandar legnamè, il
capo falegname e il tutto veniva sistemato, mentre
disordine e ragnatele che continuavano a penzolare,
restavano inalterate.
Il commendatore Umberto, inoltre, conduceva una
personale battaglia contro il fumo. Non tanto per
combattere il tabagismo ma piuttosto per punire coloro
che trasgredivano i suoi ordini.
Gli operai avvezzi a questo vizio, e cioè fumare anche
sul posto di lavoro, avevano solo due modi per farlo.
Mettere alla bocca velocemente la sigaretta, aspirare
furtivamente, nascondendola nell'incavo della mano
destra e poi dietro la schiena, proteggerla con la sinistra.
Altra soluzione era di riparare, anche senza averne
bisogno, al cesso.
Per i tintori un aiuto in più era dato dal vapore (in gergo
ul baff) che specialmente nelle giornate piovose o umide
rendeva difficile l'individuazione di cose e persone anche
a pochi metri.
I cessi della Tintoria Comense, in quei tempi, erano
qualche cosa di particolare, una alternativa tra un box per
i cavalli e un gabinetto di decenza: piccoli, stretti e senza
porta d'ingresso. L'occlusione era costituita da una
"fetta" di porta senza la parte terminale né quella
superiore. Era quindi una "chiusura" che permetteva il
"controllo a vista".
Fendendo ul baff improvvisamente il commendatore
piombava nei cessi e iniziando la "visita"
incominciava:”Ti te fumet...Ti te fumet”...indicando il reo
o i rei con l'indice della mano destra con un'espressione
del viso tra il compiaciuto ed il sorpreso, il serio e il
faceto. Fatto sta, però, che per chi veniva colto in
"flagranza" scattava la multa o la sospensione.
In quel periodo i rapporti con il personale erano
esclusivamente a conduzione paternalistica ed il direttore
era la persona più “qualificata” per questi tipi
d'intervento.
Il commendatore era convinto che molti, durante il
lavoro, approfittassero per tingere o manipolare anche
effetti personali, oppure che altri poco onesti si
appropriassero di pezzi di stoffa o altro. Era evidente che
questa persona incutesse non solo timore ma anche paura
mentre da par loro i dipendenti diventavano bersagli
preferiti per la caccia.
Una mattina il commendatore Umberto irruppe come una
belva inferocita nel laboratorio di tintoria dove un
operaio stava alzando e abbassando ritmicamente nella
provetta - anzi meglio il godet (una specie d'imbuto
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Quando era “La Comense”
tronco per le prove) - un paio di calze di seta della
signora Teodolinda responsabile di un'importante ufficio.
L’operaio per smacchiare le calze dal grasso di un
carrello si era appositamente piazzato vicino alla finestra
che dava sulla strada interna della ditta con il proposito
di farsi notare nell'operazione. Sulla finestra era posto un
grosso specchio che serviva, tra l'altro, per notare chi
arrivava lungo la strada dalla parte opposta e quella
mattina, appunto, stava arrivando il commendatore:
”Finalment tu catà...l'è tri mes che te curi...Cossa l'è
chel lavurà lì...” L’operaio con calma olimpica: “Niente
commendatore sono le calze della signora Teodolinda
macchiate di grasso”. Improvvisamente la porta si apre e
appare la signora Teodolinda che interpellata dal
commendatore conferma la versione data dall’operaio.
Sogghigno tremendo del commendatore, angolatura della
bocca storta e immancabile sbattimento della porta.
Così ciascuno ebbe il suo: la signora Teodolinda le calze
di seta smacchiate e pulite, l’operaio la soddisfazione
della verità, il commendatore l'ormai quotidiana
arrabbiatura ed il buon Lisander legnamè la solita porta
da riparare.
Lasciato alle spalle il Viale F.D. Roosvelt sulla Bianchi
anni trenta imbucammo, mio padre ai pedali ed io seduto
sulla canna, il tratto terminale di Via S. Abbondio che
portava all'ingresso principale.
Notai subito un affollamento di persone; chi a piedi,
molti in bicicletta, tutti infreddoliti, alcuni con la
“mantellina” stile primo novecento. C'erano uomini
anziani, giovani, molte donne e qualche ragazzotto.
Tutti, comunque, entravano dalla porta d'ingresso loro
riservata: molto ampia per gli operai, più stretta per gli
impiegati.
Scesi dalla canna mentre mio padre salutava qualche
collega e lo vidi entrare in un locale molto angusto e
confabulare con uno dei portieri che allora erano meglio
noti “controlor”, gesticolare parecchio e quindi uscire
dicendomi “vieni”. Prese il cartellino dall'apposita
cartelliera, timbrò la presenza, scese i due scalini che
immettevano nel cortile: lo seguii.
Mancavano pochi minuti alle sette, per la prima volta
varcai così la soglia della Tintoria Comense.
Una luce fioca illuminava pallidamente il cortile che
intanto, quasi per magia, si era svuotato di tutte le
presenze. Seguendo mio padre m'incamminai sotto il
portico. Alla destra, diviso da una grande vetrata sotto la
luce intensa di un faro, vidi un uomo grosso e massiccio
chino su alcuni fogli verdi e allora chiesi “Chi è?” - “Ah,
ul Martinel del magazzin”. Infatti poco più avanti vidi
accatastate damigiane, fusti, sacchi e un operaio che
trasportava una damigiana su un carrello. “Che fa?” –
“Trasporta acido acetico"” fu la risposta.
Improvvisamente sentii un rumore strano, quasi uno
stridio e allora, indirizzando meglio lo sguardo verso la
provenienza del rumore, notai una gigantesca affettatrice
che, anziché ottimo insaccato, affettava in minuscole
scaglie pani di sapone verde. Mi venne spontanea la
domanda “Perché?” – “Altrimenti possono rubare pezzi
di sapone”.
Proseguendo ancora con la bicicletta a mano mio padre
mi introdusse, questa volta, aprendo una porta a ventola,
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6 – L’IMPATTO
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Quando era “La Comense”
in un locale semibuio umido e freddo dove già erano
depositate altre biciclette. “Si lascia qui” mi disse e mi
indicò la scala.
Due rampe di una decina di scalini ciascuna con gradini
in sasso sporchi dove si rifletteva il bagliore di una
lampadina di pochissimi watt sulla quale, facendo
roteare il capo si poteva leggere: “Rubata in Tintoria
Comense”.
In alto alla scala, sulla destra, c'era una porticina di
servizio che introduceva agli uffici amministrativi.
Erano due locali lunghi e relativamente stretti e
attorniati, quasi in continuazione, da pesanti armadi di
legno con antine a vetro ruvido e dove sbirciando si
intravedevano pacchi di carte, scartoffie, raccoglitori,
documenti, pezzi di stoffa colorati e no.
Le scrivanie, che altro non erano che tavoli comuni,
erano anche loro stracolme di carte, campioni e
macchine calcolatrici: le famose “Comptometer”. Sotto
qualche scrivania/tavolo c'erano delle pedane oblique per
appoggiare i piedi. Il pavimento era di legno ingrigito
dall'usura e da una patina di terra e polvere ormai
divenuta parte integrante del pavimento stesso.
Ogni scrivania, inoltre, era dotata di una lampada da
tavolo a gomito affrancata ad un lato. Dall'alto
cascavano nel modo più disparato fili elettrici quasi a
formare un groviglio: come delle liane nella giungla in
una zona misteriosa, affascinante e ricca d'imprevisti.
Sulla parete di fondo c'era una cassaforte ed il box per il
cassiere, a fianco un cabina telefonica imbottita e
trapuntata in pelle o similare color verde (per non far
sentire all'esterno la telefonata), la quale però aveva
principalmente il compito di collegare, passandovi
attraverso, un terzo locale.
Il cassiere, allora, era il rag. F. Butti che per via della sua
statura era chiamato comunemente ul Butina.
Attraversata la porta-cabina mi trovai sul posto di lavoro:
un tavolo come i precedenti, ma senza fili pendenti, con
parecchie scartoffie, la “Comptometer” e di fronte un
tavolo da disegno sul quale era accennato lo schema di
“un piano amministrativo” e qua e là, soprattutto negli
angoli, qualche abbozzo di nudo femminile.
Il riscaldamento era assicurato da stufe in terracotta
piazzate nei tre ambienti. Fuori era ancora buio e
silenzio, i tavoli non erano ancora ravvivati dalla luce
delle lampade a gomito, mentre il bagliore delle stufe,
già accese, dava un sinistro gioco di luci e ombre quasi
ad evocare misteriose congiure... ma erano solamente gli
uffici amministrativi della “Cumensa”.
Improvvisamente si aprì la porta che dava sulla scala e
apparve la Luigia, la donna addetta alle pulizie. Alta non
più di un metro e cinquanta, con il volto rugoso,
infagottata in abiti smessi e sporchi con ai piedi un paio
di scarponi militari da uomo, richiamava più la befana
che non l'addetta alle pulizie negli uffici. Alzò il
chiavistello dell'altra metà della porta e scomparve.
Dopo qualche attimo ricomparve spingendo una carriola
da muratore tutta incrostata di calce e cemento, piena di
pezzi di legna, torba, tronchi ed altro. Portò il suo carico
al centro degli uffici e senza pensarci troppo rovesciò
tutto il contenuto e con lo stesso modo con il quale una
domestica avrebbe detto: “Il pranzo è servito”, disse:
“Anche per oggi questo è fatto”. Uscì con la sua carriola,
chiuse la porta e se ne andò.
Ora si poteva cominciare a lavorare: non mancava
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Quando era “La Comense”
proprio niente. Fuori, intanto, si rischiarava. Mio padre
mi disse: “Stai attento, devi prendere questi cartoncini e
dividerli per tipo...vedi, così”. Ed io incominciai...
molti mesi di inattività ed alcuni risvolti politici ne
avevano fiaccato lo spirito.
8 - PROCESSI EPURAZIONI
Giorno dopo giorno cominciavo ad inserirmi, ad
orientarmi, a muovermi e a lavorare nella grande azienda
comasca.
Tutto sembrava essersi fermato, malgrado le apparenze,
a qualche anno prima. La cosa, in se stessa, era
abbastanza normale se si considera che la “Comense”
aveva subito, come altre industrie, le inevitabili
conseguenze della guerra (anche se non aveva subito
bombardamenti) ed era ancora nella fase della
“ricostruzione” ed erano evidenti i segni di anni difficili
e pericolosi trascorsi.
Ricordo le autorizzazioni per la circolazione degli
automezzi, per l'acquisto di nafta, dei coloranti, delle
materie prime per le esigenze di funzionamento.
Le caldaie bruciavano di tutto: dal carburante alla torba,
dai gusci di noci, noccioline e arachidi a tutto ciò che si
riusciva, con notevole sforzo, a raffazzonare.
Erano, quelli, sicuramente tempi di ripresa ma contornati
dall'alone del recente passato che la maestranza aveva
ancora ben presente nel modo di rapportarsi
quotidianamente.
La Tintoria Comense aveva subito grosse perdite
specialmente negli ultimi anni del conflitto e la ripresa,
seppur confortata da una buona presenza di lavoro, non
era, tuttavia, una cosa né semplice né facile. C'erano stati
I responsabili delle denunce ai tedeschi dovevano pagare
il loro debito alla Giustizia. Processi ed epurazioni
avevano messo la parola fine al triste capitolo ma non
avevano, sicuramente, cancellato di colpo ferite, lutti e
drammi di una delle più tristi pagine dell'intera vita
aziendale.
Imputato per le deportazioni, assieme ad altri, fu ritenuto
il comm. Umberto Walter il quale, però, con un secco
colpo di pistola pose fine ai suoi giorni prima ancora
dell'inizio del processo. E questo avvenne nei primi
giorni del giugno '45.
Il suo comportamento, il suo carattere, il suo stile di vita,
evidentemente, lo avevano tradito. Spinto da umana
necessità per giorni e giorni, nel periodo del rientro dei
deportati, era stato a Bolzano vagando di carrozza in
carrozza alla ricerca di questo o quello nella speranza di
ritrovare e di aiutare le persone che in precedenza aveva
contribuito a far deportare.
Nel susseguirsi di situazioni di ogni genere la sua vita si
è chiusa a sorpresa con un colpo di pistola, fermata così
tragicamente, portando con sé il segreto di scelte, di
errori e quasi sicuramente di colpe.
Nel periodo dell'occupazione nazista la “Comense”
aveva aperto il cancello alle truppe germaniche per le
quali "lavorava" la seta per la realizzazione dei
paracaduti. Un “comando” nazista era alloggiato negli
uffici e settimanalmente colonne di autocarri militari
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7 - LA RIPRESA NEL DOPOGUERRA
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Quando era “La Comense”
trasportavano la seta lavorata dalla fabbrica comasca alle
ditte confezionatrici e quindi al fronte.
9- COME ERA
Il clima, anche dopo due anni dal termine del conflitto,
risentiva parecchio del passato, anche se erano
evidentissimi i segni di una netta ripresa morale ed
economica. La vita normale, poi, gradatamente ebbe il
sopravvento.
Com'era strutturata nel 1947 la Tintoria Comense?
Occupava lo stesso spazio ancora oggi oggetto
d'interesse, di progetti e di accesi dibattiti. Era situata
sulle rive del Cosia e si propagava da Via Benzi fino alla
Via S. Abbondio, costituendo ciò che all'interno veniva
definito con la denominazione “Nord”. Proseguiva,
quindi, da Via S. Abbondio fino alla Via Albricci con
l'altro appellativo di “Sud”.
Al Nord erano disposti, nell'ordine, gli uffici
amministrativi, ancora riconoscibili dal grande orologio
(perennemente fermo) posto sopra un grande finestrone
rettangolare che era, allora, quello dell'ufficio
dell'Amministratore Delegato. Sotto il portico, il
magazzino droghe e colori con relativo ufficio e la
grande pesa basculante. Subito dopo il portico a sinistra
iniziava il reparto purga, ossia la preparazione dei tessuti
per le lavorazioni seguenti, invece, un terzo del fianco
destro era noleggiato alla Farmitalia sfollata a Como per
le note vicende belliche. Più avanti sulla sinistra il
reparto greggi che si ergeva fino al terzo piano e di
seguito il reparto tintoria con i sussidiari di spremitura e
asciugamento. Sempre sulla sinistra seguiva il
magazzino metalli, l'officina meccanica e quella dei
falegnami; poi la palazzina riservata all'Ufficio Tecnico
con la relativa direzione. Di seguito il grande reparto
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Quando era “La Comense”
dell'apparecchio ossia il finissaggio e la confezione dei
tessuti lavorati. Sul lato destro la continuazione di queste
lavorazioni in alcuni capannoni che erano definiti i negar
poiché in tempi assai remoti si tingevano i filati appunto
di colore nero.
Al di là di via S. Abbondio, appena oltre il cancello,
sulla destra c’era il garage per la manutenzione ed il
riparo degli automezzi; le scuderie poiché, forse come
residuato di guerra, si adoperavano ancora alcuni cavalli
per il trasporto. Dirimpetto il grande edificio delle
caldaie. Poco più avanti, sempre sulla destra, il reparto
della seta, dalla purga alla tintura e una decina di jigger
per la tintura in largo su rulli. Sulla strada che
fiancheggiava questo lungo edificio confinante con altre
proprietà erano posti dei grandi contenitori per alcuni
acidi (muriatico, cloridrico, solforico).
Si arrivava quindi al famoso “corpo a C”, ossia tre
palazzoni di 3 e 4 piani, detti comunemente “la stampa”,
dove in effetti si procedeva appunto alla stampa sui
tessuti. Nei tre palazzi erano inclusi anche tutti gli uffici
relativi alla procedura (registrazioni, disposizioni e
ricettazione). Al quarto piano, prospiciente il cimitero
maggiore, erano alloggiati i disegnatori, i lucidisti e tutti
gli sgabuzzini per i fotoincisori. Al piano terra, nei
capannoni adiacenti, erano posizionate le nove macchine
per la stampa a cilindro in rame e tutti i servizi del dopostampa: lavaggi, fissaggio, asciugamento e visita.
Ancora più avanti, verso il borgo di S. Rocco, la
carbunera di cui si è già detto. In seguito sarà poi adibita
a grande vasca per il deposito della nafta.
La Tintoria Comense eseguiva tutte le lavorazioni per
conto terzi e non produceva assolutamente nulla in
proprio. Nel 1947 si lavorava unicamente sul tessuto
avendo già prediletta questa scelta da tempo. I filati dalla
gloriosa storia e attraverso i quali si erano formati e
cresciuti generazioni di veri tintori erano stati affidati
alla “Tintoria Colora”, già F.lli Pagani di Via Viganò a
Como.
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Lo staff dirigenziale era così composto:
Amministratore Delegato Dr. Ing. Augusto Brunner
Direttore Amministrativo e
Commerciale Comm. Luigi Guggiari
Direttore Servizi Tecnici Ing. Carlo Ciccardi
Capi piazzisti GianMaria Perlasca
Mario Cavalleri
Capo del Personale Mario Girola
Naturalmente seguivano poi un nutrito numero di Capo
Reparto, Capo Ufficio e via via.
Cominciava ad affiorare la figura del Capo del Personale
che fu affidata, per quel tempo, al Sig. Mario Girola
proveniente dalla Stipel e che aveva un passato di
comando militare.
Erano tempi in cui bisognava sorvegliare tutto, dando
tuttavia l'impressione della socializzazione. Non era
quindi infrequente che il Capo del Personale, in
bicicletta, nel suo girovagare mattutino si fermasse a
colloquiare con alcuni operai. Spesso ciò accadeva
davanti ad un carrello carico di tessuti, greggi o finiti, e
che tutto infervorato si lasciasse andare a toccare,
facendola scorrere tra il pollice e l'indice, la stoffa
magari dicendo: ”Ma che bel tessuto...che ottima mano
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Quando era “La Comense”
che ha” dimenticandosi, di togliersi i guanti di pelle!
Le maestranze della Tintoria Comense erano composte
da preparatori, tintori, stampatori, apparecchiatori, da
ausiliari ma anche da autisti, meccanici, falegnami,
idraulici, muratori, verniciatori, fotoincisori, fattorini,
controllori e impiegati sia tecnici che amministrativi.
l'abilità dello stampatore, ad evitare il magro ed il
grasso, due termini tecnici per indicare quello che in
fotografia si identifica con sottoesposto e sovresposto.
La seta, incontrastata protagonista del tessile stava
lentamente uscendo dalla scena che aveva dominato per
lunghi decenni e incominciava a prendere decisamente la
prevalenza il tessuto in fibra vegetale e soprattutto quello
artificiale: la fuffa. Per il profano meglio sarebbe a dire il
fiocco. Come se lo stagno prevalesse sull'oro.
Evidentemente era questo un segno dei tempi ma anche
l'inizio di un periodo che chiudeva industrialmente con il
passato.
Progressivamente, e conseguentemente, al tipo di attività
prescelto, si cercava di abbandonare alcuni metodi
artigianali per dare una parvenza più industriale ma
spariva, anche, la figura del tintore. Dalla tintura “alla
tazza” dove il tintore costruiva con la propria abilità il
tono di colore richiesto, si passava a quella dove
l'operaio diventava di fatto un semplice esecutore di
ordini
I primi carrelli di stampa a mano le macchinette in gergo
hanno accantonato abilità e ricerca della perfezione,
rendendo quasi meccanico l'andare e venire della spatola,
eliminato spilli e sottotele e completamente cancellato il
gusto dello stampare che tendeva anche, attraverso
La lunga lavorazione della seta per i doppioni, gli
shantung e altri tipi, le interminabili e operose
manipolazioni in quadro per levare la sericina, il
particolare della tintura in bagno acido, rendevano
sempre più costose le esecuzioni riducendo
sensibilmente i guadagni fino a quando anche la
lavorazione
completa
della
seta
tessuta
fu
definitivamente abbandonata.
Il rilevamento della produzione era regolato da un
sistema veramente all'avanguardia realizzato nei primi
anni Quaranta da una consulenza tedesca che
permetteva, contemporaneamente, di osservare anche
l'avanzamento delle lavorazioni. Il tutto era regolato
dall'emissione per ogni partita (ossia il quantitativo
disposto per la lavorazione, tipo di colore, di stampa e di
finissaggio) di una serie di bolle (secondo il percorso tra
i reparti interessati) di cui l'ultima stampata su cartoncino
costituiva il foglio di lavorazione. Su quest'ultimo nella
parte bassa c'era tutta una serie di piccoli coupons che
comunemente erano chiamati tagliandini, che staccati di
volta in volta nei vari reparti, evidenziavano il
quantitativo trattato. La somma di questi tagliandini per
tipo di lavorazione e reparto, permetteva di stabilire
quanto si produceva in chili e in metri giorno per giorno.
Dal rilevamento della produzione mi accorsi che
mancavano in misura eccessiva tagliandini relativi al
reparto seta indicato con lo 04. Era un pomeriggio di
un’estate molto calda. Ultimo capo reparto seta era ul
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10- CREPUSCOLO DELLA SETA E AVVENTO
DELLA FIBRA ARTIFICIALE
© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
Daniel che, per via dei consueti sbuffeggiamenti che a
mo' di tic emetteva sovente, era soprannominato ul bufa.
Già piuttosto avanti con gli anni e forse per il fatto che
già alle prime ore del mattino era sul posto di lavoro (in
regola col vecchio cliché), lo trovai piuttosto “spossato”.
Nel reparto, che già aveva terminato l'orario di lavoro,
aleggiavano residui di vapore, odori più o meno aspri,
mentre una vasca perdeva acqua e in un'altra da un tubo
cadevano gocce, qua e là carrelli, sacchi, tele e altro.
Alla mia richiesta di tagliandini, ul Daniel mi squadrò
tutto chiudendo un occhio, forse per aprire meglio l'altro,
si passò una mano prima sulla fronte e poi sui capelli
argentei e mi disse: “Set chi a rump i ball?”.
Alla mia insistenza, alfine, cedette e rovistando tra le
tasche mi versò una quantità, quasi infinita di tagliandini
sbuffando così violentemente che buona parte di essi
volarono via....
Pensare che c'era un ufficio apposito per la rilevazione e
un altro per la notifica dell'avanzamento della
produzione. Certo non era ancora pianificazione... era
comunque un embrione.
Ma il vero “boom” per la Tintoria Comense fu la
rivoluzionaria idea, per quei tempi, di rendere il
finissaggio del fiocco “antipiega”. Il Nuera per il fiocco
e il Norplia per il cotone costituirono uno dei cardini
produttivi e contribuirono non poco ad incrementare
l'attività.
Una continua e minuziosa ricerca di aggiornamento e di
studio (era da anni funzionante un apposito laboratorio)
portò, sotto l'oculata direzione dell'amministratore
delegato Dr. Ing. Augusto Brunner, l'industria comasca
all'apice.
Mentre si abbandonavano tutte le lavorazioni ritenute
troppo onerose e intese anche come sovrapposizione ad
una linea standard, contemporaneamente, se ne
introducevano altre richieste dal mercato.
Si passò alle lavorazioni su bobina, ossia accumulo di
più ordinazioni, anche di diverso cliente, ma similari tra
loro eliminando il frazionamento in casse: si
introdussero attraverso licenze o brevetti le lavorazioni
del clò-clò consistente in un effetto a sbalzo su cotone
destinato all'abbigliamento femminile, la stampa flock
ossia motivo in rilievo su tessuto ottenuta con cascame
di pelo di fiocco o seta sottilissimo applicato con quadro
alla lionese. Nel contempo si abbandonarono, quasi
definitivamente le lavorazioni sulla lana (follatura ecc.),
sui taffettà, mentre prendevano sempre più corpo le
lavorazioni di sbianca, mercerizzazione e tintura del
cotone. Fu pure abbandonata la tintura “in largo”
eseguita sulle cosiddette stelle a vantaggio di quella su
jiggers e foularda.
Nella stampa si perfezionava la stampa con carrello
manuale (ideato in azienda negli anni 1937/38) mentre
iniziavano i primi tentativi per quella in continuo.
Un buon successo ebbe anche il watro ossia
l'impermeabilizzazione sul cotone, quasi sempre color
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La Comense andava inquadrandosi, tuttavia, nella
generale ripresa che doveva portare, qualche anno più
avanti, al famosissimo boom italiano con tutti i suoi
pregi ed i suoi difetti.
11 – UN’IDEA RIVOLUZIONARIA
© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
kaki, mediante spalmatura e fissazione in rameuse.
Nel frattempo si andava mutando anche l'assetto
territoriale della Cumensa. Si erano liberati tutti i locali
del settore Nord affittati alla Farmitalia e anche la
palazzina a suo tempo concessa alla Mafbo confezioni
tessili.
La grande ditta di medicinali poi, forse in segno di
riconoscenza o meglio forse per contratto, contribuì non
poco alla erezione di quel grande edificio posto a lato di
Viale Innocenzo XI che fino alla chiusura ospitò la
grande insegna luminosa della ditta.
