www.heliosmag.it - mail: [email protected] L’arte di Saro Lucifaro - Lo slancio materico tra Cenerentola il musical dalla fiaba di Charles Perrault – con The Sparkling spazio e intuizione. a cura di Katia Colica Diamdonds musiche originali di Alessandro Bagnato, testi e regia di Walter Manfrè L’arte racconta la sua stessa storia. Una storia fatta note biografiche: d’esperienze materiali e immateriali. E anche la storia Alessandro Bagnato, docente di pianoforte. Nel 1999 delle opere di Saro Lucifaro non fa eccezione, ma ag- consegue gli studi di pianoforte col massimo dei voti, giunge ad essa il valore di una materia sensibile e den- sotto la guida del M° Roberto Bianco ed il M° Sergio sa, intrisa dall’evocazione di una simbologia che riper- Puzzanghera intraprendendo lo studio della composicorre una ricerca incessabile. E che aggiunge pezzi di zione col M° Vincenzo Palermo e Mario Guido Scapesperienza a pezzi di esperienza, fino a diventare l’u- pucci; diplomatosi nel 2007 in Didattica della Musica, nicità che Lucifaro sa comunicare. E lo fa attraverso nel 2009 consegue il Diploma accademico di II° livelun percorso che comincia prima di tutto da se stesso e lo-abilitante per docenti di strumento nella scuola Media con una tesi dal titolo “Verso un nuovo orizche poi si proietta attraverso le tracce zonte di senso metodologico” col massimo dei voti e date da pulsioni profonde e metamorfola lode. Nel 2000 realizza le musiche del musical “Il si continue. E così si trasforma in una Sogno si Giuseppe” di Castellacci e Belardinelli. Nel materia che si sente pronta ad accoglie2001 ha iniziato gli studi di composizione e montagre gli echi della memoria ma allo stesso gio per musica da Film sotto la guida del M° Mons. tempo, una materia che racconta, che Marco Frisina facendo parte del suo gruppo di lavoro inchioda. Formando il paradigma della ed ha seguito, sempre in quegli anni, incontri di aspetvita visibile e di quella evocata. Con la personale "Costruzioni dal piano al volume" l’artista to compositivo/polifonico con il M° Mons Domenico usa un linguaggio universale ma anche personale, non Bartolucci direttore perpetuo della Cappella Sistina in essendo contaminato in maniera sostanziale da corren- Roma. Ha collaborato come pianista e compositore ti artistiche temporali. Il suo viaggio passa dall’intui- con personaggi del Bagaglino dirigendo l'orchesta zione, e le forme che si sviluppano attorno ad esso si “Big Band Orchestra”. Ha composto brani per la IV° caricano di tensione emotiva, accumulando l’energia Edizione “Omaggio ai giovani compositori Reggini” organizzati dal nuovo laboratorio lirico di diretto dal che egli stesso trasmette, e in M° Gaetano Tirotta. Dal 2003 ha iniziato la sua collaun caleidoscopio di stati d’aborazione, in qualità di Compositore per il centro nimo l’opera diventa il soglirico di Catania, il cui direttore artisico è il Alessangetto/oggetto attraverso cui dra Mantovani. E’ l’osservatore si ritrova ad maestro orchestratore essere parte attiva: resistenza ed arrangiatore per e forza, ombra e colore. Il l’orchestra Filarmonitratto empatico delle opere di ca Francesco Cilea di Lucifaro, infatti, necessita Reggio Calabria ed è oltremodo di un elemento stato pianista accomconcreto: il fruitore, che si pagnatore per l’Accaincastra nel mistero dei lacci demia dello spettacolo che le opere snodano; e ne “Alta Classe” di Maria rimane incagliato risultando Pia Liotta. Nel 2006 ha fondato l’Orchestra Caraibica parte basilare dell’opera. “Sueno Sabroso” di cui è il direttore ed arrangiatore. Saro Lucifaro sa che tutto è E’ invitato quale pianista accompagnatore alle Master necessario: la materia, come Class di Canto a Castroreale (ME) e Troiana (EN). Nel il vuoto che lo spazio crea 2007 ha realizzato la colonna sonora per il Documenattorno ad essa abbracciandola e diventando un insieme narrativo. E ciò non è ridu- tario “Piccolo museo S’Paolo” per la PROXIDEA cibile a un mero gioco di vuoti e pieni: piuttosto a un S.r.l. Ha al suo attivo numerosi concerti che spaziano tutt’uno. E la presenza costante dell’esoterismo si ag- dal duo, a organici più nutriti, ai concerti per piano grega non come rappresentazione oggettiva ma quasi solo. Ha collaborato alla realizzazione di importanti come realtà autonoma eppure legata come in un’esi- allestimenti lirici con noti registi (F. Trevisan, R. genza di simultaneità. Ma il legame è anche attrattivo Giacchieri, Mimmo Calopresti) e direttori d’orchestra e ciò si connota non solo dalle sensazioni che emana, di fama internazionale (Carlo Palleschi, Daniel Oren, ma anche delle passioni che sopra vi si posano. Così Marcello Rota, Julian Kovatchev, Claudio Abbado e l’opera di Saro Lucifaro non si accontenta di racconta- Christian Frattima). È pianista accompagnatore e maere, ma si rinnova come generatrice bivalente, dove il stro sostituto presso il teatro F. Cilea di Reggio Calaplastico si dinamizza per creare un ciclo perpetuo dove bria e Assistant conductor presso i Teatri Nazionali di l’energia prende corpo e spirito, per poi restituirne Ankara (Turchia) e Cairo (Egitto). I suoi lavori sono attraverso altre conformazioni, non necessariamente eseguiti dall'orchestra Nazionale di Kiev e da quella della Repubblica Ceca. materiali. Lavoro: il grande inganno globale “abbiamo sacrificato la persona per l’ideologia della globalizzazione” di Pino Rotta Esiste l’ideologia della globalizzazione? In un’epoca in cui da tutti viene affermata la caduta delle ideologie c’è da porsi la domanda “principe”: che cosa è l’ideologia? Scorrendo le definizioni date da filosofi e scienziati sociali degli ultimi tre secoli le risposte in effetti sarebbero disparate e controverse, ma tutte fanno riferimento ad un “sistema”. In particolare un sistema di idee organizzato e finalizzato. Per Antonio Gramsci l’ideologia in buona sostanza è una concezione del mondo che viene utilizzata per guidare la gente verso obiettivi predefiniti e valori pre-scelti. Quando il sociologo contemporaneo Zygmunt Bauman parla della globalizzazione come industria della paura, conseguenza di quella che lui definisce come società liquida, sta per l’appunto facendo un’analisi dell’ideologia della globalizzazione. La globalizzazione infatti, al pari di altre ideologie, è un sistema di idee-guida per indirizzare la gente ad abbandonare il ruolo di cittadini (status che nel diritto romano veniva dato al civis romanus, cioè di persona titolare di diritti) per appropriarsi “volontariamente” del ruolo di consumatori. Consumo quindi sono! Ma cosa consumo e chi produce? Essendo la globalizzazione un’ideologia le componenti sociali, economiche e politiche che l’adottano operano una contraffazione della realtà al fine di raggiungere i propri scopi. Ecco che la società dei consumi nella realtà non può sussistere senza quella della produzione di beni e questo, secondo canoni ed esperienze storiche legate alla fase dell’industria e degli Stati nazionali, ha una logica ed un’accoglienza psicologica assertiva poiché nella concezione dello Stato nazione e del sistema di produzione pre-globale c’è ancora radicato un paradigma di progresso. Più produci, più consumi, più consumi più hai bisogno di produrre: il consumo è legato all’idea di progresso dello status materiale e quindi anche del soddisfacimento dei bisogni psicologici. Questo processo nel corso dello scorso secolo ha fatto prevalere il ceto borghese su quello proletario sia in termini di quantità che di potere. Oggi che la globalizzazione è un dato di fatto essa mostra la mistificazione della realtà su cui si è operato per affermarla. Il prerequisito per la globalizzazione è stato l’abbattimento delle frontiere commerciali, processo accelerato dallo sviluppo delle reti telematiche, il secondo requisito è stato l’abbattimento delle frontiere politiche (la caduta dell’ex Unione Sovietica in Europa, la trasformazione del sistema cinese in capitalismo di Stato, la privatiz- zazione delle materie prime negli Stati del Sud America con l’abbattimento, anche violento, di governi ostili). Terzo ed ultimo requisito è la produzione realizzata in aree geografiche diverse da quelle in cui si è sviluppata dell’industria preglobale, e l’ampliamento della spinta al consumo che si è mantenuto alto per circa venti anni per poi cominciare a crollare a causa della riduzione del potere d’acquisto dei salari occidentali e la morsa insostenibile del debito privato nei paesi ex comunisti. Il risultato di tutta questa operazione ideologica è stato l’affermarsi di nuove “coordinate ideali”. Il lavoro non è più considerato un diritto ma un’opportunità variabile, lo stato sociale un lusso che, date le conseguenze della globalizzazione, non ci possiamo più permettere. L’offerta è quella di ridurre non solo le nostre pretese di benessere materiale ma anche la qualità della vita e le prospettive di miglioramento di status sociale per la maggior parte delle persone, compreso il ceto medio. In una regione povera coma la Calabria si chiudono i call center e si trasferiscono in Albania con il lavoro pagato a 1,80 l’ora! Disoccupati in Calabria sfruttati in Albania. La borghesia è avvisata! C’è un’ideologia legata al capitalismo che per la prima volta nella storia occidentale non è più espressione della ceto borghese. C’è una nuova classe sociale nata dall’oligarchia finanziaria, una specie di aristocrazia del Terzo Millennio. Come dice il ministro Brunetta, un intellettuale al servizio di questa nuova classe sociale, basta lagne per la disoccupazione: “Se un giovane vuole lavorare, la mattina vada ai mercati generali a scaricare casse di frutta che quello è il lavoro che c’è”. All’obiezione che un giovane magari ha fatto sacrifici, assieme alla propria famiglia per laurearsi, la risposta la da il suo coll e g a Tremonti: con la cultura non si mangia. Ma queste risposte convengono a tutti in Occidente e soprattutto in Italia? No, convengono solo a chi non nasce ricco. Sarà dura uscire da questa mistificazione e riportare la persona ed il lavoro al centro degli interessi della politica. Sarà un percorso lungo perché la globalizzazione è un processo in atto e la consapevolezza della gente è in ritardo rispetto alla conseguenze di questo processo divenuto ideologia e cultura. Ma solo dalla consapevolezza si può cominciare per invertire un processo di mercificazione dell’uomo. L’Europa tra realtà e virtualità di Giuseppe Aricò L’Unione Europea è un progetto che produce crescita e ricchezza, ma che distrugge il suo intorno, aumenta le disuguaglianze sociali, limita le libertà e possiede un potenziale carattere militarista”. (Etienne Chouard) Dopo la seconda guerra mondiale, illustri statisti quali Robert Schuman, Jean Monnet e Konrad Adenauer credettero che il destino più appropriato per un’Europa disastrata dal conflitto fosse quello di raggiungere la sua unità politica ed economica, allo scopo di evitare future guerre e garantire sicurezza e prosperità ai propri cittadini. Fu così che dalle ceneri del dopoguerra nacque la cosiddetta CECA, ovvero la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio. Qualche anno dopo la sua creazione, la CECA si trasformò nel Mercato Europeo Comune, che successivamente assunse il nome di Comunità Economica Europea e, più tardi, quello a noi più familiare di Unione Europea. Col tempo, nuovi partner cominciarono ad essere