«SI N EST ESI EON LI N E »
Periodico quadrimestrale di studi sulla letteratura e le arti
Supplemento della rivista «Sinestesie»
Numero 11
Marzo 2015
« SI N E ST E SI EON L I N E»
Periodico quadrimestrale di studi sulla letteratura e le arti
Supplemento della rivista «Sinestesie»
ISSN 2280-6849
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Sommario
Articoli
Maria Dimauro
“Del poeta in pittura”. Pagine di critica d’arte darrighiana
Marilina Di Domenico
Un punctum impertinente… tra cronaca, realtà e finzione narrativa:
Venite venite b-52
Rosalba Galvagno
Ricordo di Vincenzo Consolo*
Gabriella Guarino
Simbolismo zoologico e cromatico nella pubblicità: esempi
Rosanna Lavopa
Ermes Visconti: echi vichiani nell’interpretazione del ‘romantico’
*
Pubblicazione autorizzata. Per gentile concessione del Dott. Elio Miccichè,
Direttore editoriale di «Incontri - La Sicilia e l’altrove» – Rivista trimestrale di
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Antonello Perli
Sbarbaro frammentista della Grande Guerra
Mario Soscia
Il vino compagno di piacere nella letteratura e nell’arte
Dario Stazzone
«Mi vive spesso nella memoria / la stagione della giovinezza»:
Emilio Greco scultore, incisore e poeta
Sezioni
L’isola che c’è. Orizzonti letterari per bambini e ragazzi
a cura di Leonardo Acone
Rossella Caso
Scrivere per l’infanzia. Itinerari di formazione al femminile nei romanzi di Bianca Pitzorno
Lucia Schettino
La fiaba tra racconto e narrazione di senso
Mediterraneità europea: Arti, Letterature, Civiltà del Mediterraneo.
Per rifondare l’identità del cittadino europeo del XXI secolo
a cura di Angelo Fàvaro
Mark Epstein
La Grecia e una democrazia mediterranea
Giovanni La Rosa
Le costellazioni nei neri letti dell’orizzonte
Carla Valesini
Isole in mezzo al mare. ‘Giro del sole’ di Massimo Bontempelli
R ecensioni
Enzo Gianmaria Napolillo
Le tartarughe tornano sempre, Feltrinelli, Milano 2015
(Vincenzo Napolillo)
Meris Nicoletto
Donne nel cinema di regime fra tradizione e modernità, Edizioni
Falsopiano, Alessandria 2014
(Bianca Maria Da Rif)
Ferdinando Pappalardo
Clericus vagans, Saggi sulla letteratura italiana del Novecento, Aracne,
Ariccia 2014
(Sara Calì)
Daniele Maria Pegorari
Il fazzoletto di Desdemona. La letteratura della recessione da Umberto
Eco ai TQ, ebook, Bompiani, Milano 2014
(Carlangelo Mauro)
Rossella Caso
Scrivere per l’infanzia
Itinerari di formazione al femminile nei romanzi
di Bianca Pitzorno
Scrivere per l’infanzia: quale letteratura per le bambine?
La storia del legame tra la letteratura per l’infanzia e il femminile
è una storia di esclusione. Le bambine e le donne, nelle pagine dei
racconti e dei romanzi «sono sempre state il segno di una differenza
elusa»1, confinate in ruoli marginali, quasi invisibili nella narrazione
di avventura, poiché il lettore, quasi sempre un uomo – gli indici di
analfabetismo femminile erano ancora molto alti sino alla prima metà
del Novecento e oltre – doveva osservarle in quella stessa, rassicurante
collocazione nella quale le osservava nella vita reale: confinate negli
interni, angeli del focolare che si prendono cura della casa e della famiglia. Ed era a quei ruoli che esse andavano educate. Del resto, come
potevano le donne, nella loro fragilitas, pensare di poter ricoprire un
ruolo diverso nella società? Creature totalmente irrazionali e dominate
dai sentimenti, contrapposte agli uomini, che erano invece “animali
razionali” per eccellenza, forti, autorevoli e autoritari, le donne risultavano nella mentalità comune totalmente inadatte a qualunque tipo
di lavoro e persino di occupazione intellettuale. Il lavoro, la scienza,
la scrittura, l’arte, erano e dovevano restare dei campi di pertinenza
maschile: l’ideologia patriarcale ha condizionato in questa direzione il
destino delle giovani donne, condannandole sin da bambine a scrivere
1
E. Beseghi, Streghetta, Lavinia, Clorofilla e le altre, in AA. VV., L’insegnante, il
testo e l’allieva, Rosenberg & Sellier, Torino 1992, pp. 40-45, p. 43.
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Rossella Caso
il proprio futuro nel segno di una subalternità rispetto agli uomini,
fatta di economia domestica e di lavori “donneschi”, di un “buon
matrimonio”, di una bella casa e di figli e nipoti da accudire.
Un sistema educativo che, come mette in evidenza Elena Gianini
Belotti, determinava gli itinerari esistenziali tanto dei bambini quanto
delle bambine, costringendoli entrambi a costruire il proprio destino
su modelli e ruoli stereotipati: «il maschio è stato costretto in una forma che non solo gli consente, ma lo obbliga a manifestarsi e realizzarsi
il più possibile, sia pure nella sola direzione della competizione, del
successo, della sopraffazione, la femmina è stata obbligata a prendere
la direzione opposta, cioè quella della non realizzazione di sè»2. La
metafora del “silenzio”, insieme a quella della “invisibilità”, è in questa
ottica quella che meglio racconta la storia dell’educazione femminile
nella cultura occidentale. Le vicende delle bambine, delle ragazze e
delle donne raramente sono entrate nei libri di storia, eppure, come
scrive Gabriella Seveso, «possiamo immaginare, nei secoli passati,
bambine e ragazze intente a ricamare, a pulire, a cucinare, dedite
a imitare le “buone maniere”, al fine di divenire modeste, virtuose,
silenziose. In un universo in cui la retorica e la persuasione sono reputate la massima espressione umana, la parola, sia orale, sia scritta,
è interdetta alle bambine e alle donne»3. La parola, infatti, è “sovversiva” e in quanto tale poteva deviare i percorsi tracciati per loro dal
mondo adulto patriarcale: per questo doveva essere insegnata soltanto
ai bambini, unici destinatari della pratica del leggere, scrivere e fare
di conto. Per educare le bambine e le ragazze, per lo meno fino alla
seconda metà dell’Ottocento, invece, erano sufficienti preghiera, cucito e pianoforte4. Fino a quando, sul finire del XIX secolo, presso le
famiglie aristocratiche e borghesi, incominciò a diffondersi un altro
modo di intendere il ruolo femminile nella famiglia e nella società: le
bambine e le ragazze dovevano essere educate, anzi “ben-educate” e
E. Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 1973, p. 178.
