[email protected] 3-11-2010 9:52 Pagina 1 Osservatorio Internazionale Barack Obama due anni dopo di Alessandro Colombo Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” di Marco Pinfari Documentazione ISSN 1125-9663 ISBN 978-88-238-6118-3 9 788823 861183 L’Europa e il suo posto nel mondo Who Rules Europe? di Pierre Hassner Le relazioni speciali dei paesi europei di Marco Clementi Towards a Post-American Europe? di Ulrike Guérot Diplomatia: Dal sogno europeo all’Europa per necessità di Rocco Cangelosi Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo di Lorenzo Fioramonti La Polonia tra Europa e Russia di Stefan Bielański ISPI n. 13 2010 Quaderni di Relazioni Internazionali Dossier - L’Europa e il suo posto nel mondo ISPI Quaderni di Relazioni Internazionali Semestrale dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale n. 13 – Novembre 2010 L’Europa e il suo posto nel mondo [email protected] 1 3-11-2010 9:48 Pagina 1 Editoriale di Boris Biancheri 3 dossier L’Europa e il suo posto nel mondo 4 Who Rules Europe? Pierre Hassner 17 Le relazioni speciali dei paesi europei Marco Clementi 30 Towards a Post-American Europe? Ulrike Guérot 42 Diplomatia: Dal sogno europeo all’Europa per necessità Rocco Cangelosi 22 Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo Lorenzo Fioramonti 57 La Polonia tra Europa e Russia Stefan Bielanski 68 osservatorio internazionale 69 Barack Obama due anni dopo Alessandro Colombo 82 Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” Marco Pinfari 94 documentazione a cura di Matteo Villa ISPI ISTITUTO PER GLI STUDI DI POLITICA INTERNAZIONALE Quaderni di Relazioni Internazionali Palazzo Clerici - Via Clerici 5 20121 Milano www.ispionline.it Comitato di direzione Alessandro Colombo, Paolo Magri Comitato scientifico Franco Buni (Direttore), Yury A. Bulatov (School of International Relations, MGIMO, Mosca), John Chipman (International Institute for Strategic Studies, Londra), Jakkie Cilliers (Institute for Security Studies, Pretoria), Josè Botafogo Gonçalves (Centro Brasileiro de Relações Internacionais, Rio de Janeiro), Daniel Gros (Center for European Policy Studies, Brussels), Hans Martens (European Policy Center, Bruxelles), Jessica T. Mathews (Carnegie Endowment for International Peace, Washington D.C.), Thierry de Montbrial (Institut Français des Relations Internationales, Parigi), Volker Perthes (Deutsches Institut für Internationale Politik und Sicherheit, Berlino), Strobe Talbott (The Brookings Institution, Washington D.C.), Seyfi Tashan (Foreign Policy Institute, Ankara), Jiemian Yang (Shanghai Institute for International Studies, Shanghai) L'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, fondato nel 1934, svolge attività di ricerca, formazione e promozione di eventi nel campo delle relazioni internazionali. La sua azione è caratterizzata da un approccio interdisciplinare assicurato dalla stretta collaborazione di specialisti in studi politici, economici, giuridici, storici e strategici. Via Salasco, 5 - 20136 MILANO Tel. 02/5836.5751 - Fax 02/5836.5753 www.egeaonline.it e-mail: [email protected] Progetto grafico: M Studio, Milano Impaginazione: erregi, Milano Stampa: Mediascan, via Mecenate 76/32, Milano Comitato editoriale Boris Biancheri (Presidente ISPI), Franco Bruni (Vicepresidente ISPI), Alessandro Colombo, Mario Deaglio, Massimo De Leonardis, Maurizio Ferrera, Paolo Magri (Direttore ISPI), Alberto Martinelli, Vittorio Emanuele Parsi, Marco Pedrazzi, Sergio Romano, Carlo Secchi (Vicepresidente ISPI) Guest Editor Marco Clementi Valeria Talbot (Coordinamento editoriale) [email protected] Quaderni di Relazioni Internazionali è pubblicato con il sostegno della Compagnia di San Paolo di Torino e della Fondazione Cariplo di Milano. Copyright © 2010 ISPI Periodico semestrale registrato al Tribunale di Milano al n. 150 del 01/03/2006 Direttore Responsabile: Alessandro Colombo Sede redazione: Via Clerici, 5 - 20121 Milano Quaderni di Relazioni Internazionali ospita articoli e analisi di varia scuola e provenienza. Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell'ISPI. La rivista è stata chiusa in tipografia il 29 Ottobre 2010. La riproduzione degli articoli o di parte di essi è vietata senza autorizzazione scritta. ispi_VOLAIT@0001-0002#.qxd 3-11-2010 9:11 Pagina 1 Editoriale di Boris Biancheri Oggi sia nel dibattito politico sia nell’ambito della riflessione scientifica quando si parla di Europa in genere ci si riferisce all’Unione europea (Ue) tanto che i due termini vengono sempre più spesso utilizzati come sinonimi. Inevitabilmente le due realtà, sebbene non coincidano, tendono a sovrapporsi sia perché la maggioranza dei paesi europei sono membri dell‘Ue, mentre i rimanenti gravitano intorno a essa attraverso negoziati di adesione o speciali accordi politico-economici, sia perché il territorio dell’Ue si è progressivamente esteso su quasi tutto il continente europeo. La nostra intenzione è quella di fare un numero dei Quaderni di Relazioni Internazionali dedicato all’Europa come contesto geopolitico continentale nel suo complesso, ma la maggior parte dei contributi, inevitabilmente, non può che affrontare anche il tema dell’Ue. Questa attenzione alla dimensione comunitaria dell’Europa mostra quanto sia ormai scontato pensare all’Ue come al soggetto politico e istituzionale che rappresenta, fino a identificarsi con, il continente europeo. In altri termini, malgrado le attuali difficoltà nel processo di integrazione, quando si pensa all’Europa – nella sua dimensione geopolitica – il riferimento non è ai singoli paesi ma all’Ue nel suo complesso. Benché le scelte nazionali dei principali paesi europei e il loro peso economico rimangano le fonti essenziali e determinanti delle politiche europee, nel suo insieme l’Europa non è più riducibile alla somma dei suoi paesi. Da qui la difficoltà, se non l’impossibilità, di pensare all’Europa al di fuori dell’impalcatura istituzionale dell’Ue. Attualmente non solo il processo di integrazione europea è in difficoltà, ma anche l’intero continente europeo sta attraversando una fase particolarmente delicata sia sul piano economico sia su quello politico. Se è senz’altro azzardato dire che il progetto europeo sia finito, non si possono nascondere le divergenze di vedute e interessi dei suoi stati membri nonché la mancanza di leadership e di una chiara visione sul futuro. Proprio l’assenza di leadership è una delle questioni più critiche. Se siamo ben lontani da un “governo” di Bruxelles, come paventato in passato dagli antieuropeisti, non si intravede neanche una leadership forte e ampiamente riconosciuta. Francia e Germania, i due paesi che Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 1 ispi_VOLAIT@0001-0002#.qxd 3-11-2010 9:11 Pagina 2 editoriale tradizionalmente hanno svolto un tale ruolo, in tandem o in competizione, per ragioni diverse non sono più in grado di agire da propulsore del processo di integrazione o più in generale da guida del continente europeo. L’Europa sembra oggi guidata da un insieme di stati poco coordinati fra loro, da opinioni pubbliche divergenti o frammentate e da istituzioni deboli. In questo contesto l’Europa stenta a trovare quella assertività di cui avrebbe bisogno per poter agire come attore globale sulla scena internazionale e, più degli Stati Uniti, sembra risentire della crescita a livello globale di paesi emergenti, quali Cina, India e Brasile. Ciò si avverte particolarmente in campo economico dove sono emersi i limiti del ruolo dell’Ue come “potenza civile globale” e sono più evidenti le divergenze con i paesi emergenti soprattutto in materia di commercio internazionale e negoziati sul clima. Inoltre, i profondi cambiamenti degli ultimi due decenni e le nuove sfide emerse nel sistema internazionale hanno inevitabilmente avuto delle ricadute sulle relazioni transatlantiche, le quali sono entrate in una fase di profonda – ma allo stesso tempo incerta – ridefinizione. Nel mondo globalizzato post-bipolare è diventato infatti difficile per la partnership transatlantica trovare un collante tanto solido quanto quello rappresentato dalla minaccia sovietica negli anni della guerra fredda. Su diversi dossier internazionali – dalle relazioni con la Russia all’intervento in Afghanistan – Europa e Stati Uniti si trovano su posizioni divergenti e ciò si riflette sulla (in)capacità di definire una comune agenda globale. Resta da vedere come l’Europa saprà superare questa fase di difficoltà tanto al suo interno quanto nelle relazioni transatlantiche e trovare il suo posto nel mondo. Seguendo le direttrici degli scambi commerciali intra ed extra europei in cui la Germania occupa un posto centrale, un’ipotesi plausibile sembra quella che vede in futuro l’Europa proiettata prevalentemente verso est sullo spazio continentale, connotandola di conseguenza più come un attore regionale che globale. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 2 ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd 4-11-2010 9:18 Pagina 3 dossier L’Europa e il suo posto nel mondo ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd dossier 4-11-2010 9:18 Pagina 4 L’Europa e il suo posto nel mondo Pierre Hassner Who Rules Europe? PIERRE HASSNER is Emeritus Research Director of Centre d’Etudes de Recherches Internationales (CERI), Paris Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 4 “Who rules Europe?” or “Who rules in Europe”? These two ways of asking the question which is the subject of this article show the infinite ambiguities and complexities contained in these few words. The question “who rules?” by itself is already one of the most disputed themes of political thought and practice. Innumerable intermediary arrangements exist and compete between the rule of law and the rule of one man by divine or traditional right, or simply by force, and between “government of the people by the people, for the people” and the rule of one class or one élite. The question is even more complicated when one considers a semi-federal institution like the European Union, which combines nation-states, inter-governmental institutions and supra-national ones, whose members are partly appointed by governments and partly elected. But Europe is not limited to the European Union. The regimes and policies of the EU neighbours, and the geopolitical situation of the continent itself, the constraints, threats and opportunities linked to its regional and global environment are also, inevitably, part of the subject. There was a time when, supposedly, “Britannia ruled the waves” and Europe ruled part of the world. During the Cold War, a divided Europe was, to different degrees and in different manners, ruled by the two superpowers. Today, many wonder if it is ruled by the uncontrolled fluctuations of financial markets, or whether it is not becoming essentially inner-directed, leaving the rest of the world to the competition between the United States and China and protecting itself against the winds of economic, demographic and cultural change. Among these various directions, I shall concentrate on the attempt, after World War II, to build a new peaceful, democratic and united Europe, and on the limits of its effort to eliminate not only the return of the wars and tyrannies which dominated the first half of the century, but also the age-old struggle for hegemony over the continent. The goal of the European enterprise was, on the one hand, peace, and on the other reconstruction and prosperity. The precondition at the state level was that governments should be democratic and possess a market economy, and that they should be more and more interdependent and cooperative. The desired consequence for world affairs was a contribution to decreasing international tensions. Among the founding fathers, the trio of Christian-democratic statesmen – (Adenauer, Schuman and De Gasperi) all originating from the borders of Central Europe – pursued the goal of a federation, along with Benelux, which to ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd 4-11-2010 9:18 Pagina 5 Who Rules Europe? some extent would reproduce the Austro-Hungarian empire without the dynastic aspect. It implied an equality among member-states, big or small. Jean Monnet’s idea was both geographically broader (to integrate the whole of Europe) and politically more radical, in that it was deliberately counting on institutions and economic forces to overcome or at least to tie down the tyrannical or warlike ambitions of governments. His motto was: «We do not associate states, we unite men». This was to be done by a combination of functionalism (more and more functions becoming shared, not necessarily through harmonious, linear progress, but through a succession of crises, each of which could be solved only by a higher degree of unity – the famous “spill-over effect”) and of federalism: the states were not abolished, but their freedom of action was to be limited from above, by supra-national institutions, and from below, by decentralization and by inter-societal and inter-regional ties. By the same token, their unequal wealth or demographic size could no longer be an instrument of domination or an occasion for aggression. A third component, which was not totally absent from the first two, was de Gaulle’s goal of freeing Europe from the domination of the two superpowers and restoring it to its earlier independence and role in the world. But this, for de Gaulle, was to be achieved through an association of independent states, in which France would play a central role and would enjoy a greater freedom of action than others, in particular Germany. The philosophy of this third approach was clearly opposed to that of the first two. Unexpectedly, however, after his return to power in 1958, de Gaulle accepted the European institutions he had fought while in opposition: the Coal and Steel Community, the Common Market and Euratom. As Raymond Aron pointed out, this paradoxical result reminds one of the Hegelian «cunning of history»: if de Gaulle would not have signed the treaties, the weak French Fifth Republic could not have applied them1. In the early 60s, an important debate opposed two eminent political scientists, each of whom represented, in the United States, one of the two latter points of view. In his The Uniting of Europe2, Ernst Haas developed Monnet’s point of view. He predicted that, from spill-over to spill-over, European states would advance from «splitting the difference» among their respective interests to «upgrading the common interest». Stanley Hoffmann instead objected in a famous article3 that Haas might be right for «low politics» (in particular «economics»), but his thesis would not apply to «high politics» involving sovereignty and rank. He criticized Haas’s «saint-simonism» and his neglect of politics. Haas responded that nowadays politics was indeed reduced to a dialogue between technology, bureaucracy and pressure groups which was precisely in conformity with the Brussels scene. R. ARON, Mémoires, Paris 1983, p. 276. E. HAAS, The Uniting of Europe, Stanford 1958. 3 S. HOFFMANN, Obstinate or Obsolete? The Fate of the Nation-State in Post-war Western Europe, in «Daedalus», 95, 1966, reproduced in The European Sisyphus, Essays on Europe, 1964-1994, Boulder 1995, pp. 71-106. 1 2 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 5 ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd dossier 4-11-2010 9:18 Pagina 6 L’Europa e il suo posto nel mondo Obviously, Hoffman’s scepticism was right against Haas’s determinism. But, as he would admit himself, today not only economics cannot be relegated to the ambiguous domain of low politics, but it also has much to do with distinct and conflicting interests, and with questions of rank and identity. The dialectics between politics and economics is at the centre of the question: who rules Europe? Indeed the respective ambitions of Today not only economics cannot be relegated Germany and France, and their reto the ambiguous domain of low politics, but it also spective conceptions of Europe, have has much to do with distinct and conflicting interests, much to do with a dialogue between and with questions of rank and identity economics and politics. We shall briefly sketch the general situation as it appears today, and then focus more specifically on these two countries which, over the years, have claimed or exerted a decisive influence on the government of Europe. Does anyone rule Europe? In Our Europe, a recent book edited by former French prime minister, Michel Rocard, and by Nicole Gnesotto, Professor on Europe at the Conservatoire National des Arts et Métiers, two chapters address two different aspects of this question. The first chapter, by veteran European specialist Jean Quatremer, asks: «Are we governed by Brussels?»4. The second chapter, by former French minister for European Affairs Alain Lamassoure, asks «Can Europe function without a leader?»5. Both give a negative answer. The first indicates that «the federalist jump has not taken place». The authoritarian and invasive super-government of Brussels, denounced by the antiEuropeanists particularly at the time of the 2005 referendum has never existed. Although some important sectors (e.g., the negotiations on international trade, the monetary union) are under EU competence and many laws are promoted by the European Commission (mostly at the initiative of the various governments, usually not against their opposition and often regarding marginal areas), and a very modest European budget (essentially limited to the Common Agricultural Policy and to the structural assistance funds to several regions) cannot amount to a proper government in the absence of budgetary, fiscal, social or military authority. Of course, progress has been made towards majority rule, the possibility of special “reinforced cooperations” between several particular states (limited, so far, to the Schengen agreements on travel and, last but not least, the Euro) has been put in place. Furthermore, the European Court of Justice – with the prior- J. QUATREMER, Est-ce Bruxelles qui gouverne?, in M. ROCARD - N. GNESOTTO (eds.), Notre Europe, Paris 2009, pp. 66-80. 5 A. LAMASSOURE, L’Europe peut-elle fonctionner sans leader?, in M. ROCARD - N. GNESOTTO (eds.), Notre Europe, cit., pp. 224-235. 4 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 6 ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd 4-11-2010 9:18 Pagina 7 Who Rules Europe? ity of European laws over national ones –, the European Court of Human Rights and the recent growth in the powers and authority of the European Parliament can all be seen as important building blocks towards a European Federation. But the absence or the failure, for the time being, of most attempts at common policies (on energy, on immigration, on fiscal and social coordination), the modest (although non-negligible) progress of Europe’s defence policy and the limitations of its nascent diplomatic policies are not encouraging for the prospects of a real federation. The very reference to a “federation” had disappeared from the vocabulary of governments and even of the European bureaucracy until Jean-Claude Trichet, the President of the European Central Bank, recently dared to speak of «budgetary federalism» as a desirable prospect in view of the current monetary crisis. Should one, then, agree with Michael Stürmer about «economic overstretch combined with political under-governance» placing «the whole European Union in jeopardy?»6. Two reasons for hope can be invoked against this pessimism. First, the effect of the crisis itself. As Samuel Johnson said, «When a man knows he is to be hanged in a fortnight, it concentrates his mind wonderfully». To some extent this argument seems justified, and in the short run it seems to be confirmed by the union’s response to the crisis, in spite of Angela Merkel’s initial procrastination of the aid to Greece or of Slovak resistance. But that does not mean that the necessary jump to “budgetary federalism” will be made, given the diversity of economic problems and levels among member states, and the centrifugal tendencies produced by the crisis in their respective public opinions, at least as important as the solidarity drive. The second hope lies in the institutional progress represented by the ratification of the Lisbon Treaty in its new form. But even ahead of that, the most important institutional development is that the central and most original innovation of the Rome Treaty, the European Commission (which was supposed to constitute if not the future federal executive, at least a central organ for initiating proposals and promoting the common interest), has been constantly downgraded by the governments in favour of the inter-governmental European Council. In addition, the long awaited appointments of a more stable President of the Council (alongside the six-month rotating Presidency of the member states) and of a High Representative, both responsible towards each of the two rival organisms, the Commission and the Council, seem more likely to create complication and confusion than unity and authority, since, at any given time, three Presidents (one for the Commission and two for the Council) will be competing. This brings us to the question raised by the second article of the Rocard and 6 M. STÜRMER, Diversity wins out, in «The American Interest», July-August 2010. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 7 ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd dossier 4-11-2010 9:18 Pagina 8 L’Europa e il suo posto nel mondo Guesotto’s book: «Can Europe function without a leader?», Alain Lamassoure answers: «It had to. It was able to. It no longer can»7. He argues that a powerful presidency is the decisive step towards a Europe where governance would be a reality rather than a slogan and which would pull its weight in terms of security and political influence. Of course, he hastens to add, the President could not be the author of the music nor the player, but he would fulfil the no-less-indispensable role (as demonstrated, one may add, by Fellini in “Prova d’Orchestra”) of conductor. Lamassoure writing in 2009, «in an era where media are all-important and power is personalized in most European countries (in particular in Latin countries)», concludes that «this is why the choice of a well-known and dynamic personality will be essential»8. As anyone knows, this was not the chosen path. One may very well defend this choice, if one remembers that Jacques Delors, who was not favourable to this new institutional post, considered that a President would be useful only as a chairman of the board, or as a conciliator, rather than a chief or a symbol. But it means that, as Stürmer puts it in the title of his article (Diversity wins out), Europe continues to be ruled by its different states. The remaining problem is whether these states must rule unanimously, or by a majority, or by a de facto oligarchic rule of several greater powers. A limited but real progress has been made in the direction of majority, which is determined by a complicated system taking into account the size of the various countries. De jure and even more de facto, all European states are equal but some are more equal than others. And this leads us to the second part of our article, i.e. to a comparison between the two countries which have been considered, by themselves or by others, as entitled to a special leading role within the European Union or in its relations with the outside world. France and Germany: cooperation and rivalry In principle one of the main aims of the post-war European institutions was to make the traditional bids for European hegemony impossible and to guarantee the smaller and middle states a genuine influence and, if need be, a veto power on the way to a European federation. Neither Adenauer, Schuman and De Gasperi nor Jean Monnet or Altiero Spinelli thought of any national primacy. But the very history of power But the very history of power competition and of distrust competition and of distrust which the which the new Europe was supposed to overcome new Europe was supposed to overinevitably played a role in the conscious or unconscious come inevitably played a role in the minds of political leaders and public opinions conscious or unconscious minds of Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 8 7 8 A. LAMASSOURE, L’Europe peut-elle fonctionner sans leader?, cit. Ibidem, p. 235. ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd 4-11-2010 9:18 Pagina 9 Who Rules Europe? political leaders and public opinions, and in their objective situations. Of the three West European powers which had competed for power in the first half of the century, Britain emerged as a victor (and for a brief period, one of the “superpowers”)9. In doing so, it abandoned its traditional policy to discourage the unity of the continent, since one of the earlier and most eloquent appeals to European unity was Churchill’s Zürich speech in 194610. But Churchill made it very clear that this appeal was addressed to continental Europe and that Britain, for its part, was thinking in terms of three circles (Europe, the Commonwealth and the English speaking peoples) and would always give priority to the latter, in particular to the “special relationship” with the United States. This stance basically remained the same ever since, in spite of Britain’s entry into the Common Market and then the European Union, and in spite of several prime ministers (most sincerely and resolutely Edward Heath) wanting Britain to be present in the heart of Europe. France, defeated and occupied in the first phase of World War II, emerged weakened and dependent but, through a number of relatively unexpected circumstances, as one of the victors, obtained a permanent seat in the Security Council and an occupation zone in Germany. It was lead by the exceptional personality of General de Gaulle, and, later, went on to become a member of the selected club of nuclear powers. Germany for its part was divided, its territory occupied by the victorious powers, and burdened by the crimes of the Nazi regime and by its past hegemonic attempts. Italy did not raise the same fears, or suspicions, nor experience the same feeling of catastrophe and guilt but, like Germany, was in search of a new identity. Both Italy and Germany found this identity in an identification with Europe, in stark contrast to their previous imperial pretensions and adventures. As usual, Germany was the centre both of the European problem and of its solution. In the oft-quoted remark of Chancellor Kiesinger in 1967, «Germany has always been too big to play no role in the balance of forces around it but too weak to hold them in balance by itself», or, in another formulation, «too strong or too weak for the peace of Europe». According to Henry Kissinger, it was «too big for Europe, too small for the world»11. French attempts at hegemony During his first tenure (1944 to 1946) de Gaulle’s answer was the traditional one of French policy: keep Germany small, either by amputation of the left bank of the Rhine and of Saarland, or by division, or both. This policy came to nought through the creation and the rearmament of the Bonn Federal Republic. So both France, through the Schuman Plan and the creation of the European Coal and W.T.R. FOX, The Superpowers: The United States, Britain and the Soviet Union-Their responsibility for peace, New York 1944. 10 W. CHURCHILL, Speech at the University of Zurich, September 19, 1946. 11 Quoted by T. GARTON-ASH, In Europe’s Name. Germany and the Divided Continent, London 1993, pp. 87-384. 9 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 9 ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd dossier 4-11-2010 9:18 Pagina 10 L’Europa e il suo posto nel mondo Steel Community, and the Western powers (headed by the United States) through the creation of NATO, chose the alternative solution: to create a balance which would be both European and transatlantic, and within which Germany would be strong and would play an essential role but not be left to its own devices. Adenauer understood that this was the only way in which Germany could regain its legitimacy and its sovereignty. But he was also distrustful of the future German generations and wanted European unity to become irreversible as soon as possible in order to tie them up. De Gaulle rallied to this logic after 1958, when he came back to power, and accepted the Six-power-Europe. But this did not mean he had given up the aim of French primacy. In September 1958, his proposal of a world “directoire” of the Atlantic Alliance, in which France would lead Europe, showed his leadership ambitions. On January 31, 1959, he declared to the French Defense Council: «France has two games to play: one with the two other Western world powers, the other with the small powers»12. And he clarified this thought to his confident Alain Peyrefitte on August 27, 1962: «What is Europe good for? It should serve not to let ourselves be dominated either by the Americans or by the Russians. All six together, we should succeed in performing as well as the two superpowers. And if France manages to be the first among the Six, which should be within our power, she will be able to manipulate this Archimedean lever. She will be able to carry the other five with her. Europe is the way for France to become again what she stopped being after Waterloo: the first in the world»13. Of course this does not mean that «Europe is the way for France to become again what de Gaulle wanted to replicate she stopped being after Waterloo: the first in the world» Napoleon’s conquests and reconstitute his empire. He is, rather, part of a French tradition which preceded and outlasted him, consisting in trying to be the arbiter and universal intermediary and representative of Europe. According to the British historian F.H. Hinsley, this was already the case for Louis XIV: «his aim was neither the conquest of the continent nor direct and limited territorial or economic gains for France but being recognized as the leader among European monarchs, and the sole arbiter of European arrangements»14. De Gaulle’s successor, Georges Pompidou, certainly had less grandiose ambitions. Nevertheless, in an official speech on the centenary of the French political science school, in 1972, he quoted a text by the royalist and nationalist leader Charles Maurras who was predicting in 1910 the emergence of a world dominated by empires but claimed that this turmoil and this competition «would precisely offer the favourable ground and the right domain where France could manoeuvre easily and frankly, just by the fact that its size and its structure would Quoted by G.-H. SOUTOU, L’alliance incertaine, Paris 1996. Ibidem, p. 131. 14 F.H. HINSLEY, Power and the Pursuit of Peace, Cambridge 1963, pp. 169-172. 