In conseguenza di un miglior assestamento del comparto
Sud furono localizzati tutti i servizi (manutenzione,
officina meccanica, falegnami, magazzino metalli)
mentre i locali a Nord, resi liberi da questi spostamenti,
permisero l'allargamento del reparto finissaggio con
l'allestimento di più moderne rameuses, cosi come da
Sud rientravano alcuni reparti di tintoria ottenendo la
creazione nel grande spazio rimasto del reparto cotone.
Anche il reparto greggi che era posto in una palazzina a
tre piani (con un'inutile costo aggiuntivo per portare le
pezze poi al pianterreno per la lavorazione) trovò una più
congeniale sistemazione in uno spazio lasciato libero
dalla Farmitalia.
Il reparto stampa subiva, intanto, delle modificazioni con
l'estensione su tutti i tavoli delle soffierie per facilitare
l'asciugamento delle pezze e una moderna canalizzazione
della luce elettrica con l'introduzione della luce al neon.
Un altro importante aggiornamento tecnico fu
l'applicazione del motore elettrico applicato alle singole
barche di tintoria in sostituzione della superata
trasmissione a cinghia.
Dal 47' al 54, furono anni difficili sotto il profilo
politico-sindacale. La Commissione Interna per diversi
anni fu presieduta dal “compagno” Carlo Viganò.
Un uomo che a modo suo si è battuto per affermare
diversi diritti poi riconosciuti dalla Statuto dei Lavoratori
ma che politicamente ed anche dall'aspetto era un facsimile di alcuni personaggi creati dalla fantasia di
Giovanni Guareschi. Era, il Viganò, soprattutto un
grande agitatore di masse e quindi non era infrequente la
sospensione del lavoro per scioperi improvvisati indetti
ad ogni minima controversia. Il susseguirsi di duri
scontri verbali con direttori, dirigenti e capi-reparto, le
irruzioni nei reparti per protestare con il seguito dei suoi
più attivi collaboratori-compagni preparavano, via via, lo
scontro che poi avvenne. Il “compagno” Viganò fu
licenziato in tronco perché sorpreso dall'Amministratore
Delegato in stato di ubriachezza.
Scoppiò il finimondo... qualche giorno di sciopero,
qualche tensione e poi tutto passò... anche il “Vigano”:
era il 1949.
12- RITI E PRIVILEGI
C'erano all'interno della vita aziendale alcuni riti che per
le migliaia di persone che negli anni vi hanno lavorato
sono risultati indimenticabili e fonte di molti ricordi....
Ogni mattina lavorativa i componenti la Direzione
avevano il privilegio della manutenzione e della pulizia
della loro automobile. Il garage per qualche ora
diventava tutto un fervore; il più delle volte occorreva
anche andare all'uscita di qualche reparto a prelevare la
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Quando era “La Comense”
macchina, portarla sul piazzale e cominciare tutta
l'operazione, o meglio il rituale. Lavaggio, sgrassaggio,
manutenzione, olio, benzina, controllo gomme ed
eventuale gonfiatura. Si può dedurre che le automobili
della direzione erano meglio curate degli automezzi di
servizio e che, sicuramente, una continua e così
minuziosa manutenzione non l'hanno mai avuta.
Per quanto concerne gli impiegati l'avvicinarsi del Natale
creava una speciale atmosfera che superava di gran lunga
quella tipica e classica del periodo. Qualche giorno
prima del 25 dicembre la direzione procedeva alla
distribuzione della tredicesima, la cosiddetta busta,
convocando uno ad uno tutti gli impiegati. Ma il giorno
esatto non lo conosceva nessuno. Quando il calendario
cominciava ad indicare i giorni dopo il 20 scattava una
sorte di infiammazione generale. La vedetta era il buon
Ugo Rossi, capo-magazziniere, che in quei giorni
incrementava non poco il suo andare e venire per essere
il primo a cogliere il segnale del grande evento.
La Direzione era ubicata sopra il cortile di accesso e vi si
accedeva attraverso uno scala interna di una ventina di
gradini che immetteva, poi, in uno stretto corridoio poco
luminoso che, a sua volta, introduceva nell'ufficio
segreteria e da qui, attraverso una porta di servizio, in
direzione.
Quando scoccava l'ora "X" era come se fosse scoppiato
un incendio; non si gridava “al fuoco al fuoco” ma tutti
pensavano “al posto al posto” intendendo così, una
posizione strategica da cogliere sul percorso. Le donne
subito correvano alla toilette per aggiustarsi, mentre gli
uomini pur celando una calma solo apparente erano
anch'essi presi dall'emozione. Qualcuno, addirittura,
faceva una corsa a casa per mettersi il vestito buono.
Lentamente, ma poi non tanto, gli impiegati
cominciavano ad ammassarsi mentre si svolgeva il
rituale.
Scendevano dalla Foto, dalla Stampa, arrivavano dagli
uffici,
dai
reparti,
salivano
dalla
Tintoria,
dall'Apparecchio, era una vera migrazione alla ricerca
del pascolo, dove per tale si intendeva il dovuto.
La cerimonia era strettamente collegata ad un fatto
sonoro e visivo che assumeva nel folto pubblico presente
(perché di rappresentazione si trattava) un'importanza
assoluta.
Le cose andavano così: l'ingresso in direzione era
regolato dal suono, o meglio, dal gracchiare di un
campanello e dall'accendersi contemporaneamente di
una luce rossa che indicava l’occupato. Per gli impiegati
radunati per la cerimonia la lunghezza della permanenza
in direzione era segno di grande interessamento e
d'importanza per il convenuto. All'interno, e cioè in
direzione, le cose andavano invece così: dietro una
gigantesca
scrivania
sedevano
sorridenti
l'Amministratore Delegato Dott. Ing. Augusto Brunner e
il Direttore Commerciale Comm. Luigi Guggiari. Sulla
scrivania due cassette rettangolari contenente le “buste”.
Dopo un breve saluto o domande di circostanza, si finiva
sovente con il parlare di cose di nessuna importanza che
andavano magari per le lunghe.
Per quelli fuori erano questi i momenti salienti poiché
l'orologio girava, la luce era accesa e quello dentro era
una persona importante!
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Quando era “La Comense”
Nei primi anni del dopoguerra iniziarono la loro
collaborazione con l'azienda il Dott. Emilio Walter,
figlio del Comm. Umberto e il Dott. Vincenzo Foti che
negli anni a seguire andranno ad assumere importanti
cariche direttive.
13- “SARA L'ACQUA E VERT UL VAPUR” La produzione era costantemente in aumento e la qualità,
ma meglio sarebbe dire “la nobilitazione”, era di ottimo
livello.
Le lavorazioni per conto terzi, quali erano
fondamentalmente gli impegni produttivi, hanno sempre
avuto andamenti stagionali causando vuoti preoccupanti
in alcune specialità. Una stagione o un periodo tirava
l'unito e conseguentemente era la stampa ad entrare in
crisi. Viceversa trionfava lo stampato e allora come
conseguenza era l’unito ad entrare in crisi.
Orbene, in Tintoria Comense per lunghi anni non si è
mai fatto ricorso alla Cassa Integrazione. Il reparto o i
reparti in crisi superavano il momento difficile mettendo
in movimento tutto un esercito improvvisato di pulitori,
restauratori, verniciatori, costituito dagli operai addetti
alle lavorazioni. Una manutenzione straordinaria
eseguita da uno stuolo armato di pennelli, vernice, pale,
rastrelli e attrezzi vari che iniziava a riassettare, pulire,
imbiancare, tutto quanto era necessario. Particolare era la
pulizia dei vetri e ancora più caratteristica l'estirpazione
dell'erba che allora cresceva all'interno della ditta nelle
strade con l'acciottolato.
della Direzione di quei tempi, fu quella di installare
l'impianto Caliqua. Una vera e propria rivoluzione del
sistema di riscaldamento delle barche di tintoria e una
proiezione innovativa che, in seguito, si è sempre
dimostrata fino alla chiusura, una delle più oculate e
delle più utili.
Il sistema, apparentemente semplice, sfruttava a livello
industriale il principio dell'acqua calda che ognuno ha
installato nella propria abitazione. Per portare alla
temperatura occorrente le barche di tintoria (oltre 70) che
erano di misure diverse (500, 750, 1000, 2000, 3000
litri) si procedeva, prima di questo impianto, inserendo la
cosiddetta “baionetta”, che era una presa di vapore e
aprendo il relativo rubinetto. Da ciò anche il famoso
detto prettamente comasco “sara l'acqua e vert ul
vapur”.
Con il sistema Caliqua il riscaldamento dell'acqua
avveniva attraverso una serpentina inserita nella barca
per tutta la totalità dell'ampiezza nella quale passava
acqua surriscaldata che poi raffreddandosi, ma non
completamente, ritornava al grande contenitore ancora
tiepida e quindi surriscaldandosi nuovamente in minor
tempo ed a costo contenuto.
La realizzazione di un tale sistema comportò la stesura di
migliaia di metri di tubazioni, l'installazione di numerose
pompe, la creazione di un nuovo settore con la
realizzazione di una nuova costruzione per contenere i
due giganteschi boiler. Fra gli operatori giunti dalla
Germania e coadiuvati anche dai tecnici indigeni si
distinse il “Franz” abilissimo saldatore che fungeva
anche da “capoccia”.
Una delle grandi e futuristiche imprese messe in atto
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14 - IL “SEGRETO” DEI NUOVI MACCHINARI
L'arrivo di un macchinario nuovo faceva scattare negli
addetti al montaggio una grande preoccupazione: quella
di far sparire ogni e qualsiasi riferimento di provenienza.
Le casse e gli imballi erano scortate a vista fino a quando
non venivano sacralmente distrutti. Era forse questo il
modo per mantenere il segreto, che poi era quello di
Pulcinella, ma indicava il segno di una politica aziendale
che certamente aveva fatto il suo tempo.
Ma tutte le preoccupazioni del caso non servirono per il
Sanfor poiché portava fuso su una spalla non solo il
nome della ditta costruttrice ma anche: “Questa
macchina è stata ottenuta attraverso l'aiuto
Americano...”
Il Sanfor aprì una nuova era in Tintoria Comense: quella
del finissaggio del cotone e dello sviluppo di questo
settore merceologico. Il sistema Sanfor, in sé era molto
semplice. Consisteva nella bagnatura del cotone per
favorirne il naturale restringimento e quindi, subito
dopo, attraverso il passaggio del tessuto, dapprima su
pochi metri di una rameuses per la definitiva
sistemazione dell'altezza, e poi su un grande cilindro
surriscaldato, in gergo chiamato palmer, alla stiratura e
quindi alla confezione.
La novità era costituita non solo dall'irrestringibilità del
tessuto ma anche dal fatto che tutte queste operazioni,
per la prima volta all'interno dello stabilimento, erano
eseguite in continuo, cioè senza frazionamento di
lavorazione.
A fungere da capo reparto fu nominato il Gigi Binaghi
che in seguito abbinò il suo nome alla lavorazione tanto
da divenire per tutti il “Gigi del Sanfor”.
La prima lavorazione, in un clima generale di crescente
interesse, fu un capitolato militare: entrarono parecchi
autocarri a rimorchio cariche di tele color kaki che
misero, naturalmente in giro, le voci più disparate e
fantasiose.
In seguito le lavorazioni si allargarono con lo
specializzarsi in alcuni settori, come quelli per gli
interno-colli e gli interno-polsi per le camice da uomo. Il
reparto restò sempre in funzione di norma con due turni
giornalieri per un totale di 15 ore e anche con tre in certi
momenti di punta.
Le grandi rameuses coperte e le grandi macchine per
l'asciugamento avevano tutte un nome di battaglia che
non erano quelli nominati dalla ditta costruttrice, bensì
quelli che la direzione imponeva.Dominante la scelta dei
venti: così c'erano quelli locali come “Breva” e “Tivan”,
ma anche quelli più impegnativi come “Tifone”,
“Tornado”,
“Grecale”,
“Monsone”,
“Ghibli”,
“Maestrale” e così via...
Le "rameuses" sono macchine destinate al reparto
finissaggio ed hanno un impiego poliedrico. Esse sono
destinate a svolgere, a livello industriale, il lavoro che
una casalinga fa quando stira, con qualche specifica in
più.
Esse sono costituite da diverse campate (quattro o sei)
dove attraverso una catena il tessuto viene introdotto per
subire, a secondo dell'esigenza, il trattamento desiderato.
Le campate sono molto calde; in esse circola aria a 180 e
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più gradi e la catena, formata da piccole pinze a spilli
prende il tessuto sia a destra che a sinistra e lo introduce.
Solitamente per certi tessuti occorre riportare l'altezza
alla misura desiderata (90, 120, 140 centimetri) poiché le
operazioni di tintura hanno ridotto tale altezza. La catena
partendo dalla misura più bassa, lentamente e in pochi
metri la riporta a quella desiderata e passando nel calore
la "fissa" cioè la rende stabile.
Contemporaneamente la stoffa prima di entrare in
"rameuses" attraverso una "foularda" (semplicemente
una serie di tamburi messi in verticali con davanti una
bacinella dove è posto un "bagno" per l'appretto,
l'antipiega, o altro) si bagna e si impregna. All'uscita
dopo un percorso di 50/70 metri e più il tessuto sarà
perfetto così come ogni donna lo vorrebbe.
Il "palmer" era un precursore della "rameuses" e veniva
usato particolarmente con la seta per darle quel tocco
tipico di questo tessuto. Era costituito da un grosso
cilindro metallico dal diametro di 4/6 metri surriscaldato
a vapore sui cui un grosso panno faceva da base al
tessuto che leggermente spruzzato d'acqua si "stirava" e
faceva impreziosire twill, schantung, e altre meraviglie
seriche.
ed il secondo, qualche metro più in la, poco più in alto ed
anch'esso elicoidale in modo, una volta in funzione di far
cadere la pezza nella vasca per il tempo di immergersi
nel"bagno" ossia il colore e poi di nuovo scorrere e
rituffarsi. Questa era la prima tecnica poi l'incorsatura
diventò automatica e bastava infilare il primo capo della
pezza in un apposito anello all'entrata e avviando la
macchina con il proprio motorino indipendente aspettare
l'arrivo all'uscita, cucire le due testate e via.
Un tempo le"barche" erano scoperte poi furono coperte e
chiuse con sportelloni pesantissimi sia davanti che
dietro.
Ad ogni tipo di stoffa (cotone, seta, lana, fiocco, nylon,
ecc.) corrisponde un diverso tipo di tintura sopratutto per
il tipo di colorante e di acidi necessari.
La tintura avviene sempre con "bagno caldo" per un
determinato numero di tempo e quando si è raggiunto il
"campione" ossia il tono di colore desiderato, si procede
al lavaggio in acqua fredda.
Le "barche" di tintoria sono delle vasche ora di acciaio
inossidabile, un tempo di legno, dove le stoffe o pezze
vengono tinte.
Per far ciò a seconda della quantità ci sono "barche"
piccole, medie, grandi e grandissime con centinaia e
migliaia di litri d'acqua ognuna. La stoffa viene messa in
acqua pezza per pezza creando, cucendo l'inizio e la fine,
una catena che rimane stesa fra il primo aspo elicoidale
Un momento drammatico era quando si spaccava il tubo
di portata dell'acqua. Il rifornimento era garantito da un
impianto autonomo di pompaggio dell'acqua lacustre che
veniva pescata circa all'altezza di Villa Olmo. Una
centralina posta al centro dei giardini pubblici a lago, di
fianco al Tempio Voltiano, pompava acqua fino ai
serbatoi in ditta. Erano quattro pompe dalla capacità di
200 L/sec. cadauna. Erano talmente potenti che
fornivano acqua anche alla Colora e negli ultimi anni
anche alla tintoria Pecco & Malinverno, alla SmartCastagna, alla tintoria Lombarda e alla tessitura
Terragni.
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Quando il flusso scendeva paurosamente allora era
evidente che si era rotto il tubo. Ma dove? Questo era
l'interrogativo. Subito le maestranze venivano
immediatamente spedite a casa e le lavorazioni
cessavano. Entrava, però, in stato permanente di
agitazione tutto lo staff tecnico con l'ingegnere in testa.
Seguivano tutti i subalterni dagli addetti alla
manutenzione, ai tubisti, agli elettricisti, ai muratori.
Saliva la tensione mentre i praticoni cominciavano direi,
quasi ad annusare metro per metro il percorso per capire
dove il tubo perdeva acqua. Quando la falla veniva
individuata (il più delle volte dopo diverse ore, se non
giorni, perché l'acqua appariva in superficie) allora
entravano in funzione tutti gli addetti al tubo che senza
sosta, qualche volta anche per qualche notte, spalavano,
scoprivano, aggiustavano o sostituivano il tubo guasto.
Si vivevano ore molto agitate mentre la maggior parte,
inoperosa, alla domanda “Ma cosa fai a casa”?
Rispondevano: “Un tubo, per via del tubo rotto”.
Alla fine, quando tutto rientrava nella normalità, si
notavano i tecnici e gli operai che avevano proceduto
alla riparazione varcare i cancelli come se fossero reduci
da una vittoriosa battaglia: lo sguardo fiero, il volto
segnato con l'aureola del glorioso, le pale e rastrelli al
vento come armi simboliche. Il tubo ancora una volta era
salvo!.
Tutta una documentazione corredata da disegni esternava
le varie rotture del tubo, come a sottolineare che il tubo
ricopriva un ruolo determinante nella storia aziendale:
insomma il tubo era la vita!.
15 - LE GITE AZIENDALI
Non sono mancati anche momenti di aggregazione e
ricreativi organizzati dalla stessa ditta. Ne ricordo due: il
primo il 22 ottobre 1949 per festeggiare la venuta a
Como della famiglia Gillet ed il secondo per una gita
collettiva sul Lago Maggiore. Al primo non ho
partecipato perché non ne avevo l'età in quanto la
manifestazione era riservata ai dipendenti con un certo
traguardo d'anzianità. Sulla riviera ligure fu offerto un
ricco pranzo a ogni dipendente ed un premio di mille lire
per ogni anno di servizio: sicuramente per la Tintoria
Comense erano quelli tempi d'oro.
Il secondo, ossia la gita sul Lago Maggiore, assomigliò a
qualche cosa come la spedizione dei Mille. In treno da
Como a Laveno con un vecchio Gibuti delle Ferrovie
Nord. Per Gibuti i pendolari intendevano quei vecchi
treni con panche in legno, maleodoranti e stridenti. A
Laveno, attraversata la piazza a lago, tutti a bordo di due
battelli appositamente noleggiati e quindi partenza con
destinazione all’Isola Bella e all’Isola dei Pescatori.
Giornata serena, stupenda. Nell’approssimarsi del
mezzogiorno si iniziò la prima circumnavigazione
dell'Isola Bella. Intanto “i mille”, guardando l'orologio si
chiedevano: “Quando si mangia?” “Bella l'isola...tutto
bello...però?”
Quando i battelli iniziarono il secondo giro dell'isola, si
fece sempre più pressante l'interrogativo: “Si mangia
oppure no”? Ancora una volta i battelli iniziarono
nuovamente il periplo dell'isola e improvvisamente quasi
per miracolo iniziò la distribuzione dei cestini da viaggio
e l'incubo, tra una morsicata e l'altra, svanì.
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Finalmente i battelli accostarono e si scese per visitare
l'isola. Chi entrò in un bar, chi passeggiò sognando
chissà quali avventure...chi visitò il giardino botanico
della stupenda villa.
Il cielo nel frattempo cominciò ad oscurarsi...soffiava un
vento foriero di tempesta che inevitabilmente poco dopo
scoppiò violenta.
Fuggi fuggi generale sui battelli e via per la traversata di
ritorno. “I mille” vissero l'avventura come se stessero per
attraversare il canale della Manica.
Si ondeggiava come non mai e finalmente arrivò
l'attracco avventuroso al pontile di Laveno. In volata
l’attraversamento della piazza sotto l'acqua scrosciante
cercando poi riparo nella vicina stazione ferroviaria. Un
fischio e il treno partì...qualcuno rimase “invischiato” in
qualche bar o in una trattoria. Sarebbe tornato con i
mezzi propri...
La mattina del giorno dopo lunedì, cielo sereno, limpido
e tutti al lavoro. I “mille” avevano anticipato di molto il
Rag. Ugo Fantozzi...
Ai primi degli anni cinquanta, quando la Tintoria
Comense era in piena efficienza, la Direzione ritenne
opportuno svecchiare gli uffici centrali direzionali,
almeno nelle apparenze.
In effetti, quando ebbi il primo impatto con gli uffici
principali provai la stessa sensazione di disagio che una
persona può provare quando dopo tanta immaginazione
si trova davanti la cruda realtà.
L'occasione si presentò propizia quando, costruito il
nuovo laboratorio in fondo alla zona nord, si liberò una
buona parte del primo piano interno del palazzo centrale.
Trasferito nella nuova sede il laboratorio, lo spazio fu
assegnato all'Ufficio paga e conseguentemente si passò
alla sistemazione degli uffici amministrativi. In primo
luogo si crearono dai precedenti due stanzoni tre aree
così destinate: una sala abbastanza capiente per i
piazzisti con le scrivanie dei maggiori responsabili, sig,
Perlasca e sig. Cavalleri, quindi un salone centrale per la
cassa, le primenotiste e l'amministrazione varia e quindi
la fatturazione divisa in due scomparti da un corridoio di
collegamento.
Questa volta non si badò a spese: tutto fu rifatto. Il
soffitto fu abbassato con dei lucernari, il pavimento in
legno fu sostituito con quello in linoleum, le vecchie
stufe in cotto con i termosifoni, le prese aeree rimasero
un ricordo con le linee tutte incassate, i vecchi tavoli con
moderne scrivanie.
A capo dell'Amministrazione fu nominato il Dott.
Palmiro Brenna che al primo contatto suscitò
l'impressione, nei diretti dipendenti, di una persona così
a modo, così fine da far pensare che forse, a suo tempo,
aveva intrappreso gli studi ecclesiastici.
Via via, però, acquistò appieno il ruolo tanto da far
dimenticare le apparenze non solo per le capacità
dimostrate ma anche per la severità che sapeva imporre.
E questo comportamento lo subivano le addette alla
fatturazione che finirono per averne quasi il terrore.
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Nei primi anni cinquanta lasciava la direzione tecnica
l'Ing. Carlo Cicardi e veniva sostituito dall'Ing. Giulio
Veronesi.
16- SI CAMBIA FACCIA...
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Quando era “La Comense”
La fatturazione, a quel tempo, non solo era divisa in due
attraverso il corridoio ma era anche scrutabile da vetrate
che separavano i due locali e da una terza che lasciava
intravvedere l'amministrazione.
Le donne, in fatturazione, erano in maggioranza sugli
uomini che erano solamente quattro. La stessa
fatturazione era divisa in due anche nelle competenze:
una specie di mente e braccio.
Al di qua oltre alla responsabile, c'erano gli addetti alle
conferme prezzi, al controllo della fatture, alla
spedizione delle stesse e alla catalogazione dei prezzi per
cliente e lavorazione.
Di la chi batteva su un'apposita macchina
elettromeccanica la fattura vera e propria, chi la
preparava, chi riordinava le bolle di spedizione e alla
fine chi provvedeva alla ripartizione del dopo fattura per
reparto e qualità del fatturato.
La disposizione delle scrivanie in questa zona prevedeva
che tutte fossero rivolte di spalle all'amministrazione e
che solo chi batteva le fatture e chi raccoglieva le bolle
fossero rivolte con la faccia dalla parte opposta.
Il corridoio che divideva i due locali aveva anche un
transito notevole di persone da e per l'amministrazione o
per i piazzisti regolato, tuttavia, da un ingresso con la
porta.
Accadeva che ogni venerdì pomeriggio alle quindici
mentre si lavorava si procedeva pure alla recita del
rosario. Era la Clementina che sgranava il rosario e la
scena era pressapoco questa: lei era china su alcune bolle
con un'alto pacco piuttosto voluminoso davanti, mentre
sbiacicava.... e tutte le altre, più o meno sistemate allo
stesso modo, rispondevano. Gli occhi delle due che
potevano vedere sia l'amministrazione che la
responsabile erano attenti affinchè tutto procedesse
regolarmente, ossia nessuno dei capi si muovesse. Di
tutt'altro tenore era se la porta d'ingresso si apriva
furtivamente. Ma in questo caso la Clementina furba ed
esperta che poco prima aveva avviato l'Ave Maria era
pronta a gridare: "Passami l'Ones, e anche il Mantero,
dov'è il Bellora?" mentre le altre alcune si alzavano in
piedi e altre ancora fingevano di scrivere o di cercare
qualcosa.