G. Seveso, Fumette. Valentina, Eva Kant, Lara Croft e le altre, Unicopli, Milano
2000, p. 24.
4
S. Barsotti, Le storie usate. Calvino, Rodari, Pitzorno: riflessioni pedagogiche e
letterarie tra mitologia e fiaba, Unicopli, Milano 2006, p. 142.
2
3
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Scrivere per l’infanzia
quindi i loro “saperi” non potevano certamente limitarsi più a quelli
eminentemente pratici della vita domestica. Si trattò di emancipazione? Certamente no, se era loro richiesto semplicemente di saper
camminare, sorridere, comunicare, intrattenere gli ospiti, preparare
un menù, organizzare una festa e sapere quanto basta di cultura e di
politica per accompagnare il marito nella sua carriera e per crescere i
figli a quello stesso credo5. Si diffuse così quella che Simonetta Ulivieri
chiama “pedagogia del sapere come ornamento”6; come “ornamento”
rispetto a un maschile del quale la donna poteva e doveva essere una
piacevole compagnia, senza mai tuttavia poter anche solo velatamente
mostrare una capacità intellettuale più profonda. Di epoca in epoca,
così, la storia dell’educare al femminile è stata contrassegnata dalla
“separatezza” e dalla marginalità: quando è uscita dal chiuso delle
mura domestiche e delle istitutrici è entrata nelle aule di scuole appositamente istituite per bambine e per ragazze, quelle “perbene”, perché le
contadine e le popolane erano indirizzate a ben altri percorsi, dovendo
contribuire sin dalla più tenera età al sostentamento della famiglia.
Sempre però quelli tradizionalmente destinati alle donne. Soltanto nel
periodo tra le due guerre la situazione cambiò, poiché la prolungata
assenza degli uomini, impegnati al fronte, rese necessario impiegare
le donne anche in settori tradizionalmente di appannaggio maschile,
ma troppo importanti per l’economia nazionale per essere trascurati.
Sebbene il tasso di analfabetismo femminile fosse ancora molto alto,
un numero sempre maggiore di bambine iniziò a impadronirsi della
lettura e quindi della parola. Fu allora che crebbe il controllo da parte
del mondo adulto, ancora fortemente patriarcale, rispetto ai libri e alle
letture che arrivavano nelle mani delle bambine e delle ragazze. Le
bambine raccontate sulle pagine dei romanzi dovevano essere bambine
“perbene”, obbedienti, dedite a giocare con le bambole o a crescere
piccole donne per diventare mogli e madri. Niente avventure per loro.
Dalla Cosette di Victor Hugo alle tante piccole eroine di romanzi e
racconti, le pagine destinate all’infanzia incominciarono a popolarsi di
5
6
S. Ulivieri, Educare al femminile, ETS, Pisa 2010, p. 40.
ivi, p. 38.
11
Rossella Caso
orfane e sfortunate, costrette a subire i più crudeli disegni del destino,
per dimostrare ogni volta «la loro infinita capacità di sopportazione
e di perdono, incredibile ingenuità e candore, illimitata generosità ai
limiti dell’umana intelligenza»7.
Fu tra Otto e Novecento che giunse, a ribaltare l’immagine stereotipata della bambina “di carta”, la carrolliana Alice, piccola viaggiatrice
che guidata dalla curiositas troppo a lungo preclusa al femminile, arrivò
fino al Paese delle Meraviglie, aprendo la strada alle Jo March, Pippi
Calzelunghe e alle Bibi che finalmente offriranno alle piccole lettrici
dei modelli alternativi di femminile, autonomi e indipendenti, nei
quali poter vedere rispecchiate le proprie storie di bambine e ragazze.
Non più, dunque, un’infanzia inautentica, proiezione delle tendenze
didascaliche e moralistiche del mondo adulto, e quindi della sua idea
di bambino e di bambina “perbene”, ma un’infanzia alle prese con il
proprio percorso di crescita, che affronta in maniera lucida, disincantata, talvolta ironica e trasgressiva, ma sempre vincente nel proprio
desiderio di rivalsa8. Di questa schiera fanno parte sicuramente anche
le bambine di Bianca Pitzorno. Bambine capaci anche loro, come Jo,
Pippi e Bibi, di intraprendere, ciascuna nella propria “differenza”,
itinerari di formazione liberi dal controllo della mondo adulto, rivendicando un proprio ruolo in un mondo dominato dai grandi, maschi
e conformisti.
Una bambina “molto arrabbiata”
Se si chiedesse a Bianca Pitzorno quale sia per lei la condizione
essenziale dello scrivere per l’infanzia risponderebbe, come fa in Storia
delle mie storie, non aver dimenticato che cosa significhi essere una
bambina e, soprattutto, la bambina che è stata: «se dovessi definirmi in
Seveso, op. cit. , p. 77.
Cfr. R. Caso, Sbirciando il mondo “oltre” la porta. Bambine piccole e coraggiose
crescono, in R. Caso, B. De Serio (a cura di), Viaggiare tra le storie. Letteratura per
l’infanzia e promozione della lettura, Aracne, Roma 2013, pp. 177-194.
7
8
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Scrivere per l’infanzia
quanto scrittrice, - scrive – potrei dire che sono una bambina che non
ha rinnegato la sua patria d’origine e che, fornita di maggiori competenze tecniche rispetto ai suoi fratelli più giovani, usa le sue accresciute
capacità di espressione e di padronanza della lingua scritta per cantare
l’epos del popolo cui ancora appartiene, quello dell’infanzia, prima
che venga distrutto dalla civiltà dei colonizzatori adulti. Una bambina
molto arrabbiata che usa la penna come arma d’offesa e di difesa»9.
