7. NOT BAD FOR A REDNECK
Parole di Martina Liverani, foto di Stefano Scatà
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L
ara disse che forse sarebbe riuscita a trovare un Old Fitz del 1978 in una vecchia drogheria di
Modena: chissà che faccia avrebbe fatto Sean vedendo quella dannata bottiglia di whisky a cui
stava dando la caccia da anni. Enrico arrivò trafelato in Via Stella con in braccio una cassetta di
pannocchie fresche, nessuno volle sapere dove o come se le fosse procurate; Davide gli gettò un’occhiata
soddisfatta e iniziò a radunare la brigata per la riunione con lo chef. Anche Beppe chiamò a raccolta tutti
i ragazzi della sala, nessuno sarebbe dovuto mancare. Solo un assente era giustificato: Massimo Bottura.
Quella stessa giornata, i metereologi attendevano il rovente anticiclone nord-africano, che da qualche
giorno infieriva sulla Pianura Padana, per poter consacrare definitivamente il luglio 2015 quale mese in
assoluto più bollente dall’inizio delle misure sistematiche, oltre un secolo e mezzo fa.
Nella sala grande dell’Osteria Francescana, lo staff era al completo, silenzioso e attento; in quel momento, Sean Brock – il più importante chef del Sud degli USA, proprietario di una manciata di ristoranti
tra cui il McCrady’s a Charleston e l’Husk a Nashville - iniziò a parlare: «Per me è un onore essere qua e
poter lavorare con voi; io sono nato in Virginia ma vivo a Charleston, una città del South Carolina. La
mia cucina è strettamente legata alla terra e all’agricoltura, cerco di riscoprire e tramandare gli ingredienti, i sapori e le ricette autentiche della storia della gastronomia degli Stati Uniti del Sud. I’m a Redneck».
«Siete mai stati al Sud?», chiese. E cominciò a raccontare una storia.
Alla fine del 1600, parecchie navi mercantili si fermavano a Charleston per una sosta durante la navigazione o per fare manutenzione. L’unico modo che avevano per pagare le riparazioni era barattare sacchi
di semi di riso del Madagascar. Fu anche per questo motivo che Charleston divenne la città del riso:
si fece avvincere dalle coltivazioni e se ne lasciò segnare geograficamente. Gli immigrati veneziani, con
l’aiuto degli schiavi nativi americani, tratteggiarono la città creando un reticolo di canali di irrigazione
per i campi di riso. E naturalmente anche la cucina di Charleston si compose attorno a questo alimento
arricchendosi delle influenze culturali di chi si occupò della coltivazione del riso dalla fine del 1600 e fino
L
ara said she could probably find an Old Fitz bottle 1978 on the dusty shelves of a seasoned drugstore
in Modena: I wondered which reaction could Sean possibly have at the sight of the damn bottle he
had been fruitlessly pursuing for years.
Enrico, out of breath, arrived in Via Stella accompanied by a crate full of fresh cobs, nobody really questioning
where the heck he had found them; Davide, eyes sparkling with lively satisfaction, called for attendance the
whole brigade for the meeting with the chef. Beppe as well, helped gathering the boys: nobody had to miss this
occasion, except for Massimo Bottura – absent, justified.
This very same day, anxious meteorologists were waiting for the infamous heat wave of the North-African
anticyclone to officially declare July 2015 the hottest month since the beginning of temperature measurement,
back over a century and a half ago.
The whole staff was there – silent and concentrated – in the big room of Osteria Francescana, when Sean Brock
– the most important chef of the Southern United States, owner of a handful of restaurants such as McCrady’s
in Charleston and Husk in Nashville – started to talk: «It’s for me a great honor to be here, having the chance
to work with you. I was born in Virginia but I live in Charleston, South Carolina. My way of cooking is
strictly bound to my land as to its agriculture: I try to discover and transmit the ingredients, the taste and the
authentic recipes of the history of the South. I’m a Redneck ».
«Have you ever been to the South?», he asked. He started off with a story.