12 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 10 13 ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd 4-11-2010 9:18 Pagina 11 Who Rules Europe? quite happily bring her at an equal distance between the giant empires and the multiple small nations anxious to keep their independence. The circumstances are favourable to the interposition of a state of middle dimensions, endowed with a robust and firm constitution like ours. We would be the most united state, as well as the most autonomous, in Europe. Any abuse of imperial or colonial policy would be forbidden by this favourable constitution which would open the way to the most beautiful, most actively, most fruitful of influence policies, for our king, being the absolute master of his army, his navy and his diplomacy, would enjoy the independence necessary to watch for the inevitable excesses of the vainglorious policy which the Germans, Russians, British and Americans can no longer avoid»15. After the rejection of his “directoire” proposal by all the allies, this manoeuvering led de Gaulle to a number of initiatives directed first at other West European countries, in particular the Federal Republic of Germany, then at Russia and Eastern Europe. This is the beginning of what J.W. Friend has called «cooperation and attempted French hegemony»16. During the Berlin crisis, de Gaulle and Adenauer were on the same line resisting to Soviet pressure and to the temptations of Macmillan and Eisenhower in the direction of a softer line. This was to continue under Kennedy, with de Gaulle appearing as the most stalwart ally of the Federal Republic. At the same time, Adenauer was unenthusiastic about de Gaulle’s progressive detachment from NATO and attacks against American hegemony. De Gaulle’s attempt to institutionalize a European political and military cooperation (the Fouchet Plan) was accepted by Adenauer personally but failed because all the European states, including Germany, refused what appeared as a choice for a French-led European security system as opposed to a US-led Atlantic one. De Gaulle, then, concentrated on the bilateral Franco-German Treaty. As his foreign minister Couve de Murville put it, he «decided to begin to do with two countries what so much discussion had not made it possible to do with six»17. This was the beginning of the era combining «Franco-German cooperation and attempted French hegemony». Adenauer shared the notion that Europe should be based above all on the French-German leadership: unlike most other German and European statesmen, he was not enthusiastic about British entry. He told Willy Brandt: «Look, what is Europe? First and foremost, France and us. And things are going well. If the British make a third, there is no certainty that they’ll continue to do so»18. On the other hand, he knew that the Franco-German joint hegemony was not an equal one. He resented not having been told about the “directoire” proposal. He accepted that France would not share her newly acquired nuclear deC. MAURRAS, Kiel et Tanger, Paris 1921, quoted by G. POMPIDOU, Speech at the Ecole des Sciences Politiques, 8 décembre 1972. 16 J.W. FRIEND, The Linchpin: French-German Relations 1950-1990, CSIS - The Washington Papers, 1991. 17 Quoted by J.W. FRIEND, The Linchpin, cit., p. 30. 18 W. BRANDT, People and Politics. The years 1960-1975, Boston 1978, quoted by J.W. FRIEND, The Linchpin, cit., p. 39. 15 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 11 ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd dossier 4-11-2010 9:18 Pagina 12 L’Europa e il suo posto nel mondo terrent, and would oppose German accession to the nuclear club, but he resented French prime minister Michel Debré stating that France had no other chance than dominating or being dominated and that countries without nuclear weapons would be satellites19. The German Parliament and Adenauer’s successors in government gave a lesser priority to the agreement with France and a greater one to the agreement with the United States and to Germany’s specific interests, in particular economic ones. They added to the text of the Franco-German Treaty a preamble which reaffirmed the priority of the Atlantic dimension. De Gaulle, profoundly disappointed, declared that the treaty had had just a brief morning of life, and turned his imagination and his energy in another direction, that of the Soviet Union and Eastern Europe. De Gaulle’s “vast project”, then, The German Parliament and Adenauer’s successors was «Europe from the Atlantic to the in government gave a lesser priority to the agreement Urals». He became more and more with France and a greater one to the agreement hostile to European integration in the with the United States and to Germany’s specific interests classical proto-federalist sense (hence the policy of the “empty stool” in Brussels over agricultural policy), and grew increasingly detached from NATO, more and more hostile to Britain’s entry into the Common Market and an increasingly vocal critic of American policies. But Germany and Europe were still at the centre of his preoccupations. The central idea of his plan seems to have been to encourage, through French emancipation from NATO, a parallel emancipation of Eastern Europe from the Soviet Union, who would relinquish direct control over its satellites and turn its attention to the Chinese threat, while remaining, along with France, one of the two pillars of the European Security. France, while quantitatively inferior, would profit from her superior skill and freedom of action, while the United States was burdened by Vietnam, Germany by its division, Russia by its Asian problems. The other European states would gain a greater independence from the superpowers, and Germany would gain its reunification, negotiated in the framework of the Franco-Russian dialogue and accompanied by a reaffirmation of its territorial limits and of its non-nuclear status. 1968 put an end to this plan with the invasion of Czechoslovakia. De Gaulle declared that, since the leaders of the Prague spring had not sought the help of France, he did not care about their fate. His prime minister, Michel Debré, famously declared that the invasion was just a «road accident on the way to détente». He was right about détente in general, but wrong about its particular, French-led, version. De Gaulle’s plan would have been realistic only if, on one side, Europe had been strong and united and, on the other, Russia had no longer been communist. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 12 19 Quoted by J.W. FRIEND, The Linchpin, cit., p. 38. ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd 4-11-2010 9:18 Pagina 13 Who Rules Europe? More immediately, as this writer pointed out back in 1966-67, the day the Russians would want to negotiate the future of Europe, it would be with the powers from which they had something to fear and to which they had something to offer, i.e. the United States and Germany20. This is what became more and more obvious after 1968, all the more so since, in that year, Germany proved to be able to decide independently over economic matters by refusing to devaluate, and as the beginnings of Ostpolitik showed Germany’s potential as an active and flexible diplomatic actor as well. From then on the period when, in Tony Judt’s formulation, «the EEC was a Franco-German condominium, in which Bonn underwrote the community’s finances and Paris dictated its policies»21 had lost most of its validity even though both countries would still sometimes find it useful to pretend it was still alive. Germany’s ambiguous rise As we have seen, since World War II or at any rate during the Fifth Republic France has almost always tried to play above its weight. Germany, on the contrary, tended for a long time to (and in a way still does) play below its weight, by fear of frightening everybody, including its allies. Adenauer wanted Europe to save Germany from itself. He started a tradition, continued by chancellors Brandt and, even more, Schmidt and Kohl, of imposing European choices to a reluctant Bundesbank and a no less reluctant German public in matters regarding its beloved Deutschmark. The slogan indefinitely repeated, in particular by foreign minister Genscher, was Thomas Mann’s dictum «We don’t want a German Europe, but a European Germany». The purpose of reassuring Europe while actually leading it was explained by Helmut Schmidt to a domestic audience with remarkable frankness. He said Germany must «think and lead» (denken und lenken) while letting France get the glory. In a confidential paper, he argued that «the Federal Republic had de facto become in the eyes of the world the second economic power of the West. This un-wanted and dangerous rise to second power of the West in the consciousness of other governments – including especially the Soviet leadership – would arouse concerns, and could have negative effects, especially for Berlin. There could be a revival of memories not only of Auschwitz and Hitler, but also of Wilhelm II and Bismarck – perhaps as much in the West as in the East». Therefore, he went on, it was «necessary for us, so far as it is possible, to operate not nationally and independently but in the framework of the European Community and the Alliance. The attempt to cover (abdecken) our action multilaterally will only partially succeed because we will necessarily and against our own will become a leadership fac- 20 21 P. HASSNER, Une France aux mains libres, in «Preuves», février 1968. T. JUDT, Postwar. A History of Europe Since 1945, New York 2005. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 13 ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd dossier 4-11-2010 9:18 Pagina 14 L’Europa e il suo posto nel mondo tor in both systems» (italics in original). Timothy Garton-Ash, who quotes this text, comments: «One could write a small essay on the nuances of the word “abdecken” in this sentence. For multilateralism was to “cover” the growth of German power in many senses: to camouflage, but also to control, to manage, but also to permit; to facilitate, but also to palliate»22. Schmidt’s worries about his allies worries were not unjustified. In a speech in 1978, Giscard d’Estaing (whose friendship and collaboration with him were quite genuine) declared: «It would not be good if one country in Europe could dominate. One can have no confederation in which one member dominates. It would explode. There should be at least two countries in Europe with comparable influence. As I see it today, these are the Federal Republic and France. It would not be good if there were only one. Ultimately, that would be inacceptable»23. The Kohl-Mitterrand relationship was almost as close, but one witnessed several times the same phenomena of emerging German power, French and British worry and German reassurance. Kohl was a real believer in European integration in Adenauer’s tradition, but he took the initiative for German reunification, supported by the United States, without really informing Mitterrand, who, while accepting the inevitability of the process, was hoping that Gorbachev would slow it down. The Euro was the result of his pressure on Kohl for a spectacular reaffirmation of Germany’s commitment to the European Union. On another occasion, with its recognition of Croatia in spite of the reticence of France, Britain and the United States, Germany tried to show leadership in the Balkans, but promptly retreated to a more modest role. In the first years after reunification, it was burdened with its great financial effort towards the “Neue Länder” (i.e. the former GDR) as well as by the desire not to seem imperialistic in lands which it had occupied during World War II. It is only in the second half of 1990s, with Gerhard Schröder, that a real emancipation and an active national German policy in various directions made its appearance. Schröder was the first chancellor to openly speak of German national interests. His declaration that Germany would not in any case participate in the Iraq war, even if the UN decided in its favour, went farther than the French stance and contributed to his re-election, due in part to the former East German voters, which were more anti-American, more pacifist, and less internationalist. Beyond the Iraq war, Schröder adopted the slogan of a «German way» and initiated a very active policy in the direction of Russia and China. This mainly involved the economic dimension, but also the geopolitical one. A trilateral dialogue between him, French President Chirac and Russian President Putin was created. His choice in terms of energy policy was a purely national one, in favour of an increased dependence on Russia through joining the North Stream pipeline project, against the interests of Poland and Ukraine and outside the Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 14 22 23 T. GARTON-ASH, In Europe’s Name, cit., p. 87. La Documentation Française, TV Interview, 16 octobre 1978. ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd 4-11-2010 9:18 Pagina 15 Who Rules Europe? framework of a common European energy policy. Clearly Russia was a privileged strategic partner. Chancellor Angela Merkel does not have the same “Russian syn- It is only in the second half of 1990s, with Gerhard drome” but in practical terms, she has Schröder, that a real emancipation and an active followed so far, more than expected, national German policy in various directions the policy of her predecessor in rela- made its appearance tion with Russia and China. The reasons are in great part economic, but they go deeper and are relevant to our subject. German foreign policy, like that of all European countries, has become more dominated by domestic considerations, i.e. by public opinion and by business interests. Both push strongly in favour of the Russian connection, to the point that some Russian commentators have coined the term “Gerussia”24. Hence it has become less multilateral and, in particular, less Euro-Atlantic. More important, it has become not more nationalist in any aggressive or imperialist sense, nor more isolationist, since it depends primarily on foreign trade, but more self-centred and selfish: in other words, more normal. We mentioned before the attachment, and now the nostalgia, of the German public for the Deutschmark as a symbol of German prosperity in spite of the benefits it gained from the Euro. One can add a certain condescendence or distrust for what the Germans call “the Club Med countries” whom they see as less reliable and hard-working than the Northern ones, a feeling reinforced by the Greek crisis. Above all, the passing years have eroded the memory and the guilt linked to the Nazi past, and, on the other hand, reunification and the collapse of the Soviet Union have diminished the German need for its Western allies. Hence the feeling for national identity and interests has increased and, last but not least, the attraction of Europe and, particularly, of being its main financial contributor have spectacularly decreased. This feeling is strengthened both by German weaknesses and by German strengths. For several years, Germany has had to struggle economically with the constraints imposed by Schröder’s economic reforms which involved important cuts in salaries and services, then with the effects of the 2008 crisis. This was no time to make additional sacrifices for Europe. Now that it has emerged victorious from the crisis, Germany is confident in its economic system and in its anti-crisis policies as compared to those of its neighbours and of the United States, and the distance between its economic power and that of the other European countries has increased. This is why it now sees no reason to help those who have not followed its virtuous example, even though after much hesitation, and with great costs in domestic popularity, Angela Merkel has finally accepted to contribute to the bail-out of Greece. 24 P. GOBLE, Ge-Russia-The New Strategic Partnership between Berlin and Moscow, «Window on Eurasia», December 24, 2009, http://windowoneurasia.blogspot.com/2009/12/window-on-eurasia-gerussiathenew.html. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 15 ispi_VOLAIT@0003-0016#.qxd dossier 4-11-2010 9:18 Pagina 16 L’Europa e il suo posto nel mondo Another, relatively independent factor, is the decision of the Karlsruhe German Constitutional Court, on June 30, 2009, to require change in the German Constitution for any further abandonment of sovereignty in favour of the European Union. Two weeks later, Le Monde gave great prominence to an essay by its former German correspondent entitled: «A Germany at peace with itself buries the European dream»25. Germany’s renewed strength and self-satisfaction should, again, not be interpreted either as missionary or as imperialistic. One should not forget its basic weaknesses: a deep demographic crisis, a federal structure and a parliamentary situation which makes bold initiatives and speedy reactions very difficult, a dependence upon foreign trade which makes it vulnerable to foreign crises, a pacifist public opinion which shuns foreign military engagements. The two potentially hegemonic powers in Europe, then, are ill-placed and ill-equipped to fulfil this function. Their present leaders exaggerate their basic features: hyper-activism, ambition and theatrical behaviour without a consistent and stable basis in the case of France, caution and quiet self-satisfaction without a sense of a mission in the case of Germany. Meanwhile, the crisis should dictate solidarity and a renewal of the original European project which is difficult to see for the time being. To the question posed for this article: «Who rules Europe?» one has to answer: «Nobody in particular, but a cacophony between states, domestic opinions, international constraints and weakened institutions». The only consolation is that «An illusion of shared power is probably better than the certainty of confiscated power»26. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 16 25 26 A. LEPARMENTIER, L’Allemagne apaisée enterre le rêve européen, in «Le Monde», 7 juillet 2010, pp. 14-15. Dreams of a Brussels administrator, in «Mémoires d’Europe», Paris 1993. ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd 4-11-2010 9:20 Pagina 17 Le relazioni speciali dei paesi europei Marco Clementi Le relazioni speciali dei paesi europei* L’Europa, l’Unione europea e i paesi europei La riflessione politica e scientifica sull’Europa e la vita internazionale rimanda nella maggior parte dei casi al ruolo e al peso internazionale dell’Unione europea (Ue). Quando ci si interroga sull’influenza internazionale dell’Europa nel suo insieme, si bada in genere all’efficacia delle missioni civili e militari che l’Ue ha svolto o sta svolgendo; oppure ci si chiede se essa sia capace di difendere con continuità e coerenza le proprie posizioni diplomatiche nelle principali organizzazioni internazionali; oppure ancora ci si interroga sul grado in cui l’Ue riesca a esercitare una pressione rilevante nei rapporti bilaterali che intrattiene con le controparti. Quando ci si interroga invece sui paesi europei, si bada spesso al grado in cui essi riescono a influenzare la politica dell’Ue; oppure al grado in cui riescono a esprimere orientamenti comuni nel suo seno; oppure ancora ci si chiede quanto la loro partecipazione alle strutture politiche e pratiche decisionali dell’Ue ne influenzi gli orientamenti e le preferenze. Ci sono evidenti ragioni perché l’Europa e l’Ue siano divenute quasi sinonimi. Da un lato, la maggioranza degli stati europei più sviluppati fa ormai parte dell’Ue, mentre una buona fetta dei rimanenti paesi ha in corso o vede possibili negoziati per ottenere la membership dell’Unione. Inoltre, le materie su cui l’Ue decide o incide sono aumentate in misura molto significativa. Per quanto non politicamente unificata, essa si pone perciò come l’attore internazionale più rilevante dell’Europa e, se si esclude la Russia, il suo territorio occupa di fatto la quasi totalità del continente europeo. Dall’altro lato, i processi di consolidamento istituzionale, di allargamento e di accrescimento territoriale dell’Ue sono andati di pari passo con la diminuzione del peso dei suoi protagonisti. Se le superpotenze della guerra fredda avevano declassato le tradizionali grandi potenze europee, dopo il 1989 queste ultime hanno visto ulteriormente erodersi il proprio peso a favore dei paesi extra-europei, poiché gli Usa hanno mantenuto e, anzi, incrementato la propria superiorità, mentre la Cina ha scalato quasi tutti i gradini della gerarchia internazionale. Nel sistema contemporaneo, di conseguenza, ignorando di nuovo la Russia, l’influenza internazionale delle potenze europee passa attraverso la loro capacità di unirsi e coordinarsi in una cornice comune che ne possa sommare – e possibilmente amplificare – le prerogative. Infine, non si può ignorare che la pratica e le idee dell’integrazione europea siano divenute l’emblema di ciò che l’Europa ha dato al sistema internazionale do- * Si ringrazia Paolo Bertoletti e Paolo Epifani per gli essenziali suggerimenti circa lo studio dei rapporti commerciali fra i paesi europei. Della loro applicazione e del loro sviluppo l’autore è il solo responsabile. MARCO CLEMENTI insegna Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Pavia Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 17 ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd dossier 4-11-2010 9:20 Pagina 18 L’Europa e il suo posto nel mondo po le due guerre mondiali. In altre parole, l’Ue è divenuta la cifra culturale e politica dell’Europa: la sua natura istituzionale segna in modo indelebile la specificità della politica europea oltre che, secondo alcuni, un modo peculiare di interpretare la politica internazionale stessa1. L’approfondimento delle ragioni che portano l’Ue a improntare le relazioni internazionali dei paesi europei e dell’Europa, così come dei problemi e dei temi che ne discendono, ha grandemente contribuito alla nostra comprensione della politica continentale e anche globale. Tuttavia, esso può lasciare in ombra un aspetto che merita forse considerazione. Si può pensare infatti che tale approfondimento tenda ad assumere che la politica europea si sviluppi in modo binario, concentrandosi sui paesi europei singolarmente presi o sull’Ue stessa. In altre parole, esso tenderebbe ad assumere che l’Ue sia il filtro prevalente che separa i paesi europei dal complessivo ambiente internazionale, accostandoli gli uni agli altri e, quindi, rendendoli più omogenei fra loro di quanto non siano rispetto ad altri attori del sistema internazionale: insomma, che l’Ue sia il luogo di identificazione collettiva primario dei paesi europei. Se questa idea coglie senza dubbio aspetti cruciali della politica in Europa, si può anche pensare che i rapporti fra i paesi europei e l’Ue non pregiudichino stadi intermedi o alternativi di identificazione collettiva. I paesi europei, cioè, potrebbero essere vicini gli uni agli altri in modo differenziato: potrebbero formare gruppi omogenei i cui confini non sono dettati dalla membership dell’Ue e la cui esistenza influenza in modo non irrilevante le loro scelte, i loro comportamenti e gli esiti complessivi della politica internazionale che si svolge in e coinvolge l’Europa. È questo il tema delle relazioni speciali che possono legare alcuni paesi europei fra loro o, anche, possono legarli a paesi che non sono membri dell’Ue e tantomeno europei. Le relazioni speciali, i paesi europei e l’Unione europea Con la nozione di relazione speciale si suole indicare che due o più paesi sperimentano un elevato grado di affinità e amicizia. Questa vicinanza può derivare da una serie di fattori diversi: la similarità delle istituzioni politiche interne; una lingua comune; l’appartenenza alla medesima area culturale; la condivisione di componenti etniche o religiose che sono demograficamente o politicamente rilevanti all’interno dei paesi diversi; l’intensità dei rapporti economici e commerciali; una simile esposizione alle minacce del sistema internazionale. Questa nozione risulta utile poiché permette di distinguere meglio gli uni dagli altri i rapporti internazionali bilaterali o multilaterali di amicizia e affinità. Da un lato, infatti, le relazioni speciali non prevedono una formalizzazione e, 1 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 18 Per esempio, Manners sostiene che la politica internazionale dell’Ue sia informata da un tessuto normativo fatto di pace, libertà, democrazia, stato di diritto e diritti umani: I. MANNERS, Normative Power Europe: A Contradiction in Terms?, in «Journal of Common Market Studies», XL, 2, 2002, pp. 234-258. ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd 4-11-2010 9:20 Pagina 19 Le relazioni speciali dei paesi europei cioè, esse esistono a prescindere dalla sottoscrizione di patti, accordi o trattati internazionali. Così, per badare alla sfera delle politiche di sicurezza e di difesa, le relazioni speciali sono dei meri allineamenti politico-militari piuttosto che delle alleanze, se si accetta che queste ultime richiedano l’esplicitazione di una qualche promessa di mutua assistenza2. Dall’altro lato, le relazioni speciali permettono di isolare una causa specifica della cooperazione internazionale. La particolare affinità che esse concretizzano, infatti, dovrebbe rendere simili le preferenze e gli scopi dei paesi che intrattengono rapporti speciali e, per questa via, contribuire a produrre e rinsaldare degli interessi comuni. Da questo punto di vista, dunque, le relazioni speciali sono delle comunità di interessi. In ciò risiede la loro natura peculiare rispetto ad altre forme di cooperazione internazionale: esse sono, almeno in parte, una fonte degli interessi comuni a certi paesi, piuttosto che consistere nei comportamenti con cui quei paesi perseguono interessi comuni. In altre parole, esse appaiono come dei rapporti che hanno valore in sé: dei luoghi di identificazione collettiva che facilitano e compattano la cooperazione fra coloro che condividono quegli speciali attributi. Ora, l’idea che esistono dei sottoinsiemi di paesi europei resi affini da Le relazioni speciali non prevedono una formalizzazione vari fattori e che nutrono interessi co- e, cioè, esse esistono a prescindere dalla sottoscrizione muni non è certo nuova e, anzi, ricor- di patti, accordi o trattati internazionali re nelle metafore, nel linguaggio negoziale e nelle regole della stessa Ue. Così, per esempio, la metafora del motore franco-tedesco indica il particolare rapporto che Francia e Germania hanno intrattenuto nell’indirizzare per decenni il percorso dell’integrazione europea e ha generalmente dato per sottintesa anche una valorizzazione positiva di questo rapporto, rispetto sia al processo di unificazione europea sia al superamento della storica inimicizia fra i due paesi. Inoltre, il linguaggio negoziale della politica europea è ricco di riferimenti a gruppi di paesi che si presentano o sono presentati come accomunati da specifici elementi. Per esempio, quando si tratta di politica estera e di sicurezza europea, è questo il caso dei paesi neutrali, come l’Austria, l’Irlanda, la Svezia e la Finlandia, o simili per la rilevanza assegnata alla cooperazione allo sviluppo e agli strumenti civili della politica di sicurezza, come la Svezia e la Finlandia3. Lo è quello dei paesi baltici, che traggono la loro affinità dalla collocazione geopolitica e, soprattutto, dalla comune traiettoria storica che li ha portati a emanciparsi dall’influenza dell’Urss. Lo è ancora quello dei paesi dell’Europa meridionale, che sono spesso accomunati per gli interessi che deriverebbero dal condividere il bacino del Mediterraneo, con le opportunità e le tensioni che lo caratterizzano. Senza dimenticare che tali affinità si sono negozialmente anche tradotte in negativo, come per la celebre divisione fra i paesi della vecchia e della nuova Europa avanzata da Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa degli Usa in occasione della seconda Per la discussione di questa differenza e le conseguenze che ne derivano, cfr. A. COLOMBO, La lunga alleanza. La Nato tra consolidamento, supremazia e crisi, Milano 2001. 3 Cfr. P.V. JAKOBSEN, Small States, Big Influence: The Overlooked Nordic Influence on the Civilian ESDP, in «Journal of Common Market Studies», XLVII, 1, 2009, pp. 81-102. 2 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 19 ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd dossier 4-11-2010 9:20 Pagina 20 L’Europa e il suo posto nel mondo guerra in Iraq. O anche per l’etichetta che accomuna i paesi dell’Ue più a rischio di bancarotta finanziaria, come il Portogallo, l’Italia, la Grecia e la Spagna. Infine, le regole stesse dell’Ue guidano i paesi europei a tradurre le proprie affinità economiche e politiche nella formazione di gruppi omogenei cui sono associati doveri e prerogative peculiari, come capita naturalmente per la moneta unica o le cooperazioni rafforzate in politica estera, di sicurezza e difesa. Questa abbondanza di riferimenti all’esistenza di gruppi di paesi omogenei e affini non significa, tuttavia, che si possa dare per scontata l’esistenza di una pluralità di relazioni speciali in Europa e dentro l’Ue. Quanto appena precisato ci aiuta infatti a sottolineare che questa nozione non si adatta a molti degli esempi fatti: di per sé, questi rimandano nella maggior parte dei casi ad allineamenti negoziali e, cioè, a coalizioni che si formano su singole questioni. In altre parole, essi rimandano a gruppi di paesi che, anche avvalendosi di regole e procedure giuridiche, condividono, o sono intesi condividere, certi interessi; e perseguono, o sono intesi perseguire, degli obiettivi comuni. Ma le relazioni speciali riguardano rapporti internazionali informali che fondano in generale degli interessi, degli obiettivi e finanche delle identità comuni, prescindendo dalla cooperazione internazionale che può concretizzarsi puntualmente su specifici temi e settori. Certo, questa abbondanza di riferimenti può confermare l’interesse per lo studio delle relazioni speciali dei paesi europei, poiché ai tradizionali interrogativi circa il fenomeno delle relazioni speciali nella politica internazionale si possono aggiungere diverse domande. Appurato che i paesi europei sperimentino delle relazioni speciali, esse influenzano la loro postura verso l’Ue e la loro influenza nell’Ue? Come esse influenzano l’Ue in quanto attore internazionale? Qualora tali relazioni siano compiutamente avvalorate come luoghi di identificazione collettiva, diversificando ulteriormente le identità multiple dei membri, come influenzano o filtrano gli effetti che l’Ue produce sui paesi europei4? Individuato questo tema di riflessione come foriero di potenziali sviluppi, il presente lavoro intende svolgerlo chiedendosi preliminarmente se si può sostenere che i paesi europei sperimentino delle relazioni speciali e quali conseguenze ne possono discendere. Nell’affrontare queste domande, si prenderà in considerazione una sola delle molteplici dimensioni che andrebbero studiate per giungere a una risposta compiuta: la dimensione economica dei rapporti commerciali. Per quanto parziale sia quest’angolo visuale nello studio di un fenomeno complesso e articolato come le relazioni speciali, esso può forse offrire indicazioni interessanti per le ragioni che consideriamo di seguito. 