incorporati nel progetto di integrazione europea ideato da Schuman, dando forma a un’Europa che vide rapidamente aumentare il numero dei paesi che la costituivano. Gli ultimi cinquant’anni si presentano infatti come una successione di accelerazioni significative, con i trattati di Roma, la firma dell’Atto Unico, il trattato di Maastricht e i più recenti accordi internazionali che hanno portato fino a 27 il numero degli attuali Stati membri dell’UE. Questo processo di costruzione dell’Europa è stato accompagnato da un forte sentimento di “identità europea”, che si rifà a grandi avvenimenti storici come la nascita della democrazia in Grecia e della scienza in Italia, o la dichiarazione dei diritti umani in Francia. Ma esiste davvero l'Europa? In realtà, l’Europa non esisterebbe come entità politica né sociale, poichè l’idea originaria di coinvolgere e connettere gli Stati in un sistema di interdipendenza sempre più spinta si è concretizzata in una moltiplicazione delle direttive, che si articolano le une alle altre secondo una logica sempre più impalpabile. Ci si situa nell’emergente, nel virtuale di ciò che sarà forse un giorno una realtà politica globale e unificata. Una sorta di virtualità che configura un processo di costruzione perenne e meccanico, presentato ai cittadini europei come naturale ed irreversibile. In questo senso l’Europa è vissuta come un progetto la cui scadenza è sempre rimandata, e l’appartenenza comunitaria viene percepita sul modello dell’incopiutezza del presente e sull’insistente evocazione del futuro. Di fatto, è la prospettiva dell’avvenire che da un senso a questo processo: solo in questo ipotetico futuro l’Unione Europea avrà trovato il suo compimento, e l’integrazione si troverà infine realizzata. Ma questo orizonte rimane lontano e indeterminato, perchè a differenza degli Stati esistenti la Comunità vive se stessa come un processo dinamico tendente verso uno scopo che è ancora lontana dall’aver raggiunto. Questa incompiutezza è un dato essenziale per comprendere meglio le ragioni per cui la forma politica definitiva dell’Europa venga continuamente rimandata. Essa implica l’assenza di referenti stabili e, in filigrana, la prospettiva sempre aperta di un aumento di potenza di questa costruzione di cui non si sa troppo bene quale sarà la configurazione definitiva. In sostanza, l’onnipotenza del concetto Europa risiede proprio nel mescolamento che esso realizza fra il virtuale e il reale, trattandosi di un dispositivo che sul piano della virtualità produce degli effetti politici massicci, ma che rimane ineffabile e indefinito su quello della realtà quotidiana. Più di un anno fa, quando il trattato di Lisbona è entrato finalmente in vigore, molti credevano all'avvento di una nuova Europa, più efficiente e democratica, che avrebbe finalmente cambiato passo sulla scena internazionale. Tuttavia, oggi siamo costretti a constatare quanto l'Europa sia lontana da tutto ciò. Come testimonia la sua reazione nei confronti delle recenti rivolte in Nord Africa e la sua gestione degli scandali interni, i leader europei non cercano nemmeno di nascondere che ciò che li preoccupa realmente sono le questioni dell'immigrazione e delle forniture energetiche. Aldilà della sua mera realtà geografica, l'Europa non è mai esistita se non come un vero e proprio mercato dai confini in continua espansione, presentandosi come un grande progetto virtuale di “unità” ma di natura fondamentalmente economica. Una realtà in cui i sogni di integrazione sociale e politica dell'Europa dei cittadini sono sempre stati posti in secondo piano rispetto agli interessi della maggior parte dei leader del continente, e sistematicamente subordinati a quelli dell'Europa dei mercanti. Una società psicotica. Una vita da torietà di scelte contingenti. In questa visione estremamente cinica di non precario “governare secondo il buon senso di un padre di famiglia” esiste comunque un fattore estremamente frustrante di cui, appunto, un governante dovrebbe tener conto se vuole agire secondo ciò che dovrebbe essere il ruolo di “educatore” e di buon amministratore: la di Salvatore Romeo (*) soddisfazione sul lavoro la si ottiene se vi sono dei E’ difficile immaginare di vivere nella realtà quando validi fattori motivanti (Herzberg), e questi derivano questa viene descritta in modi diversi e a volte diame- t a n t o tralmente opposti. Sembra quasi di materializzare un d a l mondo psicotico, costruito su coordinate virtuali, arbi- c o n t e trarie, discutibili, un vissuto onirico nel quale non esi- n u t o stono altre verità se non quelle prodotte da una mente d e l dissociata, nella quale tutte le verità sono plausibili e l a v o r o nessuna assurge ad un rango più elevato rispetto alle s t e s s o quanto altre. Non vi è una univocità di vedute, ma ogni visione ac- d a l l e quista ammissibilità e diviene credibile, allontanando a s p e t tative sempre più dalla realtà concreta. Qui tutto è possibile, perché edificato su convincimen- d e l ti personali e di classe e scevri da ogni possibile con- lavoratore e traddittorio. Qui si ritrova il positivo e il negativo, il “qui” e d a l l a l’”altrove”, il prima e il dopo indissolubilmente embri- possibilità di miglioramento della sua condizione. cati e indipendenti da ogni regola temporale o spazia- Se ciò non si realizza ne va di mezzo tanto la dimensione esistenziale individuale, tanto l’efficacia e l’effile. Il mondo schizofrenico è proprio questo, un luogo cienza economica dello Stato in generale. dominato dalle leggi dell’inconscio, illogiche e acriti- Disattendere ai segnali che da ogni parte emergono per che, una realtà, in fin dei conti, virtuale, come si dice- affermare questo bisogno vuol dire essere carenti in va prima, costruito su idee parzialmente o totalmente una dimensione psicologica essenziale per ogni persoavulse dalla realtà concreta. In esso si percepisce l’or- na pubblica: la cognizione sociale, ossia quella capacità di percepire le intenzioni, le esigenze, le aspettative mai trita e ritrita distanza tra il Palazzo e la gente. La crisi che il Mondo sta attualmente attraversando e le disposizioni degli altri, specialmente quando queinveste l’economia, la finanza, l’ambiente e l’energia, sti “altri” sono coloro di cui ci si dovrebbe prendere cura. insieme al sistema lavorativo, sociale e politico. Ma i messaggi che ci provengono dal government, a Nella nostra Nazione le ultime stime della Banca d’Iben guardare, rasentano la schizofrenia, nella loro dis- talia sottolineano che la stragrande maggioranza di sociazione, nella loro ambivalenza, nella loro infantile coloro che si affacciano sul mercato del lavoro ha la possibilità di aspirare soltanto a un lavoro precario, ad immaturità. Da ogni parte si concorda su questa “crisi mondiale”, un lavoro spesso malpagato, con salari di ingresso che per definizione quindi investe anche il nostro Pae- fermi a più di dieci anni fa e al di sotto dei livelli degli se, ma chi deve governarci si dimentica del ruolo che anni Ottanta, chiaramente insufficienti per garantire gli abbiamo concesso (di governo, appunto, e di am- una certa autonomia ed autosufficienza economica. ministrazione) e si attribuisce invece quello di psicoe- Ma questo rappresenta soltanto un indice statistico, un ducatore, come se noi, poveri bambini in evoluzione, esito arido di uno studio numerico asettico, oppure avessimo bisogno delle loro rassicurazioni o delle loro comporta drammi sociali ed esistenziali impossibili da calcolare o da misurare sulla base di qualsivoglia meminacce per “crescere bene”. Ed ecco che ora si descrivono fantasmi cupi e burroni tro socioeconomico? dai cui abissi sarebbe difficile risalire, se ci cascassi- La mancanza di una occupazione lavorativa stabile, o mo dentro, ora si tende a minimizzare, a mascherare e quantomeno rassicurante, implica la perdita di sogni, a diffondere messaggi rassicuranti attraverso sorrisi di speranze e di prospettive, l’incapacità di progettare una famiglia, di programmare un ambiente personale benevoli e ottimistici. Certo, il lavoro è lavoro, quale che sia, ognuno con la gratificante, frustra l’aspettativa di migliorare le consua dignità, uguale per ogni attività, e durante un tem- dizioni di partenza e di poter competere per superare porale, ogni anfratto può rappresentare un rifugio, per le ineguaglianze sociali. cui potrebbero anche venire accolte le esortazioni dei Forse ogni tanto varrebbe la pena porsi qualche dovari Brunetta o Tremonti, ferme restando le critiche manda su questi aspetti, anziché soffermarsi su puri rispetto all’insidia dell’immobilità sociale che discorsi calcoli ragionieristici. di questo genere nascondono dietro l’ipotetica transi- (*) psichiatra Politica - Il vento è davvero nuovo? di Pino Polistena Cosa è successo in Italia negli ultimi mesi? Come valutare i risultati delle elezioni amministrative e dei referendum? Possiamo aggiungere un’altra domanda: esiste una qualche relazione tra i movimenti del mondo arabo e quel che sta succedendo in Italia? Oppure l’evidente svolta di una parte dell’elettorato italiano si deve spiegare con cause essenzialmente endogene che riguardano un certo abbassamento del grado di credibilità degli attuali governanti e in particolare del premier? Proverò a dare qualche risposta incerta; incerta perché non è detto che i due fenomeni siano alternativi. Infatti può essere che la voglia di cambiamento che è emersa in nord-Africa, possa semplicemente aver avuto la funzione di detonatore per una svolta che era già matura nel nostro paese. Restano da vedere i termini e il valore di questa svolta perché gli eventi contemporanei e l’entusiasmo ad essi connesso, impediscono una visione chiara dei processi in atto. A Milano, città in cui vivo da molti anni, è successo qualcosa di notevole: dagli inizi degli Anni Novanta governa la destra, ( prima Formentini, sindaco leghista, poi due mandati di Albertini e poi ancora Moratti entrambi del PDL.) Prima ancora governava la sinistra con sindaci socialisti l’ultimo dei quali è stato Pillitteri cognato di Craxi. La vittoria di Pisapia è stata sicuramente un atto di ribellione e di speranza che ha cambiato notevolmente il rapporto dei cittadini con l’istituzione comunale. La borghesia milanese non ha avuto paura di eleggere un sindaco della sinistra radicale. Confesso che non sono riuscito a prevedere questo risultato anche se l’ho favorito in ogni modo. Il problema è adesso che Pisapia dovrà governare e non sarà facile ma lo spirito che si sta manifestando in questo periodo e che porta entusiasmo e novità, potrebbe spegnersi senza risultati concreti oltre quelli che ha già dato. Questa ipotesi pessimistica, che spero infondata, è sostenuta dal fatto che molte volte nella storia delle società si sente il bisogno di cambiamento senza individuare con chiarezza gli elementi che vanno cambiati. Quegli elementi sono delle “Forme” (nome che preferisco ad altri come strutture, modelli ecc.) In questi casi lo spirito del cambiamento può rimanere sterile o addirittura produrre qualche disastro. Per spiegare questo concetto mi servirò di un avvenimento storico relativamente vicino. Negli anni di mani pulite la società fu attraversata da un’analoga volontà: la cappa paracriminale che riguardava le istituzioni pubbliche è stata squassata; sono stati inquisiti, e persino arrestati, politici