By the end of 1600, quite some merchant ships passed by Charleston for a pit stop or maintenance during
navigation. They used to pay for the services with rice seeds: this made Charleston the city of rice. A lot of
rice cultivations popped up, leaving as well a geographical mark. The Venetian immigrants, helped by native
american slaves, built up the entire irrigation channels system. Consequently, rice became a milestone also in
Charleston’s cookery, accompanied by the cultural influences of those who took care of the rice cultivations from
the end of 1600 until 1930. Venetians first (they introduced crop rotation, alternating rice, spelt, field beans,
black-eyed peas and wheat), the British after –through African slavery2 – introduced other techniques in the
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al 1930. I veneziani, prima (introdussero l’agricoltura di rotazione facendo alternare al riso il
farro, il favino, i fagioli dall’occhio e il grano)
e poi gli inglesi, con la loro schiavitù africana2,
importarono altre tecniche nei campi e in un cucina. Così andò fino al 1930, anno della grande
depressione e anno in cui venne fatto l’ultimo
raccolto di riso a Charleston: ormai nessuno aveva la forza di investire economicamente in agricoltura e inoltre, dall’abolizione della schiavitù
nel 1865, nessuno aveva più le palle di starsene
tutto il giorno in mezzo ai campi di riso tra zanzare e alligatori!
Come diretta conseguenza, negli anni a venire il
cibo divenne un prodotto industriale, l’agricoltura di rotazione lasciò campo a quella monoculturale e molti prodotti scomparvero.
La cucina tradizionale del Sud sparì piano piano
anch’essa.
Nel 1999 la Carolina Gold Rise Foundation si
pose l’obiettivo di riportare in uso i vecchi sistemi di coltivazione e riesumare gli antichi prodotti agricoli ormai estinti e, dal quel momento,
ben il 95% della biodiversità andata perduta è
stata recuperata, anche grazie all’impegno di
Sean che dal 2003 è accanto alla fondazione.
Oggi chi va a Charleston può assaggiare l’autentica cucina del Sud: una gastronomia molto
affascinante e variegata, la prima a essere stata
storicamente codificata in America.
«Quindi – concluse, senza mai essersi tolto di
dosso il cappello da baseball e gli inconfondibili occhiali dalla montatura spessa e con quel
variopinto tattoo sull’avambraccio sinistro con
una miriade di specie vegetali autoctone del
suo Paese che brillava sotto le luci della sala - il
menu che sto per presentarvi è stato pensato
da uno chef del Sud degli Stati Uniti, usando
prodotti italiani ma cercando di ricreare quel
sentimento che rappresenta la mia cucina, la
mia ricerca, la mia terra».
Il menu che Sean Brock si accinse a scoprire era
quello che avrebbero cucinato l’indomani, il
giorno del Grand Gelinaz Shuffle.
In giro non si parlava d’altro: il Grand Gelinaz
Shuffle era il primo evento della storia a coinvolgere l’intero pianeta Terra chiamato alla più
grande lotteria della gastroera. Il 9 luglio si sarebbe verificato un cortocircuito tra ristoranti e
chef, un globale gioco di ruolo in cui 37 top
chef di tutto il mondo si sarebbero scambiati la
cucina per preparare una cena nel ristorante di
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fields as well as in the kitchen.
So it went until 1930, the year of the great depression, when Charleston saw its very last rice crop: at
that point nobody was eager to take the risk to economically invest in agriculture and besides, after
the abolition of slavery in 1865, not many people
were really keen on wandering the fields and their
friendly fauna of mosquitoes and alligators.
As direct consequence food became an industrial
matter, crop rotation declined, replaced by one-crop
cultures, many local products died out.
Traditional Southern cooking slowly faded away
too. In 1999 the Carolina Gold Rise Foundation
decided to revive the old agricultural systems and
the ancient farming products: from that moment
95% of the lost biodiversity has been recuperated,
thanks also to the precious help of Sean, who has
been working hand in hand with the foundation
since 2003.
Today in Charleston you can taste the authentic
Southern cuisine: a very charming and variegated
gastronomy, the first one to be historically codified
in the United States of America.
«So – concluding his speech wearing the very same
baseball hat, unmistakable thick glasses and multicolored sleeve tattoo (which depicts a twist of typical Southern autochthonous vegetables) shining in
the room’s bright lights – the menu I am about to
introduce is a typical Southern creation, thought
by a Southern chef, to recreate – with local Italian
products – the feeling that represents my cooking
tradition, my research, my land».
The menu Sean Brock was about to reveal was on
program for the event of the very next day, the day
of the Grand Gelinaz Shuffle.
The Grand Gelinaz Shuffle was on the mouth of
everybody: the first event in history to put around
a table the whole planet Earth, a sort of big gastronomic lottery. On the 9th of July a short circuit
between restaurants and chefs was to be expected: a
global game role where 37 top chefs would trade kitchens to prepare food in someone else’s restaurant.
