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Bob Anderson, psicologo della formazione, da più di vent’anni si occupa di
diabete. Docente di educazione sanitaria alla facoltà di Medicina dell’Università
del Michigan, ricercatore presso il Diabetes Research and Training Center
della stessa università, è uno dei massimi esperti di empowerment applicato
al diabete.
Martha Funnell, infermiera, diabetes educator con quasi vent’anni di esperienza
nel campo dell’educazione al diabete, insegna alla facoltà di Scienze
Infermieristiche e fa parte del Consiglio Direttivo del Diabetes Research and
Training Center dell’Università del Michigan.
Bob Anderson, Martha Funnel
L’arte
dell’empowerment
L’arte dell’empowerment
Il diabete richiede alla medicina nuovi paradigmi nella relazione terapeutapaziente. L’atteggiamento di empowerment intende aiutare le persone a
trovare dentro di sé le risorse necessarie per fronteggiare la malattia. Questo
significa per il terapeuta ascoltare i pazienti e le loro storie con attenzione
e partecipazione, e imparare a fare le domande giuste. L’empowerment è
un’arte più che una tecnica, che si impara giorno dopo giorno e che cambia
il terapeuta almeno quanto il paziente.
Bob Anderson, Martha Funnel
Racconti e strategie per un paziente
protagonista della terapia.
Cure
Care
Commitment
Bob Anderson, Martha Funnel
L’arte
dell’empowerment
Racconti e strategie
per un paziente
protagonista della terapia
Editing: In Pagina - Milano
Traduzione: Maurizio Costantini
Grafica: www.ideogramma.it
Stampa: Global Print, Gorgonzola (Mi)
In copertina: disegno di Sergio Bellotto
Questo libro rappresenta l’edizione italiana
di The Art of Empowerment – Stories and
Strategies for Diabetes Educators, edito
da American Diabetes Association nel 2000
Precisamente si tratta della traduzione
dei capitoli 1, 2, 3, 4, 5, 9, 11,15, 16, 17, 18,19,
23, 24, 25 dell’edizione originale americana.
Copyright: American Diabetes Association
2
INDICE
PARTE
1
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
PARTE
1
2
3
4
5
2
Capitolo 6
Capitolo 7
PARTE
3
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
PARTE
8
9
10
11
12
4
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Presentazione
Prefazione
Introduzione
pag.
pag.
pag.
Ciò che facciamo è quello che siamo
Il nostro viaggio nell’empowerment
Il diabete è differente
La prospettiva illumina il metodo
Dalla compliance all’empowerment
Imparare sulla propria pelle
pag. 15
17
27
33
39
53
Instaurare relazioni di crescita
Diventare partner
Ascoltare può guarire
pag. 61
63
69
Il segreto del cambiamento
Qual è il problema?
Come viene vissuto?
Cosa si vuole ottenere?
Cosa si vuole fare?
Funziona?
pag. 75
77
87
93
101
109
Mettere in pratica l’empowerment
Avere successo
Strumenti per riflettere
Educator ‘potenziati’
pag. 117
119
125
135
Pubblicazioni nello spirito dell’empowerment
Ringraziamenti
pag. 141
pag. 147
5
7
9
3
PRESENTAZIONE
Il termine empowerment ha avuto negli ultimi anni una
risonanza significativa anche su questa sponda dell’Atlantico. Appartiene a quel gruppo di termini anglosassoni praticamente intraducibili che portano con sé un
insieme di significati. Anche per questa ragione parlare di
empowerment è diventato di moda e forse se ne è anche
abusato, ma resta un concetto molto ampio e affascinante che porta al coinvolgimento e alla presa di coscienza
degli individui, in un certo senso alla ri-appropriazione
della propria vita e delle proprie decisioni.
L’empowerment è stato utilizzato per molte discipline aventi a che fare con le persone e le organizzazioni. In ambito
medico ha trovato un’interessante applicazione nella cura
delle malattie croniche e del diabete in particolare.
The Art of Empowerment, edito dall’American Diabetes
Association, rappresenta il manifesto dell’utilizzo dell’empowerment nella cura del diabete. Per questa ragione
abbiamo chiesto il diritto alla traduzione e lo abbiamo
inserito nella nostra collana di pubblicazioni rivolte alla
Diabetologia italiana (ma perché no, anche ai pazienti e ai
loro parenti).
Uscito nel 2000, il bel libro di Bob Anderson e Martha
Funnel ha rappresentato una rivoluzione nell’approccio
americano all’educazione del paziente e ha dato un contributo indiretto ma importante a definire sempre meglio
l’approccio europeo all’educazione terapeutica.
5
Abbiamo deciso di tradurlo accettando di mantenere uno
stile assai lontano da quello che caratterizza la comunicazione accademica europea, una impostazione rivolta a un
target che in Italia non ha un equivalente (come ben scrive
Umberto Valentini, il ruolo del diabetes educator da noi è
condiviso da tutto il team) e una struttura che affianca profonde intuizioni a raccomandazioni che alle orecchie di
molti diabetologi suonano un po’ banali (ma non sempre
le raccomandazioni banali vengono poi messe in pratica).
Riteniamo di aver contribuito non solo a precisare l’evoluzione di un pensiero parallelo a quello dell’Educazione
Terapeutica ma anche a rafforzare, cosa che gli Autori fanno
con meritoria insistenza, il fatto che il diabete e molte
malattie croniche richiedono al personale sanitario e ai
pazienti un completo cambio di paradigma, un mutamento
che è assai difficile da compiere e mantenere nella pratica.
Massimo Balestri
Roche Diagnostics
6
PREFAZIONE
Questa più che una Prefazione è uno scambio di idee fra
persone all’inizio di un ‘viaggio’.
È significativo che Roche Diagnostics abbia scelto di presentare la traduzione italiana di The Art of Empowerment
in occasione del congresso GISED, quinta edizione degli
incontri mono-tematici sull’Educazione Terapeutica tenuti
a Villa Erba.
Empowerment e Educazione Terapeutica: quale differenza? Forse nessuna: infatti se diamo a empowerment il
significato di ‘aiutare a crescere’, ‘irrobustire’, vediamo
che anche l’Educazione Terapeutica ha come fine la capacità del paziente di autogestire in modo consapevole la
propria malattia. In questa logica l’empowerment diventa
una parte, una metodologia dell’Educazione Terapeutica.
Ci sono comunque differenze di approccio fra la filosofia
dell’empowerment così come emerge da questo libro e
l’Educazione Terapeutica ‘europea’. Alcune sono differenze di ‘stile’. In un contesto laico e protestante come quello americano (il libro è edito dall’American Diabetes
Association) risulta più semplice per il Terapeuta riconoscere al paziente il ‘diritto’ di curarsi ‘male’, di scegliere,
purché informato, una strada che non appare ottimale o
adeguata agli occhi del Terapeuta.
Gli americani si spogliano più facilmente di noi, sembrerebbe, di un contesto di valorizzazioni e pregiudizi; questo consente loro di rispettare meglio – o comunque più
7
a fondo – le scelte del paziente."In natura" si legge in una
delle molte e simpatiche citazioni sparse nel libro, “non ci
sono premi né punizioni, ma solo conseguenze."
Bisogna però essere cauti, perché questo approccio
potrebbe rappresentare un alibi per educatori ‘scadenti’:
con il risultato di scaricare responsabilità improprie al
paziente. Nell’Educazione Terapeutica, la responsabilità
del Terapeuta è aumentata, e non certo ridotta dall’approccio di ‘empowerment’. Il libro scritto da Bob
Anderson e Martha Funnel tre anni or sono ha un lettore
preciso: il diabetes educator. Questa figura di infermierepedagogo-dietista professionale opera negli USA come
libero professionista prestando la sua opera al Centro di
cura o a singoli pazienti e gruppi e coprendo una vasta
gamma di bisogni, con la sola esclusione, si potrebbe
dire, di quello più specificatamente medico.
In Italia il diabetes educator non esiste. Le sue competenze sono condivise fra tutto il Team. Questo significa che il
libro di Anderson e Funnel, in Italia, si rivolge a tutto il
Team diabetologico. Siate Diabetologi o Infermieri,
Dietisti o Psicologi, Pazienti o parenti... questo libro parla
direttamente a Voi.
Buona lettura.
Umberto Valentini
Vicepresidente
Associazione Medici Diabetologi
8
INTRODUZIONE
“
Ma se tu non fossi matta, non saresti qui.
Il Cappellaio Matto in Alice nel paese
delle meraviglie di Lewis Carroll.
“
Quando abbiamo iniziato a fare i diabetes educator pensavamo di raggiungere i nostri obiettivi insegnando ai pazienti come curare il diabete e cercando di fare in modo che
seguissero le nostre raccomandazioni. L’esperienza ci ha
insegnato che questo tipo di approccio non funziona e,
cosa forse anche peggiore, risulta frustrante per noi e per i
nostri pazienti. Per uscire da questa doppia frustrazione ci
siamo chiesti: perché l’approccio tradizionale non funziona?
E che cosa invece funziona? La risposta ha richiesto vent’anni di lavoro.
Questo libro vuole condividere con voi ciò che abbiamo
appreso per rispondere a quelle due domande. L’idea di
fondo che stava alla base dell’approccio tradizionale, e cioè
che il professionista della salute (medico, infermiere, psicologo o altro) è il responsabile della cura, è un’idea che non si
adatta al diabete. Il paziente è il responsabile, è lui che ha il
controllo della situazione. Una volta capito questo, abbiamo
sviluppato un nuovo approccio, più adatto e, per noi, più
soddisfacente. Abbiamo scelto di chiamarlo empowerment.
Il che vuol dire aiutare le persone a scoprire e usare la loro
innata capacità di gestire e controllare il loro diabete. In que-
9
sto libro esponiamo le strategie che abbiamo sviluppato o
adattato per favorire l’apprendimento e il cambiamento dei
nostri pazienti, sia in situazioni di gruppo che individuali.
UN LIBRO DI STORIE
Abbiamo incluso molte ‘storie’ in questo libro perché i racconti di vita, le ‘storie’ sono uno dei più potenti mezzi di apprendimento che ha a disposizione il genere umano. Sono ‘storie’ di
nostri pazienti e di nostri colleghi. I racconti dei pazienti ci insegnano come il diabete sia un’esperienza complessa, integrata,
olistica, che include elementi psicologici, intellettuali, clinici,
economici, sociali, culturali, religiosi o comunque spirituali.
Abbiamo imparato che gli educators devono saper porre delle
buone domande e ascoltare con attenzione se vogliono scoprire, grazie alle storie dei loro pazienti, le varie componenti
della malattia.
I nostri racconti, così come quelli di altri educator, ci insegnano che il modo in cui ci vediamo come formatori, la nostra
filosofia di vita e di lavoro sono anche influenzati da elementi della nostra vita personale e lavorativa, da passate esperienze, obiettivi, bisogni e valori.
Il nostro cammino di diabetes educator è cominciato nelle
famiglie, nelle comunità in cui siamo cresciuti, nelle nostre
prime esperienze personali. La storia di chi siamo e cosa
siamo è stata poi modellata dalle scuole frequentate, dalla
formazione professionale ricevuta e dalle esperienze di lavoro. Riflettere sull’influenza che la fitta trama delle nostre esperienze ha avuto sul nostro lavoro ci ha condotto a concludere
che ciò che facciamo dipende da ciò che siamo.
Come educators abbiamo la possibilità di aiutare i pazienti a
scrivere per se stessi delle nuove storie. Storie in cui il diabete fa parte, in modo positivo, delle loro esistenze. Per fare
questo abbiamo bisogno di entrare nella vita dei pazienti e
imparare a guardare il mondo con i loro occhi. In quanto
‘ospiti’ e partner possiamo lavorare con loro per integrare
l’auto-gestione del diabete nella storia della loro vita in una
10
maniera che possa realmente rispondere ai loro bisogni.
Un amico ci ha raccontato la visita di un senatore americano
a Madre Teresa di Calcutta. Dopo aver passato quattro o cinque giorni in India e aver visto tutto ciò che lei aveva realizzato, il senatore ebbe un incontro finale con Madre Teresa. In
quell’occasione le disse: “Il lavoro che state facendo è
straordinario, ma, se devo essere sincero, credo che alla fine
si rivelerà un fallimento. Anche moltiplicandolo per dieci o
per cento, non sarebbe sufficiente a risolvere i problemi di
povertà, malattie e sofferenze che affliggono questa parte
del mondo”. Al che Madre Teresa rispose: “Dio non chiede
che io abbia successo, ma fede in ciò che faccio”.
Una pratica di educazione al diabete che sia ricca di soddisfazioni e umanamente appagante, secondo la nostra esperienza, è una pratica che si basa su una prospettiva, su una visione, a cui cerchiamo di rimanere fedeli. Benché le sfide che
abbiamo davanti non siano così impegnative come quelle di
Madre Teresa, c’è comunque molto, nel panorama mutevole
dell’assistenza sanitaria e anche nelle istituzioni in cui lavoriamo, su cui non possiamo intervenire. Possiamo controllare il
modo con cui interagiamo con i pazienti e con i nostri colleghi. E così possiamo rimanere fedeli alle nostre idee.
UN LIBRO PER IMPARARE A FARE
Scrivere un libro sull’empowerment è stata una sfida. Molti
dei libri diretti a un pubblico di professionisti contengono
argomenti e concetti, mentre l’empowerment è essenzialmente una pratica. L’approccio concettuale e quello esperienziale all’apprendimento danno due tipi di conoscenza
differenti: sapere e saper fare. L’apprendimento basato su
concetti richiede in genere di leggere e ascoltare per acquisire delle nozioni su un determinato argomento. Possiamo
imparare molte cose sul diabete leggendo un libro di testo
o ascoltando delle lezioni su quest’argomento.
L’apprendimento basato solo su concetti ha però due grossi limiti. Il primo è che siamo in grado di ricordare quanto
11
studiato solo per un breve lasso di tempo, soprattutto se
quei concetti non vengono utilizzati continuamente. Quanti
di noi sarebbero in grado di superare oggi un esame di
algebra da scuola superiore? Il secondo è che l’approccio
concettuale genera una conoscenza inerte. È un tipo di
conoscenza difficile da utilizzare per risolvere i problemi,
perché le nozioni tendono a essere memorizzate come
insiemi di concetti organizzati secondo criteri utili per chi li
insegna, ma non per chi li usa.
Molti libri di testo sono pensati per trasferire informazioni dal
libro al lettore, ma non è questo il nostro scopo. Vorremmo
invece che fosse un punto di partenza, un trampolino, per un
apprendimento basato sull’esperienza. Perché l’esperienza
insegni è necessario che sia accompagnata dalla riflessione.
Abbiamo cercato di scrivere un libro che vi stimoli a fare qualcosa di più che apprendere il concetto di empowerment.
Non possiamo darvi le risposte, ma possiamo proporvi alcune domande che possono aiutare a trovare le risposte giuste
per voi. Fare domande è il mezzo più efficace che noi conosciamo per stimolare l’apprendimento esperienziale, perché
spingono a riflettere sulla vostra esperienza. Le domande
sono al centro dell’approccio empowerment, sia per i pazienti che per gli operatori sanitari. Riflettere sul lavoro fatto è il
modo migliore, secondo noi, per migliorare il lavoro da fare.
Siete invitati, anche, a provare su voi stessi alcune delle tecniche di insegnamento e di cambiamento del comportamento presentate nel libro, e a valutarne l’efficacia. Siate scettici,
riflessivi e pratici.
COME USARE QUESTO LIBRO
Il libro può essere utilizzato in molti modi. Certamente potete leggerlo e rifletterci sopra in solitudine. Ma l’esperienza ci
ha insegnato che è in genere molto più stimolante per la
riflessione e il cambiamento confrontarsi con qualcuno che
gode della vostra stima e fiducia. Se è possibile, leggete il
libro e discutete le domande per riflettere con uno o più col-
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leghi di fiducia. Oppure, potreste trovare che sia un mezzo
utile per la crescita personale e per la formazione dei membri dell’équipe in cui lavorate.
Le domande per riflettere e i suggerimenti per un diario sono
pensati per aiutarvi a raccontare la vostra storia. Sono questo
racconto e le introspezioni che spesso emergono dall’ascoltare se stessi che fanno dell’apprendimento basato su esperienze una potente forza di crescita personale e di cambiamento del comportamento. Raccontare la nostra storia ad
altri porta in superficie le emozioni in un modo che il semplice ricordo generalmente non fa. Inoltre, quando raccontiamo
la nostra storia a persone che hanno la nostra fiducia, queste
possono farci delle domande che ci inducono ad approfondire e riflettere in modo nuovo.
13
PARTE 1
Ciò che facciamo
è quello che siamo
“
Io sono quello che sono e questo è tutto
quello che sono.
Braccio di Ferro
“
Tutti noi abbiamo sentito il detto “l’esercizio fa la perfezione”. Eppure tutti abbiamo incontrato insegnanti, medici,
infermieri, psicologi, diabetes educators e altri professionisti
che facevano male il loro lavoro quando hanno iniziato e che
lo facevano ancora allo stesso modo vent’anni dopo.
Avevano accumulato molta esperienza ma evidentemente
mancava qualcosa. Imparare, crescere, migliorare, richiedono
riflessione. Riflettere continuamente sul nostro lavoro ci insegna più cose sull’arte dell’educazione al diabete che non leggere tutti i libri e gli articoli mai scritti sull’argomento.
Una pratica riflessiva richiede un continuo esame della
nostra prospettiva, del nostro comportamento, della nostra
esperienza e dei nostri risultati. Quando facciamo il nostro
lavoro in modo riflessivo chiediamo a noi stessi dopo ogni
seduta: “Il mio comportamento sta dando i risultati che io
desidero? Le cose sarebbero andate diversamente se mi
fossi comportato in modo differente? Se potessi tornare
indietro cosa cambierei nella mia interazione con quel
paziente o quel collega? Qual è il mio scopo? Qual è la mia
responsabilità? Sto veramente perseguendo il mio scopo?
Mi sto veramente prendendo le mie responsabilità? Sto
veramente ‘educando’ i miei pazienti e me stesso?”.
15
“
Le nostre azioni determinano noi stessi
quanto noi determiniamo le nostre azioni.
George Eliot
“
Abbiamo imparato che il mestiere di diabetes educator è
parte del mestiere di vivere. Nello sviluppare la nostra
filosofia di empowerment ci siamo resi conto che le riflessioni che hanno modellato la nostra idea del ruolo del
diabetes educator si sono formate nel corso di molti anni
e includono esperienze che risalgono a molto tempo
prima del nostro ingresso nel mondo del diabete.
Nella prima parte di questo libro vogliamo condividere
con voi alcune delle esperienze che hanno contribuito a
delineare il nostro approccio all’educazione al diabete,
esperienze fatte dentro e fuori il mondo dell’istruzione e
dell’assistenza sanitaria. Non è possibile, però, come per
i nostri pazienti con il diabete, suddividere queste esperienze in categorie nettamente separate senza distruggerne la loro integralità e complessità. Abbiamo incluso queste storie come stimolo (e come invito) a tutti i lettori a
riflettere sul proprio approccio all’educazione al diabete.
Pensate al modo in cui le vostre esperienze di educator, di
studenti, di membri di una famiglia, di professionisti della
salute hanno modellato la vostra idea di questo importante lavoro. Ci auguriamo che questa parte vi sia di aiuto
nel vostro viaggio di diabetes educators, medici, infermieri, psicologi, dietisti, o semplicemente di esseri umani.
16
CAPITOLO 1
Il nostro viaggio
nell’empowerment
Il diabete è una malattia autogestita. Deve esserlo.
L’autocontrollo del diabete è responsabilità del paziente,
e questo richiede una ridefinizione dei ruoli, del paziente
come del personale sanitario, una visione completamente
nuova della ‘educazione’. Abbiamo impiegato molti anni
per capirlo pienamente e per comprendere i cambiamenti fondamentali che questo implicava nella nostra filosofia
di educazione al diabete.
La storia di Bob
Ho imparato una lezione veramente importante nei miei
anni di college. Ho imparato che c’erano delle alternative
al metodo di apprendimento basato sulla memorizzazione
di lezioni terribilmente noiose. Durante gli anni di scuola
e buona parte di quelli di college, noi ci sforzavamo di
memorizzare le nozioni esposte dall’insegnante per poi
ripeterle all’esame. Trovavo questo approccio piuttosto
noioso, ma fino al college non pensavo che ci fossero altri
modi per insegnare e per apprendere. Sapevo soltanto
che la scuola non mi piaceva.
Non dimenticherò mai il corso di Introduzione alla
Filosofia che seguii appena entrato al college. Era tenuto
da un giovane e brillante professore. Alla prima lezione ci
divise in piccoli gruppi e ci disse che durante il semestre
ogni gruppo avrebbe dovuto preparare un proprio progetto di società utopica basata su una filosofia accurata-
17
mente elaborata. Leggemmo Aristotele, Platone, Locke,
Nietzsche e altri per aiutarci a decidere quale filosofia o
quale ‘miscela’ di filosofie avremmo adottato per la nostra
società. Trovai quel corso interessante e stimolante. La
filosofia mi apparve una cosa viva perché la studiavamo
per vedere come si poteva applicare allo sviluppo del
nostro progetto di società. Fu così che scoprii che la
maggior parte delle culture, dei governi, delle istituzioni
hanno alla base dei fondamenti filosofici.
Pochi anni dopo essermi diplomato al college, venni a conoscenza dell’esistenza di un programma didattico per insegnanti diplomati basato su tecniche di apprendimento attraverso la pratica e la risoluzione di problemi. Il programma
veniva offerto dove risiedevo, a circa 150 miglia dall’università che avevo frequentato. Si basava sulla premessa che la
maniera migliore per imparare a insegnare era insegnare e
poi riflettere su quanto fatto, piuttosto che starsene seduti in
un’aula ad ascoltare un professore che parlava di come si
deve fare. Passavo la mattina a tenere lezioni nelle scuole
superiori e il pomeriggio a fare seminari con gli altri insegnanti che partecipavano al programma. Studiavamo pedagogia e psicologia mentre cercavamo, non senza fatica, di
diventare dei docenti migliori. I nostri dibattiti, le nostre discussioni, le nostre esplorazioni scaturivano dalle sfide che
tutti i giorni la pratica dell’insegnamento ci proponeva. Ci
sentivamo profondamente coinvolti nei problemi didattici
che studiavamo perché era la nostra esperienza quotidiana e,
per lo stesso motivo, mettevamo passione nella ricerca delle
soluzioni. Quell’esperienza cambiò radicalmente le mie idee
sulle possibilità dell’insegnamento. Scoprii quanto può essere ricco e vitale l’apprendimento quando è applicato alla vita
reale, quando gli studenti hanno una vera necessità di conoscere. Giunsi ad apprezzare quanto può essere liberatoria l’istruzione quando aiuta gli studenti a pensare creativamente
e a risolvere i problemi autonomamente, anziché adottare
semplicemente le opinioni correnti.
18
Finita l’università, più di 20 anni fa, iniziai per caso a occuparmi di diabete. Compresi presto che, nonostante l’educazione sanitaria del paziente fosse una componente fondamentale della cura del diabete, un numero relativamente piccolo di istituzioni e di personale investiva del
tempo per riflettere su come farla nel migliore dei modi.
La maggior parte dei clinici che incontravo concepivano i
corsi di educazione sanitaria per i pazienti allo stesso
modo con cui loro stessi li avevano ricevuti: “Ecco delle
nozioni, andate e applicatele”. La maggior parte dei diabetes educator che incontravo avevano una discreta preparazione ed esperienza sulla fisiopatologia del diabete e
sul controllo glicemico, ma avevano ricevuto poca formazione su come insegnare tutto questo ai pazienti. Gran
parte dei corsi per i pazienti erano noiosi quanto i corsi
che avevo seguito da ragazzo. Mi accorsi, inoltre, che
buona parte della formazione per diabetici era finalizzata
a ‘indurre’ il paziente a fare ciò che la figura di riferimento (il medico o il diabetes educator) aveva deciso che quel
paziente dovesse fare, piuttosto che lavorare insieme con
il paziente per identificare le sue ‘sfide’ particolari.
Ricordo di aver pensato: “Conosco questo metodo, non
mi piaceva allora e non mi piace adesso”.
Per ragioni che non mi sono interamente chiare, quando
io osservo un paziente e un medico o un infermiere interagire, io mi identifico con il paziente. Immagino come si
deve sentire il paziente quando viene trattato in un certo
modo (buono o cattivo che sia). Vorrei che le mie esperienze di vita fossero riconosciute e il mio diritto a prendere decisioni sulla mia salute e il mio benessere rispettato. L’esperienza mi ha insegnato che la maggior parte
delle persone desidera essere trattata in questo modo.
Riflettere su tutto questo e sulle straordinarie possibilità
che offre la formazione nel diabete – quando è praticata
come un’attività collaborativa – è stato per 20 anni il centro e la motivazione del mio lavoro.
19
La storia di Marti
Le mie esperienze professionali con l’empowerment sono
cominciate durante il mio corso da infermiera. Avevo solo
delle idee vaghe su cosa fa un’infermiera, ma fui fortunata a scegliere una scuola che mi diede delle lezioni molto
importanti, a parole e attraverso le esperienze che mi
furono offerte. Imparai che infermiere e infermieri danno
qualcosa di unico ai pazienti. Non sono ‘dei quasi medici
con meno conoscenze’. Piuttosto, siamo persone che portano ai nostri pazienti qualcosa di vitale ma difficile da
misurare. Non solo competenza ma anche attenzione e
comprensione.
Ho cominciato a lavorare con i pazienti affetti da tumore
polmonare inoperabile. Spesso facevo il turno di notte e
mi sentivo inutile, di nessun aiuto, per quelle persone che
non riuscivano a prendere sonno per l’angoscia o per il
dolore. Vedevo però che i pazienti che erano in grado di
fronteggiare con una certa forza e serenità la loro diagnosi vivevano più a lungo e morivano meglio. Con uno in
particolare, un paziente che aveva raggiunto un sorprendente livello di accettazione della malattia, passai molte
ore chiedendogli consiglio su cosa potessi fare per gli
altri. Mi rispose: “Impara ad ascoltare e a prenderti cura
delle persone”.