famosi; storici partiti sono stati sciolti o hanno cambiato nome, sono comparsi nuovi attori sulla scena istituzionale eppure quello slancio si è esaurito quasi subito perché non sono state individuate le “forme” che dovevano essere modificate. Il lavoro di quegli anni purtroppo è stato solo distruttivo perché il paese non sapeva come dovesse cambiare per cui il cambiamento fu solo di facciata:cambiarono le sigle dei partiti, qualche delfino prese il posto del leader ma le aspettative furono deluse. Nella terminologia politica che adotto, il cambiamento vero avviene se cambiano alcune “forme” che hanno mostrato effetti negativi. Altrimenti c’è semplice “motilità” e non cambiamento visto che la motilità è assicurata dal mero scorrere del tempo. Possiamo tranquillamente dire che durante la stagione di mani pulite, i politici (o se vogliamo la società) non hanno prodotto alcun cambiamento e proprio per questo si è potuto insinuare il fenomeno-Berlusconi che non è affatto un’improvvisa e improvvida bufera ma l’effetto di mancanze pregresse che non sono state individuate e sanate. Volere insistere a considerate Berlusconi la causa e non l’effetto di gravi difetti della politica precedente non è solo un grave errore di analisi ma è anche il modo di non individuare le criticità su cui operare. Si tratta di un grave errore di metodo perché sulla anomalia berlusconiana si concentra tutta la critica che risparmia così il contesto, i gruppi politici e i metodi che hanno preparato quella stagione. Una volontà di esorcizzare per non essere coinvolti nella critica e lanciare l’anatema solo in una direzione. Per questo motivo il vento nuovo che sta attraversando il paese sia a sud che a nord, svegliando molte coscienze e creando molti entusiasmi, potrebbe svanire senza risultati se, ripercorrendo la strada di mani pulite, non riuscirà a produrre cambiamenti. Ma quali sono questi cambiamenti? Mi limito a citarne uno solo per il rango superiore e “genetico” che ha rispetto agli altri: il cambiamento della forma-partito italiana che è identica da destra a sinistra e che da 60 anni rifiuta di essere regolamentata per garantire quel grado di democrazia interna che è praticamente sconosciuta ai partiti e che renderebbe concreta la partecipazione dei cittadini. Il cambiamento della forma-partito è possibile con una legge che, completando il dettato costituzionale, riconosca la forma essenziale del partito come attore che propone candidati per le istituzioni imponendo regole democratiche interne, pubblicità dei bilanci e partecipazione aperta. La casta politica non vuole questo e non ha mai messo in agenda questo cambiamento fondamentale. Abbiamo toccato con mano come la crisi dei partiti manifestatasi negli anni di mani pulite, abbia prodotto forme partitiche ancora più mostruose, partiti-azienda, partiti di guru, partiti che, paradossalmente, hanno potuto ridurre il grado di discussione e democraticità interna, che era uno dei motivi del fallimento della prima repubblica. Sarà in grado il paese in questo momento storico favorevole, di individuare le aree cruciali del cambiamento? Sarà in grado di capire che una struttura come il “partito” che gestisce ingenti somme pubbliche (nonostante un referendum contrario) e occupa le istituzioni dello stato non può essere giuridicamente uguale ad una bocciofila controllata da un pensionato con discutibili metodi democratici? Oggi il partito è privo di vincoli perché non riconosciuto; i giovani lo ignorano, la gente lo disprezza, eppure il partito controlla le istituzioni dello stato e determina la politica del paese. Non è luogo da abbandonare ad una casta autoreferenziale e spudoratamente auto-privilegiata. E’ vero che la gente non percepisce immediatamente l’importanza di questo elemento:la struttura del partito non appassiona perché gli effetti di un cambiamento virtuoso dei partiti non riguardano il presente ma si estendono nel tempo e noi non siamo più abituati a pensare l’ordine del tempo perché siamo dominati dal presente. Il compito più importante sarebbe dunque quello di creare le basi per cambiamenti durevoli nel modo di fare politica e quindi nei metodi ma questo si può fare se si decide di affrontare la questione inevasa da 60 anni della forma-partito italiana. Altrimenti per quanto vituperata o snobbata, quella forma avrà la capacità di produrre gravi effetti negativi sull’intero paese. Non mi illudo che sia facile mostrare la crucialità di questo argomento per il nostro paese; la stessa forte relazione che c’è tra la forma-partito e il gigantesco debito italiano, pur realissima, non è colta. Nonostante questo “voghiam, voghiamo” come direbbe Carducci verso la realizzazione di tempi migliori e di cambiamenti autentici. La straordinaria novità che è stata offerta da una Milano in cui torna una sinistra apparentemente ben diversa da quella che l’aveva governata un tempo e dalla imponente partecipazione ai referendum, fa balenare ancora quel “futuro” che sembrerebbe sparito nelle maglie di una civiltà post-moderna che riconosce solo il presente, il consumo e la piccolezza individualistica di persone che hanno allentato i contatti col mondo. La colpa di essere giovani di Tania Kostyuk “Questa è la prima generazione che pensa più al futuro, e per quanto ironico potrebbe essere, futuro non ne ha”... Forti le parole dello scrittore britannico Artur Clark, autore della “Odissea nello spazio”, riferite ai giovani del XXI secolo. Con il cambiamento della società in tutto il mondo sempre percentuali più piccole delle generazioni che crescono possono rispondere alle domande su come sarà il mondo domani e che cosa faranno da adulti loro stessi. Ogni terzo allievo delle superiori nei paesi europei non sa rispondere a cosa vorrebbe fare da grande, anche se la maggior parte va a finire nelle Università, una volta laureati, non credono di trovare un lavoro sicuro. Nell’indagine della giornalista americana Laura Flanders e dei suoi colleghi da diversi paesi i numeri parlano da sé. Il 64% dei giovani, neodiplomati o neolaureati si trovano senza lavoro in Spagna, 43% - in Egitto e Tunisia, 40% - nel Regno Unito, 21% - negli Stati Uniti, 29% - in Italia, 31% - in Ucraina. I governi di oggi, di qualunque colore siano, sono in difficoltà nell’offrire ai giovani risposte che non siano vuote promesse. Vittorio Emanuele Parsi, giornalista italiano: “ Non è un caso che proprio i giovani siano quelli meno protetti da ciò che resta dello Stato sociale e più alienati rispetto al sistema politico. Ma nella vecchia Europa i giovani, semplicemente, sono pochi, non abbastanza per far prendere in considerazione le proprie richieste, figuriamoci per fare la rivoluzione”. E anche disinteressati direi. Le piazze per le proteste dei giovani crescono ogni giorno in tutto il mondo ma i risultati non ci sono. Come fossero invisibili, sordomuti. I governi fanno finta di non sentire, o accusano i giovani delle violenze non esistite. “I giovani sono il nostro futuro, dobbiamo pensare a loro e a cambiare la politica giovanile”, e frasi simili le sentiamo nei tempi delle elezioni, sia in Italia, sia in Ucraina, sia in USA. Tutto il mondo è paese, e i giovani già da 30 anni sono esclusi dalle decisioni sul proprio futuro. In Italia il 72% dei giovani tra 25-34 anni abitano ancora a casa con i propri genitori. Qualcuno potrebbe dire: “è un caso unico”. E non lo è. Un'indagine recente su tutti i paesi europei ha segnalato che i giovani italiani sono, insieme ai maltesi, quelli che permangono più a lungo nella famiglia di origine, ma non sono lontani da loro gli studenti slovacchi, polacchi, ucraini, francesi, spagnoli e portoghesi. Le percentuali più basse sono tra i giovani tedeschi (21%) e svedesi ( 12%), ma sono sempre in crescita. Un fe- nomeno sconosciuto per gli Stati Uniti fino a 10 anni fa, oggi 12,8 milioni di laureati americani sotto i 30 anni non riescono più a lasciare l'abitazione dei genitori. Anche quelli che si erano trasferiti a vivere da soli 5 anni fa, tornano nelle case della loro famiglia. “Sono disoccupati, o lavorano part-time, o svolgono un lavoro per cui non hanno bisogno di una laurea”, scrive “Huffinghton Post”. Nei paesi dell’Est la situazione è un po’ diversa. Le percentuali dei laureati entro 23 anni sono molto alte, grazie al sistema formativo con le lezioni obbligatorie. E anche se i giovani riescono a trovare il lavoro subito dopo la laurea, o anche prima, gli stipendi sono bassissimi, perciò continuano a vivere con i genitori, o affittano le case in 5-6, sempre con i contributi dell’intera famiglia per pagare l’affitto o a Kiev, o a Mosca o a Minsk. 54% dei giovani ucraini sono scontenti della politica del proprio paese, e non possono sopravvivere con lo stipendio. Più del 30% sperano di andare all’estero per cercare fortuna. Il 15% dei giovani ucraini con la laurea magistrale finiscono per lavorare come camerieri, baby-sitter, e colf nei paesi Europei, perchè i loro genitori non hanno la possibilitа di mantenerli. E’ colpa di una struttura economica che ha sempre privilegiato la rendita e l’investimento immobiliare, con relativa esplosione degli affitti, che in Italia ammontano in media da 1.020 euro e a 750 euro. E’ da considerare che le città Italiane sono solo al 47° posto tra gli affitti più costosi al mondo. In parte è colpa di una totale assenza di intervento a favore dei redditi familiari. Una trappola dalla quale è difficile uscire, anche se la voglia di farlo non manca: solo il 9%, infatti, sta bene a casa. Gli altri vorrebbero andare via. L’88% dei giovani che vivono con i genitori sarebbe disposto anche a cambiare città, per avere un’indipendenza economica, sposarsi, e misurarsi da soli con la vita. La politica però prima o poi dovrà capire che il rilancio dell’economia sia in Italia sia negli altri paesi parte dalla generazione giovane, ma essendo congelata, intrapolata, non può comprare né una macchina, né una casa, cioè non può muovere veramente l’economia. E’ cosi rimangono soltanto i sogni: creare nuova famiglia, crescere i bambini, e sperare per la pensione... Non più dissonanze tra centro e periferia di Francesco Fravolini “Le scelte architettoniche possono influenzare lo sviluppo di un popolo” È indispensabile ideare un’architettura urbana armoniosa e omogenea, senza quartieri ghetto. Nuove frontiere dell’architettura, maggiore responsabilità nella progettazione delle case, spiccata attenzione agli aspetti sociali di un territorio. Perché si deve abbattere la distinzione tra periferia e centro storico di una città: fanno parte di un’unica realtà architettonica. Chi vuole creare differenze causa solo gravi scompensi sociali, mettendo in serio pericolo la popolazione che abita in questi luoghi, poiché si altera l’equilibrio di una comunità. Molti architetti sono impegnati a comprendere le esigenze della popolazione, proprio per evitare questi conflitti. Le scelte architettoniche possono influenzare lo sviluppo di un popolo. Dipende dalla combinazione di diversi elementi, tenuti bene in considerazione quando si effettuano scelte radicali sui nuovi insediamenti abitativi. Due i protagonisti indiscussi: l’architetto e l’amministrazione comunale locale. Con il loro contributo possiamo assistere a cambiamenti degli scenari sociali di un territorio, fondamentali per la crescita di una popolazione. Sia intellettuale, sia