The most interesting part was that the new destination was top secret.
Who would take the place of Alex Atala at Dom?
Who would switch with Rene Redzepi?
Who would take the burners of Magnus Nilsson
and who the ones of Virgilio Matinez? Davide Scabin would abandon Combal.Zero to end up where? And Alain Duchasse?
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un altro. A rendere la faccenda ancora più intrigante era il mistero che avvolgeva le destinazioni
degli chef: fino alla cena del 9 luglio nessuno
avrebbe saputo, per esempio, chi avrebbe cucinato al Dom al posto di Alex Atala, o dove
sarebbe finito in scambio Rene Redzepi; chi sarebbe andato nella cucina di Magnus Nilsson e
chi invece in quella di Virgilio Martinez? Davide Scabin avrebbe abbandonato il Combal.Zero
per andare dove? Alain Ducasse chi avrebbe sostituito? Burattinaio della faccenda era Andrea
Petrini, ideatore del format Gelinaz, un collettivo di chef che dal 2005 appariva ogni anno sotto forma di goliardiche, sperimentali, avanguardistiche, sovversive e strafottenti performance.
Ecco quindi spiegata l’assenza di Massimo Bottura, che in quel momento era al Momofuku
di New York, anche se ancora nessuno poteva
saperlo. Ed ecco quindi spiegato il motivo per
cui Sean Brock si trovava a Modena, nella sala
dell’Osteria Francescana durante un rovente
mercoledì di luglio in riunione con tutto lo staff.
Quello che successe nei giorni precedenti, ve lo
racconto io.
Sean Brock era arrivato a Bologna sabato 4 luglio, aveva provato le mitologiche tagliatelle di
Irina Steccanella e poi aveva trascorso il resto del
weekend all’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense: una dritta sicura per un redneck
amante dei prosciutti. Il lunedì mattina, ancora
estasiato dall’incontro ravvicinato con i culatelli
di Massimo Spigaroli, Sean si era presentato in
Via Stella munito solo del suo zainetto. Come
da regolamento Gelinaz: nessun aiuto, nessun
ingrediente. Ad accoglierlo c’erano Lara Gilmore - la moglie di Massimo Bottura - Enrico
Vignoli, Giuseppe (Beppe) Palmieri, Davide Di
Fabio con tutta la brigata. E io. Che ci facevo là?
Ottima domanda. Ognuno dei ristoranti coinvolti dal Grand Gelinaz Shuffle aveva scelto un
giornalista che facesse da “angelo custode” allo
chef ospite, testimoniasse ogni momento dell’avventura e godesse di questa surreale esperienza.
Così, minuto per minuto, ho seguito Sean alla
scoperta di Modena, dei suoi mercati e dei suoi
prodotti oltre che naturalmente dei fornitori
principali dell’Osteria Francescana. Andammo
visitare il macello di Zivieri, dove Sean scelse
un cinghiale; assaggiammo un aceto balsamico
tradizionale di Modena vecchio 25 anni alla
Consorteria e degustammo il Parmigiano Reggiano di Hombre; trascorremmo qualche ora in
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The mastermind behind these tricks was Andrea
Petrini, mind and heart behind the Gelinaz’s concept, a collective of chefs performing – since 2005 –
quite some exuberant, experimental, avant-garde,
subversive and impertinent performances.
Voilà explained the absence of Massimo Bottura:
he was in New York, in Momofuku, even though
nobody could know.
The same reason was behind Sean Brock’s presence
in Modena, within the walls of Osteria Francescana in a fiery Wednesday of July.
What had happened the days before it’s my story.
Sean Brock had arrived in Bologna on Saturday
the 4th of July, he had tasted the mythological tagliatelle of Irina Steccanella and taken off to Antica Corte Pallavicina in Polesine Parmense: a
great way to spend the week-end for a redneck in
love with Italian ham. On Monday morning, still
pretty ecstatic by the encounter with Massimo Spiegaroli’s culatelli, Sean had arrived in Via Stella
armed just by his little backpack, as Gelinaz rules
pronounced: no help, no ingredients.
To welcome him, there was a bunch of people:
Lara Gilmore – Massimo Bottura’s wife – Enrico
Vignoli, Giuseppe Beppe Palmieri, Davide Di Fabio with the whole brigade. And me. What was I
doing there? Good question, folk. Each restaurant
involved in the Grand Gelinaz Shuffle had to pick
a journalist to be the “guardian angel” of the guest
chef, witnessing each moment of this adventure and
simply enjoying this surreal experience. So there I
was, following Sean in the discovery of Modena,
digging markets, local products, and – obviously –
Osteria Francescana’s main suppliers.