Il rapporto con la scrittura è iniziato per lei, come ha raccontato
in un’intervista raccolta da chi scrive, quando era molto piccola. La
sua era una famiglia borghese e istruita, un ambiente in cui si parlava
e si leggeva molto, soprattutto tra le donne. La madre amava Virginia
Woolf e la nonna, pur essendo una donna semplice, una casalinga che
aveva avuto sei figli ed era stata tutta la vita moglie e madre, probabilmente perché aveva sposato un professore di latino e greco, aveva finito
con l’innamorarsi della lettura e a leggere e rileggere l’opera omnia di
Grazia Deledda e la Saga dei Forsyte di Galsworthy. «Io, dunque, ho
semplicemente seguito la strada che era stata tracciata dalle donne della
mia famiglia, e senza farmi troppe domande. Crescendo ho imparato
a fare le “cose dei grandi”, come allacciarmi le scarpe o mangiare da
sola, e quindi anche a leggere e poi, piano piano, a scrivere. E a scrivere semplicemente per raccontare delle storie, delle esperienze. Un
significato che vada al di là di questo, però, al mio scrivere proprio
non saprei darlo. Raccontare storie – e non necessariamente in forma
scritta – fa parte di me. […] Quando poi ho iniziato a scrivere le prime
storie, quelle sì che erano finalizzate! La scrittura era l’unica arma di
vendetta che avessi contro la mia maestra!»10.
La “storia delle storie” di Bianca Pitzorno, infatti, è iniziata proprio
tra i banchi di scuola quando lei, bambina, ha sperimentato per la
prima volta l’ipocrisia e la prepotenza del mondo adulto nei confronti
dei piccoli: frequentava la seconda elementare e tale violenza aveva il
volto della maestra e della sua “guerra” alle bambine povere capitatele
9
B. Pitzorno, Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi
(1995), Net, Milano 2006, p. 42.
10
R. Caso, Bianca Pitzorno. Intervista, in “Andersen”, 307, 2013, pp. 10-17, p. 11.
13
Rossella Caso
per sbaglio come alunne. Quasi tutte finivano con il cambiare classe o
addirittura con l’abbandonare la scuola. Tra i banchi la piccola osservava con l’occhio acuto tipico dell’infanzia le ingiustizie e le crudeltà
di un sistema educativo incapace di assolvere ai propri compiti senza
fare ricorso alla sferza e alla ferula, mezzi di una pedagogia “nera”
che lasciava ben poco spazio ai bambini e alle bambine “veri”, per
educare invece dei piccoli adulti finalizzati a perpetrare il sistema
sociale dominante. «Questo comportamento ingiusto e crudele da
parte di un’adulta che, cattolicissima, a parole predicava la fratellanza,
la carità, la giustizia, fu la prima causa, se non della mia decisione
di scrivere che esisteva pur confusamente già in precedenza, della
mia scelta consapevole di scrivere “contro” gli adulti, contro la loro
ipocrisia e prepotenza. Di raccontare la vita dei bambini governata
da quell’inevitabile rapporto di forza tutto a loro svantaggio. Di raccontare la loro rabbia impotente e tutti gli espedienti messi in atto per
resistere»11. L’ispirazione arrivò, come narra ancora in Storia delle mie
storie, con le vicende di Graziella, bambina povera «colpevole di avere
le scarpe rotte, di abitare in un seminterrato, nel vicolo di un quartiere
poverissimo, di usare un italiano inframmezzato da frasi dialettali, e
soprattutto di essere assistita dal Patronato scolastico»12. Una di quelle
bambine che, non rientrando nell’ideale delle bambine “perbene”, con
quegli abiti in disordine, «il moccio secco alle narici», i capelli «biondi
e lunghi, ma unti e imbrogliati», non poteva che rappresentare per
la maestra una fonte costante di ignominia. Era Graziella l’oggetto
delle continue malversazioni della maestra, che «l’aveva isolata in un
banco dell’ultima fila, ne restava ostentatamente lontana, e per picchiarla mantenendo le distanze usava la lunga bacchetta con la quale
si indicavano i paesi nordici sulla carta geografica. La chiamava con
dileggio, invece che col nome e cognome, “Olezzo di rose” o “Profumo
11
Pitzorno, Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi
(1995), cit., p. 49.
12
ivi, pp. 88-90.
14
Scrivere per l’infanzia
di viole” e non perdeva l’occasione di mandarla in castigo dietro la
lavagna o addirittura fuori dall’aula»13.
«Possibile che solo perché eravamo bambine dovessimo subire
tutto in silenzio?»14: dalla risposta a questa domanda nacquero i primi racconti, che Bianca scriveva sulle agende che suo padre riceveva
in dono dalle case farmaceutiche e che le regalava per i suoi “scarabocchi”, che avevano per protagonista sempre la maestra. In quelle
storie, che in poco tempo conquistarono un grandissimo successo tra
le sue compagne di classe, però, la cattiveria della donna non aveva
mai la meglio, anzi, veniva impietosamente punita. Quella bambina
“molto arrabbiata” che usava la scrittura come arma di vendetta contro la maestra non avrebbe mai più smesso di scrivere, di raccontare
la realtà, a volte così com’è, a volte trasfigurandola e capovolgendola
attraverso la fantasia. Vita e scrittura risultano così nelle sue opere
intimamente legate, che si tratti dei suoi ricordi, o delle storie delle
piccole amiche come Valentina e Aglaia, che le hanno ispirato, a partire
dalla loro vita quotidiana, alcuni dei suoi più grandi romanzi, quali
L’incredibile storia di Lavinia e La casa sull’albero. Non autobiografia,
dunque – neppure la Prisca di Ascolta il mio cuore è un personaggio
“propriamente” autobiografico, anche se è stato interpretato come
tale da numerosi critici e studiosi15 – se non intesa nel senso di una
scrittura che si nutre del rapporto con la propria esperienza di vita, da
quella di bambina di scuola a quella di adolescente e poi di giovane
donna che iniziava a scrivere per professione negli anni Settanta, gli
anni della contestazione. Gli anni delle lotte operaie e del femminismo, della liberazione sessuale e delle rivendicazioni in favore dei
gay e degli oppressi. Gli anni di romanzi come Clorofilla dal cielo blu,
L’Amazzone di Alessandro Magno, Extraterrestre alla pari e La bambina
Ibidem.
ivi, p. 93.