Un’altra esperienza che ha influenzato la mia filosofia
lavorativa è stata una ricerca sull’efficacia dei ‘contratti di
benessere’: a pazienti con diabete, ipertensione, artrite
veniva chiesto di modificare il proprio stile di vita per raggiungere determinati obiettivi di salute. In quel progetto
aiutavamo i pazienti a scegliere i loro obiettivi e a sviluppare un percorso graduale per raggiungerli. Benché questo approccio non avesse un nome, utilizzava molte delle
idee che sono poi diventate parte del modello empowerment. Chiedevamo ai pazienti di stabilire cosa fosse
importante per loro e da dove volessero cominciare a
cambiare. Poi li aiutavamo a redigere una lista dei passi
20
che li avrebbero portati a raggiungere i loro obiettivi. Il
progetto durò tre anni e imparai quanto sono intimamente legati emozioni e comportamenti: una persona che
sente di poter padroneggiare la situazione e che si sente
sostenuta può fare ciò che ha deciso di dover fare.
Nel 1983 andai a lavorare al Michigan Diabetes Research
and Training Center. A quel tempo avevamo un programma completo di assistenza e educazione per i pazienti
ricoverati. Era la mia prima vera esperienza come diabetes educator e, attraverso le interazioni con i pazienti e
con lo staff, mi resi conto della complessità del diabete e
dei problemi che poneva ai pazienti e alle loro famiglie.
Risultava evidente come i pazienti fossero, in realtà, i veri
decisori della propria cura. Potevo portare tutta la conoscenza che avevo, e potevo aiutarli a vagliare le varie
opzioni disponibili e a fissare gli obiettivi di cura, ma alla
fine erano le loro convinzioni, le loro idee sulla malattia la
vera forza trainante della cura. Mi accorsi di quanto differente potesse essere il significato del diabete per ognuno
di loro, di come lo vivessero e di quanto questo influenzasse ciò che facevano.
Guardando indietro nella mia vita professionale, capisco che
la storia del mio rapporto con l’empowerment è il racconto di
un viaggio. Non c’è stato nessun evento drammatico, nessuna svolta radicale che mi ha condotto ad abbracciare questa
filosofia, quanto piuttosto il risultato di continui aggiustamenti nel mio modo di lavorare. È accaduto lentamente,
riflettendo sui risultati di queste esperienze, imparando da
ciò che funzionava e da ciò che non funzionava e inserendo
quanto appreso nella mia vita e nel mio lavoro quotidiano. Le
mie esperienze professionali con l’empowerment hanno
nutrito e allo stesso tempo sono state lo specchio delle mie
esperienze di vita. Sarebbe stato difficile il contrario, praticare una certa filosofia al lavoro e una diversa nella vita.
Perché l’empowerment è una filosofia e non una tecnica,
è un modo di vedere il mondo e di essere, qualcosa che
21
mi accompagna in tutte le relazioni, personali e di lavoro,
come le mie conoscenze sul diabete e la mia personalità.
Ogni incontro con un paziente è una nuova occasione per
sperimentare e apprendere. Imparare sempre qualcosa mi
rinnova e mi rafforza, mi aiuta a mantenere intatto l’entusiasmo per l’educazione al diabete anche dopo 17 anni.
Sul finire degli anni ‘80 il Comitato Didattico del Michigan
Diabetes Research and Training Center ha sviluppato dei
corsi per i pazienti e per il personale sanitario. Nel prepararli abbiamo a lungo parlato di cosa ognuno di noi avesse fatto con i pazienti e di cosa avesse funzionato davvero. Come presidente, per aiutare a denominare e definire
la nostra idea di ciò che è efficace, ho chiesto a tutti i
membri del comitato di scrivere un breve saggio sulla
propria concezione della formazione dei pazienti.
Le nostre storie si uniscono
Quando abbiamo messo insieme i nostri saggi sulle ‘filosofie della cura del diabete e dell’educazione’ abbiamo
scoperto che molti di noi erano arrivati a conclusioni analoghe sulla natura del diabete e sul suo trattamento. Fu
sorprendente scoprire quanto simili fossero le nostre
esperienze. Tutti noi avevamo tentato una varietà di strategie che erano riconducibili alla psicologia comportamentale o behavioristica e avevamo avuto più o meno
successo. Quelle che avevamo trovato utili erano le più
coerenti con la nostra personale visione ed esperienza. La
filosofia che collettivamente descrivevamo, però, non
rientrava in nessuno dei modelli formativi o comportamentali che venivano usati all’epoca nell’educazione al
diabete, specialmente i modelli basati su concetti come
adesione (‘adherence’) e compliance (che noi intendiamo
come modelli intercambiabili). Soprattutto, il nostro
approccio non era compatibile con l’idea che la formazione dovesse cambiare il comportamento dei pazienti per
adeguarlo alla cura raccomandata.
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Dopo aver discusso le nostre idee ed esperienze, realizzammo che il diabete è una malattia autogestita e che la responsabilità di questa gestione appartiene al paziente.
Comprendemmo anche che l’approccio tradizionale era
stato sviluppato per il trattamento delle malattie acute e che,
applicato a persone adulte con il diabete, tendeva a produrre scarsa adesione/compliance. A quell’epoca Marti ascoltò
una conferenza sull’empowerment. Era la prima volta che
sentiva spiegare il concetto di empowerment veramente e
pensò: ”Ci siamo, questo è ciò che descrive la nostra idea”.
Dare un nome alla nostra filosofia ci portò a stendere il nostro
primo articolo sull’empowerment.
In quell’articolo descrivevamo il concetto di empowerment e facevamo risalire le sue radici al counseling psicologico e alla psicologia di comunità. Definivamo il processo di empowerment come la scoperta e lo sviluppo delle
innate capacità di ognuno di essere responsabile della
propria vita. Suggerivamo che le persone erano ‘empowered’ quando avevano:
abbastanza conoscenza per prendere decisioni razionali;
abbastanza controllo;
abbastanza risorse per mettere in pratica le proprie
decisioni;
abbastanza esperienza per valutare l’efficacia delle proprie azioni.
Dalla pubblicazione di quel primo articolo abbiamo intrapreso un viaggio che si è rivelato a volte appagante e a
volte frustrante. Soddisfazione e frustrazione dipendono
dal risultato ottenuto e che può essere riassunto in un
concetto molto semplice: non tutti i formatori riescono a
fare proprio il modello empowerment. Per abbracciare
realmente la filosofia dell’empowerment i terapeuti devono adottare un nuovo paradigma. È un nuovo modo di
insegnare, con un nuovo scopo.
Molti dei nostri sforzi sono stati spesi a ideare e realizzare
programmi educativi che portassero i terapeuti a condivi-
23
dere quelle intuizioni che avevano trasformato noi e il
nostro approccio all’educazione sul diabete. Abbiamo
tenuto lezioni sull’empowerment in molti programmi di
formazione e abbiamo condotto una serie di corsi intensivi di formazione di tre giorni all’Università del Michigan.
Abbiamo imparato che una conferenza di un’ora è utile
per presentare il concetto di empowerment per la prima
volta, ma questo tipo di presentazione raramente produce il cambio di paradigma necessario. I corsi intensivi di
tre giorni, invece, spesso ottengono questo risultato perché danno ai partecipanti il tempo per riflettere sulla propria pratica. Questo tipo di corsi comprende un’esperienza di tre giorni con un caso simulato di diabete, presentazioni e discussioni sull’empowerment, sessioni pratiche
videoregistrate in cui viene utilizzato il modello di counseling per empowerment in cinque fasi, revisione dei
nastri registrati, e attività di studio concepite per aiutare i
partecipanti a conoscere se stessi, a scoprire e definire la
propria visione.
Il corso di tre giorni offre agli educatori un’opportunità per
riflettere approfonditamente sulla propria pratica e sulla
propria prospettiva. Questa è un’opportunità che la maggior parte di noi non ha o non coglie. Nella indaffarata vita
quotidiana, fitta di esigenze in conflitto tra loro, spesso
non ci si prende il tempo necessario per riflettere sulle
esperienze fatte e sulla nostra idea di assistenza. Inoltre
non si considera come queste esperienze modellino il
nostro pensare e il nostro agire.
Inoltre, il corso dà ai partecipanti una chance per provare
un nuovo approccio in un ambiente ‘sicuro’. Rivedere le
sessioni pratiche videoregistrate porta a un’introspezione,
perché permette di vedere quanto sia difficile lasciare che
la persona che stanno aiutando si assuma la responsabilità del trattamento. Quando poi rivestono il ruolo di
pazienti si trovano a lavorare su vere problematiche della
loro vita. Molti realizzano allora che è molto più utile
24
avere una persona che aiuta ascoltando veramente,
rispettando le priorità e sostenendo le capacità di risolvere i problemi, piuttosto che una persona che ‘si fa carico’,
dà consigli, e dice cosa fare. Sperimentano il fatto che
quando agiscono da terapeuti è difficile lasciare da parte
le proprie esigenze e priorità, mentre quando interpretano il ruolo di pazienti, questo ‘lasciar fare’ da parte dell’educatore è realmente di aiuto.
Terzo, il corso dà ai partecipanti l’opportunità di mettere
insieme teoria e pratica. Spesso quando apprendiamo
una nuova tecnica siamo ansiosi di metterla in pratica. Ma
se noi non abbiamo fatto un vero cambio di paradigma,
inevitabilmente cercheremo di immettere la nuova tecnica nello schema mentale preesistente, il che equivale a
‘mettere il vino vecchio nelle botti nuove’. Questo corso
permette ai partecipanti di esplorare e spesso trasformare la loro filosofia, e di selezionare e usare le strategie in
modi che si adattino alla nuova prospettiva.
Domande per riflettere
1) Quante occasioni avete per riflettere sulla vostra attività?
2) In che modo e quando lo fate?
3) In che misura la riflessione vi aiuta a crescere come persona e come professionista?
4) Cosa vi ha insegnato la riflessione?
25
CAPITOLO 2
Il diabete è differente
“
In natura non ci sono premi o punizioni,
ci sono conseguenze.
Robert G. Ingersoll
“
La pietra angolare dell’approccio empowerment è comprendere che nel diabete il paziente ha in mano la gestione della propria malattia. È una responsabilità non negoziabile, indivisibile e ineludibile. Benché l’affermazione
possa suonare forte, crediamo che rappresenti una descrizione chiara e diretta della realtà. Riteniamo che riconoscere e accettare questa realtà sia fondamentale per
adottare e usare efficacemente un approccio empowerment nell’assistenza e nell’educazione al diabete.
La completa responsabilità del paziente scaturisce da tre
caratteristiche della malattia: scelte, controllo e conseguenze. Primo, le scelte che hanno il massimo effetto sulla
salute e sul benessere di una persona con il diabete sono
fatte da quella stessa persona, non dagli esperti di diabete. Ogni giorno le persone con il diabete fanno delle scelte che hanno un impatto ben maggiore sulla loro glicemia,
qualità della vita, salute e benessere generale di quanto lo
abbia l’assistenza fornita loro dal personale sanitario. Le
scelte che i pazienti fanno riguardo ai pasti, all’attività fisica, alla gestione dello stress e al monitoraggio sono i fattori maggiormente determinanti del controllo diabetico.
Secondo, sono i pazienti ad avere il controllo della situa-
27
zione. Noi possiamo supplicare, chiedere, blandire i nostri
pazienti riguardo ogni aspetto della cura, ma quando
lasciano il nostro reparto o il nostro studio, sono loro ad
avere il controllo delle scelte di trattamento. Possono
ignorare ogni raccomandazione.
In terzo luogo, le conseguenze delle scelte fatte dai
pazienti ricadono prima e maggiormente sui pazienti stessi. Non possiamo condividere direttamente i rischi o i
benefici delle scelte dei nostri pazienti. Non possiamo condividere il loro rischio di sviluppare retinopatia, neuropatia,
malattie cardiovascolari; né possiamo condividere il prezzo
da pagare in termini di qualità della vita imposto da un
controllo glicemico stretto. Il diabete, compresa la sua
autogestione, appartiene alle persone che sono ammalate.
Il racconto di Bob
Qualche anno fa mia sorella minore venne ricoverata in
ospedale a Boston. Soffriva di un prolasso della mitrale
che richiedeva un intervento chirurgico a cuore aperto.
Mia sorella è un adulto autonomo, responsabile, che
gestisce da sé la propria vita. È un funzionario di polizia
ed è abituata a tenere la sua vita sotto controllo. Il suo
problema col cuore, però, era al di là delle sue capacità di
soluzione. I medici e tutto il personale sanitario del
Massachusetts General Hospital stabilirono con lei un
tacito accordo, una cosa che viene fatta migliaia di volte
ogni giorno in tutto il Paese. Fu invitata a lasciare il suo
mondo di tutti i giorni e a entrare nel mondo tecnologizzato dell’ospedale. Le dissero proprio così: “Sii bambina
un’altra volta e noi ci prenderemo cura di te”. Lei accettò
e per cinque giorni un gruppo di sanitari ebbe il controllo
sulla sua vita per aiutarla. Durante il suo soggiorno in
ospedale altri presero per lei decisioni banali e decisioni
fondamentali: stabilirono a che ora sarebbe andata a dormire, a che ora si sarebbe svegliata, cosa avrebbe mangiato e cosa avrebbe fatto durante la giornata. Le dissero
28
quante persone al giorno avrebbero potuto farle visita e
in quali orari. L’intervento riuscì perfettamente e dopo
cinque giorni fu dimessa per tornare di nuovo al suo
mondo e riprendere il suo ruolo di adulto autonomo e
responsabile.
La storia è il classico esempio di approccio tradizionale per
le malattie acute. La sorella di Bob lasciò temporaneamente il controllo sulla sua vita a un gruppo di esperti al
fine di ottenere il loro aiuto per risolvere un problema che
lei non poteva risolvere da sola. Fu un’esperienza gratificante, per lei e probabilmente per tutto il personale sanitario che ha scelto di dedicare la propria vita professionale alla cura di questo tipo di malattie. Nella nostra società
i ruoli e le relazioni tra terapeuti e pazienti sono basati sul
trattamento di patologie acute come quella descritta. E in
casi come questo funzionano a meraviglia. Ma questi ruoli
e queste relazioni non si adattano al diabete.
Quando i diabetes educators riconoscono e capiscono
che il diabete è una malattia autogestita la cui responsabilità ricade sul paziente, poniamo le fondamenta di una
relazione basata sull’empowerment. Questo tipo di relazione richiede che smettiamo di sentirci responsabili per i
nostri pazienti. Non possiamo controllare le loro decisioni
quotidiane. Tentare di fare questo, non importa quanto
ben intenzionati, in genere porta alla frustrazione sia noi
che i pazienti.
I pazienti che si sentono sopraffatti perché è stato appena diagnosticato loro il diabete possono, effettivamente,
lasciare che siamo noi a prendere le decisioni. Possono
accogliere con sollievo l’opportunità di delegare ad altri
ciò che sentono come il pesante carico delle scelte. In
situazioni del genere, possiamo preparare un piano di
trattamento e i nostri pazienti si mostreranno d’accordo
nel seguirlo. Ma anche in queste situazioni abbiamo bisogno di rammentare a noi stessi che sono sempre loro ad
29
avere il controllo. Hanno scelto di lasciare a noi il potere
di prendere delle decisioni, ma possono riprenderselo in
qualsiasi momento. Per molti pazienti, l’angoscia legata al
fatto di avere il diabete si riduce nel tempo ed essi si sentono sempre più a disagio nel sottomettersi al controllo
dei medici. Il bisogno come persone adulte di autonomia
e autogestione riemerge e il periodo di crisi associato con
la diagnosi di diabete finisce.
“
Ogni verità passa per tre fasi.
Primo viene ridicolizzata.
Secondo è violentemente contrastata.
Terzo è accettata come evidente.
Arthur Schopenhauer
“
Nella nostra esperienza, il successo nell’assistenza e nella
educazione al diabete comincia di solito con una discussione su chi è responsabile di cosa nella gestione della
malattia. Non possiamo sollevare i nostri pazienti da questa responsabilità, ma possiamo insegnare loro alcune tecniche e procurare loro le risorse che li aiutino ad assumersi
queste responsabilità. Possiamo fornire un expertise sul
diabete e tutte le conoscenze necessarie per fare delle
scelte informate e consapevoli, abilità per la cura di sé,
supporto per la vita di relazione, sociale ed emotiva, suggerimenti per cambiare stili di vita e strategie di adattamento, opportunità per riflettere sulle proprie scelte e sugli
obiettivi che sperano di raggiungere. Nella nostra esperienza, se la relazione con i pazienti è basata sul riconoscimento dei limiti e delle responsabilità di ognuna delle due
parti, diventa, in genere, più efficace e gratificante.
“
Tu devi essere il cambiamento
che desideri avvenga nel mondo.
30
Mahatma Gandhi
“
Domande per riflettere
1) Lavorate in un ambiente in cui ci si aspetta che siate
responsabili delle decisioni che i vostri pazienti prendono? Come lo vivete?
2) Secondo voi, quali sono le vostre responsabilità nell’educazione al diabete e quali quelle del paziente?
3) Secondo voi, qual è la differenza tra essere responsabili ‘per’ ed essere responsabili ‘verso’ un paziente?
4) Come vi sentite quando, dopo aver lavorato duramente per aiutare un paziente a capire quanto sia importante prendersi cura del proprio diabete, vi sembra di
aver parlato a un sordo?
31
CAPITOLO 3
La prospettiva
illumina il metodo
Cosa state cercando?
Come diabetes educator abbiamo cercato per anni il
metodo formativo più efficace. Un programma, una teoria
o un insieme di regole che ci dicesse cosa fare e come
farlo. Molti hanno continuato a cercarlo perché, secondo
la loro idea, lo scopo della formazione è il cambiamento.
Questa motivazione è comprensibile. Noi crediamo che sia
nostro compito portare i pazienti ad aderire al trattamento. Cerchiamo un metodo o una pillola magica che aiuti i
nostri pazienti a fare ogni cosa per bene per gestire il loro
diabete. Vogliamo trovare qualcosa che aiuti loro – e di
conseguenza noi – ad avere successo. Per comprendere le
implicazioni di questo continuo interrogarsi su come formare più efficacemente, dobbiamo esaminare quali sono
le idee che circolano riguardo ai modi della conoscenza
considerate più valide nel mondo della sanità.
Nell’approccio tradizionale alla ricerca dei trattamenti per
le malattie, l’esperimento controllato, randomizzato, è
considerato lo strumento più valido e affidabile per identificare i trattamenti efficaci. Purtroppo, non funziona così
bene per i metodi di formazione. Prendiamo in cosiderazione il seguente esperimento controllato.
In un laboratorio presso un centro di ricerca internazionalmente rinomato, uno scienziato prende 100 topi bianchi, identici, e li assegna in modo casuale a due gruppi. I
due gruppi sono messi nelle stesse gabbie e ricevono il
33
medesimo cibo. La quantità di luce, di acqua, il rumore
ambientale e ogni altra variabile è esattamente la stessa.
A uno dei due gruppi viene dato un nuovo farmaco sperimentale, ogni giorno per una settimana, all’altro gruppo
un placebo. Alla fine della settimana il gruppo di topi che
ha ricevuto il farmaco inizia a parlare francese fluentemente mentre il gruppo di controllo rimane muto. Lo
scienziato è deliziato e descrive la sua scoperta: è stato
dimostrato che il nuovo farmaco induce i topi a parlare
francese. I suoi colleghi si congratulano con lui per il rigore del suo lavoro e le persone che avevano sperato che i
topi potessero imparare a parlare francese accolgono la
notizia con entusiasmo.
“
È diventato terribilmente scontato
che la nostra tecnologia ha ecceduto
la nostra umanità.
Albert Einstein
“
Lo studio clinico randomizzato è stato considerato per
anni il ‘gold standard’ nella ricerca clinica, ed effettivamente è stato usato nella ricerca psicologica (inclusa la
nostra). Lo studio clinico randomizzato gode di una reputazione così alta perché si ritiene che risponda alle
domande poste dalla ricerca in modo conclusivo e provi
l’efficacia dei nuovi metodi di trattamento e delle nuove
terapie. Ci siamo abituati ad aspettarci che la ricerca
dimostri sempre il modo migliore per trattare i problemi
in medicina. Quest’aspettativa è stata valida anche per
l’educazione al diabete. Ma la ricerca non può dare le
risposte che molti formatori cercano. L’aspettativa che la
ricerca provi che un metodo o un programma formativo è
il migliore ha condotto a frustrazione e alla mancata
accettazione dei risultati della ricerca comportamentale e
pedagogica.
34
“
Ciò che è progettato, ordinato, fattuale
non è mai abbastanza
per abbracciare la verità tutta:
La vita sempre trabocca dalla rima
di ogni coppa.
Boris Pasternak
“
In teoria, uno studio clinico randomizzato di ampie proprozioni, che comprenda molti diabetes educators e migliaia di
pazienti potrebbe controllare la variabilità statistica di tutte
le variabili in gioco. Ma noi crediamo che uno studio con
queste caratteristiche, che confronti un metodo con un
altro, giungerebbe a rivelare piccole e insignificanti differenze con costi assolutamente sproporzionati. Questo sulla
base della nostra stessa esperienza e su quella del lavoro
già fatto nel campo della ricerca pedagogica in ambito diabetologico. La variabile più importante è già stata identificata: il formatore. Quando pazienti responsabili interagiscono con formatori capaci e motivati, praticamente qualsiasi teoria o metodo dà risultati positivi.
Cosa c’entra la prospettiva?
Assodato il ruolo cruciale che le qualità del formatore giocano nel successo dell’educazione al diabete, abbiamo
messo a fuoco che la prima cosa che dobbiamo fare per
diventare formatori più efficaci è guardare dentro noi
stessi. Non è tanto il metodo che abbiamo scelto quanto
la nostra prospettiva che condiziona ciò che facciamo
come formatori. Dobbiamo guardare dentro di noi per
identificare la nostra filosofia.
Un modo che abbiamo usato per identificarla è di focalizzarci sulle storie dei nostri pazienti e di chiederci come
possiamo partecipare a queste storie in modo da metterci
al loro servizio. Gli chiediamo di permetterci di condividere il loro punto di vista in modo da poterli aiutare a raggiungere gli obiettivi che si sono fissati. Potremmo chiede-
35
re: a cosa assomiglia questa esperienza per voi? Quali sono
i vostri obiettivi? Cosa state facendo per raggiungerli? I
metodi che state seguendo stanno dando i risultati attesi?
Desiderate prendere in considerazione altre opzioni?
Comprendere la loro prospettiva ci aiuta a chiarire la
nostra. Riflettendo sul modo con cui partecipiamo alle
storie dei pazienti possiamo focalizzarci sulla componente più importante della nostra prospettiva: il nostro scopo
come diabetes educator. Qual’è il nostro ruolo? Cosa
stiamo cercando di realizzare? Di cosa siamo responsabili? Di cosa sono responsabili i nostri pazienti?
“
Se non vuoi essere rimpiazzato
da una macchina,
non comportarti come una macchina.
Arno Penzias
“
Quando un diabetes educator si siede di fronte a un
paziente, le centinaia di variabili che potrebbero influenzare il processo e il risultato sono presenti nella mente e
nell’esperienza di quelle due persone. La ricerca in campo
pedagogico e psicoterapeutico ha mostrato come la prospettiva e le caratteristiche personali del formatore o del
counselor quali sincerità, disponibilità, comprensione,
rispetto e apertura mentale sono elementi centrali per la
riuscita di ogni tentativo formativo o di counseling. Il
nostro lavoro ci ha insegnato che il modo in cui vediamo i
pazienti e noi stessi ha di gran lunga maggior impatto sui
risultati della nostra interazione di qualsiasi metodo o teoria pedagogica particolari. Di nuovo, si è ciò che si fa.
Sommare le pere con le mele
Troviamo frustrante quando un educator ci chiede come
l’empowerment si confronti con il Modello degli Stadi di
Cambiamento o con la Teoria del Social Learning. La risposta è che c’entra esattamente come c’entrano le pere con
36
le mele, cioè niente. L’empowerment è una prospettiva o
una filosofia della cura. Il paradigma concettuale precede
il (ed è molto più importante del) metodo, perché parla
dei valori, degli scopi e della definizione di ruolo dell’educator. Le teorie e i metodi ci aiutano a fare il nostro lavoro,
ma prima di domandarci come fare il nostro lavoro dobbiamo avere un’idea di cosa stiamo cercando di fare.
Perciò, un educator che usa la Teoria del Social Learning
per indurre i pazienti a aderire al trattamento e un altro
che usa lo stesso approccio teorico per aiutare i pazienti a
diventare capaci di prendere da sé le decisioni sulla
gestione del proprio diabete, produrranno risultati differenti. La ricerca è importante perché ci dà degli strumenti,
ma non ci può dare delle risposte. Le risposte si trovano
nelle storie dei pazienti e nella nostra prospettiva.
Le radici di ogni filosofia giacciono nel cuore mentre quelle della teoria e del metodo stanno nella mente. La formazione al diabete è e rimarrà un’arte. La scienza ci aiuterà a indentificare utili strumenti, ma gli strumenti non
saranno mai più importanti della prospettiva, della personalità e delle capacità del diabetes educator che usa quegli strumenti. Il paradigma dell’educator, nutrito e approfondito dalla pratica riflessiva, è il prodotto sempre mutevole di una motivazione, lunga quanto la vita, all’apprendimento dell’arte dell’educazione al diabete.
DOMANDE PER RIFLETTERE
1) Cosa pensate dell’idea che l’educator ha più impatto
del metodo formativo?
