«SI N EST ESI EON LI N E » Periodico quadrimestrale di studi sulla letteratura e le arti Supplemento della rivista «Sinestesie» Numero 11 Marzo 2015 « SI N E ST E SI EON L I N E» Periodico quadrimestrale di studi sulla letteratura e le arti Supplemento della rivista «Sinestesie» ISSN 2280-6849 Direzione scientifica Carlo Santoli Alessandra Ottieri Direttore responsabile Paola De Ciuceis Coordinamento di redazione Laura Cannavacciuolo Redazione Domenico Cipriano Maria De Santis Proja Carlangelo Mauro Apollonia Striano Gian Piero Testa © Associazione Culturale Internazionale Edizioni Sinestesie (Proprietà letteraria) Via Tagliamento, 154 83100 Avellino www.rivistasinestesie.it - [email protected] Direzione e redazione c/o Dott.ssa Alessandra Ottieri Via Giovanni Nicotera, 10 80132 Napoli Tutti i diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. 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Pagine di critica d’arte darrighiana Marilina Di Domenico Un punctum impertinente… tra cronaca, realtà e finzione narrativa: Venite venite b-52 Rosalba Galvagno Ricordo di Vincenzo Consolo* Gabriella Guarino Simbolismo zoologico e cromatico nella pubblicità: esempi Rosanna Lavopa Ermes Visconti: echi vichiani nell’interpretazione del ‘romantico’ * Pubblicazione autorizzata. Per gentile concessione del Dott. Elio Miccichè, Direttore editoriale di «Incontri - La Sicilia e l’altrove» – Rivista trimestrale di cultura – fondata da E. Aldo Motta nel 1987. Antonello Perli Sbarbaro frammentista della Grande Guerra Mario Soscia Il vino compagno di piacere nella letteratura e nell’arte Dario Stazzone «Mi vive spesso nella memoria / la stagione della giovinezza»: Emilio Greco scultore, incisore e poeta Sezioni L’isola che c’è. Orizzonti letterari per bambini e ragazzi a cura di Leonardo Acone Rossella Caso Scrivere per l’infanzia. Itinerari di formazione al femminile nei romanzi di Bianca Pitzorno Lucia Schettino La fiaba tra racconto e narrazione di senso Mediterraneità europea: Arti, Letterature, Civiltà del Mediterraneo. Per rifondare l’identità del cittadino europeo del XXI secolo a cura di Angelo Fàvaro Mark Epstein La Grecia e una democrazia mediterranea Giovanni La Rosa Le costellazioni nei neri letti dell’orizzonte Carla Valesini Isole in mezzo al mare. ‘Giro del sole’ di Massimo Bontempelli R ecensioni Enzo Gianmaria Napolillo Le tartarughe tornano sempre, Feltrinelli, Milano 2015 (Vincenzo Napolillo) Meris Nicoletto Donne nel cinema di regime fra tradizione e modernità, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2014 (Bianca Maria Da Rif) Ferdinando Pappalardo Clericus vagans, Saggi sulla letteratura italiana del Novecento, Aracne, Ariccia 2014 (Sara Calì) Daniele Maria Pegorari Il fazzoletto di Desdemona. La letteratura della recessione da Umberto Eco ai TQ, ebook, Bompiani, Milano 2014 (Carlangelo Mauro) Rossella Caso Scrivere per l’infanzia Itinerari di formazione al femminile nei romanzi di Bianca Pitzorno Scrivere per l’infanzia: quale letteratura per le bambine? La storia del legame tra la letteratura per l’infanzia e il femminile è una storia di esclusione. Le bambine e le donne, nelle pagine dei racconti e dei romanzi «sono sempre state il segno di una differenza elusa»1, confinate in ruoli marginali, quasi invisibili nella narrazione di avventura, poiché il lettore, quasi sempre un uomo – gli indici di analfabetismo femminile erano ancora molto alti sino alla prima metà del Novecento e oltre – doveva osservarle in quella stessa, rassicurante collocazione nella quale le osservava nella vita reale: confinate negli interni, angeli del focolare che si prendono cura della casa e della famiglia. Ed era a quei ruoli che esse andavano educate. Del resto, come potevano le donne, nella loro fragilitas, pensare di poter ricoprire un ruolo diverso nella società? Creature totalmente irrazionali e dominate dai sentimenti, contrapposte agli uomini, che erano invece “animali razionali” per eccellenza, forti, autorevoli e autoritari, le donne risultavano nella mentalità comune totalmente inadatte a qualunque tipo di lavoro e persino di occupazione intellettuale. Il lavoro, la scienza, la scrittura, l’arte, erano e dovevano restare dei campi di pertinenza maschile: l’ideologia patriarcale ha condizionato in questa direzione il destino delle giovani donne, condannandole sin da bambine a scrivere 1 E. Beseghi, Streghetta, Lavinia, Clorofilla e le altre, in AA. VV., L’insegnante, il testo e l’allieva, Rosenberg & Sellier, Torino 1992, pp. 40-45, p. 43. 9 Rossella Caso il proprio futuro nel segno di una subalternità rispetto agli uomini, fatta di economia domestica e di lavori “donneschi”, di un “buon matrimonio”, di una bella casa e di figli e nipoti da accudire. Un sistema educativo che, come mette in evidenza Elena Gianini Belotti, determinava gli itinerari esistenziali tanto dei bambini quanto delle bambine, costringendoli entrambi a costruire il proprio destino su modelli e ruoli stereotipati: «il maschio è stato costretto in una forma che non solo gli consente, ma lo obbliga a manifestarsi e realizzarsi il più possibile, sia pure nella sola direzione della competizione, del successo, della sopraffazione, la femmina è stata obbligata a prendere la direzione opposta, cioè quella della non realizzazione di sè»2. La metafora del “silenzio”, insieme a quella della “invisibilità”, è in questa ottica quella che meglio racconta la storia dell’educazione femminile nella cultura occidentale. Le vicende delle bambine, delle ragazze e delle donne raramente sono entrate nei libri di storia, eppure, come scrive Gabriella Seveso, «possiamo immaginare, nei secoli passati, bambine e ragazze intente a ricamare, a pulire, a cucinare, dedite a imitare le “buone maniere”, al fine di divenire modeste, virtuose, silenziose. In un universo in cui la retorica e la persuasione sono reputate la massima espressione umana, la parola, sia orale, sia scritta, è interdetta alle bambine e alle donne»3. La parola, infatti, è “sovversiva” e in quanto tale poteva deviare i percorsi tracciati per loro dal mondo adulto patriarcale: per questo doveva essere insegnata soltanto ai bambini, unici destinatari della pratica del leggere, scrivere e fare di conto. Per educare le bambine e le ragazze, per lo meno fino alla seconda metà dell’Ottocento, invece, erano sufficienti preghiera, cucito e pianoforte4. Fino a quando, sul finire del XIX secolo, presso le famiglie aristocratiche e borghesi, incominciò a diffondersi un altro modo di intendere il ruolo femminile nella famiglia e nella società: le bambine e le ragazze dovevano essere educate, anzi “ben-educate” e E. Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 1973, p. 178. G. Seveso, Fumette. Valentina, Eva Kant, Lara Croft e le altre, Unicopli, Milano 2000, p. 24. 4 S. Barsotti, Le storie usate. Calvino, Rodari, Pitzorno: riflessioni pedagogiche e letterarie tra mitologia e fiaba, Unicopli, Milano 2006, p. 142. 2 3 10 Scrivere per l’infanzia quindi i loro “saperi” non potevano certamente limitarsi più a quelli eminentemente pratici della vita domestica. Si trattò di emancipazione? Certamente no, se era loro richiesto semplicemente di saper camminare, sorridere, comunicare, intrattenere gli ospiti, preparare un menù, organizzare una festa e sapere quanto basta di cultura e di politica per accompagnare il marito nella sua carriera e per crescere i figli a quello stesso credo5. Si diffuse così quella che Simonetta Ulivieri chiama “pedagogia del sapere come ornamento”6; come “ornamento” rispetto a un maschile del quale la donna poteva e doveva essere una piacevole compagnia, senza mai tuttavia poter anche solo velatamente mostrare una capacità intellettuale più profonda. Di epoca in epoca, così, la storia dell’educare al femminile è stata contrassegnata dalla “separatezza” e dalla marginalità: quando è uscita dal chiuso delle mura domestiche e delle istitutrici è entrata nelle aule di scuole appositamente istituite per bambine e per ragazze, quelle “perbene”, perché le contadine e le popolane erano indirizzate a ben altri percorsi, dovendo contribuire sin dalla più tenera età al sostentamento della famiglia. Sempre però quelli tradizionalmente destinati alle donne. Soltanto nel periodo tra le due guerre la situazione cambiò, poiché la prolungata assenza degli uomini, impegnati al fronte, rese necessario impiegare le donne anche in settori tradizionalmente di appannaggio maschile, ma troppo importanti per l’economia nazionale per essere trascurati. Sebbene il tasso di analfabetismo femminile fosse ancora molto alto, un numero sempre maggiore di bambine iniziò a impadronirsi della lettura e quindi della parola. Fu allora che crebbe il controllo da parte del mondo adulto, ancora fortemente patriarcale, rispetto ai libri e alle letture che arrivavano nelle mani delle bambine e delle ragazze. Le bambine raccontate sulle pagine dei romanzi dovevano essere bambine “perbene”, obbedienti, dedite a giocare con le bambole o a crescere piccole donne per diventare mogli e madri. Niente avventure per loro. Dalla Cosette di Victor Hugo alle tante piccole eroine di romanzi e racconti, le pagine destinate all’infanzia incominciarono a popolarsi di 5 6 S. Ulivieri, Educare al femminile, ETS, Pisa 2010, p. 40. ivi, p. 38. 11 Rossella Caso orfane e sfortunate, costrette a subire i più crudeli disegni del destino, per dimostrare ogni volta «la loro infinita capacità di sopportazione e di perdono, incredibile ingenuità e candore, illimitata generosità ai limiti dell’umana intelligenza»7. Fu tra Otto e Novecento che giunse, a ribaltare l’immagine stereotipata della bambina “di carta”, la carrolliana Alice, piccola viaggiatrice che guidata dalla curiositas troppo a lungo preclusa al femminile, arrivò fino al Paese delle Meraviglie, aprendo la strada alle Jo March, Pippi Calzelunghe e alle Bibi che finalmente offriranno alle piccole lettrici dei modelli alternativi di femminile, autonomi e indipendenti, nei quali poter vedere rispecchiate le proprie storie di bambine e ragazze. Non più, dunque, un’infanzia inautentica, proiezione delle tendenze didascaliche e moralistiche del mondo adulto, e quindi della sua idea di bambino e di bambina “perbene”, ma un’infanzia alle prese con il proprio percorso di crescita, che affronta in maniera lucida, disincantata, talvolta ironica e trasgressiva, ma sempre vincente nel proprio desiderio di rivalsa8. Di questa schiera fanno parte sicuramente anche le bambine di Bianca Pitzorno. Bambine capaci anche loro, come Jo, Pippi e Bibi, di intraprendere, ciascuna nella propria “differenza”, itinerari di formazione liberi dal controllo della mondo adulto, rivendicando un proprio ruolo in un mondo dominato dai grandi, maschi e conformisti. Una bambina “molto arrabbiata” Se si chiedesse a Bianca Pitzorno quale sia per lei la condizione essenziale dello scrivere per l’infanzia risponderebbe, come fa in Storia delle mie storie, non aver dimenticato che cosa significhi essere una bambina e, soprattutto, la bambina che è stata: «se dovessi definirmi in Seveso, op. cit. , p. 77. Cfr. R. Caso, Sbirciando il mondo “oltre” la porta. Bambine piccole e coraggiose crescono, in R. Caso, B. De Serio (a cura di), Viaggiare tra le storie. Letteratura per l’infanzia e promozione della lettura, Aracne, Roma 2013, pp. 177-194. 7 8 12 Scrivere per l’infanzia quanto scrittrice, - scrive – potrei dire che sono una bambina che non ha rinnegato la sua patria d’origine e che, fornita di maggiori competenze tecniche rispetto ai suoi fratelli più giovani, usa le sue accresciute capacità di espressione e di padronanza della lingua scritta per cantare l’epos del popolo cui ancora appartiene, quello dell’infanzia, prima che venga distrutto dalla civiltà dei colonizzatori adulti. Una bambina molto arrabbiata che usa la penna come arma d’offesa e di difesa»9. Il rapporto con la scrittura è iniziato per lei, come ha raccontato in un’intervista raccolta da chi scrive, quando era molto piccola. La sua era una famiglia borghese e istruita, un ambiente in cui si parlava e si leggeva molto, soprattutto tra le donne. La madre amava Virginia Woolf e la nonna, pur essendo una donna semplice, una casalinga che aveva avuto sei figli ed era stata tutta la vita moglie e