15
Cfr., per esempio, E. Catarsi, I “narratori puri”. Scrittori italiani per l’infanzia
tra anni Ottanta e Novanta, in E. Catarsi, F. Bacchetti (a cura di), “I Tusitala”.
Scrittori italiani contemporanei di letteratura giovanile, Edizioni del Cerro, Pisa 2006,
pp. 13-49. Sulla questione del rapporto tra biografia e scrittura si veda Caso, Bianca
Pitzorno, intervista, cit.
13
14
15
Rossella Caso
col falcone. Storie non certo ambientate nella realtà contemporanea,
ma «inevitabilmente, quando scrivevo, tutto il sobbollimento del mio
quotidiano si rifletteva anche nelle mie storie e nei miei personaggi»16,
ha raccontato. Pian piano, la scrittura divenne la sua professione, e
in essa ormai si rifletteva non più la bambina, né l’adolescente, né la
scrittrice alle prime armi, ma un’adulta indipendente e sicura di sé,
una professionista che viveva della sua scrittura e che, però, era ancora
in grado di ascoltare la “voce bambina”: L’incredibile storia di Lavinia
nacque dal rapporto con una bambina figlia di amici, e nel contempo
con la se stessa bambina: «L’unica bambina che ancora frequento e
che conosco bene è la me stessa di tanti anni fa»17, scrive sulle pagine
del suo sito. È di quella bambina, delle sue storie e di quelle che le
hanno raccontato, delle sue amiche, dei libri che ha amato, ma anche
di quelli che ha odiato18, che si nutrono le sue bambine “di carta”, da
Lavinia, a Prisca, ad Aglaia, a Polissena. Illuminante in proposito la
premessa a Diana, Cupìdo e il Commendatore:
L’autrice vorrebbe anche precisare che Prisca Puntoni, in questo libro come in Ascolta il mio cuore, NON è il suo ritratto da piccola. A
Prisca, lei somigliava soltanto per la precoce vocazione alla scrittura.
Però, sebbene non fosse orfana, aveva come Elisa molti zii scapoli e
una nonna che l’adorava; sapeva disegnare come Rosalba; come Diana
era timida, portava gli occhiali e andava moltissimo al cinema… (Ma
Ivi, p. 11.
B. Pitzorno, Cosa non sono, in http://www.biancapitzorno.it/index.php/chi-e/
cosa-non-sono [consultato il 25 marzo 2015]. Si veda anche S. Barsotti, Bianca
Pitzorno e le sue bambine, in Catarsi, Bacchetti (a cura di), “I Tusitala”. Scrittori
italiani contemporanei di letteratura giovanile, cit., pp. 75-96.
18
Come la scrittrice stessa ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Carmine
De Luca, «quando incominciai a scrivere, verso gli otto anni, lo feci per ristabilire
la verità. Per rappresentare i bambini com’erano veramente, cioè molto migliori, e
soprattutto più seri, di come venivano raccontati. E per descrivere tutte le malefatte
di quei grandi che volevano spacciarsi per eroi senza macchia e senza paura». Si
veda C. De Luca, Dalla parte della specie bambina. Intervista a Bianca Pitzorno, in
“C’era due volte…”, 3, 1995, pp. 43-46. Per ulteriori approfondimenti, si confronti S.
Barsotti, Le storie usate. Calvino, Rodari, Pitzorno: riflessioni pedagogiche e letterarie
tra mitologia e fiaba, cit., p. 154.
16
17
16
Scrivere per l’infanzia
aveva un padre vivo e vegeto, e anche molto simpatico). E allo stesso
modo, costruendo i personaggi di Elisa, Rosalba e Diana, non si è
ispirata a tre ragazzine particolari, ma ha fatto un collage delle caratteristiche più interessanti di moltissime sue amiche. Poiché i libri e la
vita reale, come scoprirà Diana alla fine della sua avventura, spesso
si assomigliano, ma non sono mai la stessa cosa19.
E se qualcuno le chiedesse per quale motivo scelga come protagonisti dei suoi romanzi sempre e soltanto personaggi femminili, senza
dubbio risponderebbe, come ha fatto già in molte interviste, ciò che
ha scritto in Storia delle mie storie:
Le bambine le conosco bene, dall’interno. So tutto di loro. […] I
bambini mi piacciono, e io piaccio a loro. Ma le bambine mi piacciono
infinitamente di più. E loro sentono questa affinità e mi raccontano
cose che un bambino non confesserebbe mai. Ogni piccola protagonista di un mio libro vive dei ricordi della mia infanzia mescolati
alle confidenze che ricevo ogni giorno dalle mie giovani amiche. Non
potrei mai fare la stessa cosa con un personaggio maschile. Non ci
provo nemmeno20.
Momenti di vita vissuta e fictio letteraria si intrecciano costantemente e la fantasia stabilisce nuove relazioni tra le cose della vita
“vera”. Tutte le storie nascono da uno spunto reale: la quotidianità e
le relazioni tra le persone, in famiglia e in società: «Memoria di me
19
B. Pitzorno, Premessa, in Ead., Diana, Cupìdo e il Commendatore (1994), Mondadori
2012, p. 12. In riferimento alla “somiglianza” di Bianca bambina con Prisca, si veda
Ascolta il mio cuore, dove si può ragionevolmente cogliere un legame “autobiografico”
tra la bambina reale e quella “di carta”, pur nella maniera tutta personale in cui,
come si legge nel presente lavoro, Bianca Pitzorno lo costruisce. Anche Prisca inizia
a scrivere le sue storie su delle grosse agende delle case farmaceutiche, che però non
le regala suo padre, come invece era accaduto alla scrittrice da bambina, ma lo zio di
Elisa, Leopoldo, medico cardiologo, del quale lei proprio in quel momento si innamora.
Cfr. B. Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), Mondadori, Milano 2012, pp. 58-62.
20
Pitzorno, Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi
(1995), cit., pp. 161-162.
17
Rossella Caso
bambina e osservazione dei bambini di oggi. Nessuna invenzione.
Ogni riga è un preciso riferimento alla realtà»21.