2) Quali sono state le vostre esperienze riguardo al vostro
impatto sui pazienti e sul loro apprendimento?
3) Nella vostra esperienza, in che modo i vari metodi che avete
usato hanno influenzato l’apprendimento dei pazienti?
4) Come ha influenzato o potrebbe influenzare le vostre
interazioni con i pazienti il fatto che consideriate voi
stessi il vostro principale strumento di lavoro?
37
CAPITOLO 4
Dalla compliance
all’empowerment
“
Se all’inizio l’idea non è assurda
non ha alcuna speranza.
Albert Einstein
Di che cosa abbiamo bisogno
e in che cosa crediamo
“
La maggior parte di noi ha investito una significativa
quantità di tempo e di energie per diventare terapeuta.
Abbiamo lavorato sodo per sviluppare l’esperienza e le
capacità necessarie ad aiutare le persone a riconquistare
o a mantenere la loro salute e a ottimizzare il loro benessere. Siamo stati abituati ad aspettarci che i nostri pazienti ascoltino i nostri consigli e seguano le nostre raccomandazioni. Come diabetes educator cerchiamo di aiutare i nostri pazienti ad andare incontro ai loro bisogni fondamentali per stare bene fisicamente, emotivamente e
spiritualmente. Speriamo che essi abbassino i livelli di glicemia in modo da prevenire le complicanze acute e croniche della malattia. Molti di noi sono motivati anche dal
fatto di sapere che la mortalità e la morbilità prevenibili
associate al diabete colpiscono non solo i pazienti e le
loro famiglie, ma anche la collettività. Costi sanitari e perdita di produttività sono due delle questioni principali che
interessano tutti noi.
Quando formiamo i nostri pazienti su come gestire il diabete, in genere cerchiamo di andare incontro anche a
39
delle nostre esigenze. Molti di noi hanno imparato a considerare la gestione della malattia e del livello glicemico
dei pazienti come una misura della efficacia del proprio
lavoro. Come diabetes educator noi abbiamo bisogno di
sentirci efficaci nella professione che abbiamo scelto.
Come professionisti dell’assistenza abbiamo bisogno di
sentire che i nostri sforzi fanno la differenza, che il nostro
lavoro vale la pena. Benché queste esigenze, elementari,
umane, siano legittime, nella nostra esperienza i concetti
di compliance e di adesione (che per i nostri scopi hanno
lo stesso significato) non ci aiutano (né aiutano i nostri
pazienti) a venire incontro alle nostre esigenze.
La maggior parte di noi ha delle idee piuttosto precise su
come noi e gli altri dovremmo comportarci. Le opinioni
condivise ampiamente formano le norme sociali che sono il
fondamento della vita comune. In alcuni casi, le nostre opinioni su cosa gli altri dovrebbero fare sono radicate in noi
molto tenacemente. Per esempio, la maggior parte di noi
ha delle opinioni molto precise su un certo numero di questioni sociali come l’aborto, la pena di morte, il razzismo e
la discriminazione sessuale. Discussioni e dibattiti su queste questioni spesso ispirano opinioni appassionate su ciò
che le altre persone dovrebbero pensare, sentire e fare.
“
I consigli sono come l’olio di castoro, facili a
darsi ma difficili a prendersi.
Josh Billings
“
Come diabetes educator noi possiamo avere dei forti
convincimenti su ciò che i nostri pazienti dovrebbero fare.
Dopo aver visto situazioni drammatiche come l’insufficienza renale cronica, la cecità o le amputazioni è normale che noi pensiamo che le persone debbano a se stessi,
alle loro famiglie, alla collettività il massimo impegno per
prevenire queste complicanze. Possiamo ben credere che
i pazienti che sembrano non prendere troppo sul serio il
40
diabete e la sua gestione cambieranno opinione negli
anni a seguire. Possiamo credere che è nostro compito
portare i pazienti a vedere quanto grave sia il diabete e
quanto importante un controllo rigoroso della glicemia.
Opinioni di questo tipo, anche se non ci pensiamo spesso, formano la base del nostro approccio al trattamento e
all’educazione del diabete. Il nostro comportamento
come formatori, così come il modo in cui noi vediamo i
nostri pazienti, sarà, in larga misura, determinato da questi convincimenti profondi.
Cosa controlliamo
Noi possiamo tradurre le nostre idee in azioni e influenzare
gli eventi in situazioni in cui abbiamo una certa dose di
controllo. Per esempio, se siamo genitori, probabilmente
abbiamo dei convincimenti radicati su come i nostri figli
debbano comportarsi. In quanto genitori, abbiamo una
certa dose di controllo sul comportamento dei nostri figli
perché possiamo verificare molte delle conseguenze del
loro comportamento. L’essere genitori è un esempio di
situazione in cui noi possiamo agire sulla base delle nostre
idee e aumentare la probabilità che i nostri figli si comportino secondo i nostri convincimenti (almeno fino a che non
diventano adolescenti). Allo stesso modo, i dirigenti possono agire seguendo le loro idee su come gli impiegati
dovrebbero comportarsi, su quali dovrebbero essere le
loro responsabilità, e su cosa caratterizzi un dipendente
modello. Quando abbiamo un controllo sostanziale delle
conseguenze in situazioni in cui le nostre idee giocano un
ruolo preminente, abbiamo la possibilità di influenzare le
percezioni e il comportamento degli altri.
Tuttavia, quando abbiamo dei forti convincimenti ma
poco o nessun controllo della situazione e delle conseguenze, la nostra esperienza può essere molto differente.
Operare in questo tipo di situazioni può rivelarsi molti difficile e, in ultima analisi, scoraggiante. Di nuovo, questo
41
fenomeno può essere testimoniato dal modo in cui molte
questioni sociali fondamentali sono affrontate nella nostra
società. Per esempio, molte persone sono fortemente in
disaccordo sulle politiche di pari opportunità o sulla preghiera nelle scuole. Le persone che sostengono posizioni
opposte su queste questioni sono spesso contrapposte le
une alle altre e si sentono frustrate perché la giustezza
delle proprie posizioni appare loro così evidente. Sono
convinte che ciò in cui credono sia corretto e moralmente
giusto e che le persone che la pensano differentemente
sbaglino e debbano cambiare. Eppure, da entrambe le
parti della barricata, in genere, mancano mezzi per controllare il comportamento di quelli che la pensano diversamente. La tensione causata da questa mancanza di controllo spesso sfocia nella ‘demonizzazione’ dell’altro (per
esempio si etichettano coloro che la pensano differentemente come ignoranti o estremisti). Essere convinti che i
nostri pazienti stanno compiendo delle scelte che produrranno dei danni a lungo termine può essere frustrante per
noi se loro non sono capaci o non vogliono riconoscere le
conseguenze dei loro comportamenti.
“
Abbiamo incontrato il nemico:
siamo noi stessi.
Pogo
Una prospettiva da educator
“
Le nostre idee su ciò di cui abbiamo bisogno, ciò che crediamo e ciò che possiamo controllare nell’assistenza diabetologica e nell’educazione al diabete formano il nucleo
della relazione con i nostri pazienti. Queste idee sono centrali rispetto a una discussione sulla compliance. Delle tre
(bisogni, convinzioni e controllo), la percezione di ciò che
possiamo controllare nelle decisioni fatte dai pazienti sulla
malattia è la questione centrale, perché è quella che differisce maggiormente dal trattamento delle patologie
42
acute. Nella nostra esperienza, molta della frustrazione
associata con la non-compliance è il risultato di una nostra
necessità: che i pazienti ottimizzino il loro controllo glicemico. Forse noi siamo molto coinvolti nell’assistenza e nel
controllo glicemico dei nostri pazienti più di quanto non
siamo disposti ad ammettere. Come educator, possiamo
credere che sia nel totale interesse dei nostri pazienti controllare la propria glicemia con attenzione, ma non abbiamo la possibilità di obbligarli a farlo. Etichettare i nostri
pazienti come ‘non compliant’ o ‘non adherent’ quando
non seguono i nostri consigli può essere un modo per scaricare su di loro la frustrazione e lo sconforto che avvertiamo. Possiamo anche scoraggiarci perché le scelte di autocontrollo dei pazienti minano la nostra opinione di noi stessi come diabetes educator efficaci.
In quanto professionisti della salute, ci siamo abituati a
sentirci responsabili per i nostri pazienti e a credere che
stia a noi assicurare che il loro impegno sia adeguato agli
standard correnti. Eppure, noi non abbiamo il controllo
della situazione non possiamo assicurare che essi seguiranno le nostre raccomandazioni.
Imparare a lasciar andare le cose
Ascoltando i diabetes educator esporre la loro frustrazione con i pazienti ‘non-compliant’, abbiamo notato che il
tono emotivo di queste conversazioni è simile a quello dei
genitori quando parlano della propria incapacità a guidare le scelte dei propri figli adolescenti. “Sapevo che si
sarebbe cacciato nei guai, ma mi dava forse retta? Oh no,
doveva fare a modo suo.” Nell’educazione al diabete l’argomento: “Sono io responsabile di te e delle scelte che
fai” non funziona, i pazienti resistono ai nostri sforzi e talvolta si infastidiscono di essere trattati come dei bambini.
E possibile che esprimano la loro contrarietà trascurando
la malattia: è un modo per riaffermare la propria autonomia senza tenere conto però del fatto che questa esigen-
43
za di autonomia, assolutamente naturale per un adulto,
può compromettere la loro salute attuale e futura.
Poiché molti diabetes educators sono donne e hanno
scelto un lavoro che sia di aiuto agli altri, è possibile che
abbiano un approccio ‘materno’ all’assistenza diabetologica e alla formazione, simile al ruolo tradizionale della
madre nella famiglia. L’assistenza infermieristica, in particolare, si basa sul ruolo della madre nella cura della
malattia che noi abbiamo appreso sin da bambini. Il
modello Florence Nightingale (cibo, coperte e coccole) è
in gran parte basato su questo approccio maternalistico.
Nel corso degli anni abbiamo fatto un considerevole sforzo per aiutare i pazienti a diventare obbedienti o compliant, il che riflette questo ruolo materno più tradizionale. Ci siamo abituati ad accettare la responsabilità per le
decisioni (e i risultati) dei nostri pazienti e a indirizzare i
nostri sforzi per aiutarli a essere buoni e a fare ciò che i
dottori dicono, in modo che il medico non si arrabbi con
il paziente o con noi. Abbiano imparato a volerli ‘aderenti’ perché crediamo di sapere cosa sia meglio per loro.
Spesso vediamo il nostro ruolo come quello di chi risolve
i loro problemi, li fa stare meglio e, in generale, cerca di
prendersi cura di loro. Questo tradizionale approccio
maternalistico si basa sull’assunto che noi sappiamo di
più dei nostri pazienti sul loro diabete e che siamo perciò
capaci di scegliere le strategie di trattamento più appropriate. Eppure, anche quando siamo convinti di sapere di
più e di essere responsabili per i nostri pazienti, la nostra
capacità di convincerli o persuaderli è limitata. Sentirsi
responsabili per ciò che non possiamo controllare è il
modo migliore per sviluppare frustrazione, scoramento,
sconforto e senso di impotenza.
44
Bob racconta
Sono cresciuto a Boston negli anni ‘50, in un quartiere di
irlandesi. I miei genitori erano cattolici praticanti. Per otto
anni la mia educazione venne guidata dalla ferma mano
delle suore. Ero un ‘bravo ragazzo’ in quel periodo, non
perdevo mai una Messa, facevo tutti i compiti, ero tra i
bravi della scuola e non avevo molto da raccontare al
prete durante la confessione settimanale. In altre parole,
ero ‘compliant’. All’ultimo anno di scuola, però, cominciai
a realizzare quanto la mia educazione fosse restrittiva. Non
ci veniva insegnato a pensare, piuttosto ci si aspettava che
accettassimo la visione del mondo offertaci dai preti, dalle
suore e dai genitori. La messa in questione dell’opinione
corrente non veniva incoraggiata e nemmeno tollerata.
Cominciai a essere insofferente verso la rigida struttura
intellettuale della mia educazione. C’erano molte scuole
superiori a Boston, sia pubbliche che private. Scelsi di
andare in una scuola pubblica. Solo 2 studenti su 50 del
mio anno decisero di non continuare in una scuola privata
religiosa. Ricordo che il mio insegnante mi disse che la mia
scelta mi avrebbe portato dritto all’inferno.
L’adolescenza fu un periodo di ribellione. Smisi di essere
uno studente e un ragazzo ‘compliant’ (benché allora non
avessi mai sentito questa parola) e divenni un ‘non-compliant’. Provai qualsiasi cosa fosse vietata. La reazione alle
norme della mia famiglia, della mia religione e della mia
comunità iniziò ad avere conseguenze quando avevo 18
anni. Giravo con una banda di giovani della mia età.
Governati più dagli ormoni che dalla testa, violavamo
qualsiasi regola potessimo violare. Vivevo una vita che
avrebbe potuto portarmi in galera o al camposanto. Arrivai
abbastanza vicino a entrambi prima di aprire gli occhi sulle
conseguenze delle scelte che stavo facendo. Mi accorsi
che la ‘non-compliance’ non è libertà. Compresi che non
era possibile vivere facendo semplicemente il contrario di
quanto mi avevano detto per tutta la mia vita.
45
“
Ci sono sconfitte più gloriose
delle vittorie.
Montaigne
“
Cominciai a cercare una terra di mezzo. Studiai psicologia, filosofia e religione allo scopo di trovare un modo di
essere nel mondo che mi potesse sostenere e formare.
Infine, abbracciai una filosofia abbastanza semplice. In
effetti era la stessa filosofia di mio padre, ma ero incapace di vederne la saggezza quando ero giovane. Era basata sul principio che ognuno è personalmente responsabile della propria vita. Compresi che in tutte le situazioni ci
sono elementi al di fuori del nostro controllo. Ma allo
stesso tempo, in tutte le situazioni ci sono scelte che possiamo fare e quelle scelte hanno delle conseguenze.
Potevo scegliere come agire, come pensare, come interpretare una situazione. Potevo esercitare una reale autonomia concentrandomi sulle scelte che erano a mia disposizione, piuttosto che opponendomi alle costrizioni.
Imparai che libertà non è tanto libertà ‘da’ qualcosa ma
‘verso’ qualcosa. La libertà si realizzava principalmente
nella mia capacità di scegliere. Questa visione del mondo
modella il mio modo di vedere le scelte da compiere con
i pazienti diabetici. Mi sembra che ‘compliance’ e ‘noncompliance’ siano concetti irrilevanti perché entrambi
incentrati sulla relazione tra comportamento del paziente
e raccomandazione del medico, piuttosto che sulle conseguenze di quel comportamento.
Ritenere ‘compliance’ e ‘adherence’ concetti ‘fallimentari’, non significa, come alcuni colleghi pensano, non dare
più importanza ai pazienti. Niente di più lontano dalla
verità. L’empowerment è un approccio centrato sul
paziente basato sul rispetto e sulla empatia. Abbiamo
adottato un approccio empowerment perché crediamo
che gli esseri umani abbiano una tendenza innata a rag-
46
giungere autonomamente il loro benessere fisico, psicologico, intellettuale e spirituale. Gli ostacoli a questa tendenza sono in genere il risultato di strategie di apprendimento deboli nel ‘problem-solving’. La formazione è
secondo noi un processo di insegnamento e di counseling
ideato per aiutare i pazienti a scoprire più efficaci strategie di ‘problem-solving’ in modo che essi possano raggiungere il loro pieno potenziale come esseri umani.
Molti pazienti possono sviluppare le abilità e i comportamenti necessari per prendere decisioni appropriate su
ogni aspetto della loro vita, incluso il diabete. La nostra
responsabilità è fornire ai pazienti le risorse necessarie a
raggiungere i loro obiettivi di cura del diabete. Con questo approccio talvolta ci si accorge che i pazienti non
hanno preso le decisioni migliori, ma dobbiamo ricordarci che si tratta delle loro scelte.
La filosofia dell’empowerment ci ha liberato dalla responsabilità di tentare di risolvere tutti i problemi dei nostri
pazienti. Ci permette di entrare in dialogo con loro, e
durante il dialogo le soluzioni ai problemi emergono
naturalmente all’interno di una relazione basata sulla fiducia e sul rispetto. Nell’approccio empowerment, la nostra
responsabilità come educator sta nell’aiutare i nostri
pazienti a prendere decisioni consapevoli sull’autogestione del diabete.
Alcuni educators ci hanno detto di usare l’empowerment
lasciando fare ai pazienti. ‘Lasciar fare’ ai pazienti non è
realmente differente che ‘far fare’ ai pazienti in un altro
modo. Lasciare e far fare sono le due facce della stessa
medaglia, quella del ‘controllo’. Per ironia, la medaglia del
controllo è falsa. Credere che noi abbiamo il controllo delle
vite dei nostri pazienti è un’illusione, anche se noi e i
pazienti stessi lo crediamo. La completa responsabilità
della gestione del diabete da parte del paziente significa
che ‘lasciar fare’ e ‘indurre a fare’ non trovano posto nell’educazione al diabete. Noi abbiamo adottato un approccio
47
empowerment non perché ci dia le risposte, ma perché ci
guida a porre le domande che aiutano i nostri pazienti a
trovare le loro personali risposte.
Alcuni educators ci hanno detto di provare un po’ di paura
nell’abbandonare i concetti di compliance e di controllo. Si
preoccupano perché credono che, non dedicando tutti i loro
sforzi a indurre i pazienti a cambiare, i loro pazienti non si
cureranno. Nella nostra esperienza questo accade raramente.
In realtà, quando noi ci liberiamo dalla tentazione di indurre,
lasciare e motivare, noi creiamo una relazione che minimizza
le resistenze del paziente e massimizza il cambiamento.
L’empowerment e l’approccio tradizionale
Nella Tabella 3-1 vengono confrontati gli assunti fondamentali che stanno dietro i due approcci all’assistenza
diabetologica.
Una volta adottato l’approccio empowerment, il programma di formazione dei pazienti va modificato secondo questa nuova prospettiva. Abbiamo ‘integrato’ i concetti chiave dell’empowerment nel disegno dei nostri programmi
formativi con un’enfasi sulla integralità della persona e
sulle energie personali (Tabella 3-2).
Il paziente seleziona i bisogni e gli obiettivi formativi.
Vengono trasferiti al paziente la guida e il controllo
dei processi decisionali.
Vengono autogenerati problemi e soluzioni.
Gli insuccessi vengono analizzati come opportunità
per imparare e diventare più efficaci.
Viene scoperta e rafforzata la motivazione interiore
al cambiamento di comportamento.
Vengono promosse la crescente partecipazione
del paziente e la responsabilità personale.
Vengono messe in luce le reti di supporto e le risorse
(a disposizione).
Viene promossa la tendenza intrinseca del paziente
verso la salute e il benessere.
48
49
6. Le motivazioni al cambiamento di comportamento sono
esterne al paziente.
7. Il paziente ha un ruolo passivo, è il terapeuta ad avere il controllo della situazione.
5. Lo scopo è il cambiamento dei comportamenti. Le tecniche di
psicologia behavioristica o comportamentale vengono impiegate per aumentare la compliance al trattamento proposto.
La mancanza di compliance è vista come un insuccesso del
paziente e del professionista.
7. Il paziente e il terapeuta hanno entrambi un ruolo attivo.
1. Il diabete è una malattia organica, psicologica e sociale.
2. La relazione tra paziente e terapeuta/educatore è basata
sul principio di responsabilità e sulla condivisione delle
esperienze e delle conoscenze.
3. I problemi e i bisogni formativi sono in genere identificati
dal paziente.
4. Il paziente è visto come colui che risolve i problemi e fa la
cura, vale a dire che il terapeuta è una risorsa al servizio del
paziente e lo aiuta a fissare i propri obiettivi e a sviluppare
un programma di trattamento.
5. Lo scopo è rendere il paziente capace di fare delle scelte consapevoli. Le tecniche di psicologia behavioristica o comportamentale vengono utilizzate per aiutare il paziente a sperimentare i
cambiamenti di comportamento da lui stesso scelti. I cambiamenti tentati ma non adottati (perché inadatti o irrealistici o
altro) non vengono visti come insuccessi, ma come mezzi di
apprendimento che procurano nuove informazioni utilizzabili
per lo sviluppo di altri programmi e obiettivi di trattamento.
6. Le motivazioni al trattamento sono interne al paziente.
1. Il diabete è una malattia organica.
2. La relazione tra paziente e terapeuta/educatore è basata sul
principio di autorità e sulle competenze del professionista.
3. I problemi e il bisogno formativo vengono identificati dal
professionista.
4. Il terapeuta è visto come colui che risolve i problemi e prescrive la cura, il che vuol dire che è lui il responsabile della diagnosi e dei risultati del trattamento.
Modello empowerment
Modello tradizionale
TABELLA 3-1 Confronto tra i modelli formativi di tipo tradizionale e quelli basati sull’empowerment
TABELLA 3-2 Schema di autogestione ed educazione al diabete
1) L’educator fa emergere la preoccupazione principale del paziente
A) Si identifica l’area di maggiore disagio e insoddisfazione
B) Si concorda di concentrare gli sforzi su quest’area
2) L’educator discute la natura della relazione con il paziente nel trattamento
del diabete
A) Il diabete è una malattia autogestita
B) L’educator agisce come un consulente esperto
C) Il processo di educazione al diabete è finalizzato ad aiutare il paziente a fare
scelte consapevoli nell’autogestione del diabete
3) L’educator verifica quanto il paziente sia consapevole della propria malattia e delle
sue componenti organiche, psicologiche e sociali e qual è il suo grado di conoscenza delle tecniche diagnostiche.
A) Aiuta il paziente a identificare i problemi della terapia
B) Aiuta il paziente a identificare ed esprimere le emozioni legate al diabete
e al suo trattamento
4) L’educator riconosce che è il paziente il responsabile del trattamento
A) Aiuta il paziente a esplorare, chiarire e meditare il sistema di valori relativi al diabete
B) Aiuta il paziente a fissare dei risultati desiderabili
5) L’educator fornisce le conoscenze sul diabete in base ai bisogni espressi dal
paziente e alla valutazione che egli stesso ha fatto della situazione
A) Descrive il diabete e le varie opzioni di trattamento disponibili
B) Fornisce una valutazione costi/benefici per ogni opzione
C) Aiuta il paziente a identificare i costi e benefici personali legati a ogni opzione
6) Il paziente seleziona gli obiettivi e identifica gli ostacoli e le risorse necessarie per
il raggiungimento di quegli obiettivi
7) Il paziente si assume la responsabilità della risoluzione dei propri problemi
A) Sviluppa le capacità necessarie per ottimizzare il sostegno al cambiamento
(sviluppa cioè le proprie doti di comunicazione e determinazione per rafforzare il sostegno necessario da parte della famiglia e degli amici, potenzia le reti
di sostegno quali gruppi o associazioni)
B) Identifica gli ostacoli e i sostegni potenziali
C) Impara tecniche e strategie per superare gli ostacoli: negoziazione, contratti di
salute e programmi di trattamento, risoluzione di conflitti per massimizzare il
sostegno psicologico
8) Il paziente identifica le opzioni da mettere in pratica e stende un piano terapeutico in collaborazione con l’educator
9) Il paziente porta avanti il programma terapeutico
10) Il paziente e l’educator valutano criticamente e revisionano il piano.
50
Domande per riflettere
1) Cosa significano per voi i termini ‘compliance’ e ‘adherence’?
2) Cosa sarebbe successo se i concetti di ‘compliance’ e
di ‘adherence’ fossero stati completamente assenti dal
modo in cui avete pensato la formazione nel diabete?
3) Quanto avete bisogno di controllare i vostri pazienti?
4) Quanto la vostra pratica è stata inflenzata dal tradizionale approccio maternalistico?
51
CAPITOLO 5
Imparare
sulla propria pelle
“
Prima di venire qui ero confuso
su questo argomento.
Dopo la vostra lezione sono ancora
confuso, ma a un livello superiore.
Enrico Fermi
La formazione del paziente
“
Nel corso degli anni i diabetes educators hanno tenuto
migliaia di lezioni e incontri finalizzati a insegnare ai
pazienti la definizione di diabete, spiegare come è trattato, descrivere le complicanze, etc. etc. Ma questo approccio all’educazione al diabete non mette in evidenza le differenze fondamentali tra come e perché i terapeuti studiano il diabete e come e perché lo fanno i pazienti. Molti
pazienti non sono interessati al diabete in quanto argomento di studio; ma sono interessati al proprio personale
diabete. Ci siamo accorti nel nostro lavoro che le esperienze dei nostri pazienti forniscono un eccellente curriculum per la loro educazione al diabete. Anche la più elementare educazione al diabete per un paziente di recente diagnosi può cominciare con una verifica di ciò che egli
già sa o ha sentito sul diabete.
Abbiamo scoperto che l’educazione al diabete funziona
meglio se praticata come un lavoro collaborativo tra adulti
autonomi e responsabili. La nostra idea ci ha indotto a modificare teorie e metodi compatibili provenienti dal campo
53
della pedagogia per adulti e della psicologia del counseling
non-direttivo e ad adattarli all’educazione al diabete.
Secondo noi, l’approccio all’educazione e al cambiamento comportamentale centrato sul discente si adatta al diabete molto meglio del modello didattico tradizionale. La
pedagogia degli adulti indica che l’approccio migliore
all’insegnamento e all’apprendimento per gli adulti è
quello che utilizza le esperienze e le abilità degli stessi
partecipanti; è basato sui problemi ed è rilevante per le
sfide che essi fronteggiano nella loro vita.
La psicologia del counseling non-direttivo si basa sulla considerazione positiva del paziente; incoraggia un rapporto
paritetico tra il paziente e chi lo aiuta, una relazione rispettosa ed empatica, guidata dal riconoscimento che i pazienti posseggono risorse innate per risolvere i loro problemi.