Passata la persona e lo spavento, tutto ricomiciava come
prima fino alla fine dello sgranare dei cinque misteri.
E così.....era!
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17 - DA "TINTORIA COMENSE" a "TICOSA"
Il 9 maggio 1956 l'assemblea straordinaria dei soci
deliberò la modifica dell'art.1 dello Statuto secondo la
quale la società adotta la denominazione “TICOSA s.p.a.
- industria comense per la tintura-stamperia e finissaggi
tessili”.
La Tintoria Comense lasciò, così, il nome alla più
moderna TICOSA che altro poi non era se non
l'abbreviazione della vecchia denominazione. Infatti TI
stava per Tintoria, CO per Comense e SA per s.p.a.
Ma erano anche tempi in cui occorreva guardare avanti
per pararsi dalla concorrenza sempre più agguerrita e per
avviare diverse iniziative industriali.
Infatti un anno prima, quale processo di diversificazione,
la Ticosa aveva acquistato il brevetto Heberlein avviando
un reparto sperimentale denominato Filanca che con un
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prototipo di una macchina Heberlein a fornello elettrico
iniziò l'elasticizzazione di filato di poliammide, destinato
alla confezione di calze.
Sono inoltre provati anche altri tipi di filati elasticizzati
che in seguito saranno commercializzati con il marchio
registrato: Ban-Lon e Agilon. Questi tessuti poi saranno
modificati, riducendo buona parte dell'elasticità e
favorendo, in tal modo, l'impiego in tessitura con il filato
testurizzato.
Il nuovo reparto denominato Filanca cominciò a lavorare
a pieno regime nel 1958 e responsabile fu nominato il
Dr. Vincenzo Foti.
18 - IL BOOM DELLA FILANCA
RECLUTAMENTO DEGLI IMMIGRATI
E
IL
La TICOSA raggiunse il massimo livello produttivo
come terzista tintostampatore e finitore a cavallo del
decennio che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta
fino ai primi degli anni Sessanta, con volumi di
produzione fino a 55/60 milioni di metri anno.
Le lavorazioni erano costituite da tintura su mulinello,
overflow, jet, siluro, foularda e jigger.
Stampa su tavoli a coppia di stampatori o con carrello
manuale singolo. Stampa a rulli in rame con la
possibilità massima di dieci colori. Stampa manomacchina (6 impianti). A tale proposito è interessante
rilevare che in Ticosa fu installata la prima macchina
Buser venduta in Italia (e seconda venduta in Europa).
Stampa a cilindri rotativa: un nuovo processo di stampa
con velocità da 30 a 80 metri al minuto.
Finissaggio attrezzato con tutte le macchine necessarie
alla fase di lavorazione.
Uso di licenze e marchi registrati: Nuera, Nuolan,
Watro, Rainova, Norplia, Durasec, Everglaze, Sanfor,
Ragi, Repella, Cinz e Sempralux.
Il reparto Filanca si rivelò subito come un filone d'oro e
entrò in produzione nel comparto Nord, in edifici interni
fino ad allora poco sfruttati e andò continuamente
espandendosi, conquistando tanto spazio che alla fine un
quarto di tutta l'area TICOSA era destinato a questa
attività.
Le macchine per questa ben remunerata lavorazione
erano, tutto sommato, non eccessivamente impegnative:
ognuna di esse portava da 24 a 48 bobine ed il
caricamento e lo svuotamento avveniva ogni 12 o 24 ore.
La mano d'opera adibita a questa speciale lavorazione fu
scelta, per la maggior parte tra gli immigrati,
specialmente meridionali. Il reclutamento avveniva
direttamente alla stazione centrale di Milano, dove ad
aspettare l'arrivo del “treno del sud” c'erano il capo del
personale e qualche fidato collaboratore. Combinata
l'intesa, lo spaesato meridionale con gli occhi sbarrati, la
valigia di cartone tenuta con una corda, senza nemmeno
capacitarsene, si trovava a bordo di un automezzo (un
camion senza sedili) sballottato fino a Como.
Con l'installazione del nuovo reparto la TICOSA in
collaborazione con altre ditte che operavano nel settore
dell'elasticizzato-testurizzato (Banfi, Abegg, Dubini)
creò una società commerciale denominata “Fitra-filati
trasformati” per la vendita di questi prodotti. Qualche
anno dopo la società fu sciolta e nuovamente la TICOSA
diede vita ad una propria società la “Sorim” che in
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Quando era “La Comense”
seguito divenne titolare di altre varie rappresentanze
tessili.
Con una produzione annua di tremila tonnellate la
divisione Filanca divenne una fonte importante di
prestigio industriale e di notevole redditività economica.
19 - LA PRODUZIONE DI BARCHE IN RESINA
Continuando il processo di diversificazione nel 1957, la
TICOSA iniziò la fabbricazione dei separatori Diaflex
per accumulatori elettrici, seguita, nel 1958 da quella di
barche in resina di poliestere con fibre di vetro che portò
alla società controllata “Crestliner s.p.a.” che trovò
sistemazione (con le dovute modifiche) nella celeberrima
carbonaia e nella palazzina accanto di diversi piani a
forma di parallelepipedo.
Nel 1959 si iniziò anche la fabbricazione di tubi in resina
di poliestere (vetroresina) per condutture idriche con la
denominazione Tula. L'attività fu abbastanza breve per
carenza di affidabilità del prodotto nel tempo poiché era
richiesta una garanzia di durata minima di 40 anni.
la lavorazione, controllare qualche difetto, per intavolare
discussioni sempre inerenti le lavorazioni, coordinare
alcune tariffe da applicare ai cosiddetti tipi, ossia quei
tessuti che i clienti per la prima volta inviavano in
TICOSA.
Al terzo piano furono collocati alcuni uffici quali la
Contabilità Industriale, il Tempi e Metodi e subito dopo
il C.E.D. (centro elaborazioni dati) che iniziò a lavorare
con la perforazione a schede attraverso un sistema I.B.M.
Il secondo piano restò, invece, disabitato a lungo.
Nel 1957/58 si iniziò pure ad occupare quel grande
palazzone prospiciente la Via Innocenzo XI collocando
al piano terra, a sinistra il reparto spedizione ed a destra,
diviso dall'ingresso principale, le sale per il ricevimento
dei clienti e fornitori ed uno spazio maggiore dove ogni
mattino si trovavano i piazzisti, il direttore commerciale
ed i vari capi-reparto per la cosiddetta “visita”. In pratica
si trattava di osservare qualche tipo di tessuto nuovo già
lavorato o da lavorare per indicare o correggere appunto
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20- LA TIMBRATURA DEL CARTELLINO
Come in tutte le aziende esisteva il luogo deputato
all'entrata delle maestranze e alla conseguente uscita.
Pur rimanendo, per quasi tutto il periodo della sua
esistenza, localizzato nello stesso posto, la metodologia
per accedervi ha cambiato nel corso degli anni diverse
modalità.
Tutte le maestranze avevano accesso allo stabilimento da
Via S. Abbondio sia per coloro che erano localizzati a
Nord che per coloro che lo erano a Sud. Tanto per
intenderci: a Nord c’erano i reparti di preparazione,
purga, tintoria, finissaggio, confezione e spedizione, a
Sud il reparto seta poi divenuto cotone, il Sanfor, la
stampa, il vaporissaggio, la fotoincisione e la
manutenzione.
Anche gli impiegati seguivano lo stesso andamento. La
palazzina, ancora oggi visibile sul lato destro subito
dopo il cancello d'entrata, era suddivisa da due porte con
due ingressi: una stretta, la prima, riservata agli
impiegati ed una molto più larga, la seconda, per gli
operai.
Ora, l'accesso era regolato dallo scaglionarsi degli orari
che iniziavano dalle sei del mattino e continuavano fino
alle otto, con una più larga concentrazione tra le sette e
trenta e le otto.
Un secondo affollamento avveniva dalle tredici alle
quattordici quando entravano gli operai del secondo
turno e gli impiegati.
Una minore concentrazione, infine, attorno alle 20,30 per
i turnisti della notte.
L'uscita, invece, vedeva molto affollate le ore dalle
dodici alle quattordici e dalle diciassette alle diciotto.
Una minore uscita poi attorno alle ventuno per gli operai
del secondo turno.
In mezzo alle due entrate/uscite comunicante con i due
ingressi c’era un piccolo studiolo dove operavano i
controllori, ossia dei portieri con l'incarico di sorvegliare
tutto l'andamento del popoloso andirivieni.
E' da premettere che fino quasi al termine degli anni
Quaranta gli impiegati non avevano nessun obbligo di
timbratura, anzi non esisteva nemmeno l'orologio
nell'apposita cartelliera. Poi, forse anche per effetto dei
contratti di lavoro, anche per essi scattò l'obbligo,
escluso i capi, del “cartellino”.
Ma la timbratura non c'era nemmeno per gli operai: per
questi c'era il sistema della “medaglia”. Ad ognuno, al
momento dell'assunzione e dell'assegnazione del reparto,
veniva dato un numero con la rispettiva medaglia che
doveva essere appesa nella rastrelliera all'entrata.
Quando l'operaio arrivava staccava la propria medaglia,
la portava nel reparto e l'appendeva alla rastrelliera.
Avvenivano poi due controlli: all'ingresso si notava
subito chi era assente (non aveva staccato la medaglia) e
in reparto, uno degli addetti alla segreteria, annotava le
presenze.
Certo era impressionante guardare queste rastrelliere per
il numero enorme (qualche migliaio) di porta medaglie,
un semplice uncino con sotto scritto il relativo numero e
altrettanto rilevante la cerimonia dello staccare e
dell'appendere la rispettiva medaglia sotto la fretta
concitata dell'arrivo e quella più precipitosa della
partenza.
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Poi cambiò tutto anche per gli operai con l'introduzione
del cartellino e della timbratura che tuttavia restavano
sempre localizzati nello stesso punto. Furono piazzati
diversi orologi, per evitare il formarsi di eccessive code
ma rimaneva sempre il fatto che per taluni c'era un bel
po' di strada da percorrere per andare (o giungere) al
proprio reparto.
Ed e' proprio per questo che nell'orario di mezzogiorno
avvenivano delle vere e proprie corse, lungo la strada
interna, per guadagnare qualche minuto in più sul tempo
di pausa.
In uno stabilimento così strutturato e anche frazionato,
nasceva il sospetto del furto, dell'appropriarsi di qualche
metro di stoffa, di seta , di lana o di cotone.
Allora, per gli operai, fu instaurato un sistema di
controllo casuale affidato ad un meccanismo legato
all'orologio di timbratura all'uscita che al momento
dell'inserimento del cartellino accendeva una lampadina
rossa che obbligava l'operaio alla visita d'ispezione da
parte dei controllori che avevano anche l'incarico di
osservare ogni borsa che gli operai avevano con sé e che
doveva essere aperta sotto i loro occhi.
L'introduzione dello Statuto dei Lavoratori eliminò
questo sistema che era ingiusto e che divideva, ancora
una volta di fatto, le maestranze in due tronconi: gli
operai e gli impiegati.
Fino all'inizio degli anni Sessanta, cioè l'avvio della
motorizzazione tra le grandi masse, alla Comense, per la
maggior parte, si giungeva in bicicletta. Era necessario,
quindi, allestire appositi spazi per posteggiare il più
semplice dei mezzi di trasporto. Col tempo furono
attrezzate due postazioni: una era costituita da un grande
salone appena entrati, sulla sinistra, dall'ingresso degli
operai e dove le biciclette venivano sistemate su dei
grossi ganci appendendole per il manubrio. Un'altra sul
lato opposto della strada, sulla sinistra, per accedere ai
reparti a Sud. Il sistema era lo stesso, solamente che le
bici erano custodite sotto una tettoia all'aperto.
Era un po' emozionante osservare tutte queste biciclette,
dai tipi più disparati, dal Biancone robusto nero, al tipo
sportivo colorato, da quella da donna con l'immancabile
retina sulla ruota posteriore per evitare che la gonna
entrasse nei raggi a quella da corsa. Dal carrettone
arrugginito a quella all'ultimo grido.
Una cosa, tuttavia, era importante: richiuderla sempre e
non lasciare attaccata alla canna la pompa. La prima era
una naturale forma di protezione, la seconda una
necessità perché immancabilmente spariva, così come
alle volte il campanello.
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21 - BICICLETTE, VESPE, SEICENTO E...LA FINE
DI UN EPOCA
Con l'inizio della motorizzazione qualcuno cominciò a
parcheggiare all'interno dello stabilimento il proprio
mezzo di trasporto. Certamente non tutti ma una parte di
capi, capetti e di impiegati ritennero di arrivare nei pressi
del loro reparto o ufficio per trovare un posto e sistemare
adeguatamente il mezzo.
Cominciarono a far bella mostra: Guzzi e Vespe, Gilere
e Lambrette fino ad arrivare all'immancabile Seicento
Fiat.
Il tutto continuò per parecchio tempo con disagi,
specialmente durante l'uscita del mezzogiorno(la più
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Quando era “La Comense”
numerosa), perché occorreva una discreta attenzione sia
per chi era motorizzato che per chi proseguiva a piedi.
Sembra quasi una storiella ma invece è uno dei tenti
episodi che costellano la vita aziendale e che nel
contempo ne evidenziano, nel bene e nel male, la sua
semplice struttura, il clima “da grande famiglia” e alle
volte l'estrema leggerezza o durezza delle regole interne.
Il signor Bruno era giunto in Tintoria Comense nel
dopoguerra proveniente dalla Fiat di Torino ed era stato
Capo Officina meccanica prima e dal 1958 Capo Ufficio
Tempi & Metodi. Era uno di quei Capi che parcheggiava
la propria Seicento all'interno. Essendo stato un
dipendente della ditta torinese era anche un cultore della
seicento ed in particolar modo della sua. Era una
bicolore (come allora si usava) beige con il tetto
bordeaux che lui teneva lustra e sempre in perfetto
ordine.
Era sua cura pulirla, lucidarla, ispezionarla in ogni dove
dall'interno all'esterno, dal motore alla carrozzeria.
Diceva anche di aver conseguito il titolo d'ingegnere in
Belgio e diceva anche altre molte cose sia personali che
aziendali. Diceva e faceva poiché la manutenzione alla
sua seicento lui l'attuava all'interno dello stabilimento e
durante le ore di lavoro.
Quando era Capo Officina si racconta che una volta,
d'estate, si presentò tutto elegante con un abito di quelli
cangianti e come sua abitudine decise di rafforzare la
batteria aggiungendo acqua ed acido solforico.
L'operazione andò certamente bene se non che alla fine
prese uno straccetto imbevuto di acido solforico lo
strizzò e lo sbatté così forte che una infinità di goccioline
finirono sul suo ottimo abito estivo che da quel momento
divenne anche traforato per via dell'acido che aveva così
svolto il suo compito.
Un'altra volta pulendo e accudendo la propria macchina
si sporcò tutta la cravatta di grasso e di unto. Niente
paura! “Portami un po' di solvente” disse al suo
segretario. Smacchiò tutto per bene, anzi benissimo
inzuppando tutta la cravatta e poi ordinò:“Vai sulla
fucina e asciugala” Cosa che il segretario fece. Sulla
fucina rovente della cravatta rimase solo il pezzetto che
il solerte aiutante teneva in mano!
Ma quella mattina decise di dare una bella rovistata e
pulizia alla sua seicento e portò il mezzo (per lavorare
bene) in un posto remoto detto dei Negher perché
inizialmente era il reparto per la tintura dei filati neri e
che ora era praticamente in disuso e serviva, più che
altro, come deposito di tutto ciò che non era più
utilizzabile. I Negher erano posizionati in un grande
scantinato posto sotto l'attuale supermercato in una zona
di tutta tranquillità.
Ma non andò così. In quel giorno era presente, come
ogni tanto avveniva, il Presidente del Gruppo, Francois
Balay, che era anche uso visitare i reparti dello
stabilimento. Non procedeva da solo nella sue visite: era
accompagnato dall'Amministratore Delegato e da altri
dirigenti.
Per quale strano caso, nessuno lo sa, quella volta volle
passare dai “Negher” e trovò molto impegnato nella sua
operazione di revisione e pulizia il signor Bruno che
indifferentemente continuò la propria opera, salutò tutti
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Ma un giorno accadde che...
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Quando era “La Comense”
educatamente addirittura tenendo in mano un'innaffiatoio
da una parte ed un oliatore dall'altra. Nessuno profferì
altre parole. La ronda andò oltre e tutto apparentemente
finì.
Il giorno seguente fu appeso a tutti gli albi un
comunicato della Direzione che proibiva nel modo più
assoluto l'ingresso nello stabilimento di qualsiasi mezzo
personale di trasporto.
Era la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra: quella di un
modernismo giusto che toglieva, però, quel sapore
nostrano di una convivenza basata sulla reciproca
fiducia.
22 - ADEGUARSI AI TEMPI: LA PUBBLICITA'
di Via Innocenzo XI (ben visibile percorrendo la strada
in direzione sud) apparve una gigantografia a colori
riproducente una macchina di stampa a cilindro con la
pezza che si stava imprimendo e con l'addetto le cui
mani erano pacificamente e bellamente appoggiate sui
cilindri in movimento. Sotto appariva la scritta: “Noi
lavoriamo così”.
Capirono tutti ciò che avveniva in TICOSA!
Più o meno in quegli anni l'Ing. Giulio Veronesi, che
tanto operò con il suo contributo di abilità e capacità alla
modernizzazione tecnica dell'azienda, decise di ritirarsi
avviando un'attività in proprio. La direzione tecnica fu
affidata all'Ing. Alessandro Roda, che già da qualche
tempo affiancava il responsabile e che rimase titolare
dell’ufficio fino alla chiusura.
Nel 1962, sempre per il processo di diversificazione, si
avviò anche un'attività per la produzione di articoli
destinati alla cartellonistica.
Forse per adeguarsi ai tempi occorreva fare della
pubblicità; dare un'immagine all'azienda.
In TICOSA si è sempre avuta la presunzione di saper far
tutto, meglio se in proprio. Si trovò, quindi, il modo di
allestire un ufficio affidandone la conduzione ad una
persona estrosa quale era il Felice. Non esistono
parametri per misurare se l'iniziativa sia stata coronata da
successo o meno. Però alcune cose sono rimaste
impresse: su alcuni automezzi fu disegnata a colori
vivaci una pezza che si spiegazzava e si apriva al vento
con sotto la scritta: “Nobilitazioni tessili”. Capirono tutti
cosa si faceva in TICOSA. Forse per provare gli articoli
destinati alla cartellonistica, su un fianco del palazzone
La consueta cerimonia natalizia per quell'anno (forse il
1962) fu programmata nel salone completamente vuoto
al secondo piano dello stabile di Via Innocenzo. Come
già detto in precedenza tutto il grande spazio non era
ancora stato occupato.
La mattina della vigilia (tra l'altro nevicava
copiosamente) ci trovammo tutti in questo desolato
posto: freddo, grigio, scarno come può essere l'interno di
un fabbricato industriale non utilizzato. Per ravvivare
l'atmosfera qualcuno in precedenza aveva avuto la
brillante idea di far scendere dal soffitto qua e là, delle
strisce argentee, forse per simulare addobbi nordici, forse
con l'intento di rallegrare i convenuti.
Era questa la prima esperienza collettiva della
distribuzione della tredicesima, che però raggelò tutti
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quanti per il clima di desolazione che si era creato.
L'anno successivo si corse ai ripari...
Tuttavia uno spazio così grande esigeva una
sistemazione che fu trovata spostando dalla tradizionale
sede di Via S. Abbondio tutta la direzione, l'ufficio
amministrativo, la fatturazione e l'ufficio paghe. Inoltre
si era creato anche un ufficio pianificazione del lavoro,
con diversi impiegati, che con il titolo di “product
manager” curavano la messa in lavorazione degli ordini,
ciascuno per un proprio elenco di clienti. Ora il
palazzone in riva al Cosia era al completo e sulla facciata
apparve anche, con le luci al neon, il logo TICOSA.
La maggior parte di loro veniva convogliata al reparto
Filanca, altri magari alla stampa o in tintoria. Molti di
questi, però, rinunciavano quasi subito. Figurarsi! Solo
pochi giorni prima avevano lasciato campi verdi o
aranceti ed ora si trovavano ovattati dal baff della tintoria
con l’odore aspro degli acidi e delle tinture, in mezzo
all'umidità, quasi fosse una bolgia infernale!
In mezzo a queste trasformazioni è bello, tuttavia,
ricordarne altre non meno importanti.
Abbiamo già annotato come il reparto Filanca fosse per
la maggior parte composto da operai meridionali e come
questi venissero reclutati alla stazione ferroviaria di
Milano Centrale con l'arrivo del treno dal Sud. Quando
giungevano a Como, venivano ospitati in una casaalbergo nell'attesa di una sistemazione. Inizialmente
dovevano sostenere una visita medica che naturalmente
avveniva nelle strutture interne, disponendo la TICOSA
di un gabinetto medico comunemente detto
"l'infermeria".
Capitava, pertanto, di dover vedere una lunga teoria di
persone, sistemata sulle due rampe di scale che
portavano allo studio medico, appoggiate al muro con il
pappagallo in mano nell'attesa di fare pipì per l'analisi,
mentre all'interno la voce tonante del dott. Giancarlo
Galfetti gridava: "avanti!"
Il reparto stampa, costituito essenzialmente dal corpo a
C, era suddiviso in tre settori: la stampa a quadro detta P
da "plance", quella a rullo detta R e quella a manomacchina detta TX. La denominazione di quest'ultimo
tipo derivava dal fatto che i primi esperimenti furono
eseguiti con una macchina svedese che recava il nome di
texilpex, da cui l'abbreviazione TX.
Negli anni del boom iniziò anche la lavorazione delle
tendine, ossia di quei tessuti prevalentemente di fibre
sintetiche destinate a questo specifico tipo di
arredamento. La lavorazione consisteva in una lunga e
meticolosa preparazione per avvolgere migliaia di metri
per volta (da 5 a 6 mila) su una grossa bobina che veniva
collocata poi con un mezzo argano nella barcaccia
costruita all'interno dell'azienda su consiglio del dott.
Foti. Si trattava di un grosso contenitore che permetteva
di purgare e tingere il tessuto in oggetto sotto pressione.
Seguiva poi l'asciugatura e la spianatura su rameuses e la
relativa confezione.
Per molti anni questa lavorazione ha portato la sua parte
di utile fino a quando i quantitativi erano ottimali. In
seguito per la diminuzione della richiesta (oramai di
abitazioni se ne erano costruite tante) i quantitativi
diventarono meno robusti spezzettando troppo la
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Quando era “La Comense”
lavorazione. Attorno agli anni settanta la lavorazione fu
sospesa definitivamente.
Il brusio, nell'attesa, aumentava sempre più fino a
smorzarsi quando improvvisamente, sbattendo la porta a
ventola, la voluminosa signorina Cesarina, segretaria di
direzione, precedeva il "Macchinetta" che in tuta da
lavoro, berretto sul capo, stivaloni calzati, portava
saldamente sotto il braccio le due cassette contenenti le
"buste" della tredicesima. Poi il brusio, dopo l'attimo di
stupore e di attenzione, riprendeva mentre le cassette,
adeguatamente sorvegliate, venivano poste su di un
tavolo pronte per essere distribuite.
La direzione , tuttavia, non arrivava...aumentava invece
la tensione specialmente della signorina Cesarina che,
ingannando l'attesa, apriva una finestra che dava sulla
via interna per osservare il tanto atteso arrivo. Agli
impiegati presenti non rimaneva pertanto che ammirare il
voluminoso "patapeo" della signorina in attesa di tempi
migliori che poi venivano annunciati dalla stessa con
voce tremante e forse commossa dicendo: " In scià!
Arrivan". Allora si spegnevano tutte le luci, si
accendevano le candeline sull'albero e un disco
gracchiante diffondeva "Stille Nacht". Nel frattempo,
approfittando del buio, le sette/otto bellezze saltavano
sui tavoli ammassati sul fondo in modo che al
riaccendersi delle luci erano perfettamente in mostra,
favorendo addirittura la visuale dal basso verso l'alto.
All'accendersi delle luci i direttori erano nella loro
posizione dominante per iniziare per bocca
dell'amministratore delegato il cosiddetto "discorso della
corona" che altro non era se non una generica
panoramica sulle cose accadute nel mondo (!) e
particolari raccomandazioni alle mogli di comperare ai
mariti le cravatte stampate e di mettere le gonne e gli
abiti stampati se la carenza di lavoro riguardava il
reparto stampa e all'incontrario se in crisi era il reparto
dell'unito.
Per appello nominale si procedeva quindi alla
distribuzione delle buste mentre faceva la comparsa
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23 - NATALE IN TICOSA
I tempi erano maturi per modificare l'adunata natalizia e
dopo la poco felice esperienza del localone dell'anno
precedente si passò dall'affollata scala che portava alla
direzione al salone (si fa per dire) del laboratorio anche
perché per via dei contratti collettivi molte categorie
venivano unificate a quelle degli impiegati.