madre, probabilmente perché aveva sposato un professore di latino e greco, aveva finito con l’innamorarsi della lettura e a leggere e rileggere l’opera omnia di Grazia Deledda e la Saga dei Forsyte di Galsworthy. «Io, dunque, ho semplicemente seguito la strada che era stata tracciata dalle donne della mia famiglia, e senza farmi troppe domande. Crescendo ho imparato a fare le “cose dei grandi”, come allacciarmi le scarpe o mangiare da sola, e quindi anche a leggere e poi, piano piano, a scrivere. E a scrivere semplicemente per raccontare delle storie, delle esperienze. Un significato che vada al di là di questo, però, al mio scrivere proprio non saprei darlo. Raccontare storie – e non necessariamente in forma scritta – fa parte di me. […] Quando poi ho iniziato a scrivere le prime storie, quelle sì che erano finalizzate! La scrittura era l’unica arma di vendetta che avessi contro la mia maestra!»10. La “storia delle storie” di Bianca Pitzorno, infatti, è iniziata proprio tra i banchi di scuola quando lei, bambina, ha sperimentato per la prima volta l’ipocrisia e la prepotenza del mondo adulto nei confronti dei piccoli: frequentava la seconda elementare e tale violenza aveva il volto della maestra e della sua “guerra” alle bambine povere capitatele 9 B. Pitzorno, Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi (1995), Net, Milano 2006, p. 42. 10 R. Caso, Bianca Pitzorno. Intervista, in “Andersen”, 307, 2013, pp. 10-17, p. 11. 13 Rossella Caso per sbaglio come alunne. Quasi tutte finivano con il cambiare classe o addirittura con l’abbandonare la scuola. Tra i banchi la piccola osservava con l’occhio acuto tipico dell’infanzia le ingiustizie e le crudeltà di un sistema educativo incapace di assolvere ai propri compiti senza fare ricorso alla sferza e alla ferula, mezzi di una pedagogia “nera” che lasciava ben poco spazio ai bambini e alle bambine “veri”, per educare invece dei piccoli adulti finalizzati a perpetrare il sistema sociale dominante. «Questo comportamento ingiusto e crudele da parte di un’adulta che, cattolicissima, a parole predicava la fratellanza, la carità, la giustizia, fu la prima causa, se non della mia decisione di scrivere che esisteva pur confusamente già in precedenza, della mia scelta consapevole di scrivere “contro” gli adulti, contro la loro ipocrisia e prepotenza. Di raccontare la vita dei bambini governata da quell’inevitabile rapporto di forza tutto a loro svantaggio. Di raccontare la loro rabbia impotente e tutti gli espedienti messi in atto per resistere»11. L’ispirazione arrivò, come narra ancora in Storia delle mie storie, con le vicende di Graziella, bambina povera «colpevole di avere le scarpe rotte, di abitare in un seminterrato, nel vicolo di un quartiere poverissimo, di usare un italiano inframmezzato da frasi dialettali, e soprattutto di essere assistita dal Patronato scolastico»12. Una di quelle bambine che, non rientrando nell’ideale delle bambine “perbene”, con quegli abiti in disordine, «il moccio secco alle narici», i capelli «biondi e lunghi, ma unti e imbrogliati», non poteva che rappresentare per la maestra una fonte costante di ignominia. Era Graziella l’oggetto delle continue malversazioni della maestra, che «l’aveva isolata in un banco dell’ultima fila, ne restava ostentatamente lontana, e per picchiarla mantenendo le distanze usava la lunga bacchetta con la quale si indicavano i paesi nordici sulla carta geografica. La chiamava con dileggio, invece che col nome e cognome, “Olezzo di rose” o “Profumo 11 Pitzorno, Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi (1995), cit., p. 49. 12 ivi, pp. 88-90. 14 Scrivere per l’infanzia di viole” e non perdeva l’occasione di mandarla in castigo dietro la lavagna o addirittura fuori dall’aula»13. «Possibile che solo perché eravamo bambine dovessimo subire tutto in silenzio?»14: dalla risposta a questa domanda nacquero i primi racconti, che Bianca scriveva sulle agende che suo padre riceveva in dono dalle case farmaceutiche e che le regalava per i suoi “scarabocchi”, che avevano per protagonista sempre la maestra. In quelle storie, che in poco tempo conquistarono un grandissimo successo tra le sue compagne di classe, però, la cattiveria della donna non aveva mai la meglio, anzi, veniva impietosamente punita. Quella bambina “molto arrabbiata” che usava la scrittura come arma di vendetta contro la maestra non avrebbe mai più smesso di scrivere, di raccontare la realtà, a volte così com’è, a volte trasfigurandola e capovolgendola attraverso la fantasia. Vita e scrittura risultano così nelle sue opere intimamente legate, che si tratti dei suoi ricordi, o delle storie delle piccole amiche come Valentina e Aglaia, che le hanno ispirato, a partire dalla loro vita quotidiana, alcuni dei suoi più grandi romanzi, quali L’incredibile storia di Lavinia e La casa sull’albero. Non autobiografia, dunque – neppure la Prisca di Ascolta il mio cuore è un personaggio “propriamente” autobiografico, anche se è stato interpretato come tale da numerosi critici e studiosi15 – se non intesa nel senso di una scrittura che si nutre del rapporto con la propria esperienza di vita, da quella di bambina di scuola a quella di adolescente e poi di giovane donna che iniziava a scrivere per professione negli anni Settanta, gli anni della contestazione. Gli anni delle lotte operaie e del femminismo, della liberazione sessuale e delle rivendicazioni in favore dei gay e degli oppressi. Gli anni di romanzi come Clorofilla dal cielo blu, L’Amazzone di Alessandro Magno, Extraterrestre alla pari e La bambina Ibidem. ivi, p. 93. 