TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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INTRODUZIONE
È ormai assodato come il petrolio sia il componente che ha rivoluzionato il modo di produrre e
costruire dell’uomo.
Non sono poche le applicazioni che sfruttano i prodotti e le derivazioni del cosiddetto “oro nero” .
Di queste se ne potrebbero elencare di innumerevoli, ma sia per brevità che per coerenza di studio, si
desidera approfondire nella presente tesina solo tre di questi, come i bitumi, gli asfalti ed i catrami.
Anche se nel linguaggio comune termini come “bitume”, “catrame” o “asfalto” sono spesso usati
indifferentemente, essi hanno significati diversi e devono essere usati con precisione. Un ulteriore, se
non il principale, motivo di confusione è dovuto al fatto che, fra i diversi Paesi, esistono differenze
sostanziali nel significato attribuito allo stesso termine. Per esempio, il bitume da petrolio è chiamato
“asphalt” negli USA, mentre in Europa “asfalto” è la miscela di bitume e inerti (conglomerato
bituminoso) usata per la pavimentazione stradale. In Italia, seguiremo ovviamente l’uso europeo.
BITUME: è un materiale di colore bruno o nerastro, solido o semi solido a temperatura ambiente, con
comportamento termoplastico. Si ricava dalla lavorazione del petrolio grezzo, e chimicamente è una
combinazione complessa di composti organici ad alto peso molecolare, con prevalenza di idrocarburi
con numero di atomi di carbonio maggiore di C25 e alto valore del rapporto C/H. Oltre a piccole
quantità di zolfo, azoto e ossigeno, contiene inoltre tracce di metalli quali nickel, ferro e vanadio.
Praticamente non volatile a temperatura ambiente, insolubile in acqua
e solubile in alcuni solventi.
BITUME NATURALE: costituito dal residuo formatosi in seguito a fenomeni naturali di ossidazione
ed evaporazione delle sostanze più volatili dei petroli; è analogo al bitume, presente in natura sotto
forma di depositi, sotto forma di affioramenti, di vene, di sacche o di laghi; è presente da solo o
mescolato intimamente con materiali inerti (in questo caso si parla di “asfalto naturale”). Anche se le
proprietà del bitume naturale sono analoghe a quelle del bitume da petrolio, la sua composizione
chimica presenta differenze significative e non può esservi assimilato dal punto di vista tossicologico.
Il giacimento più importante si trova nell'isola di Trinidad, dove costituisce quasi un lago; esso
contiene più del 50% di bitume puro misto ad acqua, sabbia, argilla.
BITUME OSSIDATO: “sostanza solida nera complessa ottenuta insufflando aria attraverso un
residuo riscaldato o attraverso un raffinato proveniente da un processo di deasfaltazione, con e senza
catalizzatore. Il processo si basa principalmente su di una condensazione ossidativa che provoca
l’aumento del peso molecolare”.
ASFALTO: si tratta di una miscela di bitume con materiali inerti (pietrisco, sabbia e altro). Negli
USA è pratica comune utilizzare questo termine per riferirsi al bitume. Rocce impregnate di bitume
naturale si trovano negli Stati Uniti, nel Canada, in Francia, in Svizzera ed in Italia, come ad esempio
in Abruzzo ed in Sicilia. In Sicilia le rocce asfaltiche si estendono lungo una fascia ristretta, ma
allungata, da Scicli a Vizzini. Fra i due tipi principali italiani esiste una profonda differenza non
soltanto circa la natura della roccia base, ma soprattutto per le caratteristiche del bitume di
impregnazione. I giacimenti asfaltiferi abruzzesi sono costituiti da calcarei, con bitume quasi sempre
duro, mentre gli asfalti siciliani sono formati da una roccia calcarea tenera di natura leggermente
marnosa con bitume generalmente molto molle.
ROCCE ASFALTICHE: quando i bitumi contengono una percentuale di sostanze inorganiche
decisamente superiore al 2%, in questo caso il bitume si trova in quantità compresa tra il 5% e il 20%
e raramente raggiunge il 40%. L'Italia possiede giacimenti importanti di rocce asfaltiche; in Sicilia
(Ragusa) si trovano giacimenti nei quali il minerale è costituito da roccia calcarea impregnata di
bitume in quantità variabile dal 7 al 12% cava di asfalto naturale di Ragusa.
CATRAME: questo termine, corrispondente alla parola inglese “TAR”, si riferisce ad un materiale
con aspetto simile al bitume, ma del tutto diverso per origine e composizione. Si presenta alla
temperatura ambiente come un liquido, più o meno viscoso, di colore variabile fra bruno e nero. E’,
infatti, ottenuto industrialmente dalla distillazione distruttiva del carbon fossile.
Le sostanze organiche presenti in maggiore quantità sono gli idrocarburi alifatici e i composti
aromatici e, in proporzioni minori, altre sostanze contenenti S, O, N. La sua composizione,
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comunque, varia, entro certi limiti, a seconda del carbone usato e delle modalità di distillazione. Il
catrame grezzo si può usare direttamente come combustibile, per spalmare cartoni per tettoie, per
fabbricare il nerofumo e antisettici vari, ma per lo più, opportunamente deacquificato, viene
sottoposto a distillazione frazionata per ottenere miscele di sostanze di maggior utilizzazione pratica.
Le frazioni che si ottengono dalla distillazione sono gli oli leggeri , medi, pesanti e gli oli di
antracene, mentre il residuo costituisce la pece.
Volendo entrare nel particolare, questo materiale, rispetto al bitume, mostra un contenuto molto più
elevato di idrocarburi policiclici aromatici (IPA), oltre che numerosi altri composti contenenti
ossigeno, azoto e zolfo. Il catrame contiene principalmente idrocarburi aromatici, mentre il bitume
idrocarburi paraffinici. Data la natura del materiale di origine, il catrame è costituito da una miscela di
numerosi compositi organici. Fra gli idrocarburi in esso contenuti si ricordano il benzene, il toluene,
la naftalina, l’antracene. Esso contiene inoltre composti ossigenati come fenolo, cresoli, ilenoli,
naftoli e composti azotati come piridina, picolina, clinoline.. La composizione del catrame dipende, in
primo luogo, dalla temperatura cui è stato prodotto e secondariamente dal tipo di carbone che si è
usato. In genere i catrami ottenuti ad alta temperatura (circa 1000 °C) nei forni a coke, sono pesanti e
più ricchi di prodotti aromatici; quelli ottenuti a bassa temperatura (600-700 °C) contengono prodotti
aromatici in minore quantità.
La pece, a sua volta, costituisce il residuo di distillazione del catrame. Si presenta, allo stato solido, di
aspetto nero, lucente, con frattura concoide ed a bassa temperatura è fragile.
In molti Paesi, in passato, il catrame di carbone era spesso sostituito o mescolato al bitume negli usi
industriali. Tale uso, ora del tutto cessato, era fortunatamente quasi sconosciuto in Italia, ma ha
comunque diffuso l’abitudine di utilizzare indifferentemente i due termini catrame e bitume nell’uso
comune e anche in molti ambienti professionali. Una imprecisione di questo tipo può avere
conseguenze molto fastidiose, specie nel caso dei contatti con organi di controllo e/o sorveglianza
(p.e. ASL). I paesi che ne producono in maggior quantità sono, in Europa, la Gran Bretagna, la
Germania e la Francia. Per mettere in luce le differenze si riporta, sotto forma di tabella, un estratto
del dossier CONCAWE 1 92/104 dedicato al bitume.
Abbiamo scelto come parametro di riferimento per la composizione, il contenuto di alcuni idrocarburi
polinucleari/policiclici aromatici, dal momento che tale informazione spesso viene richiesta da
utilizzatori o autorità. Ricordiamo tuttavia che, se questo parametro è significativo per mettere in luce
le differenze di composizione fra i diversi materiali, esso non può, e non deve, essere utilizzato per
definire la classificazione di pericolosità dei bitumi da petrolio.
Dalla tabella si evince che si passa, per i singoli idrocarburi, da qualche ppm nel bitume a migliaia di
ppm nel catrame di carbone. Questo riflette la differente origine dei materiali e le loro diverse
caratteristiche di
pericolosità. Ricordiamo per inciso che la famiglia degli idrocarburi
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polinucleari/policiclici aromatici raggruppa numerosissime sostanze, ma solo alcune di esse sono
riconosciute come composti cancerogeni. Quindi, anche se si tende “istintivamente” ad associare
comunque la presenza degli idrocarburi polinucleari/policiclici aromatici alla possibilità di causare il
cancro, questo è vero solo in alcuni determinati casi.
Si riporta di seguito una sintesi delle descrizioni presenti nel dossier “Bitumens and Bitumen
Derivatives” elaborato dal CONCAWE (Associazione Scientifica delle Società Petrolifere operanti in
Europa indirizzata allo studio dei problemi della salute umana e dell’ambiente connessi all’uso dei
prodotti petroliferi) per i principali derivati del bitume:
Bitumi liquidi sono miscele di bitumi con diluenti petroliferi volatili quali acqua ragia o cherosene,
per renderli più fluidi e facilitarne il maneggio e l’applicazione. In funzione della quantità e della
volatilità del diluente usato, le proprietà originali del bitume possono essere parzialmente o
completamente recuperate con l’evaporazione del diluente dopo l’applicazione del bitume liquido.
Bitumi flussati: sono miscele di bitumi con flussanti (prodotti petroliferi ad elevato punto di
ebollizione quali gli oli da processo industriale o distillati pesanti con punti iniziali di ebollizione
maggiori di 350 °C). Dopo l’applicazione si ha solo una limitata evaporazione del solvente.
Emulsioni bituminose: sono costituite da fini dispersioni di bitumi in acqua ove il bitume è la fase
dispersa e l’acqua è la fase continua. Si producono normalmente impiegando un bitume di tipo
stradale e utilizzando un mulino colloidale idoneo. Il contenuto di bitume in una emulsione varia da
40 ad 80 % del peso, e la temperatura di applicazione da quella ambiente a 90 °C. Si distinguono in
anioniche o cationiche a seconda del tipo di carica impartita dagli agenti stabilizzanti.
Bitumi modificati: sono bitumi nei quali le proprietà reologiche sono state sostanzialmente modificate
con l’aggiunta di un agente chimico o fisico. Normalmente si tratta di un polimero elastomerico o
plastomerico; sono utilizzati sia in campo stradale che in edilizia.
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CAPITOLO 1: IL BITUME E LE SUE CARATTERISTICHE
Il bitume è un prodotto usato da millenni come materiale da costruzione in una estesa varietà di
applicazioni. Pur esistendo anche allo stato naturale, oggi viene soprattutto ottenuto quale residuo
della lavorazione del petrolio. La ASTM definisce bitumi quella classe di materiali, composti
prevalentemente da idrocarburi ad alto peso molecolare, solubili in disolfuro di carbonio (CS2). E’ un
composto organico eterogeneo, generalmente ricavato dai processi di distillazione del greggio di
petrolio. Essendo costituito dalle frazioni a più elevato punto di ebollizione di quest'ultimo, il bitume
viene tradizionalmente ottenuto come prodotto di fondo della torre di distillazione sotto vuoto,
preposta alla lavorazione del residuo di una prima distillazione a pressione atmosferica (Figura 1.1).
FIGURA 1.1 Schema di frazionamento del greggio di petrolio.
Il materiale così ottenuto può essere direttamente impiegato, previa classificazione, per diverse
applicazioni dell'ingegneria civile ed edile, che vanno dalla realizzazione di guaine di
impermeabilizzazione alla produzione delle più svariate miscele per sovrastrutture stradali. Quando
necessario, il residuo di distillazione viene inoltre sottoposto a processi di ossidazione, estrazione con
solventi e/o miscelazione con altri bitumi che variano notevolmente a seconda dello schema di
produzione di ciascuna raffineria e che hanno il comune scopo di modificarne opportunamente le
caratteristiche chimiche e reologiche.
Oltre ai bitumi derivanti da processi di raffinazione del greggio di petrolio, detti anche industriali o
bitumi di petrolio, esistono dei bitumi, denominati naturali che, in forma più o meno pura e in diversi
stati di consistenza, si presentano come ammassi sotterranei o a cielo aperto o come componenti
impregnanti formazioni rocciose o sabbiose. Si citano a tal proposito le formazioni di gilsonite,
bitume praticamente puro allo stato vetroso estratto nello stato americano dello Utah, il bitume del
lago Trinidad e di quello di Selenizza (Albania), le rocce asfaltiche della Sicilia e dell'Abruzzo e le
cosiddette tar sands canadesi.
L'uso dei bitumi naturali risale alle antiche civiltà sumere (6000 a.C.), indù (3000 a.C.) ed egizie
(2600 a.C.), che li impiegavano per l'impermeabilizzazione di opere navali e idrauliche o come
mastici di collegamento nell'edilizia. I bitumi naturali sono stati utilizzati anche in tempi assai più
recenti: la prima pavimentazione stradale bituminosa realizzata negli Stati Uniti nel 1876 sulla
Pennsylvania Avenue di Washington, D.C., era costituita da una miscela, detta sheet asphalt composta
da sabbia e bitume naturale del lago Trinidad. Nel tempo la diffusione dei bitumi naturali è andata
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tuttavia scemando con lo sviluppo e l'affinamento delle tecniche di raffinazione, in grado di fornire
bitumi in notevoli quantità a un prezzo via via più competitivo: essi sono tuttora utilizzati ma
contribuiscono con una percentuale praticamente trascurabile alla produzione mondiale annua di
bitume.
Depositi di bitume nativo sono presenti in tutto il mondo, in zone con caratteristiche geologiche
adeguate, nelle quali l’alta permeabilità delle formazioni rocciose ha permesso un processo di
frazionamento naturale del petrolio greggio.
Figura 1.2 : composizione di vari petroli
Il bitume naturale è un prodotto non più utilizzato nell’industria: i processi di raffinazione del petrolio
producono attualmente bitumi di qualità soddisfacente a tutti gli usi per i quali è destinato,
dall’impermeabilizzazione alla pavimentazione stradale.
Il prodotto ottenuto dalla distillazione può essere utilizzato tal quale oppure sottoposto a processi
chimici e fisici che ne variano opportunamente la composizione, al fine di conferirgli determinate
proprietà. Le operazioni più comuni sono l’estrazione con solvente, i processi di ossidazione e la
miscelazione con bitumi di diversa composizione.
Certi petroli non sono adatti alla produzione di bitume a causa della natura basica del crudo.
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Figura 1.3 : composizione di vari petroli
La figura mostra la distribuzione relativa di varie frazioni ottenibili da diversi greggi. Tra i petroli
estremamente leggeri c’è il Gippsland (Australia) che contiene una frazione di bitume inferiore
all’uno per cento. Dall’altra parte possiamo citare il petrolio siciliano che è estremamente pesante e
contiene oltre il 90% di bitume.
Volendo ottenere dal petrolio anche altre frazioni
non si potranno utilizzare greggi così “estremi”. I
petroli vengono normalmente scelti con un
contenuto in bitume tra il 15 e il 60 % in peso. Su
questa base, i greggi più qualificati per la
produzione di bitume sono quelli classificati tra
medi e pesanti.
Come esempio di greggi inappropriati per la
produzione di bitume ricordiamo tutti i petroli “far
est” (Indonesia e Australia), che contengono molte
cere. Le cere non possono essere totalmente
eliminate dal bitume per distillazione sottovuoto e
rimangono fino a quote del 50% in peso rispetto al
bitume finale. Il prodotto risultante è di scarsa
qualità con poca adesione all’aggregato.
Figura 1.4 : Miniera di bitume naturale (Ragusa)
Sebbene il residuo del sottovuoto possa essere usato direttamente come bitume, con alcuni tipi di
petrolio è necessario fare ulteriori processi. Ci sono principalmente due motivi che verranno illustrati.
Il primo motivo è che il residuo è troppo pesante. Visto che non è possibile ottenere durante la
distillazione temperature equivalenti superiori ai 570°C (si avrebbero fenomeni degradativi) non è
realizzabile la separazione del bitume adatto ad un utilizzo pratico. La temperatura equivalente è la
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temperatura che bisognerebbe utilizzare nella distillazione atmosferica per avere lo stesso effetto che
si ha nella distillazione sottovuoto ad una temperatura inferiore.
Il secondo motivo è che per ragioni di processo il residuo è troppo poco viscoso o con una
temperatura di rammollimento troppo bassa; quindi questo non è utilizzabile come bitume ma come
bitume ossidato. Come già detto si procede ad insufflare aria nel residuo del sottovuoto; questa
operazione è attuata in modo continuo o discontinuo in colonne alte tipicamente 12 m e circa 3,7 m di
diametro. Nel processo continuo il residuo del sottovuoto viene riscaldato in scambiatori ad una
temperatura tra i 160°C ed i 180°C e successivamente entra nella colonna “insufflante”. L’aria è
introdotta dal basso della colonna attraverso degli ugelli, le reazioni chimiche che si sviluppano
generano calore e portano la temperatura interna tra i 200°C e i 260°C. I prodotti vengono estratti
dalla base della colonna e passano attraverso degli scambiatori che pre-riscaldano il residuo del
sottovuoto alimentando la torre ed escono a 180°C – 200°C.
Figura 1.5 : ossidatore.
Essendo le reazioni fortemente esotermiche, è necessario iniettare vapore e acqua liquida all’interno
della torre al livello del bitume per fermare la risalita della temperatura e per evitare di perdere il
controllo sul reattore.
I gas prodotti escono dalla testa della colonna che separato il bitume dai liquidi trascinati passa ad uno
inceneritore. Il processo è in principio abbastanza semplice ma deve essere condotto sotto condizioni
attentamente controllate.