We went to visit Zivieri slaughterhouse, from where Sean came out with a boar; at Consorteria we
tasted a traditional 25 year old balsamic vinegar,
we savored Hombre’s Parmigiano Reggiano; we
spent a couple of pleasant hours in the countryside, visiting the organic farm that supplies Osteria
Francescana with fruit and vegetables.
Sean stayed at Massimo’s place (so did I, thanks to
Charlie, who kindly lent me his room), he woke up
early every morning to work in the kitchen, to test
out stuff with the boys of the brigade, talk with Davide. In the evening we did get stoned by chitchats,
bourbon (Sean smuggled some bottles in his luggage
especially for us) and American Spirit cigarettes; we
followed Sean’s dog Instagram accountand checked
out what the other Gelinaz members were up to.
campagna, nella fattoria biologica dove l’Osteria
Francescana si rifornisce di tutti gli ortaggi. Sean
viveva a casa di Massimo (e anche io, grazie a
Charlie che mi aveva prestato la sua camera), si
alzava presto ogni mattina per lavorare in cucina, fare prove con i ragazzi della brigata, parlare
con Davide; e la sera ci stordivamo di chiacchiere, bourbon (che Sean aveva messo in valigia per
noi) e sigarette American Spirit; seguivamo l’account Instagram del cane di Sean e controllavamo su Twitter l’andare di Gelinaz nel resto del
mondo. In quelle ore notturne mi raccontò della
cucina del Sud degli Stati Uniti, di come fosse
varia e affascinante e di come il suo incessante
lavoro di ricerca fosse volto a riportarla alla luce
in tutta la sua autenticità. «C’è un piatto tipico mi disse - che si chiama reezy peezy». Risi e bisi?
Esattamente come il nostro, difatti, fu importato dai veneziani. Piccolo il mondo, no?
Ascoltavamo musica della strabiliante raccolta
di dischi di Massimo, così tanti da occupare
l’intera parete di una stanza: quella stessa mania di collezionare le proprie passioni che Sean
ripone nel Bourbon. Perché Sean è un whiskey
hunter, ci disse. Io e Lara ascoltavamo incantate
di questi veri e propri cacciatori che setacciano
magazzini, depositi, il web, per trovare vecchie e
rare bottiglie4.
Lui ne possiede migliaia, ma quella che stava
cercando da anni senza successo era una bottiglia di Old Fitz del 1978 – la sua data di nascita.
Tra formidabili conversazioni, lavoro duro,
pranzi alla Francescana (i miei – ah che giorni
felici!), giunse finalmente il 9 luglio, data dello
Shuffle. Gli ospiti arrivano senza sospettare chi
avesse preso il posto di Massimo Bottura e godettero nel mangiare una sequenza in crescendo
di piatti in cui Charleston e Modena si erano
meravigliosamente gemellate, scoprendo di avere parecchio in comune. Pomodori verdi fritti,
viticci di zucca, carota glassata per partire. E poi
una fetta di culatello con riduzione di caffè per
ricordare l’ “ham with red eye gravy”, il piatto
con cui al Sud – di mattina - ci si riprende da
una sbornia dopo una serata pesante. Ancora
atmosfere del Sud quando ci venne servita una
cloche con dentro una pezza di yuta fumante a
nascondere un’ostrica: Sean volle farci partecipare simbolicamente a una festa popolare in cui
tradizionalmente le ostriche sono cotte su lastre
ferro e fuoco a legna e coperte da una yuta imbevuta di acqua di mare. In sala suonava musica
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During those late night talks Sean told me about
the Southern States culinary tradition, about its
richness and charm, about how important his research job is to revive traditions in all their glory.
«A typical Southern dish – he explained – is called
reezy peezy». Risi e bisi, like the Venetian dish, precisely imported by the very same Venetians. Small
small world, isn’t it?
We listened to the amazing record collection of
Massimo, so massive to cover one entire wall of the
room: the same fire that nurture one’s own passions
that burns inside Sean. In his case, for Bourbon.