15 Cfr., per esempio, E. Catarsi, I “narratori puri”. Scrittori italiani per l’infanzia tra anni Ottanta e Novanta, in E. Catarsi, F. Bacchetti (a cura di), “I Tusitala”. Scrittori italiani contemporanei di letteratura giovanile, Edizioni del Cerro, Pisa 2006, pp. 13-49. Sulla questione del rapporto tra biografia e scrittura si veda Caso, Bianca Pitzorno, intervista, cit. 13 14 15 Rossella Caso col falcone. Storie non certo ambientate nella realtà contemporanea, ma «inevitabilmente, quando scrivevo, tutto il sobbollimento del mio quotidiano si rifletteva anche nelle mie storie e nei miei personaggi»16, ha raccontato. Pian piano, la scrittura divenne la sua professione, e in essa ormai si rifletteva non più la bambina, né l’adolescente, né la scrittrice alle prime armi, ma un’adulta indipendente e sicura di sé, una professionista che viveva della sua scrittura e che, però, era ancora in grado di ascoltare la “voce bambina”: L’incredibile storia di Lavinia nacque dal rapporto con una bambina figlia di amici, e nel contempo con la se stessa bambina: «L’unica bambina che ancora frequento e che conosco bene è la me stessa di tanti anni fa»17, scrive sulle pagine del suo sito. È di quella bambina, delle sue storie e di quelle che le hanno raccontato, delle sue amiche, dei libri che ha amato, ma anche di quelli che ha odiato18, che si nutrono le sue bambine “di carta”, da Lavinia, a Prisca, ad Aglaia, a Polissena. Illuminante in proposito la premessa a Diana, Cupìdo e il Commendatore: L’autrice vorrebbe anche precisare che Prisca Puntoni, in questo libro come in Ascolta il mio cuore, NON è il suo ritratto da piccola. A Prisca, lei somigliava soltanto per la precoce vocazione alla scrittura. Però, sebbene non fosse orfana, aveva come Elisa molti zii scapoli e una nonna che l’adorava; sapeva disegnare come Rosalba; come Diana era timida, portava gli occhiali e andava moltissimo al cinema… (Ma Ivi, p. 11. B. Pitzorno, Cosa non sono, in http://www.biancapitzorno.it/index.php/chi-e/ cosa-non-sono [consultato il 25 marzo 2015]. Si veda anche S. Barsotti, Bianca Pitzorno e le sue bambine, in Catarsi, Bacchetti (a cura di), “I Tusitala”. Scrittori italiani contemporanei di letteratura giovanile, cit., pp. 75-96. 18 Come la scrittrice stessa ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Carmine De Luca, «quando incominciai a scrivere, verso gli otto anni, lo feci per ristabilire la verità. Per rappresentare i bambini com’erano veramente, cioè molto migliori, e soprattutto più seri, di come venivano raccontati. E per descrivere tutte le malefatte di quei grandi che volevano spacciarsi per eroi senza macchia e senza paura». Si veda C. De Luca, Dalla parte della specie bambina. Intervista a Bianca Pitzorno, in “C’era due volte…”, 3, 1995, pp. 43-46. Per ulteriori approfondimenti, si confronti S. Barsotti, Le storie usate. Calvino, Rodari, Pitzorno: riflessioni pedagogiche e letterarie tra mitologia e fiaba, cit., p. 154. 16 17 16 Scrivere per l’infanzia aveva un padre vivo e vegeto, e anche molto simpatico). E allo stesso modo, costruendo i personaggi di Elisa, Rosalba e Diana, non si è ispirata a tre ragazzine particolari, ma ha fatto un collage delle caratteristiche più interessanti di moltissime sue amiche. Poiché i libri e la vita reale, come scoprirà Diana alla fine della sua avventura, spesso si assomigliano, ma non sono mai la stessa cosa19. E se qualcuno le chiedesse per quale motivo scelga come protagonisti dei suoi romanzi sempre e soltanto personaggi femminili, senza dubbio risponderebbe, come ha fatto già in molte interviste, ciò che ha scritto in Storia delle mie storie: Le bambine le conosco bene, dall’interno. So tutto di loro. […] I bambini mi piacciono, e io piaccio a loro. Ma le bambine mi piacciono infinitamente di più. E loro sentono questa affinità e mi raccontano cose che un bambino non confesserebbe mai. Ogni piccola protagonista di un mio libro vive dei ricordi della mia infanzia mescolati alle confidenze che ricevo ogni giorno dalle mie giovani amiche. Non potrei mai fare la stessa cosa con un personaggio maschile. Non ci provo nemmeno20. Momenti di vita vissuta e fictio letteraria si intrecciano costantemente e la fantasia stabilisce nuove relazioni tra le cose della vita “vera”. Tutte le storie nascono da uno spunto reale: la quotidianità e le relazioni tra le persone, in famiglia e in società: «Memoria di me 19 B. Pitzorno, Premessa, in Ead., Diana, Cupìdo e il Commendatore (1994), Mondadori 2012, p. 12. In riferimento alla “somiglianza” di Bianca bambina con Prisca, si veda Ascolta il mio cuore, dove si può ragionevolmente cogliere un legame “autobiografico” tra la bambina reale e quella “di carta”, pur nella maniera tutta personale in cui, come si legge nel presente lavoro, Bianca Pitzorno lo costruisce. Anche Prisca inizia a scrivere le sue storie su delle grosse agende delle case farmaceutiche, che però non le regala suo padre, come invece era accaduto alla scrittrice da bambina, ma lo zio di Elisa, Leopoldo, medico cardiologo, del quale lei proprio in quel momento si innamora. Cfr. B. Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), Mondadori, Milano 2012, pp. 58-62. 20 Pitzorno, Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi (1995), cit., pp. 161-162. 17 Rossella Caso bambina e osservazione dei bambini di oggi. Nessuna invenzione. Ogni riga è un preciso riferimento alla realtà»21. Le sue “orecchie bambine” ascoltano l’infanzia – quella al femminile, in particolare – e la raccontano, offrendole una possibilità di riscatto e di risarcimento e un mondo ove, sulla spinta delle domande che è lo scrittore a suscitare, possa finalmente pensare, parlare e scrivere22. È in questo senso che va intesa la celeberrima e fin troppo abusata frase con la quale Bianca Pitzorno ha sintetizzato in Storia delle mie storie il senso dello scrivere per l’infanzia: la condizione essenziale è conoscere i bambini e le bambine e, possibilmente, stare “dalla loro parte”. Scrivere e suscitare domande, domande che li stimolino a pensare da soli e da soli a elaborare le proprie risposte, può essere un buon modo per farli crescere, e dunque per assolvere al proprio compito di scrittore o di scrittrice. Prisca, Diana, Lavinia, Emilia e tutte le bambine nate dalla sua penna non sono semplicemente, come comunemente si scrive, delle piccole intraprendenti, spigliate e anticonvenzionali, ma bambine “diverse”, nel senso che ognuna è differente dall’altra, e ognuna può offrire alle piccole lettrici un proprio orizzonte nel quale identificarsi e rispecchiarsi. Diana è un po’ “imbranata”, Lalage è sempre persa nei suoi pensieri, «talvolta sgomenta di quel che succede»23 (p. 12), Prisca è un po’ “arrabbiata”, ma capace anche di sognare e di usare quel pizzico di magia che riesce a creare scrivendo della sua maestra per ribaltare, almeno sul piano simbolico, una realtà a volte troppo difficile da accettare e da razionalizzare; per conferirle un senso, ma, soprattutto, appunto, per trovare da sé le proprie risposte, quelle che la aiuteranno a crescere e che aiuteranno a crescere con lei i piccoli lettori. De Luca, Dalla parte della specie bambina. Intervista a Bianca Pitzorno, cit., pp. 43-46, p. 46. si veda inoltre S. Barsotti, B. Pitzorno: una scrittrice “dalla parte delle bambine”, in Barsotti, Le storie usate. Calvino, Rodari, Pitzorno: riflessioni pedagogiche e letterarie tra mitologia e fiaba, cit., pp. 139-199, p. 158. 