Da leggere
Alberto Ferrari
Capo Servizio rivista
Prevenzione Cardiovascolare
Menestrello
in camice bianco
I
l brano è “Quelli che…”, scritto
a quattro mani con Beppe Viola. In questa famosa canzone,
che Enzo Jannacci si divertiva ad
aggiornare a ogni interpretazione
con aneddoti di cronaca per inchiodarla all’attualità del momento, c’è un passaggio in cui si stigmatizza la cialtroneria del medico
della mutua quasi a ricordare che
gli sbagli, fatti in buona come in
cattiva fede, hanno delle conseguenze durissime per il paziente.
Va dal medico un signore di una
certa età che lamenta sintomi che
farebbero sospettare un infarto
anche a un portantino. Il medico,
che immaginiamo concentrato
alla scrivania a prescrivere farmaci, lo liquida frettolosamente
dando la colpa al periodo: “Non
si preoccupi, sarà il periodo!” dice
al paziente che gli aveva appena
raccontato di avere dolori al petto
e al braccio sinistro, frequenti mal
di testa e un malessere diffuso.
La volta dopo tocca al figlio del
paziente. È costui che va dal medico per aggiornarlo sulle condizioni del padre. Il medico, che
immaginiamo ancora intento a
prescrivere farmaci, si sente rac-
contare che di fronte a lui c’è il figlio di “quello che andava a periodi”, che adesso è morto. “Proprio
un brutto periodo!” dice il medico
per riflesso condizionato. “No
dottore, è stato un infarto!”, è la
risposta piccata del figlio.
Enzo Jannacci si iscrive a Medicina dando retta al padre che lo
voleva laureato, ma per fare un
mestiere in cui potesse essere
di aiuto concreto al prossimo. La
scelta è di quelle coincide con la
vocazione, che coltiva parallela a
quella per la musica. “Ho sempre
avuto della buone mani da chirurgo”, dirà Jannacci in una dichiarazione tarda. Da studente, le prime serate per racimolare quattro
soldi, cantando nei locali milanesi
di periferia. Da medico, le ferie venivano utilizzate per lo più per andare in tournée, registrare dischi,
allestire spettacoli teatrali. Pur essendo ormai un artista affermato,
era rimasto sempre un chirurgo
generale, specializzato nell’interventistica d’urgenza.
Nel ricordo di un collega con cui
divise le fatiche in sala operatoria
in un ospedale di Brescia, si parla
di un uomo che quando andava
In ricordo del dottor Enzo
Jannacci, che passò una
vita in teatro a cantare e
recitare ma che non
appese mai il camice al
chiodo, essendo la
professione del medico un
dovere morale cui non gli
riuscì mai di sottrarsi,
neppure quando la fatica
per seguire i pazienti e star
dietro al successo che ebbe
come cantante, diventò
pressante
Marzo - Aprile 2014
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Una vita in contropiede
I
l genio del contropiede deve essere un tipo alla Paolo Rossi, il mai dimenticato goleador dei mondiali
di Spagna. Deve essere uno che sa appostarsi e
aspettare il momento giusto per rubar palla e infilarsi
alla velocità del suono nell’area avversaria e colpire
a rete senza troppe moine da fuoriclasse. Provare ad
applicare questa metafora calcistica alla personalità umana e artistica di un eclettico
quale fu Enzo Jannacci non sembra
facile. Come elemento da palcoscenico Jannacci fa piuttosto venire in
mente uno di quei giocatori abituati a
correre a tutto campo, a giudicare dal
molto lavoro che ha messo a segno
in più di cinquant’anni di onorata carriera, in cui ha spaziato dalla musica
al teatro al cinema senza soluzione
di continuità, a latere dell’esperienza mai smessa di medico chirurgo e
medico di base. Eppure è stato Dario
Fo a definirlo “genio del contropiede”, come ci ricorda Nando Mainardi
nella biografia che andiamo a presentare. Possiamo tentare un’ipotesi.
Che Fo si riferisse al tempismo da
metronomo con cui l’amico seppe
farsi largo nel panorama artistico? Al
tempismo con cui Jannacci seppe
rinnovarsi restando fedele all’inprintig di cantautore
milanese con forti venature dialettali anche quando
andò a fare altro? Si può essere grandi, talora grandissimi senza staccarsi mai dalle tematiche e dal linguaggio popolare. Dario Fo lo dimostra per primo e
forse il suo discepolo Enzo Jannacci per secondo.