Il raduno avveniva sempre la settimana precedente il
Natale attorno alle ore 17. In una atmosfera forzatamente
allegra e distesa cominciavano a giungere gli impiegati
che sembrava arrivassero da chissà dove, tanto ero lo
stupore nel vedersi. Fatto strano era poi che finivano tutti
per raggrupparsi secondo l'ufficio o il reparto di
provenienza. Sempre ultimi arrivavano quelli della
stampa, forse perché la loro "trasferta" era lunga
dovendo attraversare tutta la Ticosa da cima a fondo, da
sud a nord. Gli "organizzatori" fremevano nell'attesa
dell'arrivo della direzione. In fondo al salone (!)
venivano ammassati diversi tavoli e a fianco, sovente,
compariva un albero di Natale con tanto di candeline.
Nelle edizioni migliori del raduno a pure fatto capolino
qualche giradischi.
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Quando era “La Comense”
qualche cameriere con bottiglie di spumante e fette di
panettone.
Tutti bevevano e mangiavano affrettatamente, perché ora
la cosa più importante era di trovare un posto riservato in
qualche reparto, o dietro una cassa al buio o addirittura al
gabinetto, per aprire la busta per vedere quanta "regalia"
conteneva.
Non sono mancati casi clamorosi di direttori che al 24 di
dicembre hanno esordito con la frase “l'occasione mi
coglie impreparato” o di un'altro di recente nomina che
esordì, anziché con un discorso, con un semplice ma
accorato: “Ma raccumandi fieu de tirà su i manic...”.
Che tradotta vorrebbe dire: "Mi raccomando ragazzi
rimbocchiamoci le maniche". Se non che in dialetto
comasco "manic" vuole anche dire volgarmente l'organo
maschile per eccellenza....
24 - IL FURTO DEL SECOLO
Verso la metà degli anni Sessanta avvenne un fatto
sensazionale: quello che fu considerato il "furto del
secolo". Accadde in una notte invernale, quando, alcuni
sconosciuti forzarono la cassaforte dell'ufficio paghe,
appropriandosi di 20 milioni. Da qualche tempo il nuovo
capo del personale era il sig. Alfonso Gagliardi e
naturalmente questo ufficio era direttamente sotto la sua
responsabilità.
Quella era una notte stellata, tipica dell'inverno
lombardo: una notte fatta per romanticismi e non per
furti: ma avvenne. Ci fu chi compì il malfatto e fuggì dai
tetti che da via S. Abbondio permetteva di trovarsi
all'inizio di via Innocenzo XI.
Non se ne venne mai a capo, anche se i giornali locali di
allora titolavano i loro servizi con "Si stringe il cerchio
attorno agli autori del furto". Ma gli autori rimasero
impuniti e sconosciuti, la Ticosa segnò un'altro "rosso" e
qualcuno uscì male dalla vicenda.
Nella drammaticità del fatto non mancò, per uno strano
gioco del destino, anche il lato comico.
Di sicuro si accertò che il furto avvenne nelle prime ore
della serata. Per uno di quegli scombussolamenti
atmosferici imprevedibili più tardi la stupenda serata
invernale si trasformò in una tipica nottata d'inverno con
neve e gelo.
Il mattino seguente qualche centimetro di neve
imbrattava le strade. Le maestranze rimasero sorprese
quando, recandosi al lavoro, trovarono tutti gli ingressi
sbarrati. Non si entrava in ditta senza un accurato
controllo personale a cura dei carabinieri. Gli zelanti
rappresentanti della Benemerita obbligarono ogni
dipendente ad imprimere le impronte delle loro scarpe
sul retro di un tabulato in disuso.
Probabilmente qualcuno si dimenticò di un particolare
importante: le scarpe messe quel mattino non potevano
essere quelle della sera precedente per il semplice
motivo che le condizioni delle strade erano
completamente diverse...
25 - AMORI,
...CHIACCHIERE
MATRIMONI,
AMANTI
E
In una comunità, come quella che via via si è costituita,
lungo il cammino del tempo all'interno della Tintoria
Comense o della TICOSA, dove uomini e donne sono
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Quando era “La Comense”
stati i protagonisti assoluti dell'operosità, dell'ingegno,
della bravura, della competenza tecnica, della laboriosità,
dell'inventiva, della creatività e dell'impegno, qualche
volta il biondo Cupido si è divertito a lanciare i suoi
strali, a colpire al cuore e a legarne assieme alcuni, anzi
molti.
In una promiscuità vissuta per tante ore giornaliere
assieme che spesso, nel totale, superava il tempo
trascorso al di fuori dello stabilimento, non era
improbabile che nascessero simpatie, attenzioni, che
sfociassero, prima o poi, degli amori, dei corteggiamenti,
ed infine dei matrimoni.
Le donne erano un po' ovunque, e se si esclude la
manutenzione ed il reparto di tintoria, occupavano ogni
altro luogo dagli uffici ai reparti di lavorazione.
Certo alcuni reparti abbondavano di mano d'opera
femminile e altri meno, ma ciò era dovuto al genere di
lavoro che si svolgeva in quel settore.
Il reparto "greggi" dove si predisponevano le pezze per
l'entrata in lavorazione, escludendo l'ufficio ed alcuni
uomini adibiti al trasporto abbastanza oneroso, era
costituito prevalentemente da donne che cucivano,
assemblavano i giusti quantitativi per l'avvio della lunga
catena di trattamenti necessari per ottenere il risultato
desiderato dal cliente.
Nel reparto di apparecchiatura, la confezione, ossia la
presentazione del prodotto finito in pezze da 30/40 metri
o anche meno o più secondo le richieste è sempre stata
assegnata, in maggioranza, alle donne sia per la
delicatezza dell'operazione che per la compilazione delle
relative etichette di specificazione.
Una considerazione a parte riguarda, invece, il reparto
stampa in quanto le migliorie tecniche apportate sul
finire degli anni Cinquanta, hanno quasi del tutto
eliminato l'apporto del lavoro femminile.
Prima di allora il loro intervento era determinante per la
preparazione dei tavoli di stampa prima e per staccare le
pezze stampate, dopo. Per procedere alla stampa a
quadro a mano di una pezza era necessario dapprima
stendere una sottopezza di tela per tutta la lunghezza del
tavolo (solitamente 30/35 metri) e quindi con una
particolare attenzione e abilità con gli spilli, ogni 10/15
centimetri affrancare la pezza stendendola senza pieghe
per poterla, poi, stampare. Per far questo occorrevano,
anche per questione di rapidità, diverse coppie per
tavolo.
La stamperia era situata in quello che ora viene definito
il corpo a C, dalla sua forma, ed era costituito da tre
piani che lateralmente ospitavano sei tavoli e
centralmente otto. Il quarto piano esteso solo sul lato che
guarda la via Regina riguardava la fotoincisione.
Ora le coppie di donne dovevano lavorare, puntando gli
spilli, parallelamente da un lato e dall'altro del tavolo.
Siccome, però, i tavoli di stampa sono distanti
mediamente 70/80 centimetri l'uno dall'altro, sovente
capitava che lo stampatore del tavolo di fianco veniva ad
incontrarsi con la donna che spillava e non era
improbabile, specie se la donna era giovane e piacente,
qualche "toccatina" che oggi avrebbe fatto la fortuna di
avvocati sotto la voce "molestie sessuali".
Un altro "posto" per cosi dire "ad hoc" era in
fotoincisione. Dopo il grande salone riservato ai
disegnatori ed ai lucidisti con in fondo uno studiolo per il
Capo incominciava il vero e proprio reparto. Per
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Quando era “La Comense”
impressionare un quadro di stampa si segue, grosso
modo, la tecnica riservata inizialmente alla fotografia. Il
quadro che dapprima era in legno con il tessuto di seta e
colorato poi di materia impermeabile color arancione è
diventato poi in seguito un supporto di metallo con
tessuto sintetico color azzurro - speciale gelatina- che
permette di fissare, attraverso una camera oscura dove
solo una grande luce e per pochi minuti, attraverso il
lucido, ripete il motivo che forma il disegno di stampa.
Ad ogni colore un lucido così se un disegno è a otto
colori occorrono otto quadri. L'abilità dell'operatore sta
nel rapportare perfettamente per ogni quadro il motivo
che necessita, quindi, di diversi interventi consistenti nel
fissare il lucido, coprire la parte da non impressionare
con la luce, creare il buio ed accendere il faro e così via.
Dal grande salone si entrava quindi nella zona operativa.
Il buio la faceva da padrone tanto che i muri di uno
stretto corridoio, forse un metro di larghezza ed il
soffitto erano tutti dipinti di nero con una sinistra luce
rossa in fondo che indicava una porta d'uscita. Il fatto era
però che tanto a sinistra che a destra c'erano tutti questi
piccoli posti di lavoro per la realizzazione dei quadri e
che il tutto, per forza di cose , si svolgeva con l'aiuto
delle tenebre. Orbene questo stretto corridoio era una
"prova" non da poco per quelle donne che per lavoro o
altro vi dovevano passare.
Fino agli anni Sessanta il terzo piano del corpo a C era
riservato al magazzino quadri. Qui erano accatastati in
ordine centinaia di quadri su appositi scaffali, Vi regnava
il silenzio assoluto e quasi nessuno era presente
costantemente in loco. Questa zona, abbastanza tetra,
spesso rappresentava un buon terreno per coloro che
avevano intenzione di fare qualche "scherzo" alle donne.
Tuttavia non si creda che l'occupazione maggiore fosse
quella di molestare le donne, certo la promiscuità, spesso
creava l'occasione, ma il buon senso, alla fine,
ridimensionava il tutto.
I matrimoni sono stati molti, nel corso del tempo, che si
sono felicemente realizzati. Famiglie si sono così
formate, sono nati dei figli e moltissimi hanno avuto un
esito più che positivo.
Stranamente, però, questi matrimoni si sono sempre
realizzati fra operai ed operai o fra impiegati ed
impiegati, fra impiegati ed operai ma mai fra un
dirigente ed un subalterno.
Tuttavia quando qualche matrimonio doveva essere
celebrato colleghi ed amici si apprestavano ad una
colletta per il regalo. A questo punto c'era sempre
qualche "maneggiona" che ne assumeva le operazioni. E
c'era sempre qualcuno che al momento non aveva la
somma, che la portava il giorno dopo e c'era sempre
qualcuno che aveva "cronicamente" la borsa stretta.
Tuttavia i regali non mancavano mai ed è qui, che
stranamente, diventavano tutti esperti di arredamento. I
consigli abbondavano sullo stile, sulla forma, sulla
qualità del regalo. Non si sono mai visti tanti esperti di
vasellame come in occasione di un matrimonio.
Spuntavano esperti da ogni dove: chi conosceva le
ceramiche di Sevre, chi quelle di Bassano o di
Capodimonte, chi a fondo tutte le specie dei cristalli di
Boemia, chi sapeva tutto dell'arte povera, chi era esperto
di legno massello, chi conosceva a fondo le posaterie più
alla moda, chi consigliava questo o quello.
Alla fine un grande pacco con i "migliori auguri" siglava
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Quando era “La Comense”
il tutto fra il sorriso del destinatario e la leggera forma di
ironia dei donatori.
Ma quel paffutello di Cupido, riccioluto e biondo,
qualche scherzo si è divertito a farlo, tirando le frecce
dove non avrebbe dovuto.
Ed ad essere colpiti sono state persone che già avevano
un legame ed anche una famiglia. Nascevano, così,
quegli "amori" sottointesi che vivevano i loro "momenti"
con maggior frequenza all'interno dello stabilimento.
Alle volte era uno sguardo, altre una frase sussurata, un
bigliettino lasciato cadere sul posto di lavoro, una
telefonata galeotta, un piccolo "cadeau" per un giorno
particolare (magari la vigilia di Natale o il giorno prima
della chiusura per le ferie), alle volte una mazzetto di
fiori e così via.
Poi qualche fermata all'angolo di un reparto o di un
ufficio, una piccola rincorsa lungo le scale, un
(occasionale) passaggio sull'ascensore, un lieve contatto
al momento della timbratura....
E per qualcuno c'erano anche i momenti forti: quelli
dell'abbandono totale. Il luogo: i più inusitati.
La "mansarda" così era chiamato quell'enorme
costruzione posta dietro le macchine di stampa a rullo
che aveva la funzione, abbondantemente riscaldato, di
far asciugare le pezze fresche di stampa si prestava alla
bisogna. Quando cessato il lavoro e parzialmente
raffreddata, nella semi-oscurità, da una porticina ci si
infilava e nel tepore si accendevano al massimo le
passioni.
Anche i gabinetti, strano luogo, avevano a volte il loro
fascino per quelle coppie che non sapevano aspettare e
che fremevano troppo.
Le cataste di pezze ammucchiate al reparto greggi hanno
retto il lume sicuramente a diverse coppie che nascosti
sotto quintali di stoffe vivevano il loro intenso incontro.
Così come qualche sgabuzzino sparso qua e la, qualche
cassa tenuta volutamente vuota, e qualche tavolo sono
stati complici di furtivi incontri.
Ma le frecce di Cupido hanno colpito anche sul fronte
dirigenziale: chi aveva le preferenze per una bionda, chi
per una bruna, chi per un viso carino, chi per un corpo
prorompente. Certo il tutto si svolgeva con la massima
discrezione e con una "paterna" protezione. Ci sono stati
dei Capi-ufficio che sono andati completamente in crisi
per un'impiegata e dei direttori che sapevano "pascolare"
anche fuori ditta offrendo alla bisogna dei passaggi in
macchina alle dipendenti...
Ma tutti questi "casi" erano inconsciamente protetti da
una specie di omertà. Tutti sapevano, tutti malignavano,
tutti sussurravano ma nessuno ha mai parlato, indicato,
evidenziato.
E le cose sono continuate fino alla fine....
Ma in mezzo all'avvicendarsi di tutto ciò sono nate anche
delle primordiali "leggende metropolitane" di cui
nessuno ha mai stabilito la veridicità ma a cui molti
hanno creduto.
E' il caso di quella giovane ragazza del reparto stampa
che attendeva la "maggior età" per entrare nel giro dei
bordelli e che nel frattempo si "allenava" sotto i tavoli di
stampa.
E' il caso di vecchi "marpioni" che non trovavano di
meglio che praticare un foro nelle pareti delle docce
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Quando era “La Comense”
riservate alle donne per "guardare" alla maniera della
cabine al mare...
E' il caso di quel tale visto saltare una finestra di un
gabinetto a piano terra mentre, contemporaneamente, la
sua "bella" usciva bellamente dalla porta.....
E' il caso di qualcuno che aveva sempre gli "straordinari"
da fare che si concretizzavano con una seduta amorosa in
qualche angolo remoto....
E' il caso di tante altre storie che la memoria non ricorda,
che sono avvenute, che hanno avuto una loro parabola,
che sono svanite avvolte nella fantasia e disperse, come
nubi evanescenti, nell'oblio.
26 - LA HOLDING PRICEL
Nei primi anni Sessanta la Ticosa era divenuta
un'azienda facente parte della holding francese Pricel
della quale la famiglia Gillet aveva assunto il controllo.
Una holding di tutto rispetto che comprendeva molte
altre aziende operanti non solo in Italia ma anche in
Francia e in altri parti dell'Europa e del mondo.
La grande famiglia di Lione decise nel 1967 di nominare
membro del Consiglio di Amministrazione della Ticosa
il dr. Robert Chatin che, unico esponente della proprietà
lungo tutta la storia dell'azienda, si stabilì in Italia. Era
forse il segno che qualcosa stava cambiando?
A cavallo degli anni Sessanta/Settanta della Holding
Pricel facevano parte:
TICOSA (con tessuti e filati)
COLORA
BANFI
SOCOTA
TESS. SER. BERNASCONI
CRESTLINER
SORIM
FLEXA
Nel 1969 nelle Tessiture Seriche Bernasconi il capitale
sottoscritto e versato era per il 31% Ticosa, il 34%
Colores Holding di Basilea e il resto di azionisti estranei
al gruppo.
La
Banfi
negli
anni
successivi
diventerà,
specializzandosi, una tintostamperia per tessuti a maglia
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Quando era “La Comense”
con acquisto di greggio che tingeva e stampava e
vendeva direttamente con notevole successo di
redditività.
Iniziava, forse, una generale presa di coscienza sulla
"salute" della TICOSA tanto che nel 1967 si studiò
anche la possibilità di trasferire tutta l'azienda fuori città.
Si trattava di costruire uno stabilimento basato su criteri
moderni e con impianti tecnicamente avanzati. La
realizzazione fallì soprattutto per due motivi ritenuti
fondamentali: il piano regolatore del Comune di Como
del 1959 destinava l'immensa area della TICOSA a verde
pubblico e la quasi impossibilità di reperire
un'alimentazione idrica sufficiente per tutti i processi
produttivi.
Questi era un'importante società di cui la Pricel ne
possedeva la maggioranza e che operava nel campo della
spugna sintetica oltre che naturale e inoltre anche in
quella di tela cellulosica per casalinghi e nastri per usi
industriali. Interessi Novacel erano presenti anche in
Belgio, Olanda e Germania.
In Italia i suoi prodotti erano commercializzati con il
marchio "Spontex".
Nel 1969 sempre la Pricel con la società "Texamid"
specializzata in prodotti di interno fodere da applicare ai
supporti tessili secondo le esigenze inizia ad operare
anch'essa in Ticosa.
27 - UN SOLO AMMINISTRATORE DELEGATO
Sul finire del 1966 uno dei due amministratori delegati
della Ticosa il comm. Luigi Guggiari si dimette dalla
carica e ne assume, tuttavia, una analoga presso le
Tessiture Seriche Bernasconi della quale era presidente il
Dr. Robert Chatin dal 1967 quando la Pricel/Ticosa con
il Gruppo Filande e Tessitura Costa ne avevano assunto
il controllo dopo la cessazione degli eredi, del gruppo
Bernasconi.
In Ticosa rimaneva, quindi, un solo amministratore
delegato nella persona del dr. Augusto Brunner.
Il 1967, tuttavia, è destinato a rimanere nella storia
dell'azienda anche per un altro provvedimento
organizzativo: la suddivisione di due distinte divisioni tessuti e filati - e l'inizio in alcune aree cedute in affitto
presso la Ticosa dell'attività della "Novacel".
Non mancavano i campanelli d'allarme se già dai primi
anni Sessanta da Lione si pensò d'incaricare un'ufficio di
comprovata esperienza organizzativa per "dare uno
sguardo" alla vetusta Ticosa per annotare se occorreva
intervenire con qualche rimedio per aumentare la
"consunta" prestazione.
In effetti giunsero in Ticosa gli esperti del Gabinet Fevre
di Parigi che iniziarono lo studio approfondito della
situazione. Non si capì mai, però, se la direzione favorì
questa operazione, evidentemente imposta dall'alto, o se
fece di tutto per ingarbugliare maggiormente la
situazione.
In Ticosa già dal 1957 era stato costituito l'Ufficio
Tempi & Metodi, proprio per studiare le soluzioni più
idonee ad uno sviluppo adeguato alla produzione, al
lavoro, ai metodi un po' stantii di tutto ciò che
interessava la parte produttiva.
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28 - UN CAMPANELLO D'ALLARME
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Quando era “La Comense”
L'impegno principale era la riduzione dei "tempi morti"
ossia di tutte quelle cause extra-lavorazione che
influivano, non poco, sia sul costo di fabbrica e sui tempi
di consegna.
Un'efficiente organizzazione deve soprattutto basare la
sua impostazione su uno studio serio e concreto di ogni
singola fase della lavorazione per trarne tutte le
indicazioni più idonee al contenimento di quanto
concorre alla sua elaborazione: mezzi, personale,
materiali, energia, ecc.
Forse l'Ufficio Tempi & Metodi fu voluto e realizzato da
chi, in seguito, non lo valorizzò mai e che nemmeno ne
accettava l'inserimento all'interno dell'azienda. Era
tollerato, sopportato e forse...considerato alla guisa di un
oggetto ornamentale.
L'organizzazione scientifica del lavoro trova una valida
conferma nello studio dei problemi organizzativi con il
fine di incrementare la produttività degli uomini e dei
mezzi impiegati nella produzione di beni e servizi.
Pertanto ogni intervento, qualunque sia il settore, deve
essere affrontato seguendo una procedura ben definita
per offrire sufficienti garanzie di buona risoluzione. La
costituzione di un ufficio Tempi & Metodi serve per:
- un'analisi e raccolta di dati
- un esame critico degli elementi raccolti
- uno studio delle probabili soluzioni e la scelta di quella
ritenuta migliore.
Lo studio del lavoro ha, come fine principale, quello di
esaminare il modo di lavorare, inteso nel senso più lato
della parola, sostituendolo con un modo di procedere
razionale quello approssimativo ed empirico basato
sull'intuizione e la consuetudine, dando nel contempo
notevoli vantaggi in produzione con spese minime.
La procedura, quindi, si realizza attraverso lo studio dei
Metodi e dei Tempi.
Il miglioramento dei metodi di lavoro può essere esteso a
tutti i più svariati campi dell'attività umana al fine di
rendere minimi i tempi morti, cioè inattivi sia dell'uomo
che della macchina. Nel campo del lavoro nelle aziende,
il miglioramento metodi può essere applicato sia nei
lavori d'ufficio che di officina e può riguardare un intero
ciclo di lavorazione come una semplice operazione.
Un procedimento perciò deve essere suddiviso nei suoi
elementi costitutivi per farne conseguentemente l'analisi
critica per poter individuare quegli elementi la cui
eliminazione o sostituzione in altri più semplici e di più
facile esecuzione possa renderlo più agevole ed
economico.
L'altro elemento indispensabile è quello riservato ai
tempi di lavorazione in quanto consente di determinare
la durata normale di una operazione eseguita da un
normale operatore.
I principali sistemi in atto per lo studio dei tempi sono:
- la stima
- il rilievo diretto
- i metodi statistici
Gli strumenti per il rilievo dei tempi sono molteplici e
l'adozione di uno strumento è funzione sia della natura
del lavoro sia della precisione con cui i tempi devono
essere rilevati.
Il rilievo diretto può essere eseguito:
- con la macchina da presa cinematografica;
- con apparecchi registratori del tempo;
- con il cronometro:
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- con metodi statistici;
oppure, nel caso di preventivazione a mezzo di prontuari
(tabelle, diagrammi, ecc.).
Tuttavia nel rilevamento diretto lo strumento più usato
per la sua praticità ed economicità risulta essere ancora il
cronometro.
dell'esercito della salvezza".
Ora, gli inviati del Gabinet Fevre di Parigi erano tutti
docenti universitari, non degli sprovveduti, non degli
incapaci, con molti risultati positivi alle loro spalle. Ma
in TICOSA furono considerati buoni a nulla, e alla fine
additati come venditori di fumo.
Oltre al cronometraggio nei vari reparti l'ufficio Tempi
& Metodi aveva, in Ticosa, il compito anche di
determinare la percentuale di ottimazione delle macchine
più importanti lungo la catena di lavorazione. Per far ciò
furono installati su di esse degli appositi orologi con
dischetto segnalatore che piazzati sui rulli non comandati
meccanicamente ma su quelli trascinati dal tessuto
registravano il tempo di funzionamento e quello di
fermata. Codificando i tempi di fermata si stabilivano le
percentuali d'incidenza e quelle di effettivo
funzionamento.
Per quale motivo questo ufficio fu realizzato non lo si
capì mai anche se esso rimase funzionante fino al 1972.
Il vento di un eventuale rinnovamento, basato su una
concezione moderna del lavoro, dalla sua esecuzione alla
sua amministrazione, soffiava troppo fastidiosamente
all'orecchio dei numerosi capi, capetti e responsabili.
Questi traevano, invece, dalla loro presunta abilità e dal
loro personalismo la forza di ritenersi superiori a tutti,
quasi fossero degli intoccabili (anche perché favoriti da
un paternalismo troppo evidente che aveva assegnato
loro incarichi spesso superiori alle loro capacità).
Infatti, vinsero la battaglia e gli organizzatori del Gabinet
Fevre furono allontanati, meglio sarebbe a dire scacciati.
Prima, però, stesero un rapporto dove a chiare lettere
sentenziarono che con uno "staff" di quel tipo la Ticosa
avrebbe avuto i giorni contati. Alla fine degli anni
Sessanta la cosa, naturalmente, fu considerata con una
alzata di spallucce generale. Dieci anni dopo,
stranamente, la "profezia" si avverava.