“
Il vero viaggio di scoperta
non consiste nel cercare nuovi paesaggi,
ma nell’avere nuovi occhi.
Marcel Proust
“
Riflettendo sulla nostra esperienza, abbiamo sviluppato
un modello che suddivide l’apprendimento in una serie di
fasi. Nel corso degli anni abbiamo affinato questo modello che descrive l’approccio che usiamo in tutte le nostre
attività formative, con i pazienti e con i professionisti della
salute. Questo modello (descritto nei paragrafi seguenti)
è focalizzato sull’apprendimento, cioè sul comportamento e l’esperienza del paziente. Più avanti nel libro discuteremo dell’insegnamento e del counseling, vale a dire il
comportamento e l’esperienza dell’educator.
54
“
L’istruzione è cosa ammirevole.
Ma è bene ricordare di tanto in tanto
che nulla che sia degno di essere
conosciuto può essere insegnato.
Oscar Wilde
“
FASE 1: L’ESPERIENZA – L’esperienza è la totalità delle percezioni di una persona. Durante ogni momento della nostra
vita, la nostra esperienza è basata sull’input prodotto dai
nostri sensi (ciò che vediamo, udiamo, sentiamo, odoriamo e gustiamo), i nostri pensieri e la consapevolezza dei
nostri pensieri. Svegli o addormentati, al lavoro o nel
tempo libero, noi elaboriamo esperienze basate su questi
elementi. La questione per noi come educators è: “Che
cosa trasfoma un’esperienza in un apprendimento?”.
Per esempio, molti diabetes educators hanno passato
migliaia di ore educando al diabete i pazienti. Eppure,
alcuni di loro imparano, crescono, e continuamente affinano la loro arte praticandola. Altri no, continuano a fare
“la solita cosa al solito modo”. In cosa differiscono questi
due gruppi?
“
L’esperienza è una severa maestra
Prima ti fa l’esame e dopo ti dà la lezione.
Vernon Sanders Law
“
FASE 2: LA RIFLESSIONE – Il passo fondamentale per trasformare un’esperienza in apprendimento è la riflessione. La
riflessione è l’analisi critica di un’esperienza allo scopo di
comprenderne complessità, significato, valore e conseguenze. La riflessione ci richiede di guardare indietro e di
esaminare quanto abbiamo fatto in un modo che ci aiuti a
comprenderlo. Se bastasse fare qualcosa e poi farla ancora per arrivare all’eccellenza, allora tutti i vecchi diabetes
educators sarebbero eccellenti. Come educator, il nostro
compito principale è creare un ambiente di apprendimen-
55
to che stimoli e nutra la nostra riflessione. Quando interagiamo con i pazienti, individualmente o in gruppi, possiamo invitarli a riflettere sulle loro esperienze da diabetici,
sui loro sforzi di autocontrollo e sui risultati di questi sforzi. Possiamo incoraggiarli a pensare a ciò che vogliono e
a cosa stanno facendo per ottenerlo.
Chiaramente, la riflessione è anche un elemento cruciale per
la nostra evoluzione come diabetes educator. La crescita,
l’apprendimento e il cambiamento si realizzano quando ci
fermiamo a guardare indietro con regolarità nel corso della
nostra esperienza e ci chiediamo per esempio: “Cosa vuole e
di cosa ha bisogno veramente questo paziente? Ci sono state
delle cose che questo paziente ha detto che mi hanno messo
a disagio? Cosa farei di diverso se potessi ripetere questa
sessione?”.
FASE 3: L’INTROSPEZIONE – Introspezione letteralmente significa
‘guardare dentro’ un’esperienza. La riflessione può condurre,
e spesso lo fa, all’introspezione. Sovente la riflessione ci permette di identificare significati, modelli, relazioni, o possibilità
che non erano apparenti prima nella nostra esperienza.
Possiamo vedere una connessione tra esperienze precedenti
e quella attuale. Possiamo accorgerci che il nostro comportamento è stato l’espressione di pensieri o emozioni inconsapevoli. Possiamo vedere nuove possibilità dentro vecchie
situazioni. La riflessione è guardare, l’introspezione è vedere.
L’introspezione non è basata su nuove informazioni, piuttosto
riguarda il riconoscimento di qualcosa che era lì tutto il
tempo, ma di cui non ci eravamo accorti prima.
“
La scoperta è vedere ciò che chiunque
altro ha visto e pensare ciò che nessun
altro ha pensato.
Albert Szent-Gyorgi
56
“
FASE 4: IL CAMBIAMENTO – Apprendere è cambiare. Molto
spesso a cambiare è il comportamento, ma può anche
essere un cambiamento nella disposizione d’animo oppure
capire che questo porta a un cambiamento di comportamento. L’introspezione si riferisce al momento in cui le
nostre percezioni cambiano. Come quel cambiamento è
poi espresso nelle nostre idee profonde, percezioni o comportamenti può essere definito come apprendimento.
“
Per tutta la vita,
continua a imparare a vivere.
Seneca
FIGURA 4-1 Un modello di apprendimento
“
Esperienza
Percezione
(cinque sensi)
Riflessione
Consapevolezza
Cambiamento
Nuova conoscenza,
nuovi atteggiamenti,
nuovi comportamenti
Riflessione
Che cos’è questo?
Come funziona?
Cosa significa?
Cosa voglio?
Cosa sto per fare?
Introspezione
Vedere nuove
relazioni, comportamenti,
aspirazioni
e opportunità
57
La Figura 4-1 mostra un diagramma di questo processo. È
ciclico e in progressione; l’apprendimento stimola nuove
esperienze, che a loro volta inducono a riflessione e
nuova introspezione.
L’apprendimento richiede una relazione psicologicamente sicura. La sicurezza psicologica è creata da comportamenti che trasmettano rispetto e fiducia e che creino
accettazione. La nostra postura, lo sguardo, il tono della
voce possono comunicare empatia e partecipazione. Per i
pazienti è impossibile guardarsi dentro, esplorare ed
esprimere le loro più profonde preoccupazioni sul fatto di
avere il diabete e di doverlo curare, se non vengono liberati dalla preoccupazione di essere biasimati, giudicati,
criticati o valutati.
Per promuovere un apprendimento significativo per una
persona, noi dobbiamo stabilire un ambiente, individualmente o in gruppo, nel quale l’esperienza di ogni persona viene riconosciuta e apprezzata. La prossima sezione di
questo libro focalizza come creare il tipo di relazione che
promuove e nutre l’apprendimento personale.
“
Molte più persone imparerebbero
dai loro errori se non fossero così
impegnate a negare di averli fatti.
Anonimo
Un altro racconto di Bob
“
Non dimenticherò mai quel pomeriggio, anche se risale a
più di venti anni fa. Il mio tutor mi aveva invitato a casa
sua per darmi la sua opinione su un lavoro che avevo
appena scritto. Mi ero dedicato con passione all’argomento ed ero ansioso di ascoltare i suoi commenti. Si
concentrò sulla scrittura piuttosto che sul tema del lavoro.
Riga dopo riga passammo tutto l’articolo evidenziandone
gli errori e le debolezze di scrittura. Ogni suo commento
58
mi feriva. Ma non crollai psicologicamente perché avevo
fiducia in lui, completa. Sapevo quanto tenesse a me e
perfino nel pieno del mio disappunto compresi che le sue
critiche erano corrette e che io avevo ancora molto da
imparare. Probabilmente la più dolorosa lezione che
appresi quel giorno fu che scrivendo male, avevo fatto un
cattivo servizio alle idee che sentivo come molto importanti. Fui in grado di accettare il suo giudizio perché veniva da un insegnante che aveva conquistato la mia fiducia
e il mio rispetto. Fui capace di accettare le sue critiche
perché mi sentivo al sicuro.
Domande per riflettere
1) Quanto il modello di apprendimento esposto in questo
capitolo si conforma alla vostra esperienza di studenti?
2) Quanto si conforma alle vostre esperienze di formatori?
3) Quali metodi oltre al ‘trasferimento di nozioni’ avete
usato nell’educazione al diabete? Che risultati hanno
dato?
59
PARTE 2
Instaurare relazioni
di crescita
“
Se sei qui per aiutarmi, vai via,
ma se sei qui perché hai compreso
che la tua liberazione è legata alla mia,
cominciamo.
Alice Walker
in Aboriginal Woman
“
La relazione con il paziente è il contesto più importante
per il trattamento e per l’educazione al diabete. La qualità della relazione tra educator e paziente determina in
larga misura la percezione che il paziente ha della cura
stessa. Relazioni caratterizzate dal rispetto, dalla fiducia e
dalla sincera partecipazione rendono più facile una comunicazione aperta e leale da entrambe le parti. I pazienti si
sentono psicologicamente al sicuro e possono esplorare
ed esprimere i loro timori e le loro preoccupazioni più
profonde. Inoltre, in una relazione contrassegnata dalla
fiducia e dal rispetto reciproco, i pazienti sono più propensi a prendere in considerazione i suggerimenti e le
raccomandazioni del diabetes educator.
Stabilire una relazione di questo tipo richiede abilità,
tenacia e motivazione. Non possiamo aspettarci che i
pazienti abbiano fiducia in noi solo perché abbiamo un
pezzo di carta appeso alla parete. La fiducia e il rispetto
vanno guadagnati. Quando un paziente incontra per la
prima volta un professionista della salute cerca, a modo
61
suo, di determinare se la persona in questione è competente e degna di fiducia. Cerca tutta una serie di spunti
per rispondere a queste importanti domande. “Mi ascolterà? Mi tratterà come una persona? Presterà attenzione
alle mie preoccupazioni? Terrà conto delle mie priorità?
Sarà aperto e cordiale? Flessibile e creativo? Sarà competente e aggiornato? Capace di rispondere alle mie
domande?” Dalla risposta a queste domande dipenderà
la qualità della relazione, fino a che punto il paziente sarà
sincero nei nostri confronti e in che misura farà sue le
nostre raccomandazioni.
Questa sezione comprende i capitoli dedicati al modo per
stabilire con i pazienti delle relazioni che favoriscano lo
sviluppo autonomo delle loro risorse. Nell’approccio
empowerment, il nostro scopo è stabilire relazioni che
permettano ai pazienti di raccontare il vissuto della propria malattia senza il timore di essere criticati o biasimati.
Un tipo di relazione di questo genere sostiene e promuove il cambiamento di comportamento, la crescita personale, il benessere fisico e psicologico.
62
CAPITOLO 6
Diventare partner
Le interazioni con i nostri pazienti sono influenzate da ciò
che ognuno di noi si aspetta dalla relazione.
Probabilmente i pazienti si aspettano che noi risolviamo i
loro problemi di salute o che diciamo loro cosa fare.
D’altro canto, noi probabilmente ci aspettiamo che i
pazienti seguano le nostre raccomandazioni o diventino
responsabili della propria cura. Che siano rese esplicite o
meno, le nostre aspettative sono sottese al contratto che
forma la base di gran parte dell’assistenza e della formazione che noi forniamo. Anche se abbiamo iniziato a liberarci dal tradizionale approccio alle malattie acute, le
nostre interazioni continuano a essere influenzate da queste aspettative di ruolo.
Una delle maggiori differenze tra la relazione terapeutapaziente nel diabete e nelle malattie acute è la questione
dell’expertise. Nelle malattie acute, il professionista, di
solito, ha molte più conoscenze del paziente su quel problema. I pazienti devono affidarsi all’expertise del professionista.
Questo non è il caso del diabete. Sia il paziente che il professionista sono portatori di un bagaglio di conoscenze,
esperienze e abilità ugualmente importante per lo sviluppo
di un programma di trattamento della malattia. Infatti non
si può sviluppare un programma solido senza una di queste
due componenti. Il professionista conosce il diabete, le
varie opzioni di trattamento e le loro potenziali conse-
63
guenze per la salute. Il paziente è il massimo esperto della
propria vita e si trova nella posizione migliore per decidere
quale dei vari approcci al diabete è fattibile. Poiché il diabete comporta grandi cambiamenti nelle abitudini di vita
del paziente, l’autoconsapevolezza è cruciale per lo sviluppo di un piano di autogestione. Questa è la ragione per cui
le due parole ‘auto’ e ‘gestione’ sono state fuse per descrivere la cura del diabete giorno per giorno.
Il fatto che nella relazione terapeuta-paziente quest’ultimo porti un expertise di uguale importanza rende possibile un vero rapporto di partenariato. Perché funzioni, tuttavia, è necessario che entrambe le parti riconoscano e
rispettino l’expertise dell’altra. Questo tipo di collaborazione si distacca significativamente dalle reciproche
aspettative di pazienti e professionisti incastonate nel tradizionale modello di cura per le malattie acute.
“
Siamo tutti angeli con una sola ala
e possiamo volare solo abbracciandoci
gli uni agli altri.
Luciano de Crescenzo
Il racconto di Kentaro
“
Una donna di 70 anni, ipertesa, venne indirizzata al nostro
dipartimento dal cardiologo a causa della glicemia elevata. Aveva 454 di glicemia e 15,1% di emoglobina glicata.
Aveva perso peso (10 Kg negli ultimi 6 mesi) e si sentiva
arsa dalla sete. Fu ricoverata per fare educazione al diabete. All’inizio le vennero prescritte quattro dosi di insulina al
giorno per ridurre la glicemia. Dopo 10 giorni era scesa a
due dosi al giorno e i valori di glicemia erano di-scretamente buoni. Finita la formazione doveva essere dimessa.
Pensavamo di farle continuare l’insulina dopo la dimissione, ma respinse la nostra idea. Insistette per prendere
delle pillole. Secondo lei, le iniezioni erano troppo complicate e avrebbero limitato la sua vita e ridotto la sua atti-
64
vità quotidiana. Discutemmo la questione con lei molte
volte. Sapevamo che era molto motivata a fare la dieta e
l’esercizio fisico. Infatti, aveva già smesso di mangiare
dolci e camminava ogni giorno un’ora. Alla fine accettammo la sua idea e facemmo un accordo: lei sarebbe ritornata a casa e avrebbe preso solo le pillole, ma, se questo non
fosse stato sufficiente per controllare la malattia, avrebbe
accettato di prendere l’insulina. La donna fu felice dell’accordo raggiunto e fu dimessa con una prescrizione di glibenclamide 7,5 mg/die. All’uscita la sua glicemia era di
127 a digiuno e di 194 due ore dopo la colazione.
Noi tutti, a essere sinceri, pensavamo che non sarebbe
riuscita a controllare il diabete senza l’insulina. Credevamo
che presto o tardi sarebbe dovuto passare all’insulina. Ma
lei fece davvero un buon lavoro! Controllò il suo diabete
quasi alla perfezione. La sua emoglobina glicata scese gradualmente e rimase sotto il 6% per più di 10 mesi.
In questo caso la questione più importante fu che noi
accettammo la sua idea. Cercammo di dare ascolto alle
sue idee sulla terapia e di non essere impositivi. Quando
lei realizzò che la stavamo ascoltando con attenzione la
sua motivazione a curarsi divenne maggiore.
Kentaro Okazaki, medico
Tenri, Giappone
“
Gli smarrimenti sono momenti
in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi,
qualcosa di sconosciuto; le nostre emozioni
crescono mute in timida perplessità,
tutto ci viene a mancare,
un silenzio sopraggiunge, e il nuovo,
che nessuno conosce, sta nel mezzo di questo,
ed è muto.
Rainer Maria Rilke
“
65
Le aspettative dei professionisti e dei pazienti che riguardo la cura del diabete sono grandi e difficili da cambiare.
Sono una parte fondamentale del nostro modo di percepire, al punto che spesso noi non ne siamo consapevoli.
Non le vediamo, piuttosto vediamo il mondo attraverso di
esse. L’incontro con i pazienti raramente comincia con il
terapeuta che fa affermazioni del tipo: “In qualità di educator, io prenderò la responsabilità di risolvere i problemi
di salute che voi non potete risolvere da soli. Dai pazienti
invece mi aspetto che...”. I pazienti raramente iniziano
una visita dicendo: “Sono qui oggi nel ruolo di paziente,
e ciò che mi aspetto da voi come educator è ..., ciò che io
mi impegno a fare come paziente è ...”.
Il fatto che le nostre interazioni siano influenzate da
aspettative implicite non è necessariamente un problema,
a meno che non ci sia uno scollamento tra quelle aspettative e la realtà di quella specifica situazione. C’è, comunque, come abbiamo discusso prima, una fondamentale
incompatibilità tra i ruoli tradizionali di paziente e terapeuta e la realtà dell’autogestione del diabete.
Un modo per uscire da questo impasse è avere una franca e aperta discussione con i nostri pazienti riguardo alla
natura del diabete: è una malattia autogestita che richiede ai pazienti e agli educator di ridefinire ruoli e aspettative. Oppure, possiamo scrivere la nostra filosofia di cura
e spedirla ai pazienti prima di visitarli. Per esempio, possiamo incominciare dicendo ai nostri pazienti che vorremmo poterli sollevare dalla responsabilità della cura, ma
con il diabete questo non è possibile. Possiamo lasciare
che i pazienti capiscano che desideriamo contribuire con
il nostro expertise clinico a portare questo peso, individuando i loro specifici problemi e collaborando con loro
allo sviluppo di un piano di autotrattamento che si adatti
veramente alla loro vita. Possiamo comunicare loro la
nostra volontà di lasciare da parte i nostri giudizi e di
ascoltare attentamente per comprendere il loro mondo,
66
perché sappiamo che è in quel mondo che prende corpo
la terapia del loro diabete. Infine possiamo dire ai nostri
pazienti che abbiamo bisogno del loro aiuto. Possiamo
chiedere di considerare con attenzione i nostri suggerimenti. Sottolineare quanto sia importante per loro essere
aperti e franchi con noi riguardo a ciò che vogliono fare e
a ciò che sono in grado di fare nella gestione del diabete.
In cambio possiamo promettere di rispettare il loro diritto
a compiere scelte consapevoli, anche quando non siamo
d’accordo con tutte le loro decisioni.
Discutere i nuovi ruoli paziente-terapeuta e le aspettative
reciproche può aiutare a stabilire un contesto per l’educazione al diabete che potrà durare nel tempo. Quanto
saremo soddisfatti e quanto saremo efficaci dipenderà, in
larga parte, da quanto strettamente il nostro comportamento e i suoi effetti saranno aderenti alle nostre aspettative. Lo stesso vale per i nostri pazienti. Stabilire un terreno comune con i pazienti, basato su un insieme di
aspettative concordate reciprocamente, pone le basi per
una collaborazione efficace, per una vera partnership.
Domande per riflettere
1) Cosa significa per voi stabilire un rapporto di collaborazione con un paziente?
2) Se doveste iniziare una relazione (o scrivere la vostra
filosofia di cura) sui ruoli e le responsabilità del paziente e del diabetes educator, cosa direste?
3) Come fate a capire quando siete riusciti a stabilire un
rapporto di collaborazione con un paziente?
4) Cosa fate quando non riuscite a stabilire un rapporto
collaborativo con un paziente?
67
CAPITOLO 7
Ascoltare può guarire
“
La conoscenza parla,
la saggezza ascolta.
Jimi Hendrix
“
Se chiedessimo a un gruppo di diabetes educator: “Sapete
come si fa ad ascoltare?” probabilmente risponderebbero
affermativamente. Se chiedessimo: “Siete dei buoni ascoltatori?”, la grande maggioranza risponderebbe ancora sì.
Eppure, mentre il paziente ci parla, noi pensiamo a cosa diremo appena avrà finito. Pensiamo: ”Cosa posso consigliare a
questo paziente? Qual è la soluzione al suo problema?”.
Stiamo in ascolto, è vero, ma di noi stessi, non del paziente.
In realtà non saremo mai capaci di ascoltare attentamente fino a quando non ci libereremo dell’idea che, come
diabetes educator, noi dobbiamo avere sempre una risposta. Questo può essere molto difficile. Anche dopo molti
anni di esperienza con l’empowerment non ci siamo completamente liberati da un certo grado di ansia da prestazione quando interagiamo con un paziente. In una relazione di aiuto è quasi impossibile liberarci totalmente dall’idea che noi siamo responsabili di fare qualcosa che sarà
importante per il paziente. Eppure, preoccupandoci di
cosa faremo o diremo, riduciamo l’attenzione dedicata
all’ascolto del paziente. La nostra esperienza ci ha insegnato che se noi ascoltiamo con attenzione, la direzione
da seguire emergerà dalla storia stessa del paziente.
69
“
Parlare è un dono di natura, stare
in silenzio un dono di saggezza.
Anonimo
“
Dana Reeve, la moglie dell’attore Christopher Reeve, ha
pubblicato recentemente un libro con alcune delle molte
lettere che essi hanno ricevuto dopo l’incidente al midollo
spinale. Una di queste era di una donna che aveva avuto un
incidente simile. Questa lettera suggeriva di trovare qualcuno a cui raccontare le loro paure più profonde. L’autrice
raccomandava di scegliere qualcuno che non tentasse di
rassicurarli o di dire loro che tutto era a posto, piuttosto
qualcuno che semplicemente stesse ad ascoltarli.
Quando ascoltiamo con partecipazione noi tentiamo strenuamente di concentrare la nostra attenzione sul paziente.
Usiamo i nostri sensi, la nostra mente, il nostro cuore per
cogliere, capire e valutare l’esperienza del nostro paziente.
Prestiamo ascolto al significato delle sue parole, sia esplicite
che implicite; cerchiamo di sintonizzarci sulle sue paure, speranze o preoccupazioni. Osserviamo le espressioni facciali e il
linguaggio del corpo. Cerchiamo di percepire ogni cosa.
Essere ascoltati in questo modo aiuta i pazienti a sentirisi
accettati e compresi. Accade raramente alla maggior
parte di loro di essere ascoltati senza essere giudicati o
criticati. Ascoltare i pazienti senza giudicare è un atto di
fratellanza. Comunica rispetto e riafferma la validità della
loro esperienza. Ascoltare con attenzione i pazienti permette loro di abbassare le difese e di esplorare più a
fondo la loro esperienza di vita con il diabete. Omettere il
nostro consiglio, le nostre soluzioni e le nostre introspezioni permette di vedere e sentire più intensamente ciò
che è vero per loro. La nostra attenzione indivisa e non
giudicante serve da specchio nel quale i nostri pazienti
possono vedersi per come realmente sono.
70
“
Il più grande dono
che ognuno può fare al prossimo
è la rapita attenzione
all’esistenza dell’altro.
Sue Atchley Ebaugh
Il racconto di Marti
“
Una delle mie prime esperienze di ascolto avvenne durante il periodo in cui studiavo da infermiera. Stavo rifacendo
un letto, avevo sentito il pianto della donna nel letto
accanto. Non sapevo cosa fare ma sentivo che non potevo lasciarla senza averle parlato. Mi disse che aveva un
tumore al seno e che aveva appena subito una mastectomia. Era molto preoccupata per la reazione del marito e
per ciò che sarebbe stato dei suoi figli se la prognosi non
fosse stata favorevole. Poiché ero lì come allieva (e nessuno si aspettava che sapessi nulla), e poiché non sapevo
cosa dirle, le feci semplicemente delle domande e l’ascoltai. Mentre parlavamo, l’infermiera che lavorava con le
pazienti che avevano il cancro al seno entrò nella stanza.
Mi scusai e ritornai a rifare il letto.
Dopo aver ascoltato come interagiva con quella paziente,
sentii che avevo sbagliato perché lei diede un mucchio di
informazioni e di consigli. Continuò a dire alla paziente di
non preoccuparsi, che tutti i mariti si adattano, e che i dottori le avrebbero parlato della prognosi. Eppure, capii che
ognuna di queste risposte chiudeva la conversazione.
Quando la paziente smise di piangere, lei smise anche di
rispondere. Dopo che ebbe lasciato la stanza, la paziente
mi chiese se volevo tornare e sedere sul letto ad ascoltarla
per un po’. Le dissi che non ero esperta di queste cose, l’altra era l’esperta. La paziente mi disse: ”Ma tu sei stata ad
ascoltarmi, e questo era ciò di cui ho veramente bisogno”.
Quell’esperienza mi ha insegnato il grande potere dell’ascoltare e mi ha fatto capire che le parole importano meno
della disponibilità ad ascoltare e a imparare.
71
Lasciare che i nostri pazienti esplorino le loro esperienze
senza la paura di essere interrotti o giudicati li aiuta a riconoscere ed esprimere le loro emozioni. I pazienti spesso
capiscono quanto profondamente hanno a cuore le questioni legate al loro diabete. Problemi, obiettivi, barriere e strategie per il cambiamento spesso emergono spontaneamente. Liberi dal giudizio, i pazienti possono cominciare a vedere e a comunicare su un livello più profondo e autentico, e
questa comunicazione porta naturalmente all’identificazione
dei passi successivi da compiere. Noi possiamo aiutare i
pazienti a chiedere a se stessi: “Cosa voglio realmente?
Cosa dovrei fare per raggiungere i miei obiettivi?”. Essere
capaci di esplorare e impostare correttamente questioni di
questo genere può essere una meravigliosa esperienza.
Nella nostra ricerca sull’educazione al diabete, abbiamo
condotto molti focus group. Una delle cose che ha attirato la nostra attenzione è stata scoprire quanto gratificante fosse per i pazienti avere l’opportunità di partecipare.
In genere coordiniamo otto, dodici pazienti per due ore
invitandoli a parlare della propria esperienza di vita col
diabete. La formula dei focus group prevede che il conduttore non influenzi gli atteggiamenti e le affermazioni
dei membri del gruppo. Abbiamo condotto i gruppi chiedendo come fosse vivere con il diabete, ma non abbiamo
proposto delle risposte o comunque mostrato approvazione-disapprovazione per le risposte dei pazienti.