4 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 20 Su questo interrogativo si rimanda a M. CLEMENTI, L’Unione europea come attore della politica internazionale, in M. FERRERA - M. GIULIANI (a cura di), Governance e politiche nell’Unione Europea, Bologna 2008, pp. 307-339. Sul fenomeno dell’europeizzazione in generale, cfr. C. RADAELLI, The domestic impact of European Union public policy: Notes on the concepts, methods, and the challenge of empirical research, in «Politique européenne», V, 5, 2001, pp. 107-142; R. WONG, The Europeanization of Foreign Policy, in C. HILL - M. SMITH (eds.), International Relations and the European Union, Oxford 2005, pp. 134-153. ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd 4-11-2010 9:20 Pagina 21 Le relazioni speciali dei paesi europei Le relazioni commerciali speciali fra i paesi europei Gli interscambi commerciali sono una delle dimensioni fondamentali delle relazioni internazionali poiché rappresentano una fonte cruciale per la produzione e l’acquisizione di ricchezza e influenza nazionale. Nei contesti politici in cui il loro sviluppo non produce rischi per la sicurezza degli stati, come è certamente l’Ue in quanto comunità di sicurezza5, la loro intensità contribuisce a costruire e rinsaldare rapporti di interesse e amicizia e anche di affinità, dal momento che essi rendono più omogenee le società dei paesi economicamente interdipendenti6. Se i rapporti commerciali figurano fra le determinanti basilari delle ipotetiche relazioni speciali dei paesi europei, la loro rilevanza risulta solo accresciuta dal fatto che la sfera economica rappresenta il settore in cui più precoci e più significativi sono stati i risultati del processo d’integrazione europea, così come il settore in cui l’Ue agisce esternamente nel modo più coeso. Il che a dire: vista la pressione integrativa e uniformante che un quadro normativo così articolato e istituzionalizzato può esercitare, l’esistenza di relazioni commerciali speciali dei paesi europei testimonierebbe che tali relazioni sono effettivamente speciali. Inoltre, a differenza di altri fattori che portano in essere le relazioni speciali, gli scambi commerciali permettono di valutare con una certa precisione non solo l’esistenza di rapporti privilegiati fra alcuni paesi ma, anche, la possibile asimmetria che si realizza in tali rapporti. In altre parole, la considerazione dei rapporti commerciali speciali dei paesi europei permette anche di sondare se alcuni paesi abbiano una maggiore influenza di altri in virtù dell’importanza commerciale che rivestono per questi ultimi. Di conseguenza, utili indicazioni possono derivarne quanto alla riflessione sul modo in cui questi rapporti influenzano la politica europea, dentro e fuori l’Ue. Per cogliere eventuali relazioni speciali dei paesi europei che fanno parte dell’Ue, insomma, può essere Gli scambi commerciali permettono di valutare utile centrare l’attenzione sullo stato con una certa precisione non solo l’esistenza attuale del loro interscambio com- di rapporti privilegiati fra alcuni paesi ma, anche, la possibile asimmetria che si realizza in tali rapporti merciale. La tabella 1 illustra i risultati che questo sforzo mette a fuoco7. Essa può essere letta sia in orizzontale sia in verticale. Lungo la prima direzione, la tabella indica i paesi con cui ciascun membro dell’Ue ha un interscambio che è pari ad almeno il 10% del suo commercio totale intra-Ue. In orizzontale, perciò, essa isola i paesi che hanno relazioni commerciali privilegiate: le relazioni commerciali speciali sono quelle formate da paesi che raggiungono reciprocamente questa Con ciò si intende che il ricorso alla forza è praticamente escluso nei rapporti fra i paesi dell’Ue. Già ai tempi della Cee Deutsch parlava della Comunità di sicurezza europea e occidentale: K.W. DEUTSCH, Political Community and the North Atlantic Area. International Organization in the Light of Historical Experience, Princeton 1957. 6 Si parla, al riguardo, di effetto sociologico dell’interdipendenza economica. 7 Si tratta di una matrice marcoviana costruita a partire dalla somma delle importazioni ed esportazioni di ogni tipo che ciascun paese membro dell’Ue ha scambiato con i rimanenti 26 nel 2008. 5 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 21 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 22 9,59% GB x x x FIN LT x 13,95% CZ D 27,88% 23,59% 27,82% 37,84% 34,76% 16,75% 14,99% 14,08% 21,56% 21,69% 12,12% 13,84% 18,18% [9,270%] CY M E Fonte: United Nations , Comtrade Database, DESA/UNSD, SITC rev. 4. Note: Belgio e Lussemburgo sono considerati come un’unica entità commerciale alla fonte. 17,21% 20,85% 15,63% 20,53% 25,59% SLO GR 25,72% I 25,59% 13,31% 10,25% x F x 48,35% 35,69% 25,71% P NL F [9,09%] I x 13,21% 23.15% 15,20% 17,72% x 10,60% 21,91% 19,68% 12,97% 30,71% 14,53% 20,22% 20.82% x 13,88% 12,47%. 14,82% 9,98% 10,67% 12,58% [9,13%] 18,54% 22,94% [9,13%] 14,00% 13,34% 33,39%. 16,53% 13,86% x B-L 11,95% 15,11% 15,56% 16,83% A 11,79% x [9,39%] H NL x BG B-L D A H 9,67% BG RO x x 9,74% SK RO 16,96 x 22,17% PL SK 13,56% x 9,91% 9,50% LV x 12,95% x EST CZ 10,0B/. x 18,20% 20,86% S 20,87% 14,79% 10,71% 12,96% [9,43%] [9,39%] DK x SLO 26,44% x 10.92% GR x CY x M 40,00% x 12,14% E x [9,13%] P 9:20 PL LT LV GB 39,08% 4-11-2010 EST S FIN DK x IRL dossier IRL Tabella 1 – Le relazioni commerciali speciali fra i paesi dell’Ue nel 2008 ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd Pagina 22 L’Europa e il suo posto nel mondo ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd 4-11-2010 9:20 Pagina 23 Le relazioni speciali dei paesi europei soglia di intensità commerciale8. Lungo la seconda direzione, la tabella indica per quale insieme di membri ciascun paese dell’Ue è commercialmente importante poiché somma almeno il 10% del loro commercio totale intra-Ue. In verticale, perciò, la tabella parla della rilevanza commerciale dei paesi dell’Ue, isolando quelli che hanno una più ampia sfera di influenza. Ora, leggendola in senso orizzontale, la tabella 1 suggerisce che esistono diversi gruppi di paesi europei che commerciano in modo privilegiato. In alcuni casi tali relazioni hanno ampiezza bilaterale. Così, i rapporti commerciali fra la Repubblica Ceca e la Slovacchia sono rimasti intensi nonostante la separazione politica; i paesi baltici sono parzialmente intrecciati gli uni agli altri, per il legame fra Estonia e Lettonia e quello fra Lettonia e Lituania; la Gran Bretagna e l’Irlanda formano un compatto gruppo commerciale specie per la grande fetta di commercio irlandese assorbita dalla prima; significativi sono anche i rapporti fra la Svezia e la Danimarca, la Francia e la Spagna e quelli che legano Belgio e Lussemburgo sia alla Francia sia all’Olanda9. In altri casi esse consistono di rapporti multilaterali che si sovrappongono parzialmente. Questi sono i casi che coinvolgono i principali paesi europei, in specie la Germania che vi è presente con quote commerciali molto rilevanti. Si tratta dei gruppi commerciali formati da Gran Bretagna, Germania e Olanda; da Gran Bretagna, Germania e Francia; infine, da Germania, Francia e Italia. Ulteriori elementi di riflessione arrivano da una lettura in verticale della tabella 1. Essa mostra che i paesi europei dalle economie più grandi dispongono di particolari leve commerciali, pur con differenze significative fra loro. La Gran Bretagna è importante in questo senso non solo per l’Irlanda, ma anche per la Svezia (che a sua volta è il partner commerciale più rilevante di altri paesi nordici come la Finlandia e la Danimarca), la Germania, l’Olanda e la Francia10. Quest’ultima lo è per la Gran Bretagna, l’Olanda, la Germania, il Belgio, il Lussemburgo, l’Italia e la Spagna11. Anche l’Italia dispone di una sfera di influenza commerciale ampia: essa è importante per la Germania, la Francia e la Spagna, cui si aggiungono l’Austria e numerosi paesi dell’Europa centro-orientale e sudorientale12. Tuttavia, il paese che spicca indiscutibilmente sopra gli altri è la Germania: essa è partner commerciale rilevante per tutti i 26 paesi dell’Ue e nella Questa soglia merita due commenti. Prima di tutto, per quanto fissata in modo convenzionale, essa sembra sufficientemente elevata per suggerire l’esistenza di rapporti commerciali privilegiati, risultando più che doppia della quota ipotetica di equiripartizione: infatti, se i paesi dell’Ue commerciassero fra di loro senza differenza alcuna, la quota commerciale di ciascuno sarebbe il 3,84% del commercio totale intra-Ue di ogni altro. In secondo luogo, se è vero che la teoria economica gravitazionale suggerisce che gli interscambi commerciali siano maggiori fra paesi confinanti, appare ragionevole pensare che questo effetto sia fortemente ridotto entro uno spazio commerciale unitario come l’Ue. Al riguardo, naturalmente, l’eventuale esistenza di relazioni commerciali speciali fra paesi non confinanti dell’Ue risulterebbe ancora più significativa. 9 Accogliendo come rilevanti i rapporti che si avvicinano alla soglia del 10%, andrebbe considerato anche il commercio fra Svezia e Finlandia e fra Portogallo e Spagna. 10 A questi si aggiungono Malta e Cipro e potrebbero aggiungersi Danimarca e Spagna, riducendo di poco il livello della soglia. 11 Ciò vale ancora per Malta e Portogallo e, alla precedente condizione, varrebbe per la Romania. 12 Essi sono Romania, Bulgaria, Slovenia, Grecia, Cipro e Malta; ma anche la Polonia, considerando per difetto la soglia del 10%. 8 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 23 ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd dossier 4-11-2010 9:20 Pagina 24 L’Europa e il suo posto nel mondo maggior parte dei casi essa assorbe la quota maggiore del commercio totale intra-Ue di tutti loro. La tabella 1 mostra chiaramente, insomma, che la Germania è il cuore commerciale dell’Ue. Infine, incrociando le due letture di Pur evidenziando la forte integrazione che caratterizza questi dati si possono ottenere delle gli scambi commerciali fra i principali paesi europei, indicazioni più generali. Pur evidenessi suggeriscono che ciascuno di loro ha un baricentro ziando la forte integrazione che caratdifferente che rimanda a rapporti privilegiati diversi terizza gli scambi commerciali fra i principali paesi europei, essi suggeriscono che ciascuno di loro ha un baricentro differente che rimanda a rapporti privilegiati diversi. In primo luogo, la Gran Bretagna sovrappone in misura significativa la propria relazione speciale con la propria sfera di influenza nella porzione settentrionale dell’Ue, da un lato; e risulta interdipendente con le economie dei principali paesi continentali. Similmente per la Francia, che ha forti radici nella porzione centrale e sud-occidentale dell’Ue. Ma è la Germania a occupare il centro del continente, poiché le sue relazioni speciali con tutti gli altri grandi europei si sommano al suo superiore peso commerciale nei loro confronti e verso tutte le direzioni dell’Ue. L’Italia, infine, appare più defilata per l’assenza di relazioni speciali sia verso molti paesi continentali sia verso i paesi meridionali e centro-orientali che costituiscono la sua zona di maggiore influenza. Nel complesso, la considerazione congiunta delle relazioni speciali e delle loro asimmetrie suggerisce alcune conclusioni circa l’esistenza di gruppi di paesi ritagliati dentro l’Ue dall’interdipendenza economica e dall’influenza politica che ne deriva. Possiamo tralasciare gli ovvi rapporti fra Repubblica Ceca e Slovacchia che, nonostante una relazione speciale, sono fortemente attratti nell’orbita tedesca. Similmente, i paesi del Baltico sono meno uniti sul piano commerciale di quanto lo si affermi su quello geopolitico, per la posizione dell’Estonia che ha legami speciali con la sola Lettonia e che inoltre, a differenza di Lettonia e Lituania, risulta fortemente più dipendente dal commercio con la Finlandia e la Svezia. Infine, possiamo forse accantonare anche i legami che la Francia nutre verso la porzione sud-occidentale dell’Ue poiché le sue relazioni commerciali non si sovrappongono in modo netto all’influenza politica, visto il peso economico che sulla Spagna possono esercitare tutti i grandi europei. Il quadro ritagliato da queste considerazioni si compone dunque di due Europe: un’Europa settentrionale, di cui fanno parte Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Estonia; e un’Europa continentale, formata sostanzialmente dai fondatori della Cee. La Gran Bretagna sembra esercitare la maggiore influenza sulla prima; la seconda è trainata con tutta evidenza dalla Germania, attorno a cui gravitano anche tutti gli altri membri dell’Ue. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 24 ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd 4-11-2010 9:20 Pagina 25 Le relazioni speciali dei paesi europei Le relazioni speciali di Gran Bretagna e Germania L’analisi dei rapporti commerciali speciali e delle asimmetrie d’influenza che li contraddistinguono ha isolato il ruolo particolare di Gran Bretagna e Germania. Per completare il nostro discorso occorre aggiungere che esse sono anche i paesi cui la letteratura imputa delle relazioni speciali di particolare rilevanza con attori che non fanno parte dell’Ue: si tratta della duratura relazione fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e della relazione che si è andata recentemente consolidando fra Germania e Russia. Consideriamole brevemente. I rapporti fra Stati Uniti e Gran Bretagna sono forse la relazione speciale più nota e studiata13. Accomunati dalla lingua, dalla cultura, dalle istituzioni democratiche e dai legami economici, Gran Bretagna e Usa hanno dato prova di questo rapporto privilegiato anche prima della metà del Novecento, quando questa nozione si è diffusa per connotare i legami fra i due esponenti di spicco del mondo anglosassone. Per fare solo gli esempi più evidenti del reciproco sostegno che ne è derivato, si può ricordare che la Gran Bretagna è stata la sola potenza europea a sostenere gli Usa nella guerra ispano-americana del 1898 e gli Usa la sola potenza mondiale a sostenere la Gran Bretagna nella guerra boera del 18991902. È difficile non annoverare questo rapporto di vicinanza politica fra i fattori che hanno permesso la transizione pacifica con cui gli Usa hanno sostituito la Gran Bretagna al vertice della gerarchia internazionale all’inizio del Novecento14. Questo rapporto di affinità si è andato consolidando nelle grandi guerre del Novecento. Per gestire la situazione economica drammatica che ha seguito la prima guerra mondiale, gli apparati tecnici britannici e americani hanno sviluppato pratiche di costante confronto che sono sfociate in forme di integrazione decisionale. Nel corso della seconda guerra mondiale, la cooperazione militare fra i due paesi ha portato a programmi di ricerca e approvvigionamento comuni e a integrare le forze militari congiungendo le strutture di comando e le operazioni di intelligence. Nel corso della guerra fredda, almeno a partire dall’Atomic Energy Defense Agreement del 1958, la cooperazione nucleare è divenuta la sede più importante della loro relazione sul piano militare e continua ancora oggi, come testimonia l’accordo stipulato nel 2006 per la modernizzazione del deterrente atomico della Gran Bretagna. Insomma, i due paesi sono avvicinati da duraturi e intensi legami culturali, economici e politici che si sono accompagnati allo sviluppo di ciò che si suole indicare come un reticolo transnazionale di élite tecnico-burocratiche e politiche. La letteratura in merito è vasta e di natura sia storica sia politologica. Cfr. per alcuni esempi importanti, C.S. CAMPBELL, Anglo-American Understanding: 1898-1903, Baltimore 1957; D. DIMBLEBY - D. REYNOLDS, An Ocean Apart: The Relationship between Britain and America in the Twentieth Century, New York 1988; J. DUMBRELL, The US-UK “Special Relationship” in a World Twice Transformed, in «Cambridge Review of International Affairs», XVII, 3, 2004, pp. 437-450; e The US-UK Special Relationship: Taking the 21st Century Temperature, in «British Journal of Politics and International Relations», XI, 1, 2009, pp. 64-78; K. BURK, Old World, New World: Great Britain and America from the Beginning, New York 2007. 14 P. KENNEDY, The Rise and Fall of the Great Powers: Economic Change and Military Conflict from 15002000, New York 1987; trad. it. Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano 1989. 13 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 25 ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd dossier 4-11-2010 9:20 Pagina 26 L’Europa e il suo posto nel mondo La relazione speciale fra Germania e Russia è invece più recente, poiché origina dalle aperture commerciali e politiche del cancelliere Willy Brandt15. L’Ostpolitik degli anni Settanta ha fatto della Germania occidentale l’interlocutore privilegiato dell’Urss sul continente europeo e questo canale di dialogo privilegiato si è rafforzato dopo il 1989, soprattutto grazie alla disponibilità sovietica alla riunificazione tedesca, cui ha corrisposto lo sforzo di Helmut Kohl di includere il perdente della guerra fredda nelle cornici europee di cooperazione e gli ingenti finanziamenti tedeschi erogati alla Russia in occasione della crisi economica degli anni Novanta. Da quel periodo, fra i due paesi si sono particolarmente intensificati sia i rapporti economici, in specie nel settore energetico e per le opportunità offerte dal mercato russo, sia i rapporti istituzionali e gli accordi bilaterali di varia natura16. Il rapporto fra i due paesi può diffiL’Ostpolitik degli anni Settanta ha fatto della Germania cilmente essere considerato una relaoccidentale l’interlocutore privilegiato dell’Urss sul zione speciale vera e propria, poiché continente europeo e questo canale di dialogo l’incompleta transizione democratica privilegiato si è rafforzato dopo il 1989 della Russia si accompagna alla violazione delle libertà individuali e dei diritti umani, segnalando una forte distanza nei valori fondamentali e nella cultura politica e prevenendo la formazione di un’identità collettiva speciale. Tuttavia, non c’è dubbio che i paesi condividano interessi economici particolarmente intensi; così come che la loro sicurezza sia strettamente interdipendente e legata all’evoluzione dello spazio ex-sovietico. Questi interessi, inoltre, si riverberano nelle reciproche percezioni e aspettative: «i sondaggi d’opinione indicano che le élite russe considerano la Germania come un paese veramente amico e un sostenitore in Occidente. … In modo corrispondente, le élite tedesche apprezzano che il proprio paese svolga un ruolo di promozione degli interessi europei in Russia, in particolare nel settore economico e spesso come mediatore nei rapporti fra Russia e Stati Uniti»17. Insomma, se il legame fra i due paesi non è una compiuta relazione speciale, la “responsabilità unica” che a Berlino viene attribuita rispetto alla gestione dei rapporti con Mosca riflette la natura eccezionale della relazione che lega Germania e Russia18. Per una ricostruzione generale dei rapporti fra Germania e Russia, cfr. K. SCHLÖGEL (ed.), RussianGerman Special Relations in the 20th Century, Oxford 2006. 16 Cfr. su questi R. GÖTZ, Germany and Russia - Strategic Partners?, in «Geopolitical Affairs», 4, 2007, pp. 216-230. Più in generale: M. RÄNTZSCH, The German-Russian Relations - From Stabilization and Integration to Stagnation?, in «Lithuanian Political Science Yearbook», 1, 2007, pp. 212-226; A.M. SALMINEN, German-Russian Relations, Briefing Paper n. 40, The Finnish Institute of International Affairs, Helsinki 2009. 17 A. RAHR, Germany and Russia: A Special Relationship, in «The Washington Quarterly», 30, 2, 2007, p. 137. 18 C. STELZENMÜLLER, Germany’s Russia Question: A New Ostpolitik for Europe, in «Foreign Affairs», 88, 2, 2009. 15 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 26 ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd 4-11-2010 9:20 Pagina 27 Le relazioni speciali dei paesi europei Le relazioni speciali e l’orientamento geopolitico dell’Ue Il fuoco sulle relazioni commerciali come fonte specifica di vicinanza e affinità fra i paesi europei ha isolato due aree dell’Ue che appaiono economicamente più interconnesse: l’Europa settentrionale e l’Europa continentale. Esso ha anche individuato due paesi che appaiono esercitare, per quanto in gradi nettamente diversi, una maggiore influenza in ciascuna di queste: la Gran Bretagna nella prima e la Germania nella seconda. Inoltre, la letteratura sottolinea come questi due paesi abbiano relazioni speciali o almeno privilegiate rispettivamente con gli Usa e la Russia. Se consideriamo ora le relazioni speciali dei paesi europei dentro e fuori l’Ue nel loro complesso, possiamo trarre qualche suggerimento preliminare circa il ruolo che esse possono avere nell’influenzare la politica in Europa. Lo facciamo fermandoci brevemente sul solo problema dell’orientamento geopolitico dell’Ue: un tema che occupa l’agenda di studiosi e statisti poiché chiama in causa lo spazio politico in cui si sviluppano i rapporti e si pongono gli interessi più importanti dell’Ue. Da questo punto di vista, si devono sottolineare le differenti prospettive di Gran Bretagna e Germania. Quella della prima sembra in forte continuità con il passato. Da grande potenza economica e militare e in virtù della sua relazione speciale con gli Usa, la Gran Bretagna ha da sempre giocato il ruolo di pivot nella politica europea, ponendosi come il mediatore fra i paesi europei e gli Usa e contribuendo a rinsaldare o mantenere l’orientamento atlantico dell’Europa, prima di tutto salvaguardando la vitalità della Nato quale cornice prioritaria per la sicurezza continentale. Rimanendo ancora ai soli dati commerciali, la posizione specifica della Gran Bretagna nell’Ue si abbina alla decisiva rilevanza che per il paese hanno gli scambi con gli Usa: nel 2008 la quota maggioritaria delle sue esportazioni e importazioni extra-Ue andava in quella direzione (rispettivamente il 32,2 e il 18,6%)19. La prospettiva della seconda è invece mutata significativamente. Da paese cerniera fra i blocchi e posta in gioco della guerra fredda dalla sovranità dimezzata internamente ed esternamente, la Germania unificata ha riacquistato un ruolo autonomo e fattivo nella politica internazionale, in Europa e fuori dell’Europa. Essa ha rivisto i propri vincoli costituzionali all’impiego della forza militare, il cui livello la pone al settimo posto al mondo20, partecipa alle principali operazioni multilaterali contemporanee e ai negoziati ristretti con cui le grandi potenze affrontano i dossier più scottanti del sistema internazionale, come quello iraniano. Inoltre, se la protezione della stessa sopravvivenza tedesca era affidata agli Usa prima del 1989, ciò non accade nel presente. Anche i legami commerciali con questi ultimi, pure importanti, si sono affievoliti; mentre quelli con la Russia, come abbiamo già sottolineato, sono cresciuti. Nel 2000 le Cfr. EUROSTAT, External and intra-EU trade – a statistical yearbook. Data 1958-2008, Publications Office of the European Union, Luxembourg 2009. 20 Nel 2009 la spesa militare tedesca ammontava a 45,6 miliardi di dollari (il 3% del totale mondiale): una cifra paragonabile a quella di Russia e Giappone e non distante da quella di Francia e Gran Bretagna, che spendevano rispettivamente il 4,2% e il 3,8% del totale mondiale. Cfr. SIPRI, Sipri Yearbook 2009. World Armaments and Disarmament, Oxford 2010. 19 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 27 ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd dossier 4-11-2010 9:20 Pagina 28 L’Europa e il suo posto nel mondo quote delle esportazioni della Germania verso gli Usa e la Russia erano rispettivamente del 29,2 e 2,9% del totale extra-Ue; nel 2008 del 19,7 e 8,9%; quanto alle importazioni, le simili quote del 2000 erano del 19,9 e del 5,3%; nel 2008 dell’11,7 e del 12,2%21. Nel sistema contemporaneo, insomma, la Germania è una grande potenza a tutti gli effetti, è il fulcro commerciale dell’Ue e vede crescere l’importanza dell’oriente europeo, ove si situano i suoi più diretti interessi strategici e la grande potenza continentale extra-europea con cui ha una relazione privilegiata. Queste diverse prospettive suggeriLa Germania è una grande potenza a tutti gli effetti, scono una conclusione che, per quanè il fulcro commerciale dell’Ue e vede crescere to del tutto preliminare e fondata sol’importanza dell’oriente europeo, ove si situano lo sulla dimensione commerciale, può i suoi più diretti interessi strategici essere utile alla riflessione: le relazioni speciali che abbiamo qui abbozzato ritagliano spazi politici che non si sovrappongono e, anzi, vanno in direzioni opposte. Da un lato, vi è lo spazio dell’Atlantico, cui guarda l’Europa settentrionale in cui la Gran Bretagna gioca un ruolo maggiore; dall’altro, vi è lo spazio della terraferma europea nella sua porzione orientale, cui guarda l’Europa continentale trainata dalla Germania. Se ci si volesse fermare ai rapporti commerciali, perciò, si potrebbe avanzare l’idea che le relazioni speciali dei paesi europei pongono dei potenziali elementi di contraddizione nell’orientamento geopolitico dell’Ue. Di più, visto il relativo declino economico della Gran Bretagna e la vitalità della Germania e la sua influenza su tutta l’Ue, ci si potrebbe aspettare che l’oriente europeo sia lo spazio più dinamico e importante cui badare nel prevedibile futuro. Con conseguenze importanti, giusto per menzionare i temi più evidenti, circa la centralità della Nato rispetto sia alle cornici di sicurezza paneuropee come l’Osce sia allo sviluppo della dimensione militare dell’Ue; circa le prospettive del processo di allargamento dell’Ue; o circa la disponibilità ad accettare la Russia quale interlocutore di primo rango nel sistema internazionale. Naturalmente, questa conclusione sarebbe del tutto affrettata. In primo luogo, come è ovvio, i legami economici sono filtrati da vincoli politici e politicamente manipolabili. Così, se la Russia ha recentemente brandito la cosiddetta arma energetica per affermare la sua influenza internazionale, raffreddando i rapporti con l’intera Ue, Germania inclusa, la cancelleria di Angela Merkel ha sancito con nettezza, almeno formalmente, i rapporti atlantici come la cornice prioritaria in cui definire e condividere le scelte fondamentali della Germania. In secondo luogo, le due aree commerciali dell’Ue che abbiamo ritagliato presentano linee di divisione politica che non possono essere ignorate nel momento in cui si volessero generalizzare i rapporti economici a quelli politici. Se si bada per esempio alle condizioni di una politica di sicurezza condivisa, è difficile consi- Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 28 21 Cfr. EUROSTAT, External and intra-EU trade, cit. ispi_VOLAIT@0017-0029#.qxd 4-11-2010 9:20 Pagina 29 Le relazioni speciali dei paesi europei derare un insieme politicamente coeso l’Europa settentrionale, che è composta da paesi con una postura molto diversa nella dimensione militare: paesi disponibili a combattere la guerra, come la Gran Bretagna, e paesi neutrali o che prediligono gli strumenti civili della pressione internazionale, come l’Irlanda, la Svezia e la Finlandia. Allo stesso tempo, la prospettiva orientale dell’Europa continentale deve fare i conti con interessi nazionali diversi, come per esempio quelli che hanno opposto la Germania e la Polonia rispetto alla cooperazione energetica con la Russia; o la Germania all’Italia, la Francia e la Spagna rispetto al peso strategico da assegnare all’oriente europeo rispetto al Mediterraneo. Infine, i rapporti politici fra Germania e Gran Bretagna e il grado in cui esse riescono a condividere e diffondere un’agenda europea comune risulta certamente decisivo nello smussare l’elemento di divisione che i rapporti commerciali potrebbero immettere nell’Ue. Tuttavia, quel che si può forse legittimamente sostenere è che i legami commerciali suggeriscono l’importanza di alcuni incentivi che non sono di breve periodo e che difficilmente la politica europea può ignorare: questi incentivi, per il peso che possono avere, sembrano orientare l’Ue a est, facendone quindi un attore più legato al continente che alle aree con cui esso confina; un attore più regionale che globale. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 29 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd dossier 4-11-2010 9:22 Pagina 30 L’Europa e il suo posto nel mondo Ulrike Guérot Towards a Post-American Europe? ULRIKE GUÉROT is Head of Berlin Office and Senior Policy Fellow at the European Council on Foreign Relations in Berlin. Systemic shifts in the transatlantic structure: between the old and something new Ever since the Wall came down 20 years ago, transatlantic relations are no longer what they have been. There is a certain and growing uneasiness that is going around – but that is difficult to capture1. This uneasiness is perhaps best described through the fact that Europeans want to outgrow of American leadership – 78% of Europeans say that European leadership in world affairs is desirable (and only 55% still desire US-leadership in world affairs2) –, but Europe is seemingly lacking behind its own ambitions and visions. Transatlantic relations today are still path-dependent on the structures of the last century – NATO, Bretton Woods – and not really shaped to cope with the challenges of the 21st century. The EU, child of the Cold War, is getting adult, but cannot yet really take care of itself, mainly in military affairs. Today, it is fair to say that 1949 to 1989 was more the exception of history than the norm and that the “West” is finally, 20 years after the Fall of the Wall, assessing what September 11 really meant for Europe and the transatlantic relationship. In essence, today in 2010, the world is not only more global and sees more powerful global actors to which the “West” needs to adapt; it is also “post-American” world for the American side and a “post-Maastricht” (or post “ever-closerUnion”) world on the European side – and therefore much less stable. The US and Europe both feel their relative decline of world power and in the international system, given the emergence of new and strong actors like China, India or Brazil. Both try to manage this decline and to get adapted to a new world order that is shaping and both are committed to stay together in a powerful transatlantic relationship, formerly called “the West”. Hence, the definition of what this is, the “West” is increasingly in flux3. The US and Europe are struggling since years to get a “common” agenda that is outward looking and no longer inward-looking like in the times of the Cold War, where the common protection against the Soviet Union was the essential corner stone of the relationship, channeled through NATO. But as much as NATO is looking for a new role and orientation since two decades now, transatlantic relations are, too. The common transatlantic agenda is visibly out there – Iran, Afghanistan, global climate protection or financial regulation are the themes of the 21st century on which the US and Europe want to act together. Hence, the common ground for polices is hard to find, as interests diverge increasingly. The mantra of the past that the world is a better place if only the US and Europe work together, tastes See B. KNIGHT, Tension in US-EU relations is real, but not new, experts say, September 13, 2010, http://www.dw-world.de/dw/article/0,,5988928,00.html. 2 All figures in this contribution are taken from the latest opinion poll‚ Transatlantic Trends 2010, September 15, 2010, The German Marshall Fund of the United States, www.gmfus.org. 3 There is huge literature about what “West” still means, essentially from neo-conservative American thinkers. Most prominently, see R. KAGAN, Of Paradise and Power. America and Europe in the New World Order, New York 2003; the book that essentially launched this discussion. 