I goal Jannacci li mette a segno recitando sempre
il se stesso artisticamente cresciuto alla scuola dei
cantautori milanesi, che anche se non cantano in
dialetto il mondo popolare del lavoro e della fatica,
dell’emarginazione e della solitudine, sentono di doverlo rappresentare lo stesso perché ce l’hanno addosso, ce l’hanno dentro. Una prova di quello che
sosteniamo ce la suggerisce il biografo: “Nel 1971
è Marco Ferreri a proporgli il ruolo di protagonista
del film L’udienza […] Interpreta il ruolo di un giovane ufficiale in congedo che si presenta in Vaticano e
a trovare i pazienti in reparto, a
volte si intratteneva facendo quello che tutti si aspettavano da lui,
“una bella cantatina” per tirare su
il morale, con infermieri e colleghi
pronti a dargli manforte.
Nei ricordi autobiografici, se i giornalisti volevano sapere qualcosa
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PrevenzioneCardiovascolare
chiede insistentemente un’udienza con il Papa. Ha
una cosa urgentissima da dirgli, le prova tutte per incontrare il Santo Padre ma viene ogni volta bloccato dalla burocrazia e dal conservatorismo vaticano.
Alla fine morirà sotto le colonne della città papale,
stroncato da una polmonite. Una morte che evoca
il finale di “El portava i scarp del tennis”. L’udienza è
un film “cattivissimo”, […] in cui Jannacci si muove come una marionetta,
con un’immobilità mimica che ricorda Buster Keaton”. Si può dire che
“il barbun in scarp de tennis” è forse
il personaggio popolare milanese più
rappresentativo della galleria di maschere creata da Enzo Jannacci. O di
sicuro il più famoso.
Di chicche come questa ce ne sono
tante altre nella biografia artistica
messa a punto da Mainardi, che spazia dagli esordi artistici nei locali milanesi, in cui Jannacci si trova a fare da
spalla ad artisti già affermati, ai primi
successi da solista sotto la guida del
mentore Dario Fo, all’affermazione
come cantautore con canzoni diventate culto, una per tutti il masterpiece
“Vengo anch’io no tu no”. Quindi le
fortunate incursioni alla televisione
degli anni Settanta, spesso in coppia con il duo Cochi e Renato. Oppure i passaggi in teatro, di cui nel
’92 farà scuola l’interpretazione di Aspettando Godot
in coppia con l’amico di sempre Giorgio Gaber. “È
l’incontro/contaminazione a tratti irriverente tra il teatro rigoroso dell’assurdo e il barbone di El portava i
scarp del tennis”, sottolinea ancora Mainardi.
Che per noi è la prova che il “genio del contropiede”
ha sempre giocato la stessa partita, fedele alla casacca della squadra che porta il nome della sua città,
che, a ben vedere, più che l’amata maglietta rossonera che fu del mito Gianni Rivera, è l’abito sgualcito
di tanti suoi personaggi marginali scorti aggirarsi nelle periferie della Milano operaia, personaggi che solo
l’intelligenza artistica di Enzo Jannacci e pochi altri
hanno saputo accogliere e trasformare in maschere
durevoli.
della sua professione parallela a
quella di artista, l’autore del tormentone “Vengo anch’io no tu
no”, sovente rilasciava dichiarazioni che tratteggiavano la figura di un medico chirurgo sempre
pronto a ricercare il rapporto umano con il paziente, dimostrando
interesse per la salute di chi era
finito sotto i suoi ferri ben oltre il
periodo pre e post operatorio.
Jannacci ha fatto anche il medico di famiglia. Ambulatorio a
Città Studi a Milano, non lontano
da dove risiedeva. In un ricordo
televisivo, Teo Teocoli dirà che
S
Dottor Enzo Jannacci
pigolare forse è un verbo che non sarebbe
dispiaciuto a Jannacci, se solo l’avesse collegato con la tradizione lombarda di andare a
spigulà la mèlga dei pensionati (ovvero raccogliere
le pannocchie di mais lasciate indietro dalla macchina), in uso ancora alla fine degli anni Settanta anche
nei campi intorno a Milano. Ebbene, spigolando qua
e là su Internet con la passione del
vecchio fan, siamo in grado di raccontarvi qualcosa del mestiere del
medico. Sappiamo che si è laureato
in Medicina alla Statale di Milano con
specializzazione in Chirurgia Generale (1967).