Questa strategia è stata usata per massimizzare l’autenticità e la sincerità delle risposte dei pazienti alle nostre
domande. Dopo i focus group, quasi sempre i pazienti
tornavano a dirci: “Grazie, sono state due ore meravigliose”. Abbiamo cominciato a realizzare quanto fosse importante per questi pazienti avere l’opportunità di parlare
della loro vita col diabete in un’atmosfera che fosse di
accettazione e non di giudizio. Che siamo pazienti o terapeuti, essere ascoltati significa essere rispettati, significa
che la nostra esperienza ha valore.
72
“
Ci si sente a casa lì dove
si viene compresi.
Christian Morgenstern
“
L’ascolto attento dà l’opportunità inoltre ai pazienti di
ascoltare se stessi. Spesso nelle situazioni difficili i pazienti si sentono intrappolati. E allora parlano di così tante
questioni differenti che influenzano un problema che è
facile essere sopraffatti dalla quantità di informazioni.
Porre delle domande e fare il punto della situazione non
solo ci aiuta a capire meglio il problema, ma aiuta anche i
nostri pazienti a guadagnare in introspezione e chiarezza.
Le soluzioni spesso emergono da questo processo.
In fondo essere ascoltati con partecipazione e senza essere giudicati è terapeutico di per sé. Questo tipo di ascolto è come una carezza gentile alla psiche fragile e ferita di
una persona con il diabete. Ascoltare qualcuno in questo
modo è un atto di amore, e l’amore cura. L’ascolto partecipe può anche essere un modo per calmare la nostra
stessa mente e lo spirito. Ascoltare veramente richiede (e
permette) alle nostre menti di diventare serene. Può aiutare a restare in contatto con il centro del nostro essere in
un modo più equilibrato e più olistico, sia nelle nostre vite
personali che nelle nostre relazioni con i pazienti.
Domande per riflettere
1) Cosa vi passa per la testa quando ascolate i vostri
pazienti?
2) Quali barriere vi rendono difficile ascoltare i pazienti?
3) Cosa facilita l’ascolto partecipato dei pazienti?
4) Restare in silenzio per pochi secondi di fronte al paziente dopo che ha parlato vi mette a disagio?
73
PARTE 3
Il segreto del cambiamento:
aiutare i pazienti
a riscrivere le loro storie
In questa sezione presentiamo delle strategie per aiutare
i pazienti a riscrivere la storia del loro diabete attraverso
la riflessione sulle emozioni, la soluzione di problemi, e il
cambiamento di comportamento.
In che modo? Usando delle strategie che vi saranno certamente familiari. Le abbiamo imparate per scopi differenti, per indurre l’adesione dei pazienti al trattamento.
Non sono le tecniche ma il modo in cui le usiamo che
rispecchia la nostra adesione all’approccio empowerment. Lo scopo di queste strategie, per come sono
descritte in questa sezione, è di aiutare i pazienti a prendere delle decisioni e responsabilità crescenti per la cura
della loro malattia. Viene descritto come usare l’approccio empowerment per incoraggiare gli sforzi di cambiamento fatti autonomamente dai pazienti. Inoltre, viene
anche proposto un modello di cambiamento di comportamento in cinque fasi.
LE CINQUE FASI
Identificare il problema
Esplorare le emozioni
Fissare gli obiettivi
Fare un programma
Valutare i risultati
75
Scomporre il processo in cinque fasi distinte rende più
facile comprenderlo e impararlo. Con la pratica queste
fasi diverranno parte del vostro abituale dialogo con il
paziente. Imparare queste cinque fasi è come imparare a
danzare. Ciò che all’inizio è meccanico diventa in seguito
aggraziato e naturale in risposta alla musica. Ma non scordiamoci che in questa danza è il paziente che conduce.
Perciò, una singola seduta potrà includere solo una delle
cinque fasi, oppure tutte e cinque, a seconda delle questioni identificate dal paziente.
76
CAPITOLO 8
Qual è il problema?
“
I mari senza onde non fanno
esperti i marinai.
Dare un nome al problema
Proverbio africano
“
Il primo passo nel processo di cambiamento è tirare fuori
il problema. Come abbiamo detto precedentemente, le
emozioni ci guidano e ci aiutano a definire il problema. Se
noi non ci sentiamo male riguardo a una questione o
situazione, allora non c’è problema. Chiedendo ai pazienti come si sentono riguardo ai vari aspetti della loro vita
col diabete, noi possiamo arrivare alle questioni che costituiscono motivo di preoccupazione per loro. Talvolta questa discussione porta i pazienti a creare obiettivi e strategie per aiutarli a cambiare la loro storia. Altre volte questo li aiuta ad avere maggiore introspezione sul significato del problema. Queste introspezioni spesso conducono
ai cambiamenti di comportamento.
Una volta identificato, un problema richiede di essere esplorato approfonditamente prima che noi possiamo aiutare i pazienti a pensare delle soluzioni. Un modo per iniziare è chiedere al
paziente: “Cosa possiamo fare insieme durante la visita?”.
Alcuni pazienti hanno difficoltà a identificare obiettivi o
risultati desiderati. Con questi pazienti possiamo incominciare dicendo: “Ditemi cosa è più difficile per voi dell’a-
77
vere il diabete e doversene occupare?”. Se il tempo è
limitato, spesso aggiungiamo:”Nei dieci minuti che
abbiamo oggi”. Questo riconosce che la visita è a beneficio del paziente e colloca il paziente in posizione di controllo. È essenziale avere il tempo necessario per identificare quello che il paziente considera il suo maggiore problema. È un passaggio essenziale che è spesso saltato
nella fretta di aiutare i pazienti a identificare gli obiettivi.
È forte la tentazione di proporre soluzioni ai problemi prima
di averne compreso la vera natura o la causa. Fallire nell’esplorare un problema in genere conduce a sentimenti di frustrazione sia per noi che per i nostri pazienti. Spesso siamo
convinti di conoscere la soluzione di un problema dopo le
prime fasi di un colloquio, per poi scoprire alcuni punti critici
che né il paziente né noi avevamo adeguatamente considerato. La soluzione che alla fine il paziente è in grado di identificare si rivela molto diversa da ciò che inizialmente gli avevamo proposto.
Particolari comportamenti di cura di sé (o mancanza di questi) sono spesso sintomi di un problema e non il problema
stesso. Capire i sintomi non è la stessa cosa che capire la
vera causa di un problema. Risolvere i sintomi in genere
non è efficace. Il comportamento del paziente può cambiare temporaneamente, ma il problema che sta sotto si
manifesta dopo con un altro sintomo comportamentale.
Quando invitiamo i pazienti a esporre le loro storie stiamo
esplorando il problema. Il nostro compito è di ascoltare e
di porre domande che ci aiutino a comprendere cosa
significhi per i nostri pazienti vivere con il diabete. La
nostra empatia e la nostra curiosità ci aiutano a porre il
genere di domande che portano al cuore del problema.
Cominciare con il problema che il paziente ha identificato, comunica la nostra volontà di focalizzarci sulla sua
scala di priorità. Inoltre, cercare di capire il punto di vista
del nostro paziente ci aiuta a comprendere meglio quella
persona e come vive la sua vita.
78
“
Vivi le tue domande ora,
e forse, persino senza saperlo,
vivrai un giorno lontano le tue risposte.
Rainer Maria Rilke
“
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI
A IDENTIFICARE I PROBLEMI
Come è vivere con il diabete?
Qual è la vostra maggiore preoccupazione?
Cosa vi risulta più difficile nel prendervi cura del diabete?
Cosa causa in voi più disagio o stress?
Che cosa rende questo particolarmente difficile per voi?
Perché credete che questo accada?
Quando pensate a questo problema,
cosa vi viene in mente?
Questo è stato già in passato un problema per voi?
È stato un problema anche al di fuori del diabete?
Gail racconta
Ann aveva il diabete da circa vent’anni. Da due anni lavoravo
con lei. Aveva una retinopatia e una forma grave e dolorosa
di neuropatia. Ann era molto adirata verso il suo diabete,
verso se stessa e verso suo figlio. Quando cominciammo a
discutere le sue abitudini alimentari e i livelli elevati di glicemia disse: “Mio figlio mi sta facendo impazzire! Tutto quello
che voglio è mangiare”. Mentre mi parlava di suo figlio di tredici anni le lacrime apparvero nei suoi occhi. Suo figlio non
voleva andare a scuola. Lei lo portava a scuola tutte le mattine. Lui entrava dalla porta principale e usciva da quella sul
retro. Il giudice del tribunale dei minori aveva minacciato di
comminarle una multa di 600 dollari ogni volta che suo figlio
avesse marinato la scuola. Ann viveva di pensione di invalidità; non aveva i soldi per pagare neppure una di quelle multe.
Il giudice arrivò anche a minacciare la galera per Ann. Lei
79
aveva preso per il figlio un appuntamento dallo psicologo e
lo aveva accompagnato in macchina, solo che lui si era rifiutato di scendere dalla macchina. Quando venne da me era il
quinto giorno che il figlio non andava a scuola. Si rifiutava,
semplicemente. Lei aveva chiamato la scuola per dire che il
figlio non voleva saperne. Poi disse: “Se il giudice mi dà la
multa, non potrò pagarla. Probabilmente mi manderà in
galera. Non c’è niente da fare”. Ann è una mamma-single
con un compagno che vive con lei. Lui non ha alcuna influenza sul comportamento del ragazzo. Inoltre, il figlio maggiore
di Ann, con la sua ragazza e il loro bambino piccolo, vive
nello stesso caseggiato di Ann. È appena uscito di prigione e
Ann non vuole che venga coinvolto nell’educazione del fratello piccolo. Ha paura che possa scoppiare una lite violenta
e il ragazzo più grande finirebbe di nuovo in prigione.
“
Non potremmo mai imparare a essere
coraggiosi e pazienti,
se nel mondo ci fosse soltanto la gioia.
Helen Keller
“
Ascoltai Ann che descriveva la sua vita, niente di più. Non
riuscivo a immaginare come avrebbe potuto trovare la
forza o le risorse per rendere la cura del diabete una priorità, dati i problemi che doveva affrontare giorno dopo
giorno. Pensai anche quanto alto doveva essere il suo
livello di stress e l’effetto che questo doveva avere sulla
glicemia. Vista la gravità dei problemi che doveva affrontare, il meglio che potevo fare per lei era semplicemente
stare dalla sua parte mentre descriveva la situazione.
Quando le feci notare che gli alti livelli di stress contribuivano probabilmente alla sua glicemia, lei disse: “Io mangio in continuazione; lo so che questo è gran parte del
problema”. Con mia grande sorpresa lei si concentrò sul
diabete e cominciò a cercare una soluzione per controllarlo meglio.
80
Disse: “L’ho già fatto una volta, lo posso fare di nuovo”.
Intendeva il controllo. Una volta, in passato, aveva raggiunto un buon controllo della glicemia. Le chiesi cosa
voleva fare. Mi rispose che voleva mangiare solo a orari
prestabiliti. Mi disse che avrebbe scritto sul suo diario
tutto quello che mangiava. Le fissai un appuntamento per
la settimana seguente.
È così che va molte volte mentre si aiuta i pazienti a realizzare l’autogestione. Ogni paziente raggiunge quello
che vuole e che può raggiungere. Quello che io faccio è
creare un’atmosfera che renda possibile ai pazienti esaminare e risolvere gli ostacoli da soli. La nostra relazione
diventa un luogo protetto in cui il paziente può valutare e
fissare i suoi obiettivi.
Identificare le soluzioni
Solo quando un problema è stato esplorato a fondo e
chiarito, è tempo di muoversi e identificare le strategie per
risolverlo. Per essere efficace una strategia non solo deve
essere adatta al problema ma anche alla persona che ha
quel problema. Possiamo pensare di conoscere le soluzioni per i problemi dei nostri pazienti, ma di sicuro non
siamo noi quelli che implementeranno la soluzione.
Quando sono i pazienti stessi a identificare le soluzioni ai
loro problemi è più probabile che essi siano motivati al
cambiamento e lavorino in quella direzione. Questo
approccio rafforza anche la consapevolezza di poter risolvere i loro problemi con il diabete. Noi possiamo essere
veramente di aiuto ai nostri pazienti ascoltando le loro storie, assistendoli nello scegliere le soluzioni disponibili e
discutendo i possibili risultati di ogni opzione.
Le soluzioni offerte da altre persone raramente porteranno
la motivazione necessaria per costruire e mantenere un
cambiamento di comportamento. Avete mai condiviso un
problema con un amico che vi ha detto: ”Ecco cosa dovresti fare”? La maggior parte di noi semplicemente annuisce
81
e dice: ”Va bene”, ma nel frattempo pensa che l’altro o
l’altra non hanno idea di cosa significhi realmente quel
problema e che la soluzione proposta non funzionerà.
Molti pazienti mostreranno consenso a una serie di azioni
proposte anche se non hanno alcuna intenzione di metterle in pratica, semplicemente perché vogliono mantenere il
più possibile la relazione priva di conflitti. Benché questo
vada contro molti dei nostri principi come professionisti
della salute, possiamo dare un contributo significativo
rimettendoci a sedere e lasciando che le storie dei pazienti si srotolino davanti a noi.
“
La perplessità è l’inizio della conoscenza.
Cheryl racconta
Kahlil Gibran
“
Erma venne inviata da un assistente sociale ai corsi di diabete del nostro Centro. Il diabete non era una cosa nuova per
lei ma stava attraversando un momento molto critico della
sua vita. La sua glicemia era veramente fuori controllo. Il figlio
maggiore di Erma aveva stretto delle cattive amicizie. Molto
preoccupata per lui, lo aveva mandato a vivere con dei
parenti in un altro Stato. Circa due settimane prima del
nostro incontro suo figlio (mentre viveva con questi parenti)
venne ucciso in uno scontro a fuoco.
Nonostante stesse attraversando una fase assolutamente
negativa della sua vita, Erma fu composta e in grado di
parlare del suo diabete quando arrivò al corso. Sapeva
che lo stress che stava vivendo faceva salire la sua glicemia. Ci disse anche di aver portato con sé una bottiglia
d’acqua con dello zucchero perché era assetata e desiderava bere qualcosa di dolce. Tutto il corso mostrò preoccupazione per gli effetti negativi che l’acqua zuccherata
aveva sulla sua glicemia. Nella bottiglia Erma aveva
messo un quarto di tazza (circa 60 grammi) di zucchero,
non un cucchiaino!
82
Volendo rendersi utile, la classe diede a Erma molti suggerimenti per aiutarla a consumare meno calorie vuote. Una soluzione possibile era di provare con una bevanda dolcificata
senza zucchero. Un’altra era di mettere un dolcificante al
posto dello zucchero nella sua bottiglia. Erma stava ad ascoltare i vari suggerimenti che provenivano dal gruppo. Benché
non sembrasse soddisfatta da nessuna delle soluzioni proposte, acconsentì a provare a bere qualcosa di meno dannoso.
Disse anche che sarebbe ritornata la settimana seguente.
E così fu. Erma tornò e condivise alcune delle sue emozioni
sulla morte del figlio. Poi sorprese tutti spiegando con chiarezza i motivi per cui beveva acqua zuccherata. Il desiderio
per qualcosa di dolce, disse, non era la cosa più importante.
Era il sapore dell’acqua della sua zona che non le piaceva. La
discussione che ne seguì fu incentrata sui differenti sapori
dell’acqua nelle diverse zone di residenza. L’acqua potabile
di alcune zone venne giudicata indubitabilmente più gradevole. Benché Erma stesse vivendo un grande dolore, fu in
grado di trovare la soluzione prima dell’incontro successivo.
Nessuno avrebbe potuto indovinare la sua soluzione.
Comprò grandi quantità di acqua purificata. Aveva una bottiglia a casa e una a casa del suo compagno. Inutile dire che la
sua glicemia scese immediatamente.
Tutti festeggiammo il suo successo!
Cheryl Tannas, Infermiera
Detroit, Michigan - USA
Perché sembra così naturale risolvere i problemi per i nostri
pazienti anziché aiutarli a trovare da soli le loro soluzioni?
Perché vogliamo renderci utili, e abbiamo imparato che rendersi utili significa risolvere i problemi. Ci sentiamo bene alla
fine di un incontro perché abbiamo risolto il problema. Ma a
volte noi sappiamo che il paziente non ha intenzione di provare il nostro programma, e allora ci sentiamo inutili e perdenti.
Pensate al problema che avete identificato per usarlo in questa sezione. Ricordate le vostre risposte alle persone che ave-
83
vano offerto soluzioni al vostro problema? Avete condiviso il
problema per trovare una soluzione o per avere qualcuno che
realmente vi stesse ad ascoltare? Pensate sinceramente che
l’altra persona potrebbe risolvere il problema per voi? Chi si
sente meglio alla fine dell’interazione? Spesso è la persona
che offre consigli piuttosto che quella che li riceve.
Avete mai avuto dei pazienti che dicono: “Sì, ma ...” ogni
volta che voi offrite una soluzione o una strategia per
risolvere il loro problema? È molto frustrante sentirsi spiegare perché ognuna delle soluzioni che proponiamo non
può funzionare. È anche frustrante per i pazienti che
vedono le soluzioni che noi proponiamo come irrilevanti o
irraggiungibili. I pazienti probabilmente resistono ai nostri
consigli quando avvertono una pressione al cambiamento
prima che essi siano preparati a farlo. Come avete probabilmente sperimentato con i vostri amici si ha l’impressione che l’interlocutore in realtà non capisca quanto difficile è il problema oppure vi ritenga incapaci di risolvere da
soli i vostri problemi.
Uno degli indizi più importanti che una relazione con un
paziente non sta andando bene è quando ci accorgiamo
che siamo noi a parlare di più. Esperienze di questo tipo
ci hanno insegnato a chiederci: “Credo veramente che
questa persona sia incapace di trovare una strada per
impostare i suoi problemi?”. La risposta: “Sì, ma...” ai
nostri consigli può originare, in parte, da come il paziente vede la sua relazione con l’educator. Il paziente può
resistere al nostro consiglio per mostrare di mantenere il
controllo della relazione e della cura della sua malattia.
Oppure, può essere un tentativo di provare a noi e a lui
che non è per ‘colpa’ sua che non ha cambiato comportamento. Quando riusciamo a essere non giudicanti e riconosciamo che il paziente ha il controllo della situazione,
questa resistenza smette di essere necessaria.
Molte volte i pazienti riescono a identificare i problemi, eppure sembrano non voler prendere alcuna iniziativa. Ascoltando
84
i problemi degli altri, è molto facile pensare che se quello
fosse un nostro problema noi vorremmo assolutamente risolverlo. Ma risolvere i problemi implica fare dei cambiamenti, e
i cambiamenti possono essere molto dolorosi. Talvolta ci
sembra più sicuro e più facile tenerci il problema piuttosto
che cambiare e crearne, magari, degli altri.
Le persone possono anche sentirsi in colpa per non voler
cambiare. Non vogliamo cambiare, ma non possiamo dichiararlo apertamente. Qualche volta i nostri pazienti affrontano
questo dilemma dimostrando che nessuna delle possibili
soluzioni funziona. Avete avuto dei pazienti che vengono da
voi tutte le volte esattamente con lo stesso problema, ma che
non sembrano fare nulla per superarlo? Questi pazienti suonano come un disco graffiato e drenano le nostre energie. I
loro tentativi di cambiare sono disegnati per placare altri e
per evitare le critiche e il biasimo. In queste situazioni, possiamo aiutarli a riconoscere che non sono pronti o capaci a
cambiare un particolare comportamento.
Lynn racconta
La mia paziente era una vedova di sessant’anni con un diabete di tipo 2. Mi disse che doveva perdere peso. Aveva
anche un’artrite grave e doveva farsi cucinare i pasti dalla
donna con cui condivideva la casa. Benché avesse identificato quali comportamenti mettere in atto per perdere
peso, mi disse che non ci sarebbe mai riuscita a causa della
resistenza della sua compagna. Per esempio, disse che
avere nello stesso frigorifero una confezione di latte intero
e una di latte scremato era ‘troppo separatista’. Dopo una
lunga discussione l’affrontai con gentilezza e le chiesi se
perdere peso era per lei veramente una priorità. La rassicurai sul fatto che non doveva perdere peso per farmi piacere. Mi disse che il rapporto con la sua amica era cruciale
per lei. Temeva di non riuscire a cavarsela da sola nel caso
si fosse arrabbiata e l’avesse lasciata. E così si concentrò su
altre aree dell’autogestione su cui lavorare.
85
Riflettete sulle vostre esperienze con un problema
1) Come arrivate a definire il problema?
2) La vostra definizione delle cause del problema cambia
nel tempo?
3) La vostra comprensione delle cause del problema cambia nel tempo?
4) Cosa imparate sul problema e su voi stessi mentre ci
lavorate sopra?
5) Ciò che avete imparato vi è di aiuto nel lavoro con i
pazienti?
(Per esempio, forse avete imparato che il solo sapere che
dovete fare esercizio non è abbastanza per voi per farne
una priorità.)
Domande per riflettere
1) Come rispondete quando i vostri pazienti identificano
diversi seri problemi nella gestione del loro diabete o
nella loro vita?
2) Quanto spesso avvertite un forte desiderio di offrire
consigli quando un paziente vi presenta dei problemi?
3) Pensate sia vostro compito risolvere questi problemi
per i pazienti? Perché? Oppure, perché no?
86
CAPITOLO 9
Come viene vissuto?
Identificare le emozioni
Il secondo passo nell’approccio empowerment è aiutare i
pazienti a identificare le loro emozioni riguardo al diabete e, in particolare, il comportamento (o il problema) che
essi sperano di cambiare. I pensieri e le emozioni sono
importanti perché il nostro comportamento è in genere
un’espressione di come ci sentiamo e di cosa pensiamo.
Tutti abbiamo visto pazienti così arrabbiati per il fatto di
avere il diabete che passano tutto il loro tempo nel combatterlo al punto di non essere capaci di gestirlo.
Abbiamo anche incontrato pazienti che sembrano affrontare il diabete dal verso giusto. A volte possono avere
anche sentimenti negativi sul diabete, ma generalmente
sono capaci di viverci insieme in pace e armonia.
Le emozioni negative possono essere dolorose
La maggior parte di noi ritiene di essere efficace nell’aiutare i pazienti a identificare e gestire le emozioni correlate al diabete e al suo trattamento. Tuttavia, quando rivediamo i filmati delle sedute educator-paziente ci accorgiamo che quando i pazienti fanno delle affermazioni cariche di emozioni, queste sono spesso trascurate. La maggior parte di noi prova un certo disagio nel trattare forti
sentimenti negativi. Talvolta noi superiamo il disagio passando subito alla fase della identificazione degli obiettivi
senza esplorare in profondità le emozioni del paziente o
87
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI
A IDENTIFICARE LE EMOZIONI
Come vi sentite riguardo
a ____________________________________________? *
Cosa pensate riguardo
a ____________________________________________?
Come vi sentite se le cose non cambiano?
Potete raccontare una storia su questa situazione,
incluso come vi sentite riguardo a ciò?
*Alcuni pazienti hanno difficoltà a rispondere a domande su
come si sentono perché non sono abituati a parlare delle loro
emozioni. Abbiamo visto che quando chiediamo a questi
pazienti di dirci cosa pensano del problema la loro risposta
speso rivela come si sentono.
l’influenza che hanno sul loro comportamento. Un altro
modo per evitare le emozioni è fornire informazioni o
porre domande incongrue in risposta a un’affermazione
carica di emozioni fatta dal paziente. Per esempio, un
paziente dice: “Io detesto questa dieta!”. E noi rispondiamo: “Quante calorie sta assumendo?”. Questo tipo di
risposta in genere non aiuta il paziente, ma può mantenere la discussione su binari tradizionali. Se il paziente ha
delle forti emozioni sul fatto di essere differente o di
dover rinunciare al suo cibo preferito, una esplorazione in
profondità di questi stati d’animo è necessaria prima di
qualsiasi discussione sui livelli di calorie o sui particolari
del piano alimentare.
È possibile che troviamo difficile rispondere alle emozioni
se vediamo le emozioni negative come problemi da risolvere. Quando i pazienti rivelano emozioni negative noi
potremmo credere sia nostro compito aiutarli a stare
meglio. Ma le emozioni non sono problemi da risolvere.
Non possiamo buttare via le emozioni negative o far stare
88
meglio i pazienti con il diabete, non più di quanto possiamo causare un cambiamento nel comportamento di un
paziente. La tentazione è di concentrarsi sulle aree dove
ci sentiamo più competenti, come il controllo della glicemia. È facile per noi sentirci inadeguati quando i pazienti
identificano un grande numero di problemi e noi ci sentiamo responsabili di risolverli tutti.
Il racconto di Hitoshi
Un giovane uomo di trent’anni con un diabete di tipo 1
venne ricoverato nel nostro ospedale per un ascesso alla
gamba. Aveva avuto un episodio di chetoacidosi all’età di
tre anni. La sua emoglobina glicata recente era di 11%,
ma, come disse: “Non voglio seguire una dieta tanto disgustosa. Io aggiusto sempre la dose di insulina quando
voglio bere alcolici. Lasciatemi in pace. Non mi curo del
mio diabete, per niente”. Restammo ad ascoltarlo senza
alcun commento. Cominciò a parlare delle sue emozioni:
“Avrei preferito essere morto quando avevo tre anni. Tutti
questi anni sono stati solo anni di sofferenza” e così di
seguito. Mentre davamo valore ai suoi sentimenti, gli
dicemmo: “Puoi cominciare con qualcosa che vuoi fare”.
Qualche giorno dopo disse: “Mi è stato imposto: ‘Non
mangiare questo, non mangiare quello’ sin da quando ero
piccolo. Sono diventato insofferente nella gestione del
mio diabete, ma voi non mi avete accusato di imbrogliare. Voi state cercando di lasciarmi fare per prima la cosa
che io voglio fare. Mi avete incoraggiato a lavorare sui
problemi che hanno un significato per me. Ora sono pronto”. Fece un cambiamento davvero notevole. Non solo
incoraggiò un altro paziente, una ragazza che aveva perso
la vista, ma partecipò anche a un campo scuola per ragazzi con diabete. Alla dimissione disse: “Il mio risentimento
di trent’anni verso il diabete è sparito. Ho compreso che
sono in grado di dare incoraggiamento ai ragazzi con il
diabete vivendo la mia vita in pieno”.