culturale. Se la scelta andrà nella giusta direzione si otterranno risultati positivi, se si commetteranno errori sarà difficile riparare in fretta, perché la “ferita” potrebbe restare aperta per diversi anni. «La periferia – spiega Renzo Piano, l’architetto che intende valorizzare l’idea di bottega, di ricerca e di approccio al lavoro attraverso tecniche tradizionali come il disegno a mano, lo sviluppo di modelli di studio – è un’idea, un concetto, non necessariamente un luogo geografico. Le città sono spazi dedicati dove avviene maggiormente lo scambio culturale, per accentuare il libero dibattito attorno a tematiche sociali. Non si devono costruire periferie, ma è necessario realizzare le città in maniera implosiva, eliminando i buchi neri, i luoghi a rischio. Si può edificare sul già realizzato rinverdendo zone brutte, poco servite, non socialmente rilevanti. È necessario crescere in modo sostenibile, senza costruire in maniera dispersiva poiché si rischia di danneggiare il territorio. Si deve fare molta attenzione agli spazi. La casa alta, per esempio, appartiene alla cultura italiana, non la torre. Ma si può lavorare su più tipologie che non divorino il territorio». Tutto comincia dalla scelta dell’area dove saranno costruite le nuove abitazioni, in perfetta sintonia con l’inserimento di un determinato ceto sociale. Meglio se assortito, variegato, di facile comunicabilità, per migliorare il livello istruttivo. È un’operazione culturale che stanno conducendo diversi architetti, specie dopo le drastiche decisioni delle amministrazioni locali che hanno portato alla creazione di veri e propri ghetti sociali. «I giovani hanno bisogno – afferma Massimiliano Fuksas, architetto impegnato a caratterizzare i suoi progetti con una costante ricerca sui nuovi materiali e sulle nuove tecniche di realizzazione – di spazi dove ascoltare la musica, perché essi sono luoghi importanti per l’aggregazione sociale. Se non vengono presi in considerazione questi aspetti, si rischia di tagliare fuori una parte considerevole di persone che vogliono confrontarsi mediante l’incontro. È un fondamentale passaggio da non sottovalutare per lo sviluppo di una comunità». Paolo Portoghesi, architetto e professore di proget- tazione all’Università La Sapienza di Roma, tira dritto, senza mezzi termini, verso una rivalutazione della piazza come luogo dove l’architettura deve aprirsi ed esprimersi al massimo, per migliorare la socialità. «Il difficile compito dell’architetto – afferma – è quello di intervenire su situazioni già compromesse. Il suo lavoro deve cambiare, migliorando, l’assetto urbano già esistente. La piazza è il luogo dove si incontrano le persone, momento particolare per scambiare le idee. È socialmente importante perché conferisce nuova linfa alla società. Bisogna lavorare sulla differenza, proprio per costruire ciò che non è stato ancora realizzato. Le piazze assumono un grande significato. È possibile contrapporsi al caos urbano, magari con una forte contraddizione. Si può ripartire da decisioni forti con soluzioni alternative, anche se la piazza resta sempre un elemento fondamentale per rivitalizzare luoghi cittadini. Storia dell’architettura italiana e contemporaneità devono contrapporsi, integrarsi, per trovare nuove soluzioni sociali e avveniristiche scelte architettoniche. La città ha bisogno di una partecipazione corale, la gente deve prendere parte attiva alla costruzione dell’area urbana. Ma rimangono solo le piazze i veri luoghi dai quali si dovrà ripartire, al fine di pensare un nuovo modo di fare architettura». L’immagine: prospettiva architettonica (1470) attribuita a Francesco di Giorgio Martini (1439-1502). ( Lu cidaM ent e, anno VI, n. 66, giu gn o 2011 www.lucidamente.com) La città trincea: prove di guerra sfruttano le paure ataviche della gente che in momenti di crisi si mettono in evidenza con il ravvisare del necivile mico nella multiculturalità. E senza accorgersene, con questo tipo di gestione delle emergenze, il cittadino perennemente controllato (anche se raramente tutelato) diventa suo malgrado parte di quella massa potenzialmente pericolosa che egli stesso teme. Le statistiche, d’altronde, non sostengono le teorie che vedono di Katia Colica gli immigrati tendenzialmente più disposti ad attuare I decisori hanno ormai stabilito, quasi a livello globa- attività criminali rispetto ai cittadini locali: la malvile, come la città militarizzata sia l’unico valido ostaco- venza è unanimemente distribuita. Ma gli argomenti lo a forme di terrorismo e atti mafiosi. D’altro canto degli xenofobi sono molto utili per giustificare la miligli omini sparsi per le città a presidiare quelli che sono tarizzazione delle città e trarne indubbi vantaggi di stati designati come edifici a rischio attentato, danno gestione. Si parla sempre di insicurezza delle città piuttosto l’impressione di stare immobili a fucile spia- ponendo l’accento su quanto i cittadini siano a rischio, nato più per difendersi dai cittadini che per difendere ma si trascura di sottolineare che, a subire le conseloro. La città non è nostra, quindi, ma risulta divisa a guenze di un contesto storico violento e labile, non tratti da qualcuno che ha deciso fin dove è possibile sono solo i residenti di un ambito territoriale, ma sono fruirla. Senza aver ricevuto nemmeno troppe spiega- tutti gli esseri umani, senza discriminazioni di cittadizioni, viviamo ormai da anni in luoghi dove esistono nanza. Eppure la dottrina della guerra ai diversi, recinuna serie di spazi recintati che sembrano non apparte- ta le città in maniera giustificata e continua. Si crea in nerci. Ma le recinzioni, troppo spesso, non si limitano questo modo un nemico difficilmente definibile ma a essere solo fisiche: anche virtualmente, la videosor- automaticamente percepibile: straniero al semaforo, veglianza è una realtà di controllo più che diffusa e, rom dentro il suo campo, povero nelle panchine, pedotra l’altro, accettata dai cittadini remissivamente. Que- filo alla villa comunale. È anche certo che sottovalutasto però non vuol dire che questa forma di ispezione re la soglia di allarme sociale non è la soluzione: lo assidua e invadente non continui ad alimentare senza stato delle città vive addosso le contraddizioni che i interruzione stati d’animo densi di soggezione e subor- processi di globalizzazione hanno come conseguenza. dinazione. Eppure, nonostante il largo uso di strumenti Ma se i luoghi di potere si recintano promettendo stati e metodi di presidio e controllo, l’insicurezza non di- d’ansia non indifferenti, i luoghi pubblici più frequenminuisce; anzi: si acuisce supportata dai dati statistici tati, intanto, sono lasciati a se stessi. Le stazioni, le che ci vedono abitare dentro le nostre città ad alto ri- scuole, le periferie urbane, rimangono aperte a pericoli schio. Il cittadino si ritrova, quindi, ad avere a che fare che non sono certo creati da atti terroristici: strade con un territorio ostile, il che delinea una sfiducia tota- deserte e poco illuminate, senza marciapiedi, luoghi le nelle istituzioni. Questo sentimento diffuso, in ogni considerati come estremi e off-limits. In contesti di caso non sembra dar luogo ad episodi di insofferenza questo tipo è naturale che si indeboliscano i legami profondi, rispetto alla quotidiana colonizzazione mili- sociali. tare di quei luoghi che dovrebbero essere tranquilla- Mancano i messaggi trasparenti, quindi, e l’informamente fruiti da qualsiasi cittadino libero. Le città, zione urbana continua a riconoscere come punto di quindi, diventano una sorta di quaderno mappato nel riferimento il gestore primario degli spazi. Di consequale si tracciano con un cerchio rosso virtuale i luo- guenza gran parte degli equivoci sono imputabili al ghi con divieto di transito. Il governo del territorio tipo di strutturazione urbana delle emergenze, che si quindi, anziché seguire delle procedure precise per la traduce in tante isole basi che compongono deserti tutela di ogni cittadino, concepisce soluzioni che se- urbani fortificati, segregati rispetto alle collettività guono criteri rigidi di accesso/non accesso. Non stupi- dentro cui si dispongono. E che, ricordiamo, dovrebsce, di conseguenza, il perenne stato d’agitazione del bero presidiare. singolo abitante che si trova a convivere con la quasi Ma le rassicurazioni ai cittadini dovrebbero passare certezza di essere abbandonato a se stesso: perché non da codici trasversali, dalla capacità di fare città nell’è certo egli ad essere tutelato e protetto dagli attacchi accezione più classica del termine. La questione della del “nemico”, bensì una porzione di territorio ritenuta sicurezza sociale non può certamente essere delegata a a rischio e che troppo spesso coincide con i luoghi di gruppi di militari che presidiano ambiti territoriali che, potere. Le linee guida, quindi, non mettono al centro comunque, non appartengono più al cittadino, perché dell’attenzione l’individuo, ma si muovono su regole con lo stesso atto militare gli sono stati sottratti. Intanprecise che dipendono dall’ubicazione dei luoghi pre- to i difensori non si preoccupano delle esigenze dei posti ad accogliere personalità, che spesso poco hanno difesi. Difesi ai quali, probabilmente, basterebbe la a che fare con la geografia dei luoghi. L’onnipresenza certezza della pena e processi più snelli ed efficienti. dello Stato, inoltre, non si ravvisa con metodi sostan- Lasciandosi volentieri dietro le spalle queste città in ziali di sostegno al territorio e ai cittadini, ma si stato confusionale, con le loro mille domande; alle proietta dentro le città tramite segnali di dominio che quali i governi sanno ormai rispondere soltanto con il non favoriscono certo la percezione di sicurezza ma linguaggio dell’esercito. La globalizzazione e i “nuovi ti- al futuro, evidenziando i rischi e le opportunità che si prospettano per lo sviluppo della società e l'emanciparanni dell’accesso” zione dell'uomo generando un nuovo punto dell’entropia sociale dal quale non sarà possibile tornare indietro. Rifkin da un lato descrive il potere dei "nuovi tiranni" del progresso, identificandoli principalmente di Francesco Rao (*) nel ruolo ricoperto dai più grandi e importanti provider internazionali destinati a gestire l'eccesso a ogni attivi“la rete: opportunità e rischi” tà e a controllare la vita di ciascuno di noi in una società dove si accresce sempre ed in maggior misura il L’evoluzione dei consumi e la velocità esplicativa con divario tra chi è "connesso" e chi non lo è; dall'altro il quale si manifestano i diffusi bisogni generati da un viene considerata la possibilità di una maggiore diffusistema fortemente complesso e tendente esclusiva- sione della conoscenza, della democrazia e del benesmente alla creazione di una forma di consumismo di- sere e l'affrancamento dalla "schiavitù" del lavoro prasordinato, hanno prodotto nell’arco di pochi anni e ticata da quanti hanno un’occupazione stabile e in sotto i nostri occhi, un’insieme di fattori che, di fatto, contropartita dispongono di poco tempo libero che, sono simili all’ossigeno che respiriamo e di cui nessu- come bene è noto, è l’elemento necessario per la sono può farne a meno per ragioni meramente vitali. Per questo motivo, avvertiamo quotidianamente l’azione svolta da una forza centrifuga esterna a quelle esigenze fisiologiche e