22 Cfr. M. Casella, Le voci segrete. Itinerari di iniziazione al femminile nell’opera di Bianca Pitzorno, Mondadori, Milano 2006. Si veda anche E. Beseghi, Bianca, Lavinia e le altre, in “Liber”, 12, luglio-settembre 1991, pp. 26-28. 23 Caso, Bianca Pitzorno. Intervista, in “Andersen”, 307, 2013, pp. 10-17, p. 12. 21 18 Scrivere per l’infanzia Prisca, Elisa & Co.: crescere bambine nella scuola degli anni Cinquanta La piccola Graziella della quale la scrittrice racconta rievocando le sue memorie di infanzia in Storia delle mie storie, è, come Prisca, un personaggio che “transita” tra realtà e fantasia: Un giorno di maggio Graziella venne a scuola con un mazzo di tulipani involti in un foglio di giornale, e li posò trionfante sulla cattedra. Era un’abitudine diffusa quella di portare i fiori alla maestra, e la poverina aveva cercato di uniformarsi. La scena che ne seguì mi rimase così impressa nella mente che quarant’anni dopo riuscii a descriverla tale e quale nel mio romanzo Ascolta il mio cuore, pubblicato in Italia da Mondadori, dove Graziella viene rappresentata col nome di Adelaide. (D’altronde neppure Graziella è il suo vero nome. Non so più niente di lei e mi auguro che sia felice. Ma non mi piacerebbe che qualcuno potesse riconoscerla)24. Proprio Ascolta il mio cuore inaugura un ciclo di romanzi che la stessa Pitzorno definisce come quelli delle “memorie d’infanzia”, o della “saga di Lossai”, dal nome di una immaginaria cittadina della Sardegna ove sono tutti ambientati25: «Questo è un libro che unisce realtà e fantasia. Nel senso che tutte le cose che vi sono raccontate – scrive nella sua introduzione – sono avvenute per davvero. Ma non tutte nello stesso anno, nella stessa classe e con le stesse persone. Sono stata io a ricucirle insieme, per combinare una storia che rispondesse sotto forma di romanzo alla domanda che mi fanno spessissimo i 24 Pitzorno, Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi (1995), cit., p. 90. La scena alla quale fa riferimento la scrittrice è descritta in Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., pp. 329-336. 25 Del ciclo fanno parte, oltre ad Ascolta il mio cuore (sul quale ci si soffermerà in maniera particolare nel presente contributo), anche Diana, Cupìdo e il Commendatore, Re Mida ha le orecchie d’asino, La voce segreta e Quando eravamo piccole. In questo lavoro ci si soffermerà in particolare sul primo, al quale gli altri quattro sono legati da un sottile gioco di rimandi. Sulla genesi di questo ciclo di romanzi si veda Pitzorno, Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi (1995), cit., pp. 127-129. 19 Rossella Caso miei giovani lettori: “Come andavano le cose a scuola quando eri piccola?”»26. La trama di Ascolta il mio cuore si dipana durante un anno scolastico, nel secondo dopoguerra, in una quarta elementare interamente femminile, secondo la legislazione scolastica di quell’epoca, la IV D. E sempre in quegli anni sono ambientati anche gli altri romanzi che compongono il ciclo. L’Italia degli anni Cinquanta dell’infanzia dell’autrice, che stava uscendo a fatica dalla guerra e in cui molto forti erano le disparità sociali: «I poveri mancavano di tutto, e anche le famiglie cosiddette “benestanti” non avevano tutte le comodità e gli oggetti utili e inutili che oggi riempiono le nostre case. In compenso, proprio perché i poveri erano così disperatamente poveri, le famiglie benestanti avevano molte domestiche, cameriere e bambinaie»27. Era l’Italia della televisione in bianco e nero, che trasmetteva un unico canale, e solo per poche ore al giorno, e della radio a corrente elettrica, una “scatola” pesante e ingombrante, che trasmetteva l’opera o il teatro, ma anche le prime “canzonette”. Per telefonare spesso si andava ai telefoni pubblici, perché non tutti avevano un apparecchio in casa, e le lettere erano un vero e proprio mezzo di comunicazione28. In quell’Italia il tasso di analfabetismo femminile toccava ancora punte del 15,2%, sebbene la presenza delle bambine nelle scuole stesse gradualmente aumentando, specie della borghesia, della classe media e della piccola borghesia urbana29. Scuole in cui le classi erano rigorosamente suddivise per genere e, al loro interno, da barriere soltanto apparentemente “invisibili”: quelle sociali. Così le racconta, ancora, la scrittrice: Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., p. 9. ivi, pp. 9-10. 28 Cfr. B. Pitzorno, Premessa, in Ead. Re Mida ha le orecchie d’asino (1996), Mondadori, Milano 2012, pp. 9-11. 29 Cfr. Ulivieri, op. cit. Su questa questione si veda anche A. Cobalti, Le disuguaglianze di opportunità formative in Italia. L’andamento nel tempo, in “Scuola e città”, 10, 1989, pp. 425-430. 