Il Gabinet Fevre, al contrario, propose il suo
potenziamento aumentandone il personale da tre a dodici
unità. Furono reclutati all'interno (secondo tradizione)
dei baldi "ragazzotti" che iniziarono un corso per
l'apprendimento di tutte le tecniche necessarie
all'espletamento del non facile incarico. Quando,
terminato il periodo dell'istruzione, gli addetti inziarono
il
loro
compito
nei
vari
reparti,
iniziò
contemporaneamente anche una adeguata opera di
declassamento facendo circolare, tra l'altro, voci come
"addetti" all'Ufficio Passatempi, oppure " Ecco i giovani
29 - ANICE E LIMONE
E' un erba aromatica con frutti verdastri ovoidali e
coperti di peluria la "Pimpinella anisam" che tutti
comunemente chiamiamo Anice. La si usa, abitualmente,
in farmacia, nella pasticceria e nell'industria dei liquori
mentre il limone è un albero spinoso a fiori bianchi
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venati di rosso che proviene dall'Indo-Malesia. Lo si
coltiva da almeno 2000 anni nei paesi temperati-caldi per
il frutto a buccia gialla o verde, ricco di succo contenente
acido citrico, olio essenziale, zuccheri e vitamine. E'
usato nell'industria per l'estrazione dell'acido citrico e
dell'olio essenziale che si ottiene dalla buccia. Il limone
ha azione dissetante, rinfrescante, astringente e
antiscorbutica.
I due frutti hanno affinità con le proprietà dissetanti ma
difficilmente sono usati assieme, anzi sovente, sono
offerti separatamente.
Come mai questo accostamento tra anice e limone
all'interno di una ditta di nobilitazioni tessili qual'era la
Tintoria Comense o Ticosa di più recente memoria ?
Occorre risalire a più di cinquant'anni fa al periodo
estivo e particolarmente torrido. I pomeriggi erano
veramente pesanti quando non esistevano areatori o
condizionatori di sorta e nemmeno un refolo d'aria fresca
filtrava da qualche parte a portare un piccolo attimo di
refrigerio.
Né bastava, in alcuni reparti, all'inizio della stagione,
dare una pesante mano di "biancone" ai vetri dei tetti a
shed per filtrare i raggi cocenti del sole e per dare la
sensazione di frescura che nemmeno un pur piccolo
refolo di aria riusciva ad arrecare.
In tintoria dove le pezze si tingono in acqua bollente per
diverse ore e dove pur con i relativi lavaggi a freddo la
temperatura è sempre elevata, e si pensi a 60/70
"barche", ossia vasche di migliaia di litri di acqua, che
producono contemporaneamente vapore e caldo in una
giornata dove il termometro fuori supera o raggiunge i
30 gradi: un inferno !
Non diversa la situazione al reparto "confezione" dove
pur non essendoci grandi fonti di calore dirette (salvo
qualche vecchia rameuses e vecchio palmer) ma forse
per la disposizione del reparto e per la stagnazione
dell'aria, d'estate, il clima era parecchio pesante ed il
grado d'umidità elevato portava ad un disagio non
indifferente.
Ecco allora per alleviare, come era possibile in quei
tempi, la distribuzione di acqua fresca miscelata all'anice
che sembrava una panacea, un oasi di ristoro, quasi un
miraggio in un deserto, una luce splendente in una scena
buia.
In tintoria, invece, la distribuzione di acqua sempre
fresca, era corretta con l'acido citrico, e la limonata così
ottenuta dava quel sollievo, seppur momentaneo, che
aiutava a trascorrere le ultime ore di lavoro in
quell'ambiente terribilmente afoso e pesante, carico di
odori, a volte nauseanti, dove gli acidi vi giocavano un
ruolo importante.
Certo, il caldo si "sentiva" ovunque nei reparti e negli
uffici dove, in qualche caso, i ventilatori non ottenevano
che di smuovere aria calda.
Fu così che un pomeriggio, passando per il reparto
"finissaggio", dove le macchine sono surriscaldate a
temperatura elevata, all'uscita di una di queste dove le
pezze si arrotolano su grandi bobine e un operaio ha il
compito di sorveglianza e controllo, notai uno degli
addetti, prossimo al pensionamento, che seduto davanti a
queste bobine, stremato dal caldo si era completamente
addormentato: le braccia a penzoloni e la testa protesa in
avanti con ritmici andamenti a ciondoloni. Il tutto per la
serie: "Noi lavoriamo così".
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Altro caso analogo per quella volta che avendo bisogno
mi recai al magazzino scorte. Questi era ubicato sul retro
del primo piano dello stabile che ancora adesso reca un
grande orologio (sempre fermo) visibile da via S.
Abbondio salendo a destra. Anche qui il caldo giocava
un ruolo non indifferente se si tiene pure conto che il
tetto si surriscaldava per la lunga esposizione al sole e
che il pavimento era di legno non certamente lucidato,
ma di tipo industriale che il tempo aveva reso anche
carico di polvere e di terra. Ora, il materiale accatastato,
dalla carta agli abiti da lavoro, dagli stivali in gomma
alle matite, dalla carta igienica ad ogni tipo di spazzola e
così via, pur non volendo, emanavano ciascuno il proprio
odore contribuendo a diffondere una sensazione di
stantio e di chiuso. Non si poteva entrare ed il
richiedente doveva attendere ad una porta-sportello che
l'incaricato venisse per ottenere, attraverso un buono
firmato dal capo-reparto o dal capo-ufficio, ciò di cui
aveva bisogno.
Quel pomeriggio mi recai al magazzino. C'era un
silenzio di tomba ed il caldo era opprimente. Alla portasportello non c'era nessuno: attesi e poi suonai l'apposito
campanello. Ancora nessuno. Mi incuriosii e mentre
attendevo che qualcuno si facesse vivo cominciai a
scrutare lo studiolo che era distante circa una decina di
metri. Mi sembrava di vedere qualcuno ma il buio, forse
creato ad hoc, non mi lasciava molta visuale. Staccai il
gancio che dall'interno fermava la porta-sportello e mi
avvicinai allo studiolo. Quando fui vicino la scena mi
apparve in tutta la sua consistenza: l’incaricato,
anch'esso prossimo alla pensione, non solo dormiva ma
russava assorto in un "coccolone" con qualche cadenzato
sbuffamento. Non ebbi, dico la verità, il coraggio di
svegliarlo, anzi mi allontanai in punta di piedi per non
recargli disturbo: buon riposo!
Anice e limone, dulz e brusch, bianco e nero, diritto e
rovescio questi i contrasti di un tessuto dismonogeneo
che però, trovata la giusta compattezza, quando abilità ed
esperienza tecnica, alacrità e consapevolezza, formavano
un tutt'uno si otteneva quel prodotto nobilitato che
faceva della Tintoria Comense e poi della TICOSA il
punto qualificante.
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30 - CAFFE' E BIBITE
L'estate era molto pesante, allora, quando non esistevano
i distributori automatici di bevande che fecero la loro
trionfale apparizione durante gli anni Settanta. E,
improvvisamente, le abitudini cambiarono. Sparsi un po'
ovunque divennero presto il luogo di ritrovo, il posto
dove scambiare due chiacchere o solo per augurarsi la
buona giornata o l'altrettanto buona serata. Essi
distribuivano le bevande fredde (Coca Cola, Fanta e
Sprite) oppure tè, caffè, cappuccino e cioccolata.
C'erano, tuttavia, dei momenti di super affollamento
come attorno alle dieci del mattino e alla sedici del
pomeriggio quando addirittura bisognava mettersi in
coda per potersi servire. Poi c'erano quelli che operavano
non solo per se ma anche per conto di altri per cui le
attese, a volte, diventavano lunghe e qualche volta
snervanti.
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31 - TRA IL PERSONALE (di tutto un po')
Sempre nel periodo estivo sul finire degli anni Quaranta
o ai primi dei Cinquanta fece abbastanza scalpore il
modo, forse per quei tempi, di presentarsi di uno dei più
validi "piazzisti".
Diverse volte lo notai, lui così spedito nel camminare,
con quei suoi occhi vivaci e brillanti, con quei suoi gesti
ritmici e con quella sua parlata secca, attraversare tutto
lo stabilimento Nord: dalla "visita", allora situata presso
il reparto confezione fino al suo ufficio, sempre in quegli
anni, situato in via S. Abbondio vestito con un abito un
po' troppo "avantista".
Portava un gessato bleu-royal, la cravatta pure bleu a
pois bianchi ed in testa una paglietta bordata bleu, come
l'abito ed a pois come la cravatta. Sembrava un
"figurino", uno di quei modelli uscito dalle riviste
specializzate. Era certamente elegante, forse anche
troppo, ma dava spesso l'impressione, magari anche
sbagliata, di essere una "macchietta".
Fu probabilmente uno slancio giovanile di una persona
estremamente valida che poi in seguitò divenne Direttore
Commerciale, Direttore di fabbrica e anche responsabile
di una Divisione interna.
Molti anni dopo mi recai al reparto stampa dovendo
staccare la rilevazione giornaliera della saturazione di
alcune macchine. L'apparecchio registratore era
alloggiato in una sala adibita al controllo, da parte dei
capi-reparto, dei alcuni risultati di lavorazione o agli
incontri con i clienti.
Quando aprii la porta rimasi stupito: davanti a me c'era
un cliente tutto vestito di velluto color porpora
cardinalizia, con le scarpe pure di velluto dello stesso
colore e con tanto di fibbia dorata e con i capelli bianchi
lunghi fino alle spalle e con un pesante ciondolo al collo.
Mi chiesi "cosa fa un porporato in Ticosa?". Poi,
riflettendo, pensai che non poteva essere un cardinale,
tanto era il profumo che lo avvolgeva. Salutai ed uscii.
Più tardi, quando seppi che se ne era andato, chiesi chi
fosse. Scoprii che era il grande creatore di moda, noto in
tutto il mondo per le sue bizzarrie e per il modo di
trattare i colori: Ken Scott !
32 - "LILI' MARLEN"
Quella di "Lilì Marlen", così era sopranominata, è una
storia che tutto sommato racchiude amarezza e sconforto
e che, in un certo senso, dà l'idea di che cosa anche si
vivesse all'interno della fabbrica. Si diceva che fosse
diplomata alla Magistrali o che ben poco mancasse per
terminare gli studi quando ebbe un crollo fisico e
mentale così grave per il quale non si riprese più. Non so
neppure come arrivò in Tintoria Comense: alcuni mi
dissero che dapprima fosse occupata all'Ufficio paghe,
sta di fatto che quando la notai era impegnata in ben
diverse e povere mansioni.
Era vestita in modo molto dimesso, anche con stracci
rattoppati addosso, sporca e, qualche volta, non certo
profumati. Veniva al lavoro a piedi scalzi, estate ed
inverno, recando in mano un paio di zoccole, vecchie e
consunte, che si metteva ai piedi solo a pochi mentri
dall'ingresso e spesso si alimentava con gli scarti degli
altri o anche rovistando fra l'immondizia.
Inoltre il suo posto di lavoro era nella tromba delle scale,
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in fondo al reparto stampa ed il suo compito era quello di
accudire all'asciugamento delle sottopezze. L'operazione
avveniva attraverso una serie di grossi rulli messi in
verticale e fortemente surriscaldati in modo tale che
dopo una lunga serie di incorsature, le sottopezze,
uscissero stirate e pronte di nuovo al loro uso. Il fatto che
il tutto fosse circoscritto nella tromba delle scale, quasi
al buio, con questi cilindri sbuffanti vapori e con un
costante odore nauseabondo, dava l'impressione,
oltretutto con la sua presenza di trovarsi nell'antro del
Mago. Lei così concia, così magra e, ahimè, anche
brutta, sembrava la strega di Biancaneve. E allora, ogni
tanto, cessato l'orario di lavoro, c'erano quattro mani che
la prendevano, la denudavano e la mettevano in una
grande vasca di lavaggio e compivano non solo un'opera
di pulizia ma anche quella di una "umana" opera di pietà.
Ma la sua condizione mentale era poi tale che
raccoglieva ovunque pezzi di sapone e di saponette e se
le portava a casa, ma non per usarle, ma solo allo scopo
di accantonarle. Sta di fatto che ogni estate, o quasi, i
vicini di casa erano costretti, dal puzzo proveniente dal
suo locale, a chiamare l'Ufficio comunale competente
per la disinfestazione che, tra l'altro evidenziava la
giacenza di parecchi chili di sapone in putrefazione.
Ma il fatto ancor più strano era che il giorno di paga
trovava la strada per andare in banca a depositare tutti i
suoi soldi e che alla sua morte fu trovata, sul suo conto,
una somma interessante di denaro. Povera "Lilì Marlen"
per lei una vita vissuta bene; per noi, invece, una vita
anomala, vissuta male e povera sotto tanti punti di vista.
33 - GA N'ERA V'UNA CHE...
Non sono mancate, certo, figure caratteristiche fra tutte
le persone che per anni hanno lavorato nell'azienda. Ma
in molti ricordano, ancora oggi, un'operaia tanto zelante
ed operosa quanto abbastanza strana e dalla bocca
decisamente tagliente che non risparmiava nessuno.
Era una che non perdeva occasioni per dimostrare
bonariamente il suo modo di essere stravagante come
quando, un giorno in piena estate fu trovata con un
secchio d'acqua fresca mentre si faceva le abluzioni e a
chi le chiedesse il perché si dice abbia risposto: "Perché
fa caldo e anche lì bisogna rinfrescarsi".
Certo, l'estate a volte fa brutti scherzi, magari il sabato
pomeriggio quando all'interno dell'azienda l'attenzione
generale si attenua: succedeva così che, quella stessa
operaia, si tuffasse, completamente nuda, in una capiente
vasca di lavaggio oltre che per rinfrescarsi, anche per
esibirsi in pose pseudo-erotiche...
34 - UL GRAZIANO
Era uno dei personaggi più popolari all'interno dello
stabilimento. Non ho mai capito quale precisa funzione
svolgesse ma di certo godeva di una certa "libertà"
poiché non era vincolato ad un compito unico e
specifico. Non era un operaio, ne tintore ne
apparecchiatore, non era uno stampatore e nemmeno
fotoincisore. Credo che forse è stato, prima che io lo
conoscessi, un addetto alla manutenzione, forse un
falegname, e che debba aver avuto anche qualche
incidente avendo nella schiena il suo punto debole.
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Piccolo, gioviale, un po' inclinato in avanti lo
accompagnava quasi sempre la fedele bicicletta.
Quando lo notai per la prima volta mi dissero che era
addetto alla mensa. Occorre precisare che a quei tempi la
mensa era intesa come una grande "cucina" dove si
preparava per tutti i giorni lavorativi, unicamente la
"minestra". Poco prima del fatidico mezzogiorno, un
motocarro composto dalla cabina e da un assale e
guidato dal "Lumazz", trasportava nei due punti, uno a
nord e uno a sud, il prezioso contenuto.
Ul Graziano aveva il compito di provvedere alla richiesta
della verdura e di tutto il necessario per cucinare. Con lui
lavoravano anche alcune operaie che chissà per quale
sorte diventarono così "provette" cuoche.
Nel corso di questa attività, per il suo modo di fare molto
espansivo, ul Graziano, lentamente ma progressivamente
finiva per contattare un po' tutti riuscendo a capirne, a
sua volta, il carattere.
Così, con la sua semplicità comunicativa sapeva tutto di
tutti e quando poi la "mensa" divenne quasi una cosa
seria con la gestione affidata a ditte specializzate ed
estranee alla Ticosa, egli modificò il suo "lavoro".
Continuava ad essere impegnato attorno a quella che in
un Istituto o in una Scuola chiamerebbero "refezione"
ma con compiti diversi, magari di controllo o
semplicemente di sorveglianza. Tuttavia trovò modo di
allestire nel locale mensa un piccolo "box" dove a titolo
personale vendeva di tutto: saponette, carta igienica,
profumi, pannolini e perfino bottoni.
Siccome il tempo della mensa non occupava tutte le otto
ore gli furono affidati anche compiti di carattere sociale:
svolgeva ogni tipo di pratica esterna, si interessava per le
carte di identità, per il rinnovo dei bolli scaduti su
passaporti ed altro, sapeva consigliare per questo o
quello dove rivolgersi o al comune o alla Questura o alla
Prefettura prestandosi poi, per la riuscita della cosa.
Pagava le bollette di luce e gas e staccava anche gli
abbonamenti ai bus o alle filovie.
Insomma divenne il "factotum" non della città, come
nella nota opera rossiniana, ma della Ticosa tanto che
addirittura più di una impiegata che abitava nella case
della ditta lungo l'attuale via S. Eutichio, affidava a lui le
chiavi di casa per andare alle undici e mezza ad
accendere il gas per far bollire per tempo l'acqua degli
spaghetti.
Graziano di qua, Graziano di là, Graziano di su ,
Graziano di giù
veramente erano in molti a chiamarlo e lui sempre ha
detto di sì, sincero e quasi entusiasta.
Ciao, Graziano !
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35 - IL TRIO STAMPA
Non è questo il nome di un trio di attrazione varia,
tutt'altro !
E' invece la fortunata formula, che per anni, ha diretto il
reparto stampa nelle varie diversificazioni.
Angelo Grassi per la stampa a quadro, Argeo Belluschi
per la mano-macchina, Cesare Molteni per quella a
cilindro. In precedenza i capi furono altri, ma questi non
solo sono stati gli ultimi ma anche quelli che hanno
diretto un periodo di massima efficienza, qualitativa e
produttiva, con perizia e capacità.
Il Grassi aveva doti di comando non comuni, a volte
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Quando era “La Comense”
anche un po' troppi rudi, ma a lui si deve una buona e
assidua cura del personale attraverso addirittura dei corsi
interni che , alla fine, hanno creato ottimi capi e
altrettanto validi stampatori.
Aveva, tuttavia, un difetto: abbondava con le multe
(allora si poteva) e per questo non fu mai ben voluto.
Se ne andò via, mentre stava per scoppiare la bufera, a
seguito di incomprensioni con il Direttore generale.
Il Belluschi, cui era affidato uno dei reparti più giovani,
quello della stampa a mano-macchina, disponeva di un
validissimo staff e di alcuni capi di comprovata
esperienza, e pur non assumendo quasi mai
atteggiamenti provocatori, sapeva cogliere il senso delle
cose e con il ragionamento e la calma ( a volte celata)
sapeva ottenere ciò che voleva. Quando proprio stava per
"scoppiare", oppure osservando una stampa in corso di
esecuzione che non lo soddisfaceva, "tirava" una
"sbuffata delle sue" e se ne andava....
Di altra pasta era invece il Molteni (forse il più giovane
dei tre), scattante, un po' nervosetto, di poche parole.
Certo aveva qualità tecniche e sapeva svolgere con
altrettanta consapevolezza il suo compito. Era supportato
anche lui da uno staff di qualità nel quale qualche
anziano portava l'esperienza e la saggezza di chi ha visto
nascere il reparto. Anche la cucina colori era alle sue
dipendenze dirette e battersi ogni giorno, anche ogni ora,
fra esigenze produttive, qualità di colori, tempismo,
creavano non poche tensioni, che sempre riuscì a
contenere con non poco stile.
Non era il trio delle meraviglie certo, ma un assieme di
persone che sempre hanno collaborato al meglio per dare
alla TICOSA il necessario apporto finché fosse sinonimo
di qualità, sicurezza di lavorazione per la nobilitazione
del tessuto.
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36 - LE SEGRETARIE
Come in ogni azienda che si rispetti per dimensione di
affari, per qualità del prodotto, per il nome che porta, la
segretaria o le segretarie, giocano un ruolo determinante
all'interno di ogni direzione per il loro contributo in un
ruolo delicato e importante.
Quando nel 1947 arrivai negli uffici amministrativi della
Tintoria Comense la segretaria per antonomasia era una
sola: la Cesarina. Era "tanta" in tutto; nella mole (piccola
e tonda), nella pluriennale esperienza, nella simpatia,
nella generosità, nel ruolo che aveva ricoperto in
precedenza che era, tutto sommato, anche quello che
ricopriva in quel periodo. Perchè ? Era stata fino al
tragico 1945 la segretaria factotum e anche confidente
del Comm. Umberto Walter, il padre-padrone della tintostamperia.
Conosceva tutto anche della famiglia che frequentava
nella villa di Viale Geno. Dopo il 1945 divideva il suo
compito tra i due pezzi grossi dell'azienda: il Dott.
Augusto Brunner - Amministratore Delegato - e il
Comm. Luigi Guggiari, Direttore Commerciale. Gli anni
passano certamente per tutti anche la Cesarina un giorno
è messa al corrente che arriverà, per aiutarla (in genere si
dice sempre così) un'altra segretaria. Infatti, molto più
giovane, nell'ufficio confinante con il Dott. Brunner
prende posto la signora Helga. Come si nota un nome
straniero che si attaglia con la persona che lo porta:
carattere un po' introverso, asciutto a volte anche aspro.
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Quando era “La Comense”
Non ci sono contrasti tra le due ma a lungo andare quasi
tutto passa nelle mani della nuova arrivata e la Cesarina
finisce col vivere di ricordi nel fascino di un passato che
l'ha vista protagonista in assoluto di una buona parte di
ogni vicenda interna ed esterna alla grande azienda.
L'avvicendarsi e il susseguirsi dei cambiamenti interni,
nel corso degli anni a seguire creano altre necessità. Così
il Direttore di tutto il compendio Nord (tintoriafinissaggio-apparecchiatura e relativi servizi tecnici)
abbisogna di una segretaria che divida pure il suo
compito assistendo il Direttore del reparto Filanca. Così
il Dott. Emilio Walter e il Dott. Vincenzo Foti hanno
nella signorina Rosalba la collaboratrice necessaria.
Simpatica, sempre gentile, ha ricoperto il ruolo in modo
perfetto senza far pesare il gravoso compito che
assolveva a nessuno.
Quando gli eventi interni hanno portato alla ribalta
dapprima il Dott. Robert Chatin e poi dal 1972 il nuovo
Amministratore Delegato Hulsbus la nuova segretaria è
la signorina Francesca che si è dimostrata, in quegli anni
difficili, non solo all'altezza di ogni situazione, ma
perfettamente coerente al suo ruolo usando con tutti
un'educazione esemplare, una gentile squisitezza di
carattere, una dolcezza forse inusitata fino a quel
periodo. A molti sembrava ricordare la Cesarina dei
primi tempi ma sicuramente con molta più classe
piano spetta di diritto, all'Ufficio Paghe. Non erano poi
molti gli addetti, più o meno una quindicina, ma per
lunghi decenni pur alternandosi le persone, esso ha
sempre rappresentato l'immagine, il volto, di quel grosso
complesso.
Si pensi che i pagamenti, tutti calcolati a mano, erano
rivolti a tutta la maestranza che era suddivisa in operai a
giornata, settimanali, quindicinali, equiparati e mensili.
Fino agli anni Settanta quando iniziò ad operare il
C.E.D. (Centro Elaborazioni Dati) puntualmente, alla
scadenza, tutti venivano retribuiti. Il venerdì era il giorno
di paga per gli operai e per anni il rituale si è sempre
svolto allo stesso modo: gli impiegati dell'Ufficio Paghe
si sguinzagliavano per i reparti recando sotto ascella una
o più cassette contenenti le buste con i soldi tutti anche
loro imbustati a mano, per la distribuzione. E tutto ha
sempre funzionato per il meglio, con pochissimi errori,
con pochissime contestazioni. E' doveroso ricordare tutti
coloro che vi hanno lavorato, per la dedizione e la
precisione del loro non facile compito.
Tra gli altri: il Broli, il Masola, il Marco e il Croci che
erano quelli che settimanalmente si recavano nei reparti
per la distribuzione ed anche la Maria, la Lidia e l'Adone
che con loro ed altri accudivano al non facile compito di
contabilizzare il tutto. Ricordo pure il Girola che fu il
capostipite dei Capi del Personale e poi il dr. Margara e
l’Alfonso Gagliardi. Poi verso la fine fu un susseguirsi
tale di nomi che vorticosamente si sono succeduti che è
difficile tenere il conto...
37 - L'UFFICIO PAGHE
Nella lunga storia della Tintoria Comense, un primo
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Quando era “La Comense”
38 - IL TIFONE "ARGENTINA"
L'attività di terzista, tuttavia, evidenziava già da tempo
una situazione critica che la proprietà nel corso del 1970
tentò di rimediare anche per rimettere ordine all'interno
di tutto il "gruppo" adottando un provvedimento
radicale. Dall'Argentina, dove dirigeva una grande
industria nel settore della lavorazione del latte la
"Vascongada" - facente parte del complesso francese, fu
richiamato John F. Hulsbus che godeva di grande
prestigio presso la famiglia Gillet.
Il 5 novembre 1970 il consiglio di amministrazione della
Ticosa lo nomina suo membro. Lo stesso consiglio,
contemporaneamente, prende atto delle dimissioni di
Renaud Gillet dalla carica di presidente e di
amministratore e nomina presidente il dr. Augusto
Brunner con conferma della carica di amministratore
delegato. Un altro membro della famiglia Gillet, Charles
Albert de Waziers è nominato vice-presidente (era nel
consiglio di amministrazione dal 25/5/1964). Il dott.