proprie dell’essere umano che ci inducono a scegliere usi e consumi praticati esclusivamente nei modi imposti dalla logica di un mercato spregiudicato che mira al profitto e disconosce il concetto etico. Questo modo di agire è ormai entrato a pieno titolo nell’universo della nostra quotidianità generando una duplice funzione a cui nessuno può sottrarsi. Difatti, da una parte vengono create quelle condizioni di esclusione sociale che agiscono direttamente nel contesto in cui viviamo facendoci prevedere pravvivenza di un sistema economico. cosa potrebbe accaderci qualora la nostra scelta sia Difatti, tra le teorie applicabili e volte a dare ossigeno praticata nella direzione opposta all’omologazione immediato sia al mercato che all’occupazione, prevale delle masse; dall’altra e volutamente vengono generate la tesi legata alla diminuzione del tempo di lavoro che quelle condizioni di aspettativa estremizzata e tenden- di fatto consentirebbe di far incrementare la fluttuaziote all’infinito che producono soltanto un costante al- ne monetaria per via dei consumi generati da chi ha un lontanamento dagli obiettivi concreti aumentando quel lavoro e di conseguenza può spendere. senso di impotenza che produrrà solo la dipendenza Essendo la riduzione dell’orario di lavoro ancora una nei confronti del sistema che pretende di non essere tesi, e vedendo costretti i dipendenti a tempi sempre più lunghi di permanenza in ambito lavorativo si sta mai abbandonato. L’elemento su cui vorrei focalizzare in questa sede diffondendo sempre di più il metodo legato agli acquil’attenzione è quello generato dalla globalizzazione sti on-line: qualsiasi impiegato, anche durante la pausa pranzo può acquistare liberamente dal suo computer della comunicazione attraverso la rete. Questo sistema ha reso possibile l’omologazione di titoli di trasporto, abbigliamento, libri, pagare utenze una serie illimitata di combinazioni a livello planetario domestiche, sottoscrivere contratti telefonici e assicusoprattutto grazie alla riduzione delle distanze e alla rativi programmare le proprie vacanze con l’intento di velocità della circolazione delle notizie che influisco- evitare perdite di tempo in fila e ottimizzando il tempo no notevolmente sulla moda. Jeremy Rifkin, anticipan- libero ad attività che afferiscono al benessere fisico. do notevolmente i tempi, ha posto l’attenzione sul Purtroppo, la centralità dell’uomo, della sua etica e dei fenomeno della “globalizzazione” legata alla rete nel suoi desideri non sono più fattori liberi ma il frutto di condizionamenti commerciali che di fatto generano volume l’”era dell’accesso”. Il noto economista statunitense analizza con lucidità e una costante forma di aggressione emotiva che ci imprecisione le strutture organizzative dell'economia del pedisce di poter scegliere liberamente. 21° secolo, delle sue reti e dei suoi meccanismi che (*) sociologo sono le caratteristiche fondamentali dell'era che si apre Il discorso della postmodernità (di) bec, su richiesta del suo presidente»): «semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità spiegato lucidamente di Gianfranco Cordì Jean-François Lyotard in questo suo La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (Feltrinelli, 2010) incentra il proprio discorso sull’avvenimento del fare, del compiere un azione, del condurre in porto un’attività. Questo evento fa passare, un certo stato delle cose, da una condizione statica ad una condizione dinamica. Il movimento, introdotto dall’azione, è insieme un mutamento, una conversione, una trasformazione. «La nostra ipotesi di lavoro è che il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nell’età postindustriale e le culture nell’età detta postmoderna. Questa evoluzione è iniziata almeno a partire dalla fine degli anni Cinquanta, che in Europa segnano la fine della ricostruzione. La sua rapidità varia in ogni paese, e nei paesi secondo i settori di attività: ne deriva una discronia generale, che non rende agevole il quadro d’assieme». L’oggetto dell’indagine di Lyotard (e, dunque, l’effettivo stato delle cose analizzato) è, perciò, il sapere. Ma si tratta, in questo caso, di un sapere che non coincide strettamente con una serie di enunciati denotativi (che possono sempre essere dichiarati veri o falsi) ma anche con un saper fare e un saper vivere. In sostanza siamo di fronte a un sapere che «non si riduce alla scienza, e nemmeno alla conoscenza». Dal sapere di tipo tradizionale, il quale segna la prima condizione (quella propria dell’età moderna), attraverso un perentorio cambiamento, si perviene al sapere della seconda condizione (quella postmoderna). Il «prima» (pre) e il «dopo» (post) stabiliscono una cesura che non è essenzialmente soltanto cronologica ma che rappresenta piuttosto la divisione tra due tipi ideali, tra due caratteristiche della società, tra due situazioni. La modernità, infatti, è stata contrassegnata dalla presenza in essa di alcune «grandi narrazioni» (metarécits) ovvero da una serie di giochi linguistici aventi la propria autorizzazione (e legittimazione) in se stessi. Afferma Lyotard: «questi racconti consentono dunque di definire i criteri di competenza propri della società in cui sono raccontati dall’altra di utilizzare tali criteri per valutare le prestazioni che in essa si realizzano o possono realizzarsi». Con l’avvento della scienza moderna ci si trova in presenza di un unico tipo di sapere composto da un unico registro stilistico (quello denotativo) che viene programmaticamente isolato da tutti gli altri. Il primo stato delle cose (quello destinato ad essere rivoluzionato) è quindi esattamente definito da una serie di «grandi racconti» aventi per obiettivo la legittimazione (teoricofilosofica ed etico-politica) di tutto il sapere. Ma perché avviene la modificazione? Che cosa effettivamente succede? Come avviene questo rivolgimento? «Nella società e nella cultura contemporanee, società postindustriale, cultura postmoderna… la grande narrazione ha perso credibilità, indipendentemente dalle modalità di unificazione che le vengono attribuite: sia che si tratti di racconto speculativo, sia di racconto emancipativo». A causa di un problema interno (una caduta di legittimazione) le «grandi narrazioni» perdono consenso, non riscuotono più fiducia, non si pongono più come qualcosa di autorevole. Dichiara perentoriamente Lyotard proprio in sede della «Introduzione» al volume (che nasce come «scritto su commissione. Si tratta di un Rapporto sul sapere nelle società più sviluppate che è stato proposto al consiglio universitario che coadiuva il governo del Que- nei confronti delle metanarrazioni». Da una condizione di legittimità ed autorità (passando per una crisi intrinseca al primo momento esemplato dall’autore) si giunge ad una condizione di scetticismo, di dubbio, di mancanza di fede; ad una posizione in cui non viene più ritenuto per vero quanto affermato precedentemente. La Condizione postmoderna si genera, dunque, da uno smacco, da un difetto, da una perdita, da una sconfitta. Il postmoderno non viene partorito da qualcosa di positivo, da una piena affermazione di valori, ideali e concetti, ma da qualcosa di negativo (la mancanza di qualcosa piuttosto che l’attestazione di una qualità, di un elemento nuovo). In questo senso, la nozione di postmoderno viene subito fuori come elemento di una relazione, come elemento duale, come oggetto di un rapporto. In definitiva essa non può essere mai considerata solo di per se ma sempre in contrapposizione al primo stato di cose (che è il moderno). Ma se le «grandi narrazioni», per se stesse, perdono di autorevolezza: dove cercare la nuova legittimazione nella mutata condizione che si è venuta a creare? «Il ricorso alle grandi narrazioni è escluso; non si sarebbe più in grado di ricorrere né alla dialettica dello Spirito né all’emancipazione dell’umanità per la validazione del discorso scientifico postmoderno. Ma la “piccola narrazione” resta la forma per eccellenza dell’invenzione immaginativa, innanzi tutto nella scienza». La soluzione auspicata da Lyotard prevede, dunque, oltre al ricorso alle «piccole narrazioni» anche la legittimazione «per paralogia» (libera invenzione di nuove mosse del sapere e di nuove regole dei giochi linguistici) e nella nuova considerazione delle fluidità, reversibilità, differenza, località, parzialità, libertà della mente umana. Da questo giudizio partono dunque, dopo quel 1979 che segna la data della prima pubblicazione del volume, tutte le riflessioni che si rifaranno, consciamente ed anche in maniera più o meno velata, al postmoderno. Termine e concetto rispetto al quale, dice lo stesso Lyotard, «la definizione è corrente nella letteratura sociologica e critica del continente americano». Il significato di questa nuova categoria era perciò cresciuto in ambienti e contesti differenti fra loro ed aveva assunto una varietà di significati diversi per ogni settore in cui era stato, sino ad allora, utilizzato. Ma sarà giusto Lyotard a darne, con l’opera in questione, l’esatta misura filosofica e teoretica buona per tutte le successive speculazioni. Il postmoderno si presenta, allora, come un avvenimento particolare e ben delineato: quello afferente ad una spaccatura, ad uno iato, ad una crisi. Le «grandi narrazioni» della modernità (le quali sono di due tipi: illuministico e idealistico), che hanno omogeneizzato e raccolto l’umanità ed il sapere in un’unica elocuzione onnicomprensiva e totalizzante, hanno cambiato di status. Sono diventate oggetto di quell’atteggiamento di chi non è propenso a credere, ad attribuire razionalità, ad accrescere la stima. Da questa perdita di ratificazione nasce, per «lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo» una nuova giacitura, una nuova circostanza, un nuovo clima. Il postmoderno rappresenta proprio questa contingenza; l’argomentare intorno ad un certo soggetto tenendo sempre ferma, in questo stesso ragionare, l’autorizzazione a porre in atto questa discussione si è, ora, dissolto. Il nuovo discorso avrà come criterio della propria convalida non più se stesso ma il frammentato mondo della complessità. Il quale, filosoficamente, trova con La condition postmoderne il suo manifesto più completo e perentorio. Sulle trasformazioni del princi- getti alla valutazione internazionale. Al cospetto di pio di non ingerenza negli affari fatti che non rientrano nel limiti degli standard democratici (come p.es. pulizie etniche in ex - Jugoslavia o interni di uno stato Ruanda) l’intervento della comunità internazionale sembra indispensabile. Il problema, però, sta nella scarsità di norme legali legittimanti tale reazione. L’applicazione delle sanzioni diplomatiche (tipo embargo, disapprovazione al forum internazionale, rottura delle relazioni diplomatiche) o gli altri mezzi pacifidi Olga Łachacz ci per la soluzione delle controversie previsti nello Tra i principii più importanti del diritto pubblico inter- Statuto delle Nazioni Unite (p.es. mediazione, arbitranazionale che regolano la coesistenza pacifica tra gli to o magistratura internazionale) non sempre porta al stati possiamo annoverare il rispetto della sovranità e raggiungimento degli effetti desiderati, specie nel caso la non ingerenza negli affari interni di altri membri di guerre civili, il numero delle quali supera, negli della comunità internazionale. Questi