1 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 30 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd 4-11-2010 9:22 Pagina 31 Towards a Post-American Europe? pale. Shaping globalization together does not work as such strong glue for the transatlantic partnership than the common Soviet threat perception of the past. These tectonic shifts get ever more visible the more Germany is changing on this side of the Atlantic. Germany was, indeed, the key to US-policies towards Europe, or more meaningful: its very raison d’être. The whole European security architecture of the 20th century was build around post-war Germany. FrancoGerman reconciliation, European integration, NATO and transatlantic relations were central elements of these paradigms. With a Germany outgrowing out of Europe and leaning more towards Russia, the very statics of this architecture is at stake. Germany falls apart as glue for both, the EU and NATO4. Further, the US has painfully learned in the Iraq war that the decade of the “lonely superpower” or the “unipolar momentum” is over. It is no longer the world’s benign leader and it has experienced that military power alone is not it. Consequently, the new US global strategy has shifted to a concept of network power, trying to re-invent global leadership with a more differentiated tool-box. On the other side of the Atlantic, Europe has come to an end with both, As much as the US has ceased to be the pillar of world an ever more integration and an ever affairs and to be its central driving force, Germany more enlargement momentum for has ceased to be the pillar of the EU and to drive the EU. As much as the US has ceased its integration to be the pillar of world affairs and to be its central driving force, Germany has ceased to be the pillar of the EU and to drive its integration. Germany is outgrowing Europe and Europe at large is under the strain of increasing nationalism and populism which puts pressure on the project of European integration. With these two phenomena, the old and most important paradigm of transatlantic relations – transatlantic relations and European integration are the two sides of the same medal – falls apart. It was the Berlin Wall that promoted this paradigm. Germany was the key for both, EU and NATO. Germany, supported by the US, held Europe together; and the US, through NATO, held the “West” together. Today, Germany is outgrowing and the US is leaving Europe. Centripetal forces and disagreement on Russia These centripetal forces in the transatlantic relationship are enforced through new phenomena of economic gravity that pull the US towards the Pacific and especially towards China of which it is economically depending, as China holds large parts of US debt and basically finances its consumption; whereas Europe is increasingly pulled towards Russia, mainly because of energy dependency and because the modernization of Russia, politically and economically, is 4 For discussion on the “grand strategy” Europe would need, see J. HOWORTH, The EU as a global actor: Grand strategy for a global grand bargain?, in «Journal of Common Market Studies», 48, 3, 2010, pp. 455474. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 31 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd dossier 4-11-2010 9:22 Pagina 32 L’Europa e il suo posto nel mondo essential for Russia and promising for Europe. Nobody in Europe does have an interest in a democratically weak, dangerous and potentially too assertive or even authoritarian Russia. In short: Europe needs Russia much more than the US and therefore, the US and Europe tend to disagree ever more on what should be done with Russia. This is the inversion of the past. Indeed, in order to lift transatlantic relations into the 21st century, a glance at the relations of both, the US and Europe towards Russia, is key. Whereas in the past, the US and Europe shared the common threat as central feature for the “West”, it is fair to say that today, on Russia they do not longer agree; or they are competing. The US, to be sure, has started a “reset”-policy with Russia, focusing essentially on nuclear disarmament and “global zero” – but which is unrealistic. Hence, the US still wants to structure the European Security Strategy essentially around NATO; it is still skeptical about the Medvedev proposals for a new European Security Architecture5 and finally less inclined to engage Russia into truly common policies than Europe. To overstate the argument: the economic gravity and the new geo-strategic constellation of the world drives the US and Europe towards “Chimerica” (US and China) and “Eurasia” (Europe and Russia), whereas the common rhetoric, i.e. the one of the new “Strategic Concept” is still addicted to the mantra of the “West”. The problem of the American “re-set policy” is precisely, that the US intention is to keep the little regional questions and conflicts of the Eurasian continent away from the broader picture of their relationship – which is a feature that Europe cannot copy, nor adopt. In fact, the re-set diplomacy is explicitly designed around the idea of “compartmentalisation”. Moscow and Washington have “agreed to disagree” on the near-abroad issues precisely to avoid them spilling over into global issues such as Afghanistan, Iran, and disarmament which are at the top of the administration’s agenda6. Where near-abroad issues have arisen – such as the situation in Kyrgyzstan – the focus of the Obama administration has been on their impact on global issues. As a result, there is nothing in the rest which has allowed the US to make headway on Georgia or even Transdnistria or the Balkans. Hence, this is clearly a policy which Europe or the EU cannot afford to have, being much more engaged in the overall OSCE process. So even if the “re-set” is said to be a success for Obama, it simply increases the division with Europe, on Russia and beyond. The EU has a ground perspective in “Eurasia”, the US starts to have a bird’s eye view. See D. MEDVEDEV, Speech at the Meeting with German Political Parliamentary and Civic Leaders, Berlin, June 5, 2008. Available in English at http://www.kremlin.ru/engl.speeches/2008/06/05/2203_type8291 type84779_202153.shtml. 6 See ECFR-Report (forthcoming)‚ What does Europe fear?, October 2010, www.ecfr.eu. 5 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 32 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd 4-11-2010 9:22 Pagina 33 Towards a Post-American Europe? EU-US and why it does not work EU-US relations do not work well and essentially so, because the EU still does not yet work as a serious foreign policy actor. In the past, transatlantic relations have been institutionally mainly channeled through NATO; hence, the global agenda of the 21st century, on which the US and Europe should work together, is much too comprehensive to be dealt with by NATO alone7. NATO is a single-issue institution and essentially intergovernmental with the US being the primus inter pares. The EU, however, is a supranational, comprehensive institution with state-like elements, as there are a currency, a constitutional court, and fullfletched Parliament. This leads to an institutional setting of transatlantic relations, which is no longer appropriate to the needs of today, with NATO falling short on many issues and EU-US relations being not yet fully operational. The US sticks to NATO to structure its relations to Europe at large, just because it is NATO member; but for what the US really wants to get out of Europe, the EU is more competent and should be the real actor. The dilemma is often that NATO wants to do things in Europe, but cannot; and the EU should do things, but does not, especially when it comes to engagement in the near-abroad. In geo-strategic terms, promoting a serious accession strategy to the countries of the Western Balkans, pursuing actively the accession negotiations with Turkey or being a powerful actor in the Eastern European neighborhood is in the interest of the Europe. Hence, the EU is politically not really committed to seriously reach out to these regions, let alone to offer accession to the EU which are therefore left in a strategic vacuum that NATO cannot fill. Symbolism also matters. When President Obama cancelled his presence at the EU-US Summit in Madrid in June 2010, voices were out that this is detrimental to transatlantic relations. Hence, it only showed that the institutional setup of transatlantic relations does no longer function. NATO can no longer be the body that carries transatlantic relations; but the EU cannot yet carry them. Often, EU-US Summits deal with trade or regulatory issues, which are important, but not on the priority list of the foreign policy agenda. The next EU-US Summit is scheduled for November 20th in Lisbon8. This will be the first Summit under the new Lisbon Treaty and the agenda includes the Middle East Peace Process, Afghanistan/Pakistan, non-proliferation and regional conflicts. Hence, so far the political underpinning of this Summit is lacking and the public focus is much more on the new “strategic concept” of NATO to be discussed at the NATO-Summit in November 2010. To be sure: the US administration has tried to take embrace the EU as foreign policy actor. After the European division on Iraq and in recognition that the US needs a united Europe as a strong and reliable partner, the second Bush admin- See J. VAQUER I FANÉS‚ Focusing back again on European security: The Medvedev proposal as an opportunity, «Documentos CIDOB. Seguridad y politica mundial», 6, 2010, p. 3. 8 The EU-US Summit to be held in November in Lisbon, Press Release, Brussels, August 17, 2010. 7 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 33 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd dossier 4-11-2010 9:22 Pagina 34 L’Europa e il suo posto nel mondo istration had tried to build up a better working relationship with the EU. President Bush travelled to Brussels in spring 2005 and met – the first time for an American president – with the President of the European Commission. Yet, the so-called “charming offensive” did not materialize, as the EU was not ready to deliver on foreign policy. More by default, the US needed to swing back to doing policy with the important capitals of Europe. The EU is eager to improve its foreign policy capacity with the Treaty of Lisbon9. Since October 2009, the EU is busy to implement the Treaty. It has created two new functions, the President of the European Council, Hermann van Rompuy; and the High Representative for Foreign and Security Policy, Lady Ashton. With the creation of the External Action Service (EAS), the EU is taking steps to improve its external representation10. European foreign policy should be streamlined through the EAS. Hence, the start of the service has been slow and lacking ambitions11. Ashton did not succeed in making the structure of the service as bold and powerful as some had hoped. Decisions on the foreign policy spending remain in the competence of the Commission and have not been handed over to the new service, development policy has not been merged with foreign policy and classical diplomacy; the junction between development and security policy is still weak and accession and neighborhood policies remain separated. This makes it hard to envisage a European foreign policy all of a piece – although one should give the EAS some time to get started. Being caught into nitty-gritty details about the set-up of the service, Ashton has missed to sketch out a clear strategic vision on European foreign policy and she has underperformed in public perception on key issues such as Middle East, Russia or EU-relations to China12. Americans have been kept waiting No wonder that, for what really matters in transatlantic to see the EU finally popping up as a reactions, the big capitals are still – or again – the most strong foreign policy actor, and they important interlocutor for the US; and the fault for that have waited for long now: from the is entirely on the European side failure of the constitution to the Lisbon treaty, the US has been put off to see the EU emerging as strong partner – and repeatedly been told in recent month that the EU now needs to implement the treaty to finally be operational. In the meantime, the US seems to have lost patience, first and foremost as the EU shows clear signs of ever more disintegration than of integration, let alone lack of ambitions for its new service. No wonder that, for what really matters in transatlantic reactions, the big capitals are still – or again – the most important interlocutor for the US; and the fault for that is entirely on the European side. See voices of EU politicians, e.g. Spotlight Europe special, From Global Payer to Global Actor, S. WEISS (Interviewer), July 2010, http://aei.pitt.edu/14846/01/xcms_bst_dms_31853_31854_2.pdf. 10 Council establishes the European External Action Service, The Council of the Europeans Union, Brussels, July 26, 2010. For key documents on the EAS see: http://eeas.europa.eu/background/ index_en.htm. 11 A. MÖLLER‚ Strategie statt Bürokratie: Worauf es beim Aufbau des Europäischen Auswärtigen Dienstes ankommt, DGAP Standpunkte, March 5, 2010. 12 C. ADEBAHR‚ Strategie statt Bürokratie: Die Rolle der EU-Sonderbeauftragten im Europäischen Auswärtigen Dienst, DGAP-Analyse kompakt, July 5, 2010. 13 See Transatlantic Trends 2010, cit. 9 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 34 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd 4-11-2010 9:22 Pagina 35 Towards a Post-American Europe? Endless sticks and carrots for Iran? The Iran nuclear proliferation issue has been one of the hot issues of transatlantic relations for years with no concrete result however. The US and the EU have both been busy in containing the Iranian nuclear weapons program. Yet, it is interesting to see that despite a somehow similar assessment of the threat, common policies do not seem to emerge, or at least policies that show clear results. 86% of Americans and 79% of Europeans show themselves concerned about Iran acquiring nuclear weapons13. But despite sharing similar level of concerns in the US and the EU, there are differing opinions about how best to prevent Iran from acquiring nuclear weapons. Europeans prefer offering economic incentives, while most Americans favor economic sanctions. Roughly twice as many Americans (25%) as EU (13%) want to provide support to the opposition of the current government in Teheran. Neither the US (6%) nor Europeans (4%) seem likely to simply accept that Iran could acquire nuclear weapons, and pluralities in both, Europe and the US, do not exclude military actions, if all other options have been exhausted. Still, when it comes to draft the resolutions at the UN Security Council, the US and Europe systematically fail to take tough measures or are unable to push their measures through the council against the resistance of the other council members. Sanctions have recently been sharpened with respect to financial transactions or with respect to the energy and the financial sector14. But it seems as if transatlantic policies are more delaying the process than reaching a final result and here again, especially in the broader context of the review conference of the Non Proliferation Treaty, the transatlantic tandem seems no longer master of the agenda, let alone the result15. Turkey, Brazil, China or Russia have a much more prominent voice and ownership in the Iranian dossier and this reflects the global change and the marginalized role of transatlantic relation in it. Exit Afghanistan, but how? Afghanistan is another topic dominating the transatlantic agenda. Seen from Europe, the optimism to stabilize the situation at the Hindu Kush is shrinking. Whereas still a slim majority in the US (51%) is optimistic about the engagement, only 23% of Europeans share the same optimism, and this figure came down 9 percentage points in the last year. A majority of EU respondents (64%) think that their country should either reduce or withdraw troops, while only 41% of US respondents feel the same. Especially Germany had fierce discussion about the continuation of the ISAF mandate in the past months and the prolongation 14 15 See http://www.nytimes.com/2010/06/10/world/middleeast/10sanctions.html. See Report Carnegie Endowment at http://carnegieendowment.org/publications/index.cfm?=view&id= 40910#8. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 35 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd dossier 4-11-2010 9:22 Pagina 36 L’Europa e il suo posto nel mondo of the envoy of German troops triggered sharp and broad public debates – and the last German President, Horst Köhler, even stumbled about an interview on Afghanistan and had to resign. Afghanistan is perhaps the best case to point to the deception on the American side with respect to their European allies. The new Obama administration had hoped for bold support from its European friends, but most European countries cannot and do not want to deliver, given their domestic debates. A plurality of EU respondents (44%) thinks that their country should withdrawal all troops and these figures increased from last year16. In the meantime, it seems as if the US is somehow beyond deception and expectation regarding Europe. The US-majority for engagement in Afghanistan gets slim in comparison to previous years and the situation on the ground is worsening every day. The question is how to frame an appropriate exit strategy and to put a date behind. US Defense Minister Robert M. Gates has already put the date of July 2011 for the start of American troop withdrawals. Hence, this date depend largely on the result of the September elections, wich, however, did not contribute to the overall stabilization of the country. So the yearlong ISAF engagement cannot be celebrated as a victory. Violence and intimidation seem even worse than before the presidential election in August 2009, when Taliban fighters spread fear to force voter turnout below 20% in some provinces. The September poll was seen as a crucial test of stability and of the US-led war ahead of a planned military withdrawal by US forces from next July, but no clear measures were in place to encourage people to vote and assure safety at polling centres. The international community did not really learn the lesson from the last election. The election therefore became nearly a disaster for the success balance sheet of the Western engagement at large – and put ISAF and NATO further under pressure, not only to quickly move out of Afghanistan, but more broadly about the deployment and the use of NATO troops abroad. What to do with NATO and what should NATO do with Russia? The decreasing importance of NATO itself starts to be a feature of transatlantic relations, especially seen from the Europeans side. Fewer Europeans, but still a majority (62%) and 77% of Americans say that NATO should be prepared to act outside of Europe to defend members from threats to their security and large pluralities in both countries (60% in the US and 59% on average in Europe17) say that NATO is still essential for their country’s security. Hence, this hides that the long-term trend is a decrease of NATO’s importance in public opinion, and the support of NATO also varies in Europe enormously from country to country, with Poland ranking at the lowest end. The figures do not Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 36 16 17 See Transatlantic Trends 2010, cit. Ibidem. ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd 4-11-2010 9:22 Pagina 37 Towards a Post-American Europe? transport though, that NATO is no longer a loving reality for many Europeans who are born after 1989 and politically not socialized in a cold-war setting. The former rhetoric on NATO therefore still holds in the public discourse, but tectonic shifts are detectable under the surface. The problem here is again that European security policy is not yet there where many Europeans wish it to be, although the Lisbon treaty brought a variety of improvements; whereas NATO is still around and structures the European architecture, without meeting many of the security needs of the Europeans, especially with respect to Russia. The preparation of the NATO Summit in Lisbon in November 2010 NATO is no longer a loving reality for many Europeans has shown the difficulties in the ongo- who are born after 1989 and politically not socialized ing review of the new “strategic con- in a cold-war setting cept”. Differences on how to deal with Russians overshadowed the negotiations. In essence, Europeans are more sensitive to the perceptions of Russia (and other non NATO-countries of Europe), with the objective of minimizing NATO’s potential to create additional insecurity in Europe as a result of its future strategy. The European point here, especially when it comes to “answering Medvedev”, is to make clear that NATO is in principle neither closed to Russian’s membership nor an anti-Russian construction, taking thus into consideration that for Russia, NATO enlargement is still perceived as a threat. First step towards such a new common policy approach could be offering to all NATO partners, including Russia, a mutual assistance clause against a number of well specified threats (large scale terrorist attacks, rogue attack with weapons of mass destruction, major natural or man-made catastrophe and other of similar nature). Another step could be that all key-players – Russia and NATO members – commit to stopping all contingency planning based on the scenario of one player attacking another. The review of the NATO strategic concepts does not yet go that far – and Europe wants to go ahead with further steps of practical cooperation. One question will certainly be how to integrate the “EU-Russia modernization strategy” into the overall transatlantic strategic concept. Europeans seem decided to the modernization of the EU-Russia security dialogue by implementing joint projects in important areas of security that interests both sides, such as better control over Russia’s land borders or military reform in Russia. Another idea is to put in place a Russia-EU dialogue on crisis management and extend it to the areas of joint missions, also on European soil. Thought is also given to inviting Russia to participate in some of the new developments in the European Security and Defense Policy that are possible now under the Lisbon Treaty. The goal of the October meeting between Angela Merkel, Nicolas Sarkozy and Dimitri Medvedev in Deauville – pushed as a German initiative after the Meseburg meeting between Angela Merkel and Dimitri Medvedev already in June 2010 – was precisely to explore how Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 37 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd dossier 4-11-2010 9:22 Pagina 38 L’Europa e il suo posto nel mondo far Europe or the EU as a whole could ultimately go when it cames to signing what may became a sort of "mutual” security treaty with the Russians. If so, this treaty would need to be embedded into a Euro-Atlantic setting and require in parallel a NATO-Russian rapprochment of a new dimension. A concrete proposal in that spirit would be to create a limited collective security clause against specified sources of threat. Inspired by the “Solidarity clause” contained in Article 222 of the EU Lisbon Treaty18, NATO and Russia could think of a guarantee of mutual assistance in cases where the state suffered from a certain kind of threat. Whatever the concrete outcome of this thinking will be: European-Russian relations are in movement and Europe seems more engaged on the ground than the US. The gravity of Eurasia: energy and modernization The reason for this is simple geo-strategy and the importance that Russia has for the European energy supply. The European Union member states are the largest importers of energy resources from Russia. Russian gas and oil supplies provide for more than 25% of the overall consumption of energy resources in the EU. Some countries like Germany do get some 70% of their gas from Russia. Energy dependency from Russia is therefore a strong factor for European policies. The EU’s domestic energy production covers less than half of its needs, with net imports accounting for 53% of energy consumption in 2007. Oil comprises the bulk of total net EU energy imports (60%) followed by imports of gas (26%). Net imports of natural gas into the European Union in 2007 amounted to some 61% of the EU’s consumption, out of which Russia imports 38% to the EU. It is clear that much political gravity stems from such an energy balance. It is this geostrategic narrowness that pulls Europe more and more into Russia (“Eurasia”) with the “modernization-strategy” and that increases the gap to the US on Russia. The European shift eastwards and towards Russia corresponds to the American withdrawal from Europe. If Russia is no longer a danger for Europe, then the US needs no longer to guarantee European security and this produces the erosion of the Euro-Atlantic solidarity. As Europeans find it increasingly hard to discern any credible military threat to their continent, and American focus increasingly on emerging global powers and problems, so a progressive distancing between the security interests and preoccupations of the two sides of the Atlantic is inevitable underway. The figures of Transatlantic Trends If Russia is no longer a danger for Europe, then the US of the German Marshall Fund 2010 needs no longer to guarantee European security and underscore this trend of a continuing this produces the erosion of the Euro-Atlantic solidarity divide on transatlantic security. Not Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 38 18 See J. VAQUER I FANÉS‚ Focusing back again on European security, cit. ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd 4-11-2010 9:22 Pagina 39 Towards a Post-American Europe? only there is a deeply rooted and well-known value difference between Europe and America on the use of force (77% of Americans actually think that war is necessary to obtain justice under some circumstances, whereas only 27% Europeans are of this opinion); more importantly, and perhaps more key for the current developments of the 21st century, there are different transatlantic perception on what multi-polarity should be and especially diverging perfectives on the rise of Asia. For example, 71% of Americans find it very likely that China will exert strong leadership in the future, while only a third of Europeans (34%) thinks that the same scenario is likely. In this sense, the public debate in the US seems already much more shifting to a “Pacific preference” than in Europe: around half of Americans agree that the United States has enough common values with China to be able to cooperate on international problems; but 63% of Europeans say that China and Europe have such different values that cooperating on international problems is impossible – which does not hold Europe, especially Germany, off from trading heavily with China, though. Germany alone trades as much as the UK, France and Italy together with China. But this is trade policy, not foreign policy, let alone common European policy – or perhaps it is simply trade, without policy at all. Yet, these data underscore the Chimerica-tendency on a global scale. And they relate to the fact that the US has its ever first “pacific” President – and most likely not the last one. But it is not only Obama’s biography that explains his disengagement from Europe’s internal security engagements. In fact, it makes more sense to look at structural changes in the world which have reduced Europe’s centrality to the American “grand strategy”. This disengagement, as described above, did not begin with President Obama. It is a long-term trend that was inevitable after the fall of the Berlin Wall. It could be argued that when George Bush decided to subcontract the resolution of the Georgian crisis to President Nicolas Sarkozy in 2008 (France had the Presidency of the European Union by then), he was signaling the end of the era where Americans regarded European security as too important to be left to Europeans. It is unlikely that this trend will be altered. It is more likely that this trend will increase and that there is need (and room) for a new sobriety in transatlantic relations, where both partners go for their means and their interests. Whereas Europe and the EU are busy heading eastwards and will probably need to trade-off the ambitions for an “Eastern Partnership” against the modernization policy of Russia – unless to figure out how to get both – America tries to find its place in a “post-American world”, where the primus inter pares role is at stake. In response, America’s new strategy has been to try to build a new network of partnerships that would allow the United States to remain the “indispensable nation” in the new era – or the «spider in the new world-web» as Anne- Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 39 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd dossier 4-11-2010 9:22 Pagina 40 L’Europa e il suo posto nel mondo Marie Slaughter has put it. This overarching strategy is based on two central preoccupations. The US wants to re-order global institutions to bring in emerging powers and make them responsible stakeholders. On the other hand, the US is still in the necessity to be the driving force to solve or contain global problems such as Afghanistan, Iran, Iraq or the Middle East conflict. In this new era, the US approach to each of the main poles on the European continent is shaped by how far they can help the US to achieve these goals. Hence, the new multi-polarity of Europe with its three new centers of power – the EU, Russia and Turkey – definitely drives the US and Europe further apart and increases the complexity of what the “West” should be in the future. From geo-strategy to geo-economy: The financial crisis, the G-20 and global governance Can, by default of the old geo-strategy, a new geo-economy step in as the central glue for the transatlantic partnership? The 4.28 trillion dollar transatlantic economic partnership is a key driver of global economic prosperity and represents the largest, most integrated, and longest lasting economic relationship in the world. Together the two partners account for half of the global economy. Still, the financial crisis has brought to daylight both the international need to enhance global financial market regulation and some dividing lines between Europe and the US on how to do this. The G-20 is the body on which Europe and the US struggle to find common ground, but the process reveals slow. Moreover, grounded on different structures of their economies and on different philosophies, the US showed more inclined to fuel the economy with grand economic stimulus packages; whereas Europe, under the lead of Germany and under the pressure of the Euro and the debt crisis, opted for an approach of sound fiscal policies, deficit reduction and politics of austerity. At the last meeting of the G20 in Toronto before the summer, the transatlantic division line on what should be done to exit the financial crisis could not have been bigger. The G-20, to be sure, inaugurated a new process and essentially keeps the agenda of global financial reform running, but clear-cut results are meager so far – also because emerging countries have not been suffering that strongly from the crisis and revealed reluctant to go for major reform of financial regulation. The initial countercyclical response of the G-20 countries to the financial crisis can be seen as an asset, and it was crucial in avoiding the recurrence of a great depression. Hence, the controversies that erupted on the speed of fiscal consolidation at the most recent G-20 meeting in Toronto may be seen as a step backwards in this process, as is the growing reluctance of several European countries to place priority on the countercyclical role of macroeconomic policy under the current circum- Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 40 ispi_VOLAIT@0030-0041#.qxd 4-11-2010 9:22 Pagina 41 Towards a Post-American Europe? stances. Much more limited advances have been made on global imbalances and exchange rate management. Global imbalances fell as a result of the crisis, but the risk of their reappearance is evident – and so is the risk for the perpetuation of the transatlantic divide in this question19. What is looming at the horizon here is, of course, the shaping of a system of global economic governance. Hence, in a post-hegemonic word where the “West” does no longer dominate the discussion, no individual country or coalition – and maybe not even the “West” – will be in a position to lead the reform of the global financial system and the overarching multilateral architecture, as this was largely the case for Europe and the US after World War II, when they build up the Bretton Woods system. Instead, it will be a matter of permanent compromise between countries with different historical experiences, levels of socio-economic development and internal political systems. Transatlantic relations are likely to be strained in this process, turning former patterns of cooperation into a fierce competition, on which international measures tools are most suitable for the improvement of the own domestic economic situation. The recognition that the international financial crisis was associated with inadequate supervision of financial activities was clearly a breakthrough in the discussion and here the G-20 has played a very important role. Nonetheless, the implementation is still subject of debate, and the current dispute about the Basle Committee on Banking Supervision, which is supposed to approve by November 2010 an important set of reforms, including increases in capital requirements, a stricter definition of capital, a mechanism of countercyclical capital or provisions, or strengthened liquidity requirements, show that the tie of the transatlantic economic partnership is apparently not strong enough to come up with bold and convincing responses. In addition, the talk about a transatlantic marketplace has nearly ceased to exist, which is another sign that even on the economic side, transatlantic policies are harder to shape and driven with less enthusiasm than in the past. In conclusion, there are a lot of losses to cope with in transatlantic relations: the loss of strategic and economic glue in the relationship, the loss of a concept for the “West” and the loss of global agenda setting capacity. And if it is true that there is a “post-American” Europe, it may also reveal true, however, that this Europe is getting lost in this picture, because its current internal tendencies of disintegration keep it away from precisely the assertiveness that the same Europe would ultimately need to emerge as a global actor on the international scene20. In a German fairy tale, there is a princess, called Dornröschen, who sleeps a hundred years before being awakened by the kiss of a prince. Europe seems to be waiting for the prince to be kissed to finally live up to its potential! And only then, the EU and the US could go for a completely renewed dream peer-relationship in the 21st century, outgrowing of the transatlantic asymmetries and the dependencies that structured the last century. J.A. OCAMPO - S. GRIFFITH-JONES‚ The G-20 and the global financial governance, FRIDE and Club de Madrid Policy Brief, September 2010, p. 2, http://www.fride.org/publication/799/the-g20-and-global-financial-governance. 20 See for the same analysis with respect to the EU C. KUPCHAN‚ As nationalism rises, will the European Union fall?, in «The Washington Post», August 29, 2010. 19 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 41 ispi_VOLAIT@0042-0043#.qxd dossier 4-11-2010 9:24 Pagina 42 L’Europa e il suo posto nel mondo Diplomatia: il punto di vista Dal sogno europeo all’Europa per necessità Rocco Cangelosi * Nel suo articolo su «Il Sole 24 ore» del 1° settembre 2010 Vecchia Europa il tuo tempo è finito, Charles Kupchan sostiene che l’Europa sta morendo a causa di una rinazionalizzazione della vita politica, dell’erosione del consenso nella pubblica opinione, del populismo che avanza in tutti i paesi europei: il sogno europeo sarebbe finito e la valutazione della convenienza dell’appartenenza all’Europa avverrebbe solo sulla base di un calcolo costi/benefici sul piano economico tralasciando gli aspetti politici e ideali che erano stati posti alla base della costruzione europea. L’analisi spietata che viene dall’altra parte dell’Atlantico e che sembra stigmatizzare l’irrilevanza crescente dell’Europa per gli Stati Uniti non sembra cogliere le preoccupazioni e i fermenti sotterranei che nei principali stati europei si vanno consolidando su quelli che potrebbero essere i costi della non-Europa; fermenti e preoccupazioni che fanno ritenere che i principali attori difficilmente si rassegneranno alla reversibilità del processo di integrazione. Prendiamo, ad esempio, la Germania. L’intervento tardivo nella crisi greca, determinato da un atteggiamento molto riluttante del governo tedesco ad assumersi le responsabilità di altri, ha messo a repentaglio la stessa tenuta dell’euro, ma allo stesso tempo ha provocato una profonda riflessione delle autorità tedesche che hanno dovuto mostrare un atteggiamento più disponibile anche se con notevoli reticenze. Quali sarebbero i costi della non-Europa per la Germania? Il ritorno alle monete nazionali metterebbe nuovamente l’industria tedesca di fronte al rischio delle svalutazioni competitive subite nei periodi pre-euro, senza considerare l’impatto devastante sulle banche tedesche che detengono un’elevata quota di titoli pubblici dei paesi europei a rischio default. Ma non basta. La Germania non può non essere consapevole della marginalità che subirebbe nel contesto internazionale senza il retroterra del mercato unico europeo che costituisce il maggiore sbocco alle sue esportazioni. Da rilevare sul piano giuridico, ma con importanti ricadute nel con- testo europeo, un’interessante interpretazione da parte della stessa Corte di Karlsruhe della sentenza sul Trattato di Lisbona del 30 giugno scorso, che aveva praticamente posto il limite ultimo al processo di integrazione sulla base degli attuali trattati e alla cessione di ulteriori quote di sovranità. La nuova sentenza della Corte introduce rilevanti correzioni di rotta che lasciano intendere un significativo ritorno alle tradizioni del passato1. Tuttavia sul piano della politica fiscale, la Germania non intende deflettere dalle rigorose misure decise che tendono a contenere la domanda interna e i consumi. Questo atteggiamento estremamente restrittivo rappresenta uno dei punti di maggior contrasto non solo con i principali partner europei, ma anche con gli Stati Uniti. Come convincere i tedeschi a fare da locomotiva per rilanciare l’economia europea? La risposta della Germania è molto perentoria «siate più tedeschi per convincerci a essere più europei». E la Francia? Cosa ne è del tradizionale asse francotedesco? Nella forma esiste ancora e apparentemente sembra essersi rafforzato in quanto con l’avallo del presidente del Consiglio europeo Van Rompuy ogni decisione del Consiglio stesso è preceduta da un conciliabolo tra la signora Merkel e Sarkozy con la profonda irritazione degli altri paesi membri. Ma nella sostanza le politiche dei due paesi sono sostanzialmente divergenti e la Francia come altri paesi europei soffre di fronte a un’economia tedesca in forte espansione che esporta in Francia molto di più di quanto importa e non accetta di stimolare la sua domanda interna. Nonostante ciò Sarkozy è pienamente consapevole della necessità dell’insostituibile sostegno tedesco alle iniziative anti crisi decise in sede europea. L’Italia da parte sua sembra ricercare nel rigore tedesco e nelle politiche di bilancio raccomandate da Bruxelles la legittimazione della manovra finanziaria adottata recentemente. Ma al di là delle strumentali professioni di fede europeista del ministro Tremonti per l’approvazione della manovra economica («l’Europa lo vuo- *L’Ambasciatore Rocco Cangelosi è Consigliere di Stato. 1 Si tratta della decisione Mangold che origina da una controversia di lavoro. La Corte costituzionale nell’accogliere il ricorso ha riaffermato il principio del primato del diritto comunitario e il principio di integrazione sovranazionale. Si riconosce l’Unione europea quale comunità di diritto, il primato della Corte di giustizia europea, il principio di amichevole collaborazione con l’Unione, che viene caratterizzata quale entità «simile ad uno stato sebbene non assimilabile ad uno stato federale». Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 42 ispi_VOLAIT@0042-0043#.qxd 4-11-2010 9:24 Pagina 43 Il punto di vista di un diplomatico le»), il dibattito sul futuro del progetto europeo è del tutto inesistente e completamente sacrificato alle dispute di natura interna sia in seno alla maggioranza sia all’opposizione. In Gran Bretagna il duo Cameron-Clegg sembra aver trovato un’intesa assai consolidata sulla politica europea. Nessuna nuova cessione di sovranità, ma difesa degli interessi britannici. Questa opzione, che non si differenzia molto dal passato, implica innanzitutto l’impegno a preservare e potenziare il mercato unico, considerato da Londra una delle più importanti acquisizioni dell’Unione. A questo riguardo le autorità britanniche hanno favorevolmente accolto il rapporto Monti, che considera il rilancio del mercato interno in particolare attraverso i servizi e le nuove tecnologie del digitale, lo strumento più adeguato per promuovere la crescita e stimolare la domanda interna. Le autorità britanniche sono inoltre consapevoli, pur non facendo parte dell’Eurogruppo, che una nuova crisi finanziaria avrebbe conseguenze drammatiche sul proprio sistema bancario e finanziario e guardano quindi con favore al rafforzamento degli strumenti anticrisi e all’adozione di misure in grado di regolamentare i mercati e scoraggiare la speculazione. Un discorso a parte meritano i paesi del centro Europa recentemente entrati a far parte dell’Unione. A differenza di quanto si poteva pensare molti di essi (Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, e con alti e bassi, Slovenia e Bulgaria) hanno saputo resistere e reagire alla crisi dimostrando una grande vitalità delle loro economie. Una certa reticenza ad assumere impegni solidali nei confronti dei paesi in crisi si è palesata al momento delle discussioni in Consiglio europeo, ma si è poi rapidamente dissolta di fronte al rischio di isolamento e al timore di non ricevere sostegno in caso di difficoltà. I nuovi membri stentano tuttavia a imboccare una convinta strada nel rafforzamento della costruzione europea, trovandosi le loro opinioni pubbliche in bilico tra spinte atlantiste e rigurgiti sovranisti. In un contesto così complesso e delicato, sentenziare la fine del processo di integrazione europea appare azzardato: troppi sono gli interessi e le preoccupazioni che legano gli stati europei all’acquis comunitario. Sono tuttavia interessi disomogenei che dovrebbero trovare una sintesi in un nuovo slancio politico da parte delle leadership europee. Sapere dove andare: questo è il principale problema per l’Europa. Diceva Seneca: «Ignoranti quem portum petat nullus ventus suus est» (per chi non sa verso quale porto dirigersi nessun vento è il suo). Se l’economia e le crisi finanziarie che minacciano l’Europa costituiscono un collante abbastanza forte per tenere insieme le varie tendenze degli stati membri, il progetto per il futuro è ancora carente. Dove è finita la trasformational diplomacy dell’Europa? Con l’adesione della Croazia termina il processo di allargamento? Rinuncia l’Unione europea a estendere i suoi confini verso il Caucaso e il Medio Oriente, rinviando sine die l’adesione della Turchia? Questi sono i quesiti più importanti ai quali i leader europei dovranno dare rapidamente risposta. Il Consiglio straordinario europeo del 16 settembre – per quanto oscurato dalla disputa sui rom – è stato dedicato alle relazioni dell’Unione con i suoi partner strategici più significativi. Si tratta di un segnale che denota la vitalità dell’Unione e la sua volontà di continuare la politica di graduale esportazione dei propri standard e regole nel contesto globale. L’azione dell’Unione dovrebbe essere più assertiva nella definizione dei principi che dovrebbero guidare le relazioni con le economie emergenti in uno spirito di reciprocità e nel rispetto del rapporto diritti-doveri e ciò con particolare riferimento agli impegni in materia di cambiamenti climatici dopo il fallimento di Copenaghen e in vista del vertice di Cancun. Non solo, ma anche la puntuale applicazione delle decisioni adottate in seno alle Nazioni Unite (come ad esempio le sanzioni all’Iran) dovrà essere tenuta in considerazione nel calibrare i rapporti con i vari paesi. L’Unione ha cominciato a dare chiari segnali già nei vertici Ue-Aseam e Ue-Cina svoltisi a Bruxelles all’inizio di ottobre e si ripropone di agire con maggiore determinazione in occasione dei prossimi appuntamenti internazionali. Dovrà essere poi particolarmente curato il vertice con gli Stati Uniti per definire insieme i principi che dovrebbero guidare le relazioni internazionali nel nuovo ordine mondiale che si va definendo e gli organismi preposti alla governance mondiale a partire dal G20. Dovrà essere ricercata altresì una presenza più profilata dell’Unione in seno alle Nazioni Unite. Le iniziative in corso per meglio regolamentare i mercati e prevenire le crisi – e adesso le riflessioni avviate sul ruolo che l’Unione può svolgere nel contesto internazionale – lasciano intendere che nei paesi membri vi è una crescente consapevolezza di operare con determinazione per evitare quelle derive nazionalistiche che rischiano di mettere a repentaglio gli acquis più importanti della costruzione europea. Gli stati membri sembrano aver percepito con maggiore chiarezza a seguito della crisi finanziaria ed economica non ancora superata, la loro marginalità e ininfluenza nello scacchiere internazionale ove agiscano uti singuli senza avere alle spalle un retroterra di rapporti e prospettive economiche e politiche che solo l’Unione europea può offrire loro. L’Europa non sta morendo, ma di qui a dire che il processo di integrazione sta ripartendo ce ne vuole. Occorrerà fare di necessità virtù. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 43 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd dossier 4-11-2010 9:26 Pagina 44 L’Europa e il suo posto nel mondo Lorenzo Fioramonti Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo LORENZO FIORAMONTI è Ricercatore di Relazioni Internazionali all'Università degli Studi di Bologna e Research Fellow all’Università di Pretoria (Sudafrica) Quale potenza europea? È indubbio che il processo d’integrazione europea abbia costituito, almeno negli ultimi due decenni, una novità significativa in politica internazionale. Dal punto di vista delle relazioni esterne, prima la Comunità europea e poi l’Unione europea (Ue) sono state in grado di sviluppare politiche e iniziative che hanno rivelato una spiccata originalità rispetto ai modelli convenzionali di politica estera adottati dagli stati-nazione. Infatti, la struttura istituzionale dell’Ue e gli strumenti di cui dispone sono fondamentalmente diversi da quelli utilizzati dagli attori statuali, grazie a un mix di processi sovranazionali (comunitari) e intergovernativi1. Al tempo stesso, le sue politiche esterne non possono essere semplicisticamente equiparate alle iniziative promosse da organismi puramente intergovernativi, poiché le prime contribuiscono a modificare (e in parte a erodere) la sovranità degli stati membri, creando nuovi spazi di azione dove l’approccio comunitario può consolidarsi ulteriormente ed esercitare un ruolo sempre più vincolante. Durante gli anni Novanta, molti analisti hanno continuato a descrivere l’Europa come subordinata rispetto agli Usa, soprattutto nell’ambito delle politiche di sicurezza, interpretando l’accento europeo sulle politiche economiche e il soft power come una conseguenza inevitabile della propria debolezza militare e confermando la percezione che nel contesto delle relazioni transatlantiche «gli Usa preparano la cena e l’Ue lava i piatti»2. Sicuramente l’adozione della politica europea di sicurezza e difesa nel 1999 e lo spiegamento delle prime operazioni militari nel 2003 hanno in parte risposto alle critiche concernenti la mancanza di una forza militare, ma alcune perplessità sono comunque rimaste rispetto all’efficacia dello strumento, in particolare nel campo della promozione della democrazia e la difesa dei diritti umani3. Infine, la promulgazione della Strategia di sicurezza europea nel 2003 ha fornito un’occasione significativa per aprire un dibattito sullo sviluppo di una nuova cultura strategica in Europa, in grado di fon- La divisione della struttura istituzionale dell’Ue in tre “pilastri” è stata in voga sin dall’adozione del Trattato di Maastricht nel 1992. Per una disamina storica dell’evoluzione della politica estera e del suo intersecarsi con i tre pilastri si può fare riferimento alle seguenti opere: C. HILL (ed.), The Actors in Europe’s Foreign Policy, London 1996; C. BRETHERTON - J. VOGLER, The European Union as a Global Actor, London/New York 20052. 2 S.E. PENSKA - W.L. MASON, EU Security Cooperation and the Transatlantic Relationship, in «Cooperation and Conflict», 38, 3, 2003, p. 256. 3 B. SCHMITT, European Capabilities: How Many Divisions?, in N. GNESOTTO (ed.), EU Security and Defence Policy. The First Five Years (1999-2004), EU Institute for Security Studies, Paris 2004. 1 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 44 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd 4-11-2010 9:26 Pagina 45 Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo dere potere militare con obiettivi a lungo termine nel campo dello sviluppo sostenibile, protezione dei diritti umani, degrado ambientale e pace globale4. L’esistenza di un acceso dibattito riguardante i settori più tradizionali della politica estera europea non ha escluso che emergessero anche analisi innovative sull’importanza di altre politiche esterne, come il commercio e la cooperazione allo sviluppo, nel definire il tipo di ruolo internazionale dell’Europa. Con la fine della guerra fredda, infatti, è diventato sempre più evidente come ambiti generalmente considerati di bassa politica (come le relazioni finanziarie e commerciali) giochino un ruolo fondamentale negli affari internazionali. Quindi, la crescita di accordi commerciali globali e l’infittirsi di relazioni economiche tra l’Europa e il resto del mondo hanno dato nuova vita alla nozione di Europa come «potenza civile», inizialmente coniata da Francois Duchêne negli anni Settanta5. In quella che è stata descritta come una vera e propria «riscoperta»6 di un concetto temporaneamente accantonato dal dibatto sulla potenza militare europea, una nuova ondata di studi è giunta alla conclusione che la crescita delle relazioni economiche con il resto del mondo ha conferito all’Ue un livello di actorness sempre più rilevante nella politica globale7. Secondo questi autori, l’enfasi su mezzi civili non sarebbe una mera compensazione per la mancanza di strumenti credibili nel campo militare, ma definirebbe piuttosto un nuovo tipo di attore globale che rifugge costituzionalmente dall’impiegare misure hard per raggiungere i propri obiettivi di politica estera8. Al tempo stesso, la centralità di concetti come il commercio, la democrazia, i diritti umani e lo sviluppo sostenibile nell’azione esterna dell’Ue ha innescato un dibattito parallelo, riguardante il ruolo che idee e principi avrebbero nel definire l’identità internazionale dell’Europa. In quest’ambito, concetti come «potere normativo»9, «Scandinavia del mondo»10, «forza gentile»11, «dimensione etica»12 e «forza di mercato»13 hanno acquisito una crescente popolarità tra gli studiosi interessati a definire che tipo di attore globale l’Ue sia diventata. J. HOWORTH, Security and Defence Policy in the European Union, Basingstoke e New York 2007. F. DUCHÊNE, Europe’s Role in World Peace, in R. MAYNE (ed.), Europe Tomorrow: Sixteen Europeans Look Ahead, London 1972. Si veda anche F. DUCHÊNE, The European Community and the Uncertainties of Interdependence, in M. KOHNSTAMM - W. HAGER (eds.), A Nation Writ Large? Foreign Policy Problems before the European Community, Basingstoke 1973. 6 R. WHITMAN, The Fall, and Rise, of Civilian Power Europe?, National Europe Centre Paper n. 16, presentato alla conferenza The European Union in International Affairs, Australian National University, July 3-4, 2002. 7 M. TELÒ, Europe: a Civilian Power? European Union, Global Governance, World Order, Basingstoke 2006. 8 K.E. SMITH, The End of Civilian Power EU: A Welcome Demise or Cause for Concern?, in «The International Spectator», 23, 2, 2000, pp. 11-28. 9 I. MANNERS, Normative Power Europe: A Contradiction in Terms?, in «Journal of Common Market Studies», 40, 2, 2002, pp. 235-258. 10 G. THERBORN, Europe: Superpower or Scandinavia of the World?, in M. TELÓ (ed.), European and New Regionalism, Aldershot 2001. 11 T. PADOA-SCHIOPPA, Europa: forza gentile, Bologna 2001. 12 K.E. SMITH, The EU, Human Rights and Relations with Third Countries: “Foreign Policy” with an Ethical Dimension?, in M. LIGHT - K.E. SMITH (eds.), Ethics and Foreign Policy, Cambridge 2001. 13 C. DAMRO, Market Power Europe: EU Externalisation of Market-Related Policies, Mercury Working Paper, July 2010. 4 5 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 45 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd dossier 4-11-2010 9:26 Pagina 46 L’Europa e il suo posto nel mondo Molte di queste analisi, però, soffrono di un eccessivo euro-centrismo e si basano quasi esclusivamente sul contrasto transatlantico, non tenendo in considerazione per esempio l’evoluzione dei rapporti tra l’Europa e il cosiddetto Sud globale. Per colmare tale vuoto, questo saggio analizza l’immagine di cui l’Ue gode nel resto del mondo, in particolare tra i mercati emergenti dell’Asia, Africa e America latina. L’obiettivo principale di quest’analisi è mettere in luce l’apprezzamento e le critiche nei confronti del ruolo globale dell’Europa e rilevare come gli ultimi anni abbiano segnato una battuta d’arresto nell’affermazione dell’Ue come potere globale. Questo setback si è palesato soprattutto nelle arene di economia politica internazionale, dal Doha Round sul commercio internazionale ai negoziati multilaterali sul clima, dove è emerso un conflitto latente tra l’Ue e i principali poteri emergenti. Dal punto di vista strutturale, l’articolo è organizzato come segue: la prossima sezione analizza le percezioni dei principali paesi emergenti, mentre quella successiva si concentra sulle frizioni nate tra queste nazioni e l’Ue nell’ambito del Doha Round e dei negoziati sul clima, in particolare la conferenza Onu di Copenhagen. Infine, la sezione conclusiva offre alcune considerazioni generali relative al futuro della potenza europea. La crescita di accordi commerciali globali e l’infittirsi di relazioni economiche tra l’Europa e il resto del mondo hanno dato nuova vita alla nozione di Europa come «potenza civile» La potenza europea vista da fuori: le percezioni dei paesi emergenti Negli ultimi anni, le tesi sulla «potenza» europea sono state rinforzate dal fatto che, attraverso la sua ampia gamma di politiche esterne, l’Ue è arrivata a essere percepita come un importante attore globale in molte regioni del mondo14. Come dimostrato da alcune ricerche recenti, la rilevanza dell’Ue nell’ambito economico è generalmente riconosciuta da élite politiche, esponenti della società civile e mass media in paesi terzi. Le politiche multisettoriali dell’Ue, dal commercio alla cooperazione allo sviluppo fino al peacekeeping, hanno quindi contribuito a creare un’immagine di attore globale non solo nei paesi più industrializzati, ma anche nei mercati emergenti e nei paesi economicamente più svantaggiati15. Il potere economico dell’Ue non è semplicemente riconosciuto, ma è anche tenuto in considerazione da parte di molti paesi interessati ad accedere al mercato europeo. Le nazioni industrializzate considerano l’Ue un importante partner commerciale, mentre le economie emergenti non nascondono un interessamento strategico per l’integrazione del mercato europeo. Sulla stessa lunghezza d’onda, i paesi più poveri vedono l’Ue come un’opportunità d’investimento e una fonte di risorse economiche. Allo stesso tempo, però, gli ultimi anni hanno N. CHABAN - O. ELGSTROM - M. HOLLAND, The European Union and Others See It, in «European Foreign Affairs Review», 11, 2, 2006, pp. 245-262. Si veda anche S. LUCARELLI (ed.), The European Union in the Eyes of Others, Special issue, in «European Foreign Affairs Review», 12, 3, 2007. 15 S. LUCARELLI - L. FIORAMONTI (eds.), External Perceptions of the European Union as a Global Actor, London/New York 2010. 14 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 46 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd 4-11-2010 9:26 Pagina 47 Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo visto un aumento di critiche nei confronti delle politiche commerciali ed economiche dell’Europa. Per esempio, l’imposizione di accordi di libero commercio con i paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico (Acp) hanno innescato delle frizioni tra l’Ue e i paesi Acp nel corso del 2007-2008, incrinando una relazione privilegiata con le ex-colonie che durava da oltre trent’anni. L’immagine di un’Europa aggressiva, che utilizza il suo potere commerciale per favorire i propri interessi a scapito di quelli dei paesi più poveri, ha cominciato a emergere con forza, screditando la retorica benevolente nell’Ue e ridimensionando la tesi che l’Europa sia un attore globale mosso da preoccupazioni etiche e valori condivisi. Dall’Africa all’Asia fino ad arrivare all’America latina, l’Ue è sempre più vista come un blocco protezionista che manipola le regole del commercio mondiale a proprio vantaggio, costringendo i propri partner commerciali a liberalizzare il commercio mentre le industrie europee ricevono sussidi diretti o indiretti che snaturano la competizione internazionale16. Nel contesto delle politiche di promozione della democrazia e della pace, l’immagine dell’Europa nel mondo è influenzata dalle missioni di monitoraggio elettorale e dalle numerose operazioni di peacekeeping. Inoltre, il ruolo di mediazione che l’Ue e alcune forze europee hanno giocato (e stanno giocando) nella questione del nucleare iraniano è generalmente apprezzato dai principali paesi emergenti, che sottolineano la differenza rispetto all’approccio più aggressivo degli Usa. In America latina, i sondaggi di pubblica opinione rivelano che l’Ue è generalmente considerata tra gli attori internazionali che contribuiscono maggiormente alla pace globale17. Allo stesso tempo, però, se si analizzano le percezioni degli attori coinvolti nel conflitto mediorientale, si riscontra un indebolimento della posizione strategica di mediatore associata all’Europa, tradizionalmente in grado di censurare l’aggressività di Israele e, al tempo stesso, favorire ordine all’interno della comunità palestinese. Negli ultimi anni, e specialmente dopo la vittoria di Hamas nella Striscia di Gaza, l’Europa sembra aver perso centralità e forza negoziale e molti osservatori, anche tra i palestinesi, ritengono che solamente gli Usa possano esercitare l’influenza necessaria per raggiungere un accordo di lunga durata18. L’immagine di potenza «gentile» interessata alla promozione della pace e dei diritti umani è stata ulteriormente indebolita (o persino screditata) dalle politiche europee nel campo della migrazione, le quali hanno evidenziato la mancanza di approccio unitario a livello comunitario e generato l’impressione che l’Europa sia sempre più chiusa a riccio su stessa, una «fortezza» che si protegge rispetto al resto del mondo invece di esercitare una leadership progressista. Per esempio, la decisione dei ministri di Giustizia europei di adottare un accordo europeo sulla migrazione e il diritto d’asilo che limitasse l’accesso dei non-comunitari ha scatenato la reazione del governo brasiliano, che in un comunicato caustico ricordava come i paesi in via di sviluppo «hanno Ibidem. Ibidem. 