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Figura 1.6 : schema di produzione del bitume
Quando è esposto all’atmosfera in forma di film esso perde l’iniziale morbidezza trasformandosi
gradualmente in una sostanza fragile. Il meccanismo è complesso stante la complessa natura del
bitume. Il processo è difficile da studiare nelle reali condizioni stradali perché il traffico stradale con
il gocciolio di lubrificante, gasolio e cere provenienti dalle gomme contaminano l’asfalto. Comunque
lo studio sotto condizioni controllate in laboratorio ha mostrato che l’ossidazione da parte
dell’ossigeno atmosferico, esaltata dalla radiazione solare, è la principale causa di degrado; si hanno
gli stessi cambiamenti nella composizione chimica che si hanno ad alta temperatura. La normale
temperatura di stoccaggio del bitume è fra 130°C e 180°C ed è abbastanza stabile. Il bitume può
essere immagazzinato per un lungo periodo senza significativi cambiamenti nella composizione.
Questo è dovuto al fatto che l’ossigeno non può entrare all’interno del serbatoio di stoccaggio.
Figura 1.7 :confezionemento bitume ossidato.
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CAPITOLO 2: CARATTERI FISICO- CHIMICI DEI BITUMI
Le caratteristiche dei bitumi provenienti dalla raffinazione del petrolio dipendono sia dal
tipo di grezzo di partenza che dal processo di produzione utilizzato, e se i tipi di processo
di produzione risultano assimilabili (pur con le differenze insite nei diversi impianti di
produzione), la composizione dei grezzi risulta variabile, non solo tra le diverse zone di
produzione, ma perfino nell’ambito della stessa zona.
Poiché il bitume viene commercializzato con valori di specifica che sono essenzialmente di
tipo fisico e non chimico, la produzione viene indirizzata al raggiungimento di tali valori.
Ne deriva pertanto che non ci saranno due bitumi aventi la stessa composizione chimica.
Si deve inoltre ricordare che, sebbene le tecniche per lo studio della composizione chimica
abbiano registrato notevoli progressi negli ultimi anni, i dati disponibili per il bitume sono
ancora caratterizzati da una certa genericità.
Elemento
Carbonio
Idrogeno
Zolfo
Ossigeno
Azoto
% in peso
81-87
10-14
0.06-8
0-2
0.02-1.7
Tabella: composizione elementare del petrolio
L’analisi elementare non fornisce molti elementi per determinare la resa in bitume di un petrolio. Per
ottenere queste informazioni occorre un’analisi qualitativa e quantitativa dei composti organici
presenti.
Il grezzo, dato il processo millenario attraverso il quale si è formato, non contiene generalmente
composti insaturi, ma è composto da:
- idrocarburi alifatici;
- cicloalcani (C5-C7);
- nafteni;
composti aromatici e poliaromatici (asfalteni).
Gli ultimi tre composti sono quelli più pesanti e più stabili, che si ritrovano nel prodotto di fondo della
colonna di topping (distillazione atmosferica), inviato poi alla distillazione vacuum. Di conseguenza
petroli con più elevate percentuali di questi composti sono i più adatti alla produzione di bitume.
Andiamo ora a vedere qualitativamente la composizione chimica.
Il bitume è costituito da due principali classi di composti:
- gli asfalteni;
- i malteni (quest’ultimi detti anche petroleni).
Gli asfalteni, presenti nel bitume da un 5% a un 25% in peso, sono miscele complesse di idrocarburi,
costituiti principalmente da:
composti aromatici condensati, in cui si riscontra anche la presenza di ossigeno, azoto, zolfo e metalli
(V, Ni ecc.), con anelli condensati e catene alchiliche aventi fino a trenta atomi di carbonio;
composti eteroaromatici contenenti zolfo e azoto in anelli pirrolici o piridinici.
I pesi molecolari risultano in genere molto superiori a 2000 (fino a valori dell’ordine delle centinaia di
migliaia). Sono solidi a temperatura ambiente con aspetto granulare e color bruno-nero.
Sono usualmente presenti anche ammine e ammidi, composti ossigenati (chetoni, fenoli o acidi
carbossilici), nichel e vanadio complessati con l'azoto in sistemi porfirinici.
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Figura: possibile struttura di molecola asfaltenica
Il peso molecolare delle molecole asfalteniche è uno degli aspetti più controversi degli studi sui
materiali bituminosi: le diverse tecniche forniscono risultati che variano anche di più ordini di
grandezza, in funzione della metodologia utilizzata.
Una possibile spiegazione risiede nel fatto che quasi tutte le tecniche richiedono la diluizione del
composto in appositi solventi, che in qualche modo ne alterano la morfologia, causando la
dissoluzione delle molecole più pesanti o l’aggregazione di quelle più polari in nuove strutture. Inoltre
nella maggior parte dei metodi d’analisi la determinazione del peso molecolare deve essere effettuata
per confronto con uno standard adeguato, non sempre facilmente individuabile.
I malteni possono a loro volta essere suddivisi in due sottogruppi:
• Resine;
• Oli.
Le resine sono i composti più polari, strutturalmente molto simili agli asfalteni; sono una frazione
molto viscosa a temperatura ambiente, di colore bruno scuro e notevoli proprietà adesive; le resine
svolgono funzione di disperdenti delle strutture macromolecolari asfalteniche.
Rispetto a queste hanno un peso molecolare minore, stimato fra 500 e 1000 U.M.A., ed un rapporto
carbonio alifatico/carbonio aromatico (Calif/Carom) molto più elevato a causa del maggior numero di
catene paraffiniche. Alcuni scienziati presuppongono che gli asfalteni abbiano origine in natura
dall'ossidazione delle resine.
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La frazione oleosa è costituita essenzialmente da anelli naftenici e aromatici collegati da lunghe
catene alifatiche, si distinguono infatti in:
oli aromatici: frazione liquida viscosa di colore bruno, contenente numerosi composti
con anelli naftenici e aromatici; il loro peso molecolare è compreso tra 500 e 1000;
oli saturi: frazione liquida viscosa di colore bianco-giallastro, costituita essenzialmente
da idrocarburi saturi a lunga catena (alcuni dei quali con ramificazioni), e da
cicloparaffine (nafteni), con peso molecolare compreso tra 500 e 1000.
Le suddette frazioni sono indicativamente contenute nei bitumi nelle percentuali seguenti,
variabili a seconda dell’origine del grezzo e del tipo di lavorazione.
Il rapporto Calif/Carom è decisamente in favore delle paraffine.
Asfalteni, resine e oli possono combinarsi in strutture più o meno stabili a seconda dei rapporti in cui
si trovano fra loro. Gli oli, essendo il mezzo disperdente, devono avere un buon potere solvente
nei confronti degli asfalteni e questa proprietà è legata ad un elevato grado di aromaticità.
Le resine sono il fattore determinante per la stabilità del sistema, dovendo presentare caratteristiche
affini sia agli oli che agli asfalteni.
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CAPITOLO 3: FRAZIONAMENTO DEL BITUME E MORFOLOGIA
I rapporti quantitativi tra i vari componenti vengono corrispondentemente determinati mediante
metodi di frazionamento che consentono di dividere il bitume in pochi gruppi di molecole aventi
proprietà simili e che possono essere inquadrati nella schematizzazione colloidale. Essi possono
essere classificati in tre principali categorie a seconda dello schema di separazione impiegato si
distinguono infatti i metodi di separazione mediante:
• solventi selettivi;
• tecniche cromatografiche di adsorbimento e desorbimento;
• procedure di precipitazione chimica.
I metodi che utilizzano solventi selettivi non sono stati frequentemente impiegati. Essi prevedono il
trattamento sequenziale del bitume con solventi di polarità crescente che precipitano frazioni di
polarità decrescente. Sebbene con tali metodi si eviti il contatto del bitume con supporti o adsorbenti
reattivi e con componenti che lo possano alterare irrimediabilmente, essi isolano delle frazioni che in
genere non sono sufficientemente diverse tra loro.
FIGURA 3.1: Apparecchio per determinare la polarità delle particelle di bitume.
Le tecniche cromatografiche di adsorbimento e desorbimento selettivo hanno invece avuto una
notevole diffusione soprattutto nel settore della ricerca. L'operazione preliminare comune a questi
metodi è la separazione mediante precipitazione in un solvente paraffinico non polare dei
componenti maggiormente polari e meno solubili, detti asfalteni. La soluzione ottenuta viene
successivamente introdotta in una colonna cromatografica nella quale i componenti vengono prima
adsorbiti dal supporto in allumina e poi desorbiti usando solventi di crescente polarità che
consentono di isolare frazioni di polarità via via crescente: i saturi, gli aromatici naftenici e gli
aromatici saturi. Le varie tecniche si differenziano tra loro, oltre che per i solventi impiegati, per il
tipo di supporto poroso e per la tecnica di valutazione della quantità relativa di ciascuna frazione.
FIGURA 3.2: colonna cromatografica.
I metodi di precipitazione chimica sono quasi tutti ottenuti come variazioni del metodo analitico
sviluppato da Rostler e Sternberg . Dopo la separazione degli asfalteni per precipitazione in npentano, la residua soluzione di malteni viene trattata con soluzioni via via più concentrate di acido
solforico (H2SO4) e infine con fumi di acido solforico contenente il 30% di S03 (anidride solforica).
Ciò consente la precipitazione e quindi la valutazione quantitativa di altre tre classi molecolari
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aventi reattività via via inferiore, denominate basi azotate, prime acidaffine e seconde acidaffine.
Infine, i costituenti dei malteni che non reagiscono con i fumi di acido solforico vengono
denominati paraffine.
Benché sia stato di recente dimostrato che in realtà il bitume non presenta il comportamento
reologico di un colloide, la validità del modello colloidale e dei metodi di frazionamento ad esso
associati risiede principalmente nel fatto che esso consente in molti casi di correlare
qualitativamente e quantitativamente l’analisi compositiva con le proprietà fisiche del materiale.
Come dimostrato dai risultati di un gran numero di studi reologici, a seconda del grado di
dispersione delle micelle nella fase continua e delle quantità relative di asfalteni e di malteni, il
comportamento del bitume può variare tra quello di un sistema “sol”, prettamente newtoniano, e
quello di un “gel” non newtoniano a carattere pseudoplastico. Inoltre, poiché il comportamento
globale del bitume è determinato dalla compatibilità e dalle interazioni tra i diversi componenti
nella miscela piuttosto che dalla quantità relativa di questo o di quel componente, sono stati proposti
diversi parametri sintetici di composizione da correlare con il comportamento reologico.
FIGURA 3.3: Macchina per la determinazione del contenuto del bitume.
È il caso del cosiddetto indice di instabilità colloidale Ic, definito come:
⎛ A s fa lte n i + S a tu r i ⎞
Ic = ⎜
⎟
⎝ A r o m a t i c i + R e s i n e ⎠ (3.1)
e del rapporto di compatibilità Rc espresso dalla formula:
R
c
⎛ B a s i a z o ta te ⎞
= ⎜
⎟
P a r a ffin e
⎝
⎠
(3.2)
Al numeratore dell'espressione (3.1) compare la percentuale di quell’insieme di molecole che danno
corpo al bitume (gli asfalteni) e degli agenti flocculanti (i saturi), mentre al denominatore viene
riportata la somma delle percentuali di solventi (gli aromatici) e degli agenti peptizzanti (le resine):
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al crescere di tale rapporto viene così seguita la transizione da un sistema disperso di tipo sol a uno
flocculato di tipo gel.
Nell'espressione (3.2) del rapporto di compatibilità vengono invece messi in relazione i componenti
più reattivi e i meno reattivi; i valori superiori a 0,5 vengono generalmente considerati accettabili.
La separazione del bitume mediante le diverse tecniche analitiche permette di suddividere i suoi
componenti in frazioni più omogenee, meno complesse, ma non nelle singole specie chimiche
costituenti; a tale proposito si ricorda la classica procedura analitica di frazionamento del bitume che
utilizza un solvente selettivo quale il n-eptano. Trattando il bitume con n-eptano si ottiene un
precipitato insolubile (asfalteni) ed una frazione oleosa (malteni); con successivo assorbimento
cromatografico la parte maltenica può essere suddivisa in tre ulteriori frazioni (resine, oli aromatici e
oli saturi). Il frazionamento del bitume è di uso generale e resta tra le tecniche più utilizzate in tutti gli
studi di correlazione delle proprietà fisiche con la composizione chimica del bitume.
In figura si riporta uno schema tipico di frazionamento del bitume:
FIGURA 3.4: schema di frazionamento.
Si nota che sono presenti altri due tipi di composti che non sono stati elencati fra i costituenti: i
carbeni ed i carboidi.
Questi composti non sono solitamente presenti nel prodotto della distillazione e si formano in
eventuali trattamenti termici del bitume. Per definizione infatti il bitume è completamente solubile in
solfuro di carbonio, che viene invece utilizzato per separare questi due prodotti.
L’efficacia dell’identificazione dipende molto dal tipo di solvente utilizzato. Sono state effettuate
molte ricerche sulla solubilità degli asfalteni, che appare essere molto più correlata al carattere di
aromaticità e polarità che non alle dimensioni delle molecole. Alcuni studi hanno verificato che la
precipitazione con acetone, che implica un incremento del carattere polare del mezzo di solvatazione,
ha un grande effetto sulla distribuzione delle molecole asfalteniche secondo la loro solubilità,
generando notevoli differenze nel peso molecolare medio e nella polidispersità; questo studio
conferma quanto sia importante il mezzo solvente anche per la determinazione della struttura. Altri
ricercatori hanno studiato la solubilità in miscele n-eptano/toluene a diverse temperature tramite
spettroscopia PCS, che ha fornito anche un diametro delle particelle asfalteniche collocabile fra 125 e
400 nm. E’ stato verificato che questi valori dipendono in parte dalla concentrazione iniziale di
asfalteni nel bitume.
Non è stata ancora raggiunta una totale concordanza di opinioni sull’effettiva struttura del bitume.
Ricerche più approfondite sulla natura del bitume hanno permesso di stabilire che esso è un sistema
colloidale in cui le micelle sono disperse nei componenti oleosi, costituiti dalla frazione più leggera
dei malteni. Per micelle si intendono aggruppamenti molecolari aventi il nucleo centrale costituito da
idrocarburi ad alta percentuale di carbonio e la parte periferica costituita da resine che esercitano la
funzione di colloidi protettori, essendo dotate di affinità col disperdente oleoso.
Gli asfalteni costituiscono il centro delle micelle che si formano con spiccata tendenza di essi ad
14
TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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assorbire gli idrocarburi aromatici di peso molecolare minore.
Quando sia il disperdente che il disperso sono in proporzioni adatte, gli asfalteni sono completamente
peptizzati ed in condizione di muoversi con la libertà che è ad essi consentita dalla viscosità della fase
disperdente. Il bitume allora si comporta come un fluido quasi esattamente viscoso, a meno che la
viscosità intramicellare sia notevole. Se invece, vi sia insufficienza di disperdente si determina tra le
micelle una mutua attrazione.
Le micelle allora formano una specie di reticolo nella zona in cui si avvicinano molto strettamente,
dando luogo così ad un campo di energia potenziale minimo. Il bitume assume cioè una struttura
colloidale simile ad un agglomerato i cui spazi liberi sono ricoperti da resine ed il suo comportamento
può risultare elastico.
L’elasticità in questo caso assume due componenti, una intermicellare ed una intramicellare; si ritiene
che fra esse prevalga la seconda e che la sua influenza sia accentuata dalla presenza della struttura e
dalla elasticità delle catene micellari.
A temperatura ambiente lo stato colloidale dei bitumi non dipende soltanto dalla natura dei
costituenti, ma pure dalle escursioni termiche. Variazioni anche modeste della temperatura possono
modificare di molto questo stato. Inoltre tale cambiamento dipende pure dall’origine e dai trattamenti
del bitume.
Trattandosi di materiale viscoelastico il suo comportamento è molto sensibile alla velocità dei carichi:
tempi prolungati, corrispondenti a carichi statici ovvero a basse velocità dei veicoli su strada,
determinano deformazioni in buona parte irreversibili.
Il comportamento dei bitumi in funzione della loro composizione è un problema estremamente
complesso e la difficoltà principale del suo studio sta nel fatto che è difficile riferire le loro proprietà
fisiche e meccaniche semplicemente alla natura ed alle proporzioni dei costituenti. Questi sono in
gran numero ed i loro pesi molecolari e le loro strutture differiscono in maniera continua.
Asfalteni, resine e oli possono combinarsi in strutture più o meno stabili a seconda dei rapporti in cui
si trovano fra loro.
Gli oli, essendo il mezzo disperdente, devono avere un buon potere solvente nei confronti degli
asfalteni e questa proprietà è legata ad un elevato grado di aromaticità. Le resine sono il fattore
determinante per la stabilità del sistema, dovendo presentare caratteristiche affini sia agli oli che agli
asfalteni. Studi piuttosto recenti hanno dimostrato che le resine possiedono una notevole selettività
verso differenti siti di adsorbimento degli aggregati asfaltenici, nella cui formazione sembrano giocare
un ruolo importante i legami a idrogeno. In particolare l’estensione, in termini di area di contatto,
della regione aromatica delle resine sembra fondamentale per l’equilibrio di questi composti.
I parametri fondamentali che devono essere verificati in un bitume (ma ancora prima nel grezzo
d’origine) sono quindi:
• rapporto aromatici/saturi;
• rapporto resine/asfalteni.
Il decrescere di questi due rapporti provoca coalescenza e formazione di aggregati di dimensioni
notevoli, che oltre a dare un bitume di cattiva qualità possono precipitare durante la raffinazione,
causando ingenti danni all’impianto.
FIGURA 3.5: Particolari dell’impianto di produzione del bitume.
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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Dal punto di vista del comportamento macroscopico ognuno dei composti, in virtù delle sue
caratteristiche chimiche, ricopre un ruolo diverso:
• gli asfalteni sono i responsabili delle proprietà di consistenza, resistenza alle sollecitazioni
meccaniche e adesività del bitume;
• le resine conferiscono elasticità e duttilità (sono i “ponti” della struttura);
• gli oli danno fluidità e sono gli artefici dello scorrimento a caldo del bitume, che è fondamentale per
ricoprire efficacemente e velocemente il materiale lapideo che forma il conglomerato bituminoso per
le pavimentazioni.