principii, nel 1945, vennero sanciti nello Statuto delle Nazioni Unite, una peculiare costituzione della comunità internazionale, e perciò da allora essi costituiscono le fondamenta delle relazioni internazionali. Tali principii acquistano ancora maggior significato nel caso di controversie internazionali oppure di carattere internazionale o non internazionale. Per quanto nel primo caso l’intervento della comunità internazionale possa essere fondato, in caso di scoppio di una guerra civile, colpo di stato, rivoluzione o disordini che non vadano oltre il confine dello stato, un intervento del genere non è legittimato e si rivela condizionato dagli sviluppi della situazione. C’è da porsi una domanda, però, tutt’altro che nuova né innovativa, riguardante i limiti di applicazione di questi principii, qualora in uno stato avesse luogo un’infrazione dei diritti umani o una rivoluzione e la comunità internazionale rimanesse impotente o agisse tramite rappresaglie diplomatiche non incisive. In altre parole: quali azioni della comunità internazionale intraprese in difesa dei valori democratici e degli standard della tutela dei diritti umani possono essere ultimi anni, il numero dei conflitti di categoria internaconsiderate in linea con il principio di non ingerenza zionale. D’altra parte l’intervento basato sull’uso della negli affari interni di uno stato? Delle domande del forza dovrebbe avvenire solo in estrema necessità ai genere sono molto attuali nel contesto della rivoluzio- sensi del divieto generale di uso della forza nel diritto ne in Libia e in altri paesi dell’ Africa Settentrionale. internazionale. Il principio di non ingerenza negli affari interni di uno È allora la realtà a creare necessità di ricerca di nuove stato nasce dalla sovranità di ogni stato nelle relazioni soluzioni giuridiche che possano colmare questa lacuinternazionali. Esso venne ripetuto nell’Atto Finale na. Esse devono costituire un compromesso tra il prindella CSCE nel 1975 nella parte dedicata alla Dichia- cipio di non ingerenza negli affari interni e il bisogno razione sui Principi che reggono le relazioni fra gli di tutela del bene più importante, quale la vita dell’uoStati partecipanti. Nel VI punto della Dichiarazione si mo, e in particolare delle vittime di guerre civili, mollegge, tra l’altro “gli Stati si astengono fra l'altro dal- to spesso civili indifesi. Bisogna accogliere con entul'assistenza diretta o indiretta ad attività terroristiche siasmo il fatto che si stia formando una regola, secono ad attività sovversive o di altro genere volte a rove- do la quale l’infrazioni dei diritti umani, e specialmensciare con la violenza il regime di un altro Stato par- te quelli aventi carattere di massa, possono costituire tecipante”. Nonostante tali disposizioni del diritto in- una base d’intervento della comunità internazionale ternazionale, a 36 anni dalla firma della Dichiarazione negli affari interni di uno stato. Tale regola potrebbe di Helsinki il rapporto stato-comunità internazionale è legittimare alcune azioni degli stati, dalle quali essi sensibilmente cambiato. I cambiamenti sono dovuti ora si astengono, compreso l’uso della forza in situaallo sviluppo della tutela dei diritti umani e alla pene- zioni straordinarie. Oltre a ciò rappresenterebbe un trazione del diritto internazionale negli ambiti del fun- altro strumento di tutela dei diritti umani, perché il zionamento degli stati che prima erano riservati esclu- fatto di proclamarli non basta – bisogna difenderli sivamente alla loro competenza. I doveri degli stati nei tramite meccanismi di tutela adeguati. confronti dei propri cittadini hanno perso il loro carat- (*) Scuola Superiore di Polizia a Szczytno tere per eccellenza nazionale e oggigiorno sono sog- (Polonia) Il diritto ad avere una famiglia: i Si verifica, quindi che i minori contesi fra adulti che vogliono esercitare la genitorialità a qualsiasi costo, i minori contesi fra i genitori. ( Dalla parte dei Bambini - parte seconda) quali anziché “mediare” fra di loro acuiscono i rapporti, facendo diventare i propri figli veri e propri strumenti di contesa. Si creano casi di minori sospesi, alla ricerca di rifermenti stabili e sicuri, ma non solo dal punto di vista giuridico - formale ma proprio da di Valentina Arcidiaco (*) un punto di vista “affettivo” ed “educativo”. Se,da adulti, però, provassimo ad interrogarci su come si Nella vita dei bambini sono le minuzie che contano. sentano questi minori, che spesso osservano silenzioAntonio Gramsci, Lettere dal carcere, 1926/37 samente gli atteggiamenti degli adulti attorno a loro e che, esaminano la propria situazione personale a volte paragonandosi con i propri pari, che subiscono silenGià nel precedente numero di Helios Magazine mi ero ziosamente gli umori dei propri genitori e che comsoffermata a riflettere circa le situazioni dolorose o prendono pienamente di aver dei genitori in opposizioproblematiche che riguardano i minori, soggetti ritenu- ne, ci renderemmo conto che, questi bambini hanno il ti “fragili” dalla società e che per tale motivo devo diritto di avere una famiglia, un’infanzia serena ma essere “tutelati” e sostenuti nella crescita. I bambini, che da sempre rappresentano il legame tra il presente e il futuro, sono al centro, soprattutto negli ultimi anni, di numerose contese familiari ma anche giudiziarie, spesso sospesi fra genitori separati o in bilico fra famiglie inadeguate,e pertanto, bambini che non sono “psicologicamente appartenenti ad un nucleo”. Non si tratta in questo caso delle famiglie allargate, ossia di famiglie ricostituite in nuovi nuclei, con nuovi discendenti, ma in questo articolo mi vorrei soffermare brevemente sulle famiglie, in particolare sui minori, che giornalmente vivono situazioni di disagio a causa della “non accettazione o non elaborazione” dell’evento separazione e allontanamento da uno o dall’altro genitore/coniuge. In alcune situazioni conflittuali i figli vengono affidati ad un genitore che temporaneamente viene definito affidatario in via esclusiva, il quale ha pieni diritti sull’educazione e accudimento del minore mentre l’altro genitore può avere delle prescrizioni circa i contatti con i propri figli. Nel 2006 il legislatore ha emanato la “legge sull’affido condiviso” cercando di dare una svolta circa l’affidamento esclusivo ad un solo genitore, assumendo i cosiddetti criteri per la “bi-genitorialità” e cercando di far mantenere il legame dei figli con entrambi i genitori. Questa legge però è stata oggetto di numerose critiche soprattutto perché nel momento della sua applicazione su un nucleo familiare, dovrebbe valutare le situazioni conflittuali fra i coniugi e, nel contempo anche i margini di benessere del minore, ovviamente tutelandolo rispetto al conflitto genitoriale. Secondo le statistiche giudiziarie la legge sull’affido condiviso è poco applicata,in quanto la piena collaborazione e cooperazione dei coniugi sembra attualmente solo una chimera, poiché le contese non riguardano solo la prole ma anche, più propriamente, la gestione a livello patrimoniale. Possiamo immaginare che se per un adulto la separazione viene vissuta come un “trauma”,per un bambino vivere l’allontanamento, anche temporaneo, di uno dei due genitori è un disagio che può essere o meno vissuto come un abbandono, ma anche come uno status di inadeguatezza personale. soprattutto devono poter vivere la loro “età cronologica” senza diventare come spesso succede, bambini adultizzati già grandi rispetto a situazioni nelle quali sono direttamente coinvolti. I bambini istintivamente comprendono bene che avere una famiglia è “ avere un luogo sicuro” dove potersi rifugiare nel caso in cui l’ambiente esterno non sia confacente al proprio essere. Ed è per questo che bisogna aiutare i bambini contesi, facendo capire ai loro genitori che i figli non sono un possesso ma un “ dono prezioso che va tutelato” e soprattutto che ogni ruolo va vissuto in maniera equilibrata, al fine di far crescere serenamente i figli dando loro sicurezza e tranquillità. (*) psicologa Recensione ressa veramente; vanno poi riconosciuti quali Cari insegnanti, cari genitori … sono i veri bisogni del bambino e cioè l’autoafsalviamo i nostri figli fermazione, l’autostima, il movimento, l’esplora- a cura di Maria Laura Falduto (*) zione, la conoscenza, la creatività, la socializzazione, l’inserimento nel gruppo. Fondamentale è poi la “comprensione dell’alfabeto emozionale”, non bisogna dimenticare mai che lo sviluppo cognitivo ed intellettivo di un bambino procede di pari passo con quello emotivo, riuscire ad interpretare i suoi pensieri attraverso le emozioni che esprime e viceversa è sicuramente un incentivo importante per lo sviluppo dell’”intelligenza emotiva” quella speciale abilità di portare le emozioni nella ragione e la ragione nelle emozioni. Tra gli elementi che invece potrebbero ostacolare una buona educazione gli autori annoverano alcuni comportamenti da evitare quali:avere delle aspettative ambiziose,esercitare pressioni psicologiche senza tenere in considerazione la vera natura ed i bisogni del bambino,stile di vita ed alimentazione frettolosi, richieste implicite non verbalizzate, trascuratezza dei figli da parte di genitori ambiziosi o troppo impegnati nella professione; (causa principale della sindrome da stress nei bambini), imporre situazioni di sovraccarico emotivo. Uno sguardo attento e scrupoloso viene posto poi sui fattori di rischio psicopatologici (individuali, familiari, ambientali, sociali) cui possono essere esposti i nostri educandi; in evidenza, le psicopatologie più frequenti fra i giovani sono:isteria, depressione,anoressia, schizofrenia; tra le patologie psicosomatiche: acne, psoriasi, ritardi di sviluppo, bassa statura, obesità. Infine il testo si chiude con un invito alla riscoperta ed alla riformulazione nell’educazione infantile, di quelli che sono i valori profondi e autentici che caratterizzano l’animo umano quali il donarsi, la tolleranza, l’umiltà, il coraggio, il sacrificio, la forza e la dignità. A tutti coloro i quali si occupano di educazione,il testo si offre come una sorta di mappa nautica da consultare per navigare sereni nei mari dell’educazione gettando l’ancora in porti sicuri. (*) Psicologa Ciò che anima le pagine di questo libro, è la percezione di un viaggio affascinante nella sua praticità che s’innesta lungo un filo conduttore:l’educazione al sentimento come motore dello sviluppo. Gli autori cercano di scendere nel profondo di tematiche palpabili ogni giorno nel campo dell’educazione, evidenziando con accurati dettagli le tappe di vita che vanno dalla prima infanzia, alla tarda adolescenza, fino alla genitorialità; nonostante oggi abbia varcato le coste del non utile e dell’inessenziale, il tema dell’educazione rimane assolutamente al centro del nostro viaggio (purtroppo siamo attorniati dall’inutile e lo consideriamo utile tanto da ricercare nell’”evasione” , nell’eterna vacanza l’essenza della nostra anima; scopriremo nelle pagine del testo che in realtà la vacanza a tutti i costi, i riempimenti attraverso il denaro, i giocattoli ecc dei “buchi” affettivi che lasciamo nelle vite dei nostri figli, altro non sono che delle parentesi di ricarica seguite dalla fuga da una realtà percepita e vissuta come insostenibile) . La “nuova rotta”, prenderà le mosse proprio dalla presa di