18 L. FIORAMONTI - S. LUCARELLI, Have You Heard of the EU? An analysis of global Images of the European Union, «GARNET Policy Brief», 7, September 2008. 16 17 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 47 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd dossier 4-11-2010 9:26 Pagina 48 L’Europa e il suo posto nel mondo accolto milioni di stranieri, provenienti soprattutto dall’Europa, con generosità e senza discriminazione» e sottolineava: la preoccupate escalation di misure adottate nel contesto europeo che, anche se ufficialmente motivate dalla necessità di combattere l’immigrazione illegale e incoraggiare la regolarizzazione, in realtà rinforzano una predisposizione negativa nei confronti dei migranti, fanno un uso generico di criteri di selezione e permettono forme di controllo che, se applicate, potrebbero rivelarsi arbitrarie e lesive dei diritti umani19. Per quel che riguarda la governance multilaterale, il contributo europeo è generalmente apprezzato, anche se nell’ultimo quinquennio – come si vedrà nella prossima sezione – nuove tensioni nell’ambito commerciale e nei negoziati sul clima hanno esasperato conflitti latenti. Anche in questo caso, però, è difficile comprendere pienamente l’influenza che la nozione di multilateralismo à la Ue esercita sui principali poteri emergenti. Quando, per esempio, il premier cinese Wen Jiabao sostiene pubblicamente che «l’Europa e la Cina sono forze importanti per il mantenimento della pace e della stabilità ed entrambe s’impegnano a promuovere il multilateralismo, la democrazia e lo stato di diritto nelle relazioni internazionali», ovviamente emergono dei dubbi sulla reale capacità dei valori professati dall’Ue di far presa sulle priorità strategiche dei paesi con cui interagisce20. Per molti poteri emergenti, promuovere il multilateralismo significa preservare la sovranità nazionale. Ciò comporta il mantenimento del controllo gerarchico del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (nel caso della Cina) o il suo parziale allargamento, scrupolosamente limitato ad alcuni poteri emergenti (come nel caso dell’India e del Brasile). In genere, multilateralismo per questi paesi significa accesso ai club esclusivi della governance globale, come nel caso del recente G20, mentre per l’Ue la nozione di multilateralismo va ben oltre il processo di allargamento e richiede una modalità di coordinamento e una serie di principi condivisi che hanno contribuito a riformare il concetto stesso di sovranità21. Questa differenza concettuale non Per l’Ue la nozione di multilateralismo va ben oltre si limita alla semplice retorica politiil processo di allargamento e richiede una modalità ca, ma è anche probabile che si tradudi coordinamento e una serie di principi condivisi ca in una dissonanza cognitiva tra che hanno contribuito a riformare il concetto stesso l’Ue e il resto del mondo. Nel procesdi sovranità so d’integrazione europea, per esempio, lo sviluppo multilaterale interno che ha portato a definire l’architettura comunitaria si è fondato su un ripensamento generale della nozione e della pratica della sovranità, che ha avuto effetti a lungo termine sulla polity europea. Nel- Citato in G. OLIVIER - L. FIORAMONTI, The emerging “global south”: the EU in the eyes of India, Brazil and South Africa, in S. LUCARELLI e L. FIORAMONTI (eds.), External Perceptions of the European Union, cit., p. 113. 20 J. WEN, Deepening China-EU Relations and Strengthening All-Round Cooperation, discorso pronunciato al Business Summit Cina-Ue, The Hague, December 9, 2004. 21 J. RUGGIE, Multilateralism Matters: the Theory and Praxis of an Institutional Form, New York 1993. 19 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 48 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd 4-11-2010 9:26 Pagina 49 Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo la sua azione esterna, quindi, l’Ue inevitabilmente proietta norme e valori che puntano al superamento della sovranità nazionale (come nel caso del sostegno europeo ai processi d’integrazione regionale in altri continenti). In realtà, però, molti poteri emergenti e nazioni in via di sviluppo hanno solo da poco raggiunto un livello di istituzionalizzazione sufficiente per esercitare la propria sovranità nazionale. In molti casi, tale ritardo si deve al fatto che, fino a pochi decenni fa, questi paesi erano controllati dalle potenze europee grazie all’assetto coloniale. L’importanza quindi del concetto di sovranità (intimamente legato alla nozione di multilateralismo) diventa centrale nell’immaginario collettivo e nel discorso politico delle nazioni del Sud globale, per le quali il messaggio europeo può risultare distorto, parziale o finanche paternalistico. Non c’è comunque dubbio che il processo d’integrazione europeo sia considerato l’esempio paradigmatico per il resto del mondo, anche tra le nazioni in via di sviluppo. La stessa Commissione europea ha sviluppato programmi di sostegno per i processi d’integrazione regionale in altre parti del mondo e un riferimento esplicito al caso europeo viene generalmente fatto nei documenti ufficiali di organismi regionali come l’Unione africana, l’Associazione delle Nazioni del sud-est asiatico (Asean) e il Mercato comune del Corno sud (Mercorsur), solo per citare alcuni esempi. Ciononostante, alcune politiche esterne dell’Ue, come per esempio quelle che privilegiano il commercio bilaterale, sono state accusate di alterare se non addirittura pregiudicare processi di integrazione regionale in altri continenti, come nel caso degli Accordi di partenariato economico (Epa) estesi ai paesi Acp. In Africa meridionale, il rapporto bilaterale con il Sudafrica, che ha accettato di stabilire un’area di libero scambio fortemente voluta da Bruxelles nel 2000, ha indubbiamente complicato l’integrazione commerciale dei paesi dell’area. In America latina, non è chiaro quanto la relazione privilegiata tra Europa e Brasile abbia giovato al consolidamento ed eventuale allargamento del Mercosur, giacché la promozione di accordi di libero commercio sostenuta dall’Ue ha incontrato una vasta opposizione negli altri paesi della regione22. Anche in Messico, sia la società civile sia le organizzazioni rappresentative dei gruppi industriali locali hanno criticato gli effetti dei trattati commerciali con l’Ue, sostenendo che tali accordi bilaterali hanno «beneficiato le sussidiarie delle compagnie europee in Messico e avuto un effetto marginale sull’industria nazionale»23. Su questa base, gli imprenditori messicani hanno messo in guardia che il libero commercio con l’Europa esaspera le asimmetrie esistenti, aumentando il deficit commerciale del Messico invece di sostenere lo sviluppo sostenibile del paese24. Anche le tanto blasonate strategic partnership strette dall’Europa con i principali poteri emergenti (se ne contano almeno cinque con Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica, più i partenariati tradizionali con gli Usa, il Giappone e il L. FIORAMONTI - R. BALFOUR, Vecchi e nuovi interlocutori. Le relazioni esterne tra vicinato e paesi emergenti, in F. PASTORE - R. GUALTIERI (a cura di), L’Unione Europea e il governo della globalizzazione, Bologna 2008. 23 A. CHANONA, Report on Mexico, in S. LUCARELLI - L. FIORAMONTI (eds.), The External Image of the European Union – Phase 2, in «GARNET Working Paper», 62/09, p. 34. http://www.garnet-eu.org/fileadmin/documents/working_papers/0109/6209_00.pdf. 24 Ibidem. 22 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 49 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd dossier 4-11-2010 9:26 Pagina 50 L’Europa e il suo posto nel mondo Canada) non sembrano in realtà aver raggiunto risultati qualitativamente e/o quantitativamente degni di nota. Al di là della retorica istituzionale, i partenariati strategici siglati dall’Ue non sembrano aver avuto alcun effetto nella performance complessiva dell’Europa e tanto meno nell’allineamento di vedute e priorità con gli altri paesi, dando adito a «numerosi dubbi sia in Europa, sia nei paesi partner» riguardo alla reale consistenza ed efficacia di questo strumento25. Anche i dati concernenti le opinioni pubbliche non sono particolarmente incoraggianti per l’ambizione dell’Ue di giocare un ruolo di leader nel contesto globale del XXI secolo. Prima di tutto, la conoscenza dell’Ue e delle sue politiche è piuttosto limitata nel resto del mondo, soprattutto tra i poteri emergenti. Vari sondaggi confermano che pochi conoscono e comprendono le politiche dell’Ue. Nel 2003, oltre il 55% dei sudafricani non aveva mai sentito parlare dell’Ue, sebbene questa percentuale sia scesa al 45% nel 200826. Nel 2005, solo il 43% dei brasiliani aveva sentito nominare l’Ue. In entrambi i paesi, la conoscenza dell’Ue si attestava ai livelli più bassi se comparata, per esempio, a organismi intergovernativi come l’Onu o l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc)27. Nel 2007, oltre il 75% dei cinesi non aveva una chiara idea di cosa fosse l’Unione europea, nonostante i legami economici tra il gigante asiatico e Bruxelles28. Una ricerca qualitativa condotta in Russia ha confermato che, a scapito della prossimità geografica, i cittadini sembrano prestare poca attenzione alle politiche dell’Ue, se non in circostanze critiche (e potenzialmente conflittuali) come la guerra in Kosovo, la crisi in Georgia e l’allargamento della Nato verso est29. Lo stesso è stato rilevato in India, dove conoscenza e comprensione delle politiche europee sono molto limitate anche tra le élite governative ed economiche30. Questo trend è confermato anche dai dati relativi alla fiducia nell’Unione europea come attore internazionale. In Sudafrica, soltanto il 15% di chi aveva conoscenza dell’Ue riteneva che fosse un attore efficace nel 2003 e, cinque anni più tardi, solamente il 35% riteneva che l’Ue avesse in qualche modo aiutato lo sviluppo del paese. Nel 2007, il 55% dei cinesi con un minimo di conoscenza dell’Ue affermavano di avere fiducia nel suo operato. Un sondaggio presentato nel 2004 al summit tra Ue e America latina rivelava che solo il 32% dei messicani aveva un’opinione positiva dell’Europa (rispetto, per esempio, al 55% che invece apprezzava gli Usa)31. Allo stesso modo, solo una minoranza di cittadini brasiliani menzionava l’Ue tra gli attori internazionali che contribuivano maggiormente alla democrazia e allo sviluppo (12% nel caso della democrazia e 22% nel T. RENARD, Strategy Wanted: the European Union and Strategic Partnerships, Royal Institute for International Relations, «Security Policy Brief», 13, September 2010, p. 1. 26 Si vedano i dati del sondaggio Afrobarometer 2008, pubblicati sul sito http://www.afrobarometer.org. 27 L. FIORAMONTI - A. POLETTI, Facing the Giant: Southern Perspectives on the European Union, in «Third World Quarterly», 29, 2008, 1, pp. 167-180. 28 Si vedano i dati del sondaggio World Values Survey 2005-2008, pubblicati sul sito http://www.wvsevsdb.com/wvs/WVSAnalizeStudy.jsp. 29 M. MORINI, Report on Russia, in S. LUCARELLI - L. FIORAMONTI (eds.), The External Image of the European Union – Phase 2, cit. 30 K. LISBONNE DE-VERGERON, Contemporary Indian Views of Europe, London 2006. 31 A. CHANONA, Report on Mexico, cit. 25 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 50 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd 4-11-2010 9:26 Pagina 51 Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo caso dello sviluppo), mentre gli Usa dominavano ampiamente le classifiche32. Nemmeno nelle proiezioni future l’Ue va molto meglio. Secondo il sondaggio World Powers in the 21st Century, sono davvero pochi i cittadini dei paesi emergenti a credere che l’Unione europea abbia raggiunto lo status di potenza globale: 7% in India, 15% in Brasile, 17% in Cina e – mediamente più alto – 25% in Russia. È forse ancora più sorprendente che tali percentuali scendano ulteriormente quando agli intervistati viene chiesto se l’Ue diventerà/rimarrà una potenza globale nei prossimi decenni: l’India conferma la sua scarsa fiducia nell’Ue (solo 7% di risposte affermative), seguita dal Brasile (14%), dalla Cina (14%) e dalla Russia (17%). Gli Usa rimangono saldamente in testa alla classifica, come l’unica superpotenza, tallonati però dalla Cina che, secondo gran parte degli intervistati, si sta affermando come nuova superpotenza planetaria33. L’Europa in ritirata? Il Doha Round e i negoziati internazionali sul clima Esistono due settori in particolare in cui l’Unione europea ha visto la propria ambizione di potenza globale seriamente ridimensionata negli ultimi anni. Il primo ambito riguarda i negoziati commerciali internazionali, soprattutto in seno al Doha Round dell’Omc. Il secondo, più recente, ha riguardato i negoziati sui cambiamenti climatici per la definizione di un regime post-Kyoto, che ha visto la crisi apicale manifestarsi durante la conferenza di Copenhagen nel dicembre 2009. Come discusso in precedenza, l’Unione europea è vista come un importante partner commerciale da parte di tutti i principali mercati emergenti. Dall’India al Brasile, i capi di stato e di governo non mancano di rilevarlo in occasione dei summit bilaterali con Bruxelles. Anche i numeri lo dimostrano: l’Ue rappresenta il più vasto mercato comune del mondo, è la principale destinazione delle merci prodotte nelle economie emergenti e si distingue tra i primi partner commerciali di questi paesi. Ciononostante, le fitte relazioni commerciali e il riconoscimento della rilevanza del mercato europeo non significano che l’Ue abbia accresciuto il proprio potere a livello globale, e tanto meno che venga percepita come una potenza in crescita. Negli ultimi anni, l’Ue è stata al centro delle tensioni che hanno ani- Le fitte relazioni commerciali e il riconoscimento mato i negoziati del Doha Round, il della rilevanza del mercato europeo non significano nuovo ciclo di accordi sul commercio che l’Ue abbia accresciuto il proprio potere a livello globale sponsorizzato dall’Omc. Sin globale, e tanto meno che venga percepita come dal fallimento dei negoziati a Cancún una potenza in crescita nel 2003, l’Ue (insieme agli Usa) è stata accusata da gran parte dei mercati emer- 32 33 L. FIORAMONTI - A. POLETTI, Facing the Giant, cit. Bertelsmann Stiftung, World Powers in the 21st Century, Berlin, June 2, 2006, http://www.bertelsmannstiftung.de/bst/en/media/xcms_bst_dms_19189_19190_2.pdf. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 51 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd dossier 4-11-2010 9:26 Pagina 52 L’Europa e il suo posto nel mondo genti di politiche protezionistiche (soprattutto in campo agricolo) e di concorrenza sleale nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Tale opposizione alle politiche europee ha avuto anche un significato simbolico per le economie emergenti perché è stata all’origine della costituzione del cosiddetto Gruppo dei 20 (il G20 dei paesi in via di sviluppo), capitanato da poteri emergenti come Brasile, India e Sudafrica, uniti dal comune interesse per una riforma della governance globale tradizionalmente dominata dai paesi occidentali. Sulla stessa lunghezza d’onda, durante il summit dell’Omc tenutosi a Hong Kong nel 2005, il governo indiano ha accusato l’Europa di distorcere il commercio internazionale, chiamando a raccolta i paesi in via di sviluppo per coordinare una risposta comune alle «diseguaglianze» tra Nord e Sud globale34. La critica di questi paesi nei confronti delle politiche commerciali dell’Ue si traduce spesso in una messa in discussione della distribuzione dei poteri nella governance globale, rivelando le ambizioni dei poteri emergenti di diventare poli complementari (se non addirittura alternativi) ai poteri tradizionali. Per il presidente brasiliano Lula, nelle battaglie sugli accordi commerciali «non stiamo lottando soltanto per noi stessi, ma per tutti gli altri paesi (sottosviluppati) del mondo»35. Dopo il fallimento dell’ultimo negoziato presso il quartier generale dell’Omc a Ginevra, i rappresentanti brasiliani, che pur avevano tentato di colmare il divario tra le posizioni europee e quelle dei blocchi emergenti, hanno comunque riconosciuto che il naufragio di Doha dimostra «che gli accordi non possono più essere fatti solo dai paesi ricchi … ora devono tenerci in considerazione e continuerà a essere così sempre di più in futuro»36. Sebbene i leader politici cinesi si dicano favorevoli a un ruolo più forte dell’Europa sullo scacchiere internazionale, è probabile che sia stato proprio il ruolo crescente della Cina a ridurre il potere relativo dell’Europa non solo nel commercio globale, ma anche nelle tradizionali aree d’influenza dei paesi europei, a partire proprio dall’Africa, dove sin dal 2007 si sono registrate tensioni crescenti nei confronti delle politiche commerciali dell’Europa. Come accennato in precedenza, il tentativo europeo di forzare degli accordi di libero commercio (i cosiddetti Epa) è stato ricevuto con freddezza e, in taluni casi, con aperta ostilità da parte di molti paesi dell’Africa australe. L’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki, non ha esitato a criticare l’Ue per il suo «doppio gioco» in Africa, poiché promuove politiche protezionistiche nel proprio contesto domestico, ma cerca di imporre la logica del libero mercato nel resto del mondo37. Non è quindi un caso che il Sudafrica, potere emergente dell’area, abbia guidato la ribellione africana agli accordi Epa, accusando la Commissione europea di aver adottato una strategia «minacciosa», caratterizzata da una retorica del «prendere o lasciare», innescando risentimenti e profonda insofferenza tra molti paesi sottosviluppati38. Questo contrasto ha avuto non solo l’effetto di deragliare i negoziati e pregiudiSi veda www.twnside.org.sg/title2/twninfo323.htm. Intervista concessa al settimanale «The Economist», February 24, 2006. 36 R.L. PARRY, Dismayed Powers Plea to Salvage WTO Talks, in «AFP», July 30, 2008. 37 T. MBEKI, The ACP and the philosophy of development, in «ANC Today», 45, 12, 2004, http://www.anc. org.za/ancdocs/anctoday/2004/at45.htm#art1. 38 D. CRONIN, EPA Signed “Under Duress”, Says South Africa, in «IPS», December 21, 2007, http://ipsnews.net/news.asp?idnews=40567. 34 35 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 52 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd 4-11-2010 9:26 Pagina 53 Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo care gli scambi commerciali con l’Europa, ma si è anche riverberato sul summit di Lisbona del 2007, che prevedeva il lancio ufficiale della joint strategy Africa-Ue, nonché l’adozione del tanto atteso trattato di riforma dell’Unione europea. Infatti, nonostante le reiterate richieste europee, i governi africani hanno fatto fronte comune e sono riusciti a imporre la presenza al vertice del contestato leader dello Zimbabwe, Robert Mugabe, eludendo le sanzioni dell’Ue e indispettendo i principali leader europei, a cominciare dall’ex primo ministro inglese Gordon Brown, la cui minaccia di non partecipare all’evento è rimasta inascoltata. È indubbio che l’intensificarsi delle relazioni economiche tra paesi africani e Cina (e in misura minore India e altri poteri emergenti) abbia segnato un’inversione di tendenza nelle relazioni euro-africane. Per la prima volta nella storia recente, le economie africane possono scegliere tra canali commerciali tradizionali, che ovviamente portano verso l’Europa, e quelli relativi alla cosiddetta cooperazione sud-sud che, in larga misura, passano per Pechino. Durante una visita ufficiale a Bruxelles nel giugno 2009, il presidente senegalese Abdoulaye Wade – uno dei principali artefici del processo d’integrazione regionale in Africa – ha efficacemente riassunto questo processo sostenendo che «l’Europa è rimasta indietro rispetto a Cina e India» e che, con la crescita di nuovi poli di riferimento nel Sud globale, «l’Europa diventerà sempre meno attraente per l’Africa», soprattutto ora che i cinesi offrono relazioni economiche e commerciali «molto più vantaggiose»39. Negli ultimi tempi, la critica alle posizioni europee sul fronte dei rapporti commerciali si è estesa anche ai negoziati internazionali sui cambiamenti climatici. In particolare, il vertice di Copenhagen del dicembre 2009 non è stato soltanto un summit globale volto a sostituire il protocollo di Kyoto con un nuovo regime internazionale per limitare le emissioni di anidride carbonica, ma si è trasformato in un catalizzatore di tensioni e accuse reciproche accumulate nell’arco di quasi un decennio di schermaglie e rivalità a livello globale. Anche in quest’occasione, l’Europa si è trovata (suo malgrado) nell’occhio del ciclone. Nel tentativo di guidare i negoziati e fare pressione sui paesi emergenti affinché accettassero dei target vincolanti per le emissioni di gas serra, i paesi europei (rappresentati dal governo danese e dai delegati dell’Ue) hanno fatto circolare un documento preparatorio che, ancora prima che la conferenza cominciasse, già tracciava il contenuto di un probabile accordo. La pubblicazione di questo documento alla vigilia della conferenza ha avuto un duplice effetto negativo per la posizione strategica dell’Europa: da un lato, ha intaccato la sua credibilità come promotrice di multilateralismo, visto che prima ancora di dare inizio ai lavori già si presentava una bozza «unilaterale» di accordo40; dall’altro, ha scatenato le reazioni di condanna da parte dei poteri emergenti, che hanno accusato l’Europa di voler seppellire la logica del protocollo di Kyoto, che distingueva tra le re- In «Der Standard», June 24, 2009, http://derstandard.at/1245820005269/Praesident-kritisiert-Afrika-Politik-der-EU. 40 J. WATTS, Copenhagen destroyed by Danish draft leak, says India’s environment minister, in «The Guardian», April 12, 2010, http://www.guardian.co.uk/environment/2010/apr/12/copenhagen-destroyed-danish-draft-leak. 39 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 53 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd dossier 4-11-2010 9:26 Pagina 54 L’Europa e il suo posto nel mondo sponsabilità dei paesi industrializzati e quelle delle nazioni in via di sviluppo41. La pubblicazione del documento europeo ha inoltre avvicinato le posizioni dei principali paesi emergenti, innescando un processo negoziale parallelo che è poi culminato nella cosiddetta alleanza Basic, dal nome dei paesi che l’hanno costituita: Brasile, Sudafrica, India e Cina. Rielaborando le stesse critiche mosse all’Ue nell’ambito commerciale, i paesi del Basic hanno accusato l’Europa di voler soffocare le aspirazioni di sviluppo dei paesi emergenti. Il governo indiano ha immediatamente squalificato la proposta europea come «inaccettabile», mentre i rappresentanti degli altri paesi hanno messo in guardia l’Europa contro qualunque tentativo di imporre «proposte irrealistiche» al resto del mondo42. Sebbene i delegati europei abbiano giustificato la propria condotta come un tentativo estremo per giungere a un accordo vincolante sulle emissioni di gas serra, è evidente come l’Europa abbia commesso un errore strategico, sopravvalutando il proprio potere negoziale e sottovalutando la crescente autonomia dei principali poteri emergenti. Anche dal punto di vista cognitivo, l’Unione europea non è stata in grado di comprendere come le nazioni in via di sviluppo abbiano visto nella conferenza di Copenhagen un’occasione per rimettere in discussione gli squilibri politici ed economici del mondo, che per decenni li hanno visti esclusi dalla cabina di guida. Le argomentazioni di questi ultimi si sono concentrate sulle questioni di giustizia sociale, sulle responsabilità del Nord globale rispetto al Sud, sulla distribuzione del potere a livello mondiale e sulle questioni irrisolte del commercio globale e della governance finanziaria. Al centro della loro retorica hanno posto il diritto dei paesi più poveri di sostenere la propria crescita economica (anche a scapito dell’ambiente) per colmare il divario con le nazioni più ricche. Lo stesso presidente Lula, nella sua critica alla posizione negoziale dell’Europa, ha ricordato come: questi paesi non dovrebbero solamente adottare iniziative per ridurre le proprie emissioni, ma anche prendersi le responsabilità per tutti i danni che hanno già inflitto al pianeta. Dobbiamo mantenere chiara la distinzione tra i paesi ricchi, che hanno avuto una politica industriale per gli ultimi 150 anni, e le nazioni povere che hanno solo ora cominciato a svilupparsi43. Conclusione Questo articolo ha passato in rassegna il dibattito sulla «potenza» europea a livello globale, mettendone in luce i limiti e il profondo euro-centrismo. Una diJ. VIDAL, Copenhagen climate summit in disarray after “Danish text” leak, in «The Guardian», December 8, 2009, http://www.guardian.co.uk/environment/2009/dec/08/copenhagen-climate-summit-disarray-danish-text. 42 J. SCHALL-EMDEN, Back to the BASIC: Climate Change, Global Governance and Emerging Powers, in «European Alternatives», January 15, 2010, http://www.euroalter.com/2009/back-to-the-basic-climatechange-global-governance-and-emerging-powers. 42 Ibidem. 41 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 54 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd 4-11-2010 9:26 Pagina 55 Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo samina delle percezioni dell’Unione europea nel mondo offre, infatti, un metro di paragone per misurare non solo come l’Europa sia valutata, ma anche quanto sia considerata dalle altre potenze mondiali. L’immagine complessiva che ne emerge non è particolarmente esaltante per Bruxelles. Nonostante gli sforzi comunicativi della Commissione europea, il processo d’integrazione europeo resta poco conosciuto e poco compreso per suscitare entusiasmo in altri paesi. Se nel campo generale della sicurezza all’Europa viene riconosciuto un ruolo di nicchia (segnato, però, da un apprezzamento per le azioni di peacekeeping e la diplomazia preventiva), nel contesto principe dell’azione esterna dell’Ue, cioè la politica economica globale, sono le incoerenze, i doppi standard e le politiche protezionistiche a macchiare l’immagine che l’Unione proietta nel mondo. In particolare, gli ultimi anni hanno visto una flessione dell’importanza strategica dell’Europa nel mondo, proporzionalmente alla crescita di nuovi centri di potere, soprattutto nei cosiddetti mercati emergenti. In due ambiti specifici dell’economia politica internazionale, l’Unione europea ha visto ridotto il proprio potere negoziale: il commercio globale e i negoziati sul clima. Ciò è accaduto nonostante questi siano i settori in cui l’Ue ha raggiunto il più alto grado di uniformità istituzionale interna e un innegabile vantaggio comparato rispetto al resto del mondo. L’Europa è, infatti, il mercato più vasto del pianeta e un leader nelle tecnologie per la riduzione delle emissioni di gas serra. È anche probabile che la recente crisi economica abbia ulteriormente Gli ultimi anni hanno visto una flessione dell’importanza emarginato l’Europa (almeno rispetto strategica dell’Europa nel mondo, proporzionalmente ai principali poteri emergenti), evi- alla crescita di nuovi centri di potere, soprattutto denziando le debolezze che per un de- nei cosiddetti mercati emergenti cennio sono state oscurate dall’apparente successo della moneta unica, l’euro. Come sostenuto da uno studio sulle percezioni indiane dell’Ue, l’Europa è vista «in declino economico» e «troppo marginale, divisa e rivolta al passato» per essere più di un «giocatore di nicchia in grado di fornire merci di lusso e servizi» nel futuro – la «boutique del mondo» e «forse neppure quello»44. Anche le opinioni pubbliche riservano un ruolo marginale all’Europa nei prossimi decenni. È interessante notare come l’Ue abbia risentito del nuovo riequilibrio dei poteri più di quanto ne abbiano sofferto gli Usa, nonostante questi ultimi abbiano messo in campo politiche commerciali altrettanto conservatrici e abbiano un track record sconfortante nel contesto della lotta ai cambiamenti climatici. Probabilmente, questa distinzione è dovuta al peso che la public diplomacy e la capacità negoziale hanno nel caso della politica estera americana (come si è visto con la sorprendente alleanza tra Washington e i paesi del Basic siglata a Copenhagen), e che invece risultano molto meno sviluppate e credibili nel contesto europeo. 44 K. LISBONNE DE-VERGERON, Contemporary Indian Views of Europe, cit., p. 24. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 55 ispi_VOLAIT@0044-0056#.qxd dossier 4-11-2010 9:26 Pagina 56 L’Europa e il suo posto nel mondo In un mondo complesso come quello contemporaneo, l’Unione europea potrà recuperare un ruolo di leadership se sarà in grado di aprire nuovi margini per gli accordi commerciali e per i negoziati sul clima, a partire da un riconoscimento dei propri errori. Una scelta coraggiosa e onesta da parte dell’Europa avrebbe l’effetto di mettere anche gli altri interlocutori (Stati Uniti e Cina in primis) di fronte alle proprie responsabilità e probabilmente convincerebbe molte nazioni in via di sviluppo a sostenere uno sforzo genuinamente multilaterale. Ovviamente questo risultato non può essere raggiunto se non si riconoscono i legami intimi che uniscono la sfida climatica a quella della giustizia sociale e del commercio equo, che hanno animato (e continuano ad animare) le tensioni tra i principali poteri internazionali. È forse giunto il momento di riconoscere come le alleanze strategiche si costruiscono a partire da trade offs, che vanno definiti non solo sulla base degli interessi e dei valori europei, ma anche tenendo in considerazione gli interessi dei potenziali partner e la loro visione del mondo. Se invece l’Europa preferirà proseguire nella stessa direzione del passato, accantonando le proprie responsabilità e limitandosi a far leva sul proprio potere economico (magari guarnito da una retorica moralizzatrice e normativa), allora è probabile che la sua influenza continuerà a diminuire di pari passo con l’affermarsi di un mondo multipolare (non multilaterale), le cui vie di comunicazione potrebbero collegare Pechino, Delhi e Washington bypassando Bruxelles. Come suggerito dall’analista Thomas Renard, la conferenza di Copenhagen potrebbe ben essere «un’anteprima del nuovo ordine mondiale. Più gli europei si riempiono la bocca di promesse, e meno vengono ascoltati»45. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 56 45 T. RENARD, Coping with the Copenhagen syndrome, in «E-Sharp», March 10, 2010, http://esharp.eu/ Web-specials/Coping-with-the-Copenhagen-syndrome. ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd 4-11-2010 9:31 Pagina 57 La Polonia tra Europa e Russia Stefan Bielański La Polonia tra Europa e Russia La politica estera polacca dai cambiamenti del 1989 all’adesione all’Unione europea La Polonia, dopo più di un secolo di occupazioni straniere (di cui la più invisa fu quella russa), riacquistò la sua indipendenza nel 1918. La rinascita dello stato polacco fu però legata «al doppio conflitto geopolitico: con la Russia bolscevica (che aveva perso la guerra contro la Polonia nel 1920) e con la Germania (prima di Weimar, e successivamente di Hitler)». A nutrire la memoria storica polacca del XX secolo si sono aggiunti il patto Ribbentrop-Molotov del 1939 che sanzionò un’alleanza sovietico-nazista negli anni 1939-1941 (e nell’ambito della quale entrò anche l’eccidio di Katyń del 1940); gli accordi di Yalta del 1945, che invece hanno di fatto incluso la Polonia nella zona di influenza dell’Urss; così come il decisivo contributo polacco (con “Solidarność” e con il papa Giovanni Paolo II) alla dissoluzione dell’impero sovietico negli anni 1989-1991. In questo contesto non ci si può meravigliare che i rapporti con l’erede dell’Urss, la Russia, siano stati molto difficili anche dopo il 1991. Va preso in considerazione il fatto che almeno per una parte dei politici russi «la Polonia veniva considerata come una “terra persa” e che non tutti al Cremlino volevano rassegnarsi e accettare la nuova situazione geopolitica creatasi dopo gli avvenimenti degli anni 1989-1991»1. Se nel 1993 il breve “disgelo” fra la Polonia e la Russia ha permesso il ritiro definitivo delle truppe dell’ex armata rossa dal territorio polacco, negli anni successivi, quando la Polonia stava attuando il processo di avvicinamento alle strutture euro-atlantiche, conclusosi con l’entrata nella Nato nel 1999 e l’adesione all’Unione europea nel 2004, i rapporti polacco-russi sono diventati di nuovo tesi. Inevitabilmente il pieno inserimento della Polonia nelle strutture euro-atlantiche e addirittura una stretta alleanza con gli Stati Uniti (con l’appoggio alla politica americana e la partecipazione attiva dei reparti polacchi agli interventi militari in Iraq e in Afghanistan) hanno allontanato la Polonia dalla Russia e dai suoi interessi geopolitici2. L’apice di quella che potrebbe essere definita una piccola “guerra fredda” polacco-russa si è verificato quando la Polonia (sotto il presidente Aleksander Kwaśniewski) ha appoggiato la “rivoluzione arancione” in Ucraina. Ciò è stato considerato dalla Russia come un’intromissione negli affari russi nello spazio post-sovietico. S. BIELAŃSKI, L’evoluzione della situazione politica e della posizione internazionale della Polonia in relazione ai suoi vicini dell’Est: Paesi Baltici, Bielorussia, Ucraina e Russia, «Ricerche e Rassegne - ISPI Working Papers», Milano 2000, p. 72; cfr. anche dello stesso autore: L’idea dell’Europa in Polonia nel XIX e nel XX secolo, in A. LANDUYT (a cura di), Profili dell’integrazione europea, Siena 2004, pp. 103-112. Cfr. M. CZAJKOWSKI, Rola Rosji w nowyne systemie bezpieczenstwa in E. CZIOMER (a cura di), Nato u progu XXI wieku. Wobec nowych wyzwań í problemów bezpieczenstwa, Kraków 2000. 2 Cfr. S. BIELAŃSKI, Poland in NATO (1999-2009): between Historical Memory and Challenges of the Future, in A. CARATI - C. FRAPPI (eds.), NATO in the 60th Anniversary of the North Atlantic Treaty. Challenges and strategic divergences from national perspectives, Milano 2009; W. MAJEWSKI, Polish Security Policy Directions in the Post-Cold War Period: Realist Perspective, Wroc(aw 2008. STEFAN BIELAŃSKI è Professore presso l’Istituto di Affari Pubblici dell’Università Jagellonica di Cracovia e presso l’Istituto di Politologia dell’Università di Pedagogia di Cracovia 1 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 12 Aprile 2010 57 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd dossier 4-11-2010 9:31 Pagina 58 L’Europa e il suo posto nel mondo L’analisi della politica polacca nei confronti della Russia nella prima decade del XXI secolo non può prescindere dalle linee guida della attuale politica estera della Federazione russa. Nell’affrontare questa questione il ricercatore polacco Jaros(aw Hwiek-Karpowicz ha sottolineato che la leadership in politica estera spetta al presidente della Russia. Allo stesso tempo però esistono dei meccanismi che di fatto indeboliscono una vera e propria realizzazione della politica internazionale da parte dei massimi organi esecutivi russi. I meccanismi informali vengono utilizzati dai servizi speciali «ai quali i più alti dirigenti hanno accesso diretto e possono, senza passare da funzionari civili, presentare le proprie analisi e raccomandazioni riguardanti la politica estera»3. E in questo contesto va vista anche la politica russa nei confronti della Polonia sia negli anni Novanta del XX secolo che nei primi dieci anni del secolo XXI. Inoltre non si può dimenticare il ruolo speciale che nella politica estera russa assume la cosiddetta “politica della memoria storica”. Nel 2005 è stato messo in rilievo lo stretto legame fra la “politica storica” e gli indirizzi principali della politica russa, compresa quella estera. Proponendo questo legame come uno strumento politico l’allora presidente russo Vladimir Putin voleva «rilanciare l’impero russo, per lo meno sul piano ideale. Eltsin (…) è stato l’unico leader post-sovietico a criticare il passato comunista. Putin, invece non ha voluto screditare il passato storico e si è reinserito nella tradizione sovietica»4. Negli anni 2005-2007, quando in Polonia il potere esecutivo è stato esercitato dai fratelli gemelli Kaczyński – Lech, presidente della repubblica, e Jaros(aw, primo ministro – i rapporti polacco-russi non sono migliorati, anzi si è registrato un deterioramento. Come ha sottolineato Bartosz Cichocki, proprio i governi del partito Diritto e Giustizia (PiS) dei fratelli Kaczyński (appoggiati dagli alleati della coalizione di governo, i populisti di “Samoobrona” e i nazionalisti di Lpr) nelle relazioni con la Russia si sono concentrati prevalentemente su questioni di carattere geopolitico (e cioè come ostacolare l’espansionismo russo in tutto lo spazio dell’Europa centro-orientale), sulla sicurezza energetica (mettendo in rilievo il fatto che la Russia aveva utilizzato il gas e il petrolio a fini politici), sul deficit democratico del sistema autoritario russo e in particolare sulla problematica della cosiddetta “politica storica”5. In questo periodo l’élite dirigente polacca era sensibile a qualsiasi azione russa che mirava al negazionismo oppure al relativismo russo in relazione alle responsabilità per i crimini sovietici perpetrati nei confronti dei polacchi durante la Seconda guerra mondiale. A questo riguardo i fratelli Kaczyński «non erano disposti a compromessi tattici e non cercavano neanche l’appoggio dei partner nell’ambito dell’Unione europea». E anche per questo motivo: «In quel periodo i rapporti polacco-russi hanno raggiunto livelli davvero bassissimi»6. J. HWIEK-KARPOWICZ, Kto podejmuje decyzje? Mechanizmy kszta(towania polityki zagranicznej w Rosji, in «Polski Przeglfd Dyplomatyczny», 10, 3 (55), 2010 pp. 84-85. 4 Intervista a S. MAGNI, Putin e la politica delle statue. In Russia torna di moda, in «L’Opinione», 10 maggio 2005. 5 B. CICHOCKI, Polityka Polski wobec Rosji, in «Rocznik Polskiej Polityki Zagranicznej», Polski Instytut Spraw Mindzynarodowych, Warszawa 2009. Cfr. anche: J. MARSZA[EK-KAWA - Z. KARPUS (a cura di), Stosunki polskorosyjskie: stereotypy, realia, nadzieje, Torún 2008. 6 Ibidem, p. 114. 3 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 58 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd 4-11-2010 9:31 Pagina 59 La Polonia tra Europa e Russia La situazione è parzialmente cambiata nel 2007 quando, dopo la vittoria elettorale della Piattaforma Civica (Po), Donald Tusk è diventato primo ministro. Tuttavia il presidente polacco Lech Kaczyński, fino alla sua morte nell’aprile 2010, ha avuto un’enorme influenza nella definizione delle linee guida della politica estera di Varsavia. Proprio la politica nei confronti della Russia è stata il fulcro delle incomprensioni e dei contrasti fra il presidente della Repubblica e il primo ministro polacco, «paradossalmente queste contese hanno rafforzato la posizione della Polonia sia nei confronti della Russia sia nell’ambito dell’Unione europea»7. Infatti, temendo il ritorno di Jaros(aw Kaczyński alla carica di primo ministro, sia Mosca sia Bruxelles hanno fatto diverse concessioni al governo Tusk. Le differenze tra presidente e primo ministro sono emerse in maniera Proprio la politica nei confronti della Russia è stata ancora più evidente durante la crisi il fulcro delle incomprensioni e dei contrasti fra georgiana nel 2008. Mentre il governo il presidente della Repubblica e il primo ministro polacco guidato da Tusk era favorevole a un ruolo dell’Ue nella risoluzione pacifica del conflitto armato fra la Russia e la Georgia, il presidente Kaczyński ha optato per un’azione personale, coinvolgendo nella missione a Tbilisi (mentre erano ancora in corso azioni militari russe e georgiane) i leader di Lituania, Lettonia, Estonia e Ucraina. E proprio a Tbilisi, durante una manifestazione di piazza, il presidente polacco ha condannato l’aggressione russa, considerandola come «espressione del tradizionale imperialismo russo». Analizzando la posizione polacca nei confronti della “crisi georgiana”, anche [ukasz Kulesa ha sottolineato la differenza fra la politica adottata da Lech Kaczyński e quella di Donald Tusk. Kaczyński non solo ha dato un sostegno incondizionato alla Georgia di Mikhail Shaakashvili (rischiando un confronto con la Russia), ma ha anche considerato la “guerra georgiana” come un vero e proprio test per la Polonia, per la Nato e per l’Unione europea. Secondo Kaczyński, la mancanza di un’adeguata risposta avrebbe consentito alla Russia di condurre ulteriori azioni non solo nei confronti della Georgia ma anche di altri paesi dell’Europa centro-orientale, comprese Ucraina e Polonia8. Facendo riferimento al famoso discorso di Lech Kaczyński del 12 agosto 2008 a Tbilisi, Lech Kulesa ha affermato che «al di là del significato simbolico, l’appoggio alla Georgia ha avuto un’influenza minima sullo sviluppo degli eventi georgiani. La retorica antirussa non ha ricevuto il sostegno di gran parte dei paesi europei che non volevano deteriorare i rapporti con la Russia». Kulesa ha inoltre sottolineato che la differenza tra le posizioni del “campo presidenziale” e di quello “governativo” nel caso georgiano aveva indebolito la posizione della Polonia sulla scena internazionale9. L’attività internazionale del presidente Lech Kaczyński ha inoltre riguardato l’Ucraina, anche in ragione dell’alleanza strategica con l’allora presidente ucraino Viktor Juscenko. Nonostante relazioni ufficialmente ottime nel periodo fra il Ibidem, p. 115. Ibidem, p. 119 e anche [. KULESA, Polityka Polski wobec konfliktu gruzińskiego, in «Rocznik Polskiej Polittyki Zagranicznej», PISM, Warszawa 2009, pp. 219-220. Cfr. anche: J. ENGELGARD - A. WIELOMSKI (a cura di) Lech Kaczyński in Tbilisi: Gruzja a polityka polska, Warszawa 2008. 9 Ibidem, pp. 223 e 228. 7 8 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 59 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd dossier 4-11-2010 9:31 Pagina 60 L’Europa e il suo posto nel mondo 2005-2007, esse non sono andate al di là di dichiarazioni formali e non si sono trasformate in un vero e proprio “partenariato strategico”10. Tuttavia, la politica estera del presidente Lech Kaczyński è stata interrotta, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato presidenziale, dal disastro aereo di Smolensk in cui ha tragicamente perso la vita (aprile 2010). Alla fine di settembre dello stesso anno, Jaros(aw Kaczyński in un articolo che ha suscitato peraltro molte polemiche in Polonia, ha ricordato la “Ostpolitik” sua e del fratello, basata sulla costruzione negli anni 2005-2007 de «l’alleanza di grandi e piccoli paesi dell’Europa centroorientale. L’asse di quest’alleanza passava attraverso i paesi baltici (Lituania, Lettonia, Estonia) fino ai paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria)»11. Kaczyński con orgoglio ricordava che lui e soprattutto suo fratello avevano fatto molto «per avvicinare alle strutture europee e alla Nato l’ex Repubbliche sovietiche come l’Ucraina ma anche la Georgia, l’Azerbajgian e la Moldova»12. Nella realizzazione degli interessi nazionali e regionali si sono «scontrati con la politica estera della Russia che stava sistematicamente ricostruendo la sua zona d’influenza – fatto che viene spesso omesso dai politici americani ed europei»13. Per affermare la validità della politica estera del proprio governo, Jaros(aw Kaczyński ha fatto leva sul concetto della politica dei valori nelle relazioni internazionali, facendo riferimento al pensiero politico di un pubblicista dell’emigrazione politica polacca (e precisamente dell’ambiente vicino al periodico «Kultura» di Parigi) Juliusz Mieroszewski che, come scrive Kaczyński, «dopo il 1945 non è ritornato in Polonia, occupata dall’esercito sovietico, per protestare contro il dominio russo e comunista in quella parte dell’Europa, sostenendo che una politica efficace doveva essere moralmente giusta»14. Lo stesso Kaczyński ha tratto da questo concetto la seguente conclusione «Bisogna rispettare non solo gli interessi dei grandi stati, ma anche dei paesi medi e piccoli. Bisogna quindi tornare agli standard e ai costumi che erano per molti la base della fede in un mondo migliore. Bisogna rispolverare i valori nella politica internazionale»15. Le amare parole di Jaros(aw Kaczyński non sono dovute soltanto al ricordo di un fratello morto in un tragico disastro aereo, ma anche alla sconfitta alle elezioni presidenziali e, di conseguenza, all’esclusione dalla definizione della politica estera della Polonia e dell’Unione europea. Le elezioni presidenziali del 2010 sono state infatti vinte dal candidato del Po Bronis(aw Komorowski e le competenze della politica estera polacca sono passate in pieno al partito di governo il cui “uomo forte” rimane il primo ministro, Donald Tusk. Presentando le nuove linee della C’è chi sostiene che la posizione della Polonia dovrebbe politica estera polacca, adottate già essere rafforzata «mediante una politica attiva nell’ambito dopo la vittoria del Po nelle elezioni dell’Ue e nei confronti dei paesi dell’Europa orientale, politiche del 2007, S(awomir Debski in primo luogo dell’Ucraina e del Caucaso meridionale» (l’ex direttore dell’Istituto polacco di A. SZEPTYCKI, Polityka Polski wobec Ukrainy, in «Rocznik Polskiej Polityki Zagranicznej», PISM, Warszawa 2009, p. 157. 11 J. KACZYŃSKI, Sojusznicy i wartości, 29/09/2010, http://www.pis.org.pl. 12 Ibidem. 13 Ibidem. 14 Ibidem. 15 Ibidem. 10 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 60 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd 4-11-2010 9:31 Pagina 61 La Polonia tra Europa e Russia relazioni internazionali – Pism – di Varsavia) ha messo in rilievo il tentativo del governo Tusk di perseguire una politica di buon vicinato con i paesi confinanti, in modo particolare con la Russia. C’è invece chi sostiene che la posizione della Polonia dovrebbe essere rafforzata «mediante una politica attiva nell’ambito dell’Ue e nei confronti dei paesi dell’Europa orientale, in primo luogo dell’Ucraina e del Caucaso meridionale. Lo scopo strategico della Polonia, nel lungo termine, sarebbe l’armonizzazione della politica comune dell’Ue e della Nato»16. Gli indirizzi generali della nuova politica estera sono stati illustrati nel primo discorso parlamentare (il 7 maggio 2008) dal ministro degli Esteri Rados(aw Sikorski, che ha sottolineato il ruolo della Polonia nell’Unione europea e il significato e l’importanza della politica estera comune dell’Ue. Sikorski ha inoltre parlato della partecipazione polacca alla politica globale: «la nostra bussola geopolitica non è soltanto l’asse Est-Ovest. E con lo spirito comunitario ci sentiamo responsabili per gli affari del mondo globalizzato, quindi anche per quelli concernenti l’asse Nord-Sud». Per Sikorski le priorità della politica estera polacca sarebbero: «Polonia forte in Europa e promotrice della sua “Ostpolitik”; Polonia come l’anello forte dell’Alleanza Atlantica; Polonia come paese del successo e della libertà; Polonia come paese che appoggia la propria diaspora e la diplomazia»17. I rapporti fra la Polonia e la Russia nel contesto euro-atlantico e in quello geopolitico dell’Europa centro-orientale Dell’apertura nei confronti della Russia il ministro Sikorski ha parlato nel suo discorso parlamentare del 2008: «Il messaggio che vogliamo trasmettere alla Russia è quello che l’Unione europea e il mondo occidentale nel suo insieme vogliono la collaborazione (…)», e a chi sosteneva che la Polonia sia “russofoba” rispondeva: «vogliamo che i cittadini della Federazione russa, come pure dell’Ucraina, della Bielorussia, della Moldova e della Georgia, abbiano libero accesso al territorio dell’Unione europea e possano liberamente venire come turisti, studenti e imprenditori». Sikorski esprimeva inoltre la convinzione che fra la Polonia e la Russia, sempre facendo riferimento alla politica comune dell’Unione europea, si riuscirà anche ad arrivare a un accordo sulla questione della sicurezza energetica18. Contrariamente alla nuova politica di “apertura alla Russia”, per il leader dell’opposizione di destra (PiS), Jaros(aw Kaczyński, la ferma posizione nei con- S. DNBSKI, Od Redaktora, in «Rocznik Polskiej Polityki Zagranicznej», PISM, Warszawa 2009, p. 5. Sulla “Ostpolitik” polacca nell’ambito dell’Unione europea, cfr.: A. LEGUCKA, Polityka wschodnia Unii Europejskiej, Akademia Obrony Narodowej, Warszawa 2008; A. GIL - T. KAPUÒNIAK (a cura di), Polityka wschodnia Polski. Uwarunkowania. Koncepcje. Realizacja, Instytut Europy Òrodkowo-Wschodniej, Lublin-Warszawa 2009. 17 R. SIKORSKI, Informacja rzfdu na temat polskiej polityki zagranicznej w 2008 roku, in «Rocznik Polskiej Polityki Zagranicznej», PISM, Warszawa 2009, pp. 13, 16-17, 26. 18 Ibidem, pp. 16 e 21. Sulla questione della sicurezza energetica si veda E. WYCISZKIEWICZ, Geopolitics of Pipelines. Energy Interdependence and Inter-State Relations in the Post-Soviet Area, Warszawa 2009. 16 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 61 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd dossier 4-11-2010 9:31 Pagina 62 L’Europa e il suo posto nel mondo fronti di Mosca rimane invece una priorità. Nell’articolo intitolato Alleati e valori, Kaczyński sostiene che il pericolo russo esiste ancora per i paesi dell’Europa centro-orientale e rimprovera anche ai paesi europei e agli Stati Uniti di non rispondere in maniera adeguata alla politica neo-imperiale della Russia. Secondo Kaczyński quindi «il rafforzamento della collaborazione dei maggiori paesi europei con la Russia, dettato da motivi economici, porta con sé serie conseguenze politiche e indebolisce l’importanza dell’Unione europea»19. Queste affermazioni hanno suscitato le critiche sia del mondo politico polacco sia di analisti di politica internazionale del paese che da tempo auspicano un cambiamento di rotta nella politica polacca nei confronti della Russia. Già nel 2008 S(awomir Debski ha scritto della volontà di cancellare i pregiudizi antirussi addebitati ai polacchi20. Invece un altro analista del Pism, Rados(aw Ko(atek, ha sottolineato il fatto che, nonostante le controversie degli anni 20072008 fra il primo ministro Tusk e il presidente Lech Kaczyński, si poteva individuare un’affinità di obiettivi nella realizzazione della cosiddetta “Ostpolitik” dell’Unione europea che è diventata in tal modo una «specialità polacca»21. La situazione è cambiata a causa della netta differenza nella valutazione della crisi georgiana nel 2008, vista da ambo le parti come una “vittoria” sulla scena internazionale: per i sostenitori di Kaczyński, il presidente avrebbe dimostrato il suo coraggio opponendosi all’azione russa; invece per quelli del primo ministro Tusk la presenza di Lech Kaczyński a Tbilisi non avrebbe dato alcun contributo alla soluzione del conflitto che è stato interrotto soltanto grazie alla mediazione dei grandi paesi (in primo luogo della Francia) dell’Unione europea. Comunque anche per il governo Tusk l’azione militare russa in Georgia nel 2008 è stata il punto di partenza per una riflessione sull’efficacia dell’articolo 5 del Trattato di Washington22. Il cambiamento di rotta nelle relaNonostante le controversie degli anni 2007-2008 zioni russo-americane dopo la vittofra il primo ministro Tusk e il presidente Lech Kaczyński, ria di Barack Obama alle ultime presisi poteva individuare un’affinità di obiettivi denziali statunitensi ha favorito il minella realizzazione della cosiddetta “Ostpolitik” glioramento dei rapporti fra i paesi dell’Unione europea dell’Europa centrale, come la Polonia e la Russia. La rinuncia all’installazione dello scudo antimissile in Polonia e nella Repubblica Ceca da parte della nuova amministrazione di Washington ha avuto un duplice effetto: da una parte, ha suscitato in questi paesi la paura per una sorta di abbandono della regione da parte degli americani, dall’altra però ha rafforzato in Europa, e quindi anche in Polonia, i sostenitori della collaborazione con Mosca e ha indebolito chi voleva l’isolamento della stessa Russia23. Il dialogo polacco-russo, ripreso nel 2008, ha favorito anche la collaborazione economica, compreso il settore energetico, malgrado le note controversie. Le J. KACZYŃSKI, Sojusznicy i wartś ci, cit. S. DNBSKI, Od Redaktora, cit., p. 5. 21 R. KO[ATEK, Polityka Polski wobec UE, in «Rocznik Polskiej Polityki Zagranicznej», PISM, Warszawa 2009, p. 31. 22 [. KULESA, Polityka Polski wobec konfliktu gruzińskiego, in «Rocznik Polskiej Polityki Zagranicznej», PISM, Warszawa 2009, p. 230. 23 B. CICHOCKI, Polityka Polski..., cit., pp. 113-114, 116. 19 20 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 62 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd 4-11-2010 9:31 Pagina 63 La Polonia tra Europa e Russia relazioni polacco-russe hanno subito l’influsso dei rapporti fra la Polonia e i suoi partner occidentali (nell’ambito dell’Ue e della Nato), ma anche (e forse in primo luogo) quelle con i vicini orientali della Polonia, e cioè Bielorussia e Ucraina24. Va ricordato che i rapporti della Polonia con l’Ucraina – specialmente nel periodo della “rivoluzione arancione” – hanno costituito un punto di convergenza tra le diverse forze politiche polacche. Ma la situazione è cambiata nel 2007 quando, a causa della lotta interna fra il presidente Viktor Juscenko e il primo ministro Julia Timoscenko, la credibilità dell’Ucraina e le sue ambizioni “europeiste” si sono enormemente ridotte. Per la verità – e malgrado i grandi progetti comuni come quello dell’organizzazione dei campionati europei di calcio in Polonia e Ucraina nel 2012 – il “raffreddamento” dei rapporti è stato dovuto anche a motivi indipendenti dalla volontà di Varsavia o di Kiev. L’immagine della Polonia in Ucraina è stata oscurata, per esempio, dall’entrata della prima nella “zona Schengen” che ha comportato l’innalzamento di nuovo simbolico “muro”, chiamato “la frontiera orientale dell’Unione europea”. Dibattiti sulla “Ostpolitik” polacca Nel contesto dei conflitti e delle discussioni politiche concernenti l’atteggiamento nei confronti dell’Ucraina, va collocato il dibattito che si è tenuto nel 2008 sulla stampa polacca (in modo particolare sul quotidiano «Gazeta Wyborcza» e sul settimanale «Tygodnik Powszechny»). Al centro del dibattito la riflessione sulla validità del concetto conosciuto come Ulb (Ucraina – Lituania – Bielorussia) sul cui territorio dovrebbe agire la Polonia, senza però mire nazionaliste, e il cui ideatore è stato Jerzy Giedroyc, direttore del periodico «Kultura» di Parigi25. Nel 2010 «Gazeta Wyborcza» ha dedicato ampio spazio al dibattito riguardante le relazioni polacco-ucraine. Esso è legato alle paure di una parte dell’opinione pubblica polacca e ucraina emerse in seguito alla vittoria nelle elezioni presidenziali ucraine del candidato filo-russo, Viktor Janukowycz, e al processo di avvicinamento e al miglioramento dei rapporti bilaterali fra la Polonia e la Russia. A queste paure il direttore del periodico «Nowa Europa Wschodnia» (Nuova Europa Orientale), Andrzej Brzeziecki, ha risposto che: «si può essere filo-ucraini e nello stesso momento cercare la riconciliazione con i russi (…). Il “pragmatismo” nell’Ostpolitik non deve significare il riconoscimento della zona di influenza russa ma la volontà di re-indirizzare la presenza polacca nell’Est dalla sfera simbolica a quella dell’economia, considerandola come la sfida del XXI secolo»26. All’interno dello stesso dibattito si è innestata una polemica nata da un articolo di Bart(omiej Sienkiewicz in cui l’Ucraina è stata definita come una “zo- [. ADAMSKI, Polityka Polski wobec Bia(orusi, in «Rocznik Polskiej Polityki Zagranicznej», PISM, Warszawa 2009, p. 155; A. SZEPTYCKI, Polityka Polski wobec, cit., p. 156. 25 Ibidem, pp. 173-174. 26 A. BRZEZIECKI, Moskwa bli{ej. Kijów - blisko, in «Gazeta Wyborcza», 1/06/2010. Cfr. anche: J. BARTKIEWICZ, Politykofizyka naczyń po(fczonych, in «Gazeta Wyborcza», 21-22/08/2010. 24 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 63 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd dossier 4-11-2010 9:31 Pagina 64 L’Europa e il suo posto nel mondo na cuscinetto” nell’Est europeo. Questa tesi è stata criticata da Bogumi(a Berdychowska e Henryk Wujec secondo i quali «l’Ucraina come “zona cuscinetto” potrebbe dare alla Russia la possibilità di ampliare il suo dominio fino al fiume Bug ovvero al confine orientale della Polonia e nello stesso tempo dell’Unione europea»27. Un nuovo capitolo nelle relazioni polacco-russe si è aperto in seguito al disastro aereo di Smolensk il 10 aprile 2010 in cui hanno perso la vita 96 persone (oltre al presidente della Repubblica e alla moglie, una parte importante della classe politica e dirigente della Polonia). In occasione dei funerali di stato è stato confermato il cambiamento dell’atteggiamento russo verso la Polonia. Infatti proprio in quell’occasione il presidente russo Medvedev ha pubblicamente ammesso (senza polemiche nella stessa Russia) le responsabilità sovietiche nel massacro di Katyń nel 1940, «mettendo così fine alla “menzogna di Katyń”, un vero dogma ai tempi del comunismo e finora un ostacolo apparentemente insormontabile anche nei rapporti fra la Russia post-comunista e la nuova Polonia indipendente. Il cambiamento di atteggiamento del Cremlino potrebbe dare una spinta alla riconciliazione russo-polacca e portare a un nuovo rapporto di collaborazione fra Mosca e Varsavia. Con tutto ciò che ne consegue: una trasformazione degli equilibri geopolitici in Europa e non solo»28. La ripresa delle relazioni tra la Po«Il cambiamento di atteggiamento del Cremlino lonia e la Russia sia nel contesto europotrebbe dare una spinta alla riconciliazione peo sia in quello dei cambiamenti georusso-polacca e portare a un nuovo rapporto politici nello spazio post-sovietico di collaborazione fra Mosca e Varsavia» dell’Europa orientale è stato al centro del dibattito sulla stampa polacca nel 2010. Significativa è stata l’analisi fatta dall’opinionista del settimanale «Polityka», Adam Krzemiński, che nel maggio del 2010 ha ricordato come la presa del potere di Putin (nel 2000) sia stata un momento decisivo per i cambiamenti geopolitici su tutto lo spazio post-sovietico. In Russia la politica aggressiva non solo nei confronti della Cecenia (che comunque faceva parte della Federazione russa), ma anche dei paesi dell’ex Unione Sovietica quali Ucraina, Bielorussia e Georgia e i tentativi di isolamento della Polonia, che cercavano di ostacolarne il cammino verso le strutture occidentali, sono stati incontrastati. Nell’opinione non solo degli osservatori occidentali lo scopo della politica aggressiva di Putin era di “reintegrare” questi paesi nell’impero, certamente non più sovietico, ma russo. Sebbene Krzemiński abbia indicato nell’impatto emotivo suscitato dal disastro di Smolensk una delle fonti del cambiamento dell’atteggiamento russo nei confronti della Polonia, ha ricordato che la revisione della “politica polacca” da parte del Cremlino era iniziata già nel 2009 «dal viaggio di Putin a Westerplatte [celebrazioni dello scoppio delB. SIENKIEWICZ, Ukraina jednak buforowa, in «Gazeta Wyborcza», 3/09/2010; si trattava della risposta polemica all’articolo di: B. BERDYCHOWSKA - H. WUJEC, W rocznicn aktu niezale{ności Ukrainy. Idee spuszczone ze smyczy, in «Gazeta Wyborcza», 25/08/2010. Cfr. anche M. WOJCIECHOWSKI, Rady dla prezydenta Komorowskiego. Aktywniej na wschód od Bugu, in «Gazeta Wyborcza», 26/08/2010. Cfr. anche T. KAPUÒNIAK, Ukraina jako obszar wp(ywów mindzynarodowych po zimnej wojnie, Instytut Europy Òrodkowo-Wschodniej, Warszawa-Lublin 2008. 28 S. BIELAŃSKI, L’assenza dell’UE e il cordoglio della Russia, in «L’Opinione», 20/04/2010. 27 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 64 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd 4-11-2010 9:31 Pagina 65 La Polonia tra Europa e Russia la seconda guerra mondiale a Danzica], seguito poi dalla sua visita a Katyń e della condanna del patto Stalin-Hitler». Contemporaneamente l’opinionista della «Polityka» ha sottolineato che nel caso della Polonia la politica russa non si è concentrata soltanto sugli aspetti simbolici, ma anche su “calcoli concreti”. Secondo Krzemiński quindi negli anni precedenti (dal 2000 al 2008): «La Russia non è riuscita a isolare la Polonia, al contrario promuovendo sentimenti di stampo staliniano (che peraltro piacevano a una parte consistente della società russa), da sola si è auto-isolata dall’Occidente europeo. E invece la Russia ha bisogno dell’Europa (…) se non vuole rimanere di fatto un paese che dispone di risorse naturali, ma perde la competizione economica con la Cina»29. Al dibattito “russo” come pure a quello “ucraino” ha partecipato attivamente il più diffuso quotidiano politico polacco, «Gazeta Wyborcza»30. Nel 2010, il dibattito “russo” del giornale si è focalizzato sull’evoluzione della scena politica russa, mettendo in rilievo il vero o presunto conflitto fra Putin e Medvedev31. In occasione dei 25 anni della “perestrojka” inaugurata di Gorbaciov, nel maggio del 2010, la «Gazeta» ha titolato: Ci sarà una seconda perestrojka in Russia?32. Nel settembre successivo lo stesso giornale ha pubblicato l’analisi della politologa russa Lilia Shevtsova secondo la quale non esiste nessuna contraddizione sostanziale nel tandem Medvedev-Putin e il loro presunto rapporto conflittuale sarebbe un puro gioco offerto all’opinione pubblica occidentale e in modo particolare agli intellettuali occidentali definiti con ironia «utili idioti di Putin»33. La redazione del giornale ha però seguito una linea di sostegno al “riformatore” Medvedev, così come espresso dallo stesso Adam Michnik che si è autodefinito «un russofilo antisovietico»34. «Gazeta Wyborcza» – impegnandosi direttamente nelle questioni interne russe – ha sostenuto il “disgelo” fra la Polonia e la Russia. Per Marcin Wojciechowski la “riconciliazione polacco-russa” sarebbe addirittura un «prodotto da esportazione», mettendo in rilievo il fatto che in Occidente si parla di un “naturale conflitto” fra polacchi e russi dovuto alle tragiche esperienze storiche e all’attuale rivalità nello spazio ex-sovietico e in particolare in Ucraina. Quindi i cambiamenti nei rapporti polacco-russi possono essere visti pure in Occidente come un’opportunità di «miglioramento delle relazioni di tutto il mondo occidentale con la Russia»35. Non è un caso che proprio su «Gazeta Wyborcza» il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha pubblicato un suo articolo in occasione della visita ufficiale a Varsavia. E sempre sulla «Gazeta» si A. KRZEMIŃSKI, Jaki sens ma Rosja, in «Polityka», p. 63. Cfr anche: M. OSTROWSKI, Jak grah z Rosjf, in «Polityka», pp. 84-87. 