Per produrre un bitume più ‘duro’ (con indice di penetrazione più basso) si deve togliere la parte più
volatile dal bitume composta dalla frazione satura e aromatica. Questo viene fatto incrementando la
temperatura e/o il grado di vuoto all’interno della colonna di distillazione. Un bitume duro ha un più
alto contenuto in asfalteni rispetto a uno di grado più “morbido” anche se originati dallo stesso
greggio. Nello specifico, considerando i bitumi ossidati, nel processo di ossidazione con aria la
componente paraffinica non si modifica sensibilmente essendo praticamente inerte; le frazioni
resinose e aromatiche reagiscono invece con l’ossigeno formando asfalteni. Si ottiene quindi, rispetto
al bitume iniziale, un prodotto con un maggior contenuto di asfalteni e circa la stessa quantità di
partenza di frazione satura. Un bitume insufflato ha un contenuto più alto di asfalteni rispetto a un
bitume con lo stesso grado di penetrazione prodotto attraverso la distillazione sottovuoto partendo
dallo stesso greggio.
FIGURA 3.6: Differenza tra i vari tipi di bitumi.
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CAPITOLO 4: CICLO PRODUTTIVO DEL BITUME
FIGURA 4.1: Impianto di produzione del bitume.
La classificazione degli impianti di produzione dei conglomerati bituminosi può essere operata in
base ai seguenti fattori:
• tipologia delle macchine utilizzate per il mescolamento a caldo del bitume con gli inerti.
Tali macchinari possono essere suddivisi in due grandi categorie a seconda che la produzione sia
realizzata con mescolamento discontinuo oppure continuo.
Nel primo caso gli inerti, dopo essere stati essiccati, vagliati e pesati, vengono mescolati tra loro e col
bitume fino ad ottenere un impasto omogeneo; il conglomerato ottenuto viene poi scaricato dal
mescolatore.
Nel secondo caso gli aggregati, dopo i preliminari trattamenti, vengono prelevati direttamente dai
silos mediante saracinesche e alimentatori a nastro ed immessi, insieme al bitume, in un mescolatore
ad azione continua.
• tipologia dell’impianto: l’impianto può essere fisso o mobile.
Gli impianti di tipo mobile sono caratterizzati dal fatto di poter avere, a differenza di quelli di tipo
fisso, le varie parti equipaggiate con ruote pneumatiche e freni che ne consentono il trasporto oppure
essere dotati semplicemente di ruote metalliche idonee solo a piccoli spostamenti.
Potenzialità produttiva dell’impianto: la potenzialità di produzione di un impianto può variare da
poche tonnellate/ora ad oltre 200 tonnellate/ora.
Analizziamo le materie prime per la produzione del bitume.
Asfalti ed emulsioni bituminose si ottengono per mescolamento a caldo degli inerti con il bitume.
Gli inerti sono materiali lapidei ottenuti dalla frantumazione di rocce rispondenti a requisiti di idoneità
che riguardano sia l’origine e la natura delle rocce di appartenenza che le caratteristiche fisicomeccaniche dei singoli costituenti. Per la produzione di conglomerati bituminosi, solitamente gli inerti
sono costituiti da sabbia e ghiaia calcarea, da ghiaia basaltica e da sfresature (asfalto recuperato da
lavori di demolizione stradale) caratterizzati da bassa granulometria. La produzione di inerti passa
attraverso le fasi di abbattimento di un fronte di cava, frantumazione, vagliatura ed eventuale
lavaggio.
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Per quanto riguarda il bitume, il prodotto ottenuto dalla distillazione può essere utilizzato tal quale
oppure sottoposto a processi chimici e fisici che ne variano opportunamente la composizione, al fine
di conferirgli determinate proprietà. Le operazioni più comuni sono:
- l’estrazione con solvente;
- i processi di ossidazione;
- la miscelazione con bitumi di diversa composizione.
Qualitativamente il bitume è costituito dai seguenti gruppi o famiglie di composti:
• asfalteni: costituiscono circa l’8-20% del bitume;
• resine: variano nel bitume tra 10-25%;
• olii aromatici componenti principali del bitume ne costituiscono il 40-70%;
• olii saturi: sono presenti generalmente in concentrazioni comprese tra il 5-20%.
La gran parte della lavorazione per la produzione dei conglomerati bituminosi viene effettuata per
mezzo di un impianto a ciclo chiuso completamente automatizzato e governato da una centrale di
comando posta ad immediato ridosso dell’impianto stesso.
Quest’ultimo, generalmente di considerevoli dimensioni, si eleva per altezze non inferiori a 10 metri,
ed è completamente circondato da passerelle e ripiani per consentire l’ispezione e la manutenzione
delle singole parti che lo compongono.
Le unità produttive solitamente occupano superfici molto ampie (diverse migliaia di metri quadrati)
per le necessità di effettuare lo stoccaggio degli inerti e di disporre di estesi spazi interni per la
movimentazione e il carico delle materie prime, per lo scarico dei prodotti finiti, nonché per
l’allocazione degli impianti di produzione e dei silos di stoccaggio.
In aree apposite delle unità produttive si trovano solitamente piccole officine meccaniche dotate di
attrezzature, utensili e gruppi di saldatura ossiacetilenica necessari per le operazioni di manutenzione
ordinaria dell’impianto, effettuabile solo ad impianto fermo ed affidata, generalmente, a ditte esterne.
L’asfalto è prodotto sempre su richiesta, ma poiché l’impianto non può mai essere fermato (salvo rare
eccezioni) a causa dei lunghi tempi necessari per il suo riavvio, in assenza di richieste è mantenuto
sempre al minimo livello di funzionamento.
Il processo di produzione di asfalti ed emulsioni bituminose comprende diverse fasi di lavoro, di
seguito riassunte e schematizzate:
a) Approvvigionamento e pre-trattamento degli inerti
Negli impianti di produzione del conglomerato bituminoso, le materie prime del ciclo di produzione
non sono prodotte in loco ma vengono generalmente comprate da ditte esterne e stoccate in apposite
aree interne all’impianto stesso. Da qui vengono trasportate a mezzo di pale meccaniche e caricate in
apposite tramogge, che alimentano, con nastri trasportatori, un essiccatore ovvero un forno a tamburo.
Tale forno è costituito da un cilindro d’acciaio rotante, dotato di palettatura interna, che solleva il
materiale e lo riscalda fino ad eliminare l’acqua in eccesso.
Dopo il preliminare trattamento di riscaldamento ed essiccamento nel quale raggiungono temperature
di 140-160°C, i materiali passano, mediante un elevatore a caldo, nella parte più alta della torre di
mescolamento. Qui gli aggregati caldi sono sottoposti ad un ulteriore vaglio di controllo e separazione
delle pezzature ottenute, nonostante abbiano già subito una iniziale vagliatura nel sito in cui vengono
prodotti.
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Ciò si ottiene di norma attraverso l’impiego di macchine di diversa tipologia: vagli piani, costituiti da
una o più lamiere forate e sovrapposte, collocate su un telaio e messe in vibrazione, oppure vagli
rotativi in cui il materiale da trattare è attraversato da un cilindro cavo rotante con superficie in
lamiera forata.
I materiali così ottenuti vengono poi stoccati in una serie di tramogge da cui, attraverso spillamenti
successivi, vengono dosati i quantitativi per le singole pezzature di controllata granulometria,
destinate alla miscelazione con il bitume. Negli impianti a mescolamento discontinuo la dosatura degli
inerti viene effettuata solitamente a peso: il dosatore è costituito da una tramoggia a bilico.
In questi stessi impianti il conglomerato pronto viene scaricato sugli autocarri per il trasporto.
Viceversa gli impianti a mescolamento continuo, pur potendo consentire anche il dosaggio a peso,
vengono generalmente utilizzati con dosaggio degli aggregati a volume: la dosatura avviene mediante
nastri trasportatori che prelevano il materiale in quantità proporzionale all’apertura di apposite
saracinesche.
Nei casi in cui si richiede un prodotto finale con un aspetto molto liscio possono essere aggiunti anche
dei filler (inerti con una granulometria inferiore ai 0,0075 mm) di recupero o minerali.
In alternativa all’uso del filler (che comporta l’aggiunta agli inerti di una maggiore quantità di bitume)
nelle piccole aziende si preferisce variare semplicemente la granulometria degli aggregati.
Solitamente questa fase del ciclo produttivo richiede la presenza di non più di una persona addetta alla
movimentazione della pala meccanica.
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Tutte le altre operazioni condotte in tale fase vengono, infatti, eseguite in modo meccanizzato e
controllato da una cabina centralizzata.
b) Stoccaggio del bitume
Il bitume, trasportato in stato semisolido da autocisterne, è stoccato in serbatoi metallici posti in aree
ben delimitate. I serbatoi sono coibentati con lane di roccia ad alta densità e rivestite con un mantello
di alluminio; inoltre sono predisposte con lo scarico di fondo per il collegamento in serie di più
cisterne tra loro.
Sono poi previste le prese per effettuare il carico, il prelievo e la circolazione per mezzo di una pompa
ad ingranaggi riscaldata.
Il bitume viene riscaldato a 130-150°C dalla caldaia oleotermica alimentata con olio combustibile
B.T.Z. (olio denso a basso contenuto di zolfo) e successivamente mantenuto a temperatura costante
con olio diatermico per omogeneizzarne la composizione. Tramite una pompa volumetrica viene poi
inviato e dosato nel mescolatore. Tutto il ciclo dei bitumi è controllato dalla cabina centrale: una sola
persona è di norma addetta al controllo dello scarico dell’autocisterna.
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c) Mescolamento degli inerti con il bitume
Il bitume e gli inerti pretrattati sono miscelati in appositi mescolatori costituiti generalmente da
vasche con il fondo apribile per lo scarico del materiale impastato.
La miscelazione si ottiene per l’azione di alberi paralleli rotanti (30-80 giri/min) muniti di palette o
braccia.
Le pareti interne del miscelatore, come pure i componenti rotanti, sono di acciaio al manganese
dovendo resistere alla violenta azione dell’usura causata dal mescolamento.
I miscelatori consentono di ottenere, quale prodotto finito, un impasto omogeneo: l’asfalto.
Quest’ultimo fuoriesce dalla zona di mescolamento mediante un apposito convogliatore, può essere
trasportato alle tramogge di carico e quindi direttamente agli automezzi, oppure inviato ad un silos per
lo stoccaggio provvisorio. L’intero processo viene normalmente governato dalla centrale di comando
completamente automatizzata: esso non richiede, pertanto, la presenza di altri operatori.
Il ciclo produttivo descritto è sinteticamente schematizzato nel diagramma di flusso di figura 14.
Va detto, per completezza, che da alcuni anni sono in funzione nuove tipologie di impianto (del tipo
Drum Mixer) a mescolamento continuo, in cui mescolatore ed essiccatore compongono un’unica unità
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operativa.
La loro diffusione, direttamente nei cantieri stradali, trova motivazione nell’abbattimento dei costi per
la maggiore semplicità dell’impianto e nella diminuzione della spesa energetica di esercizio.
Di seguito si riportano alcune immagini raffiguranti parti di tipici impianti di produzione di
conglomerati.
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CAPITOLO 5: REOLOGIA DEL BITUME
Indipendentemente dal settore in cui vengono utilizzati, le prestazioni in opera dei bitumi dipendono
dalle loro,proprietà meccaniche. Per definire dei criteri di classificazione e di accettazione e per
supportare le attività di ricerca finalizzate alla produzione di bitumi aventi caratteristiche sempre
migliori è pertanto indispensabile caratterizzare tali proprietà in condizioni tensionali e di temperatura
rappresentativi delle situazioni di impiego e di servizio.
La reologia è lo studio del comportamento meccanico dei materiali
viscoelastici, questa parola deriva dal verbo greco ρείν fluire.
Poiché il bitume presenta un comportamento di tipo viscoelastico associato a una marcata dipendenza
dalla temperatura, nella sua caratterizzazione sono particolarmente indicate prove reologiche nelle
quali siano assicurati l'accurato controllo della temperatura e la perfetta conoscenza del
comportamento tenso-deformativo in ogni istante e in ogni punto del campione preso in esame.
Tali prove possono essere semplici prove di viscosità oppure prove nelle quali vengono messe in luce
anche le componenti di risposta elastica del bitume quali le prove di deformazione a carico costante, o
di creep, le prove di rilassamento a deformazione imposta, duali rispetto alle precedenti, e le prove in
regime oscillatorio dette anche dinamiche. Ognuna di queste prove può essere effettuata in varie
configurazioni geometriche e di carico, facendo riferimento a deformazioni e sollecitazioni di puro
taglio e/o normali: esse verranno brevemente descritte in seguito illustrando il loro significato e la
loro utilità.
L
e prove di creep, che vengono generalmente effettuate in un regime di sollecitazioni uniforme di
taglio puro, consentono una visualizzazione delle varie componenti di risposta meccanica del bitume
facilmente comprensibile. Esse sono tra le più comuni prove reologiche sui bitumi e possono essere
seguite o meno da una fase di recupero della deformazione.
Con riferimento alla semplice geometria di piatti paralleli riportata schematicamente nella Figura
16.18, la deformazione di taglio γ prodotta a una data temperatura dall'applicazione di una
sollecitazione tangenziale costante τ0 può essere rappresentata in funzione del tempo.
Questo tipo di prova sperimentale è quella preferita per studiare il comportamento viscoelastico
lineare a tempi lunghi.
Per un materiale viscoelastico lo strain totale è la somma di tre parti: γ1 e γ2 che rappresentano la
deformazione elastica istantanea e ritardata mentre γ3 è una deformazione permanente non
recuperabile dovuta allo scorrimento viscoso.
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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Per tempi di carico molto brevi o a temperature molto basse la risposta elastica è predominante; per
tempi di carico lunghi o a temperature elevate è preponderante la risposta viscosa, mentre la risposta
elastica ritardata è importante soprattutto per tempi di carico e livelli di temperatura intermedi.
Oltrepassando certi valori tensionali che definiscono la cosiddetta regione di linearità del materiale,
l'ampiezza relativa delle tre componenti di deformazione è inoltre dipendente anche dalla
sollecitazione imposta τ0.
Dalle grandezze imposte e misurate in una prova di creep possono essere calcolate due funzioni
viscoelastiche che descrivono in maniera completa la reologia del bitume: la deformabilità a taglio J(t)
pari a γ (t)/ τ0, e il suo inverso, il modulo di rigidezza a taglio SS(t).
Mentre la deformabilità è la variabile di risposta normalmente utilizzata nella reologia, l'uso del
modulo di rigidezza è tipico del settore dei materiali bituminosi, essendo stato introdotto per i bitumi
da van der Poel ( 1954).che lo ha definito per esperimenti effettuati in configurazione di tensione e
compressione monoassiale come σ0/ε (t). Tale modulo di rigidezza normale S (t) è_ legato a quello
misurato in condizioni di taglio puro SS(t) dalla relazione:
FORMULA
dalla quale si possono ricavare, assumendo un valore del rapporto di Poisson v pari a 0,5, le semplici
espressioni:
FORMULA
Nella figura 16.19 vengono riportati in scala logaritmica i valori di rigidezza normale S (t) desunti da
prove di creep effettuate sul medesimo bitume a varie temperature in una configurazione di flessione
semplice. Si può facilmente notare che traslando le varie curve lungo l'asse dei tempi si ottiene una
singola curva, detta curva maestra che rappresenta l’andamento della rigidezza a un’unica temperatura
di riferimento Tr: con un artificio grafico è cioè possibile superare le limitazioni strumentali
ampliando l’intervallo dei tempi di carico entro cui si hanno informazioni dirette sul comportamento
viscoelastico del materiale. Il tempo di carico riportato in ascissa viene detto tempo ridotto e il
metodo grafico descritto è indicato come metodo delle variabili ridotte. Alle varie curve ottenute alle
temperature Ti restano inoltre associati dei fattori di traslazione a(Ti) che possono essere riportati in
funzione della temperatura ed eventualmente interpolati con una funzione a(T).
Poiché per il bitume queste costruzioni grafiche sono possibili con buona approssimazione per tutte le
funzioni viscoelastiche utilizzando i medesimi fattori di traslazione, si usa dire che è valido per esso il
principio di sovrapposizione tempo-temperatura e che il materiale è reologicamente semplice. Nella
caratterizzazione del suo comportamento tenso-deformativo viene così separata la dipendenza dal
tempo di carico (curva maestra) e dalla temperatura (fattori di traslazione) che possono essere
separatamente caratterizzate. Analoghe costruzioni grafiche possono essere effettuate sui risultati
desunti da prove in regime oscillatorio nelle quali un campione di bitume viene sottoposto a una
deformazione (o sollecitazione) tangenziale o normale avente andamento sinusoidale nel tempo,
mentre viene misurata la sollecitazione (o la deformazione) risultante che risulta anch'essa
sinusoidale. Le due principali funzioni viscoelastiche che possono essere calcolate in questo tipo di
prova, il modulo complesso G* (o E*) e l'angolo di fase δ, possono essere infatti rappresentate a
ciascuna temperatura in funzione della frequenza di oscillazione ω e opportunamente traslato fino a
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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ottenere delle curve maestre (Figura 16.20). Il modulo complesso G* la cui ampiezza è data dal
rapporto tra la massima sollecitazione τ0 e la massima deformazione γ0, esprime la rigidezza globale
del materiale, mentre l'angolo di fase δ esprime il suo grado di inelasticità (δ = 0° per materiali
elastici, δ =90° per materiali viscosi). A partire da tali grandezze possono inoltre essere calcolati molti
altri parametri significativi quali il modulo elastico G', che rappresenta il rapporto tra le componenti
di sollecitazione e di deformazione perfettamente in fase tra loro, e il modulo viscoso G" che è dato
dal rapporto delle componenti fuori fase di 90°. Essi sono dati dalle espressioni:
FORMULA e
G" = G*.sinδ
e sono indicativi rispettivamente dell'energia spesa per lo sviluppo di una deformazione clastica
interamente reversibile e dell'energia dissipata in seno al materiale nel corso della deformazione.