Le sue “orecchie bambine” ascoltano l’infanzia – quella al femminile, in particolare – e la raccontano, offrendole una possibilità di riscatto
e di risarcimento e un mondo ove, sulla spinta delle domande che è lo
scrittore a suscitare, possa finalmente pensare, parlare e scrivere22. È
in questo senso che va intesa la celeberrima e fin troppo abusata frase
con la quale Bianca Pitzorno ha sintetizzato in Storia delle mie storie il
senso dello scrivere per l’infanzia: la condizione essenziale è conoscere
i bambini e le bambine e, possibilmente, stare “dalla loro parte”. Scrivere e suscitare domande, domande che li stimolino a pensare da soli
e da soli a elaborare le proprie risposte, può essere un buon modo per
farli crescere, e dunque per assolvere al proprio compito di scrittore
o di scrittrice. Prisca, Diana, Lavinia, Emilia e tutte le bambine nate
dalla sua penna non sono semplicemente, come comunemente si scrive,
delle piccole intraprendenti, spigliate e anticonvenzionali, ma bambine
“diverse”, nel senso che ognuna è differente dall’altra, e ognuna può
offrire alle piccole lettrici un proprio orizzonte nel quale identificarsi
e rispecchiarsi. Diana è un po’ “imbranata”, Lalage è sempre persa
nei suoi pensieri, «talvolta sgomenta di quel che succede»23 (p. 12),
Prisca è un po’ “arrabbiata”, ma capace anche di sognare e di usare
quel pizzico di magia che riesce a creare scrivendo della sua maestra
per ribaltare, almeno sul piano simbolico, una realtà a volte troppo
difficile da accettare e da razionalizzare; per conferirle un senso, ma,
soprattutto, appunto, per trovare da sé le proprie risposte, quelle che la
aiuteranno a crescere e che aiuteranno a crescere con lei i piccoli lettori.
De Luca, Dalla parte della specie bambina. Intervista a Bianca Pitzorno, cit.,
pp. 43-46, p. 46. si veda inoltre S. Barsotti, B. Pitzorno: una scrittrice “dalla parte
delle bambine”, in Barsotti, Le storie usate. Calvino, Rodari, Pitzorno: riflessioni
pedagogiche e letterarie tra mitologia e fiaba, cit., pp. 139-199, p. 158.
22
Cfr. M. Casella, Le voci segrete. Itinerari di iniziazione al femminile nell’opera
di Bianca Pitzorno, Mondadori, Milano 2006. Si veda anche E. Beseghi, Bianca,
Lavinia e le altre, in “Liber”, 12, luglio-settembre 1991, pp. 26-28.
23
Caso, Bianca Pitzorno. Intervista, in “Andersen”, 307, 2013, pp. 10-17, p. 12.
21
18
Scrivere per l’infanzia
Prisca, Elisa & Co.: crescere bambine nella scuola degli anni Cinquanta
La piccola Graziella della quale la scrittrice racconta rievocando le
sue memorie di infanzia in Storia delle mie storie, è, come Prisca, un
personaggio che “transita” tra realtà e fantasia:
Un giorno di maggio Graziella venne a scuola con un mazzo di tulipani
involti in un foglio di giornale, e li posò trionfante sulla cattedra. Era
un’abitudine diffusa quella di portare i fiori alla maestra, e la poverina
aveva cercato di uniformarsi. La scena che ne seguì mi rimase così
impressa nella mente che quarant’anni dopo riuscii a descriverla tale
e quale nel mio romanzo Ascolta il mio cuore, pubblicato in Italia da
Mondadori, dove Graziella viene rappresentata col nome di Adelaide.
(D’altronde neppure Graziella è il suo vero nome. Non so più niente
di lei e mi auguro che sia felice. Ma non mi piacerebbe che qualcuno
potesse riconoscerla)24.
Proprio Ascolta il mio cuore inaugura un ciclo di romanzi che la
stessa Pitzorno definisce come quelli delle “memorie d’infanzia”, o
della “saga di Lossai”, dal nome di una immaginaria cittadina della
Sardegna ove sono tutti ambientati25: «Questo è un libro che unisce
realtà e fantasia. Nel senso che tutte le cose che vi sono raccontate –
scrive nella sua introduzione – sono avvenute per davvero. Ma non
tutte nello stesso anno, nella stessa classe e con le stesse persone. Sono
stata io a ricucirle insieme, per combinare una storia che rispondesse
sotto forma di romanzo alla domanda che mi fanno spessissimo i
24
Pitzorno, Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi
(1995), cit., p. 90. La scena alla quale fa riferimento la scrittrice è descritta in Pitzorno,
Ascolta il mio cuore (1991), cit., pp. 329-336.
25
Del ciclo fanno parte, oltre ad Ascolta il mio cuore (sul quale ci si soffermerà in
maniera particolare nel presente contributo), anche Diana, Cupìdo e il Commendatore,
Re Mida ha le orecchie d’asino, La voce segreta e Quando eravamo piccole. In questo
lavoro ci si soffermerà in particolare sul primo, al quale gli altri quattro sono legati da
un sottile gioco di rimandi. Sulla genesi di questo ciclo di romanzi si veda Pitzorno,
Storia delle mie storie. Miti, forme, idee della letteratura per ragazzi (1995), cit., pp.
127-129.
19
Rossella Caso
miei giovani lettori: “Come andavano le cose a scuola quando eri
piccola?”»26.
La trama di Ascolta il mio cuore si dipana durante un anno scolastico, nel secondo dopoguerra, in una quarta elementare interamente
femminile, secondo la legislazione scolastica di quell’epoca, la IV D.
E sempre in quegli anni sono ambientati anche gli altri romanzi che
compongono il ciclo. L’Italia degli anni Cinquanta dell’infanzia dell’autrice, che stava uscendo a fatica dalla guerra e in cui molto forti erano
le disparità sociali: «I poveri mancavano di tutto, e anche le famiglie
cosiddette “benestanti” non avevano tutte le comodità e gli oggetti
utili e inutili che oggi riempiono le nostre case. In compenso, proprio
perché i poveri erano così disperatamente poveri, le famiglie benestanti avevano molte domestiche, cameriere e bambinaie»27. Era l’Italia
della televisione in bianco e nero, che trasmetteva un unico canale,
e solo per poche ore al giorno, e della radio a corrente elettrica, una
“scatola” pesante e ingombrante, che trasmetteva l’opera o il teatro, ma
anche le prime “canzonette”. Per telefonare spesso si andava ai telefoni
pubblici, perché non tutti avevano un apparecchio in casa, e le lettere
erano un vero e proprio mezzo di comunicazione28. In quell’Italia il
tasso di analfabetismo femminile toccava ancora punte del 15,2%,
sebbene la presenza delle bambine nelle scuole stesse gradualmente
aumentando, specie della borghesia, della classe media e della piccola
borghesia urbana29. Scuole in cui le classi erano rigorosamente suddivise per genere e, al loro interno, da barriere soltanto apparentemente
“invisibili”: quelle sociali.