89
“
Solo nell’oscurità si possono
vedere le stelle.
Anonimo
“
Quando sviluppiamo il negativo compare l’immagine
Possiamo aiutare i pazienti a usare i loro pensieri e le loro
emozioni negative come motivazione per il cambiamento.
Il più delle volte, quando operiamo dei cambiamenti nella
nostra vita, è perché siamo scontenti di qualcosa. Se tutto
va bene, non c’è nessuna spinta al cambiamento. Il diabete, però, induce spesso le persone a percepire i cambiamenti come imposti. È probabile che non vedano i loro
comportamenti e stili di vita sotto una luce negativa e
quindi non abbiano alcuna motivazione a cambiarli.
Possiamo aiutare i pazienti a identificare i sentimenti che
sviluppano quando viene detto loro di cambiare, e quindi
esplorare come questi sentimenti influenzino il loro comportamento.
“
Ci sono ragioni del cuore
che la ragione non conosce.
Pascal
“
Per esempio, in risposta all’affermazione precedente sull’odio per la dieta, possiamo domandare: “Sembra che voi
proviate della rabbia verso il vostro piano alimentare.
Perché pensate che ciò accada?”. Questo tipo di reazioni
da parte nostra implica un riconoscimento rispettoso del
paziente e dei suoi sentimenti. Muove l’interazione verso il
cuore del problema e accresce la probabilità che il paziente abbia un’introspezione che lo conduca al cambiamento.
D’altro canto, se noi diciamo cose del tipo: “Oh, non è poi
così cattiva. Non proccupatevi troppo. State andando
bene.” noi svalutiamo l’esperienza del paziente, il che in
genere preclude ogni discussione su ciò che realmente
90
preoccupa il paziente. Possiamo anche credere che affermazioni di questo tipo siano confortanti e rassicuranti, ma
nella nostra esperienza, in genere sono percepite come
sottovalutazioni delle emozioni del paziente. In genere
facciamo affermazioni simili in risposta al nostro disagio
nei confronti delle emozioni. Andare al cuore del problema è necessario prima di qualsiasi discussione sugli obiettivi se vogliamo che il cambiamento di comportamento
abbia successo. Siano benvenute le emozioni forti. Non
c’è miglior guida al cuore del problema.
Riflettete sulle vostre esperienze
Pensate a un cambiamento significativo apportato alla
vostra vita:
1) Le vostre emozioni hanno influenzato il vostro comportamento? Prima del cambiamento, durante o dopo?
2) Tra ciò che hanno fatto gli altri per voi, cosa è stato
utile (e cosa inutile) nel gestire le vostre emozioni
prima, durante e dopo il cambiamento?
3) Cosa avete imparato nel vostro lavoro con i pazienti?
“
Nessuno vede che alcune persone
spendono enormi energie soltanto
per essere normali.
Albert Camus
Domande per riflettere
“
1) Come mi sento quando i pazienti esprimono delle emozioni positive? E negative?
2) Come reagisco in genere di fronte a manifestazioni emotive da parte del paziente?
3) Cosa posso fare per imparare a rispondere alle forti emozioni di altre persone in modo calmo e non giudicante?
91
CAPITOLO 10
Cosa si vuole ottenere?
Avete mai provato a lavorare con qualcuno che ha obiettivi
differenti? Come vi siete sentiti? Frustrati? Adirati? Avete mai
sentito che, nonostante stiate cercando di raggiungere i
vostri obiettivi, i vostri sforzi vengono sempre criticati e affossati? Questo accade spesso nell’educazione al diabete, da
ambo le parti. Noi sentiamo spesso dire dai pazienti e dai
terapeuti: “Ci sembra di non andare né avanti né indietro”.
Fissare degli obiettivi è un mezzo sempre più utilizzato nell’educazione al diabete per raggiungere degli standard
educazionali, ma molto prima che i professionisti della
salute prestassero attenzione a questo aspetto, i pazienti
avevano già degli obiettivi per il trattamento del loro diabete. È solo che noi non riuscivamo a tirarli fuori! Al massimo facevamo delle congetture su quali dovessero essere.
Quando cerchiamo di fissare degli obiettivi per i pazienti
o quando cerchiamo di condurli a vedere la bontà dei
nostri obiettivi, è possibile che sia noi che loro incontriamo uno scacco. In fondo la non-compliance potrebbe
essere definita come due persone che lavorano con obiettivi diversi. Per esempio, un paziente può avere come
obiettivo il non doversi alzare di notte per andare in
bagno. Se il nostro obiettivo per lo stesso paziente è che
perda dieci chili, abbia una glicemia normale e smetta di
fumare, allora saremo entrambi frustrati. Quanto successo
avete avuto nell’indurre il vostro coniuge a cambiare e
raggiungere gli obiettivi che voi avete fissato per lui? È
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ragionevole aspettarci che i nostri pazienti, con cui passiamo meno tempo e abbiamo relazioni meno personali,
vogliano fare cambiamenti duraturi per compiacerci?
Cominciamo a creare un clima favorevole al cambiamento
stabilendo una partnership con ogni paziente. Noi gettiamo
le basi del cambiamento quando aiutiamo i nostri pazienti a
comprendere i loro obiettivi e come raggiungerli. Aiutiamo i
pazienti a concentrarsi sull’individuazione degli obiettivi solo
dopo che abbiamo prestato ascolto alla loro esposizione dei
problemi, abbiamo compreso il loro punto di vista e sentito
le loro emozioni riguardo a esso. Nella nostra esperienza l’identificazione degli obiettivi, per avere successo, deve scaturire dal racconto del paziente ed esprimere il suo desiderio
di risolvere il problema. Gli obiettivi devono nascere dal
paziente e appartenergli.
Può essere impegnativo aiutare i nostri pazienti a fissare
obiettivi che siano significativi per loro stessi. Talvolta i
pazienti vogliono fissare obiettivi che noi sappiamo troppo
ambiziosi. Altre volte i pazienti fissano degli obiettivi che
non sono compatibili con gli standard di trattamento o
con quanto noi pensiamo sia meglio per loro. Siamo arrivati a comprendere che è prerogativa del paziente fissare
i propri obiettivi, mentre è nostro compito assicurarci che
abbia compreso i vantaggi e gli svantaggi delle sue decisioni. Questo non riduce le nostre responsabilità verso i
pazienti. Per esempio, se un paziente rifiuta di farsi trattare un’ulcera al piede, noi dobbiamo sottolineare le conseguenze probabili di questa scelta. Allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere che non siamo in grado (né abbiamo il
potere) di far fare al paziente ciò che noi vogliamo.
Ogni volta che apportiamo dei cambiamenti significativi nella
nostra vita, noi perdiamo delle cose (cioè affrontiamo dei
costi) e ne guadagnamo delle altre (otteniamo dei benefici).
Operiamo il cambiamento solo quando i benefici superano i
costi. Solo la persona che vive il problema può decidere se
un cambiamento merita o no lo sforzo. Identificare gli obiet-
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tivi non deve essere un modo nascosto di imporre le nostre
aspettative al paziente. Ascoltiamo ciò che i nostri pazienti
veramente dicono e aiutiamoli a pesare i costi e i benefici.
Una volta compresi gli obiettivi dei nostri pazienti, li possiamo
usare per disegnare lo schema di educazione e trattamento.
Il racconto di Felipe
Raul, un muratore di cinquantun anni lamentava di essere
sempre stanco. Lo bombardammo con domande e suggerimenti. Qualcuno corse a prendere una striscia reattiva per
verificare il nostro sospetto che il suo affaticamento fosse
causato da una glicemia alta. Era così. Alcuni partecipanti
gli consigliarono di rivedere con cura il suo piano alimentare, altri di fare dell’esercizio fisico, altri ancora di comprarsi un glucometro e misurare la glicemia giornalmente.
Benché tutte queste idee fossero giuste da un punto di
vista clinico, nessuno di loro gli chiese di spiegare meglio
perché la stanchezza lo preoccupasse così tanto. Ci raccontò che il suo obiettivo era di superare la ridotta capacità lavorativa che aveva avuto negli ultimi mesi. Il suo
obiettivo non era abbassare la glicemia o perdere peso o
rivedere il suo piano alimentare. Il suo vero obiettivo era
essere capace di piastrellare più metri quadri, di fare più
bagni o soggiorni nella giornata. Quando realizzammo
che la sua necessità più pressante era tornare a fare bene
il suo lavoro, allora fummo in grado di modellare i nostri
consigli clinici sui suoi obiettivi. Raul ci aiutò a imparare
ad apprezzare l’importanza dei suoi obiettivi per lui.
Passammo al vaglio diverse possibilità con lui e alla fine ci
lasciò con un programma che rispondeva alle sue necessità. Fino a quando noi non fummo capaci di focalizzare la
nostra discussione sul problema e gli obiettivi del paziente, per lui eravamo completamente inutili.
Felipe Vazquez, Psichiatra
Città del Messico, Messico
95
Il rinforzo può aiutare le persone a sostenere un cambiamento. Però, se noi usiamo la nostra approvazione come
forma di rinforzo, è molto facile scivolare in una relazione
con i pazienti in cui li incoraggiamo a fare le cose che
vogliamo che essi facciano e li scoraggiamo a fare quelle
che vediamo come negative. Quando valorizziamo il ‘conquistare la nostra approvazione’, implicitamente introduciamo nella relazione la ‘paura della nostra disapprovazione’. I
pazienti quindi saranno felici di incontrarci quando pensano
di aver fatto bene, ma ci eviteranno quando pensano di aver
fallito. Ma noi vorremmo che i nostri pazienti ci dicessero
come si sentono, non importa cosa sia accaduto. Vogliamo
che si sentano apprezzati e rispettati da noi indipendentemente dai loro risultati di autogestione del diabete. Una
volta comunicata questa accettazione ai pazienti, noi siamo
in grado di creare un clima migliore per il cambiamento.
Oltre a danneggiare la relazione, la nostra approvazione-disapprovazione può negare e svalutare il giudizio di un paziente riguardo a un obiettivo. Per esempio, un paziente dice: “Ho
perso un chilo”, noi diciamo: “Ottimo!”, ma questo è il nostro
giudizio. Non prendiamo in considerazione cosa il paziente
sperava di ottenere (magari il suo obiettivo era di perdere
cinque chili), come si è sentito nei confronti dei risultati (o nei
confronti della mancanza di risultati), o cosa ha imparato da
quell’esperienza. Se un paziente dice: “Ho preso un chilo in
vacanza” e noi rispondiamo: “Non è grave, molti ne prendono due”, noi definiamo il significato di quell’esperienza e
neghiamo al paziente l’opportunità di dirci cosa quell’esperienza ha significato per lui o lei.
Preferiamo invece riconoscere gli sforzi e il lavoro continuativo dei nostri pazienti piuttosto che un particolare
risultato. Questo approccio sostiene l’idea che è il paziente il decisore principale. Per esempio, potremmo dire:
“Avete lavorato sodo per portare giù la vostra emoglobina glicata. So che è stata una battaglia per voi e vi ammiro, per la vostra volontà e per la vostra tenacia”.
96
Vantaggi e svantaggi
dell’identificazione degli obiettivi
Come in tutte le strategie, ci siamo resi conto che ci sono
vantaggi e svantaggi nel lasciar fissare ai pazienti i propri
obiettivi. Gli svantaggi includono il tempo necessario per
formare i pazienti a fissare degli obiettivi personali, anche
se questo aumenta notevolmente la probabilità che essi li
raggiungano. Dobbiamo anche mettere da parte il nostro
bisogno di avere il controllo della situazione, il nostro
vederci come risolutori di problemi o, almeno, come quelli che aiutano i pazienti a fare ciò che noi sappiamo essere ‘la cosa giusta’. Inoltre, scegliere da soli i propri obiettivi dà ai pazienti la possibilità di dire ‘no’ agli obiettivi di
trattamento fissati dal terapeuta.
Ci sono però dei benefici in un processo centrato sul
paziente. Innanzi tutto si riduce il tempo che noi dobbiamo spendere per cercare di fare l’impossibile: motivare i
pazienti ad attuare cambiamenti che noi consideriamo
importanti ma loro no. Inoltre, aumenta la probabilità che
i pazienti cambino i loro comportamenti in modo positivo,
il che ci aiuta a sentirci efficaci. Questo approccio aiuta
anche i pazienti a vedere che il cambiamento è possibile
e rafforza la nostra relazione nel ruolo di partner del cambiamento della loro storia.
Alla fine del capitolo precedente vi abbiamo chiesto di
ripensare a un cambiamento significativo che avete operato nella vostra vita. Se rifletterete su quel cambiamento,
valuterete se la vostra personale motivazione verso quell’obiettivo sia stata una forza determinante nel vostro
desiderio e nella vostra capacità di operare il cambiamento. Gli obiettivi decisi dai pazienti danno chiare e
specifiche indicazioni.
97
Come fissare gli obiettivi
Cominciamo aiutando i pazienti a fissare una o due aree
ad alta priorità che essi vogliono cambiare (obiettivi a
lungo termine). Poi li aiutiamo a fare un programma identificando le fasi del cambiamento di comportamento
(obiettivi a breve termine) correlati a quelle aree. Per
esempio, se un paziente ha identificato il peso come un
problema che causa disagio, perdere peso può essere l’obiettivo a lungo termine con due fasi di cambiamento a
breve: abitudini alimentari e attività fisica.
Quasi tutti i pazienti necessitano di informazioni su come
fissare gli obiettivi e come impostare un programma per
raggiungerli. Alcuni possono avere delle difficoltà nell’identificare gli obiettivi perché non sono abituati a pensare
alla propria salute in termini di problemi e di obiettivi. Può
essere di aiuto iniziare chiedendo ai pazienti di indicare le
loro preoccupazioni più grandi o l’origine del disagio.
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI
A IDENTIFICARE OBIETTIVI A LUNGO TERMINE
Cosa volete?
Come deve cambiare la situazione che descrivete
per farvi sentire meglio?
Cosa guadagnate dal cambiamento?
Cosa ci perdete?
Vale la pena per voi?
Avete intenzione di fare qualcosa per migliorare
la situazione?
Cosa deve accadere perché voi riusciate a ottenere
ciò che volete?
Cosa avete bisogno di fare?
Data la vostra situazione e il modo in cui la vivete,
cosa potete fare?
98
Gli obiettivi possono essere fissati in un incontro a piccoli
gruppi o durante un corso. Nel corso un metodo è chiedere ai partecipanti di scrivere un obiettivo a lungo termine su
cui lavorare, un piano con le strategie da usare per raggiungerlo (inclusi gli obiettivi a breve) e un piano di cambiamento comportamentale che li possa aiutare a raggiungere
quell’obiettivo. L’educator spenderà un po’ di tempo con
ognuno revisionando gli obiettivi e offrendo suggerimenti.
Se più di un partecipante sta lavorando sul medesimo
obiettivo, questo può diventare un lavoro di gruppo nel
quale i partecipanti danno supporto e informazioni significative gli uni agli altri. Con obiettivi come perdere peso
o migliorare il controllo glicemico, i partecipanti possono
fare pratica scegliendo una particolare strategia che
ritengono la più efficace per loro.
Riflettete sulle vostre esperienze
di identificazione di obiettivi
Avete identificato degli obiettivi a lungo termine?
Se avete il problema da un certo tempo, cosa vi ha spinto
a cambiare proprio questa volta?
Quali strategie avete imparato che vi possano aiutare a
lavorare con i vostri pazienti?
Domande per riflettere
1) Quali vantaggi e quali svantaggi vedete nel fissare gli
obiettivi con i pazienti?
2) Come vi sentite nel fissare gli obiettivi ‘con’ piuttosto
che ‘per’ i vostri pazienti?
3) Come valutate la vostra abilità di fissare degli obiettivi
a lungo termine con dei singoli pazienti? E con gruppi
di pazienti?
4) Quali ostacoli pensate di trovare nel definire insieme ai
pazienti degli obiettivi a lungo termine?
5) Quali strategie siete in grado di utilizzare per superare
queste barriere?
99
CAPITOLO 11
Cosa si vuole fare?
Il quarto passo per i pazienti è sviluppare un piano d’azione. Spesso è facile fissare degli obiettivi a lungo termine, ma può essere difficile raggiungerli senza identificare
una serie di passi concreti che portano a quel risultato.
Per esempio, non basta decidere di voler perdere cinque
chili o di riacquistare la forma fisica entro il prossimo
anno. Molti di noi potrebbero aver voluto le stesse cose
esattamente un anno prima e non aver fatto nulla per
incominciare a muoversi in quella direzione. Avevamo
obiettivi ma non piani. Mentre gli obiettivi a lungo termine sono i risultati, il piano è costituito dai passi o dalle
strategie usate per raggiungerli.
Fare una lista
Un approccio per sviluppare un piano è chiedere ai
pazienti di elencare una serie di opzioni che potrebbero
essere efficaci nel contribuire a raggiungere il loro obiettivo. Per esempio, se un paziente desidera aumentare il
proprio livello di attività fisica, si potrebbe chiedergli di
fare una lista di tutte le possibili opzioni per raggiungere
la forma fisica, anche se appaiono noiose o poco realistiche. Dovremmo chiedere ai pazienti di trovare il maggior
numero di soluzioni possibili prima di aggiungere qualsiasi nostra idea alla fine della lista, tenendo ben presente
che sarà il paziente a scegliere quella da provare. Una
volta ottenuta la lista, potremmo chiedergli di eliminare le
101
soluzioni che secondo lui non funzionano e poi fare una
scala di priorità di quelle rimaste. Infine gli si chiede di
sceglierne una e di sviluppare delle strategie.
Come educator abbiamo imparato un certo numero di strategie efficaci per risolvere i più comuni problemi correlati al
diabete. I nostri pazienti possono beneficiare di ciò che
abbiamo appreso. Ma crediamo sia importante, prima di
offrire delle soluzioni, che i pazienti trovino più strategie
possibili. Quando offriamo delle strategie, dobbiamo farlo
in modo che la scelta sia sempre del paziente. Per esempio,
potremmo dire: “Altre persone hanno scoperto che fare
attività fisica con un amico li aiutava a seguire il programma.
Pensate che questo possa essere utile per voi?”. Lasciandoli
pensare da soli alla soluzione dei problemi, rafforziamo l’idea che loro hanno il controllo e le capacità per risolvere i
loro problemi.
L’educator domanda
Alcuni pazienti hanno convissuto con i loro problemi così
a lungo, o hanno ‘fallito’ nel risolverli così tante volte, che
possono sentirsi o essere incapaci di trovare anche una
sola soluzione. In questo caso, dobbiamo essere noi a
offrire la maggior parte delle soluzioni. Ma, anche in questi casi, dobbiamo sempre offrire delle scelte attraverso
domande del tipo: “Pensate che possa funzionare per voi
fare una passeggiata durante la pausa per il pranzo?”. Lo
scopo della domanda è aiutare il paziente a pensare alla
propria storia in modo nuovo e rinforzare il fatto che solo
lui può dire ciò che funziona o no. Quando i pazienti continuano ad avere lo stesso problema, indipendentemente
dall’interesse dichiarato a risolverlo, cerchiamo di esplorare con tatto quali vantaggi traggono dal non risolvere il
problema. Possiamo chiedere: “Signor Rossi, tutte le
volte che ci incontriamo discutiamo sempre la stessa questione. Ha idea del perché sembra non voler risolvere
questo problema? Se prova a descrivere la sua vita senza
102
questo problema, cosa ne viene fuori? A cosa rinuncerebbe se si dovesse risolvere questo problema?”.
Talvolta osserviamo che non prendendo la decisione di
risolvere un problema il paziente sta manifestando la sua
scelta di tenersi il problema.
Un piano per il successo
È bene incominciare lentamente, con un programma realistico in mente. La maggior parte di noi trova motivante
e gratificante avere successo. A mano a mano che nuovi
comportamenti vengono aggiunti e mantenuti, piccoli
successi a breve si sommano costruendo un progresso
significativo. Noi incoraggiamo i pazienti a scegliere un
piano sul quale hanno pieno e completo controllo. Il controllo glicemico e il peso sono influenzati da molti fattori,
alcuni dei quali al di fuori del controllo del paziente. Ci
sono, comunque, comportamenti che influenzano questi
risultati e che sono sotto il controllo del paziente, come le
scelte alimentari, l’esercizio fisico e le medicine.
Il racconto di Richard
Quando lo incontrai la prima volta, Fred conviveva con il
suo diabete da 7 anni. Durante quel tempo il suo trattamento era passato dalla sola dieta + esercizio ai farmaci
orali, senza riuscire mai a normalizzare la sua glicemia. Fred
venne da me perché il suo medico gli aveva detto che il
passo successivo sarebbe stata l’insulina e questo Fred non
lo voleva. Appena seduto nel mio studio, gli chiesi qual era
la cosa più difficile della sua vita col diabete. (Questa è
sempre la prima domanda che faccio ai pazienti con diabete.) La risposta di Fred: “Tutto!” mi fece capire senza possibilità di dubbio che egli soffriva di una condizione che io
chiamo ‘il diabete ci schiaccia’. Fred era semplicemente
schiacciato da tutte le necessità quotidiane di una vita con
il diabete.
Quando gli chiesi di essere un po’ più preciso, mi disse:
103
“Credo sia la dieta”. Ma la mia esperienza mi diceva che
il ‘punto dolente’ era qualcosa di ancora più specifico e
così ripetei la mia domanda precisando che volevo qualcosa di più preciso, di più concreto, qualcosa da poter
fotografare o riprendere con un video.
A questo punto Fred sorrise. Aveva il senso dell’umorismo
e disse: “Sono uno che pascola. Ogni sera, tra l’ora di
cena e quella della buonanotte faccio la mucca: un boccone qui, un boccone lì. All’ora di andare a letto mi sento
in uno stato terribile, colpevole e spaventato dai livelli di
glicemia. Poi, durante la notte, mi alzo tre o quattro volte
per andare al bagno, non dormo mai bene, mi sveglio
esausto e mi trascino stancamente per tutto il giorno”.
Così, Fred aveva identificato il suo vero, specifico punto
dolente. Ci sentivamo tutti e due meglio ora: lui perché
aveva realizzato che tutto quello di sbagliato che c’era nel
suo autotrattamento del diabete era il ‘pascolo’ serale, io
perché, dovendo scegliere tra dover lavorare su ‘tutto’ (la
prima risposta di Fred) e sul periodo tra la cena e il letto,
avrei scelto la seconda opzione.
Andammo avanti cercando di aiutare Fred a identificare una
soluzione al suo problema. Così come era l’unico a poter
identificare il suo punto dolente, così era anche l’unico a
poter comprendere come mettere fine al ‘pascolo’. Per aiutarlo a identificare ciò che lui già sapeva, chiesi a Fred se c’erano delle volte in cui lui non ‘pascolava’. Mi rispose che
accadeva quando mangiava veramente tanto a cena e non
riusciva più a inghiottire un solo boccone prima di andare a
dormire. Ci facemmo una grossa risata. Probabilmente, concordammo, quella non era una soluzione che avrebbe dovuto usare spesso. Venne fuori che l’unica altra occasione in cui
Fred non ‘pascolava’ era rappresentata dalle serate (una volta
al mese) in cui andava in chiesa per delle attività dove non
veniva servito del cibo. Dopo, Fred tornava a casa sentendosi pieno spiritualmente e non aveva bisogno di riempirsi lo
stomaco. Sfortunatamente, tutte le altre attività nella chiesa
104
che Fred frequentava prevedevano il consumo di cibo, e Fred
non era abbastanza ecumenico da frequentare altre chiese
che avrebbero potuto avere attività senza cibo.
A questo punto feci a Fred la mia domanda da centomila
dollari: “C’è stata mai una volta in cui non ti sei riempito
a cena e non sei andato a uno dei meeting senza cibo
della tua chiesa, e nonostante questo tu non hai pascolato?”. Fred riconobbe che in rare occasioni questo era successo. “Cosa c’era di diverso in quelle rare volte?” gli
chiesi: “Credo che fosse qualcosa che avevo promesso a
me stesso”. Questa risposta, che ciò che diciamo a noi
stessi (le nostre convinzioni e atteggiamenti) guida il
nostro comportamento è qualcosa che ho sentito da tutte
le persone con cui ho parlato, una volta che ognuno di
loro si era preso il tempo per riconoscerla. Fred continuò
e mi disse ciò che diceva a se stesso quando pascolava,
vale a dire quasi ogni sera. Fred capì che era sempre una
di queste tre cose: “Ho avuto una giornata dura, me lo
merito”; la seconda era, dopo il secondo spuntino della
sera: “Mi sono già riempito stasera, questo che mangio in
più tanto non fa differenza”. Infine, la moglie di Fred,
Alice, che si riteneva un membro della ‘polizia anti-diabete’, riteneva che il suo compito fosse tenere più cibo possibile lontano dalla bocca di Fred. Naturalmente Fred
resisteva agli sforzi di Alice e il terzo pensiero era:
“Nessuno deve dirmi cosa devo mangiare”, e questo
dava il via per ‘pascolare’.
Cosa si diceva Fred nelle rare occasioni in cui non ‘pascolava’? Da alcuni mesi Fred era diventato nonno e di tanto
in tanto, da allora, diceva a se stesso: “Voglio esserci
quando questo ragazzo prenderà la maturità”. Questo
sembrava contrastare il suo desiderio di ‘pascolare’.
A questo punto, chiesi a Fred cosa ne pensava di ciò che
mi aveva appena detto. Fred, un’anima onesta, rispose:
“Be’, è interessante scoprire che ciò che dico a me stesso
influenza il mio comportamento, ma sembra che la mag-
105
gior parte delle volte io dica cose negative e di conseguenza faccia cose negative”. Fred aveva ragione riguardo a quello che faceva, ma, osservai, nessuno è nato
imparato. Pensare cose che aiutano a prendersi cura di sé
è un’abilità, e come tutte le abilità, richiede pratica.