Come indicato nella Figura 16.20 l'andamento della curva maestra di G* è l'immagine speculare della
curva maestra del modulo di rigidezza S(t) della Figura 16.19, con la presenza in entrambi i casi di un
asintoto orizzontale superiore e di uno inclinato di 45° rispetto all'orizzontale, detti rispettivamente
asintoto vetroso e asintoto viscoso. Alle alte frequenze o per ridotti tempi di carico il bitume assume
infatti un comportamento pressoché elastico e tende a un valore limite del modulo che è dell'ordine di
1 GPa per sollecitazioni di taglio e di 3 GPa per tensioni normali. Alle basse frequenze o per tempi di
carico elevati la pendenza delle due curve maestre nei piani logaritmici tende verso l'unità, rivelando
un comportamento completamente viscoso che viene raggiunto per tempi o frequenze diversi a
seconda della temperatura. L'andamento nella regione intermedia corrisponde infine a un
comportamento viscoelastico con valori di δ intorno a 45°.
A seconda delle frequenze e delle temperature caratteristiche delle applicazioni nelle quali il bitume
viene utilizzato, le informazioni raccolte per mezzo di queste e altre prove reologiche consentono di
selezionare i materiali più adatti e di indirizzare verso lo sviluppo di prodotti con prestazioni via via
più elevate. Tuttavia in alcuni casi, poiché il bitume in opera può dar luogo soprattutto per medie e
alte frequenze di sollecitazione (e/o temperature basse e intermedie) a fenomeni di rottura che hanno
un'influenza determinante sulle sue prestazioni, è indispensabile che le misure prettamente reologiche
vengano integrate da indagini volte alla caratterizzazione delle proprietà a rottura del bitume.
A tale scopo possono essere impiegate prove_di trazione diretta. A seconda della velocità di
elongazione imposta e/o della temperatura di prova le condizioni di rottura possono essere raggiunte
secondo modalità differenti. Si possono avere infatti: rotture fragili con deformazioni ultime e,
inferiori all’1% associate a una risposta prevalentemente elastica (diagramma σ-ε perché lineare);
rotture duttili, caratteristiche di risposte con componenti viscose non trascurabili e prodotte in
corrispondenza di una maggiore dissipazione di energia: rotture per flusso viscoso, con le quali non si
manifesta alcuna frattura ma diventano importanti i fenomeni di strizione trasversale (Figura 16.21).
I parametri caratteristici che sintetizzano il comportamento ultimo del bitume sono la deformazione e
la tensione a rottura (εf e σf) e l'energia di rottura (Uf) utilizzabili per la costruzione di curve maestre
analoghe a quelle delle funzioni viscoelastiche e che consentono di confrontare tra loro su base
razionale bitumi di diversa origine e lavorazione.
Nelle condizioni in cui le componenti di deformazione elastica del bitume diventano trascurabili, con
valori di δ assai prossimi a 0°, piuttosto che fare riferimento a prove oscillatorie o di creep è
preferibile ricorrere a semplici prove di viscosità a regime di puro taglio. Esse possono essere
effettuate con apparecchiature reometriche che operano in controllo di sollecitazione τ o di gradiente
di taglio γ e sono volte alla determinazione della viscosità η.
Operando in configurazioni la cui scelta dipende dalla temperatura di prova, possono essere così
tracciate le complete curve di flusso τ-γ del bitume o, in alternativa, possono essere effettuate
determinazioni della viscosità in corrispondenza di certi valori di γ. Nel settore stradale sono per
esempio particolarmente diffuse le prove di viscosità sul bitume nella configurazione di cilindri
coassiali con un gradiente di taglio di 1 s-1 a 135°C, temperatura alla quale il materiale viene
miscelato in centrale e presenta un comportamento newtoniano, con η indipendente da γ.
Comunissime in altri settori dell'ingegneria dei materiali,altre prove reologiche, il cui uso sono stati
qui brevemente descritti, sono state impiegate per la ricerca sulle proprietà dei bitumi sin dagli anni
'60 e sono destinate a soppiantare nella pratica di tutti i giorni quelle empiriche previste nella maggior
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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parte dei sistemi di classificazione e accettazione attualmente esistenti. In campo stradale, per
esempio, il loro impiego per caratterizzazioni di routine è stato promosso su scala mondiale dal
progetto di ricerca statunitense SHRP (Strategie Highway Research Program), nell’ ambito del quale è
stato messo a punto un sistema di classificazione dei leganti bituminosi totalmente reologico.
Tali metodi, standardizzati e riportati nella normativa CNR
vigente in Italia riguardante i bitumi ad uso stradale, comprendono la valutazione di diverse proprietà,
quali:
• la penetrazione;
• la densità;
• la temperatura di rammollimento;
• il saggio di infiammabilità;
• il punto di rottura Fraass;
• la duttilità.
La penetrazione è la profondità alla quale un ago di dimensioni standard affonda in un bitume sotto
determinate condizioni di carico, tempo e temperatura che le norme indicano rispettivamente in: 100g,
5 secondi e 25°C. E’ una prova che serve a determinare la consistenza e la durezza di un bitume (i
bitumi più duri possiedono penetrazioni più basse). Chiaramente, più è alto l’indice di penetrazione
più il bitume è “morbido”.
Figura : Test di penetrazione
Bitumi a basso indice di penetrazione sono solitamente ricercati nei climi caldi per evitare il
rammollimento nei mesi estivi. Viceversa bitumi ad alto indice di penetrazione vengono utilizzati nei
climi freddi per evitare l’eccessiva fragilità che ne deriva alle basse temperature nei mesi invernali.
Il metodo denominato "Palla & Anello" consente di specificare la temperatura di rammollimento di
un bitume, parametro importante per valutare la qualità di un prodotto in funzione della destinazione.
Per la prova viene utilizzato un dischetto di bitume del diametro di circa 19 mm e dello spessore di 6
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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mm sotto l'azione di una biglia di acciaio del peso di 3,5 g su di esso appoggiata. Questo si deforma
andando a toccare una piastrina metallica posta a 25,4 mm di distanza da esso. Tale operazione viene
eseguita imponendo al sistema un gradiente di temperatura di 5°C/min e consente di stimare la
temperatura in corrispondenza della quale si ha il passaggio da uno stato viscoelastico a uno
puramente viscoso.
Quindi il punto di rammollimento è la temperatura alla quale un disco di bitume non riesce più a
sostenere una pallina di metallo di dimensioni standard. Il punto di rammollimento è
approssimativamente la temperatura alla quale un bitume non modificato ha una viscosità di circa
1200 Pa·s. I bitumi destinati alle mescole per pavimentazione stradale hanno una temperatura di
rammollimento fra 45 e 55°C.
I risultati di queste due prove vengono inoltre tradizionalmente combinati per calcolare il cosiddetto
indice di penetrazione che esprime la suscettività del bitume alla temperatura e che viene calcolato
con l'espressione proposta da Pfeiffer e van Doormaal:
FORMULA
Tale indice decresce all’aumentare della suscettività termica dei bitumi e risulta compreso tra -1 e +1
per i bitumi stradali di buona qualità.
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L'indice di penetrazione (IP) fornisce un'indicazione circa la suscettibilità di un bitume alla
temperatura e si ottiene dalla combinazione dei risultati delle prove precedenti. I bitumi con un più
alto punto di rammollimento possiedono un valore di IP maggiore, ovvero una minore sensibilità alla
temperatura.
Il punto di rottura Fraass è una prova che serve a stabilire la fragilità a freddo di un bitume. Il test
consiste nel flettere a intervalli regolari una lamina sulla quale è stato applicato uno strato di prodotto
da analizzare (~0,4 g), abbassando contemporaneamente la temperatura. È una misura della fragilità,
espressa in temperatura a cui si creano fratture in un film sottile di bitume posizionato sulle lastre
sottile di metallo quando la lamina è simultaneamente raffreddata e piegata sotto specifiche
condizioni. Il punto di rottura Fraas è approssimativamente la temperatura alla quale un bitume non
modificato non resiste ad una sollecitazione flessionale superiore a 100 MPa per un tempo di 11 s.
La misura della densità, effettuata con un picnometro, è utile soprattutto per la classificazione fiscale:
il bitume deve possedere per legge una densità a 70°C pari o superiore a 0,942.
Il saggio relativo all'infiammabilità indica se un bitume è stato inquinato con prodotti leggeri, aggiunti
per migliorarne la stabilità. Si determina riscaldando il bitume in condizioni standard ed osservando a
quale temperatura si accendono i vapori.
La prova di duttilità viene effettuata su campioni di bitume che vengono sottoposti, in un bagno
termostatico tenuto a 25 o 4°C, a un’elongazione di 5 cm/min fino a ottenere la loro rottura.
L'elongazione a rottura viene definita come la duttilità del bitume e ad essa vengono spesso
accoppiale informazioni sul recupero elastico delle due metà del campione lasciate a riposo, anch’esso
espresso in cm.
Infine, in alcuni sistemi normativi come quello dell'ASTM (Annual Book of ASTM Standards)
trovano collocazione prove di viscosità capillare a 60 e 135°C che utilizzano apparecchiature nelle
quali la valutazione della viscosità η viene effettuata moltiplicando per un coefficiente di taratura il
tempo necessario a un filetto di bitume per passare tra due punti traguardati. Sebbene le informazioni
desunte da questo insieme di prove non possano essere interpretate per una rigorosa valutazione delle
proprietà viscoelastiche e a rottura del bitume, nel passato sono stati proposti diversi metodi per
poterle combinare e per poter valutare razionalmente il comportamento del bitume in tutto il campo di
temperature di interesse pratico. Tra questi ultimi vanno ricordali l’abaco di Heukelom e il
nomogramma di van der Poel che, pur soffrendo di una serie di limitazioni connesse con il loro
carattere grafico e la loro origine empirica, continuano ad essere ampiamente impiegati.
Nell’abaco di Heukelom (Figura 16.23) viene rappresentata in funzione della temperatura la
consistenza del bitume, espressa in termini di penetrazione per temperature inferiori a 60°C e in
termini di viscosità per temperature ad essa superiori. Vengono inoltre riportati in esso le temperature
di rammollimento e il punto di rottura Fraass in corrispondenza di penetrazioni pari rispettivamente a
800 e 1,25. L'uso di questo sistema di rappresentazione per un gran numero di bitumi ha mostrato che
l'insieme dei punti sperimentali può essere interpolato da una retta per i bitumi di prima distillazione,
detti di classe D, mentre i bitumi soffiati (di classe S) presentano un andamento curvilineo e quelli a
elevato contenuto di paraffina (di classe P) sono rappresentati da due rette all’incirca parallele che non
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si sovrappongono. È così possibile identificare e classificare ciascun bitume mediante poche semplici
prove e subordinarne l'impiego al soddisfacimento di alcuni vincoli di consistenza posti in
corrispondenza di certe temperature.
Il nomogramma di van der Poel (Figura 16.24) costituisce un prezioso strumento utilizzato da più di
40 anni per determinare, sulla base dei risultati desunti dalle prove di penetrazione e palla-anello, le
proprietà viscoelastiche di un bitume con modesto contenuto di paraffina a qualsiasi temperatura e
frequenza di sollecitazione. Nella costruzione grafica di figura viene tracciata una retta passante per i
punti individuati sulle due scale orizzontali inferiori che rappresentano rispettivamente le frequenze di
sollecitazione e la differenza tra la temperatura presa in considerazione e il punto di rammollimento.
All'intersezione di tale retta con la linea orizzontale corrispondente al valore dell'indice di
penetrazione del bitume considerato può essere quindi letto il valore assunto dal modulo di rigidezza
normale S(t) o dal modulo complesso E*(ω).
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CAPITOLO 6: BITUMI MODIFICATI
L’utilizzo dei polimeri come modificanti delle proprietà del bitume è iniziato nei primi anni ’70 e
tuttora il mercato e la ricerca sono in continua evoluzione.
La modifica con percentuali variabili di polimeri permette di abbassare la suscettività termica, di
migliorare la coesione dell’asfalto e di modificarne in vario modo le caratteristiche reologiche, a
seconda della temperatura di utilizzo, della percentuale e del tipo di polimero utilizzato.
La grande maggioranza dei modificanti, circa il 75%, è costituita dagli elastomeri termoplastici; i più
diffusi sono SBS (Stirene-Butadiene-Stirene), SIS (Stirene-Isoprene-Stirene) e SB (StireneButadiene). Altri polimeri molto utilizzati sono i plastomeri (circa 15% del mercato), mentre una
modesta percentuale è riservata ai polimeri reattivi.
I plastomeri e gli elastomeri formano generalmente una struttura reticolata che ingloba la fase
bituminosa: la rete costituita dal polimero si rigonfia ma mantiene le sue caratteristiche, che si
riflettono sulle proprietà del bitume.
I polimeri reattivi, fra i quali possiamo citare i RET (Reactive Ethylene Terpolymers), presentano
anelli epossidici che reagiscono con gruppi funzionali presenti nelle molecole asfalteniche, creando
un vero e proprio legame chimico con la matrice bituminosa.
Il polimero aggiunto non deve però determinare un eccessivo aumento della viscosità del bitume allo
stato fuso, in modo che i macchinari di lavorazione siano quelli della usuale filiera produttiva.
Quando un polimero è aggiunto al bitume, le sue proprietà modificate dipendono dalle:
• caratteristiche del polimero;
• caratteristiche del bitume;
• condizioni di miscelamento;
• compatibilità del polimero col bitume.
Sebbene la modificazione polimerica sembri essere la miglior soluzione per migliorare le proprietà
del bitume, questi sistemi presentano tre grandi problemi:
bassa compatibilità polimero-bitume (che influenza la stabilità del sistema);
più alte viscosità durante la lavorazione e l’applicazione;
costi più alti.
Le ragioni principali per cui si modifica il bitume con un polimero possono essere riassunte così:
• per ottenere miscele più tenere a basse temperature e ridurre il cracking;
• per ottenere miscele più dure ad alte temperature e ridurre il rutting;
• per ridurre la viscosità alla temperatura di servizio;
• per aumentare la stabilità e la coesione delle miscele;
• per migliorare la resistenza all’abrasione delle miscele;
• per migliorare la resistenza alla fatica delle miscele;
• per migliorare la resistenza all’ossidazione e all’invecchiamento delle miscele;
• per ridurre lo spessore strutturale dei manti stradali.
I modificanti con il miglioramento di tutte le proprietà del bitume hanno consentito anche la
realizzazione di conglomerati bituminosi di tipo "aperto" ossia ad elevato grado di porosità ( fino al
18% contro un massimo del 5% consentito da un manto tradizionale ). Questi conglomerati hanno
ottime proprietà drenanti e fonoassorbenti.
Con superfici bagnate il drenaggio consente di eliminare i fenomeni di "acquaplaning" e di
nebulizzazione dell'acqua alle spalle del veicolo in marcia, aumentando rispettivamente l’aderenza e
la visibilità, quindi la sicurezza di chi guida.
La fonoassorbenza riduce l' inquinamento acustico causato dal rotolamento degli pneumatici
abbattendo il rumore generato dal traffico veicolare.
Il comportamento reologico delle miscele bitume-polimero è di grande interesse perché è
strettamente relazionato alle performance dei manti stradali. Inoltre, l’aggiunta di piccole quantità di
polimero cambia molto le proprietà reologiche del bitume. L’addizione di polimeri introduce una
difficoltà aggiuntiva alla comprensione della struttura del bitume. La formazione di un sistema
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omogeneo
non è facile e sorgono problemi d’incompatibilità. Dal momento in cui una miscela consiste di due
fasi distinte, si possono considerare due casi per sistemi modificati:
Basso contenuto di polimero
In questo caso il bitume è la fase continua del sistema e la fase polimerica (generalmente minore del
3-4% in peso) è dispersa in essa. La fase polimerica dispersa migliora le proprietà della miscela sia a
basse che ad alte temperature. In altre parole, il polimero estende il range di temperature efficace del
bitume. In questo caso la scelta del bitume è un fattore determinante. Questi materiali sono di
solito usati per pavimentazione stradale (paving).
Contenuto di polimero sufficientemente alto
In questo caso il polimero rappresenta la fase continua e il bitume quella dispersa. Le proprietà di tale
sistema sono fondamentalmente diverse da quelle del bitume e dipendono essenzialmente da quelle
del polimero.
I polimeri di interesse per la modifica del bitume si possono classificare, in base ad una
differenziazione di tipo qualitativo della mobilità molecolare a temperatura ambiente, in:
• polimeri termoplastici (o plastomeri);
• elastomeri termoplastici;
• polimeri reattivi.
In tabella sono mostrate le caratteristiche dei polimeri usati per modificare il bitume:
Tabella: Caratteristiche dei polimeri
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Un elemento importante per giudicare le prestazioni di un polimero all’interno di una miscela è la
valutazione della temperatura di rammollimento della miscela.
Nella figura che segue è mostrato l’innalzamento della temperature di rammollimento provocata
dal polimero in funzione della percentuale in peso del polimero impiegato, per i polimeri citati sopra.
Figura: Correlazione tra punto di rammollimento e percentuale di polimero
Come visto è possibile utilizzare diversi polimeri al fine di ottenere un bitume modificato. Nel
presente studio si è voluto approfondire, per brevità e semplicità, solo uno di questi, come ad esempio
il polipropilene.