Brunner rassegna le dimissioni da direttore generale e al
suo posto è nominato il dott. Robert Chatin.
Il 28 novembre 1970 Jhon F. Hulsbus, pochi giorni dopo
il suo ingresso in consiglio d'amministrazione, si
presenta ai direttori generali delle diverse società tessili
del gruppo (ad esclusione della Flexa che rimarrà sempre
fuori dalle sue competenze) per presentare il suo
programma che, per essere realizzato, necessita di due
supporti essenziali: marketing nel senso più intenso del
termine e politica del personale.
Il suo programma si articola poi negli obiettivi
ipotizzando il 15% di profitto sul capitale investito e il
20% annuo come sviluppo dei profitti. Inoltre entro il
1971 far rientrare tutte le situazioni difficili. Osservando
l'organizzazione trova quella attuale troppo semplicistica
e auspica una più approfondita coordinazione. Per il
personale ritiene necessaria una politica comune
incentrata su un unico responsabile per tutto il gruppo.
Riguardo al marketing attiva un maggior impegno
personale e di gruppo con una più intensa collaborazione
fra i responsabili.
Secondo il suo stile nomina subito due commissioni di
cui una formata dai direttori delle società del gruppo
(Ricca per Banfi, Trivi per Sorim, Foti per Filanca,
Bonzanigo per Colora, Brunelli per Socota, Perlasca per
Ticosa, Di Lorenzo per Bernasconi) denominata
"Comitato per analisi di mercato in gruppo a breve
termine" i cui lavori devono concludersi entro il 1971.
Questa commissione è coordinata dal dott. G. Sgarbi che
in seguito sarà poi l'ultimo direttore generale della
Bernasconi prima della chiusura.
La seconda commissione, invece, formata dal direttore di
produzione della Ticosa sig. Volmeier, dal capo
contabile rag. Francesco Fiore e dal p.i. Ettore Roncoroni
dirigente amministrativo e capo del personale della
Bernasconi ha il compito di redigere un "manuale di
politiche del personale" valido per tutte le aziende del
gruppo basandosi su quanto già realizzato in proposito
dall'azienda argentina "Vascongada".
L'ascesa dell'uomo forte venuto dall'Argentina si
concretizza nell'assemblea ordinaria del consiglio di
amministrazione del gruppo Ticosa del 12 maggio 1971
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Quando era “La Comense”
quando il dott. A. Brunner lascia la carica di direttore
generale e di amministratore delegato conservando
quella di presidente e John F. Hulsbus è nominato
amministratore delegato con tutti i poteri di ordinaria
amministrazione.
Il trio venuto da oltre Oceano elabora un piano che, a
partire dal 1971, prevede l'avvio di due iniziative ritenute
forti e decisive per le strategie della società: la
ristrutturazione della tintostamperia conto terzi con il
relativo alleggerimento attraverso un nuovo lay-out e la
"verticalizzazione".
Verso la metà dell'anno la proposta di trasferire tutte le
lavorazioni su tessuto per conto terzi nella parte Sud
dello stabilimento, razionalizzando la disposizione dei
reparti e dei relativi macchinari anche rinnovandoli,
investendo somme di rilievo, fu resa pubblica.
L'operazione prevedeva pure più alti livelli di efficienza
e di produttività. Per ottenere ciò l'azienda presentò un
piano, con tanto di esposizione pubblica, che prevedeva
la riduzione del personale di circa 300 unità operaie e di
30 unità tra gli impiegati.
In quell'estate scoppiò la bufera! Scioperi, assemblee,
cortei di protesta, ma l'amministratore delegato non
cedeva di un millimetro. Da buon olandese, questa la sua
nazionalità, era abituato alle lotte in "casa d'altri".
Occorse la mediazione del Prefetto per trovare una
soluzione. Ricordo quella mattina nel cortile della
Prefettura in via Volta: quando il sig. Hulsbus scese le
scale del palazzo governativo ci fu un assembramento
così violento da parte dei dipendenti che lo aspettavano
con una carica tale da temere per la sua incolumità. Era
la prima volta che lo vedevo ma non scorderò mai la sua
espressione rigida, tesa e il suo volto cadaverico.
L'azienda fu costretta ad un compromesso, anche
attraverso le rappresentanze sindacali, che prevedeva le
dimissioni volontarie incentivate. Le conseguenze furono
catastrofiche tanto che solo dopo due mesi l'azienda
dovette sospendere le dimissioni volontarie: se ne
andarono 200 persone tra le più valide per età e
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39 - I "COLOSSI" ESCONO DI SCENA
Tuttavia pochi mesi dopo con l'assemblea del 28
dicembre 1971 i due "colossi" del vertice aziendale che
avevano portato, con il loro operato, la Ticosa ai massimi
livelli
escono
definitivamente
dagli
organi
amministrativi della società. Sono il Dr. Ing. Augusto
Brunner, presidente e consigliere, e il comm. Luigi
Guggiari consigliere.
Si chiude definitivamente un'epoca, un periodo di ascesa,
di affermazioni, di grandi e innovative iniziative.
Nella stesso consiglio Charles Albert de Waziers diventa
il nuovo presidente della Ticosa s.p.a.
40 - VERTICALIZZAZIONE
Assieme al riformatore Jhonn F. Hulsbus erano giunti
dall'Argentina due signori di sua completa fiducia con il
compito di aiutarlo in una prima fase di studio e di
controllo ed una focalizzazione dei problemi. Erano
Lopez Mosquera, professore universitario esperto di
problemi amministrativi/finanziari e A. Manley esperto
di organizzazione e di analisi gerarchico/funzionali.
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Quando era “La Comense”
professionalità. Lasciarono la Ticosa i più efficienti, i
migliori, gli specialisti. Rimasero gli anziani, i meno
efficienti e quelli prossimi al pensionamento.
Ci si preparava, insomma, al dolce...trapasso.
Sorsero non poche polemiche per la conclusione di
questo accordo. Decisione che molti dirigenti e parecchi
dipendenti giudicarono come la causa prima del futuro
dissesto aziendale
Il secondo progetto quello della "verticalizzazione"
partiva dalla convinzione che la commercializzazione dei
vari prodotti che dovevano subire all'interno il ciclo della
lavorazione
(preparazione
di
tessitura-tinturanobilitazione in tintostamperia) potesse incrementare
maggiormente la redditività complessiva.
In attuazione di questo piano a seguito della messa in
liquidazione delle Tessiture Seriche Bernasconi, la
Ticosa versando al liquidatore Bernasconi un importo di
L. 100 milioni, acquistò il marchio che godeva, malgrado
tutto, ancora di un notevole prestigio.
Avvenne così il trasferimento presso lo stabilimento di
Como del personale ritenuto necessario a continuare per
quanto concerne solo la linea dell'abbigliamento
femminile, l'approntamento delle collezioni e la vendita
dei prodotti finiti. Fu così costituita la "divisione
Bernasconi" il cui nome al neon andò ad aggiungersi, sul
palazzone di via Innocenzo a quello già esistente di
Ticosa.
Brancaleone" che finì, tutto sommato, col sovrapporsi a
strutture, uffici e persone, già operanti creando non pochi
doppioni. Certo l'operazione fu condotta nell'intento di
acquisire buona parte del mercato estero in cui la
"Bernasconi"
aveva
una
parte
predominante.
Proseguendo nell'inserimento, però, ci si accorse che il
mercato estero era immensamente frazionato con
quantitativi poco remunerativi. Forse l'intera operazione
aveva finito per portare a casa un'altro paziente ... in fin
di vita.
A seguito di questa operazione dell'inserimento
Bernasconi in Ticosa i due principali azionisti Pricel/Ticosa e gruppo Costa di Genova - diedero vita ad
un'altra società la "Multifibre s.p.a." che concentrando le
attrezzature più valide del complesso che veniva
liquidato, trasferendole tutte in un unico stabilimento a
Solbiate, avesse il compito di funzionare quale primo
anello della catena di verticalizzazione, fornendo alla
divisione i tessuti occorrenti.
Nello stesso tempo fu creata un'altra divisione
denominata "Cindy" per la produzione di tessuti per la
casa.
42 - AGGIUSTAMENTI DIVISIONALI
Dal paese lacustre si riversò una specie di "armata
Questi aggiustamenti di politica aziendale di gruppo
orientati alla logica divisionale portò alla seguente
situazione:
TICOSA - trasformazione tessile per conto terzi
BERNASCONI - converter abbigliamento femminile
TUSCANY - converter abbigliamento maschile
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41 - ARRIVANO I "LAGHEE"
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CINDY - converter biancheria per la casa
FILANCA - testurizzazione filo
Accanto a queste divisioni già da alcuni anni quale
converter dell'arredamento di alta qualità per la casa
operava la consociata Socota s.p.a. che aveva anch'essa il
compito di alimentare la tintostamperia della Ticosa.
Nel 1973 sorgeva un'altra divisione a seguito
dell'assorbimento parziale con il versamento di 10.000
azioni Ticosa per un importo di 150 milioni della Colora
che operava in un settore abbastanza modesto della
nobilitazione dei filati sintetici e artificiali.
Ebbe, però, vita breve perché nel giugno del 1974 la
Colora emise l'ultimo respiro.
Sempre durante il 1973 per incrementare la vendita delle
divisioni
converter
sui
mercati
europei
l'amministrazione, malgrado l'opposizione dello staff
dirigenziale, decideva di costituire due società estere una
a Parigi e l'altra a Londra quali agenzie esclusive della
Ticosa s.p.a.
Furono pure avviate due nuove attività: quella del
"Pronto Moda" con la linea "Viva Viva" ed un altra
denominata "Tempo Libero" per la commercializzazione
di confezioni Casual.
Furono esperienze brevi e del tutto negative: la prima
terminerà nel febbraio 1976 e la seconda subito nel 1975.
Nel corso del 1975 veniva posta in liquidazione la Sorim
s.p.a. per (strano caso) la defezione di tutti i suoi
funzionari di vendita e lo scarso interesse nei suoi
riguardi della stessa Ticosa.
43 - COLOSSALE TRASFERIMENTO NORD-SUD
L'impresa colossale del trasferimento a Sud di tutta la
parte Nord è stata l'iniziativa più difficile e meglio
riuscita. Occorre dare atto alla direzione tecnica nella
persona dell'Ing. Alessandro Roda della buona riuscita
dell'operazione che ha permesso un perfetto allineamento
ed una maggior funzionalità di tutta l'azienda. Furono
studiati anche i minimi particolari, sfruttati tutti gli spazi.
Modificati, rifatti, ampliati tratti già esistenti, congiunti
fabbricati con altri coprendo cortili.
Finalmente il lay-out era perfetto, tutto funzionava come
avrebbe dovuto, però....
Furono trasferiti anche tutti gli uffici inerenti all'attività
della tintostamperia compreso il Ced che oramai aveva
concentrato gran parte del lavoro su di se: non uscivano
solo tabulati ma anche le fatture, le paghe, la contabilità
industriale, quella amministrativa e altro.
Per ultimo fu ristrutturato e occupato il famoso
"parallelepipedo" della non meno famosa "carbonera"
che ospitò tutti gli uffici amministrativi, il Ced e la stessa
Direzione.
Visti i tempi il palazzo fu denominato "Forte Apaches"
poiché dava l'impressione di essere l'ultimo baluardo di
resistenza per un ultimo assalto. Era l'ultima speranza... e
tale fu.
Della vecchia e cara "Cumensa" non rimaneva ora che la
parte Sud; quella a Nord, fatta eccezione per i fabbricati
"Filanca" ed il "palazzone" è stata venduta al fine di
realizzare economicamente per fronteggiare il...futuro.
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44 - LA FAMIGLIA GILLET CEDE IL CONTROLLO
DELLA PRICEL
45 - SCOSSA TELLURICA NEL CONSIGLIO
D'AMMINISTRAZIONE
Nel tentativo di realizzare il suo piano, J.Hulsbus, operò
parecchio nella distribuzione delle cariche direttive nei
diversi rami della società, alternandone diverse in ruoli
diversi. Su sua proposta il consiglio di amministrazione
del 27 febbraio 1973 nomina direttore generale della
tintostamperia conto terzi Vittorio Donadoni, assunto,
qualche tempo prima, per sostituire il direttore di
produzione O. Volmeier.
Egli, in seguito, giocherà ruoli determinanti negli anni
78/79/80.
L'11 ottobre 1976 Charles de Waziers presenta le
dimissioni che il consiglio di amministrazione ratifica
nella riunione del 18/10/1976 e nella circostanza nomina
presidente Guy du Plessix.
Ma la scossa tellurica continua nel consiglio
d'amministrazione del 3 dicembre 1976 quando per
cooptazione nomina amministratori Noel Goutard e l'ing.
Rinaldo Mazzetti e revoca i poteri a J. Hulsbus
precedentemente dimissionario. Seduta stante l'ing,
Mazzetti è nominato amministratore delegato e Noel
Goutard Presidente della soocietà, in sostituzione del
dimissionario Guy de Plessix. Evidentemente la
situazione era più seria di quanto si potesse immaginare.
Da notare che Noel Goutard era, in precedenza, un
esponente del nuovo Gruppo finanziario e che rimarrà
presidente fino alla scioglimento della società.
Nei primi mesi del 1976 accade a livello
societario/finanziario un vero e proprio terremoto
senz'altro causato dal preoccupante andamento del
gruppo.
La famiglia Gillet cede il controllo della holding Pricel,
quotata alla borsa di Parigi, al gruppo Schlumberger. Il
cambiamento porta al comando della finanziaria il
francese Gerome Saydoux, il quale, in seguito guiderà la
Pricel nel grande gruppo Schargeurs Reunis. Il passaggio
è importante in quanto, in breve tempo, le azioni Pricel
saranno convertite in azioni Schargeurs.
Il movimento azionario reca, conseguentemente, diversi
cambiamenti ai livelli più alti della Ticosa.
La gestione Hulsbus dal 1971 al 1976 pur considerando
la grossa mole d'iniziative e l'attuazione del piano da lui
stesso presentato ed attuato non ha dato, tuttavia, i
risultati che si proponeva. Di fatto gli investimenti
finanziari per quel periodo sono stati di 4825 milioni.
Cifra parzialmente coperta attraverso finanziamenti a
lungo termine a tasso agevolato concessi dagli istituti
specializzati.
Nello stesso periodo il fatturato complessivo del gruppo
passò da 6.500 milioni a 20.000 ma ciò dovuto anche al
cambiamento del mix produttivo che ora teneva conto
anche delle vendite dirette delle varie divisioni. Il
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Quando era “La Comense”
bilancio per lo stesso periodo annotava 2.607 milioni di
perdita. L'unico anno positivo il 1973, ebbe un utile di
302 milioni.
46 - UNA NUOVA STRATEGIA
L'ing. Rinaldo Mazzetti, proveniente dalla Montedison
filati, imposta una strategia, molto diversa dal suo
predecessore, puntando su un programma che vede al
primo posto lo sviluppo delle lavorazioni conto terzi e
meno vendite di tessuti in proprio.
Egli vuole anche modificare il sistema interno per quanto
concerne l'avanzamento del lavoro, il controllo, la
contabilità industriale ed altro introducendo i mezzi
moderni informativi e di gestione quali i computer
piazzati nei reparti e negli uffici interessati. La proposta
non verrà mai realizzata per la forte opposizione dei
capi-reparto, dei capi-ufficio e di tutti coloro che
nutrivano non solo avversione alla nuova metodica,(ma
anche pechè temevano di perdere o d'importanza o di
prestigio, per altro effimero).
A far data dal 1977 inizia una vera e propria fuga di gran
parte del personale dirigente che oltre ad ostacolare le
politiche di ristrutturazione, produrrà all'esterno una
generale sfiducia nell'ambiente tessile nei riguardi della
Ticosa.
La strada dell'Ing, R. Mazzetti sarà molto corta. Nel
1977, inoltre, la tintostamperia-converter Banfi s.p.a.
entrava in crisi e pertanto, decidendo la sua
riconversione in una azienda di nobilitazioni dei tessuti
per conto terzi e l'assorbimento seppur parziale della
linea creativa e commerciale all'interno della Ticosa
generava, di fatto, una nuova divisione converter
specializzata negli articoli a maglia per l'abbigliamento
femminile.
Nello stesso anno veniva incorporata l'altra controllata
società Socota che metteva alla luce, così, l'ottava
divisione che si occupava dell'arredamento per la casa.
47 - BILANCIO IN ROSSO
Ma il 1977 era destinato proprio a segnare la storia della
Ticosa presentando un bilancio nettamente in rosso con
una perdita di 2.220 milioni e il contemporaneo crollo
dell'attività della testurizzazione (divisione Filanca).
Occorreva correre immediatamente ai ripari e di fatto la
direzione della holding decideva (guarda caso) di
sostituire nuovamente l'amministratore delegato.
Il 22 febbraio 1978 il consiglio di amministrazione
nomina Vittorio Donadoni amministratore delegato e un
mese dopo, il 28 marzo lo nomina direttore generale
della società. Iniziando il suo nuovo ruolo, Donadoni
studia e concorda con i responsabili della finanziaria un
altro piano di ristrutturazione aziendale che si
concretizza nei seguenti punti:
- Cessazione dell'attività della divisione Filanca entro il
31/10/1979;
- Entro il 30/9/79 decisione definitiva riguardo al futuro
dell'attività del tinto in filo (Colora);
- Piano d'investimenti per gli anni 1978/79 e 1980/81;
- Rendiconto periodico alle organizzazione sindacali
sull'attuazione del piano;
- Riduzione del personale in Ticosa con l'impegno futuro
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di ricostituire l'occupazione esistente attraverso
l'ipotecato
sviluppo
dell'azienda
e
favorendo
l'inserimento di dipendenti nelle società (creatrice di
posti di lavoro) che hanno acquistato le aree rese libere
nell'area Nord;
- Impegno dell'azienda a reinvestire il ricavato delle
vendite di dette aree;
- Impegno delle parti per ottenere dal Comune di Como
la modifica del "vincolo urbanistico del P.R.U.G. da area
ad uso pubblico ad area industriale".
riserva speciale, l'aumento del capitale da 0 a 2 miliardi
mediante l'emissione di 400.000 azioni di lire 5.000
cadauna.
Dopo il confronto con i lavoratori e i sindacati in data 19
luglio 1978 il piano viene sottoscritto da tutte le parti
interessate.
Ma gli azionisti minori: Miranda s.a. - Partecipations
Financières et Industrielles - Ticosa s.p.a. e Socota (in
liquidazione) dichiarano di rinunciare al diritto di
opzione. L’azionista Colores Holding s.a. sottoscrive e
versa 1 miliardo e 900 milioni per 380.000 azioni e
PRICEL A.G. sottoscrive e versa 100 milioni per 20.000
azioni.
Non è un grande successo perché sì la società viene
ricapitalizzata ma solo per coprire le perdite e per
fronteggiare i debiti pregressi.
48 - SI RICAPITOLIZZA MA...
49 - IL DOCUMENTO "DONADONI"
Pochi giorni dopo il 28 luglio l'assemblea straordinaria
degli azionisti delibera un aumento di capitale nella
misura di 2 miliardi mediante l'emissione di 400 mila
azioni del valore di lire 5.000 cadauna. La Colores
Holding s.a. sottoscrive e versa un importo pari ad 1
miliardo e 830 milioni e la PRICEL A.G. 29 milioni e
625 mila lire. Gli altri azionisti minori rinunciano al
diritto di opzione e in tal modo l'aumento del capitale
deliberato non viene realizzato.
Il 18 dicembre dello stesso anno il Consiglio
d'Amministrazione delibera, pertanto, la necessità di
ridurre il capitale stabilito il 28 luglio, la necessità di
azzerare tale capitale per le perdite degli ultimi mesi,
superiori al capitale sociale, la copertura della residua
perdita di lire 9.846.898 lire mediante l'utilizzo della
Con tutta probabilità per "Parigi" la Ticosa era non solo
in coma ma in attesa dell'ultimo respiro. A Como,
invece, nessuno se ne accorgeva, nessuno si rendeva
conto di ciò. Apparentemente tutto funzionava, o non
funzionava, come sempre e nessuno osava pensare il
peggio. Si avvertiva un certo malessere, questo sì, ma
ognuno dentro di sè sperava che l'ammalato guarisse non
che soccombesse.
Almeno nessuno riteneva che il "paziente" fosse così
grave.
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Attraverso l'apporto dei sindacati e delle forze politiche
con il particolare impegno del Partito Comunista Italiano
il Consiglio Comunale con la deliberazione N°1 del 21
gennaio 1979 adotta la cosiddetta "Variante Ticosa"
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denominandola "Interventi di salvaguardia del settore
produttivo - Provvedimenti urbanistici nell'ambito della
Circoscrizione N°7 - Como-Centro-Como Ovest".
Non è che cambi molto. Nel 1978 le perdite di bilancio si
stabilirono a 1 miliardo e 276 milioni di lire e nel 1979 a
595 milioni ma stralciando la plusvalenza di 2 miliardi e
513 milioni provenienti dalla vendita degli immobili
nell'area Nord esse salivano a ben 3 miliardi e 118
milioni.
Il Presidente della società e amministratore delegato
Vittorio Donadoni nel tentativo di salvare la Ticosa
elabora un documento che verrà chiamato poi "
Documento Donadoni" interessando tutte le forze
politiche, sindacali, economiche e la stessa popolazione
della città.
Il documento reca la data 30 novembre 1979 e sottolinea,
tra l'altro, che: "Consolidare e salvaguardare le attività in
atto diventa uno degli obiettivi primari dell'opinione
pubblica e della Società".
Nelle proposte operative evidenzia la vendita a lotti della
parte a Nord ad aziende che attraverso il loro operato
avrebbero assicurato all'occupazione un saldo
complessivo non negativo rispetto alla riduzione del
personale paventata e che la Società prevedeva di
realizzare. Si poteva ipotizzare un risultato finale di
questo tipo:
Operatore economico
1981
1978
TICOSA SpA
450
700
NOVACEL SpA
85
85
COMOFIL SpA
35
SATURNO SpA
40
-
R.MANTERO SpA
BERNASCONI sas
BARADELLO SpA
SICAR SpA
SIGEDA SpA
quota disponibile
TOTALE
30
40
38
47
9
40
22
6
25
3
-
814
841
Dopo considerazioni e proposte riguardanti i "problemi
riflessi" il Documento Donadoni concludeva così: "La
lettura a posteriori della vicenda TICOSA, sia per quanto
riguarda gli aspetti soggettivi - attività e pluralismo
aziendale - sia per quanto si riferisce agli aspetti
oggettivi - crescita dell'azienda per staccati episodi
edilizi - è finalizzata a riodinare, razionalizzare,
coordinare l'esistente con il futuro, al fine di non
vanificare lo sforzo che in questi ultimi tempi è stato
profuso dall'azionariato, dai lavoratori, dal Comune, dai
Sindacati e dalle Forze Politiche".
50 - E IL RISULTATO ?
Che cosa ottenne questo "Documento" ? Poco o niente e
soprattutto nessuna soluzione radicale. Entrarono in
scena forze sindacali e politiche con discussioni infinite
con i dipendenti evidentemente scossi dalle prospettive.
Da qualche tempo nell'azienda la produzione più
evidente non era costituita dai tessuti ma dalle "riunioni".
Si riunivano tutti in qualsiasi momento; erano in riunione
gli operai, gli impiegati, i capi e i capi-macchina, i
venditori con gli addetti agli uffici predisposti, i direttori.
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© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
Non ricordo se anche gli addetti alle pulizie, ogni tanto,
fossero anche loro in riunione.
Dalle "riunioni" uscì di tutto un po': proposte, piani,
progetti, contro-progetti, non mancarono agitazioni
sindacali per accordi stipulati e poi disattesi. Insomma in
TICOSA, in quell'ultimo anno, dominava il caos, il
disordine, forse la paura.
Da ultimo si chiamò la massima società di consulenza
tecnico/amministrativa in campo tessile: la svizzera
Gherzi. Anche per lei seguì la sorte di tutte le società di
consulenza che nel tempo operarono, perché chiamate, in
Ticosa: il nulla !
51 - LA SITUAZIONE SI AGGRAVA
La situazione è grave tanto che nel corso del consiglio di
amministrazione dell'8 settembre 1980, per divergenze di
vedute con il presidente Noel Goutard, Vittorio
Donadoni si dimette da amministratore delegato e da
consigliere. Per cooptazione è subito nominato
amministratore delegato Eduardo Malone, nato a Buenos
Ayres il 19/6/1949, domiciliato a Parigi e cittadino
argentino. A lui viene anche assegnato l'incarico di
provvedere alla vendita di parecchi immobili in V.le
Innocenzo n. 70 (il famoso palazzone), altri in via S.