E Fred si esercitò davvero. Mise foto del nipote sul frigorifero, e nelle settimane successive mise foto sulla credenza della
cucina, sullo specchio del bagno, sulla porta d’ingresso, e
perfino sulla testata del letto. Con tutti questi promemoria
Fred scese da un ‘pascolo’ a sera a uno ogni due sere. Un
grosso passo avanti, ma non ancora perfetto. E tuttavia,
come mi disse una volta un uomo molto saggio che aveva il
diabete da sessant’anni: “Quando si tratta di diabete, cerca
di essere buono, non cercare di essere perfetto. La perfezione dura un attimo, il diabete tutta la vita”.
Richard R. Rubin, Psicologo
Baltimore, Maryland,USA
“
Le chiacchiere non cucinano il riso.
Contratti e ricompense
Proverbio cinese
“
Incoraggiamo i nostri pazienti anche a scrivere i loro obiettivi
e il loro programma, e a un impegno, anche solo verbale, a
seguirli. Spostare la discussione dall’astratto al concreto – da
un’idea generale di fare esercizio fisico a un programma che
definisce tempo, luogo, tipo e intensità di esercizio – aumenta la probabilità che i pazienti siano in grado di portare avanti il loro programma.
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI
A ESAMINARE LE MOTIVAZIONI
Questo vi sembra una cosa che potete fare?
Siete sicuri che è qualcosa che volete veramente fare?
Siete motivati per portare avanti questo programma?
106
Chiediamo ai nostri pazienti di considerare la possibilità di
mettere una ricompensa o un rinforzo nei loro programmi
perché questo aumenta la probabilità che il cambiamento di
comportamento si verifichi. Il rinforzo facilita il cambiamento
di comportamento. Molti pazienti sono riluttanti all’idea delle
ricompense perché pensano sia una cosa infantile. A volte
suggeriamo di provare una gamma di ricompense per vedere quale, se c’è, si dimostra utile.
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI
A SCEGLIERE UNA RICOMPENSA
Cosa farete per festeggiare o ricompensare voi stessi
per aver fatto questo cambiamento?
Qual è una cosa simpatica che potreste fare per voi stessi
dopo ogni cambiamento di comportamento?
Controllate il vostro calendario
Troviamo che sia utile per i pazienti fissare una cornice temporale ai loro programmi. Chiediamo loro di identificare
quanto spesso, quando e per quanto a lungo essi useranno
una particolare strategia. Per esempio, un paziente può scegliere di camminare a piedi per due isolati dopo cena tre
volte alla settimana per due settimane, e poi passare a tre
isolati tre volte alla settimana. Pensate alle vostre esperienze
di lavoro con le tecniche di problem-solving e di goal-setting.
1) Ci sono delle ragioni per cui voi non volete risolvere il
vostro problema?
2) Cercate l’aiuto di qualcun altro nei vostri tentativi di risolvere il vostro problema? Vi aiuta? Perché e perché no?
3) Come identificate le strategie comportamentali?
4) Avete tentato strategie differenti per risolvere il vostro
problema?
5) Come avete scelto la prima da provare?
6) Cosa avete imparato che vi può aiutare nel vostro lavoro con i pazienti?
107
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI
A IDENTIFICARE UN PIANO
Che idee avete sulle strategie che potrebbero funzionare?
Cosa avete provato in passato?
Perché secondo voi non ha funzionato?
Quali sono alcuni dei passi che secondo
voi vi avvicinerebbero al punto dove volete arrivare?
Di cosa avete bisogno per cominciare?
C’è anche una sola cosa che potete fare usciti di qui
per migliorare le cose per voi stessi?
“
Alcuni dei più grandi insuccessi
del mondo sono stati realizzati
da persone non abbastanza intelligenti
da capire che erano cose impossibili.
Doug Larson
Domande per riflettere
“
1) Come vi sentite nell’identificare gli obiettivi di comportamento ‘insieme a’ piuttosto che ‘al posto dei’ pazienti?
2) Quali sono alcuni dei vantaggi e degli svantaggi dell’incoraggiare i pazienti a sviluppare possibili soluzioni
ai problemi?
3) Quanto vi sentite capaci di identificare soluzioni e fare
programmi per singoli pazienti? E per gruppi di pazienti?
4) Quali ostacoli anticipate nel fissare obiettivi di comportamento con i pazienti?
5) Quali strategie usereste per superare questi ostacoli?
108
CAPITOLO 12
Funziona?
“
Quanto più rapidamente farete i vostri
primi cinquemila errori, tanto prima
sarete capaci di correggerli.
Nicolaides
in The Natural way to Draw
“
La valutazione è sia l’inizio che la fine del processo di
cambiamento. All’inizio di questa sezione abbiamo parlato dell’identificazione dei problemi come di un modo per
esplorare la situazione. Una volta che abbiamo aiutato i
pazienti a identificare un obiettivo e a formulare un programma, il nostro compito è di aiutarli a monitorare e
valutare l’efficacia delle strategie scelte. Il feedback che i
pazienti ricevono dalla valutazione dei progressi permette loro di scoprire e mantenere comportamenti efficaci e
di rivedere quelli che non lo sono. I pazienti possono
usare le informazioni che ottengono dal processo di valutazione per riscrivere la loro storia.
Incoraggiamo i pazienti a considerare il loro programma
di cambiamento come una serie di esperimenti.
Suggeriamo loro di considerarsi come degli scienziati che
stanno conducendo degli esperimenti sull’autogestione
del diabete per identificare le strategie e le tecniche che
sono, o che non sono, adatte a loro. Gli esperimenti che
apparentemente non funzionano sono altrettanto utili di
109
quelli che funzionano, perché in entrambi i casi si può
imparare qualcosa. Qualcosa che può essere applicato
agli esperimenti futuri. Siamo convinti che questo approccio sia più positivo di quello tradizionale.
“
Una serie di fallimenti può culminare
nel miglior risultato possibile.
Il racconto di Betty
Gisela Richter
“
Paul aveva sette anni quando si manifestò il diabete di tipo
1. A quarantasette anni venne inviato al Centro diabetologico dal suo endocrinologo per ‘istruzioni sulla dieta’ a
causa del peggioramento del suo controllo glicemico. La
sua emoglobina glicata era salita dal 7,3% al 9,6% nell’ultimo anno. Alla prima visita chiesi a Paul se stesse incontrando delle difficoltà col suo diabete sulle quali desiderasse lavorare. Mi rispose che da un po’ di tempo aveva
delle ipoglicemie, quasi tutti i giorni, seguite da picchi
iperglicemici molto elevati. Aveva anche messo su un bel
po’ di chili nell’ultimo anno perché, nel tentativo di prevenire le ipoglicemie, mangiava e beveva continuamente.
Paul aveva il sospetto che questi problemi fossero dovuti a
una forma di gastropatia diabetica e aveva posto la questione al suo medico sin dall’inizio. Il medico aveva risposto
che era probabile, dato che aveva il diabete da molti anni.
Paul aveva chiesto se poteva essere una buona idea spostare l’insulina da prima a dopo i pasti perché era probabile che lui non assorbisse immediatamente il cibo. Il dottore disse: “Assolutamente no. Devi prendere l’insulina con il
primo boccone. Continua a mangiare. Sei comunque sottopeso”. Paul seguì le istruzioni del suo medico diligentemente. Aumentò di quattordici chili in un anno. Comprò
anche delle compresse masticabili di glucosio.
Chiesi a Paul di dirmi quale impatto aveva avuto tutto questo
sulla sua vita. Mi rispose che aveva cambiato l’orario dei pasti
110
in maniera da non dover guidare subito dopo mangiato.
Divorziato, Paul aveva anche smesso di corteggiare le donne
perché era imbarazzato dal fatto di mangiare e fare la glicemia in continuazione davanti a persone che non conosceva
ancora. Si sentiva depresso dal fatto di essere ingrassato e
frustrato dal fatto di non riuscire a fare esercizio per ridurre il
peso. “È una vita da schifo” concluse.
Gli chiesi allora cosa sarebbe dovuto accadere perché il
suo diabete non fosse più un problema così grave per lui.
Mi disse che se fosse riuscito a evitare le ipoglicemie la
sua vita sarebbe tornata a posto. Passammo in rassegna il
suo diario con i valori delle glicemie e gli feci delle
domande sulla composizione dei pasti che aveva consumato negli ultimi due giorni. I suoi dati erano quelli di un
paziente con una considerevole abilità ad adattare le dosi
di insulina alle porzioni dei pasti attraverso il conteggio
delle calorie da carboidrati. Ripassammo anche le sue
conoscenze sui tempi delle insuline e io risposi a un paio
di domande sul ritardato svuotamento dello stomaco.
Descrissi anche le opzioni terapeutiche a disposizione per
la gastropatia diabetica, compresi i farmaci gastrocinetici,
la sostituzione con cibi liquidi o semiliquidi e l’accurato
dosaggio e tempistica delle insuline.
“Paul, mi sembra che le dosi di insulina che stai prendendo vadano bene, ma ci sono buone probabilità che l’equilibrio glicemico sia danneggiato dal ritardato svuotamento gastrico. L’unico modo per evitare le ipoglicemie è
correggere i tempi di somministrazione delle insuline.
Degli approcci che abbiamo discusso insieme, quale
secondo te potrebbe funzionare?”.
“Credo che dovrei prendere la mia dose di insulina ultrarapida più tardi, quando effettivamente sto assorbendo il
cibo” rispose Paul.
“Credo anch’io. E tu sentivi sin dall’inizio che questa era
la cosa da fare, vero? Cosa ti ha impedito di provare da te
per vedere se funzionava?”
111
“Il mio dottore, mi ha detto di non farlo.”
“Cosa poteva succederti di grave se avessi tentato ugualmente?”
“Avrebbe potuto dirmi: ‘Se non fai quello che ti dico cercati un altro dottore’. Me l’aveva già detto un’altra volta.”
“E questo sarebbe stato un problema per te?”
“Sì. Lui è l’unico endocrinologo convenzionato con la mia
assicurazione sanitaria. Ci conosciamo da tanto tempo.
Fondamentalmente è una brava persona. Mi tiene sotto
controllo i reni e si assicura che faccia regorlamente la
visita oculistica. Ma non mi ascolta su questa storia dell’insulina.”
“Cosa pensi che potrebbe dirti se tu fai la prova e funziona, se tu gli porti i dati del miglioramento della glicemia?”.
“Be’, se funziona davvero, sarà felice probabilmente.
Ma... se non funziona? Cosa faccio?”
“Smetti. È assolutamente sensato fare una prova. Se funziona, be’, è un terno al lotto, se non funziona cercheremo
delle altre soluzioni. Vuoi tentare?”
Paul decise di provare. Gli diedi delle istruzioni dettagliate su come misurare la glicemia dopo i pasti più volte e
prendere la sua insulina solo quando il glucosio cominciava a salire. Il primo giorno vide che la glicemia non saliva
prima di due ore dopo la colazione. Prese l’insulina alle 10
e non ebbe ipoglicemie. Il suo controllo e le sue ipoglicemie sono ora molto migliorate, benché non sia tornato ad
avere gli stessi valori che aveva prima della gastropatia.
Paul continua a imparare attraverso le misurazioni della
glicemia il modo migliore per combinare al meglio l’azione dell’insulina con i differenti pasti della giornata.
Betty Brackenridge, Dietista
Phoenix, Arizona, USA
112
Molti pensano che gli obiettivi comportamentali debbano
essere fissati alla fine del processo di educazione. Ma dal
punto di vista dell’empowerment l’apprendimento viene
anche dopo l’identificazione degli obiettivi. Il cambiamento dei comportamenti è un processo continuo che
comprende l’esplorazione del problema, la definizione
degli obiettivi, la pratica delle strategie per raggiungerli,
la riflessione sulle esperienze fatte e l’apprendimento di
qualcosa di nuovo. È un processo in continuo sviluppo,
come del resto vivere con il diabete.
Le persone non vedono il cambiamento di comportamento come un’opportunità per imparare qualcosa su se stessi. Di solito la loro attenzione è focalizzata sul binomio
successo-fallimento. Ma c’è molto di più, a saper guardare. Cosa avete imparato quando avete cercato di mettere
in pratica questo cambiamento di comportamento? Avete
guadagnato in introspezione?
“
Non possiamo dirigere il vento,
ma possiamo aggiustare le vele
nella giusta direzione.
Proverbio
“
Per aiutare i pazienti a vedere il cambiamento come una
serie di esperimenti abbiamo visto che fare delle domande durante le visite di controllo li aiuta a imparare dalle
loro stesse esperienze. Molte delle domande che facciamo sono le stesse, a prescindere dal fatto che il tentativo
del paziente sia riuscito o meno.
“
Non guardare dove sei finito
cadendo, ma dove sei scivolato.
Proverbio africano
“
113
DOMANDE PER AIUTARE I PAZIENTI
A RIFLETTERE SUGLI ESPERIMENTI
DI CAMBIAMENTO COMPORTAMENTALE
Cosa avete imparato dopo aver fissato i vostri obiettivi?
E cosa dopo aver cercato di raggiungere quegli obiettivi?
Cosa fareste in modo diverso la prossima volta?
Cosa fareste allo stesso modo?
Quali sono gli ostacoli che avete incontrato?
Avete qualche idea su come superarli?
Siete riusciti a fare di più o meno di quello che avevate
previsto? Perché?
Pensate che il problema stia negli obiettivi a lungo
termine o nelle strategie per raggiungerli?
C’è ancora un’area su cui volete lavorare?
Cosa avete imparato su voi stessi dopo questo
esperimento?
Cosa avete imparato sul tipo di sostegno che già avete,
o desiderate o di cui avete bisogno?
Cosa avete imparato sul modo con cui vivete
emotivamente questo problema o tutto questo tipo
di comportamenti?
Cosa avete imparato su quanto tutto questo
è importante per voi e come lo valutate?
Pensate alle vostre esperienze
1) Avete provato qualche strategia che funziona meglio di
altre?
2) Perché funzionano le strategie efficaci?
3) Siete in grado di usare quanto avete appreso dalle
vostre strategie, efficaci e inefficaci, per creare un
nuovo piano?
4) Cosa avete imparato su voi stessi?
5) Cosa avete imparato che possa aiutarvi nel vostro lavoro con i pazienti?
114
Domande per riflettere
1) Qual è la vostra reazione verso i pazienti che hanno
‘successo’?
2) E verso quelli che ‘falliscono’?
3) Come vi sentite nel ruolo di erogatori di sostegno psicologico ai pazienti?
4) A che punto del processo di educazione al diabete
introducete l’identificazione degli obiettivi?
5) Quanto vi sentite a vostro agio nell’aiutare i pazienti a
imparare dalle loro esperienze sulla definizione degli
obiettivi?
115
PARTE 4
Mettere in pratica
l’empowerment
I saggi di quest’ultima parte del libro riguardano il futuro,
in particolare il vostro futuro. Se siete arrivati fino a questo punto del libro vuol dire che avete dedicato parte del
vostro tempo a pensare, e magari discutere, la vostra filosofia di educazione al diabete. In questa sezione vi incoraggiamo a riflettere su come la vostra prospettiva, la
vostra visione, stia orientando il vostro modo di lavorare.
Siete invitati a riflettere sui modi in cui la vostra prospettiva può essere incorporata nelle vostra pratica e come
essa sia collegata alla definizione di voi stessi come diabetes educator o come terapeuta.
117
CAPITOLO 13
Avere successo
Qual è il migliore indicatore di risultato per l’educazione al
diabete? Come stabilite se il vostro lavoro con un paziente ha avuto successo o no? A molti di noi è stato insegnato che il successo è rappresentato dai risultati che i nostri
pazienti raggiungono. Avete mai sentito qualcuno, medico
o educator, fare una di queste affermazioni: “Ho portato a
7 l’emoglobina glicata della Signora Bianchi”; “Tutti i miei
pazienti seguono la dieta”; “Sono capace di motivare
chiunque a cambiare abitudini e stili di vita”.
Se i risultati non sono brillanti, d’altro canto, è fin troppo
facile biasimare i pazienti: “Ho fatto del mio meglio, ma lui
si rifiuta di curarsi a dovere”; “Mi prende in giro”;
“Semplicemente, non è pronta per cambiare stile di vita”.
Definire il nostro successo attraverso i nostri pazienti può far
sì che noi ci prendiamo il merito di quanto loro hanno fatto,
quando va bene, e diamo a loro la colpa, quando va male.
“
Quando la gente esce per andare a lavorare,
non dovrebbe essere costretta a lasciare
il proprio cuore a casa.
Betty Bender
“
Come diabetes educator noi tendiamo a giudicare noi
stessi, o i colleghi, sulla base del comportamento dei
pazienti, e questo in parte è dovuto al fatto che l’educazione al diabete è nata all’interno del modello tradiziona-
119
le di cura, quello per le malattie acute. L’educazione al
diabete – e quindi i diabetes educator – è vista come efficace solo quando i pazienti hanno successo, vale a dire
quando raggiungono l’equilibrio metabolico. Poiché ci si
aspetta da noi il raggiungimento di obiettivi che sono in
genere basati sui valori metabolici dei pazienti, valutiamo
i pazienti, e perfino i nostri colleghi con il diabete, sulla
base dei loro valori di emoglobina glicata.
Un altro fattore nell’equazione ‘X=successo’ è il fatto che
negli ultimi tempi noi siamo stati sottoposti alla pressione
di molti fattori esterni. Lavoriamo in strutture nelle quali
c’è una crescente pressione a produrre di più utilizzando
meno risorse. Ci viene richiesto di formare più pazienti in
minor tempo, di provare che il nostro lavoro conduce a
miglioramenti misurabili in termini di risultati di salute.
Viviamo tempi in cui l’assistenza sanitaria assomiglia sempre di più a un’industria. Molti di noi sono scoraggiati dal
modo in cui queste pressioni riducono le opportunità di
avere rapporti umanamente appaganti con i pazienti e
diminuiscono il piacere di lavorare.
“
Smettere di credere nella magia
può indurre un’anima semplice
a credere nel governo e nel business.
Tom Robbins
“
I diabetes educators sono sempre più spinti a documentare risultati che dimostrino l’efficacia dell’educazione al diabete. Le compagnie di assicurazione e i pazienti hanno
tutto il diritto di chiederci questo tipo di informazioni, che
possono anche essere un utile feedback del nostro lavoro,
ma bisogna tenere presente che il controllo metabolico
non è l’unico criterio di valutazione. Quando valutiamo i
nostri risultati solo sulla base dei valori glicemici ci allontaniamo da un approccio centrato sul paziente per spostarci
verso un approccio centrato su di noi e sulla nostra capaci-
120
tà di cambiare i pazienti. E poi, se ci prendiamo il merito
dei risultati positivi ottenuti dal paziente, allora dobbiamo
anche prenderci la responsabilità dei risultati negativi. In
ogni caso assumerci meriti o colpe per i risultati di autocontrollo dei nostri pazienti nega i loro sforzi e la realtà
concreta e quotidiana del diabete. Sentirci responsabili o
giudicati per qualcosa che non controlliamo può condurci
a frustrazione ed esaurimento.
Definire il successo
Come possiamo, allora, definire il successo in un’ottica di
empowerment? Una possibilità è esaminare la relazione
che siamo stati capaci di costruire con il paziente e come il
paziente stesso percepisce l’utilità delle nostre interazioni
con lui nelle decisioni da prendere tutti i giorni riguardo al
diabete. Questi criteri si sono dimostrati utili a prescindere
dallo scopo degli incontri, prime visite o visite di controllo,
visite una tantum o parti di un lungo ciclo di sedute. In ultima analisi, possiamo valutare la nostra efficacia come educator in base a quanto i nostri pazienti diventano abili nel
fissare e raggiungere i loro obiettivi di salute.
“
La vera gioia può essere raggiunta
solo se le persone vedono la propria vita
come dedicata a qualcuno o qualcosa
diversi da se stessi e dalla propria
personale felicità.
Lev Tolstoj
“
Le persone con il diabete, in genere, vogliono vivere sane e
prevenire le complicanze della malattia. Vogliono che la loro
storia finisca bene. Ma se i pazienti fanno dei cambiamenti
solo per compiacerci, quei cambiamenti hanno poca probabilità di durare. Sono cambiamenti che durano, tipicamente,
solo finché noi siamo lì a rinforzarli. Quando aiutiamo i
pazienti a sviluppare le capacità di soluzione dei problemi, a
121
confrontarsi con le emozioni e i sentimenti che gli impediscono di raggiungere i loro obiettivi, gettiamo le fondamenta di cambiamenti durevoli, perché la motivazione e il rinforzo vengono da loro stessi. La nostra esperienza ci dice che
questo tipo di cambiamenti quasi sempre si associa a un
miglioramento del controllo metabolico. Quando il cambiamento è indotto dalla pressione esterna, il controllo metabolico può anche migliorare inizialmente, ma difficilmente dura
nel tempo. I pazienti che imparano ad assumersi la responsabilità del proprio trattamento fanno cambiamenti duraturi
perché hanno imparato che il diabete li riguarda da vicino.
Abbiamo anche imparato a usare le nostre esperienze con
i pazienti come guida per capire se stiamo facendo bene,
se ci stiamo muovendo nella giusta direzione. Alla fine di
una visita, sia noi che il paziente sappiamo come è andata quella visita. C’è stato scambio, interazione? Il paziente porta a casa qualcosa di valido? Se vogliamo un feedback possiamo dare ai pazienti dei brevi questionari, per
documentare le loro esperienze.
“
Un professionista è una persona
in grado di fare del suo meglio
anche quando non è nelle migliori
condizioni per farlo.
Alistair Cooke
“
Questa è l’arte dell’educazione del paziente al diabete; il
massimo della concentrazione sul paziente e sulla interazione con lui mentre questa è in corso. Possiamo anche
fermarci durante una visita se avvertiamo la sensazione
che qualcosa non va e chiedere al paziente cosa sta provando. Per esempio: “Signora Bruni, ho forse detto qualcosa che l’ha scoraggiata o confusa?” oppure: “Ho l’impressione di non essere riuscito a metterla a suo agio;
cosa posso fare?”. Abbiamo imparato a fidarci delle
nostre sensazioni e impressioni per avere un feedback
122
sulla nostra efficacia. Questo processo di valutazione (e
formazione) è ideato per guidare e rafforzare la nostra
pratica. Ma è anche un buon predittore di risultato del
processo di formazione. Quando in cima alle nostre priorità noi mettiamo l’essere al servizio dei nostri pazienti,
anche i valori metabolici, i risultati misurabili, migliorano.
L’esperienza ci ha insegnato che la cosa giusta e quella
intelligente sono la stessa cosa.
POSSIBILI DOMANDE DI VALUTAZIONE
DA USARE CON I PAZIENTI
Dopo una prima visita:
1) È stata diversa da altre visite che avete fatto?
2) Cosa vi aspettavate o volevate?
3) Cosa avreste voluto che andasse in un altro modo?
Un’altra possibilità è chiedere al paziente all’inizio
dell’incontro di stabilire obiettivi o aspettative e poi,
a incontro concluso, chiedere se questi erano stati
raggiunti o realizzati durante la visita. Per esempio:
1) Cosa volete fare oggi?
2) Quali questioni vorreste fossero discusse?
3) Avete qualche domanda da fare, qualcosa
che vi preoccupa e di cui vorreste parlare?
Alla fine di un ciclo di incontri potreste domandare:
1) Siete riusciti a portare a termine quello che volevate?
2) Avete raggiunto i vostri obiettivi?
3) Avete altre domande da porre?
4) Vorreste che la prossima volta si faccia diversamente?
Questa strategia è applicabile anche ai gruppi quando
si chiede all’inizio di fissare degli obiettivi
che poi verranno rivalutati alla fine del ciclo.
123
Domande per riflettere
1) Come decidete se avete o non avete avuto successo in
un singolo incontro con il paziente?
2) E come fate a valutare il successo di un intero programma di formazione?
3) E nel vostro lavoro? Nella vostra carriera?
4) Quanto influenzano la vostra prospettiva e la vostra
pratica professionale i criteri che usate per valutare successo e insuccesso?
124
CAPITOLO 14
Strumenti per riflettere
“
La vera professione di uomo è cercare
la strada che conduce a se stesso.
Hermann Hesse
“
Ci siamo resi conto che un modo molto efficace per
migliorare le nostre abilità di diabetes educator è registrare le sedute con i pazienti e riascoltarle in seguito per
rifletterci sopra (questo ovviamente richiede il consenso
dei pazienti). Gestite l’incontro il più naturalmente possibile, cercando di dimenticare il microfono. Potreste trovare utile registrare una serie di incontri a mano a mano che
fate esperienza con l’approccio empowerment.
Una volta eseguita la registrazione, ascoltatela ponendo
attenzione più alla vostra parte che a quella del paziente.
Date un voto a ognuna delle vostre risposte al paziente
usando la tabella riprodotta più avanti. Sommate e fate la
media, questo vi darà un voto complessivo che potrete
usare per stimare approssimativamente l’efficacia delle
vostre capacità di interazione con il paziente ogni volta
che registrate un nastro. In questo modo potrete rendervi conto dei progressi che state compiendo. La tabella
riassume i giudizi che verranno spiegati più avanti e dà a
ognuno di essi un valore numerico.
125
+2 Siete concentrati sulle emozioni
o sugli obiettivi del paziente.
+1 State esplorando il problema.
0 Di tutto un po’.
-1 State cercando di risolvere
il problema al posto del paziente.
-2 State giudicando il paziente.