Il polipropilene ha una buona resistenza al calore e all’invecchiamento, ma è difficile da disperdere
nel bitume senza avere separazione, a meno che non siano raggiunti bassi pesi molecolari e bassa
cristallinità. I bitumi modificati con polipropilene hanno un grande svantaggio: la stabilità allo
stoccaggio alle alte temperature necessaria per applicazioni stradali è di solito bassa, infatti il
polimero ha una viscosità più alta alle alte temperature e una più bassa densità del bitume. I problemi
di stabilità sono meno importanti durante la produzione di membrane, grazie al rapido raffreddamento
del prodotto dopo il miscelamento del polimero e del bitume. Per dare un’idea dell’incompatibilità
delle miscele bitume-polipropilene mostriamo delle fotografie in fluorescenza di un bitume miscelato
con polipropilene isotattico (al 23.1% e 28.6%) .
Figura: Bitume modificato con IPP (a) al 23.1% e (b) al 28.6%
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(a)
(b)
Si nota che le fotografie mostrano due fasi, qualunque sia la percentuale del polimero. La percentuale
della fase ricca di polimero (dai toni chiari) aumenta con l’aumentare della percentuale di polimero,
ma non diventa continua.
Le foto in figura mostrano invece un bitume miscelato con polipropilene atattico (al 9.1%, 16.7%,
23.1% e 28.6%).
Figura: Bitume modificato con APP (a) al 9.1% (b) al 16.7% (c) al 23.1% e (d) al 28.6%
Anche queste fotografie mostrano due fasi:
una chiara che associamo alla fase ricca di polimero;
una scura che associamo alla fase ricca di bitume.
Per le miscele al 9.1% e al 16.7% la fase ricca di polimero è limitata, ma sembra estendersi a tutta
l’area. Per le miscele al 23.1% e al 28.6%: questa caratteristica è chiamata inversione di fase. In
quest’ultime la fase polimerica copre più della metà dell’area delle fotografie. La fase ricca di
polimero deve contenere alcuni componenti del bitume come paraffine e aromatici, e questi ultimi
sono probabilmente responsabili della fluorescenza.
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CAPITOLO 7: APPLICAZIONI DEL BITUME
7.1 Conglomerato bituminoso
7.1.1 Introduzione
Il bitume è utilizzato nell'edilizia per la realizzazione di guaine di impermeabilizzazione e come
combustibile per la produzione di energia elettrica e per l’alimentazione di processi di produzione
industriali, anche se la maggior parte della sua produzione viene impiegata per la costruzione e la
manutenzione delle infrastrutture di trasporto. Basti pensare che nel 1994 nella sola Europa, su un
consumo totale di 16 milioni di tonnellate di bitume, ben 14 sono state assorbite da tale settore.
In virtù delle proprie particolari caratteristiche reologiche e chimiche il bitume è infatti utilizzato
come legante di una fase litica nelle cosiddette miscele bituminose che vengono impiegate da oltre un
secolo per la costruzione delle pavimentazioni stradali e che hanno in seguito trovato applicazione
anche nelle sovrastrutture aeroportuali e ferroviarie.
Le pavimentazioni stradali strutture aventi la funzione di distribuire sul terreno di appoggio i carichi
veicolari, proteggendolo dai fattori ambientali (acqua, gelo) e offrendo al tempo stesso ai veicoli una
superficie regolare sulla quale transitare in condizioni di sicurezza e comfort per i conducenti e i
passeggeri. Per motivi costruttivi, economici e tecnici esse sono generalmente costituite dalla
sovrapposizione di una serie di strati di materiali differenti, le cui caratteristiche meccaniche e di
durabilità sono di pregio crescente verso la superficie della sovrastruttura dove maggiore è l’azione
aggressiva dei veicoli e dell'ambiente.
Le pavimentazioni maggiormente diffuse in tutto il mondo, dette bituminose o flessibili, presentano
diversi strati realizzati con miscele composte da aggregati lapidei e bitume che assolvono a compiti
strutturali e funzionali diversi a seconda della loro composizione e della loro posizione nella
sovrastruttura e che vengono indicate con il termine generico di conglomerati bituminosi . In tali
pavimentazioni è inoltre previsto, a seconda delle specifiche esigenze, l'impiego di mani d’attacco
adesive di solo bitume tra uno strato e l'altro e di trattamenti superficiali di irruvidimento a base di
bitume e aggregati.
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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7.1.2 Composizione dei conglomerati bituminosi
Ottenuti dalla miscelazione in impianto di bitume e aggregati lapidei e messi in opera sotto forma di
strati di spessore controllato attraverso opportune operazioni di stesa e costipamento, i conglomerati
bituminosi presentano una composizione e un comportamento reologico notevolmente complessi.
Essi sono infatti materiali a tre o addirittura a quattro fasi (aggregati, bitume, aria e in alcuni casi
acqua), solo macroscopicamente omogenei, soggetti durante il loro ciclo di vita a condizioni
ambientali e di sollecitazione variabili che ne determinano una graduale evoluzione. Le loro
caratteristiche meccaniche e di durabilità dipendono pertanto dalle interazioni e dai rapporti
quantitativi tra le fasi e dalle proprietà degli aggregati lapidei e del bitume.
Gli aggregati, forniscono al materiale uno scheletro solido che attraverso l’addensamento e il contatto
tra i grani determina lo sviluppo della resistenza al taglio e di un’accettabile elasticità alle alte
temperature di servizio. In tale contesto tanto le loro caratteristiche granulometriche e di forma quanto
quelle meccaniche e chimiche rivestono un ruolo particolarmente importante e vengono controllate
prima dell’impiego mediante prove di laboratorio.
Salvo esigenze particolari, le varie classi di aggregati disponibili vengono combinate in modo tale da
ottenere una distribuzione granulometrica piuttosto vicina a quella di massimo addensamento definita
dalla legge di Fuller. Tuttavia, poiché si è osservato che con una tale distribuzione possono insorgere
dei problemi legati a un insufficiente contenuto di vuoti nel conglomerato allo stato compattato, si
preferisce far riferimento alla legge che esprime la percentuale di passante P a ciascun setaccio come:
⎛ d ⎞
P = 100 ⎜
⎟
⎝ D ⎠
0 .4 5
(7.1)
dove:
d = diametro medio dei più grandi elementi passanti a ciascun setaccio;
D = massima dimensione degli aggregati.
In altri modelli matematici di origine sperimentale e teorica viene inoltre lasciata una certa libertà al
progettista nella scelta della percentuale di filler minerale, costituito dal materiale passante al setaccio
con maglia da 0,075 mm.
Esso costituisce infatti insieme con il bitume, al quale è intimamente miscelato, un mastice
viscoelastico le cui caratteristiche dipendono dal volume occupato dal filler e hanno un’influenza
determinante sul comportamento del conglomerato bituminoso.
A seconda degli strati della pavimentazione entro i quali vengono inclusi, gli aggregati devono essere
selezionati in modo da avere particolari caratteristiche di forma e di tessitura: in particolare, negli
strati superficiali è opportuno l'impiego di elementi regolari a spigolo vivo e con superficie ruvida la
cui presenza esalta le caratteristiche di mutuo attrito e ingranamento e con esse la resistenza al taglio.
Poiché è fondamentale che gli aggregati non si disgreghino sotto l’azione delle sollecitazioni del
traffico veicolare, esistono inoltre delle procedure sperimentali per la valutazione delle loro
caratteristiche di resistenza all'abrasione, all'usura e alla frantumazione. La più diffusa tra queste
ultime è la prova Los Angeles, nella quale un campione del materiale lapideo viene sottoposto a
500/1000 cicli di rotazione alla velocità di 30-33 giri al minuto in un tamburo rotante in presenza di
sfere metalliche di dimensioni e peso normalizzati. La perdita percentuale in peso del materiale
passante a un opportuno setaccio costituisce il cosiddetto coefficiente Los Angeles sul quale vengono
stabiliti dei limiti di accettazione per ciascuno strato della pavimentazione nella maggior parte dei
capitolati tecnici.
Esistono infine numerose prove per il controllo di altre importanti caratteristiche degli aggregati quali
le masse volumiche e la densità, il grado di pulizia, la presenza di impurità e la resistenza ai cicli di
gelo e disgelo.
Per quel che riguarda le altre due fasi costituenti il conglomerato bituminoso, esse sono di importanza
analoga per assicurare adeguate caratteristiche meccaniche e di durabilità al sistema composito. Il
bitume, grazie alle sue caratteristiche viscoelastiche e alla sua adesione agli aggregati, svolge le
funzioni di legante, dotando l'ammasso lapideo di quella coesione che altrimenti non potrebbe avere.
Inoltre è proprio al bitume che si deve il carattere essenzialmente viscoelastico e termoplastico del
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conglomerato che, oltre a manifestare delle deformazioni istantanee sotto carico, presenta delle
componenti di risposta dipendenti dal tempo e/o dalla velocità di applicazione delle sollecitazioni e
dalla temperatura. La selezione del bitume più idoneo per ogni applicazione deve essere pertanto
basata sull'analisi delle sue proprietà reologiche più significative.
La fase gassosa del sistema, costituita dai vuoti residui, influenza direttamente le proprietà fisiche e
meccaniche della miscela. Il tenore in vuoti, solitamente espresso come percentuale %v rispetto al
volume totale della miscela, costituisce a questo proposito una caratteristica talmente importante che
si può stabilire una sommaria classificazione dei conglomerati a seconda che essi siano aperti (%v >
5%) o chiusi (%v < 5%). In questa sede ci si limita a descrivere le proprietà dei conglomerali chiusi
che costituiscono la classe di miscele bituminose quantitativamente più importante e maggiormente
studiata in letteratura; tuttavia esistono molti altri tipi di miscele che si differenziano tra loro in quanto
a composizione, tecnica di preparazione e messa in opera e che variano da un Paese all'altro a seconda
del clima, del traffico e delle consuetudini locali.
Dopo aver effettuato la selezione dei costituenti sulla base dei criteri di classificazione visti, con prove
di tipo meccanico vengono definiti la formula di impasto del conglomerato bituminoso e lo stato di
addensamento da raggiungere al momento della messa in opera.
Sulla base di tale proporzionamento viene quindi effettuata la miscelazione dei componenti in
impianti fissi o mobili nei quali è possibile controllare la distribuzione granulometrica degli aggregati
e la percentuale di bitume.
All'interno della camera di miscelazione di tali impianti il bitume caldo e fluido viene in contatto con
le particelle di aggregato penetrando in tutte le fessure e i pori superficiali e ricoprendole con una
sottile pellicola avente uno spessore che è essenzialmente una funzione della sua viscosità.
Le complesse interazioni che hanno luogo tra i due costituenti nell'intorno della loro interfaccia sono
sensibili alla loro composizione chimica e alla morfologia superficiale dell'aggregato. Inoltre, poiché
il contatto del bitume con l’aggregato attraversa una serie di fasi ben distinte durante il ciclo di
impiego della miscela, anche le suddette interazioni, sensibili alle variazioni termiche, chimiche e
ambientali, evolvono gradualmente.
La superficie dell'aggregato è notevolmente eterogenea e presenta una varietà di siti aventi diversa
composizione, caratterizzati da differenti livelli di attività e polarità. All'interno del bitume si instaura
pertanto una competizione tra le molecole aventi diversi gruppi funzionali per conquistare i siti attivi,
sui quali adsorbono le molecole aventi con essi l'affinità più marcata: esse realizzano così una serie di
diverse interazioni secondarie tra le quali sono prevalenti le interazioni elettrostatiche o legami
idrogeno, indipendentemente dalla natura della superficie dell'aggregato. Tuttavia, pur formandosi
all'interfaccia uno strato di molecole polari in interazione elettrostatica con le cariche superficiali
dell'aggregato, studi recenti hanno portato a concludere che non vi sono le condizioni all'interno della
massa di molecole di bitume per la formazione di una vera e propria regione di interfase in cui il
bitume sia fortemente strutturato.
La diffusione di tali molecole verso l’interfaccia attraverso la massa di bitume avviene principalmente
quando la temperatura della miscela è ancora vicina a quella di miscelazione. Una volta giunta in
cantiere la miscela viene stesa e compattata fino a un prestabilito stato di addensamento e subisce un
graduale raffreddamento fino alla temperatura ambiente, accompagnato a livello microscopico da una
diminuzione del movimento delle molecole. Una volta in servizio il conglomerato bituminoso è
quindi soggetto a un graduale processo di ossidazione e a una continua variazione del livello
tensionale, della temperatura e dell'umidità dell'ambiente: corrispondentemente il legame bitumeaggregato passa attraverso stati di quasi-equilibrio di durata variabile che in alcuni casi possono
sfociare in un progressivo seppur lento decadimento con perdita del legame tra le due fasi. Nella
maggior parte dei casi, tuttavia, la rottura del conglomerato bituminoso avviene all'interno del bitume
o, meno frequentemente, all'interno dell'aggregato.
7.1.3 Proprietà meccaniche del conglomerato bituminoso
Da un punto di vista strutturale la funzione primaria di una pavimentazione è di assicurare una
ripartizione dei carichi di traffico sul sottofondo compatibilmente con le caratteristiche di
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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deformabilità e di resistenza di quest’ultimo. Per fare ciò è in primo luogo indispensabile che i
materiali costituenti la pavimentazione, e i conglomerati bituminosi in particolare, abbiano una
sufficiente rigidezza e che siano messi in opera in strati aventi un opportuno spessore.
Tali materiali debbono inoltre presentare una soddisfacente resistenza ai più comuni fenomeni di
deterioramento che possono determinare un decadimento della funzionalità della sovrastruttura con
conseguenti disagi per gli utenti. Tra questi, i più importanti sono la formazione di ormaie per effetto
dell'accumulo di deformazioni permanenti, la fessurazione da fatica e, nei climi più freddi, la
fessurazione per ritiro termico; non sono inoltre da trascurare i fenomeni di rottura localizzata che
possono condurre alla formazione di buche, sgranamenti e corrugazioni.
Allo scopo di poter effettuare all'atto del progetto una scelta ottimale dei conglomerati bituminosi e
una valutazione preventiva delle loro prestazioni in opera, e per conoscere lo stato di materiali già in
servizio è pertanto indispensabile caratterizzarne le proprietà meccaniche con opportune procedure
sperimentali.
Tali proprietà riguardano tanto la risposta tenso-deformativa del materiale sotto carico quanto le sue
caratteristiche di resistenza, e possono essere misurate mediante una molteplicità di apparecchiature di
diverso livello di complessità. Naturalmente affinché tali proprietà siano significative, cioè affinché
rispecchino le prestazioni dei materiali in opera, è opportuno che nelle prove sperimentali vengano
simulate le condizioni ambientali e di sollecitazione che si verificano realmente sotto l'azione dei
carichi di traffico.
Caratteristiche tenso-deformative I principi di reologia dei sistemi compositi e le esperienze
sperimentali indicano che il conglomerato bituminoso eredita dal bitume, che ne costituisce la base
della matrice legante, un comportamento viscoelastico. Come nel caso dei bitumi, le proprietà
viscoelastiche del conglomerato possono quindi essere determinate sperimentalmente mediante prove
di creep, di rilassamento e di sollecitazione sinusoidale alternata eseguite su campioni costituiti in
laboratorio o prelevati in situ mediante carotaggi.
Le prove a sollecitazione alternata, dette anche dinamiche o cicliche, sono tra le preferite da un gran
numero di ricercatori in quanto, oltre a consentire la determinazione diretta del modulo complesso E*
(o G*) e dell’angolo di sfasamento δ simulano la storia di carico alla quale viene sottoposto un
generico elemento di materiale all'interno della pavimentazione al passaggio di un veicolo (Figura
7.1).
Esse possono essere effettuate in un gran numero di configurazioni di carico su campioni aventi le
geometrie più disparate. Si citano in tal senso le prove flessionali su tre punti e a trave incastrata, e
quelle di trazione-compressione. Queste ultime vengono denominate triassiali quando, tramite
un'opportuna cella di contenimento, viene sovrimposta a detta storia di carico una pressione
idrostatica costante.
Figura 7.1 Storia di carico di un generico elemento di pavimentazione.
I risultati ottenuti da prove di questo tipo e riportati in letteratura sin dagli anni ‘60 hanno dimostrato
che i conglomerati bituminosi sono con buona approssimazione materiali reologicamente semplici e
che i fattori di traslazione ad essi associati sono comuni al bitume e al conglomerato.
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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Nella Figura 7.2 sono riportati alcuni tipici risultati di prove dinamiche flessionali eseguite in un
ampio campo di frequenze e di temperature, con relativa costruzione della curva maestra a una
temperatura di riferimento di 15°C. Il valore del modulo complesso E* è una funzione crescente della
frequenza ridotta e tende asintoticamente verso un limite superiore E∞ che è dell'ordine di 20-40 GPa.
Tuttavia, a differenza di quanto riscontrato per i bitumi, in corrispondenza delle basse frequenze o
delle elevate temperature si riscontra un andamento di E* pressoché orizzontale dovuto all'entrata in
carico dello scheletro litico.
Per poter rappresentare il comportamento tridimensionale dei conglomerati bituminosi tali dati
devono essere inoltre integrati dalle misure del rapporto complesso di Poisson v*, definito come:
ν * =
ε n (t )
(7.2)
ε (t )
dove: ε(t) = deformazione longitudinale nella direzione del carico applicato, pari a ε 0 ⋅ sin(ωt )
εn(t) = deformazione trasversale ad essa associata, sfasata rispetto ad essa di δ' e data
dall'espressione:
ε n (t ) = ε n 0 (t ) ⋅ sin(ωt − δ ') (7.3)
FIGURA 7.2 Applicazione del principio di sovrapposizione tempo-temperatura a dati desunti da prove flessionali su un conglomerato
bituminoso.
Il rapporto di Poisson varia sensibilmente con la temperatura e con la frequenza, assumendo valori
compresi tra 0,2 e 0,5, e frequentemente viene scelto un valore pari a 0,35 in ragione delle notevoli
difficoltà connesse con la misura di tale funzione viscoelastica.