Così le racconta, ancora, la scrittrice:
Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., p. 9.
ivi, pp. 9-10.
28
Cfr. B. Pitzorno, Premessa, in Ead. Re Mida ha le orecchie d’asino (1996),
Mondadori, Milano 2012, pp. 9-11.
29
Cfr. Ulivieri, op. cit. Su questa questione si veda anche A. Cobalti, Le
disuguaglianze di opportunità formative in Italia. L’andamento nel tempo, in “Scuola
e città”, 10, 1989, pp. 425-430.
26
27
20
Scrivere per l’infanzia
I banchi erano sempre doppi, e il compagno di banco era una figura
molto importante. Inoltre i banchi, che erano di legno massiccio,
avevano una ribalta che si poteva alzare e abbassare e che, oltre a
contenere libri e cartella, serviva anche a nascondere molti segreti e
a far baccano quando veniva lasciata ricadere con forza. Non esistevano ancora né le penne biro, né i pennarelli, e le penne stilografiche
erano riservate agli adulti piuttosto ricchi. Il resto della gente scriveva
intingendo il pennino nel calamaio pieno di inchiostro. I pennini si
infilavano in cima alla penna e si potevano cambiare. Avevano molte
forme: a goccia, a campanile, a forma di mano con l’indice puntato.
C’era chi si era affezionato a una certa forma e chi invece preferiva
averne di tutte le qualità. Spesso l’inchiostro gocciolava sul quaderno,
macchiandolo. Per asciugarlo, anche in situazioni normali, si usava
la carta assorbente. […] Nelle Scuole Elementari maschi e femmine
portavano il grembiule lungo fino al ginocchio, che copriva completamente gli abiti. Bambini e ragazzi usavano infatti i calzoni corti,
anche nei mesi più freddi dell’inverno. La preparazione degli scolari
veniva valutata fin dalla prima elementare non con giudizi, ma con
una serie di voti che andavano dallo zero al dieci. Il sei voleva dire
appena sufficiente. Al di sotto del sei c’era una vasta gamma di ignominia. Ma anche agli alunni più bravi poteva capitare la disavventura
di prendere un tre o un quattro. Se l’insegnante giudicava che un
compito o un’interrogazione fossero proprio una frana, non si limitava a dare zero. Dava “zero spaccato”. Così come i risultati migliori
meritavano “dieci e lode”. Ogni Scuola Elementare pubblica aveva il
suo Patronato Scolastico, una specie di organizzazione di beneficienza
statale che riforniva gratuitamente i bambini più poveri di scarpe,
libri, quaderni, matite, ricostituenti, e che organizzava per loro la
Refezione, cioè un pasto gratuito consumato nei locali della scuola.
Per i ragazzi più grandi non c’era ancora la Scuola Media unica. Finite
le Elementari, gli scolari più poveri di solito smettevano di studiare,
perché la licenza di quinta elementare era il titolo di studio minimo
richiesto dalla legge. Poiché in teoria non era consentito lavorare
prima dei 14 anni, qualche ragazzino povero si iscriveva alle Scuole
di Avviamento, che appunto avviavano ad alcuni mestieri umili e mal
pagati che potevano essere iniziati subito dopo i quattordici anni. I
bambini che da grandi sarebbero andati al Liceo e poi all’Università,
finite le Elementari si iscrivevano alla Scuola Media30.
30
Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., pp. 10-11.
21
Rossella Caso
Senza retorica e senza idealizzazioni o assunzioni ideologiche,
Bianca Pitzorno ricostruisce il clima e l’atmosfera di quegli anni,
che emergono – con tutto il conformismo, le censure, i sospetti, il
classismo – attraverso le dinamiche dei rapporti delle protagoniste,
bambine alle prese con un mondo adulto che le sottovaluta e non le
ascolta31 e che le vorrebbe, come ben sottolinea l’espressione con la
quale la vecchia maestra Sole definiva la classe di Prisca e delle sue
amiche, tutte bambine «perbene, educate e seguite dalle famiglie»32.
Bambine che non creano problemi. Prisca, Elisa e Rosalba si trovano
ben presto a confrontarsi con questa realtà, che per loro ha il volto e
la voce di Argia Sforza, la nuova maestra. Come tutti i personaggi di
Bianca Pitzorno, anche Argia è “logotipica” (da notare che “argia” è il
nome di un ragno velenoso molto diffuso in Sardegna): era di media
statura, grassoccia e più anziana di quanto le ragazze si aspettassero
il primo giorno di scuola. Soprattutto, era “grigia”: i capelli erano
color grigio ferro, gli occhiali cerchiati di metallo, i suoi stessi vestiti
erano grigi. Agli occhi di Prisca anche la sua faccia era grigia, salvo
per quella macchia di rossetto color ciclamino che aveva sulle labbra.
A colpire la bambina furono soprattutto le mani: «bianche e molli,
come se dentro non ci fossero ossa. La sua carezza era viscida come
quella di un serpente»33. Argia Sforza, subito ribattezzata dalle ragazze
Arpia Sferza, è la personificazione di una scuola classista e basata sulla
selezione, come emerge chiaramente dalle sue considerazioni riguardo
il tema sulla professione del padre assegnato il primo giorno di scuola:
Non che si aspettasse delle sorprese. Sapeva tutto delle famiglie delle
sue alunne perché si era informata nelle settimane precedenti. Sapeva
che fra i papà c’erano il Prefetto, un giudice, un notaio, due avvocati,
due grossi proprietari terrieri, un dentista, un chirurgo, un giornalista, due ricchi commercianti, e questi due erano quelli che davano il
“tono” alla classe […]. C’erano anche, e la signora Sforza non riusciva
Cfr. I. Filograsso, Bambini in trappola. Pedagogia nera e letteratura per l’infanzia,
Franco Angeli, Milano 2012.