Eutichio, a Cernobbio in via Perlasca (case date da lungo
tempo in concessione ai dipendenti).
Viene elaborato un ennesimo piano di ristrutturazione
che prevede, tra l'altro, una riduzione del personale di
200 unità.
Il giorno successivo nella riunione presso l'Unione
Industriali di Como è lo stesso presidente della
multinazionale, Noel Goutard a chiedere la messa in
cassa integrazione a zero ore di 207 dei 514 dipendenti.
L'atteggiamento degli azionisti della Pricel non lascia
margini alla trattativa in ordine alla riduzione del
personale.
I sindacati erano da parte loro convinti che il dissesto
societario fosse dovuto ad una mancata o bassa
capitalizzazione e da una cattiva gestione tecnicocommerciale e dichiararono apertamente il loro dissenso
soprattutto nel far ricadere sui lavoratori errori
dirigenziali.
Gli incontri con i sindacati continuarono in un clima
sempre più difficile sinché non si arrivò ad una rottura.
Prosperarono le assemblee in fabbrica, i volantinaggi, i
presidi in città nel tentativo di coinvolgere nella vertenza
anche tutte le altre società tessili del gruppo.
La situazione, nel frattempo, continuava a precipitare.
52 - SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETA'
Il consiglio di amministrazione del 29 settembre 1980
con le presenze dei sigg. Noel Goutard, Robert Chatin,
Edoardo Malone e l'intero collegio sindacale nelle
persone dei sigg. Dr. Pericle Piatti, Henry Rochat, dr.
Vittorio Monari sindaci effettivi; tutti i soci intestatari
delle 300.000 azioni sentono dalle parole del presidente
che dalle situazioni patrimoniali ed economiche redatte
al 30 giugno e al 31 agosto 1980, risulta che il capitale
sociale è andato completamente perduto.
Essendo la gestione in corso non foriera di previsioni
favorevoli per il futuro in modo tale da contenere le
perdite, sulla scorta degli articoli 2447-2448 del Codice
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Quando era “La Comense”
Civile propone lo scioglimento anticipato e la sua
conseguente messa in liquidazione della società.
Il Consiglio di Amministrazione dopo un'esauriente
discussione delibera :
Nel 1978 gli azionisti hanno messo in opera un piano di
risanamento articolato in sette punti: ammodernamento
dei macchinari e delle attrezzature di produzione;
razionalizzazione e accentramento di reparti, magazzini
e uffici; sviluppo commerciale degli articoli tessili di
qualità; vendita delle attività in deficit; vendita della
parte di attivo immobiliare resasi disponibile; notevole
miglioramento della produttività, cioè riduzione del
livello occupazionale; ricostituzione del capitale e dei
mezzi finanziari.
Nella speranza che il realismo avrebbe avuto prima o
poi il sopravvento gli azionisti hanno fornito un supporto
finanziario di 9 miliardi di lire nell'arco di tempo dal
1978 al 1980 evitando in tal modo il crollo della società.
A questo conferimento di capitale vanno aggiunti 4
miliardi di lire ricavati dalla vendita di componenti
all'attivo immobiliare e industriale. Questi 13 miliardi
sono stati inghiottiti dalle enormi perdite di gestione
della società.
I rappresentanti degli azionisti compiendo un ultimo
sforzo e consapevoli che la sopravvivenza della TICOSA
dipendeva in ultima analisi da un consenso sociale
sull'obiettivo di produttività accettato da ambo le parti,
si sono messi direttamente in contatto all'inizio del mese
di giugno '80 con i rappresentanti di fabbrica e dei
sindacati.
Durante la riunione tenutasi il 9 settembre scorso con il
Consiglio di fabbrica e dei Sindacati, i rappresentanti
degli azionisti hanno fatto una dichiarazione precisando
con chiarezza quale fosse la posta in giuoco nelle
trattative, ossia l'esistenza della società. Il testo di
questa dichiarazione è stato portato a conoscenza di tutti
i dipendenti a cura della TICOSA.
Durante le successive riunioni i rappresentanti degli
azionisti hanno proposto di completare i progetti di
ammodernamento e di razionalizzazione già portati
molto avanti e di stanziare 8 miliardi per evitare la
cessazione dell'attività, alla condizione di mettere 207
dipendenti in cassa integrazione straordinaria e
conseguentemente ricorrere alla mobilità esterna.
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1 - di sciogliere anticipatamente la società ponendola di
conseguenza in liquidazione;
2 - di nominare unico liquidatore Edoardo Malone
conferendo allo stesso tutti i più ampi poteri in ordine
alla detta liquidazione nessuno escluso od eccettuato;
3 - di dare mandato al sig. Malone Eduardo ad introdurre
nelle presenti deliberazioni tutte le modifiche e le
aggiunte eventualmente richieste in sede di
omologazione.
Alle ore 18,44 di venerdì 3 ottobre un Telex proveniente
da Parigi, sede della multinazionale Pricel, giunge in
Ticosa annunciando la chiusura e la cessazione
dell'attività.
IL TELEX DELLA PRICEL
(dalla PROVINCIA di COMO di sabato 4 ottobre 1980)
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Quando era “La Comense”
Su quest'ultima proposta non si è potuto addivenire ad
un accordo per la posizione del sindacato rimasta
immutata.
Secondo tale posizione la TICOSA non si trova davanti
ad una crisi strutturale di mercato, ma soltanto ad una
temporanea recessione, di cui bisogna attendere la fine
con la futura espansione delle vendite.
Gli azionisti della TICOSA non possono fare altro che
prendere atto che questa posizione è teorica e in totale
contrapposizione con le proprie conclusioni e che la
stessa è comunque smentita dall'esperienza degli ultimi
anni e dal grave deterioramento della situazione
commerciale della società.
Nell'attuale contesto aziendale il Consiglio di
Amministrazione e la Direzione Generale si sono trovati
nell'impossibilità di esercitare il loro ruolo; consci
quindi di aver fatto tutto il possibile per salvare la
società, gli azionisti sono costretti a decidere la
cessazione dell'attività.
In adempimento del suo mandato il liquidatore Edoardo
Malone deposita i libri societari in Tribunale a Milano,
dove è ubicata la sede sociale della Ticosa, chiedendo la
concessione del concordato preventivo che veniva
rapidamente accordato.
Mercoledì 8 ottobre sono numerosissimi i lavoratori che
partecipano allo sciopero e al corteo che si svolge per le
vie della città concludendosi con discorsi dei
rappresentanti sindacali. Della vicenda si occupano il
Consiglio comunale, l'Amministrazione Provinciale
mentre vengono interessati anche i ministeri
dell'Industria e del Lavoro e la Regione Lombardia.
L'obiettivo, a questo punto, è di riprendere i contatti con
la Pricel, per rimettere in gioco tutto quanto.
Ma da parte francese si è irremovibili :"Nous avons
tournée la page" noi abbiamo voltato pagina ribadisce, il
presidente Noel Goutard.
Il Tribunale di Milano nomina prima un giudice delegato
poi un commissario giudiziale per avviare la procedura
di concordato preventivo, chiesto dalla società.
Ma il problema più grave è quello di ottenere al più
presto le provvidenze della cassa integrazione per tutti i
dipendenti della Ticosa, rimasti praticamente senza
lavoro e senza retribuzione. Si deve, inoltre, cercare per
il futuro una soluzione che consenta la ripresa
dell'attività produttiva.
Il presidente della Regione Lombardia, avv. Guzzetti,
riesce ad incontrare Noel Goutard, il quale, pur
confermando il definitivo disimpegno della Pricel per la
Ticosa, mostra disponibilità in merito sia alla ricerca di
qualche imprenditore che subentri alla multinazionale sia
alla richiesta di cassa integrazione (che deve essere
avanzata dalla azienda stessa).
Le parti si ritrovano a Milano martedì' 21 ottobre
presente il commissario giudiziale avv. Pedersoli per
trovare un accordo. Dopo una lunghissima discussione
viene raggiunto un'ipotesi per ottenere la provvidenza
per i lavoratori.
L'intesa prevede la messa in cassa integrazione a zero
ore di tutti i dipendenti a partire dal 6 ottobre e per la
durata di sei mesi. Durante questi sei mesi, (nei quali
operai e impiegati riceveranno circa il 90 per cento della
retribuzione fino ad un massimo di 600 mila lire),
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Quando era “La Comense”
l'azienda si impegnerà a trovare soluzioni imprenditoriali
alternative. Se al termine dei sei mesi non si fosse
raggiunto alcun risultato in merito al subentro di nuovi
imprenditori, l'azienda chiederà la cassa integrazione per
soli 250 dipendenti; gli altri verrebbero messi in mobilità
esterna con la possibilità di beneficiare di provvidenze
che assicurano circa l'80 per cento della retribuzione per
altri sei mesi.
A coloro, inoltre, che si licenzieranno entro il 31
dicembre verrà assicurato il pagamento della
liquidazione spettante entro i primi dieci giorni del mese
di gennaio 1981.
L'ipotesi di accordo prevede infine che l'attività
produttiva venga ripresa fino al 30 novembre '80
limitatamente alle operazioni necessarie per realizzare
gli ordini cui il liquidatore ritenga possa essere dato
corso.
L'assemblea dei lavoratori del 25 ottobre approva a larga
maggioranza questa ipotesi di accordo. Prende l'avvio
l'iter relativo alla cassa integrazione e si sviluppano
anche i primi contatti per la ricerca di un imprenditore
che subentri.
ecc.) ebbero quanto dovuto alle normali scadenze ed i
creditori chirografari furono pagati al 100 per cento
seppure con notevoli ritardi.
53 - LA STAMPA CITTADINA
Tuttavia sia ben chiaro la TICOSA non fallì, cessò, visto
la situazione economica-finanziaria, la propria attività,
tanto che i creditori privilegiati (Enti pubblici, dipendenti
La stampa locale già da tempo aveva sentore che qualche
cosa non funzionava per il verso giusto all'interno
dell'azienda se il direttore de La Provincia Gianni De
Simoni,nel suo quotidiano "Fogli d'appunti" con i lettori
giovedì 11 settembre '80, tra l'altro scrive: " A Como, ad
esempio, c'è la crisi della Ticosa. Non è di proporzioni
"oceaniche" come quella della Fiat, dove si parla di
dodici/quindicimila persone da licenziare, il numero
delle persone che la Ticosa vuol mettere in cassa
integrazione si aggira sulle duecento unità, il quaranta
per cento degli effettivi.
Però il fatto per Como città è un fatto grave".
Il giornale, nella stessa edizione in "Cronaca cittadina",
dà notizia del ridimensionamento e il cronista così si
esprime: " Che la Ticosa navighi da anni in cattive
acque, a Como è noto a tutti. La principale industria
della città soffre di un gigantismo cronico, che la sua
posizione nel mercato e nella produzione che da tempo
non consentono più, che la perdita di dieci miliardi negli
ultimi tre anni dimostra ampiamente.
(...) Significativi elementi di novità non sono venuti certo
dal "cambio della guardia" fra il vecchio amministratore
delegato, Vittorio Donadoni, e il nuovo, Edoard Malone.
(...) L'alternativa non è il fallimento, ma la chiusura
probabilmente sì".
L'ignoto cronista aveva visto giusto ed il previsto,
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Non si trovò nessuno. La Ticosa, oramai era chiaro a
tutti, non poteva essere più quella di prima. Anzi caddero
tutte le illusioni o speranze e la "Cumensa" , secondo il
buon detto comasco, entrò in agonia e al 1° dicembre
1980 si spense per sempre.
© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
tragicamente, si attua.
Sabato 4 ottobre '80 Gianni De Simoni dedica il suo
editoriale alla Ticosa e scrive amaramente : " Quello di
ieri resterà nella storia della Ticosa, una delle aziende
più grosse nella nostra comunità, il "giorno zero".
(...) Le parole sono racconto, ma quando si fanno
cronaca diventano pietra. La comunicazione di cessare
l'attività è giunta in Ticosa con un lungo "Telex" quando
ancora si stava trattando una riduzione di personale con
la messa in cassa integrazione di più di 200 operai.
(...) La replica degli operai, conosciuta l'esistenza del
"Telex", è stata immediata: la fabbrica è stata occupata,
i sindacati sollecitano azioni di solidarietà.
Se si guardano le cifre del bilancio si possono fare un
paio di osservazioni: gli azionisti della Ticosa sono stati
dei cretini e si sono affidati per far gestire la loro
azienda a dirigenti incapaci.
Non si può lasciare navigare l'azienda tra i debiti per
dieci anni, poi di colpo ridimensionarla e potenziarla,
come si sostiene, per poi permettere alla stessa di
perdere 13 miliardi in meno di due anni, e questo senza
intervenire o intervenendo solo all'ultimo brutalmente
con un "ci dispiace ma non possiamo fare altro".
(...) Che l'azienda sia decotta non fa impressione. Quello
che fa impressione è come gli azionisti della società
abbiano gettato nel "calderone" 13 miliardi in meno di
due anni senza alcuna prospettiva. E' questo che segna
offesa ai lavoratori e a tutta la città.
(...) E' vero che la società è francese, ma il bene e il male
dell'azienda erano e sono a Como".
Con il titolo: "Ticosa, il giorno dopo" il direttore de LA
PROVINCIA ritorna sull'argomento per l'edizione di
domenica 5 ottobre, scrivendo: "Della situazione Ticosa
s'è detto e tranquillamente possiamo ripeterlo, tutto il
male possibile nei confronti di un consiglio di
amministrazione che ha avuto piuttosto sbadatamente
nei confronti di un'azienda che meritava, nei momenti di
tensione e di caduta della produzione, ben altri dirigenti.
(...) E' inaccettabile, invece, che avvenga una chiusura
d'azienda con il preavviso di un solo "Telex". E' vero che
viviamo nell' "era spaziale", ma è altrettanto vero che
debbono essere mantenuti quei rapporti umani che sono
alla base, anche se dilaniati da scontri, del buon senso
comune".
Pochi giorni dopo, mercoledì 8 ottobre, il quotidiano ed
il suo direttore ritornano sul tema in occasione di uno
sciopero di solidarietà indetto dai sindacati.
"Oggi,la città, sciopererà per i lavoratori della Ticosa,
un'azienda che è stata messa in liquidazione dal
consiglio degli azionisti. Dei modi incivili usati dalla
prioprietà (il "Telex") per mettere in liquidazione
l'azienda abbiamo già detto tutto il male possibile.
(...) Che l'azienda Ticosa andasse male lo si sapeva da
tempo. Che fosse nell'aria "qualcosa" di non magico era
altrettanto noto. L'azienda aveva fatto una proposta: 207
dipendenti in cassa integrazione, gli altri restano a
lavorare oppure si chiude. L'aveva detto all'inizio degli
incontri con il sindacato.
Da parte sindacale s'è risposto con un atteggiamento
altrettanto rigido: sui 207 non si discute, anzi vogliamo
discutere sui futuri dell'azienda.
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Quando era “La Comense”
(...) Si è arrivati al muro contro muro e l'azienda di
proprietà straniera, ha chiuso e i suoi bilanci in "rosso"
li ha portati al Tribunale di Milano, sede della società.
Valeva la pena di arrivare fino a questo punto solo per
dimostrare che il sindacato è più forte dell'azienda?
(...) La Ticosa è un'azienda di trasformazione e non di
creazione. Più sta ferma più diventa irrecuperabile".
Sabato 4 ottobre L'ORDINE titola così a sei colonne in
prima pagina: "LA TICOSA CHIUDE". L'articolo scritto
da Luciano Barocco inizia in questo modo: "Bien recu ?"
e continua: "Così concludeva ieri un lungo telex giunto
da Parigi alle 18,44 nel quale si comunicava che "Gli
azionisti della Ticosa S.p.A. hanno deliberato di cessare
l'attività della Società, riconoscendone con ciò
l'insuccesso di lunghi e notevoli sforzi intrapresi ai fini
del risanamento della Società stessa".
(...) "Per oltre dieci anni - prosegue il telex - sino al
1978, la Ticosa è stato un deficit. Infatti durante
sessanta anni di funzionamento le strutture della Società
sono diventate ipertrofiche e gli estesissimi impianti
industriali si erano resi vetusti e inadeguati. In
conseguenza della concorrenza nazionale ed estera,
molto più competitiva, la situazione commerciale e
finanziaria della Ticosa era venuta a deteriorarsi".
Il telex prosegue poi ricordando che: "Nel 1978 gli
azionisti hanno messo in opera un piano di risanamento
articolato in sette punti: ammodernamento dei
macchinari e delle attrezzature di produzione;
razionalizzazione e accentramento dei reparti, magazzini
e uffici; sviluppo commerciale degli articoli tessili di
qualità; vendita della parte di attivo immobiliare resasi
disponibile; notevole miglioramento della produttività,
cioè riduzione del livello occupazionale; ristrutturazione
del capitale e dei mezzi finanziari. Nella speranza prosegue il comunicato degli azionisti - che il realismo
avrebbe avuto prima o poi il sopravvento, gli azionisti
hanno fornito un supporto finanziario di nove miliardi di
lire nell'arco di tempo dal 1978 al'80, evitando in tal
modo il crollo della Società. A questo conferimento di
capitale vanno aggiunti quattro miliardi di lire ricavati
dalla vendita di componenti dell'attivo immobiliare e
industriale. Questi tredici miliardi sono stati inghiottiti
dalle enormi perdite di gestione della Società".
Il comunicato prosegue poi con una serie di valutazioni
negative sull'operato dei sindacati rei, secondo gli
azionisti, di essersi "opposti sistematicamente
all'applicazione dei provvedimenti idonei a risolvere il
grave problema". Il Telex conclude dicendo che:
"Nell'attuale
contesto
aziendale
il
Consiglio
d'Amministrazione e la Direzione Generale si sono
trovati nell'impossibilità di esercitare il loro ruolo,
consci quindi di aver fatto tutto il possibile per salvare
la Società, gli azionisti sono costretti a decidere la
cessazione dell'attività. A prescindere dalle gravissime
perdite subite gli azionisti si rammaricano delle
conseguenze sociali ed economiche derivanti da questi
eventi, in particolar modo per i dipendenti".
(...) La Ticosa è nella storia di Como. Se la Ticosa
muore viene meno un preciso punto di riferimento per
ciascun comasco. E da oggi per 514 famiglie l'incubo
della disoccupazione è una realtà".
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Lo stesso giorno il giornale riserva tutta la pagina 3 alla
vicenda e in un riquadro non firmato si legge anche: " La
© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
realtà, oggi, è che la Ticosa dovrebbe chiudere. Anzi,
per i comaschi, a chiudere sarebbe la "Comense",
perchè così era chiamata. e così la conoscevano tutti,
per tanti anni, quando ancora non esercitavano (o
soprattutto non proliferavano) le Holdings, quando il
Marketing era affidato più semplicemente alla capacità
e al "fiuto" dell'imprenditore, quando la conflittualità fra
le parti non aveva ritmi spasmodici, quando l'occidente
dettava legge nel mondo industriale e dell'economia".
tre per ogni lato è stato volutamente lasciato all'incuria
generale del tempo e delle persone (barboni, diseredati,
extracomunitari) che in vari periodi l'hanno abitato. E'
stata realizzata, tra l'altro, anche una piccola Moschea.
Ora quello che era il comparto della "stampa" è lì a
testimoniare con i suoi muri fatiscenti, le centinaia di
vetri rotti, di pluviali storti e gocciolanti, ricchi di scritte
e di disegni la totale disaffezione, la volontà politica di
volervi realizzare di tutto (troppe proposte) per non fare
nulla.
Titolo a sei colonne nell'edizione di domenica 5 ottobre
'80 de LA PROVINCIA di COMO:
“Dopo la decisione degli azionisti della PRICEL di
cessare l'attività dell'azienda
TICOSA: SI CERCA UNA VIA D'USCITA
Lavoratori e sindacati chiedono la ripresa delle
trattative - La società ha comunque già presentato
istanza al Tribunale per il concordato preventivo L'assemblea permanente dei dipendenti potrebbe
trasformarsi in occupazione - Programmati turni di
vigilanza della fabbrica.”
54 - CIO' CHE RESTA
Sono passati ventisette anni. Dopo la cessata attività il
Comune di Como ha acquistato tutto il comparto Sud,
cioè quanto alla fine è rimasto della grande Tintoria
Comense. Ha speso circa una decina di mliardi di Lire
tra acquisto e interessi sui mutui accesi per adibirlo per
buona parte a parcheggio mentre la parte del corpo a C –
così chiamato per la sua forma - quattro piani al centro e
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Quando era “La Comense”
55 - QUANDO SI SCENDEVA IN CAMPO
Naturalmente tutta la bufera della guerra e del dopoguerra aveva necessariamente affievolito questi interessi
relegandoli nel dimenticatoio.
Sul finire degli anni quaranta l'occasione per
ricominciare fu data da un torneo aziendale organizzato
dalle Grafiche Testoni che vide per l'appunto la
partecipazione della squadra calcistica della Tintoria
Comense.
Ero giovanissimo allora e come molti miei coetanei
praticavo questo sport nel ruolo, ahimè ingrato, di
portiere nelle squadre che molte società minori
(Baradello, Vittanese, Saturnia e altre) avevano allestito.
Pertanto fui avvicinato per dare la mia disponibilità
all'allestimento della "squadra".
Gli allenamenti si facevano in Piazza d'Armi, che ora
non c'è più, ed era precisamente dove ora sorge la chiesa
di S. Giuseppe, il Distretto Militare, un parcheggio e il
campetto di calcio dell'AS Cittadella. Un grande spazio
che oltre a servire i militari per l'addestramento era stato
anche adibito a campo di calcio con le porte
regolamentari: il terreno, invece, era completamente
sabbioso.
Quando mi trovai per il primo allenamento mi resi conto.
per la mio giovane età, che mi trovavo circondato da
persone che già avevano qualche...annetto. Inoltre non
conoscevo nessuno o quasi per il semplice fatto che
allora non giravo per i reparti ed ero da poco entrato
nella "grande famiglia".
Fu un'avventura, tuttavia, che si concluse brevemente
dopo qualche partita che sicuramente perdemmo.
Ricordo che il capitano era il Saldarini (il popolare
Canetta) che aveva avuto trascorsi nella prima squadra
del Como non so se in serie C o in qualcuna altra serie
minore. Aveva un bel tiro, soprattutto su calcio d'angolo,
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Letto così, questo titolo può far pensare a chissà quali
avvenimenti, siano essi politici o sindacali. Niente di
tutto questo. La discesa in campo è da indentersi nel
senso letterale poichè il campo era quello regolamentare
di calcio, con le due porte, le regolari segnature. Si
scendeva in campo per degli incontri di calcio a sfidarsi
come dice il Manzoni a "singolar tenzone".
In un assieme così numeroso di persone sembra quasi
naturale che lo sport più popolare, il calcio, abbia trovato
modo di esplicarsi e di essere vissuto in prima persona
da parecchi dipendenti, impegnati in ruoli diversi
all'interno dello stabilimento, ma accumunati dalla
passione vibrante sempre pronti a sfidarsi tra loro e non
solo.
In Tintoria Comense l'attività sportiva non era del tutto
assente :se un Gruppo Sportivo inizialmente si occupava
quasi essenzialmente di escursionismo e, soprattutto, sul
finire degli anni Trenta e all'inizio di quelli Quaranta,
magari sotto la spinta dopolavoristica, era attiva una
squadra femminile di pallavolo che tra un turno di lavoro
e l'altro si allenava in un ampio locale della "carbonaia",
l'immobile dove attualmente trovano sede un
fruttivendolo all'ingrosso e un negozio di abbigliamento
sportivo. E' naturale che il successo fosse assicurato
perchè le ragazze erano belle e slanciate e avevano la
possibilità anche di metter in mostra le gambe per via dei
pantaloncini corti.
© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
e un buon dribbling ma il fiato era quello che era. Inoltre
ricordo il centro-mediano, allora era questo il ruolo del
difensore centrale, sopranominato "Scatulin", un pezzo
d'uomo che si faceva rispettare.
Sulla scia di questa esperienza, qualche tempo dopo,
all'interno si organizzò un incontro fra impiegati tecnici e
amministrativi e questo rimase nella storia l'incontro del
"secolo" forse....
Il campo scelto per la contesa era quello dell'Ardita di
Rebbio, quasi in fondo alla via Paoli, ed il giorno un
sabato pomeriggio.
Un bel pomeriggio di primavera soleggiato vide così
scendere in campo le due formazioni fra il vociare dei
vari sostenitori e delle numerose donne presenti.
Senza allenamenti da entrambi le parti, ne poteva uscire
una specie d'incontro tra scapoli e ammogliati, e invece il
furore agonistico fu tale che ne sortì una gara gagliarda e
combattuta con anche qualche ferito per incidenti di
gioco.