consapevolezza che l’educazione,risente e riflette i celeri e costanti mutamenti storici, culturali, economici propri della nostra epoca,dunque sarebbe impossibile pensarla in modo funzionale sradicandola da tale background. Gli autori così,colgono la sfida evolutiva riguardante l’educazione, facendo tesoro delle loro conoscenze ed esperienze nell’ambito clinico psicologico argomentano come sia possibile,attraverso una serie di “linee guida”, alimentare un’educazione sana ed equilibrata che possa garantire ai nostri figli una crescita fisica e psico emotiva sicura e ben integrata. Il lettore attento sarà portato quasi spontaneamente a chiedersi in che modo poter fungere da “facilitatore”di un’educazione sana. Ecco alcune risposte:è essenziale attivare la motivazione intrinseca;usare similitudini, metafore, immagini, poesie, fiabe, miti; usare il linguaggio del cuore,invece di spronare i bambini o gli adolescenti con le minacce o con le promesse di una ricompensa; stimolare la capacità intuitiva, che significa riuscire a sentire dentro,quando c’è Emilia Costa – Pasquale Romeo – Mariella Squillace (Armando Editore 2011, pagg. 176, euro 15.00). qualcosa che preme per essere espressa, che inte- Riflessioni di una mamma inse- scente possa sollevare il suo animo, sentirsi confortato e ritrovare le proprie forze, insieme alle capacità per gnante aprire nuovi orizzonti alla vita? Sarebbe il caso di spogliarsi del culto della personalità, di quello che conduce a compiacersi nell’illusione che si è docenti, solo per il fatto che questa è l’attività professionale ed indossare l’abito dell’umiltà e dell’equanimità come persuasione della mente. di Tiziana Fortunato Esiste una realtà superiore che mette in comunicazione “il valore iniziatico dell’insegnamento/ i valori che ogni IO ha in comune con gli altri IO: la potenzialità e sacralità di ogni vita irripetibile ed uniapprendimento” ca, interazione formativa nel rapporto reciproco tra Iniziatico deriva da iniziazione, inizio, avviamento al docente e discente. fine di sviluppare le energie interiori possedute allo Poiché l’essere umano non è fatto solo di intelletto ma anche di sentimento, occorre che la formazione si basi stato latente. Processo che serve a schiudere l’intelletto e permettere anche sull’umiltà del sentimento. “Riconosco il mio di comprendere non soltanto le apparenze ma anche la ruolo formativo ma stattene lontano” è un ragionanatura profonda delle cose. Ovviamente, perché ciò mento comune tra accada, bisogna essere guidati ma si sa, occorre avere quanti sono condegli insegnanti che siano realmente in grado di for- vinti nella teoria potenziale mare, porgendo fattivamente non una ma tutte e due le del mani per aiutare a costruire personalità, sentimenti, valore dell’istruzione ma trovano abitudini, Uomini e Cittadini! (…) Quando ci si trova nel settore dell’insegnamento e difficile far scendell’apprendimento, nessun risultato è riproducibile in dere dalla testa al base a un protocollo: chi insegna dovrebbe avere l’u- cuore questo raIl miltà di mettersi in discussione aprendosi ad un uni- gionamento. verso con caratteristiche e virtù qualitative personali: ruolo iniziatico la persona che apprende. E’ necessario aver però svi- dell’insegnante si luppato l’umiltà di ascolto e l’intelligenza per com- concretizza e si esprime non nel prendere. Iniziatico quindi non è occulto. Un insegnante è investito della missione più delicata e dare ma nel darsi. Chiunque dà, qualsiasi cosa dia, più importante che la società possa assegnare: FOR- stabilisce un rapporto di superiorità tra il datore e colui MARE. Contribuire cioè alla forma del pensiero e che riceve. quindi del FARE. Purtroppo però non sempre questa è Chi dona se stesso si pone invece al medesimo livello di colui che riceve; nell’insegnamento, esprime così il la realtà. Molto frequenti sono i casi in cui chi insegna ha perso nobile significato dell’iniziare all’apprendimento e il desiderio di contatto con la realtà del discente, sosti- avviene lo stesso nella vita sociale a qualsiasi livello. Nessuno vive da solo, senza dare e ricevere in un contuendolo con il parlare del discente. Provo sgomento nel confrontarmi con chi considera tinuo scambio con gli altri e, perché questo sia espresl’istruzione una sterile operazione di trasferimento di sione di crescita, è fondamentale che sia intriso di ucontenuti. Mi chiedo, come può l’istruzione essere miltà e sincerità. realmente efficace nel formare, quando il suo tramite Una tale formazione diventa realmente iniziatica alla pretende e delega alla formazione ma non ne dà? L’i- comprensione. struzione è una conquista naturale, un percorso che si Penso che un rapporto formativo privo di ciò, agisca in crea da sé e nel quale si conquistano competenze con maniera da determinare il più pericoloso disorientamento delle coscienze. Doloroso doverlo subire nel naturalezza. Qui il ruolo fondamentale del docente, di colui che ruolo di genitore. ispira l’allievo a DARE il meglio di sé, a TROVARE È dovere e potere di ciascuno promuovere e comprenil meglio in sé, per scoprire ciò che egli stesso ha ap- dere la potenzialità di questo processo che trova l’unità nella diversità. I problemi posso essere negati, pospreso da tempo. Tutto questo richiede sforzo e costanza. Il punto sta sono essere sminuiti, possono essere fraintesi, possono nell’assegnare un giusto valore ai diversi aspetti della essere rinviati ad altri ma non si risolvono finché non formazione umana che, lo ricordo, è costituita da ma- si comprende che il senso del dovere deve pervadere l’intera coscienza umana. teria e spirito. E’ difficile la conciliazione tra l’aspetto spirituale e la La responsabilità sta nel prendere consapevolezza che concretezza della vita, concepita e vissuta all’interno far apprendere non significa riempire la mente di contenuti quanto piuttosto accenderla, come la scintilla di valori etici e di ideali. Ogni essere umano diventa degno di attenzione come che infuoca il legno; è così facendo che indirizziamo un fine, mai come un mezzo. È utopia far sì che il di- alla ricerca ed all’amore per la Verità. Credere o non credere? di Fabio Arichetta Prendo spunto dall’articolo “Il sentiero del non credente” di Gianni Ferrara, di cui sono amico devoto e riconoscente, che mette in evidenzia l’inquietudine degli uomini e delle donne che, non conoscendo o non credendo in Dio, si dichiarano atei agnostici, risolvendo velocemente il problema. Come dire: Dio non esiste. Nulla quaestio. Ma chi dichiara di non credere nell’esistenza di Dio in molti casi ha visto la sua ricerca logica e razionale imboccare il vicolo cieco del nulla e preferisce credere alla sua inesistenza, una scelta razionale. L’agnostico sostiene, in sintesi, che la ragione umana nulla può spiegare di Dio perché semplicemente Dio non esiste, quindi cercare di spiegare Dio in via empirica è un controsenso in termini, proprio perché Dio non è oggetto di un sapere scientifico esclusivo. La domanda se Dio esiste spesso nasce nel cuore dell’uomo in presenza di eventi terribili, oppure quando egli si interroga sul significato ultimo della vita, con domande come: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? Senza sapere che il fatto stesso di vivere e amare la propria vita e quella delle persone che si affidano a noi è segno di grande senso religioso e, implicitamente, di fede. Agire con responsabilità verso gli altri, sul lavoro, per strada, in famiglia è segno di fede, che anticipa la presenza di Dio in noi ed in ciò che facciamo. Dio, infatti, è relazione, una relazione intima con il cuore dell’uomo e fra gli uomini stessi. Il problema del credere non è solo cercare e trovare una spiegazione razionale all’esistenza di Dio, ma è innanzitutto un atto di affidamento; si, affidarsi e camminare sul sentiero buio come Kierkegard: «credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida, ti prenderò fra le mie braccia!». Nella “Lettera ai cercatori di Dio” la Conferenza Episcopale Italiana paragona il credente ad un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, e l’ateo ad un credente che ogni giorno si deve sforzare per non credere, entrambi il risvolto della stessa medaglia. Credere non significa avere delle risposte prestabilite e pronte all’uso secondo l’occorrenza, ma essere sempre alla ricerca, allo stesso modo dell’ateo consapevole di cui ci parla il buon Gianni Ferrara. Comprendere la rivelazione cristiana non è impossibile, ma bisogna tenere conto dei limiti intrinseci della nostra umanità; in “Essere infinito e Essere eterno”, la santa filosofa Edith Stein scrive: «nel mio essere mi incontro con un altro essere, che non è il mio, ma che è il sostegno e il fondamento del mio essere». Innanzi al mistero di Dio, al limite delle nostre facoltà logico-razionali, dobbiamo guardare al Cristianesimo che cerca le sue strade attraverso la filosofia, che insieme alla fede, è la risposta più libera che il cuore dell’uomo è capace di dare, come nell’Enciclica “Fides et Ratio”. Non vi è dubbio che oggi più che mai nel mondo occidentale, avvolto dai fumi dell’egoismo capitalista e dall’arrivismo edonista, il rapporto dell’uomo con Dio si presenta ancora più drammatico, in termini di un amletico dilemma: credere o non credere? In realtà, anche il credente, assillato dalla domanda di amore che ha in se, si avvia sul sentiero ripido e irto della conoscenza della verità che ottiene solo per grazia divina, dopo un gravoso e pesante processo di purificazione interiore che vede l’anima svuotarsi dalla futile quotidianità con un impegno assunto in assoluta libertà. Il gesto estremamente drammatico ma assolutamente concreto di abbracciare Dio o respingerlo, perché razionalmente non dimostrabile alla stregua di un’equazione di primo grado o di un’espressione con tanto di parentesi graffa, quadra e tonda entro cui risolvere e chiudere il nesso logico matematico di Dio, è il vero gesto che implicitamente dimostra l’esistenza di Dio, perché come si può rifiutare Dio se non esiste? Il rapporto che si instaura tra intelletto e volontà, tra affetto e umana intuizione, e tra la tristezza dell’angoscia e la speranza, tutti nel loro interagire, apre un varco, una finestra spirituale che supera la morte e frattura le catene della prigione spazio temporale, come ci spiega S. Agostino in De civitate Dei. E sempre sant’Agostino nei Sermoni, spiega: «se tu comprendi, allora non è Dio». (117, 3, 5). Innanzi alla inspiegabilità e incomprensione di Dio, possiamo solo affermare, come Blaise Pascal ne I pensieri che « la ragione è il riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano». Così l’ateo e l’uomo di fede possono dire parimenti che Dio è sconosciuto da punti di vista certamente diversi. Da un lato si colloca l’ateo agnostico, per il quale Dio è un emerito sconosciuto perché non razionalmente conoscibile; dall’altro l’uomo di fede, che ritiene Dio sconosciuto perché infinito oltre la cognizione umana. Ave Mary - E la Chiesa inven- parla affatto (tipo la morte della Madonna). Si parla tò la donna di Michela Mur- della figura femminile, della percezione della fede, dell'importanza dell'immaginario collettivo, dello stangia dard di “bellezza femminile”, dello “shock” dell'idea di avere un Dio femminile e del sacramento del matrimonio. Conoscendo la storia di Michela Murgia, animatrice per anni