Le prove di creep costituiscono una valida alternativa alle prove dinamiche in quanto necessitano di
apparecchiature di complessità inferiore e consentono il calcolo delle medesime funzioni
viscoelastiche applicando delle opportune formule di conversione alla funzione di deformabilità
D(t). Quest'ultima è pari all'inverso del modulo di rigidezza G(t) ed è data dall'espressione:
E (t ) =
σ 0
(7.4)
ε (t )
diffusamente impiegata nella modellazione dell'accumulo delle deformazioni permanenti del
conglomerato bituminoso che danno origine alla formazione di ormaie sulla superficie delle
pavimentazioni.
I valori di rigidezza desunti dall'uno o dall'altro tipo di prova in corrispondenza di temperature e di
frequenze (o tempi equivalenti) di applicazione dei carichi rappresentativi delle reali condizioni
ambientali e di traffico costituiscono una misura della capacità che gli strati bituminosi hanno di
ripartire i carichi veicolari sugli strati sottostanti.
Ciò può essere compreso esaminando i modelli utilizzati per il dimensionamento e l'analisi
strutturale delle pavimentazioni che generalmente schematizzano le sovrastrutture come dei sistemi
multistrato all'interno dei quali può essere i individuata, mediante una soluzione in forma chiusa o
per via numerica, la distribuzione delle tensioni e delle deformazioni sotto l'azione dei carichi di
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traffico. Sebbene esistano modelli che prevedono la presenza nel sistema di materiali a elasticità non
lineare e/o viscoelastici, la maggior parte di essi si basano sull'analisi del multistrato elastico lineare,
nella quale a ciascuno strato viene associata una coppia di grandezze meccaniche indipendenti. In tal
caso la dipendenza della risposta tenso-deformativa del conglomerato bituminoso dalla temperatura
e dalla frequenza viene tenuta in conto introducendo in luogo del modulo elastico E e del rapporto di
Poisson υ i valori assunti da E* e υ* in corrispondenza di temperature e di frequenze di applicazione
dei carichi rappresentativi delle reali condizioni ambientali e di traffico.
Come sottolineato in precedenza il valore della rigidezza di un conglomerato bituminoso dipende,
oltre che dal tempo e dalla temperatura, dalla costituzione volumetrica della miscela e dalle
caratteristiche delle fasi costituenti.
Tale dipendenza è stata oggetto di studio da parte di un gran numero di ricercatori poiché la sua
conoscenza esplicita consente un’ottimizzazione del mix design (progetto della miscela), la
definizione di prescrizioni normative significative e la definizione di metodi previsionali analitici e/o
grafici che eliminano la necessità di estese sperimentazioni.
In condizioni di comportamento pressoché elastico (temperature medio-basse e gradienti di carico
elevati), poiché la rigidezza della miscela dipende principalmente dal tipo di bitume e dalla
volumetria della miscela allo stato compattato è possibile esprimere il modulo di rigidezza S con
un'espressione funzionale del tipo:
S ( T , t ) = f [ S ( T , t ) b i t , V M A ] (7.5)
dove la dipendenza dalla temperatura, dal tempo e dal tipo di bitume è riassunta nel termine Sbit,
che indica il modulo di rigidezza del bitume nelle medesime condizioni di temperatura e tempo di
carico, mentre VMA indica la percentuale del volume della miscela occupato da vuoti e bitume.
Tale approccio è stato seguito da van der Poel e successivamente da Heukelom e Klomp che hanno
suggerito la seguente espressione ancora oggi ampiamente utilizzata in letteratura:
⎡
S m ix
2 .5 ⋅ C v ⎤
= ⎢1 +
⎥ (7.6)
S b it
n
(1
C
)
⋅
−
v
⎣
⎦
dove:
Smix = modulo di rigidezza della miscela espresso in kg/cm2
Sbit, = modulo di rigidezza del bitume espresso in kg/cm2, ottenuto dal nomogramma di van der Poel o da
quello modificato di Heukelom e Klomp alla temperatura e per il tempo di carico desiderati
Cv = concentrazione in volume dell'aggregato nella miscela, data dal rapporto tra il volume
dell'aggregato compattato e il volume occupato dagli aggregati e dal bitume
n = coefficiente pari a 0,83 log10 (400 000/Sbit).
La validità di tale metodo previsionale è tuttavia limitata a miscele con contenuto di vuoti dell'ordine del
3% e Cv compreso tra 0,7 e 0,9. Per miscele aventi un contenuto di vuoti superiori l'espressione (7.6)
deve essere utilizzata inserendo in luogo di Cv una concentrazione corretta Cv' espressa dalla relazione:
C ' =
C v
(l+ Δ ν )
(7.7)
dove: Δν = differenza tra il contenuto di vuoti reali e il 3%, espressa in termini decimali.
In condizioni nelle quali le componenti di deformazioni viscose non sono più trascurabili, la dipendenza
del modulo dalla composizione diviene più complessa ed è influenzata, oltre che dai fattori visti, da
granulometria, forma e tessitura degli aggregati, dalle condizioni di confinamento e da metodo e grado di
compattazione.
Caratteristiche di resistenza Al passaggio di ogni singolo veicolo, per effetto dell'inflessione locale
dell'intero pacchetto strutturale al fondo dello strato di conglomerato bituminoso insorgono delle
sollecitazioni di trazione (Figura 7.9, pag. 49). Benché esse siano generalmente inferiori alla resistenza a
trazione del materiale, la loro ripetuta applicazione induce un danno locale progressivo al materiale, che
dopo un certo numero di cicli di carico dà luogo a delle fratture che si diffondono gradualmente verso
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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l'alto. Si tratta di un tipico fenomeno di rottura per fatica che si manifesta macroscopicamente sulla
superficie della pavimentazione con una diffusa fessurazione a ragnatela.
Lo studio delle caratteristiche di resistenza del conglomerato bituminoso viene pertanto effettuato
mediante prove di fatica a temperature e livelli di sollecitazione rappresentativi delle condizioni reali.
Parecchie tecniche sperimentali impiegate a tale scopo utilizzano le medesime apparecchiature a
sollecitazione sinusoidale che consentono la determinazione delle caratteristiche viscoelastiche del
conglomerato bituminoso: in particolare, per una miglior simulazione, vengono solitamente preferite alle
altre le prove di flessione ripetuta.
I campioni di materiale, di forma prismatica o troncopiramidale, vengono ricavati dalla pavimentazione o
da blocchi di materiale costipato in laboratorio e vengono quindi sottoposti, a una data temperatura, a
cicli di sollecitazione sinusoidale di frequenza e ampiezza costanti fino a rottura. Sebbene nel settore dei
conglomerati non siano mancate le ricerche finalizzate all'applicazione di concetti di meccanica della
frattura per la caratterizzazione del loro comportamento a fatica, per pervenire alla definizione di un
criterio di rottura viene generalmente seguito un approccio più semplice.
Dalle numerose esperienze effettuate nei diversi laboratori si è infatti dimostrato che, indipendentemente
dalla temperatura e dalla frequenza di prova, la legge che governa il fenomeno di fatica in flessione
alternata a sollecitazione imposta può scriversi nella forma generale della seguente equazione:
N
t
⎛ 1 ⎞
= C ⎜
⎟
⎝ εt ⎠
m
(7. 8)
dove:
Nf = numero di applicazioni di carico necessarie per produrre la rottura a fatica
εt = valore iniziale della deformazione di trazione applicata, pari a
σ
t
E * in iz ia le
iniziale
C e m = costanti che dipendono dalla composizione e dalle proprietà della miscela.
Secondo tale legge, indicata come criterio di deformazione, la durata a fatica del materiale è definita
in maniera univoca dalla deformazione di trazione εt, mentre gli effetti della temperatura e della
frequenza di carico sono automaticamente tenuti in conto mediante la loro influenza sul modulo
complesso E*.
Sono state inoltre proposte diverse relazioni analitiche e grafiche per la valutazione diretta
dell’influenza della composizione del conglomerato bituminoso sul suo comportamento a fatica.
Verstraeten, per esempio, sulla base di uno studio sistematico di una cinquantina di differenti
miscele ha definito l'espressione sintetica:
ε
t
= L
V
L
VL
⎛ N f ⎞
⋅⎜
⎟
+ % v ⎝ 106 ⎠
(7. 9)
dove: il fattore L tiene conto dell'influenza della natura del bitume e può essere calcolato dal suo
modulo complesso e da un parametro che ne esprime la dipendenza dalla temperatura; VL e %v
indicano invece rispettivamente il volume occupato dal legante e la percentuale dei vuoti.
In ragione della loro semplicità i criteri di deformazione espressi nella forma dell'equazione (7. 8)
possono essere utilizzati in abbinamento con un qualsiasi metodo di valutazione dello stato tensodeformativo indotto in un sistema multistrato per la previsione della durata a fatica di una
pavimentazione stradale flessibile.
Tuttavia, mentre la maggior parte delle prove di fatica è effettuata applicando cicli di carico continui
di una certa ampiezza a determinate temperature e frequenze, nella pavimentazione il conglomerato
bituminoso è soggetto, in condizioni di temperatura e di frequenza continuamente mutevoli, a una
successione di impulsi di carico di entità variabile. Di conseguenza, per poter prevedere le
prestazioni del materiale in opera sulla base delle sole prove di laboratorio si può utilizzare la legge
di Miner dell'accumulo lineare dei danni di fatica, in base alla quale le condizioni di rottura vengono
raggiunte quando è soddisfatta l'espressione:
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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j
ni
∑N
i =1
= 1 (7.10)
i
dove:
n = numero di cicli applicati aventi livello di deformazione f;
N = numero di cicli aventi livello di deformazione εi che conducono a rottura;
j = numero di diversi livelli di deformazione applicati.
I danni da fatica indotti da varie categorie di veicoli in differenti condizioni ambientali possono così
essere calcolati separatamente e poi sommati per la valutazione del comportamento a fatica globale
della sovrastruttura.
Nella definizione del criterio di rottura a fatica cui fare riferimento per i conglomerati bituminosi si
deve inoltre tener conto di alcune considerazioni derivanti dalla meccanica della frattura.
Le prove di fatica a sollecitazione imposta conducono infatti a una situazione di rottura
immediatamente dopo la formazione della fessura nel materiale. Tale situazione è tipica di
conglomerati bituminosi messi in opera in strati di elevato spessore, superiore a 10 cm, e/o per basse
temperature di esercizio, caratteristiche della stagione invernale.
Qualora si voglia invece studiare la fessurazione di strati sottili di conglomerato bituminoso o si
desideri esaminare il comportamento a fatica dei materiali alle alte temperature si dovrà
necessariamente far uso di prove a deformazione imposta, nelle quali vi è una fase di propagazione
della fessura non trascurabile prima della rottura. Durante tali prove la rigidezza della miscela
diminuisce sensibilmente ed è comune definire la rottura in una prova a deformazione controllata
come il punto in corrispondenza del quale il modulo del materiale si riduce del 50% rispetto al suo
valore iniziale. Vengono così generate delle rette di fatica nel piano log εt - log Nf aventi una
maggiore pendenza e traslate a destra rispetto a quelle desunte da prove a sollecitazione imposta
(Figura 7.3).
FIGURA 7.3 Linee di fatica per prove in controllo di deformazione e in controllo di sollecitazione.
Per eliminare la confusione generata dal fatto che prove in controllo di deformazione e in controllo
di sollecitazione forniscono risultati diversi e per tener conto del fatto che nella realtà le effettive
modalità di propagazione delle fessure sono differenti rispetto a entrambe le situazioni simulate,
alcuni ricercatori hanno proposto un approccio energetico alternativo per la previsione del
comportamento a fatica dei conglomerati bituminosi.
Tale approccio, che prescinde dal modo di esecuzione della prova a fatica, è basato sulla valutazione
dell'energia Wi, dissipata durante un ciclo di carico, rappresentata dall’area compresa all'interno
della curva chiusa σ-ε relativa a detto ciclo e dovuta alle componenti di deformazione di natura
viscosa del legante. Il valore cumulativo dell'energia dissipata a rottura WNf dopo Nf cicli può essere
quindi messo in relazione con la durata a fatica del conglomerato bituminoso con una relazione del
tipo:
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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WN f = A ⋅ ( N f ) (7.11)
z
dove:
WNf = energia di deformazione cumulativa dissipata a rottura
N = numero di cicli di carico a rottura
A e z = coefficienti desunti sperimentalmente, specifici per ogni miscela.
Partendo da considerazioni energetiche di questo tipo possono essere rese esplicite le relazioni esistenti
tra il comportamento a frattura del bitume e la durata a fatica del conglomerato bituminoso di cui fa
parte. Inoltre, sono state proposte alcune relazioni di fatica generalizzate che includono nella loro
espressione, insieme con altre variabili, sia εt sia WNf .
Oltre alle prove di fatica esistono altre procedure sperimentali di laboratorio che portano a rottura il
conglomerato bituminoso. Tra queste, la più diffusa in tutto il mondo è senz’altro la cosiddetta prova
Marshall sviluppata negli Stati Uniti negli anni '40 per supportare le procedure di mix design e tuttora
inserita nella maggior parte dei capitolati tecnici stradali.
In tale prova, alcuni campioni di conglomerato bituminoso vengono costipati in laboratorio con uno
speciale maglio battente seguendo una procedura normalizzata. Dopo un condizionamento in acqua a
60°C per 30 minuti essi vengono poi portati a rottura in una pressa sotto l’azione di due ganasce
metalliche (Figura 7.30a): il carico massimo registrato durante l'avanzamento dei piatti della pressa alla
velocità di 2"/min viene chiamato stabilità Marshall, mentre la corrispondente deformazione espressa
in mm viene indicata come scorrimento Marshall.
Pur non esprimendo proprietà fondamentali del conglomerato bituminoso tali parametri forniscono
un'idea della sua resistenza a deformarsi e a disgregarsi sotto i carichi di traffico. L'osservazione del
comportamento in servizio di un gran numero di materiali caratterizzati con tale tecnica ha inoltre
consentito di stabilire, per la stabilità e lo scorrimento, i limiti di accettazione su cui basare il mix
design delle miscele costituenti i vari strati delle pavimentazioni flessibili.
L'esigenza di superare le limitazioni proprie di prove empiriche quali la prova Marshall ha portato
all'introduzione nel settore dei conglomerati bituminosi della prava di trazione indiretta, altrimenti detta
prova brasiliana, molto comune per la valutazione delle miscele legate a cemento. In tale prova,
effettuata nella configurazione di carico della Figura 16.30b, viene indotta una rottura per trazione
lungo il piano diametrale verticale. Nell'ipotesi di materiale elastico, omogeneo e isotropo la
corrispondente resistenza a trazione del materiale σt può essere valutata con l'espressione:
2P
σt =
(7.12)
τ dt
dove:
P = carico applicato a rottura;
d = diametro del provino;
t = spessore del diametro del provino.
Benché l'applicazione dell'equazione (7.12) al conglomerato bituminoso non sia rigorosa in ragione del
suo complesso comportamento tenso-deformativo, la prova di trazione indiretta risulta molto utile per
la valutazione comparativa di diverse miscele, soprattutto all'atto del mix design. Essa si è inoltre
rivelata una valida alternativa alle più sofisticate prove di trazione diretta e di raffreddamento a
contrazione impedita per lo studio e la prevenzione dei fenomeni di fessurazione da ritiro alle basse
temperature di esercizio.
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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FIGURA 7.4 La prova Marshall e la prova di trazione indiretta.
7.1.4 Durabilità del conglomerato bituminoso
La durabilità del conglomerato bituminoso è la sua capacità di resistere nel tempo alle variazioni delle
proprie caratteristiche prestazionali indotte da fattori ambientali. È una proprietà fondamentale da
prendere in esame, sia all'atto del mix design sia durante il controllo in corso d'opera, in quanto è
indispensabile che le proprietà delle miscele soddisfino certi requisiti durante l'intero decorso della vita
utile della sovrastruttura di cui fanno parte.
Tale proprietà dipende in larga misura dall'evoluzione delle caratteristiche del legante nella sua massa e
all'interfaccia con l'aggregato e dall'effetto che l'umidità ha sul legame di adesione tra le due fasi
costituenti.
La penetrazione di acqua all'interfaccia aggregato-bitume può avvenire mediante una diffusione
attraverso i film di bitume, con una filtrazione attraverso le fessure presenti nella matrice legante e,
quando essa è già presente all'interno dei pori dell'aggregato, con una migrazione verso l'esterno. In
ciascuno di questi casi l'acqua entra in competizione con il bitume per adsorbire sui siti attivi
dell'aggregato e può portare all'indebolimento e all'eventuale perdita del legame di adesione tra le due
fasi. Tale fenomeno, detto spogliamento (o stripping), determina uno scadimento delle proprietà
meccaniche del conglomerato bituminoso che perde così le proprie caratteristiche coesive
avvicinandosi al comportamento di un non-legato. Esso può manifestarsi sotto forma di diversi dissesti
della pavimentazione:oltre alla creazione di ormaie e allo spostamento localizzato di materiale, si
possono infatti avere fenomeni di sgranamento, fessurazione e formazione di corrugazioni.
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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FIGURA 7.5 Deterioramanto delle pavimentazioni stradali.
Questi stessi deterioramenti e altri di tipo strutturale sono favoriti dal progressivo indurimento e
infragilimento che il bitume subisce nel tempo a seguito di una serie di fenomeni concomitanti che ne
alterano la composizione chimica e la struttura. L'insieme di tali fenomeni va usualmente sotto il nome
di invecchiamento e dipende oltre che dalla costituzione chimica delle fasi, da una serie di fattori che
riguardano sia la tecnologia di miscelazione e messa in opera sia le caratteristiche volumetriche della
miscela compattata.
Il primo indurimento significativo del bitume ha luogo nella camera di miscelazione dove esso,
presente sotto forma di film molto sottili, viene esposto per breve tempo a un flusso d'aria la cui
temperatura può essere compresa tra i 135 e i 160°C e dove viene in contatto con aggregati aventi
ugual temperatura. Per effetto di fenomeni di ossidazione e di volatilizzazione dei componenti più
leggeri si ha una variazione delle proprietà reologiche del legante la cui entità dipende, oltre che dalla
composizione del bitume, essenzialmente dalla temperatura. Inoltre, per effetto del valore elevato di
quest'ultima il processo di indurimento continua, anche se a una velocità inferiore, durante lo
stoccaggio, il trasporto e la messa in opera della miscela.