Dapprima ricordo l'arbitro il Sig. Galeazzi che mai mi
sarei aspettato di vedere svolgere tale compito e che
invece dimostrò una certa propensione anche se per lui
gli anni avevano un certo peso.
Vediamo ora le formazioni incominciando da quella di
cui difendevo la rete e che era quella degli
amministrativi e tecnici nordisti (ossia la parte nord dello
stabilimento). Certamente non li ricordo tutti, per via
degli anni, ma qualcuno sì: il Pozzi (ricettista di tintoria)
nel ruolo di terzino, il Barella (magazzino meccanici)
che si stirò al secondo pallone che prese al volo e uscì,
l'Antonelli ( un capo tintorico) che si destreggiava a
centro-campo, il Maggi (contabilità industriale) nel ruolo
di mezz'ala che toccava di fino il pallone con al fianco il
Masola ( ufficio paga) ecclettico e imprevedibile centroavanti. Poi ricordo all'estrema ala il Dott. De Matteis
(laboratorio chimico) che forse accettò per spirito
cameratesco in quanto, questa, era la prima partita della
sua vita....
Molto pimpanti gli avversari dei tecnici sudisti anche
perchè giostravano quasi sempre nella mia area con le
loro candide maglie bianche. In porta c'era il Molteni
(responsabile stampa a rullo), in mediana un duo
catalizzatore di tutti i palloni composto da Grassi
(responsabile stampa a mano) e Duvia (dispositore
stampa a mano). All'attacco schieravano il Masciadri
(piazzista) il Dott. Lucio Ricca (piazzista) e il Renato
Piatti (piazzista) giovani che ben supportati mi diedero
parecchio da fare. Come finì non ricordo ma credo che
vinsero loro.
Nell'intervallo la Cesarina (segretaria di direzione)
distribuì arance a tutti, le donne presenti cicaleggiavano,
gli uomini commentavano, i direttori presenti
osservavano, e noi, rifocillandoci, speravamo in un
secondo tempo al pari del primo: e così fu.
Nel tempo, poi, seguirono altre sfide, ma nessuna ottenne
un successo come questa.
Di minore importanza anche l'incontro di qualche anno
dopo che opponeva la rappresentativa della "tintoria" a
quella della "stampa" e al quale presi parte. Giocammo
sempre sul campo di Rebbio e con i colori della Tintoria
ricordo il Lucini Guglielmo meglio conosciuto come " ul
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Quando era “La Comense”
Memo " ( ufficio paga ), Cantaluppi Gabriele
(laboratorio), " ul Nuseda " e cioè Noseda di Civiglio
(tintore). l'Alfonso Vittani ( responsabile di un settore
tintorico), il Ferruccio Casartelli (tintoria), il Bollini
Sandro (tintoria) che a conferma delle sue abilità aveva
sostenuto anche un provino per l'Inter, il Ceruti Marino
(laboratorio di tintoria). e anche il velocissimo Tosca
(tintore) ed il Bianchi Gianni (tintoria) che anni dopo
sarebbe stato l'ultimo a chiudere per sempre la porta
dello stabilimento. Certo non sono tutti, come non
ricordo nessuno della formazione avversaria. Ricordo,
però, il risultato: un salomonico 1-1 e che il gol da me
subìto fu una classica autorete del mio difensore Memo.
L'allenatore dei "tintori" era l'Angelo Lucini detto
"anguila" e il massaggiatore fu un altro tintore, il
Segalini.
L'ultimo incontro al quale partecipai sempre imperniato
sul dualismo tecnici-amministrativi avvenne, con
formazioni a sette, sul desertificato campo della Miani
(oratorio dell'Annunciata) nella tarda primavera del
1957. Anche qui il risultato finale fu di parità 1-1. Ma di
quell'incontro ricordo soprattutto le prodigiose parate del
portiere avversario: il piazzista Tonsi che sicuramente
salvò il risultato.
Ci sono pure da ricordare uno e due tornei interni, forse a
sette giocatori, fra le squadre della Stampa, Tintoria,
Apparecchio e Manutenzione con quest'ultima
formazione vincitrice.
Negli anni seguirono altre partecipazioni al Torneo
Aziendale Grafiche Testoni ma a dire il vero la "
nazionale" della Tintoria Comense e poi della Ticosa non
ottenne mai risultati altisonanti. Se si esclude
l'eventualità di un passaggio ai quarti persa sul campo
della Lario a Monteolimpino opposti all'Omita di Albate
per 3-1 e un'altra possibilità gettata al vento sul finire
degli anni settatanta sul campo di Albate opposti, credo,
alla rappresentativa dell'Ospedale S.Anna per passare
agli incontri decisivi al fine di un risultato onorevole,
tutto il resto cade facilmente nell'anonimato.
E' doveroso però ricordare qualche giocatore che nel
corso degli anni ha gareggiato per i colori sociali. Anche
questo è un elenco incompleto pescato nella memoria: il
Lietti (apparecchio), il Luciano...........(garage). il
Paradiso Franco (ricettista tintoria), Fasola Marino
(stampa), il Gagliardi Maurizio ( Tempi & Metodi), il
Pozzi Franco ( CED ). l'Anzani Norberto (contabilità
industriale di fabbrica) ma soprattutto il Chinchella
(asciugamento stampa) che per molti anni è stato
l'infaticabile promotore dell'attività, il paziente curatore
dell'amalgama, l'allenatore di molte, più o meno
fortunate, formazioni.
A metà degli anni '70 la "nazionale" partecipò per
l'ultima volta al torneo e il buon Chinchella mi chiamò
per perorare la causa, che in termini pratici significava
chiedere alla direzione i soldi per partecipare e per
acquistare
le
divise.
Ottenni
direttamente
dall'amministratore delegato Sig. Hulsbus l'importo
necessario con un accredito di un milione.
Erano quelli i tempi che l'Olanda calcistica dettava legge
e sapendo che il sig, Hulsbus era olandese scelsi, assieme
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a Chinchella, la stessa identica divisa dei "tulipani" con
l'unica eccezione, la scritta TICOSA, sul retro delle
maglie.
Oramai il tempo del "pallone" stava finendo per tutti.
Dopo pochi mesi iniziò la crisi interna e nel "pallone"
finì anche la storica TICOSA.
56 - ALLE 18.08 DEL 27 GENNAIO 2007 INIZIA LA
DEMOLIZIONE DEL CORPO C
Un freddo pungente ha accolto le migliaia di persone che
sono accorse per assistere all'inizio dell'abbattimento
dell'ultimo reparto della ex tintostamperia TICOSA:
quello dedicato alla stampa dei tessuti. Tre e quattro
piani, nella parte centrale, che comunemente era definito
corpo "C" perché aveva appunto la forma della lettera
dell'alfabeto.
Tra la folla c'erano molti ex dipendenti che non hanno
voluto mancare all'ultimo atto della incresciosa vicenda.
E c'ero anch'io. Anzi in precedenza su invito del Comune
avevo registrato il commento parlato al filmato che poi
su grande schermo è stato presentato come introduzione
alla cerimonia risolutiva.
Attendevo il momento in disparte sul lato sinistro a
fianco del palcoscenico dove le personalità civili e
religiose evidenziavano cosa rappresentava per il futuro
della città l'ultimo abbattimento del grande stabilimento.
Quando alle 18,08 la gigantesca ruspa, lentamente, si è
alzata fino al terzo piano - sala A - del fianco sinistro e
ha afferrato, tra le ganasce, il primo pezzo, non solo ho
provato un acuto dolore al cuore ma lentamente alcune
lacrime mi scendevano dagli occhi.
Non credo di essere stato l'unico. Per chi ha lasciato in
quello stabilimento i migliori anni della sua vita, per chi
ha contribuito al suo sviluppo con il proprio lavoro,
impegno e sudore, è stato come un pezzo di un qualche
cosa di suo che se ne andava per sempre.
IL direttore del quotidiano IL CORRIERE DI COMO
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Mario Rapisarda conclude così il suo commento per
l'edizione di domenica 28 Gennaio: "La Ticosa è stata,
prima della chiusura, il cuore pulsante dell'attività
manifatturiera in città. Il simbolo di una Como che non
c'è più. Ha dato il pane a migliaia di comaschi.
Abbattere i ruderi maleodoranti di oggi è un segno di
rispetto per tutte le persone che lì dentro hanno
lavorato, e non certo un insulto. Le ruspe non
cancellano i ricordi. Così come non lavano le coscienze
di chi ha permesso uno scempio ultraventennale. Avanti
con il piccone".
LA PROVINCIA dedica ampio spazio all'avvenimento e
in prima pagina, in neretto, si legge: "Como ha voltato
pagina. Musica e fuochi d'artificio hanno accompagnato
ieri pomeriggio i primi colpi di ruspa che porteranno,
entro qualche mese, all'abbattimento completo della ex
tintostamperia Ticosa, l'area industriale dismessa e
abbandonata dal 1980, da anni indicata come simbolo
del degrado e dell'immobilismo politico della città. Al
suo posto, entro quattro anni, sorgerà un centro
residenziale-commerciale-terziario, realizzato da una
multinazionale olandese.”
"E' un giorno storico per la città, un punto di svolta dal
passato verso il futuro" ha detto il sindaco Stefano
Bruni, ed ha aggiunto: "Se rimanesse al passato questa
città rischierebbe di rimanere nel torpore e nella
tristezza".
Ticosa". Ventisei anni dopo la chiusura dell'ultima
grande industria tessile della città, 45mila metri
quadrati, una cerimonia in stile hollywoodiano, ha
sancito l'avvio della demolizione dell'enorme complesso
abbandonato. (...) Spenti i fuochi - e svanita la grossa
nuvola di fumo - ecco il momento clou di tutta la
giornata. Un fascio di luce, dal terzo piano dell'ala
opposta a quella prossima alla demolizione, ha
inquadrato la gigantesca tenaglia dell'escavatore al
centro della Ticosa che ha dunque preso a roteare,
elevandosi verso i pilastri fatiscenti. Poi è stato un
attimo: agganciato il primo pezzo di calcestruzzo, sono
iniziati a piovere calcinacci. Tre o quattro secondi dopo,
è caduto al suolo il primo blocco della Ticosa
squarciata. Un tonfo sordo e liberatorio, almeno a
giudicare dallo scrosciante applauso che si è levato".
Emanuele Caso per il supplemento Lombardia del
Corriere della Sera del 28 gennaio 2007 inizia il proprio
pezzo così: "Como ha detto addio allo "scandalo
Nei giorni seguenti sono continuamente passato a seguire
lo svolgimento dei lavori. Colpo dopo colpo se ne è
andato, circondato dal fumo, quello che era lo
stabilimento primario non solo della città, ciò che per i
comaschi era motivo di sicurezza e nello stesso tempo di
fierezza. Un colpo e giù....un'altro e scompare un'altro
angolo....poi i ricordi....poi si offusca tutto e nemmeno si
rammentano giorni e date, persone e fatti.
Della Ticosa ognuno, ora, porta dentro di se tutto quello
che crede opportuno ma non potrà mai scordare tutti gli
anni passati dentro quella mura tra nuvole di vapore,
colori, quadri di stampa, barchette per avvolgere i tessuti,
e migliaia e migliaia di metri di tessuto che erano il
miglior biglietto da visita di Como nel mondo.
Ciao TICOSA !
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57 - IN ALCUNE NOTTI DI LUNA PIENA
Eppure in alcune notti di luna, quando tutto è calmo e
tira solo un refolo di vento, ho l'impressione che tutto sia
come prima, come venti, trenta e oltre anni fa.
Sento il compressore del "nuera" che pompa, mi arriva il
dolciastro e l'aspro della "tintoria" e là sul tetto della
stampa svolazzano le pezze al vento.
Le costruzioni dei reparti, il palazzone, ed altri edifici
sono tutti illuminati, la campanella cerca-persone batte
come sempre ... Tan (pausa) e poi TanTanTan (è il
numero 13)....
E dentro e tutto un via vai di gente...Sì, sì sono tutti i
miei colleghi, gli amici e no....e tutti lavorano.
Lassù all'ultimo piano i disegnatori della "Foto" sono
chini sui loro tavoli, qualcuno ha un pennello in bocca e
là nell'ufficio ul Facchinetti.....e poi giù ai piani il capo
reparto il Grassi Angelo che circola in mezzo ai tavoli
con il suo grembiulone nero con appuntato sul bavero i
biglietti per ricordarsi gli impegni, e giù al primo piano
nell'ufficio la Milietta, sempre indaffarata, che sta dando
ordini alle sue "aiutanti": sono l'Alba e l'Egidia. Di loro
sento ancora il ciabattare quando di volata scendevano le
scale.... Al pian terreno ancora negli uffici l'Anna,
sempre scattante e con la risposta pronta e più in là la
Claudia con le sue camicette sgargianti o a pois e con i
suoi anelloni nelle orecchie.... i due Capi-Reparto il
Molteni per la stampa R e il Belluschi Argeo per la
mano-macchina......Ma rivedo anche ul Funsin che
sapeva tutto per la stampa a macchina....
Ed ecco il "Sanfor" con il Capo Zanotti che quando
s'arrabbiava non solo dava in escandescenze ma qualche
volta mimava anche le azioni come quando disse :
"...cosa volete che mi cali i pantaloni" e lo fece. Davanti
alle "mercerizzatrici" vedo ancora la figura allampanata
e smunta del Lucini detto appunto "lusertun"... E il Riva
portinaio all'interno della sua guardiola che quando
vedeva passare qualcuno a cui doveva comunicare
qualcosa batteva violentemente il righello sul
vetro...tactactac... Ma prima sul piazzale del "garage"
ecco il Lomazzi che sul motocarro guida il carozzone per
la mensa mentre trasporta la minestra di cui, mentre,
cuoceva nel locale accanto, aveva infilzato con
l'immancabile stecchino che teneva in bocca i vari
bocconcini di pancetta che ribollendo venivano a
galla...ul Macchinetta sempre con il berretto e con gli
stivali... e tra il personale della manutenzione il Capo
Brusadelli in costante movimento e il vecchio Luppieri,
lattoniere, che ancora sul finire degli anni Quaranta
veniva al lavoro con la divisa militare da fante con gli
scarponi anch'essi militari....
Sulla via che attraversa il Nord con il Sud vedo la
Florinda, una vecchia signora, che arrivava d'estate con
l'ombrellino stile ottocento per ripararsi dal sole e che
d'inverno invece portava calzettoni di lana rosa che gli
avevano dato "i me dell'America"...e poi in bicicletta
l'Adone, dell'ufficio paghe, con il portapacchi sia davanti
che dietro sempre pieno di verdura che lui portava dai
suoi orti di Blevio. D'inverno aveva la mantella a ruota
nera che ricopriva anche i portapacchi stracolmi e il tutto
sembrava di vedere una statua in movimento...
Ecco all'ufficio fatturazione la sciura Adele, la
responsabile a cui la sorella Clementina, per rispetto
dava del "lei" in ufficio e del "tu" fuori servizio. In
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contabilità la signorina Mimì dal petto prorompente e più
in là la Licia e l'Almina, una strana coppia che oltre alle
registrazioni curavano un misterioso magazzino dove
confluivano gli scampoli, dove si smacchiavano i
pantaloni dei capi, dove sovente si confezionavano
misteriosi pacchi... Sotto il portico ul Martinell, un
omone grande e grosso, che poco prima di mezzogiorno
correva in mensa, lì accanto, e che poi si accomodava sul
suo tavolo, sotto la luce di un riflettore, a mangiare
l'abbondante minestra dentro un grossa gamella
(contenitore per il colore di stampa) di maiolica biancoverde chiazzata.
Al suo posto di lavoro zelante come non mai all'ufficio
Greggi l'Adele che conosceva a memoria la
composizione e la procedura per ogni tessuto...e sempre
nello stesso reparto il Livio detto ul "Maverin" perché il
suo nome era Mauro con il diminutivo di Maurino. In
Tintoria c'e il capo Luciano De Cesari che impartiva
ordini con la sua vocina stridula e poi ecco in
ricettazione il responsabile, ul Puzz ossia il sig. Pozzi
che lui la voce l'aveva squillante essendo stato, come
hobby, insegnante di ginnastica artistica. Fuori nel
reparto c'erano il Pinguino, il Tricheco e l'Anguilla
soprannomi di altrettanto bravi tintori....
Come scordarsi l'Angelo Confalonieri detto "Cunfa" che
iniziò come fattorino di lusso, poi divenne capo
magazziniere metalli, zelante e attivo.
Con la sua calma olimpica ecco il grande "popov" come
era nomato il Bruno dapprima capo officina e poi
responsabile dell'Ufficio Tempi & Metodi, il quale
sapeva tutto di tutti, conosceva ogni cosa, dalla
letteratura all'arte, dal cinema all'anedottica: il suo
grande pregio era, tuttavia, il disegno tecnico.
Su al primo piano dell'apposita palazzina ecco al lavoro
il disegnatore Bianchi, detto della "pertica" perché
sovente lo si vedeva circolare in bici con una grossa
pertica che serviva per prendere le misure scomode e il
Vittorio Milini con in ispalla un'istrumento di rilevazione
che nessuno aveva mai capito a cosa servisse...Mentre si
ritocca la giacca ecco ul Giovanin Masett addetto
all'avanzamento delle lavorazioni....ecco ora il Guido
Ambrosini sempre elegante con la cravatta ed i calzini
sempre dello stesso colore, tanto gentile, tanto educato,
quando non si arrabbiava perché allora...non c'erano più
santi in Paradiso...vedo "ul Magi" che avviò il Centro
Meccanografico
e
alla
fine
divenne
anche
funzionario...ed ecco anche, smagliante come sempre,
“la bella Tina”, che infiammò molti cuori.
Poi da ultimo ecco il Gianni Chiesa, economo
responsabile dell'ufficio acquisti, che per far aumentare
la quantità di materiale da vendere al macero, portava e
buttava personalmente nell'apposito grosso contenitore
anche le scatolette di latta che usava in famiglia:
marmellata, conserve, alimenti per bambini ed altro.
Dimenticavo: era uno svizzero!
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Dalle ciminiere si alza un filo di fumo leggermente
nerastro mentre più sotto sibila un getto bianchissimo di
vapore. Da ogni reparto mi giunge il rumore della gente
che lavora...
Improvvisamente all'orizzonte appare una nuvola, poi
un'altra ancora. Ma che è? Una tempesta? Che cos'è
questo vento che si alza impetuoso? Una perturbazione
fortissima - mi dicono - che giunge dalla Francia.
© Sandro Cima Vivarelli
Quando era “La Comense”
E poi ci sono i volti di tutti coloro che ho incontrato in
tanti anni di lavoro comune. Li riconosco, ricordo la loro
fisionomia, rivedo i loro abiti, tute, grembiuli, bluse e
cappelli, ma non ricordo più il loro nome, il loro
cognome allora molto famigliare....
Sono ombre, sono fantasmi, sono figure che vagano nelle
mente, nel cielo di una notte di luna piena: forse sono
stelle di un firmamento che si è oscurato......
Tutto si offusca...non c'è più nulla...ma dov'è la Ticosa?
La "Cumensa" dei comaschi...? Non c'è più...non c'è più.
Era la più grande tintostamperia per conto terzi d'Italia e
forse d'Europa.
CHISSA' ?
Sono passati ventisette anni da quei primi di ottobre del
1980 quando, quasi inaspettatamente, i fumi bianchi di
vapore cessarono per sempre d'innalzarsi nel cielo
autunnale di Como; quei fumi che indicavano l'operosità
della TICOSA.
Un giovane che si trovi ora a passare da via Grandi
potrebbe anche chiedersi cosa rappresentino l'immagine
decadente dei fabbricati industriali che si trova davanti.
Egli, non sa, che quelli sono i "ruderi" del più grande
opificio per conto terzi nel campo delle tintostamperie
operante in Europa e ciò accadrà, se la situazione non
cambierà velocemente, anche per le generazioni future.
Se finalmente si metterà opera alla ristrutturazione di
tutto il largo comprensorio cambierà sostanzialmente la
struttura attuale e così, per una tragico destino,
scomparirà un'altra fetta del passato cittadino. Certo il
progresso avanza, ma inesorabilmente cancella le tracce
del passato.
Nella Tintoria Comense, poi divenuta Ticosa, si lavorava
ogni tipo di tessuto, dai filati di seta dei primi anni, alle
fibre sintetiche degli ultimi tempi, passando per cotone,
lana, fiocco, viscosa, acetato e misti. Si tingeva, si
stampava, si apprettava con tutte le operazioni relative di
preparazione e finissaggio. La sua produzione
raggiungeva quotidianamente i 200/250 mila metri di
tessuto. Nel corso degli anni le lavorazioni,
naturalmente, cambiarono: dai filati si passò alla
lavorazione dei tessuti in largo per finire con la
maglieria. Attraverso il reparto Filanca si passò
all'elasticizzazione del filato sintetico così come in
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precedenza per il fiocco si brevettò l'antipiega. Inoltre
secondo le varie mode ed esigenze non si possono
scordare le lavorazioni per l'effetto clò-clò, per la stampa
a flock, la tintura delle tendine, così come il passaggio
dalla stampa a tampone a quella a quadro, da quella a
mano-macchina a rullo e alla rotativa.
Per far tutto ciò occorreva tanta maestranza assortita
nelle varie specialità, tante persone, tanto lavoro.
Il corpo a C, era il cuore del reparto stampa e
comprendeva 64 tavoli di stampa a mano, 6 impianti di
stampa a mano-macchina, 3 rotative e 9 macchine per la
stampa a rullo.
Oggi di tutto questo è rimasto solo il ricordo in chi, fra
quelle mura, ha sudato, faticato, lavorato, creato e dato.
La città di Como, la sua Amministrazione, gli industriali,
le associazioni, i sindacati devono fare in modo di
ricordare, alle generazioni future, ciò che ha
rappresentato quell'industria, quell'opificio, quel fumo
bianco che per decine e decine di anni saliva verso il
cielo per indicare lavoro, benessere a molte famiglie, per
essere il distintivo di una città che, della seta e dei
tessuti, ha fatto il marchio della sua popolarità.
Migliaia e migliaia di lavoratori in quel luogo hanno
passato anni di lavoro, generazioni di comaschi sono
passati entro quelle mura, tutta una zona si rifletteva
attorno a quelle ciminiere.
Quando tutto sarà cambiato, auguriamoci che si possa
trovare un'aiuola per far sorgere un piccolo monumento
al TINTOSTAMPATORE emblema di una città, di una
ditta, di un modo di essere comasco.
Chiedo troppo ?
A la fin de la fera
L'éra ul vantu de Comm,
Dopo la rana del Domm.
La faseva séda, articial e lana
De quatà ul caminùn de la Fagnana.
Na faseva propri de tutt i culuur,
Cun tintuur, apprettaduur e stampaduur.
Gh'éra la Purga, ul Sanfor e la Sbianca
E dopu g'àan tacalà anca la Filanca
Gh'éra déntar propri de tutt,
Legnamèe, trumbèe, mecanich e magütt,
Piazista, autista,impiegaa e dutur
Donn,òman, giuin e vécc lavuraduur.
Gh'évan un gran de fà prim de séra
Per fala finì in fin de la féra
tuta quéla roba béla e lavurada
De spedì per véss po fatürada.
Quanti métar, quanti pézz, che lunghéza
Cume l'é 'na strada in tuta larghéza.
Tüta tengiüda o stampada a fiuur
Fada cun passiun e tantu amuur.
L'éra de utubar, quel brut dì
Che ànn deciduu de fala finì.
Sérum püssèe de mila a chi temp là
Adéss semm in pooch e vémm a ca.
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Pora gént, pora TICOSA, pora Cumensa
Dopo tantu lavurà : che ricumpensa !
Fra un puu de témp, de tüta quéla gént
Chi sa' recordarà, che l'è stada dént ?
Almén in un pradéll, in un cantun
Un zucurott, un quàdar, un cassùn
'Na spatula, trii gugitt, 'na
barchéta
Del tintostampaduur: la statuéta.
RIFERIMENTI
1 ) Cartella "Comense" presso C.C.I.A.A. di Como
2 ) Ettore Roncoroni, Gillet-Tintoria Comense-Ticosa,
Notiziario Tecnico Tessile N°3 1996 Ass. Ex-Allievi
Istituito Nazionale di Setificio - Como
3 ) Como 1980 di Antonio Marino, Carlo Briccola,
Pierangelo Marengo, Pier Luigi Comerio.
Adéss, l'è propi finida. Stavolta
Un pulverùn, e la va giù un tocch a la volta.
Che nébia, che tristéza. Pica, picùn
Vütum, a mandagiù ul magun !
E mò adéss,in fin de la féra
Anca per Lee gh'è vegnù giù
La séra!
Sandro Cima
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