dell'Azione cattolica, si potrebbe supA cura di Elisa Cutullè porre di leggere un elogio alla Chiesa: non è quello Viviamo nella patria del cattolicesimo, grazie anche che si avrà tra le mani. Ci si ritrova un'analisi, docualla vicinanza fisica e mentale alla Chiesa che pervade mentata, della figura femmil'esistenza degli italiani fin dalla nascita, basti pensare nile nella religione cristiana, ai crocefissi che si trovano (ancora) in quasi ogni asilo nella formazione dell'immae scuola. Eppure, allo stesso tempo, è una delle nazio- ginario collettivo, della diffini in cui le chiaroveggenti ed i cosiddetti maghi hanno coltà di gestione della quemaggior successo, svuotando, con certosina pazienza, stione femminile da parte le tasche dei creduloni che vi si rivolgono. Ma ci sono delle alte cariche della Chiesa. Aspetti su cui, magari, anche le figure che uniscono il mondo religioso al non ci si sarà mai soffermati a pensare e riflettere, mondo magico, come le vecchie donne dei paesini che dando, forse, per scontato, che tutto è stigmatizzato e, tolgono il malocchio pregando o l'accabadora, contro- perciò immutabile. Fatto sta che, nella Chiesa cattoliversa figura degli anni 50, vissuta in Sardegna, che ca, la donna non può celebrare e praticava, con pietà, l'eutanasia. Michela Murgia ne ha si trova di fronte ad una figura raccontata, romanzandola, la storia e sottolineando la creata ad hoc come la Madonna, caratteristica umana del non “voler” o non “saper ve- donna perfetta che ha gestito la dere”. La Germania ha appena festeggiato i 50 anni di nascita e la crescita del Salvatore. collaborazione con il governo turco per gli emigrati. I Ma Maria era, in sé, una donna primi emigrati turchi arrivarono in Germania nel 1961 leggermente diversa da come ci si ed erano estremamente timorosi di questa cultura, in aspetta la donna perfetta: non cui, si adorava un uomo crocefisso di cui ogni domeni- accetta immediatamente di essere ca si mangiava il corpo e si beveva il sangue. Sebbene colei che partorirà il figlio di Dio, la fede cristiana vada ben oltre, spunta un sorriso pen- chiede all'angelo il perché e, cosando a come, in effetti, cambiando il punto di osser- me se non bastasse, incinta si vazione, cambiano anche le prospettive e processi, mette in viaggio da sola per andaabitudini entrare nella nostra quotidianità, possano re a trovare la cugina. Una ribelle in erba? Chi lo sa, sembrare assurdo ad un occhio esterno. Questo è il spesso la ribellione è nascosta nei posti più impensati. processo che Michela Murgia compie nel suo testo Basta pensare all'origine dell'idea di questo testo: inviAve Mary. Lei stessa afferma: “ Dovevo fare i conti tata ad un convegno sulla strumentalizzazione e lo con Maria, anche se questo non è un libro sulla Ma- sfruttamento della figura femminile nella Chiesa cattodonna. È un libro di me, su mia madre, sulle mie ami- lica, la Murgia vi partecipa, insicura peraltro di essere che e le loro figlie, sulla mia panettiera, la mia maestra l'interlocutrice adatta, in quanto non teologa accademie la mia postina. Su tutte le donne che conosco e rico- ca. Un incontro alquanto piatto, con pochi temi intenosco. Dentro ci sono le storie di cui siamo figlie e di ressanti finché il parroco non decide di intervenire, cui sono figli anche i nostri uomini: quelli che ci vor- sottolineando, che nella sua comunità le donne godono rebbero belle e silenti, ma soprattutto gli altri. Questo di una stima molto alta e collaborano strettamente con libro è anche per loro, e l'ho scritto con la consapevo- la Chiesa. lezza che da questa storia falsa non esce nessuno se Il nutrito pubblico femminile che, fino ad allora era non ci decidiamo a uscirne insieme”. A chi va regolar- stato alquanto apatico, si ribella e mette in evidenza mente in chiesa sono sicuramente saltate all'occhio che le donne, in quella comunità facevano solo le pulialcune piccole modifiche avvenute nel corso degli zie. La scintilla ha acceso un tale dibattito ed evidenultimi 20 anni: donne e uomini che vanno in chiesa ziato tante incertezza, dubbi, curiosità, che hanno spinsenza copricapo, non più chiare divisioni tra uomini e to la Murgia a studiare, leggere e informarsi, per cerdonne tra i banchi, bambine che fanno le chierichette. care di creare un po' più di chiarezza sulla figura femMa non solo: mentre prima, quando si pregava il padre minile nel cattolicesimo. Leggendo il testo, ci si ritronostro il celebrante affermava “osiamo dire”, ora la verà spesso a confrontare quanti narrato con la propria versione è “preghiamo come il Padre ci ha insegnato”, esperienza personale, trovando, a volte, delle coincie gli sposi non si “prendono” ma si “accolgono”. Non denze sorprendente o, altre volte, ci si meraviglierà, di sono un caso e non sono le uniche modifiche: la Mur- non esseri resi conto di un determinato aspetto. Digia nel suo testo analizza come viene descritta la Ma- scorsi, esempi e analisi che non rimangono fermi al donna nel vangelo ed evidenza come molti “dogmi” piano cattolico, ma che analizzano diversi aspetti della siano costruzioni redatte in un secondo momento dalla vita sociale, tanto da lasciare, a bocca aperta per deterChiesa mentre ci sono altri argomenti di cui non si minate costruzione di archetipi culturali. “Vallanzasca” intervista a Vito Bru- risale forse a un episodio che gli è accaduto quando era bambino. È il risvolto finale del libro e non vorrei rivelarschini lo. L’ispettore Moncada è invece la summa di due personaggi. Il primo è Achille Serra, il poliziotto che gli ha sempre dato la caccia. Il secondo invece è il vicequestore Giuseppe Peri, un oscuro funzionario della questura di Trapani che per primo elaborò il teorema della strategia della tensione, voluta da uffici infedeli dello Stato. Per questa sua denuncia le autorità del tempo gli tolsero tutte di Cristina Marra le indagini e finì in un ufficio a timbrare carte. Mala milanese ma non solo. Nel tuo libro c’è uno “Magro, agile, svelto di cervello” è Renato Vallanzasca, spaccato sociale della Milano degli anni ’70, non solo il boss della Comasina, “una delle batterie più famose di la mala ma altre organizzazioni criminali caratterizquel tempo”. Sono gli anni Settanta a Milano, gli anni zavano e terrorizzavano la Milano di quegli anni? delle violenze bande criminali e dell’impegno dei tutori La tesi del romanzo è proprio questa: l’assenza della cerdella legge. Questo spaccato di vita sociale italiana è tezza della pena, una sorta d’impunità perché soltanto raccontato nel bellissimo romanzo “Vallanzasca – Il una minima percentuale di reati arrivava a sentenza, la romanzo non autorizzato del nemico pubblico numero debolezza delle forze dell’ordine (di notte Milano dispouno” (Newton Compton, pagg.404,euro 9,90) di Vito neva soltanto di 50 auto tra polizia e carabinieri), ma Bruschini, direttore di “Global Press” l’agenzia stampa soprattutto la volontà di ostacolare a tutti i costi, da parte per gli italiani nel mondo, autore di documentari televisidi certe strutture statali reazionarie, l’evoluzione sociale vi e del romanzo “The Father, il padrino dei padrini”. della popolazione (in questi anni passa il divorzio, l’abor“Dalle “celle di San Vittore affollate dal gotha della mato, il nuovo codice di famiglia), portarono a una sorta di lavita milanese e del terrorismo italiano” negli anni Otbaldoria delinquenziale, tanto che Milano in quegli anni tanta, il romanzo procede a ritroso fino al decennio prefu considerata la capitale del crimine. cedente quando l’Italia “si stava incamminando verso la C’è un personaggio che ti ha particolarmente incuriostagione più tormentata della sua breve vita democratica” sito? e Milano “brulicava di polizia e carabinieri alla ricerca di Sicuramente il vicequestore Giuseppe Peri. Un funzionalatitanti, rapinatori e terroristi”. rio che ha sempre fatto il suo dovere e, come spesso acL’autore è il cronista che lascia parlare i fatti e rende le cade in Italia, è stato punito per non essersi uniformato al città coinvolte negli eventi di sangue protagoniste, testiconformismo dei suoi superiori. Ha pagato con una promoni e accusatrici. fessione spezzata e con la vita, perché quattro anni dopo É un periodo in cui l’intero paese è ostaggio non solo essere stato epurato e inviato in un oscuro ufficio di Padella criminalità organizzata ma anche “dei servizi segrelermo, morì stroncato da infarto. Dimenticavo di dire che ti, della mafia e della P2”. Portato sul grande schermo dal i due superiori che gli tolsero le inchieste e lo spedirono a regista Michele Placido, con la grande interpretazione di Palermo, anni dopo si scoprì che erano nelle liste della Kim Rossi Stuart nei panni del bel Renato, “Vallanzasca” P2. di Bruschini è un libro-testimonianza in cui la conflittuaChe attinenza c’è tra il tuo romanzo e il film di Placilità tra bene e male diventa la storia del criminale Vallando? zasca e del suo antagonista l’ispettore Moncada. Placido ha fatto un bel “gangster movie”, ha dovuto sinDopo “The Father” perché la scelta di “Vallanzasca”? tetizzare la vita di Vallanzasca e ne è uscito un film d’aPer costruire le origini della storia della mafia per il rozione che a me è anche piaciuto molto. Si è concentrato manzo “The Father”, negli Atti delle Commissioni parlasul personaggio e l’ha seguito con una lente d’ingrandimentari, mi sono imbattuto in alcuni documenti che racmento (Kim Rossi Stuart è da oscar per contavano di connessioni tra uffici istituzionali, come l‘interpretazione). L’unico appunto che gli si può fare è servizi di sicurezza, massoneria segreta e soprattutto Cia, che è una storia decontestualizzata. Io ho fatto l’operazioe la criminalità comune avvenuti nei primi anni Settanta. ne esattamente opposta. In pratica bande come Turatello, Vallanzasca e persino il Non m’interessava tanto raccontare la vita di Vallanzasca clan dei Marsigliesi, furono usate per compiere le stragi e e quel che ha fatto, ma in quale scenario sociale e politico i delitti eccellenti che hanno funestato quegli anni. Ho lo ha fatto. scelto Vallanzasca perché è stato un bandito che ha semLo presenti in tutt’Italia. Com’è stato accolto dai letpre sollecitato molto la fantasia della gente, con la sua tori? spavalderia, la sua audacia e una sorta di sua etica crimiQuesto romanzo è stato scritto soprattutto per i giovani. I nale che oggi non esiste più. Vorrei infine aggiungere ragazzi trentenni di oggi hanno sentito a mala pena parlache, malgrado Vallanzasca sia stato più volte interpellato re di strategia della tensione, di P2, di stragi. Con la pasda quelle forze oscure, per trasformarsi in killer, ha semsione che può esprimere un romanzo ho tentato di racpre rifiutato di diventare loro complice. contare loro il grande inganno che noi, che all’epoca Vallanzasca e Moncada, il criminale e il tutore della eravamo ragazzi, abbiamo dovuto subire. legge. Mi tratteggi queste due figure? La mia soddisfazione è ricevere lettere, come dicevo, di Sono i due antagonisti del romanzo. Di Vallanzasca do giovani che mi ringraziano per avergli mostrato in modo una mia personale motivazione, spiegando perché è diappassionante fatti politici che altrimenti non avrebbero ventato il criminale che tutti abbiamo conosciuto nelle mai potuto decifrare, se avulsi da un certo contesto. cronache dei giornali. La sua ribellione contro il mondo