Dopo che la miscela si è raffreddata e la pavimentazione viene aperta al traffico l'evoluzione del
legante prosegue con un gradiente ancora più ridotto per i primi 2 o 3 anni fino a quando la
pavimentazione si avvicina alla sua densità limite a causa del traffico. Successivamente
l'invecchiamento procede assai lentamente e sono necessari tempi maggiori per rilevare cambiamenti
significativi delle proprietà reologiche del bitume.
Per la valutazione della resistenza all'invecchiamento del legante durante le operazioni di miscelazione
e stesa (invecchiamento a breve termine) e in servizio (invecchiamento a lungo termine) sono state
messe a punto moltissime procedure sperimentali, la maggior parte delle quali sono basate sulla
valutazione di alcune caratteristiche fisiche o reologiche del bitume prima e dopo un trattamento
termico standardizzato.
Attualmente le prove più in uso per lo studio dell'invecchiamento a breve termine sono il Thin-Film
Oven Test (TFOT), il Rolling Thin-Film Oven Test (RTFOT) e il Rotating Flask Test, e si
differenziano tra loro, oltre che per la durata e la temperatura di trattamento, per il sistema di
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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riscaldamento utilizzato e per il quantitativo di bitume trattato. Benché tali prove non simulino
esattamente l'alterazione causata dal processo di miscelazione, esse sono in grado di valutare il
potenziale di invecchiamento a breve termine di ciascun legante e vengono impiegate da molti anni nel
settore stradale.
Per esprimere valutazioni circa la durabilità del legante a lungo termine sono invece mancate per lungo
tempo procedure sperimentali di consolidata affidabilità. Di recente è stata però sviluppata una
metodologia di invecchiamento ad alta pressione che utilizza un'apparecchiatura denominata Pressure
Aging Vessel (PAV). Mantenendo i residui del RTFOT in un apposito contenitore per 20 ore a una
pressione di 2,07 MPa e a una temperatura di 90-110°C, sembra infatti che si possa simulare
l'invecchiamento che il legante subisce in un periodo di servizio di circa cinque anni in diverse
condizioni climatiche.
L'entità dell'invecchiamento indotto da una qualsiasi procedura sperimentale viene tradizionalmente
valutata misurando la penetrazione a 25°C o la viscosità a 60°C del materiale prima e dopo il
trattamento simulativo e calcolando con tali dati vari indici di invecchiamento. Ai fini prestazionali
risulta essere però più indicato valutare le variazioni del modulo complesso, delle sue componenti G’e
G’’ e delle proprietà a rottura del legante.
Prendendo in considerazione trattamenti di invecchiamento di severità crescente su un medesimo
bitume, in generale si osservano un appiattimento della curva maestra di G* e uno spostamento verso
frequenze via via maggiori delle condizioni nelle quali si realizza un flusso viscoso (Figura 7.6a).
Corrispondentemente, poiché l'angolo di fase δ tende a diminuire per ogni coppia di temperatura e
frequenza, la componente elastica del modulo complesso G’
aumenta sensibilmente con
l'invecchiamento, determinando un comportamento più spiccatamente elastico del materiale. La
dipendenza dalla temperatura del bitume non varia invece in maniera sensibile ma si riduce solo
leggermente.
L'invecchiamento ossidativo del bitume si traduce tuttavia anche in uno scadimento delle sue proprietà
a rottura. Con riferimento ai dati della Figura 7.6b; si può infatti notare che tale fenomeno conduce a un
progressivo infragilimento del legante con una notevole riduzione della deformazione a rottura.
FIGURA 7.6 Variazione del comportamento reologico e a rottura di un bitume al crescere della severità del trattamento di invecchiamento.
Oltre a indurre una non trascurabile evoluzione della reologia del legante, le variazioni di composizione
chimica influenzano il legame tra bitume e aggregato: il processo di invecchiamento determina infatti
un aumento all'interfaccia aggregato-bitume della concentrazione di alcuni composti polari
caratterizzati da una notevole affinità con la superficie degli aggregati ma la cui interazione con
l'aggregato è al tempo stesso molto sensibile alla presenza di acqua. Si ha così una sostanziale perdita
di durabilità del conglomerato bituminoso che si disgrega lentamente sotto l'azione concomitante dei
carichi di traffico e dell'acqua.
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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Da un punto di vista sperimentale la potenziale suscettibilità all'acqua del legame di adesione di un
sistema aggregato-bitume viene valutata effettuando diversi tipi di prove che possono essere distinte in
fondamentali e simulative.
Nelle prove fondamentali vengono misurate proprietà chimico-fisiche mediante tecniche di
adsorbimento e desorbimento o mediante procedure per la valutazione dell'angolo di contatto tra le due
fasi in varie condizioni. Esse riescono a identificare potenziali problemi d'incompatibilità tra legante e
aggregati ma sono impiegate prevalentemente in ambito di ricerca.
Le prove simulative invece, molto più diffuse e di più semplice interpretazione, comportano una
valutazione a livello macroscopico dell'effetto che l'immersione in acqua, per un periodo di tempo
definito e a una certa temperatura, ha sulle proprietà meccaniche dei conglomerati bituminosi. E il caso
della procedura di Tunnicliff e Root, della prova Lottmann e delle prove Marshall effettuate dopo
immersione in acqua per 24 ore che possono oltretutto essere inserite quali validissime appendici alle
consuete procedure di mix design e caratterizzazione meccanica delle miscele.
7.1.3 Impiego stradale
I bitumi di petrolio sono utilizzati principalmente in campo stradale a formare i cosiddetti conglomerati
bituminosi, che opportunamente stesi in strati di diverso spessore e diversa composizione costituiscono
la pavimentazione.
FIGURA 7.7 Compattazione del conglomerato bituminoso.
I bitumi liquidi ottenuti dalle raffinerie si dividono, secondo la natura dei prodotti volatili, in tre
categorie:
• bitumi liquidi a lento indurimento o slow curing;
• bitumi liquidi a medio indurimento o medium curing;
• bitumi liquidi a rapido indurimento o rapid curing.
I bitumi liquidi a lento indurimento contengono oli poco volatili per cui il bitume estratto dal recipiente
che lo contiene e miscelato con gli inerti indurisce molto lentamente. Per l’applicazione si consiglia di
riscaldare il bitume di questo tipo fino a 90-120°C. Essendo molto lenti ad indurire si consigliano per
lavori in cui si vuole mantenere una data viscosità del legante anche dopo ultimata la costruzione.
Attualmente negli Stati Uniti si producono sei sottospecie di bitumi liquidi slow curing, a viscosità
crescente dal sottotipo 0 a quello indicato con 5.
I bitumi liquidi a medio indurimento contengono una certa percentuale di kerosene; hanno buone
proprietà leganti e perciò si preferisce usarli in miscelazioni con aggregato fine (filler). La temperatura
di applicazione va dai 10 ai 100°C, quindi è possibile applicarlo anche a temperatura ambiente. Si
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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adoperano quando si vuole che il legante conservi una certa fluidità soltanto durante la costruzione del
manto stradale. Anche per questo tipo di bitume esistono sei sottospecie a viscosità crescente.
I bitumi liquidi a rapido indurimento contengono una certa quantità di benzina o altro solvente che
evapora molto presto. Si applicano a temperatura variabile dai 10 e i 60°C e anche questi sono
classificati in sei sottospecie a viscosità crescente.
Il bitume per usi stradali viene adoperato con modalità diverse:
• così come proviene dalle raffinerie, si presenta un fluido ad alta viscosità per cui per miscelarlo
con gli inerti bisogna riscaldarlo a 160-180°C; sotto forma di emulsione con acqua (circa il
50%) e con l’aggiunta di modeste quantità di sostanze stabilizzanti;
• liquido, nel caso le operazione in raffineria sono condotte in modo che contenga una certa
percentuale di frazioni leggere mantenendolo fluido a temperatura ambiente.
FIGURA 7.8: pavimentazione stradale tipo.
L’ “ossatura” del conglomerato è il materiale lapideo, per il quale il bitume funge da legante. I vari
strati sono costituiti da materiali inerti di granulometria via via più fine e più regolare man mano che ci
si avvicina alla superficie; in genere fra quelli superficiali è posta una patina sottile di emulsione
bituminosa che aumenta l’adesione, mano d’attacco.
Lo strato di usura può richiedere un trattamento superficiale che ne aumenta la ruvidità, per migliorare
il coefficiente d’attrito con gli pneumatici.
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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FIGURA 7.9: sollecitazioni dinamiche sul manto stradale.
In figura sono rappresentate schematicamente le sollecitazioni dovute al traffico. Come si può notare lo
stato di sollecitazione è piuttosto complesso e comprende effetti di trazione e compressione in tutte le
direzioni. Lo strato superficiale è naturalmente quello più sottoposto a deterioramento, non solo a causa
del traffico, ma anche delle condizioni ambientali.
La radiazione solare, la pioggia, l’ossidazione atmosferica, sono tutti fenomeni che contribuiscono in
maniera determinante all’usura della pavimentazione.
I problemi più frequenti di deterioramento sono:
• deformazioni permanenti con formazione di ormaie (rutting);
• rottura a fatica (fatigue cracking) con fessurazioni in direzione prevalentemente longitudinale. Uno
stadio avanzato di questo tipo di deterioramento porta alla formazione di crepe in tutte le direzioni
(alligator cracking) che danno luogo al distacco di pezzi di conglomerato, generando buche (potholes);
• fessurazioni a basse temperature (low temperature cracking) in direzione trasversale alla direzione del
traffico, dovute a ritiro termico.
FIGURA 7.10: formazione di ormaie.
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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Il legante costituisce mediamente solo il 5% della mescola; nonostante ciò, dal bitume dipendono
praticamente tutte le proprietà meccaniche di un conglomerato. Le caratteristiche fondamentali di un
buon legante sono:
• sufficiente rigidità alle elevate temperature di esercizio, accompagnata da una non eccessiva fragilità
nel periodo invernale, o nei climi particolarmente freddi. La suscettività termica di questo materiale è
uno dei maggiori pregi e anche dei maggiori problemi del bitume;
• buona adesività al minerale inerte. E’ forse il fattore principale per contrastare il deterioramento:
conferisce resistenza meccanica alle sollecitazioni, in quanto le caratteristiche viscoelastiche del bitume
si trasmettono al conglomerato, e rende la pavimentazione impermeabile, impedendo all’umidità di
penetrare. L’acqua, se presente nel conglomerato, entra in competizione con il bitume nel legarsi
all’aggregato lapideo e causa ulteriore perdita di adesione;
• facilità di miscelamento al materiale inerte. Il legante non deve presentare eccessiva viscosità alle alte
temperature altrimenti ci sarà una miscelazione incompleta, con conseguenze facilmente immaginabili.
Le caratteristiche chimiche e fisiche del bitume possono variare notevolmente nel tempo, specialmente
nei primi due/tre anni dalla messa in opera; dopo questo periodo l’invecchiamento del materiale
procede molto più lentamente.
L’invecchiamento è dovuto ad una modifica delle caratteristiche morfologiche della struttura
colloidale, che si riflette principalmente sulle proprietà del materiale alle alte temperature, con
peggioramento delle proprietà meccaniche.
L’entità del fenomeno dipende molto dalle modalità di preparazione del conglomerato. Nella camera di
miscelazione infatti il bitume, posto su strato sottile, è esposto ad un flusso di aria calda (150-160°C) e
successivamente miscelato con gli aggregati. In questo processo iniziano fenomeni di volatilizzazione e
ossidazione dei componenti che continuano anche dopo la messa in opera, modificando le proprietà
reologiche in maniera praticamente continua, anche se con velocità ridotta. L’entità della variazione
dipende molto dalla temperatura operativa, in relazione alla composizione del bitume.
Aggiungendo al bitume sostanze di natura diversa se ne può modificare la natura originale mediante:
• una “additivazione” si varia, in un intervallo ristretto, il valore di alcuni parametri caratteristici
come penetrazione, viscosità;
• una “modifica” si influenza in modo sostanziale il comportamento reologico assimilando
gradualmente le caratteristiche della sostanza aggiunta.
I materiali sono: nel primo caso fillers inorganici, polverini di gomma vulcanizzata, additivi chimici
vari; nel secondo caso polimeri di diversa natura, comunque classificabili in tre gruppi principali:
-gli elastomeri termoplastici;
- i plastomeri;
- polimeri reattivi.
7.2 Le membrane bitume-polimero
Con il termine membrana bitume-polimero si definisce un prodotto utilizzato in edilizia per
l’impermeabilizzazione delle coperture piane e caratterizzato da una tecnologia particolare, sviluppata
principalmente in Italia.
Con l'affermarsi nell' edilizia, sia abitativa che industriale, di tipologie costruttive a copertura piana,
prendevano consistenza, a fianco di quelle tradizionali a base asfaltica, pratiche di
impermeabilizzazione che vedevano impiegato, in virtù delle sue specifiche caratteristiche, il catrame.
Quest'ultimo era disponibile in grande quantità, in quanto sottoprodotto della distillazione del carbon
fossile, finalizzata all'ottenimento di gas per l'illuminazione. In seguito, e in considerazione della sua
bassissima resistenza meccanica, esso venne utilizzato combinato a diversi supporti, ad esempio, fogli
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TECNOLOGIA DI CHIMICA APPLICATA: Bitumi e derivati
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di cartonfeltro o di juta. Con lo sviluppo dell'uso del petrolio, il catrame venne soppiantato dal bitume,
il quale, dal canto suo, si rivelò più idoneo al bisogno se ossidato, attraverso un procedimento che ne
modificava le caratteristiche reologiche, alzandone il punto di rammollimento. Il diffondersi poi
dell'impiego, in edilizia, del cemento armato (anni ‘30 e ‘40) portò a strutture più esili, leggere, che
costringevano le tecnologie di impermeabilizzazione al limite delle loro possibilità applicative.
Circostanze di vario genere fra le quali, essenziale, la scoperta della polimerizzazione del polipropilene,
portarono i produttori italiani a scorgere la possibilità di uso, insieme al bitume, del propilene atattico,
residuo di lavorazione di quello isotattico. Nasceva, così, la membrana bitume-polimero, caratterizzata
anche dal suo abbinamento con nuovi tipi di armatura, il velovetro, ad esempio, e, più tardi il "tessuto
non tessuto" di poliestere ecc. Oggi, la tecnica si è ulteriormente affinata e il miglioramento continuo
porta a prestazioni meccaniche sempre più elevate delle membrane, con miscele sempre più resistenti
all'invecchiamento. Sia che si tratti di fabbricati nuovi (pochi) o di rifacimenti (più diffusi) si
impermeabilizzano non soltanto le terrazze e i tetti piani in genere, ma anche i tetti a falde
(impermeabilizzazioni sottotegola), le fondazioni, i locali interni umidi e, nelle opere di ingegneria
civile, i viadotti, i bacini, i canali e le gallerie.
La membrana bitume-polimero è un materiale composito. Nasce dalla sinergia di due componenti:
• compound bituminoso, a base di bitume modificato con polimeri termoplastici (mescola);
• supporto, componente fibrosa di diversa natura.
FIGURA 7.11: Figura: Membrana bitume-polimero.
I due elementi costitutivi si integrano a vicenda esaltando le loro qualità individuali. La mescola
bituminosa garantisce impermeabilità e durabilità mentre l'armatura conferisce al manufatto proprietà
meccaniche e una migliore ripartizione dei carichi.
I principali componenti della mescola sono il bitume ed i polimeri che vengono aggiunti per migliorare
le proprietà fisiche e meccaniche, altrimenti limitate, del bitume stesso.
I criteri seguiti per selezionare il polimero adatto a modificare ed ottenere il compound costituente le
membrane bitume-polimero sono:
• capacità di accrescere la resistenza al calore, alla deformazione, all’invecchiamento della membrana
bituminosa e la flessibilità alle basse temperature;
• compatibilità con il bitume al fine di evitare la separazione tra i componenti della miscela e sua
ottimizzazione;
• capacità di rendere viscosa la mescola ad alta temperatura così da rendere possibile la corretta
formazione della membrana durante la produzione a ciclo continuo.
Hanno avuto successo come modificanti del bitume nelle membrane bituminose tre polimeri:
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• il polipropilene atattico (APP) che conferisce plasticità alla mescola;
• la gomma stirene-butadiene-stirene a blocchi (SBS) che conferisce elasticità alla mescola;
• le polialfaolefine (PAO), con proprietà plastomeriche, che esaltano alcune prestazioni della mescola.
SBS
Elastomero termoplastico con struttura a rete. Al bitume conferisce:
ottima lavorabilità alle basse temperature;
migliore resistenza alle sollecitazioni meccaniche;
comportamento elastico.
APP
Polipropilene atattico ottenuto dalla polimerizzazione del propilene. Ha una
perfetta compatibilità con il bitume al quale conferisce:
migliore stabilità dimensionale;
migliore resistenza ai raggi UV;
maggiore resistenza al calore.
PAO
Polialfaoleofine ad elevato peso molecolare e basso indice di cristallinità che
assicurano al bitume:
maggiore resistenza all'invecchiamento;
mantenimento di flessibilità nel tempo;
migliore adesione tra strati contigui;
indifferenza alle radiazioni UV.
Un sistema impermeabile deve impedire all'acqua meteorica di penetrare nell'edificio, per non
compromettere il suo uso ed il suo comfort. Esso deve garantire, anche una certa resistenza a
sollecitazioni meccaniche e termiche e sopportare l'inquinamento atmosferico. La membrana bitumepolimero, tradizionalmente, deve offrire facilità di applicazione.