Medico lo è diventato, si può dire, per
volere del padre, maresciallo dell’aeronautica e poi partigiano che durante
la guerra e la Resistenza aveva visto
un “sacco di morti e feriti”. Il padre è
convinto che tutti siamo chiamati a
fare qualcosa di buono per alleviare
la sofferenza del prossimo, specie dei
poveri. Il padre, inoltre, come tutte le
persone di scarsa istruzione, vuole
che il figlio prosegua negli studi fino
alla laurea. La scelta di iscriversi a
Medicina viene maturata in proprio
ma va perfettamente incontro alle
aspettative del babbo.
Per ottenere la specialità in Chirurgia
Generale si trasferisce in Sudafrica, entrando nell’equipe di Christian Barnard, il noto cardiologo e pioniere del trapianto di cuore, da cui apprende l’arte
della cardiochirurgia “Enzo diventa un cardiochirurgo
dalla discreta manina”, scrive il figlio Paolo, nel libro
all’epoca, quando Jannacci aveva
appena aperto lo studio medico,
gli unici pazienti erano lui, Massimo Boldi e Renato Pozzetto, suoi
compagni di cabaret al Derby.
In realtà Jannacci ebbe pochi pazienti anche in seguito, perché
non ne voleva di più di quelli che
riusciva a visitare quando dovette
dividersi fra il mestiere di medico
condotto, di chirurgo e cantante.
È difficile immaginare che dietro
gli occhi stralunati del guitto, la
mimica da saltimbanco, la parlata
refrattaria del milanese imbruttito adottata come slang distintivo
di memorie intitolato Aspettando al semaforo. In questa gustosa testimonianza famigliare ricca di aneddoti inediti, accanto a spezzoni di biografia artistica,
ci sono colloqui surreali fra i due, in cui si parla di
vita, di amore, di arte e naturalmente di medicina. Nel
1969 il dottor Jannacci decide di fare la trasferta più
lunga. Si trasferisce negli Stati Uniti per quattro anni.
Qui lavora per alcune “Foundations”,
che lo portano a impiegarsi in ospedali a New York e in altre grandi città. Le “Foundations” richiedono che
il medico dimostri un’ottima abilità
tecnica da mettere in pratica facendo
la gavetta, che per Jannacci si traduce negli interventi d’urgenza nei turni
notturni. Tutto il resto del rapporto
con il paziente, come farsi da tramite tra scienza e umanesimo, essere
comprensivi con chi si lagna perché
sta male, non solo non è richiesto, ma
neppure ben visto. Nella logica del
profitto applicato alla medicina, il chirurgo doveva operare presto e bene,
per non far perdere tempo e soprattutto denaro. Condizioni mercantili
applicate alle medicina che ritroverà,
a partire dagli anni Ottanta, anche a
Milano. In Italia, il primo impiego risale
al 1973, presso l’ospedale di Cantù.
In seguito diventa “chirurgo infantile”,
vincendo un concorso all’Alfieri di Milano. Nel 1986
vince il concorso all’ospedale Sacco di Bollate, diretto dal professor Rovati. Parallelamente al mestiere di
chirurgo tiene per “trent’anni” la condotta da medico
di base, con ambulatorio in zona Città Studi.
si nascondesse il sangue freddo
del medico internista che parlava più lingue, che in gioventù non
esitò a trasferirsi quattro anni negli Stati Uniti per specializzarsi in
chirurgia generale. Oppure che
dietro il medico che non visitava
più di due pazienti al giorno volendo essere scrupoloso il giusto,
proprio per non trascurare nulla,
per non dare nulla di scontato, ci
fosse la sensibilità di un artista
grandissimo, capace di corti circuiti mentali che lo trasformavano all’improvviso nel personaggio
popolare di ogni sua canzone, dal
tossico scoppiato che ti afferra
la sigaretta perché in crisi d’astinenza, al compagno del commilitone semianalfabeta e “per giunta
terrone” che è stato lasciato dalla
morosa con una letterina scritta
in “siculo-toscano”.
Il sospetto è che mentre il dottor
Jannacci curava i suoi pazienti
della mutua con scrupolo infinito, l’artista accanto prendesse appunti per la stesura di una
canzone, per un modo di dire da
adottare, per una smorfia da fare
propria e per ogni altra ingenuità
da trasformare in gesto artistico.
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