Dopo aver dato un voto alle vostre reazioni cercate di
ricordarvi come vi sentivate durante il colloquio, cosa stavate provando mentre il vostro comportamento stava rendendo più facile o più difficile l’interazione, e come potreste fare diversamente la prossima volta. Usate il vostro
diario per annotare pensieri, emozioni, riflessioni sulla
vostra esperienza.
Criteri per dare un voto
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (+2)
Le frasi +2 rientrano in due grosse categorie. La prima è
quella delle emozioni. Tutte le volte che iniziate a
esplorare le emozioni di un paziente o fate in modo che
queste vengano espresse date un voto +2. Anche quando
riuscite a fare in modo che il paziente esprima ciò che
vuole e come pensa di arrivarci questo è un +2. Tutte le
volte che siete sintonizzati sugli obiettivi o sulle emozioni
del paziente è un +2.
Attenzione alle emozioni del paziente. Domande del tipo:
“Siete arrabbiato? State male pensando a questo? Cosa
provate riflettendo su questo? Riuscite a dirmelo?”
Sollecitando il paziente a trovare la sua motivazione.
“Cosa avete intenzione di fare? Cosa state per fare? Vi
sentite pronto a cambiare?”.
Sollecitando il paziente a trovare opzioni possibili e obiettivi.
“Qual è il compito che vi volete dare? Vorreste che le
126
cose fossero differenti e in che modo? Cosa vi aspettate
da questa situazione? Quali sono le vostre scelte? E quali
le conseguenze?”.
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (+1)
Le frasi che meritano un voto +1 sono quelle che aiutano
il paziente a esplorare le dimensioni cognitive-comportamentali del problema che lui ha indicato (senza che voi lo
abbiate in qualche maniera suggerito o involontariamente imposto). In altri termini, costituiscono tutto quello che
fate per cercare di vedere il problema dal punto di vista
del paziente.
Domande per esplorare.
Chiedere informazioni sul problema che il paziente ha introdotto. Per esempio: “Ditemi qualcosa di più su questo.
Perché è un problema per voi? Potete farmi degli esempi?”.
Chiarire il significato del problema del paziente.
Domande che indicano un certo grado di riflessione sull’argomento, come: “Questo per voi costituisce un problema
perché vostro marito vuole un dolce per dessert tutte le sere?
oppure: “Cosa significa questo esattamente per voi?” o frasi
di commento come: “Questo è un bel fastidio” oppure:
“Certo, questo vi ha spaventato!”.
Che tipo di persona è il paziente.
“Che impatto ha il diabete sulla vostra vita? Su di voi in
particolare, sulle vostre abitudini, sul vostro carattere?”.
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (0)
Il voto 0 viene dato a tutte le frasi che non rientrano nelle
altre categorie oppure a quelle neutre dal punto di vista
del modello del counseling. È importante tenere presente che le frasi ‘0’ sono spesso appropriate, specie quelle
di argomento strettamente medico. Sono valutate ‘0’ solo
perché nel modello che usiamo hanno un valore neutro,
non perché l’interazione sia inappropriata.
Domande e risposte di tipo tecnico.
127
Raccogliere semplici dati del tipo: “Da quanto tempo
avete il diabete? Da quanto prendete l’insulina?”.
Rispondere a specifiche domande del paziente del tipo:
“Che differenza c’è tra insulina standard e quella NPH?”.
oppure: “Quando iniziano i corsi di educazione al diabete?”
oppure: “È possibile che abbia preso il diabete dai miei
genitori?”. Tutte queste domande o risposte hanno voto 0.
Altro. Tutto quello che non rientra nelle altre categorie.
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (-1)
Date un voto -1 tutte le volte che risolvete un problema al
posto del paziente anziché insieme a lui. Facendo così ribadite la vostra superiorità, in termini di conoscenze e di abilità, il che implica, indirettamente, che il paziente non è capace di risolvere da solo il suo problema.
Consiglio.
Un consiglio non richiesto come “Un modo migliore per
affrontare la questione sarebbe...” oppure: “Perché non
provate a fare in questo modo?”.
Soluzione di problema.
Offrire di risolvere voi il problema per il paziente senza che
questo vi sia stato richiesto, come: “Credo che dovreste
parlarne con vostra moglie” oppure: “Potrei telefonare io
al vostro datore di lavoro e parlargli della vostra malattia”.
Frasi o atteggiamenti che meritano il voto (-2)
Una frase -2 introduce sempre un elemento morale o perlomeno di giudizio nell’interazione. In altri parole, state definendo ‘giusto’ o ‘sbagliato’, ciò che il paziente pensa, prova,
crede o ciò che fa.
La questione cruciale è se questo modo di fare lo incoraggia
e sostiene oppure se state applicando le vostre idee e il
vostro sistema di valori al paziente e alla sua vita.
Biasimare il paziente.
Tutte le frasi che esprimono biasimo o approvazione
come: “Questa non è certo la cosa giusta da fare” oppu-
128
re domande del tipo: “Pensate veramente che questa sia
la cosa giusta da fare nel vostro caso?”.
Le frasi -2 possono anche essere di approvazione come:
“Ottimo, mi fa piacere sapere che avete fato esercizio la
settimana scorsa” oppure: “Complimenti, avete seguito
la dieta questa settimana”. È importante distinguere
quando voi state partecipando alle emozioni o ai sentimenti del paziente, rispetto a quando state dando un giudizio sul paziente. Se il paziente dicesse: “Sono così contento, sono riuscito a seguire il mio programma dietetico
la scorsa settimana” certamente potreste dire: “Ottimo,
sono contento di sentirvi soddisfatto dei vostri risultati”
perché state rispondendo a una espressione di soddisfazione personale del paziente. Ma se il paziente dice la
stessa cosa come un dato di fatto: “Ho seguito (o non ho
seguito) il mio programma dietetico la scorsa settimana”
e voi chiaramente comunicate, a parole o con l’espressione del viso, la vostra approvazione-disapprovazione è
senza dubbio un -2.
Perdonare il paziente.
“Nessuno riesce a stare a dieta in vacanza” oppure: “Non
è colpa vostra, non potete certo aiutarvi da solo”.
Svalutare il paziente.
Svalutare le emozioni del paziente con frasi del tipo: “Oh
non state a sentirvi in colpa per questo, non dovete rimanerci male” oppure: “Non è il caso che vi sentiate in questo modo” o: “Le cose non vanno poi così male”.
Svalutare il punto di vista del paziente dicendo “Non è
certo questo il modo migliore per guardare alla vostra
situazione” o anche solo dare informazioni non richieste
come: “Anche quelli che fanno tutto bene poi possono
avere delle complicanze”.
Altri approcci per riflettere su ciò che si fa
Ci sono altri modi per lavorare in modo riflessivo.
Scegliete un metodo che si adatti alla vostra particolare
129
situazione e alle vostre preferenze. Per esempio, se dove
lavorate è possibile videoregistrare le sedute con i
pazienti vi renderete conto che questo può essere ancora
più efficace. Valuterete anche gli aspetti non verbali della
comunicazione come la postura, le espressioni del volto, i
gesti vostri e dei vostri pazienti.
Un altro metodo è chiedere a un collega di fiducia di
osservare le vostre interazioni con il paziente durante le
sedute e di discuterle con voi, se possibile, subito dopo, in
modo da avere un riscontro immediato. Potreste essere
sorpresi dal sapere quanti pazienti sono favorevoli alla
presenza di un osservatore esterno durante la visita. Se
usate questo metodo è essenziale che il vostro collega
rimanga rigorosamente in silenzio durante tutta la seduta
e che concentri tutta la sua attenzione (contatto visivo) su
di voi, in modo da evitare che il paziente sia portato inconsapevolmente a entrare in comunicazione con entrambi.
Nella revisione della seduta, crediamo sia importante
ribadire il concetto che l’osservatore non deve mai giudicare l’operato dell’educator. Per tutte le ragioni discusse
precedentemente, la revisione dovrebbe essere libera
dalla paura di essere criticati. L’osservatore può porre
delle domande, certo, ma è importante che siano finalizzate ad aiutare l’educator a riflettere criticamente sull’esperienza fatta. Nella tabella più avanti troverete alcuni
esempi di domande che un osservatore potrebbe fare.
Tutte queste tecniche possono essere usate nei corsi di educazione al diabete o nei gruppi di supporto. Avere un collega che partecipa da osservatore a un corso o a un gruppo è
raramente elemento di disturbo. In tutti i casi, comunque, è
importante limitare la partecipazione del collega al ruolo di
osservatore e non di partecipante o di conduttore associato.
Mischiare questi ruoli finisce per diminuire l’oggettività e la
chiarezza del feedback fornito dall’osservatore.
Inoltre, è fondamentale che il paziente abbia ben chiaro
che la registrazione o la presenza di un osservatore serve
130
POSSIBILI DOMANDE DELL’OSSERVATORE
Quali erano i tuoi obiettivi in questa seduta?
Quali parti della seduta vuoi esaminare?
Quale parte della seduta è andata meglio?
Che cosa andava bene in particolare?
Ricordi cosa stavi pensando in quel momento?
Ricordi se avevi delle emozioni particolari in quel momento?
Quale parte della seduta non è andata bene come speravi?
Cosa speravi che accadesse?
Che cosa è accaduto effettivamente?
Cosa stavi pensando in quel momento?
Avevi delle emozioni particolari in quel momento?
Cosa pensi che il paziente stesse pensando
e provando in quel momento?
Se potessi rifarla da capo, cosa cambieresti?
Di cosa ancora vuoi parlare?
Quale sarà il tuo obiettivo principale per la prossima
seduta?
a voi per migliorare come educator. Sottolineate il fatto
che le confidenze che il paziente vi farà saranno protette
e rispettate adeguatamente. Per rassicurare i pazienti si
possono fare diverse cose. Offrire loro la possibilità di
cancellare il nastro alla fine del trattamento o anche subito dopo la seduta. A volte la conversazione prende una
piega inaspettata per il paziente che si potrebbe sentire a
disagio sapendo che quanto detto verrà ascoltato di
nuovo o da altre persone oltre a voi. Inoltre, in genere
proteggiamo l’identità del paziente rivolgendoci sempre
a lui o lei con il nome e basta, oppure, evitando di nominare del tutto il paziente se la seduta viene registrata.
Nei corsi e nei gruppi è relativamente facile proteggere
l’anonimato dei pazienti perché la videocamera è fissa
sull’educator e i pazienti, se pure compaiono, sono ripresi solo di spalle.
131
Se nessuna di queste possibilità è a vostra disposizione, è
tuttavia ancora possibile impegnarsi in una pratica riflessiva
prendendo l’impegno di fare una breve revisione per punti
schematici di almeno una seduta al giorno o alla settimana.
Preparatevi una scheda breve da completare immediatamente dopo la seduta con il paziente o i pazienti.
La scheda che segue contiene delle domande secondo noi
utili per una pratica riflessiva. Potete modificarla aggiungendo o togliendo domande secondo le vostre esigenze.
“
Il miglior modo per predire il futuro
è inventarlo.
Alan Kay
“
A prescindere dal metodo usato per raccogliere dati
durante o dopo la seduta con un paziente, scegliere
prima un obiettivo aiuta sia voi che l’eventuale osservatore a concentrarvi su quegli elementi dell’interazione che
ritenete più importanti. Per esempio, nella relazione con
un paziente singolo potreste decidere di voler prestare la
massima attenzione alla componente emotiva del racconto e alla vostra capacità di verbalizzarla. Un obiettivo di
questo tipo facilita la revisione della seduta perché vi consente una migliore messa a fuoco della questione rispetto a una revisione a tutto campo. In una situazione di
gruppo, potreste avere come obiettivo quello di far entrare nella conversazione i soggetti più timidi e meno comunicativi e di arginare quelli più estroversi o logorroici. Se
avete un osservatore, è importante che conosca quale
obiettivo avete fissato. Lavorate sempre su un obiettivo
solo alla volta. Sia nel lavoro individuale che in quello di
gruppo, un solo obiettivo è sufficientemente impegnativo
e gratificante. Per gli obiettivi di processo, a differenza di
quelli di risultato, ‘di più’ non vuol dire ‘meglio’.
L’ostacolo maggiore per qualsiasi riflessione sulla pratica, a
prescindere dallo strumento usato, è la mancanza di tempo.
132
Come diabetes educator ci viene richiesto di fare di più in
minor tempo e con meno risorse. Ma riflettere su ciò che
si fa richiede tempo. Ci rendiamo conto delle pressioni a
cui sono sottoposti i diabetes educator ma crediamo che
una pratica riflessiva come quella descritta sia parte fondamentale e cruciale della crescita personale e professionale. Sacrificarla per fare più sedute, più pazienti, più
corsi, limita in modo significativo l’opportunità di crescere,
migliorare e, in ultima analisi, riduce l’efficacia del lavoro
fatto con i pazienti. Per questo crediamo che si debba fare
di tutto per trovare il tempo necessario a farla.
SCHEDA PER RIFLETTERE SULLA PRATICA
1) Come sono andato rispetto all’obiettivo
che mi ero prefissato?
2) Quanto sono soddisfatto, complessivamente, del modo
in cui mi sono comportato durante la seduta?
3) Quanto sarà stato soddisfatto il paziente?
4) Qual è stata la cosa più efficace che ho fatto?
5) Qual’è stata quella meno efficace?
6) Cosa farei differentemente se potessi tornare indietro?
Domande per riflettere
1) Quali sono le conseguenze di una pratica non riflessiva?
2) Quale potrebbe essere per voi il metodo più efficace e realistico per riflettere sulla pratica?
3) Quali colleghi potreste coinvolgere in questo tipo di attività?
4) Volete prendere l’impegno di usare uno dei metodi
descritti in questo capitolo, almeno una volta, per vedere
se hanno qualche valore per il vostro lavoro? Se sì, quale
usereste, dove e quando?
133
CAPITOLO 15
Educatori ‘potenziati’
“
Il destino è questione di scelte,
non di fatalità.
Qualcosa da realizzare,
non da attendere passivamente.
William Jennings Bryan
“
L’empowerment, per i pazienti come per i diabetes educator, è basato sui concetti di libertà e responsabilità. Nella
nostra esperienza libertà e responsabilità sono due facce
della stessa medaglia. Poiché siamo liberi di fare delle scelte, siamo anche responsabili delle conseguenze delle scelte che facciamo. Come detto precedentemente, importanti
sono le scelte dei pazienti, quelle che si fanno nel trattamento giorno per giorno del diabete, perché sono gli stessi pazienti che ne vivranno le conseguenze.
Questo vale anche per i diabetes educator. In tutte le
situazioni abbiamo vincoli e opportunità. Non abbiamo
scelto noi dove o quando nascere, oppure se nascere ricchi o poveri, uomini o donne. I pazienti con diabete non
hanno scelto di averlo. Buona parte di ciò che capita nella
nostra vita non è il risultato delle nostre scelte né è sotto
il nostro controllo. Pur tuttavia, in ogni situazione, non
importa quanto costretti da fattori esterni, ci sono sempre
delle cose che possiamo decidere, ci sono sempre delle
scelte che possiamo fare. La capacità di scegliere è uno
dei segni distintivi del genere umano. Le nostre scelte
135
sono importanti perché influenzano significativamente la
qualità della nostra vita.
La capacità di interpretare e rispondere individualmente a
ogni situazione è rappresentata in modo esemplare per noi
dalla storia di Ryan White. Ryan era un ragazzo dell’Indiana
che fu colpito dall’AIDS in seguito a trasfusioni di sangue.
Quando annunciò il suo desiderio di frequentare la scuola
nonostante avesse una malattia così grave, molte persone
nella sua città furono prese dal panico. Eravamo nei primi
anni dell’AIDS e l’opinione pubblica aveva a disposizione
pochissime informazioni attendibili sulla malattia. I genitori
di molti dei compagni di scuola di Ryan ebbero paura che i
loro bambini potessero rimanere contagiati anche dalla
semplice condivisione di un’aula scolastica con Ryan. Ciò
che accadde fu la dimostrazione di come gli esseri umani
possono reagire in preda alla paura e all’ignoranza. La famiglia di Ryan venne perseguitata a tal punto da essere
costretta a lasciare la città per spostarsi in un centro più piccolo dello stesso Stato. Fortunatamente, la gente di quel
posto aveva imparato qualcosa dall’esperienza che Ryan
aveva dovuto affrontare nella sua città natale. Gli esperti rassicurarono i genitori dei bambini, gli insegnanti e i funzionari scolastici che Ryan non costituiva alcun pericolo per la
salute degli altri bambini. Gli fu permesso di frequentare la
scuola, proseguì gli studi brillantemente e divenne uno dei
portavoce nazionali delle associazioni dei malati di AIDS. Ciò
che gli rimaneva della sua breve vita fu dedicato a insegnare agli altri cosa volesse dire avere l’AIDS e come fosse possibile liberare i fatti dalle paure e dalle superstizioni. Ai nostri
occhi egli ha vissuto ed è morto da eroe.
Quello che troviamo stupefacente in questa storia è che la
vita ha offerto a Ryan circostanze così drammatiche che egli
avrebbe potuto, non a torto, considerarsi una vittima.
Nessuno si sarebbe sorpreso se fosse diventato una persona
aspra e piena di rancore verso tutti quelli che avevano perseguitato lui e la sua famiglia. La vita gli aveva servito delle
136
carte veramente difficili da giocare. Eppure, egli fronteggiò
queste terribili circostanze e se ne servì per dare un contributo ad altre esistenze. È questa capacità che abbiamo di reagire alle circostanze, anche le più drammatiche, la fonte della
nostra libertà e della nostra responsabilità.
Spesso, dopo aver condotto seminari e corsi sull’empowerment, qualcuno solleva la questione della mancanza di
potere, ricorda tutti i vincoli a cui è sottoposto nella sua
pratica. Si preoccupa di non essere in grado di mettere in
pratica ciò che ha appreso e dice, per esempio: “So benissimo che quello che insegnate sarebbe di aiuto per i miei
pazienti, ma i miei capi non capiscono e non mi sosterranno nell’usare l’approccio empowerment”. Il corso è riuscito e ha aiutato questi educator a trovare le motivazioni
giuste per lavorare con i pazienti ma rimane la preoccupazione di tradurre tutto questo nella pratica quotidiana.
È difficile credere che qualcuno si aspetti da noi che facciamo cose che riteniamo non essere nel miglior interesse
dei nostri pazienti, o che qualcuno ci impedisca di fare i
cambiamenti che ci sembrano validi. A queste obiezioni
rispondiamo chiedendo ai partecipanti di identificare in
ogni situazione, anche la più vincolata, le scelte possibili.
Anche se abbiamo a disposizione una sola seduta di dieci
minuti con un paziente, possiamo fare in modo che il
paziente si renda conto che il diabete è una malattia veramente impegnativa da trattare e che noi cercheremo di
aiutarlo a impostare le questioni che gli stanno a cuore nel
breve tempo che abbiamo. È interessante notare che le
preoccupazioni che noi esprimiamo come educator non
sono poi così diverse da quelle dei nostri pazienti. “Sì,
voglio prendermi cura al meglio del mio diabete, ma...”. Il
‘ma’ è seguito dalla descrizione degli ostacoli che rendono difficile per quel paziente, nella sua situazione specifica, seguire il proprio piano di trattamento.
137
“
Siate assolutamente determinati
a trovare piacere in ciò che fate.
Gerry Sikorski
“
Concentrarsi sui vincoli, sugli ostacoli, su tutto ciò che
non possiamo fare, ci rende impotenti e ci fa sentire delle
vittime. Spostare l’attenzione su ciò che ‘possiamo’ fare ci
aiuta a vivere la nostra libertà e la nostra responsabilità. Il
che non vuol dire che possiamo fare o avere qualsiasi cosa
vogliamo. Significa, invece, che possiamo fare ‘qualcosa’,
non importa quanto drammatica sia la situazione in cui
siamo. Fare comunque qualcosa è la sintesi migliore di ciò
che crediamo debba essere un diabetes educator nella
prospettiva dell’empowerment. Tornando indietro con la
mente alla risposta di Madre Teresa di Calcutta citata nell’introduzione, è chiaro che se lei si fosse fatta distrarre
dall’enorme massa di problemi che le stavano davanti
probabilmente non avrebbe fatto nulla. Eppure, lei comprese che la sua responsabilità era di rimanere fedele alla
sua prospettiva e di agire conseguentemente.
È un fatto ineludibile della vita che tutti noi facciamo delle
scelte e che siamo responsabili delle loro conseguenze.
Così ognuno di noi impara e cresce. In questo sta la fonte
delle nostre risorse. Quando la nostra visione del mondo
arriva a comprendere questo fatto fondamentale, allora noi
usiamo in pieno queste risorse, siamo ‘empowered’.
Domande per riflettere
1) Che cosa vi impedisce di accettare sempre la responsabilità delle vostre scelte?
2) Quali sono i costi (e i benefici) di sentirsi controllati o
forzati a comportarsi in un certo modo?
3) Quali sono i costi (e i benefici) dell’accettare completamente la responsabilità del vostro comportamento?
138
Il vostro diario di empowerment
Il passato
Scrivete le vostre esperienze di cambiamento nel modo di
insegnare o di lavorare.
Il presente
Scrivete le vostre esperienze nell’uso di un modello integrato e basato sull’approccio empowerment nella pratica
clinica e nella formazione di pazienti e operatori.
139
Pubblicazioni nello spirito
dell’empowerment
Articoli su riviste
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146
RINGRAZIAMENTI
La nostra visione dell’empowerment è al centro delle
nostre vite, professionali e personali. Le attenzioni, l’affetto e gli insegnamenti che abbiamo ricevuto dalle nostre
famiglie hanno costituito le fondamenta di questa prospettiva e ci sostengono oggi nelle nostre vite e nel
nostro lavoro.
Noi abbiamo un debito importante verso i nostri colleghi
del Michigan Diabetes Research and Training Center
(MDRTC): Wayne Davis, Tom Fitzgerald, Mary Lou Gillard,
Doug Greene, George Hess, Red Hiss, Arno Kumagai,
Andrea Lasichak e Robin Nwankwo. È grazie alla loro collaborazione e al loro sostegno che siamo riusciti a sviluppare le nostre idee in questo campo di ricerca e didattica.
Lynn Arnold, Pat Barr, Mike Donnelly, Patricia Johnson,
Denise Taylor-Moon e Neil White – i rimanenti membri del
Comitato per la Didattica dell’MDRTC – hanno collaborato alla stesura del nostro primo articolo sull’empowerment dei pazienti. Quel lavoro è stato fondamentale perché ci ha aiutato a prendere qualcosa che avevamo ‘in
pancia’ e a trasformarlo in parole, in modo da poterlo
condividere con altri. Siamo loro riconoscenti per l’importante contributo a questo libro.
Abbiamo chiesto a Betty Brackenridge, Ginny Dittko,
Cheryl Hunt, Dick Robin e Terry Saunders di rivedere le
prime bozze del libro perché abbiamo la massima considerazione di ciò che essi hanno raggiunto nel campo
147
della educazione al diabete e della loro profonda conoscenza dell’empowerment. Il loro aiuto nell’organizzare e
articolare le nostre riflessioni e le nostre esperienze è
stato di incalcolabile valore.
Con Lynn Arnold, Pat Barr e Pat Butler abbiamo lavorato
alla ideazione, sviluppo e messa a punto iniziale del nostro
Programma di Formazione sull’Empowerment per diabetes
educator, mentre Cathy Feste ci ha sottoposto il suo programma di empowerment per pazienti affinché noi sviluppassimo strumenti di valutazione adeguati. Lavorare con
tutti loro è stata non solo una gioia, ma una tappa cruciale
per lo sviluppo della nostra filosofia dell’empowerment.
Non avremmo potuto sviluppare questa linea di ricerca,
né tantomeno scrivere questo libro, senza l’aiuto fraterno
di tanti nostri colleghi, molti dei quali hanno contribuito
raccontandoci esperienze e storie del loro lavoro.
Riscontro, sostegno e incoraggiamento veramente impagabili ci sono venuti da Kelly Acton, Barbara Anderson,
Gary Arsham, Susan Boehm, Florence Brown, Nugget
Burkhart, Anita Carlson, Denise Charron-Prochownik,
Claudia Chaufan, Margaret Christensen, Sue Cradock,
Lisa Engle, Kris Ernst, Russ Glasgow, Chelsey Goddard,
Linda Haas, Axel Hirsch, Joan Hoover, Hitoshi Ishii, Gail
Klawuhn, Katsushiko Kubo, Suzanne Lucas, Dave Marrero,
Harue Masaki, David McCulloch, Melba Mensch, Kentaro
Okazaki, Noreen Papatheodorou, Mirjana PibernicOkanovic, Tracy Parkin, Lynne Robins, Cathy Roby, Jill
Rodgers, Dawn Satterfield, Judith Schaefer, Nuha SalehStattin, Charles Skinner, Mike Sullivan, Kris Swenson,
Cheryl Tannas, Felipe Vazquez, Frank Vinicor, Elizabeth
Walker, Rosemary Walker, Ruth Webber e Kimberlydawn
Wisdom.
Siamo grati a Carol Mosier per aver digitato e ridigitato
innumerevoli volte il manoscritto senza mai la più piccola
protesta. Sappiamo che non c’è nessuno più felice di lei
nel veder terminato questo lavoro. Siamo anche ricono-
148
scenti verso Jules Lounsbury per il suo contributo al lavoro di battitura, così come lo siamo verso Sherrye Landrum
per la sua supervisione editoriale: gentile, paziente e di
grande valore.
Infine, e sopra ogni cosa, noi vogliamo esprimere tutta la
nostra riconoscenza ai pazienti che abbiamo incontrato.
La maggior parte di ciò che abbiamo imparato sull’empowerment si deve a loro, alla loro disponibilità a farci entrare nelle loro vite, a farci condividere i loro pensieri, le loro
speranze, i loro timori. Benché solo pochi di loro ne siano
consapevoli, essi sono stati, in tutti questi anni di lavoro, i
nostri insegnanti più rigorosi e persuasivi.
149
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