32
Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., p. 33.
33
ivi, p. 38.
31
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Scrivere per l’infanzia
a capire come mai il Direttore avesse fatto questa sgradevole mescolanza, un falegname, un ortolano, un meccanico, un bidello e una
sartina a ore. Quest’ultima era la madre di Luisella, che era orfana
di padre, anche se la maestra si era ben guardata dal baciarla sulla
fronte. Comunque anche le figlie di questi genitori così insignificanti
erano bambine educate e in ordine, studiose e intelligenti. Quanto a
Elisa Maffei, era un caso speciale, perché i suoi nonni materni erano
nobili, ricchi e influenti, mentre la famiglia paterna con la quale viveva era più modesta. Però i tre zii erano rispettivamente architetto,
cardiologo e ingegnere. “Proprio una bella classe!” pensò la signora
Sforza tornandosene a casa. Una classe quasi perfetta34.
Con la sua ottusità e il suo conformismo, con le sue bacchettate
e i cappelli con le orecchie d’asino, con i suoi soprusi, rivolti soprattutto contro Adelaide e Iolanda, le ragazze più povere della classe,
puntualmente trascritti da Prisca, Elisa e Rosalba sul “registro delle
Ingiustizie”, con le sue ispezioni mattutine per verificare la pulizia del
corpo, Argia è portatrice di una pedagogia che si è definita “nera”35,
ovvero di una pedagogia fatta, appunto, di sferza e di bacchettate per
ribadire l’inferiorità dei deboli, e di inchini e adulazioni per ingraziarsi
i potenti, finalizzata ad educare le alunne a diventare ossequiose dello
status quo e dei valori dominanti, quindi al conformismo e all’omologazione, diventando tutte “uguali”. Secondo Antonio Faeti Argia è un
«terrificante esempio di educatrice davvero seguace di una tradizione
in cui la sferza sui deboli e l’untuoso ossequio verso i potenti sono
le prospettive di fondo di un atteggiamento e di un comportamento
che, nel loro infame e coerente procedere, assumono quasi l’aspetto
di una velenosa missione»36.
Le bambine della classe della maestra Sforza devono stare ferme nel
banco e assumere solo le posizioni consentite, ovvero tenere le mani
“in prima”, cioè poggiate con le palme aperte sul banco, le dita ben
aperte, o “in seconda”, cioè incrociate dietro la schiena e quando camminano stare ben dritte sulla schiena, come se avessero un vocabolario
Ivi, pp. 52-53.
Cfr. Filograsso, Bambini in trappola. Pedagogia nera e letteratura per l’infanzia, cit.
36
A. Faeti, I diamanti in cantina, Bompiani, Milano 1995, p. 43.
34
35
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Rossella Caso
in bilico sulla testa e all’uscita, uniche in tutta la scuola, lasciare l’aula
con una marcetta di saluto alla maestra: «Finisce un giorno di duro
lavoro;/domani un altro comincerà./Grazie, maestra, per il tesoro/che
ci donasti di scienza e bontà»37. Solo ordine e pulizia, nessuno spazio
per la divergenza. Elisa non può tenere la penna tra le mani come le
piace, Rosalba non può essere mancina, e per questo le lega la mano
sinistra allo schienale del banco con la cintura del grembiule perché
non possa usarla. Prisca non può usare la fantasia, e per averlo fatto
prende un tre al compito di italiano. Nonostante ciò, però, Argia non
riesce ad impedirle, - a lei come alle compagne Elisa e Rosalba -di
pensare e a “negare” loro l’avventura, come è accaduto, nella storia, a
molte bambine “di carta”38.
«Dove le nostre due eroine affrontano il primo giorno di scuola»39
Che Prisca sia una bambina “diversa” dalle altre appare chiaro sin
dalle prime pagine di Ascolta il mio cuore: è una bambina che pensa
(“pensare”, “riflettere”, “preoccuparsi” sono verbi ricorrenti nelle sue
descrizioni) intraprendendo per questo dei percorsi spesso non approvati dal mondo adulto. Prisca è “diversa” anche nel modo di presentarsi
a scuola il primo giorno, non quello delle bambine delle famiglie “perbene”, cosa che di fatto lei stessa è: non aveva il fiocco regolamentare,
rosa a pallini celesti, e in più aveva i ricci tutti spettinati, il colletto
bianco di traverso, la martingala del grembiule penzoloni su un fianco,
e uno sbaffo di inchiostro sul naso40. Ciò con grande disappunto della
Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., p. 83.
Cfr. Casella, Le voci segrete. Itinerari di iniziazione al femminile nell’opera di
Bianca Pitzorno, cit.. Per un’analisi della scuola negli anni Cinquanta si veda Catarsi,
I “narratori puri”. Scrittori italiani per l’infanzia e l’adolescenza tra gli anni Ottanta
e Novanta, cit.
39
Il titolo del paragrafo è una citazione del titolo del quarto capitolo di Ascolta
il mio cuore. Si veda Pitzorno, Ascolta il mio cuore (1991), cit., p. 30.
40
ibidem. 47a che di fatto lei stessa è: miglie “nticonformista, anche nel suo modo
di presentarsi a scuola il primo giorno, ben divers
37
38
24
Scrivere per l’infanzia
madre, che non esita a paragonarla a una “monella di strada”, e della
mamma di una di una delle sue compagne, che dopo che lei le aveva
definite “leccapiedi” per aver portato i fiori alla maestra, le si rivolge
piccata apostrofandola: «che bambina maleducata!»41.
E Prisca è proprio questo: una bambina maleducata e impertinente,
nel senso più propriamente etimologico che quest’ultimo aggettivo
possa avere: impertinente è ciò che “non pertiene”, ciò che diverge
dalla norma, dalla regola, dalla convenzione, e lei lo diventa specialmente quando il rispetto assoluto delle regole si traduce in ingiustizia,
che il più delle volte sono le bambine povere della classe, Adelaide e
Iolanda, a subire: il suo cuore esplode in un BUM BUM BUM che non
riesce a contenere, e che trasferisce nella scrittura, aprendo a un certo
punto della narrazione una sorta di “romanzo nel romanzo” che ha per
protagonista la maestra, che è proprio lei a ribattezzare Arpia Sferza.