One day he told us he defines himself a whiskey
hunter. Lara and I, enchanted, listened to stories
of rummaging through warehouses, depots, web, in
the quest for the perfect bottle4. He owns thousands
of them, but what he had been really looking for,
for years – unluckily, without any success – was
a bottle of Old Fitz from 1978, the year he was
born. Finally the 9th of July – day of the Shuffle –
arrived, preceded by an escalation of conversations,
hard work and meals at Francescana (mine – oh,
such happy days!). Guests came in without the slightest idea about who was there in place of Bottura
and enjoyed the climax of dishes where Charleston
and Modena criss crossed, discovering some pleasant common points. Green fried tomatoes, courgette flowers, glazed carrots: just to start. Then
culatello with coffee sauce, a local version of the
typical Southern “ham with red eye gravy”, known
to be the post-hangover panacea. Our immersion
into the Southern atmospheres proceeded with an
oyster delicately wrapped into a steamy juta rag:
Sean wanted to recreate the feeling of those popular
feasts where – traditionally – oysters are cooked on
iron plates on the fireplace then covered with a piece of juta soaked in sea water. Blues music drenched
the whole room.
We had the privilege to savor two iconic Southen
dishes – “shrimps and grits” and “hoppin’ john” – à
la Modenese: the grits, a sort of polenta, was braised
in Parmigiano Reggiano whey, while the hopping
john combined beans with boar meat.
The marvelous corn bread, soft and spiced.
Then meat again, a beef feast with green purèe
of Lovage and ricotta, to finally conclude with
two desserts, one made with Vignola cherries and
another one with chocolate.
The dinner was a success and when Sean came out
to meet the public, he was welcomed by a warm ap-
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blues. Gi stati del Sud hanno due piatti iconici: uno è “shrimps and grits”, l’altro è “hoppin
john”: noi avemmo l’irripetibile chance di assaggiarli in versione modenese. Il grits, una specie
di polenta, era stata cotta nel siero di Parmigiano
Reggiano. L’hoppin john con fagioli accompagnava alla carne di cinghiale. E il meraviglioso
corn bread, il pane di mais, soffice e saporito.
Ancora carne, con un piatto di manzo e purè
verde con levistico e ricotta e per concludere due
dessert, a base di ciliegie di Vignola il primo e di
cioccolato il secondo.
La cena fu grandiosa e quando Sean uscì in sala
per mostrarsi al pubblico tutti applaudirono
la sua performance. Tutti, ma specialmente io,
Lara, Enrico, Davide, Beppe e i ragazzi della
Francescana: noi avevamo assistito ai suoi giorni
di impegno indefesso, alla sua umiltà di voler
conoscere, imparare, sperimentare ma allo stesso tempo all’orgoglio di voler raccontare a noi il
suo paese e la sua cucina.
Alla fine della serata, quando l’adrenalina era
scesa e si era tutti attorno a un tavolo a bere birra, Sean mi chiese cosa ne pensassi della cena:
«Not bad for a redneck». Ridemmo forte.
Il giorno dopo tornò nel South Carolina. Con
un paio di bottiglie di Old Fitz del 1978.
plause from the whole room, especially from Lara,
Enrico, Davide, Beppe, the Francescana guys and
I: we had witnessed his tireless commitment, his
humble will to learn, understand and experiment,
his pride in wanting to share a piece of his country
with us. At the end of the evening, when all the
adrenaline calmed down and we sat around the
table sipping beer, Sean asked me what I thought
about his performance: «Not bad for a redneck».
We laughed loudly.
The day after Sean took off to South Carolina, accompanied by a couple of bottles of Old Fitz 1978.
NOTE
NOTES
1 Redneck, letteralmente significa “collo rosso” a
indicare la nuca scottata dal sole di chi lavora nei
campi nel Sud degli Stati Uniti; è un sinonimo
di contadino, bonariamente un po’ rude.
2 Oggigiorno, molti degli abitanti di Charleston hanno tra i propri avi un antenato proveniente dall’Africa dell’Ovest - li chiamano
Gullah Geechee).
3 @RUBY_FRENCHIE
4 Le bottiglie più rare e desiderate dai whisky
hunter sono: Old Fitzgerald (dal 1935 al 1992),
Van Winkle Family e Stitzel-Weller
1 Redneck: working-class white person from the
southern United States. The term refers to the
sunburns while working in the fields.
2 Today, Lots of Charleston inhabitants has an
ancestor coming from West Africa (they are called
Gullah Geechee)
3 @RUBY_FRENCHIE
4 The most hunted bottles are: Old Fitzgerald
(from 1935 to 1992), Van Winkle Family and
Stitzel-Weller.
7. NOT BAD FOR A REDNECK
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