26 27 20 Scrivere per l’infanzia I banchi erano sempre doppi, e il compagno di banco era una figura molto importante. Inoltre i banchi, che erano di legno massiccio, avevano una ribalta che si poteva alzare e abbassare e che, oltre a contenere libri e cartella, serviva anche a nascondere molti segreti e a far baccano quando veniva lasciata ricadere con forza. Non esistevano ancora né le penne biro, né i pennarelli, e le penne stilografiche erano riservate agli adulti piuttosto ricchi. Il resto della gente scriveva intingendo il pennino nel calamaio pieno di inchiostro. I pennini si infilavano in cima alla penna e si potevano cambiare. Avevano molte forme: a goccia, a campanile, a forma di mano con l’indice puntato. C’era chi si era affezionato a una certa forma e chi invece preferiva averne di tutte le qualità. Spesso l’inchiostro gocciolava sul quaderno, macchiandolo. Per asciugarlo, anche in situazioni normali, si usava la carta assorbente. […] Nelle Scuole Elementari maschi e femmine portavano il grembiule lungo fino al ginocchio, che copriva completamente gli abiti. Bambini e ragazzi usavano infatti i calzoni corti, anche nei mesi più freddi dell’inverno. La preparazione degli scolari veniva valutata fin dalla prima elementare non con giudizi, ma con una serie di voti che andavano dallo zero al dieci. Il sei voleva dire appena sufficiente. Al di sotto del sei c’era una vasta gamma di ignominia. Ma anche agli alunni più bravi poteva capitare la disavventura di prendere un tre o un quattro. Se l’insegnante giudicava che un compito o un’interrogazione fossero proprio una frana, non si limitava a dare zero. Dava “zero spaccato”. Così come i risultati migliori meritavano “dieci e lode”. Ogni Scuola Elementare pubblica aveva il suo Patronato Scolastico, una specie di organizzazione di beneficienza statale che riforniva gratuitamente i bambini più poveri di scarpe, libri, quaderni, matite, ricostituenti, e che organizzava per loro la Refezione, cioè un pasto gratuito consumato nei locali della scuola. Per i ragazzi più grandi non c’era ancora la Scuola Media unica. Finite le Elementari, gli scolari più poveri di solito smettevano di studiare, perché la licenza di quinta elementare era il titolo di studio minimo richiesto dalla legge. Poiché in teoria non era consentito lavorare prima dei 14 anni, qualche ragazzino povero si iscriveva alle Scuole di Avviamento, che appunto avviavano ad alcuni mestieri umili e mal pagati che potevano essere iniziati subito dopo i quattordici anni. I bambini che da grandi sarebbero andati al Liceo e poi all’Università, finite le Elementari si iscrivevano alla Scuola Media30. 30 Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., pp. 10-11. 21 Rossella Caso Senza retorica e senza idealizzazioni o assunzioni ideologiche, Bianca Pitzorno ricostruisce il clima e l’atmosfera di quegli anni, che emergono – con tutto il conformismo, le censure, i sospetti, il classismo – attraverso le dinamiche dei rapporti delle protagoniste, bambine alle prese con un mondo adulto che le sottovaluta e non le ascolta31 e che le vorrebbe, come ben sottolinea l’espressione con la quale la vecchia maestra Sole definiva la classe di Prisca e delle sue amiche, tutte bambine «perbene, educate e seguite dalle famiglie»32. Bambine che non creano problemi. Prisca, Elisa e Rosalba si trovano ben presto a confrontarsi con questa realtà, che per loro ha il volto e la voce di Argia Sforza, la nuova maestra. Come tutti i personaggi di Bianca Pitzorno, anche Argia è “logotipica” (da notare che “argia” è il nome di un ragno velenoso molto diffuso in Sardegna): era di media statura, grassoccia e più anziana di quanto le ragazze si aspettassero il primo giorno di scuola. Soprattutto, era “grigia”: i capelli erano color grigio ferro, gli occhiali cerchiati di metallo, i suoi stessi vestiti erano grigi. Agli occhi di Prisca anche la sua faccia era grigia, salvo per quella macchia di rossetto color ciclamino che aveva sulle labbra. A colpire la bambina furono soprattutto le mani: «bianche e molli, come se dentro non ci fossero ossa. La sua carezza era viscida come quella di un serpente»33. Argia Sforza, subito ribattezzata dalle ragazze Arpia Sferza, è la personificazione di una scuola classista e basata sulla selezione, come emerge chiaramente dalle sue considerazioni riguardo il tema sulla professione del padre assegnato il primo giorno di scuola: Non che si aspettasse delle sorprese. Sapeva tutto delle famiglie delle sue alunne perché si era informata nelle settimane precedenti. Sapeva che fra i papà c’erano il Prefetto, un giudice, un notaio, due avvocati, due grossi proprietari terrieri, un dentista, un chirurgo, un giornalista, due ricchi commercianti, e questi due erano quelli che davano il “tono” alla classe […]. C’erano anche, e la signora Sforza non riusciva Cfr. I. Filograsso, Bambini in trappola. Pedagogia nera e letteratura per l’infanzia, Franco Angeli, Milano 2012. 32 Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., p. 33. 33 ivi, p. 38. 31 22 Scrivere per l’infanzia a capire come mai il Direttore avesse fatto questa sgradevole mescolanza, un falegname, un ortolano, un meccanico, un bidello e una sartina a ore. Quest’ultima era la madre di Luisella, che era orfana di padre, anche se la maestra si era ben guardata dal baciarla sulla fronte. Comunque anche le figlie di questi genitori così insignificanti erano bambine educate e in ordine, studiose e intelligenti. Quanto a Elisa Maffei, era un caso speciale, perché i suoi nonni materni erano nobili, ricchi e influenti, mentre la famiglia paterna con la quale viveva era più modesta. Però i tre zii erano rispettivamente architetto, cardiologo e ingegnere. “Proprio una bella classe!” pensò la signora Sforza tornandosene a casa. Una classe quasi perfetta34. Con la sua ottusità e il suo conformismo, con le sue bacchettate e i cappelli con le orecchie d’asino, con i suoi soprusi, rivolti soprattutto contro Adelaide e Iolanda, le ragazze più povere della classe, puntualmente trascritti da Prisca, Elisa e Rosalba sul “registro delle Ingiustizie”, con le sue ispezioni mattutine per verificare la pulizia del corpo, Argia è portatrice di una pedagogia che si è definita “nera”35, ovvero di una pedagogia fatta, appunto, di sferza e di bacchettate per ribadire l’inferiorità dei deboli, e di inchini e adulazioni per ingraziarsi i potenti, finalizzata ad educare le alunne a diventare ossequiose dello status quo e dei valori dominanti, quindi al conformismo e all’omologazione, diventando tutte “uguali”. Secondo Antonio Faeti Argia è un «terrificante esempio di educatrice davvero seguace di una tradizione in cui la sferza sui deboli e l’untuoso ossequio verso i potenti sono le prospettive di fondo di un atteggiamento e di un comportamento che, nel loro infame e coerente procedere, assumono quasi l’aspetto di una velenosa missione»36. Le bambine della classe della maestra Sforza devono stare ferme nel banco e assumere solo le posizioni consentite, ovvero tenere le mani “in prima”, cioè poggiate con le palme aperte sul banco, le dita ben aperte, o “in seconda”, cioè incrociate dietro la schiena e quando camminano stare ben dritte sulla schiena, come se avessero un vocabolario Ivi, pp. 52-53. Cfr. Filograsso, Bambini in trappola. Pedagogia nera e letteratura per l’infanzia, cit. 36 A. Faeti, I diamanti in cantina, Bompiani, Milano 1995, p. 43. 