La domanda dalla quale partono i suoi racconti è molto simile a quella
dalla quale partivano, come si è visto, quelli della Bianca Pitzorno
bambina: «Possibile che contro un grande un bambino non la potesse mai spuntare?»42. E la sua rabbia, nella scrittura, smette di essere
impotente. Le sgridate, i tulipani “puzzolenti” e le trecce mozzate di
Adelaide, la lingua insaponata di Iolanda, infatti, si “rivoltano contro”
la maestra, condannandola alle più terribili delle punizioni, per la gioia,
anche se solo simbolica, di tutta la “bancata” dei “Maschiacci”, della
quale orgogliosamente fanno parte, oltre a Prisca, le sue inseparabili
amiche Elisa e Rosalba. Anche loro ragazzine “pensanti”, intelligenti
e indipendenti, ciascuna a modo proprio. Elisa e Rosalba sono le
classiche bambine obbedienti, gentili e beneducate, ma come Prisca
non sopportano le ingiustizie, al punto di decidere di indurire il loro
carattere pur di realizzare il “Piano Carneficina” contro la maestra
Sforza e contro le bancate delle “Gattemorte” e delle “Leccapiedi” per
difendere Adelaide e Iolanda. Senza timore, le bambine lottano contro
un mondo adulto – quello borghese – che non potrebbero sentire più
lontano, impugnano la situazione, e, a modo loro, provano a ribaltar41
42
ivi, p. 34.
ivi, p. 154.
25
Rossella Caso
la in loro favore, avvalendosi delle “armi” troppo spesso negate alle
bambine: la parola e la fantasia. E sebbene la lettera che Prisca scrive
al Direttore per denunciare i comportamenti della maestra contro
Iolanda Rapovik e il “Piano Carneficina” che le tre bambine mettono a segno non riescano a sortire l’effetto sperato, Bianca, Prisca ed
Elisa, alla fine della storia, risultano comunque vincenti, se non altro
perché riescono, ciascuna a modo proprio, a fare ciò che storicamente
è stato negato alle bambine: la possibilità di scegliere. Emblematico
a questo proposito il passaggio di chiusura del libro. Prisca è stata
costretta dalla sua mamma a partecipare a una cerimonia organizzata
dalle “Leccapiedi” per consegnare alla maestra Sforza un regalo di
“ringraziamento” per averle portate tutte a sostenere l’esame finale
con un anno di anticipo, e per l’occasione ha dovuto scrivere anche
una poesia, praticamente costretta dalla mamma di Ester:
Eravamo ignoranti e ineducate/non sapevamo scrivere o contare/
quando arrivasti. Ma tu ci hai cambiate,/ci hai trasformate in perfette
scolare./Ci insegnasti a percorrere il sentiero/del sapere, a distinguere
la rosa/dalla spina, a distinguere tra il vero/e il falso, a ragionare su
ogni cosa./Tu ci fosti modello di pazienza,/di costanza, di amore e
comprensione./Senza bontà non ha valor la scienza./Questa fu la tua
massima lezione./Questo è l’insegnamento che ci hai dato./Grazie,
Maestra, che ci hai preparato/così bene all’esame di ammissione!43
È nel tragitto verso la casa della maestra che la bambina, rimuginando nella testa mille pensieri, prende la sua decisione:
E adesso le toccava anche recitare quella ignobile commedia. Guardare
la signora Sforza negli occhi e lodarla, dirle che era buona, sincera,
generosa e che era stata per loro un esempio e un modello, quando invece la odiava e la disprezzava, e se c’era qualcuno al mondo
a cui non avrebbe voluto somigliare mai e poi mai, quella era lei,
la signora Arpia, crudele, bugiarda, prepotente, ipocrita, una vera
carogna! Le tornarono in mente gli scatoloni per i poveri e il viso
stupefatto di Adelaide con le trecce appena mozzate alla radice, e i
43
ivi, p. 434.
26
Scrivere per l’infanzia
suoi poveri tulipani disprezzati. E la lingua insaponata di Iolanda…
Con quella poesia scellerata lei, Prisca, si era messa dalla parte della
maestra contro di loro, e le sembrava di vederle, che la guardavano
tristi e con aria di rimprovero. Era certa che quel rimorso l’avrebbe
perseguitata per tutta la vita, che le si sarebbe annidato nel cervello
come un tarlo, e avrebbe scavato, scavato, senza tregua, togliendole
ogni fiducia in se stessa, ogni rispetto, ogni senso di dignità. […] A
un tratto, camminando a testa bassa, vide sul marciapiede una lunga
riga che separava due file di mattonelle, e le sembrò all’improvviso
che fosse un limite invalicabile, il confine tra il giusto e l’ingiusto, un
fiume al di là del quale c’erano solo vergogna e disonore. E si rese
conto, come una gallina davanti alla riga tracciata col gesso, che non
poteva assolutamente oltrepassarla come se davanti a lei fosse sorto
d’incanto un muro invisibile. Si fermò di colpo. – Io non vengo più
– annunciò decisa. […] – Su avanti, cos’è questo capriccio? – disse la
domestica severa, stringendola con la mano sulla spalla per spingerla
avanti. Prisca resistette puntando i piedi. […] Prisca si mise a correre
verso casa sentendosi leggera come se si fosse tolta di dosso una montagna. Era così felice che si mise a cantare improvvisando: “Finito un
anno di vero terrore./Finito, chiuso, non tornerà!/Mai più vedremo
quell’orrido orrore,/quella mostruosa mostruosità”44.
Prisca non oltrepassa quella riga tra le mattonelle e consapevolmente volta le spalle alle compagne e alla maestra per riprendere la via di
casa, libera, raggiungendo, insieme alle tante bambine, “di carta” e
non, che – tra le righe dei libri o in carne ed ossa, tra i banchi di scuola
o tra le pareti delle loro stanze – non sono mai riuscite a farlo, i territori
nei quali non è arrivata neppure Alice: quelli dell’alterità femminile45.
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Pitzorno B., Re Mida ha le orecchie d’asino (1996), Mondadori, Milano
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php/chi-e/cosa-non-sono
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