Nella scelta della membrana bitume-polimero i parametri da valutare con maggiore attenzione sono:
• spessore e/o peso (massa areica). E’ un indice della quantità di massa impermeabilizzante. Spessori
alti facilitano la posa e la saldatura delle sovrapposizioni. La massa areica influenza anche
l’assorbimento d’acqua, la permeabilità al vapore, la resistenza all’invecchiamento;
• carico di rottura (resistenza alla trazione). Indica soprattutto tipo e qualità dell’armatura. Permette di
valutare la resistenza meccanica offerta dalla membrana sottoposta a deformazione;
• allungamento a rottura. E’ un indice dell’elasticità dell’armatura. L’elasticità complessiva della
membrana, influenzata anche dalla mescola, garantisce la resistenza alla fatica del manto
impermeabile;
• resistenza al punzonamento statico. Indica la capacità della membrana di mantenere la tenuta
impermeabile se sottoposta a carichi puntuali. E’ influenzata dal tipo di mescola e di armatura;
• flessibilità a freddo. Offre soprattutto informazioni sul comportamento della membrana durante
l’applicazione, momento in cui si presentano i maggiori problemi da questo punto di vista. In alcuni
casi si hanno situazioni critiche, alle basse temperature, anche dopo che la membrana è stata applicata.
Questo si può riscontrare nei giunti di dilatazione, in zone climatiche con temperature minime severe,
all’occorrere di anomali movimenti della struttura;
• stabilità di forma a caldo. Consente di valutare il comportamento della membrana quando viene a
trovarsi ad elevate temperature. Parametro da tenere presente quando il sistema prevede l’isolamento
termico. In generale le membrane bitume-polimero elastomero (BPE, mescola con SBS) hanno valori
di resistenza al calore inferiori a quelle con APP e PAO. Ogni membrana bituminosa ha una propria
scheda tecnica che ne elenca le caratteristiche. I dati sono frutto di prove di laboratorio condotte
secondo la norma UNI 8202 che raccoglie ben 35 metodi diversi per il controllo delle mescole.
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CAPITOLO 8: PERICOLOSITÁ DEL BITUME
In molte applicazioni il bitume deve essere utilizzato a caldo e questo porta al possibile
sviluppo di fumi, specie se si superano le temperature consigliate dai produttori.
Esistono vari studi scientifici sulle caratteristiche e sulla composizione dei fumi generati
dal bitume caldo. È comunque opinione di tutti gli operatori del settore che, se il bitume
viene correttamente immagazzinato e applicato, l'emissione di fumi (sia come quantità che
come composizione), non porta rischi particolari per la salute degli operatori.
Il catrame, al contrario del bitume, è classificato come prodotto cancerogeno.
Un altro aspetto messo in evidenza dallo studio IARC è la graduale e sensibile riduzione
dell'esposizione dei lavoratori nel corso degli anni, dovuta alle migliorate condizioni di
lavoro. Nessuno contesta la necessità di limitare l'esposizione ai fumi del bitume e di fissare limiti
per essa, onde eliminare, fra l'altro, fenomeni irritativi per la gola e la respirazione. L'attenzione per
l'ambiente di lavoro è obiettivo primario dell'industria e delle imprese del settore, al fine di promuove
l'uso di sempre migliori pratiche di lavoro e tecnologie tendenti a minimizzare l'esposizione ai fumi,
alle polveri e a qualsiasi altro fattore potenzialmente irritante o nocivo per la salute. In particolare
risulta importante il controllo della temperatura nelle varie applicazioni, in modo da limitare le
alterazioni dei materiali e lo sviluppo di fumi e vapori. Trattando di bitume e dei problemi relativi alla
sua manipolazione è opportuno chiarire alcune definizioni fondamentali prima di entrare nel vivo
dell’argomento. Molto spesso, anche gli addetti ai lavori corrono il rischio di fare confusione nell’uso
dei termini appropriati e per questo è opportuno richiamarne il significato. Se teniamo conto degli studi
condotti con le metodologie più corrette, la situazione è chiara, e correttamente il bitume non è
classificato pericoloso dall’Unione Europea. Ricordiamo che il bitume, come molti altri prodotti
petroliferi, è considerato dall’Unione Europea come una “sostanza” e quindi la sua classificazione di
pericolosità viene fatta secondo le indicazioni della Direttiva 67/548/CE e relative successive 7
modifiche. Le indicazioni fornite da queste Direttive indicano chiaramente che, per stabilire se un
prodotto è pericoloso o meno, esso deve essere esaminato così come si presenta. Una distinzione
importante, che spesso non viene evidenziata nel linguaggio di tutti i giorni, è quella fra “pericolo” di
una sostanza chimica e “rischio” legato alla sua utilizzazione. Per “pericolo” (o pericolosità) s’intende
il complesso degli effetti dannosi sull’uomo e sull’ambiente che una sostanza può avere. Questi effetti
sono intrinseci della sostanza in esame, e sono identificati e quantificati per mezzo di test
standardizzati.
Per “rischio” s’intende invece la probabilità che la sostanza provochi un certo effetto dannoso in
circostanze ben determinate. Il concetto di “rischio” è quindi legato in modo indissolubile a quello di
“esposizione”, con tutte le relative considerazioni, e la valutazione del
rischio è un processo complesso, che deve tener conto di numerosi fattori: il primo è naturalmente la
“pericolosità” intrinseca del materiale, ma altrettanto importanti sono l’uso del prodotto, il tipo e la
durata dell’esposizione delle persone o dell’ambiente, lo smaltimento dei residui, ecc. Possiamo essere
in presenza di una sostanza chimica molto pericolosa, ma se il suo uso è limitato e non c’è contatto
diretto con gli operatori o con l’ambiente, con una esposizione trascurabile, il
rischio risultante è minimo e non dà preoccupazione. Ritornando al bitume, questo prodotto non è
classificato pericoloso. Infatti, se prendiamo una scheda di sicurezza di un qualsiasi bitume da petrolio
ed esaminiamo le sezioni 11 e 12 (dove devono essere indicati gli effetti dannosi sugli esseri umani e
sull’ambiente), vediamo che le informazioni sono estremamente sintetiche e completamente negative.
D’altra parte, tutti noi viviamo circondati da materiali bituminosi che
coprono strade, marciapiedi, tetti e terrazzi, senza risentire di effetti dannosi, e questo, senza essere una
prova scientifica, è pur sempre indicativo.
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Tutto questo naturalmente non significa che la manipolazione e l’applicazione del bitume non
comportano dei rischi per gli operatori, ma questi sono legati soprattutto alle modalità tecnologiche
dell’applicazione. Tipicamente, i produttori di bitume descrivono questi rischi in una sezione della
scheda di sicurezza del prodotto. Il rischio più importante, legato all’alta temperatura a cui il materiale
viene conservato e applicato, è naturalmente quello delle ustioni per gli
operatori. Un aspetto particolare di questa situazione si riflette sul trasporto del bitume. Come detto, il
bitume in sé stesso non ha caratteristiche pericolose per l’ambiente: tuttavia le norme vigenti
considerano qualunque materiale trasportato liquido o fuso a temperatura maggiore di 100 °C
(indipendentemente dalla composizione) come pericoloso per il trasporto, in considerazione delle
possibili conseguenze negative sull’ambiente in caso di incidente e relativo sversamento. Questo
significa che, dove non è possibile assicurare che la temperatura di trasporto è sicuramente inferiore al
limite suddetto fin dal momento dalla partenza del materiale, il trasporto deve esser eseguito nel
rispetto delle norme e quindi con un automezzo omologato, un autista qualificato e il corredo di tutti i
documenti necessari. Lo stoccaggio prolungato del bitume caldo può dare inoltre origine ad altre
circostanze pericolose, cui bisogna dedicare la giusta attenzione. Abbiamo ricordato che il bitume
contiene tipicamente una certa quantità di composti a base di zolfo e, in funzione di numerose
circostanze (composizione del bitume, temperatura e tempo di stoccaggio ecc.), è possibile che da
questi composti si sviluppino piccole quantità di composti solforati gassosi, tra cui può essere presente
l’idrogeno solforato (H2S). Questo gas ha effetti tossici sull’organismo, tanto più insidiosi in quanto il
suo tipico marcato odore di uova marce dopo pochi minuti non viene più avvertito dall’olfatto,
eliminando l’allarme dell’operatore che può rimanere esposto oltre il limite ammissibile. La possibilità
della formazione di H2S dipende da vari fattori, cominciando dal tipo di bitume per finire con le
temperature e tempi di stoccaggio e non è detto che si presenti in ogni caso, ma è comunque necessaria
un’opportuna cautela. E’ inoltre possibile che sulle pareti e sul tetto all’interno dei serbatoi, i fumi del
bitume si condensino e si depositino, accompagnati da piccole quantità di solfuri di ferro provenienti
dall’attacco della lamiera da parte dei composti solforati. Questi depositi possono diventare piroforici e
prendere spontaneamente fuoco a contatto con l’ossigeno dell’aria. Anche per questa ragione, quindi,
l’apertura dei passi d’uomo dei serbatoi deve essere fatta con le giuste precauzioni.
Un capitolo a parte va dedicato invece ai problemi legati allo sviluppo dei fumi dal bitume caldo. E’
ben noto che il bitume riscaldato emette una certa quantità di fumi e tali fumi, a parità di altre
condizioni, sono naturalmente più abbondanti quanto più alta è la temperatura. Tipicamente,
l’esposizione a questifumi può provocare una irritazione degli occhi e delle prime vie
respiratorie, se non altro per ragioni semplicemente fisiche, ed è quindi opportuno in ogni caso limitare
tale effetto, in modo da garantirecondizioni migliori di lavoro per gli operatori. Il benzene è una
sostanza cancerogena, di cui è sempre opportuno limitare l’uso, anche in un laboratorio. Dato che è
difficile verificare questo limite, risulta ancora più importante controllare il fenomeno limitando la
formazione dei fumi
dall’origine. E’ ovvio che il mezzo più diretto è quello di mantenere più
bassa la temperatura di lavoro: in questo modo si ha anche il vantaggio aggiuntivo di favorire la
sicurezza e si ottiene anche il beneficio di prevenire eventuali alterazioni del materiale. Prendendo in
considerazione questo fenomeno, si consiglia di non superare nell’applicazione i 160 °C per
limitare la formazione dei fumi. Questa indicazione è naturalmente generale e va opportunamente
tradotta in pratica, in funzione delle caratteristiche del materiale e delle condizioni di applicazione: è
ben diversa la situazione di un’applicazione all’aperto da quella in galleria o comunque in zone chiuse.
I risultati dei test indirizzati a verificare gli effetti dei fumi condensati sulla pelle sono invece
discutibili, dato che i campioni sono stati talvolta diluiti con solventi il cui effetto non è chiaramente
valutabile: inoltre le temperature a cui il bitume è stato portato per generare una sufficiente quantità di
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materiale condensabile (oltre 300 °C!) sono troppo alte rispetto alle condizioni reali di lavoro. A titolo
d’esempio, alcuni studi hanno stabilito che tipicamente i fumi
provenienti da bitume di petrolio contengono circa il 99 % di composti alifatici e 1 % di composti
aromatici (biologicamente più attivi); per confronto, i fumi di catrame contengono circa il 90 % di
composti
aromatici. Basterebbero quindi piccole quantità di catrame in miscela per cambiare sensibilmente le
condizioni della prova e il significato dei risultati.
Normalmente il bitume è utilizzato a caldo, e le temperature di riscaldamento, in genere
abbastanza alte, variano secondo il tipo di applicazione. Il riscaldamento, specie se non
adeguatamente controllato, può dare origine a processi di cracking con la possibile
formazione di quantità maggiori di IPA o di altre sostanze normalmente non presenti nel
bitume. La composizione chimica dei fumi dei bitumi è pertanto variabile, e dipende dal
grezzo di partenza, dal processo di produzione e dal tipo di applicazione (in conseguenza
dalla temperatura di utilizzo).
Quando si riscalda un bitume o un materiale bituminoso, come detto, si determina la
produzione di fumi, costituiti in parte da vapori e in parte da particolato aeriforme. Per
procedere alla determinazione analitica della composizione dei fumi il particolato aeriforme
viene raccolto tramite attrezzature chiamate “campionatori” su un filtro (o meglio su un
sistema di filtri), mentre i vapori sono catturati con un tubo assorbente posto in serie al
campionatore.
La determinazione analitica dei singoli IPA non è un’operazione particolarmente facile; trale tecniche
analitiche impiegate si possono ricordare quella basata su cromatografia liquida (LC), o cromatografia
liquida ad alta risoluzione (HPLC) abbinata a fluorescenza ultravioletta (UV).
Quando si affronta in questi casi il problema della determinazione qualitativa e quantitativa
degli IPA, va anche ricordato che è possibile che i fumi di bitume generati in laboratorio
possano differire per composizione da quelli prelevati sul campo, come evidenziato da varie ricerche.
Risulta pertanto assai importante operare, sia in laboratorio che sul campo, utilizzando tecniche di
campionamento e di trattamento del campione che assicurano una buona corrispondenza tra i campioni
generati in laboratorio e quelli prelevati in opera.
Si riporta la tabella del dossier CONCAWE che fornisce gli intervalli di concentrazione determinati nei
bitumi, nella pece di catrame e nei condensati dei fumi prodotti a diverse temperature.
Tabella: Intervalli di concentrazione di idrocarburi policiclici aromatici (IPA) nei bitumi e nei loro
fumi, confrontati con quelli delle peci di catrame
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In merito ai contenuti di IPA, il CONCAWE evidenzia gli aspetti principali, in parte ricavati dai dati
della Tabella:
• i bitumi, sia stradali che ossidati, mostrano basse concentrazioni di IPA, che confrontate con
quelle della pece di catrame risultano da 1000 a 10'000 volte inferiori; le quantità di IPA nei
fumi sono generalmente superiori a quelle riscontrate alla temperatura ambiente nelle sostanze
da cui provengono;
• i fumi da pece di catrame, riscaldata alla stessa temperatura di applicazione dei bitumi stradali,
evidenziano un contenuto di IPA sempre superiore di circa 1000 volte rispetto a quello dei fumi
di un bitume stradale nelle stesse condizioni;
• la temperatura di riscaldamento influenza sia la quantità dei singoli IPA che la quantità dei fumi
generati.
Confrontando i condensati ottenuti dai fumi generati alle temperature di 160 °C e 250 °C, si può notare
che i fumi ottenuti a temperatura più bassa contengono quantitativi maggiori di IPA a 3–4 anelli,
mentre i fumi ottenuti a temperatura più elevata hanno un contenuto leggermente superiore di IPA a 5 o
più anelli. ad alta
temperatura (316 °C) non è possibile arrivare ad una chiara conclusione, forse per l’interferenza di
sostanze di tipo diverso dai polinucleari aromatici. Il dossier segnala in ogni modo che, a prescindere
dal poter pervenire ad una conclusione certa sulle concentrazioni relative dei singoli IPA alle diverse
temperature, sono le quantità dei fumi prodotte alle diverse temperature che risultano essere l’elemento
critico per l’esposizione dell’uomo, dato che a 250 °C la quantità di fumi emessa è circa otto volte
superiore rispetto a quella che si produce a 160 °C.
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Come è intuitivo, la classificazione di sostanze e preparati segue delle linee comuni, e come principio
generale, fa riferimento alle proprietà chimico-fisiche, alle proprietà tossicologiche, agli effetti specifici
sulla salute umana e agli effetti sull’ambiente. Nell’Unione Europea la classificazione delle sostanze è
in ogni caso un obbligo e una responsabilità che ricade sul produttore. Come base, le classificazioni
delle sostanze chimiche pericolose sono elencate nell’Allegato I della direttiva 67/548/CE, e
periodicamente, sulla base delle nuove conoscenze tecniche via via disponibili, vengono aggiornate e
riviste dall’Unione Europea. Le classificazioni aggiornate sono a questo punto pubblicate in una nuova
direttiva (denominata Adeguamento al Progresso Tecnico), che gli Stati membri ratificano poi a livello
nazionale. Va ricordato però che la classificazione ufficiale dell'Unione Europea è solo una base, e
deve essere integrata, se necessario,
dalle conoscenze dei produttori, che possono anche utilizzare, a loro giudizio, una classificazione più
severa. Questa in realtà non è solo una “possibilità”, ma un “obbligo” del produttore.
Dopo aver individuato la pericolosità del prodotto, emerge come necessità complementare
quella di comunicare in modo conciso e comprensibile tali caratteristiche. La classificazione dovrà
quindi potersi tradurre in un'indicazione sintetica, codificata, delle caratteristiche di pericolo.
La prima parte di tale indicazione è riferita alla categoria di pericolo associabile al prodotto, ed è poi
completata da una o più frasi di rischio R. Si tratta di una serie di espressioni codificate, destinate a
specificare in modo più dettagliato la natura del pericolo, indicando ad esempio la via di accesso
nell’organismo per un prodotto tossico, o un comportamento in situazioni particolari che pone un
rischio specifico.
Classificazione del bitume
Esplosività:
Criterio: valutazione del risultato di test sperimentali
Classificazione: Non classificato, sulla base dell’esperienza pratica e della composizione chimica.
Proprietà ossidanti (Comburenti):
Criterio: valutazione del risultato di test sperimentali, oppure sulla base della struttura chimica.
Classificazione: Non classificato, sulla base dell’esperienza pratica e della composizione chimica.
Infiammabilità
Criterio: valore del punto di infiammabilità (valore limite di classificazione 55 °C).
Classificazione: Non classificato – i prodotti in commercio hanno valori > 200 °C.
Non essendo classificato come sostanza pericolosa per il bitume non è richiesta alcuna etichettatura ai
sensi della normativa europea.
Al momento il formato ufficiale per le schede di sicurezza è obbligatorio solo per le sostanze e i
preparati pericolosi; mentre le informazioni rilevanti sulla composizione e le proprietà di un prodotto
non pericoloso possono essere (e talvolta lo sono) trasmesse in un formato differente, senza
necessariamente infrangere alcuna disposizione di legge.
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