34 35 23 Rossella Caso in bilico sulla testa e all’uscita, uniche in tutta la scuola, lasciare l’aula con una marcetta di saluto alla maestra: «Finisce un giorno di duro lavoro;/domani un altro comincerà./Grazie, maestra, per il tesoro/che ci donasti di scienza e bontà»37. Solo ordine e pulizia, nessuno spazio per la divergenza. Elisa non può tenere la penna tra le mani come le piace, Rosalba non può essere mancina, e per questo le lega la mano sinistra allo schienale del banco con la cintura del grembiule perché non possa usarla. Prisca non può usare la fantasia, e per averlo fatto prende un tre al compito di italiano. Nonostante ciò, però, Argia non riesce ad impedirle, - a lei come alle compagne Elisa e Rosalba -di pensare e a “negare” loro l’avventura, come è accaduto, nella storia, a molte bambine “di carta”38. «Dove le nostre due eroine affrontano il primo giorno di scuola»39 Che Prisca sia una bambina “diversa” dalle altre appare chiaro sin dalle prime pagine di Ascolta il mio cuore: è una bambina che pensa (“pensare”, “riflettere”, “preoccuparsi” sono verbi ricorrenti nelle sue descrizioni) intraprendendo per questo dei percorsi spesso non approvati dal mondo adulto. Prisca è “diversa” anche nel modo di presentarsi a scuola il primo giorno, non quello delle bambine delle famiglie “perbene”, cosa che di fatto lei stessa è: non aveva il fiocco regolamentare, rosa a pallini celesti, e in più aveva i ricci tutti spettinati, il colletto bianco di traverso, la martingala del grembiule penzoloni su un fianco, e uno sbaffo di inchiostro sul naso40. Ciò con grande disappunto della Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., p. 83. Cfr. Casella, Le voci segrete. Itinerari di iniziazione al femminile nell’opera di Bianca Pitzorno, cit.. Per un’analisi della scuola negli anni Cinquanta si veda Catarsi, I “narratori puri”. Scrittori italiani per l’infanzia e l’adolescenza tra gli anni Ottanta e Novanta, cit. 39 Il titolo del paragrafo è una citazione del titolo del quarto capitolo di Ascolta il mio cuore. Si veda Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., p. 30. 40 ibidem. 47a che di fatto lei stessa è: miglie “nticonformista, anche nel suo modo di presentarsi a scuola il primo giorno, ben divers 37 38 24 Scrivere per l’infanzia madre, che non esita a paragonarla a una “monella di strada”, e della mamma di una di una delle sue compagne, che dopo che lei le aveva definite “leccapiedi” per aver portato i fiori alla maestra, le si rivolge piccata apostrofandola: «che bambina maleducata!»41. E Prisca è proprio questo: una bambina maleducata e impertinente, nel senso più propriamente etimologico che quest’ultimo aggettivo possa avere: impertinente è ciò che “non pertiene”, ciò che diverge dalla norma, dalla regola, dalla convenzione, e lei lo diventa specialmente quando il rispetto assoluto delle regole si traduce in ingiustizia, che il più delle volte sono le bambine povere della classe, Adelaide e Iolanda, a subire: il suo cuore esplode in un BUM BUM BUM che non riesce a contenere, e che trasferisce nella scrittura, aprendo a un certo punto della narrazione una sorta di “romanzo nel romanzo” che ha per protagonista la maestra, che è proprio lei a ribattezzare Arpia Sferza. La domanda dalla quale partono i suoi racconti è molto simile a quella dalla quale partivano, come si è visto, quelli della Bianca Pitzorno bambina: «Possibile che contro un grande un bambino non la potesse mai spuntare?»42. E la sua rabbia, nella scrittura, smette di essere impotente. Le sgridate, i tulipani “puzzolenti” e le trecce mozzate di Adelaide, la lingua insaponata di Iolanda, infatti, si “rivoltano contro” la maestra, condannandola alle più terribili delle punizioni, per la gioia, anche se solo simbolica, di tutta la “bancata” dei “Maschiacci”, della quale orgogliosamente fanno parte, oltre a Prisca, le sue inseparabili amiche Elisa e Rosalba. Anche loro ragazzine “pensanti”, intelligenti e indipendenti, ciascuna a modo proprio. Elisa e Rosalba sono le classiche bambine obbedienti, gentili e beneducate, ma come Prisca non sopportano le ingiustizie, al punto di decidere di indurire il loro carattere pur di realizzare il “Piano Carneficina” contro la maestra Sforza e contro le bancate delle “Gattemorte” e delle “Leccapiedi” per difendere Adelaide e Iolanda. Senza timore, le bambine lottano contro un mondo adulto – quello borghese – che non potrebbero sentire più lontano, impugnano la situazione, e, a modo loro, provano a ribaltar41 42 ivi, p. 34. ivi, p. 154. 25 Rossella Caso la in loro favore, avvalendosi delle “armi” troppo spesso negate alle bambine: la parola e la fantasia. E sebbene la lettera che Prisca scrive al Direttore per denunciare i comportamenti della maestra contro Iolanda Rapovik e il “Piano Carneficina” che le tre bambine mettono a segno non riescano a sortire l’effetto sperato, Bianca, Prisca ed Elisa, alla fine della storia, risultano comunque vincenti, se non altro perché riescono, ciascuna a modo proprio, a fare ciò che storicamente è stato negato alle bambine: la possibilità di scegliere. Emblematico a questo proposito il passaggio di chiusura del libro. Prisca è stata costretta dalla sua mamma a partecipare a una cerimonia organizzata dalle “Leccapiedi” per consegnare alla maestra Sforza un regalo di “ringraziamento” per averle portate tutte a sostenere l’esame finale con un anno di anticipo, e per l’occasione ha dovuto scrivere anche una poesia, praticamente costretta dalla mamma di Ester: Eravamo ignoranti e ineducate/non sapevamo scrivere o contare/ quando arrivasti. Ma tu ci hai cambiate,/ci hai trasformate in perfette scolare./Ci insegnasti a percorrere il sentiero/del sapere, a distinguere la rosa/dalla spina, a distinguere tra il vero/e il falso, a ragionare su ogni cosa./Tu ci fosti modello di pazienza,/di costanza, di amore e comprensione./Senza bontà non ha valor la scienza./Questa fu la tua massima lezione./Questo è l’insegnamento che ci hai dato./Grazie, Maestra, che ci hai preparato/così bene all’esame di ammissione!43 È nel tragitto verso la casa della maestra che la bambina, rimuginando nella testa mille pensieri, prende la sua decisione: E adesso le toccava anche recitare quella ignobile commedia. Guardare la signora Sforza negli occhi e lodarla, dirle che era buona, sincera, generosa e che era stata per loro un esempio e un modello, quando invece la odiava e la disprezzava, e se c’era qualcuno al mondo a cui non avrebbe voluto somigliare mai e poi mai, quella era lei, la signora Arpia, crudele, bugiarda, prepotente, ipocrita, una vera carogna! Le tornarono in mente gli scatoloni per i poveri e il viso stupefatto di Adelaide con le trecce appena mozzate alla radice, e i 43 ivi, p. 434. 26 Scrivere per l’infanzia suoi poveri tulipani disprezzati. E la lingua insaponata di Iolanda… Con quella poesia scellerata lei, Prisca, si era messa dalla parte della maestra contro di loro, e le sembrava di vederle, che la guardavano tristi e con aria di rimprovero. Era certa che quel rimorso l’avrebbe perseguitata per tutta la vita, che le si sarebbe annidato nel cervello come un tarlo, e avrebbe scavato, scavato, senza tregua, togliendole ogni fiducia in se stessa, ogni rispetto, ogni senso di dignità. […] A un tratto, camminando a testa bassa, vide sul marciapiede una lunga riga che separava due file di mattonelle, e le sembrò all’improvviso che fosse un limite invalicabile, il confine tra il giusto e l’ingiusto, un fiume al di là del quale c’erano solo vergogna e disonore. E si rese conto, come una gallina davanti alla riga tracciata col gesso, che non poteva assolutamente oltrepassarla come se davanti a lei fosse sorto d’incanto un muro invisibile. Si fermò di colpo. – Io non vengo più – annunciò decisa. […] – Su avanti, cos’è questo capriccio? – disse la domestica severa, stringendola con la mano sulla spalla per spingerla avanti. Prisca resistette puntando i piedi. […] Prisca si mise a correre verso casa sentendosi leggera come se si fosse tolta di dosso una montagna. Era così felice che si mise a cantare improvvisando: “Finito un anno di vero terrore./Finito, chiuso, non tornerà!/Mai più vedremo quell’orrido orrore,/quella mostruosa mostruosità”44. Prisca non oltrepassa quella riga tra le mattonelle e consapevolmente volta le spalle alle compagne e alla maestra per riprendere la via di casa, libera, raggiungendo, insieme alle tante bambine, “di carta” e non, che – tra le righe dei libri o in carne ed ossa, tra i banchi di scuola o tra le pareti delle loro stanze – non sono mai riuscite a farlo, i territori nei quali non è arrivata neppure Alice: quelli dell’alterità femminile45. Bibliografia Barsotti S., Le storie usate. Calvino, Rodari, Pitzorno: riflessioni pedagogiche e letterarie tra mitologia e fiaba, Unicopli, Milano 2006. ivi, pp. 434-440. Cfr. E. Beseghi, Polissena nel labirinto di Bianca, in E. Beseghi (a cura di), Nel giardino di Gaia, Arnoldo Mondadori, Milano 1994, pp. 67-86. 44 45 27 Rossella Caso Barsotti S., Bianca Pitzorno e le sue bambine, in Catarsi E., Bacchetti F. (a cura di), “I Tusitala”. Scrittori italiani contemporanei di letteratura giovanile, Edizioni del Cerro, Pisa 2006, pp. 75-96. Beseghi E., Bianca, Lavinia e le altre, in “Liber”, 12, luglio-settembre 1991, pp. 26-28. Beseghi E., Streghetta, Lavinia, Clorofilla e le altre, in AA. VV., L’insegnante, il testo e l’allieva, Rosenberg & Sellier, Torino 1992, pp. 40-45. Beseghi E., Polissena nel labirinto di Bianca, in E. Beseghi (a cura di), Nel giardino di Gaia, Arnoldo Mondadori, Milano 1994, pp. 67-86. Casella M., Le voci segrete. Itinerari di iniziazione al femminile nell’opera di Bianca Pitzorno, Mondadori, Milano 2006. Caso R., Bianca Pitzorno. Intervista, in “Andersen”, 307, novembre 2013, pp. 10-17. Caso R., Sbirciando il mondo “oltre” la porta. Bambine piccole e coraggiose crescono, in Caso R., De Serio B. (a cura di), Viaggiare tra le storie. Letteratura per l’infanzia e promozione della lettura, Aracne, Roma 2013, pp. 177-194. Catarsi E., I “narratori puri”. Scrittori italiani per l’infanzia tra anni Ottanta e Novanta, in Catarsi E., Bacchetti F. (a cura di), “I Tusitala”. Scrittori italiani contemporanei di letteratura giovanile, Edizioni del Cerro, Pisa 2006, pp. 13-49. Cobalti A., Le disuguaglianze di opportunità formative in Italia. L’andamento nel tempo, in “Scuola e città”, 10, 1989, pp. 425-430. De Luca C., Dalla parte della specie bambina. Intervista a Bianca Pitzorno, in “C’era due volte…”, 3, 1995, pp. 43-46. De Serio B., Philosophy for children e identità di genere. Un curricolo per pensare le differenze, in De Serio B. (a cura di), Costruire storie. Letture creative a scuola, Progedit, Bari 2012, pp. 47-58. Faeti A., I diamanti in cantina, Bompiani, Milano 1995. Gianini Belotti E., Dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 1973. Seveso G., Fumette. Valentina, Eva Kant, Lara Croft e le altre, Unicopli, Milano 2000. Filograsso I., Bambini in trappola. Pedagogia nera e letteratura per l’infanzia, Franco Angeli, Milano 2012. 28 Scrivere per l’infanzia Pitzorno B., Ascolta il mio cuore (1991), Mondadori, Milano 2012. Pitzorno B., Diana, Cupìdo e il Commendatore (1994), Mondadori 2012. Pitzorno B., Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi (1995), Net, Milano 2006. Pitzorno B., Re Mida ha le orecchie d’asino (1996), Mondadori, Milano 2012. Pitzorno B., La voce segreta (1998), Mondadori, Milano 2012. Pitzorno B., Quando eravamo piccole (2002), Mondadori, Milano 2012. Ulivieri S., Educare al femminile (1995), ETS, Pisa 2010. Sitografia Pitzorno B., Cosa non sono, in http://www.biancapitzorno.it/index. php/chi-e/cosa-non-sono 29