30 Vale la pena ricordare che dalla sua fondazione il direttore del giornale è Adam Michnik, l’ex dissidente di sinistra e militante dell’opposizione anticomunista nella cosiddetta Polonia popolare (Prl), ma pure importante uomo politico nella Polonia democratica. 31 M. WOJCIECHOWSKI, Jak nie Stalin, to co?, in «Gazeta Wyborcza», 8-9/05/2010; cfr. anche l’intervista di S. KOVALIOVA rilasciata a M. WOJCIECHOWSKI, Rosja i Stalin. Trudne po{egnanie, in «Gazeta Wyborcza», 10-11/04/2010. 32 «Gazeta Wyborcza», 15-16/05/2010. 33 L. SHEVTSOVA, Po{yteczni idioci Putina, in «Gazeta Wyborcza», 4-5/09/2010. 34 Cfr. A. MICHNIK, Wyznania antysowieckiego rusofila, in «Gazeta Wyborcza», 2-3/10/2010. 35 M. WOJCIECHOWSKI, Nasz towar eksportowy, in «Gazeta Wyborcza», 29/09/2010. 29 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 65 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd dossier 4-11-2010 9:31 Pagina 66 L’Europa e il suo posto nel mondo possono ritrovare le riflessioni dell’ex capo della diplomazia polacca Adam D. Rotfeld per il quale i cambiamenti nelle relazioni polacco-russe potrebbero permettere alla Polonia di «partecipare all’ideazione della strategia dell’Occidente nei confronti della stessa Russia»36, e del politologo russo Sergej Karaganov (in Russia apparso sulla governativa «Rossijskaja Gazieta») in cui si propone che l’Unione paritaria della Russia e dell’Europa diventi di fatto il «partenariato per la modernizzazione» grazie al quale il “soft power” europeo potrebbe unirsi al “hard power” dell’importante potenziale strategico della Russia37. Al contrario un giornale di centro-destra, «Rzeczpospolita», ha trattato con scetticismo il “reset” nei rapporti polacco-russi. L’articolo di Karaganov e le sue proposte sono stati criticati da Piotr Skwieciński, secondo il quale Karaganov presenta una visione «che se fosse realizzata avrebbe un enorme impatto sugli equilibri della politica mondiale»; ed è una visione che «i russi (e anche gli intellettuali occidentali pronti ad appoggiarli) finora avevano soltanto sondato (…) mentre Karaganov l’ha presentata apertamente». Per Skwieciński il vero motivo dell’attuale “disgelo” nei rapporti fra la Polonia e la Russia è «la neutralizzazione di un’eventuale posizione contraria della Polonia ai progetti di avvicinamento (e in prospettiva all’integrazione) tra l’Unione europea e la Russia»38. Altro pubblicista di «Rzeczpospolita», Marek Magierowski ha fatto invece un’analisi critica della politica estera sia del governo Tusk sia di Jaros(aw Kaczyński secondo la quale la Polonia è di fatto «il condominio russo-tedesco». Magierowski sostiene invece che «Le priorità geopolitiche della Polonia consistono nella creazione di una situazione in cui i paesi della regione conducano una politica di amicizia verso la Polonia basata sui valori democratici dell’Occidente». E solo in questo contesto dovrebbero essere visti e sostenuti i rapporti con la Russia, anche se in questo caso si tratterebbe «di un paese non democratico e aggressivo nei confronti dei suoi vicini»; ma considerato che anche la Russia “cambia” vale la pena portare avanti, in maniera cauta, una politica di “riconciliazione”39. In conclusione, e a prescindere dalla valutazione degli effetti del dibattito polacco sulla “Ostpolitk” del governo di Varsavia, si può constatare che l’insieme delle relazioni fra la Russia e la Polonia abbia subito cambiamenti profondi. Senza dare credito alle tesi complottistiche sulla “paternità russa” del disastro di Smolensk e sulla morte del presidente Lech Kaczyński (sostenute in alcuni am- A.D. ROTFELD, Polska-Rosja. Czas na zmiann!, in «Gazeta Wyborcza», 3-4/07/2010. Alla necessità di condurre l’“Ostpolitik” in un particolare contesto europeo, ovvero quello che potrebbe coinvolgere direttamente anche la Germania, M. WOJCIECHOWSKI, Berlin, Warszawa i Wschód, in «Gazeta Wyborcza», 11-12/06/2010. 37 S. KARAGANOW, Postawmy na Zwifzek, in «Gazeta Wyborcza», 28-29/08/2010. 38 P. SKWIECIŃSKI, Rozgrywka z Polskf – to nie {adna polityka, in „Rzeczpospolita”, 3/09/2010. 39 M. MAGIEROWSKI, Kto rzfdzi w naszym kondominium, in «Rzeczpospolita», 14/09/2010. Cfr. anche il dibattito sul X Forum della Politica Estera Polacca: Polska polityka zagraniczna po 20-tu latach demokracji. Czas zmian i redefinicji, Warszawa 14/09/2010; e inoltre: B. KOSZEL (a cura di), Europa w Polsce. Polska w Europe, Wydawnictwo Forum Naukowe, Poznań 2004; A. KUKLIŃSKI - K. PAW[OWSKI (a cura di), Europe – The Global Challenge, Wy{sza Szko(a Biznesu – National-Louis University, Nowy Sfcz, 2005. 36 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 66 ispi_VOLAIT@0057-0067#.qxd 4-11-2010 9:31 Pagina 67 La Polonia tra Europa e Russia bienti della destra polacca) e al di là del proclamato “disgelo” fra Varsavia e Mosca, nei rapporti reali esistono ancora problemi di difficile risoluzione concernenti sia la “delimitazione” dell’impegno di entrambi i paesi sul territorio postsovietico (con particolare riferimento all’Ucraina e alla Bielorussia), la definizione precisa degli ambiti della collaborazione economica e infine le differenze oggettive concernenti una delle questioni cruciali, cioè la sicurezza energetica. Va però sottolineato che dal punto di vista polacco qualsiasi questione controversa nei rapporti con la Russia dovrebbe essere risolta nell’ambito di una “Ostpolitik” non solo della Polonia, ma di tutta l’Unione europea. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 67 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 68 osservatorio internazionale ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 69 Barack Obama due anni dopo Alessandro Colombo Barack Obama due anni dopo Alla fine del 2010, Barack Obama avrà raggiunto la metà del proprio mandato e, per peso specifico, persino qualcosa di più, se si considera che l’ultimo anno di presidenza sarà assorbito in larghissima parte dalla campagna per la rielezione. È giunto il momento, quindi, di fermarsi a riflettere sulle grandi linee della politica estera e di sicurezza della sua amministrazione. A maggior ragione perché non sono mancate, negli ultimi mesi, le iniziative e le prese di posizione su temi sensibili quali la non proliferazione nucleare, la questione mediorientale, la riforma della Nato, i rapporti con le grandi potenze emergenti, oltre naturalmente alle questioni aperte delle guerre in Afghanistan e in Iraq e della lotta al terrorismo. Mentre, tra febbraio e maggio 2010, queste scelte sono state riassunte e razionalizzate in tre documenti programmatici di grande rilievo, anche perché immediatamente comparabili ai documenti corrispondenti dell’amministrazione precedente: la Quadrennial Defense Review in febbraio, la Nuclear Posture Review in aprile e, finalmente, la nuova National Security Strategy in maggio. Per potere valutare l’operato e l’elaborazione strategica dell’amministrazione Obama, tuttavia, occorre tenersi in bilico tra le due forzature polemiche di segno opposto che continuano a dominare il dibattito pubblico (e, in misura solo di poco minore, la riflessione 1 scientifica). La prima e, almeno in Europa, di gran lunga la più comune, è quella di chi scommette sulla radicale rottura tra l’attuale amministrazione e quella precedente di George W. Bush, sulla scia delle aspettative suscitate dalla campagna presidenziale del 2008 e culminate nell’attribuzione del premio Nobel per la pace. L’altra lettura, diffusa soprattutto negli Stati Uniti tra i sostenitori disillusi della nuova amministrazione, vede invece un Barack Obama sostanzialmente continuatore degli orientamenti dell’amministrazione precedente, ai quali aggiungerebbe soltanto la grazia del carisma e il freno dell’indeterminatezza. Sebbene opposte, queste letture muovono dalle stesse tre confusioni: quella tra il primo e il secondo mandato della passata amministrazione Bush1; quella tra le preferenze interne delle due amministrazioni e i loro (già diversissimi) contesti internazionali; quella tra gli obiettivi e i risultati delle rispettive politiche. Sgombrare il campo da queste confusioni sarà il primo passo della nostra riflessione. ALESSANDRO COLOMBO è Professore Ordinario di Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano e Direttore dell’Osservatorio Sicurezza e Studi Strategici dell’ISPI Il contesto internazionale e le scelte dell’amministrazione Obama Cominciamo dunque dal riassumere in che cosa è consistita, fino a oggi, la politica estera di Barack Obama par- Per una breve rassegna delle differenze tra i due mandati dell’amministrazione Bush, si veda A. COLOMBO, Lo scenario internazionale tra continuità e discontinuità, in A. COLOMBO - N. RONZITTI (a cura di), L’Italia e la politica internazionale, Bologna 2007, in particolare pp. 34-37. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 69 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 70 internazionale tendo, come dovrebbe essere scontato in qualunque analisi della politica estera, dal contesto internazionale nel quale l’amministrazione si è trovata a operare, e dalle differenze tra questo contesto e quello affrontato dall’amministrazione Bush. La prima differenza, che sarebbe ingenuo trascurare, è la mancanza di uno shock esterno del tipo dell’11 settembre 2001. Sebbene molti degli orientamenti dell’amministrazione Bush fossero già definiti sin dal momento dell’elezione, altri furono introdotti o almeno modificati dagli attacchi di AlQaeda e dalla reazione successiva dell’opinione pubblica americana. In altre parole, anche senza trascurare che lo stesso shock avrebbe potuto essere interpretato e affrontato diversamente, non c’è dubbio che l’agenda della passata amministrazione fu almeno in parte ridefinita dall’iniziativa non prevista di un attore esterno. In confronto, l’amministrazione Obama beneficia di un grado più alto di libertà di scelta; a maggior ragione in quanto il peso dell’11 settembre continua a diminuire tanto agli occhi dell’opinione pubblica americana quanto nel dibattito intellettuale e scientifico. In compenso, nella rielaborazione della politica estera degli Stati Uniti l’amministrazione Obama si è trovata sulla strada altri due vincoli macroscopici ereditati in diversa misura dall’amministrazione precedente. Il primo e, in prospettiva, il più stringente, è la grande crisi economica e finanziaria scoppiata tra il 2007 e il 2008 e desti- Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 70 nata a ridare corpo allo spettro del declino, anche in virtù del timore di un prossimo spostamento del baricentro dell’economia internazionale verso l’Asia e la Cina. L’altro vincolo, di natura politico-militare, è la gestione del disimpegno dalle due guerre infinite intraprese dall’amministrazione Bush, quella in Iraq (dove il ritiro delle truppe americane procede secondo i tempi previsti, ma in un quadro di perdurante fragilità del contesto politico e sociale) e quella in Afghanistan (dove sono impiegati attualmente circa 100.000 militari americani e i cui costi hanno superato nel frattempo quelli della missione irachena). Nella rielaborazione della politica estera degli Stati Uniti l’amministrazione Obama si è trovata sulla strada altri due vincoli macroscopici ereditati in diversa misura dall’amministrazione precedente Infine, l’amministrazione Obama si è trovata (e rischia di trovarsi sempre di più) ad affrontare la crisi e, nella peggiore delle ipotesi, la decomposizione dell’ordine regionale in diverse delle regioni di interesse primario: il Medio Oriente, dove allo stallo del negoziato israelo-palestinese e alla crisi iraniana si è aggiunto il brusco raffreddamento della tradizionale amicizia tra Israele e Turchia; l’Asia meridionale, per l’intreccio sempre più stretto tra la guerra afghana e la rivalità tra India e Pakistan; l’Asia orientale, destabiliz- ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 71 Barack Obama due anni dopo zata da un lato dall’interminabile crisi coreana e, dall’altro, dall’impatto della crescita cinese; l’Europa stessa, scossa dalle difficoltà non più nascondibili del processo d’integrazione e, nella stessa misura, dalla ripresa delle dinamiche competitive interne. In questo contesto complessivamente sfavorevole, il progetto di rilancio della politica estera degli Stati Uniti è avvenuto (non senza qualche frizione) tanto sul terreno discorsivo quanto su quello più importante delle politiche. Sul primo, la nuova amministrazione si è sforzata di migliorare l’immagine internazionale dell’America, riprendendo la retorica multilaterale dell’amministrazione Clinton, promuovendo utopie di sicuro impatto emotivo quali il disarmo nucleare e beneficiando in generale delle capacità carismatiche di Barack Obama. Sul terreno più impegnativo delle politiche, invece, l’amministrazione democratica ha cercato prima di tutto di migliorare i rapporti con le altre principali potenze, Cina e Russia in testa, riassestando allo stesso tempo i rapporti con i tradizionali partner e alleati, a partire questa volta dall’Unione europea. Sul fronte della cosiddetta guerra al terrore, ha persino rafforzato l’offensiva militare contro Al-Qaeda, pur perseguendo un incerto disimpegno dall’Iraq e, più confusamente, dall’Afghanistan. Infine, anche nella gestione delle principali crisi internazionali (Corea, Iran, questione palestinese) l’amministrazione Obama ha optato in linea di principio per un approccio inclusivo e 2 3 multilaterale ma, in assenza di risultati, ha ripiegato su una combinazione non sempre convincente di ammonimenti, minacce e nuove aperture2. Una continuità scontata. Il rilancio della leadership americana Quanto è cambiata, dunque, la politica estera degli Stati Uniti in questo primo anno e mezzo di presidenza? Al di sotto delle evidenti differenze di stile e di linguaggio, non ci vuol molto a riconoscere come anche nel passaggio da George W. Bush a Barack Obama (così come in quello precedente da Bill Clinton a Bush) abbiano prevalso complessivamente gli elementi di continuità. In questo riconoscimento, oltre tutto, non c’è niente di sorprendente. Contrariamente a ciò che aveva potuto essere temuto in passato, la politica estera dei paesi democratici si è rivelata in genere più coerente e meno discontinua di quella dei paesi non democratici; tra le altre cose, proprio perché gli atteggiamenti dell’opinione pubblica verso la politica estera risultano poco mutevoli e, anzi, organizzati in schemi cognitivi gerarchici e costanti3. La continuità tra le amministrazioni che si sono succedute nel sistema internazionale post-bipolare comincia già dall’interpretazione del sistema internazionale e, al suo interno, del ruolo che gli Stati Uniti sarebbero chiamati a svolgervi. Nel linguaggio dell’amministrazione Obama sono as- W.R. MEAD, The Carter Syndrome, in «Foreign Policy», January-February 2010, pp. 58-64. Per una breve ma efficace sintesi di questo dibattito si veda A. PANEBIANCO, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna 1997, pp. 68-76. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 71 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 72 internazionale senti, sia ben chiaro, i toni allo stesso tempo messianici e arroganti con i quali l’amministrazione Bush esprimeva il primato americano; mentre, al loro posto, si è rifatta strada qualcosa di simile alla retorica clintoniana dell’America come «egemonia benigna» e «nazione necessaria». E tuttavia, sebbene espressa diversamente, la leadership americana è riaffermata con decisione e non senza orgoglio. Nella nuova National Security Strategy, il riferimento esplicito alla leadership compare circa cinquanta volte, con riferimento alla dimensione politica, militare, economica, scientifica, tecnologica e persino (ma non sorprendentemente) morale. E lo stesso vale, quasi a maggior ragione, per il suo complemento geopolitico, la globalità. Gli Stati Uniti, recita sin dalla prima pagina la Quadrennial Defense Review, «sono l’unica nazione in grado di proiettare e sostenere operazioni su vasta scala a grandi distanze. Questa posizione eccezionale genera un obbligo a essere amministratori responsabili del potere e dell’influenza che la storia, la determinazione e le circostanze ci hanno consegnato»4. Contrariamente alle fantasie europee, il mondo di Obama non è un mondo multipolare; e non lo è, potremmo aggiungere, a buon ragione, non solo perché così non lo vede l’elettorato americano ma, soprattutto, perché il multipo- US Department of Defense, Quadrennial Defense Review, 2010, p. 1. White House, National Security Strategy, Washington 2010, p. 22. Lungi dall’essere una novità assoluta introdotta dall’amministrazione Bush, la disponibilità a impiegare, quando necessario, «la nostra forza militare in modo unilaterale e con decisione» era già stata rivendicata anche dall’amministrazione democratica precedente di Bill Clinton (White House, A National Security Strategy for a New Century, Washington 1999, p. 1) che, non a caso, vi ricorse ripetutamente nella ex Jugoslavia (1995 e 1999), in Iraq (1996 e 1999), oltre che in teatri di operazioni più occasionali (Haiti nel 1994-95, Sudan e Afghanistan nel 1999). 6 US Department of Defense, Nuclear Posture Review, 2010, p. 16. 4 5 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 72 larismo può essere sì preferito ma non scelto, perché non dipende da ciò che gli attori vogliono ma da come è distribuito il potere tra di loro. Non casualmente, così come le due amministrazioni precedenti anche quella attuale non rinuncia a riservare all’America «il diritto di agire unilateralmente se necessario per difendere la nostra nazione e i nostri interessi»5, fino a «considerare l’uso di armi nucleari in circostanze estreme per difendere gli interessi degli Stati Uniti, dei propri alleati e dei propri partner»6. Non solo: anche quando esprime la propria preferenza per le istituzioni internazionali, l’amministrazione Obama si tiene alla larga dall’ingenua associazione tra unipolarismo e unilateralismo, da un lato, e multilateralismo e multipolarismo dall’altro. L’opzione multilaterale continua a significare, in realtà, cose del tutto diverse in Europa e negli Stati Uniti. Alla maggior parte degli europei il multilateralismo appare come un modo di temperare o imbrigliare l’egemonia americana; per gli americani, è un modo di renderla meno costosa e più accettabile agli altri. Ai primi, l’opzione multilaterale appare quasi come un riconoscimento del fallimento dell’unipolarismo; agli altri appare, piuttosto, come l’unico modo di salvarlo, ridistribuendo i suoi costi tra gli alleati, i partner e i semplici beneficiari. ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 73 Barack Obama due anni dopo La conferma degli obiettivi La stessa coerenza è ravvisabile, senza troppe sorprese, sul versante degli obiettivi strategici di lungo periodo. Dalla fine del bipolarismo a oggi questi sono rimasti grossomodo costanti, coerentemente con gli orientamenti di fondo della cultura politica americana e, ancora di più, con i caratteri dominanti del contesto internazionale nel quale gli Stati Uniti si trovano a operare. Pur in mancanza di un chiaro competitore strategico del tipo di ciò che fu nel sistema internazionale bipolare l’Unione Sovietica, infatti, gli Stati Uniti dispongono di almeno un obiettivo chiaramente dettato dalla struttura unipolare del sistema: quello di rimanere al vertice della gerarchia della potenza e del prestigio – vale a dire, di non cessare di essere la potenza leader del sistema internazionale. Gli Stati Uniti dispongono di almeno un obiettivo chiaramente dettato dalla struttura unipolare del sistema: quello di rimanere al vertice della gerarchia della potenza e del prestigio Mentre, per perseguire razionalmente questo obiettivo, non hanno faticato a individuare almeno altri cinque obiettivi secondari e strumentali rispetto al principale, sostanzialmente confermati anche dall’amministrazione Obama: assicurarsi «la propria sicurezza e la propria libertà d’azione», prevenendo l’emergere di potenziali 7 8 sfidanti su scala globale e combattendo, intanto, contro le organizzazioni terroristiche in grado di colpire il territorio americano e gli interessi americani oltremare; impedire la formazione di egemonie ostili nelle regioni considerate di interesse primario, l’Europa, l’Asia nord-orientale, l’Asia orientale e la fascia che corre dal Medio Oriente all’Asia centro-meridionale; combattere contro la proliferazione di armi di distruzione di massa e lo sviluppo di sistemi missilistici da parte di potenze ostili, anche per evitare che «le truppe americane in dispiegamento avanzato cessino di godere della relativa santuarizzazione di cui hanno goduto nei conflitti dalla fine della guerra fredda»7; promuovere e garantire un’economia internazionale stabile e aperta, vigilando sulla libertà di accesso alle linee di comunicazione, ai mercati chiave e alle risorse strategiche (a cominciare da quelle energetiche); prevenire o contenere il fallimento o il collasso di singoli stati o intere regioni, sulla base del riconoscimento che «dove i governi non sono capaci di soddisfare i bisogni elementari dei propri cittadini e di assolvere la propria responsabilità di fornire sicurezza entro i propri confini, le conseguenze sono spesso globali e possono minacciare direttamente il popolo americano»8. Meno scontata e, non casualmente, molto più controversa fra i sostenitori della prima ora di Barack Obama, è la continuità progressivamente emersa sul terreno della guerra contro AlQaeda e gli altri gruppi terroristici. Da US Department of Defense, Quadrennial Defense Review, cit., p. 31. White House, National Security Strategy, cit., p. 26. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 73 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 74 internazionale un lato è proseguita, anzi si è persino allargata la politica degli omicidi mirati e dei bombardamenti «chirurgici» contro terroristi o presunti tali, attraverso la moltiplicazione delle missioni dei droni all’interno del territorio pakistano e la discussa decisione di autorizzare l’invio di forze speciali in paesi sia alleati che ostili in Medio Oriente, Asia centrale e Corno d’Africa per raccogliere informazioni e stabilire legami con gruppi locali9. Dall’altro lato, l’amministrazione Obama non è riuscita a rispettare la promessa elettorale di chiudere il campo di prigionia di Guantanamo e, soprattutto, ha rinunciato a perseguire i responsabili politici e militari delle violazioni dei diritti umani commesse durante l’amministrazione precedente, rinfocolando i dubbi sulla credibilità di un divieto indebolito dalla garanzia dell’impunità. (anzi già largamente diffusa anche prima, almeno a partire dalla dottrina Nixon e dalla sindrome del «declino americano» che accompagnò tutti gli anni Settanta): la preoccupazione di tenere in equilibrio impegni e risorse evitando la malattia mortale delle potenze egemoni, la crisi fiscale. Come ammonisce Barack Obama sin dalla prefazione alla nuova National Security Strategy, «gli oneri di un secolo ancora giovane non possono cadere soltanto sulle spalle dell’America – anzi, ai nostri avversari piacerebbe vedere l’America prosciugare la propria forza estendendo troppo il proprio potere»10. Tra continuità e discontinuità. Lo spettro dell’overstretch È a partire da questa preoccupazione condivisa che si aprono, non a caso, tutte le principali incognite della politica estera degli Stati Uniti del nuovo secolo; se e quanto assumersi direttamente l’onere del mantenimento dei diversi ordini regionali e se e quanto scaricarlo, invece, sui principali alleati; una volta scelto di assumere l’iniziativa, se agire da soli o con alleati occasionali oppure nel quadro di alleanze e contesti multilaterali permanenti; se, tanto a livello globale quanto a livello regionale, evitare l’emergere di potenze ostili cercando di prevenire l’ostilità, Le continuità nell’impianto complessivo della politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti non devono nascondere, tuttavia, le altrettanto significative discontinuità introdotte dalla nuova amministrazione. A condizione di non perdere di vista che persino queste ultime discendono da una preoccupazione comune non soltanto alle due ultime amministrazioni ma, potremmo dire, a tutte le amministrazioni americane del dopoguerra fredda M. MAZZETTI, U.S. Is Said to Expand Secret Military Acts in Mideast Region, in «New York Times», May 24, 2010. 10 B. OBAMA, Prefazione a White House, National Security Strategy, 2010. 9 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 74 Le continuità nell’impianto complessivo della politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti non devono nascondere, tuttavia, le altrettanto significative discontinuità introdotte dalla nuova amministrazione ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 75 Barack Obama due anni dopo attraverso il coinvolgimento delle potenze emergenti in istituzioni multilaterali comuni (engagement), oppure agendo direttamente sulla potenza, attraverso l’isolamento, l’accerchiamento e il confronto; e, in questo secondo caso, se accontentarsi di una strategia difensiva di dissuasione, o puntare a eliminare la minaccia alla radice attraverso l’uso preventivo della forza, la sovversione e il regime change. Nel modo di affrontare queste incognite, le continuità tra l’elaborazione strategica di Barack Obama e quella di George W. Bush cedono finalmente il posto alle differenze; più marcate, naturalmente, rispetto alla rigida impostazione propria del primo mandato dell’amministrazione repubblicana, ma tutt’altro che irrilevanti anche rispetto al ripensamento avviato nel secondo mandato sotto la guida di Condoleeza Rice. Con una buona approssimazione, la cosiddetta «dottrina Bush» – dettata, non lo si dimentichi, non soltanto dalle preferenze interne degli uomini dell’amministrazione, ma anche dallo shock esterno dell’11 settembre – era costruita nel suo nucleo originario su un insieme coerente (sebbene, alla prova del fuoco, fallimentare) di assunzioni: una rappresentazione del contesto internazionale tutta incentrata sulla «guerra globale al terrore» e sulla sua presunta vocazione a riassorbire tutti i conflitti in una cornice unitaria; una declinazione in senso offensivo della nozione di ordine internazionale, basata sulla convinzione che esso non potesse più equivalere alla di- fesa dello status quo ma, al contrario, richiedesse di imporre mutamenti nell’assetto delle diverse aree regionali, anche attraverso il ricorso preventivo all’uso della forza; un’interpretazione dell’instabilità internazionale in chiave di primato della politica interna, ancorata all’endiadi pace/democrazia e orientata all’esportazione di quest’ultima nelle aree valutate come instabili proprio perché non democratiche; la contemporanea estensione dell’impegno americano dal mantenimento dell’ordine internazionale alla vigilanza sull’ordine interno dei diversi paesi; la disponibilità, orgogliosamente rivendicata da tutti i principali documenti ufficiali, a «spendere» senza remore lo strapotere militare per ottenere i propri obiettivi, cioè preservare il momento unipolare, esportare la democrazia e prevenire sul nascere le minacce alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, dei loro amici e dei loro alleati; la svalutazione dei contesti multilaterali permanenti del tipo delle Nazioni Unite e della stessa Nato, a vantaggio di coalizioni ad hoc potenzialmente aperte a tutti ma sempre limitate negli scopi e nella durata (coalitions of the willing); la convinzione che, tutte assieme, queste correzioni avrebbero consentito di diminuire i costi dell’egemonia degli Stati Uniti, ovviando allo sperpero di potere americano che George W. Bush aveva rimproverato al suo predecessore Bill Clinton. Proprio il fallimento di questa scommessa è alla radice del riorientamento imposto dall’amministrazione Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 75 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 76 internazionale Obama. Il suo primo e più scontato tassello è l’obiettivo di diminuire gli impegni internazionali per concentrarsi sul risanamento economico e sociale interno degli Stati Uniti; lo stesso obiettivo, si noterà facilmente, della fase iniziale di tutte le amministrazioni americane del dopoguerra fredda e, non casualmente, la stessa promessa che aveva già consentito a Bill Clinton di sconfiggere George Bush padre nel 1992 e a George Bush figlio di guadagnare la successione a Bill Clinton nel 2000. Sennonché, rispetto alle due passate amministrazioni, questo obiettivo non è stato ridimensionato o persino stravolto dall’evoluzione successiva del contesto internazionale. Se, infatti, l’amministrazione Clinton si era trovata molto presto a dover gestire il collasso della ex Jugoslavia e l’amministrazione Bush, a maggior ragione, gli attacchi dell’11 settembre, fino a questo momento nessuno shock esterno di portata equivalente ha potuto distogliere l’amministrazione e l’opinione pubblica americana dai propri problemi interni. Non stupisce, quindi, che tanto le principali iniziative dell’amministrazione – a cominciare dalla riforma sanitaria – quanto la sua stessa rielaborazione strategica siano rimaste prevalentemente orientate al versante domestico. «La nostra sicurezza nazionale», proclama enfaticamente la National Security Strategy, «comincia in casa. Ciò che accade all’interno dei nostri confini è sempre stato la sorgente della nostra forza, e questo è vero a maggior ragione in White House, National Security Strategy, cit., p. 9. S.M. WALT, Snoozing through the National Security Strategy, in «Foreign Policy» online, May 28, 2010. 13 Department of Defense, Quadrennial Defense Review, cit., pp. 41-42. 14 Ibidem, p. 10. 11 12 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 76 un’epoca di interconnessione come la nostra»11. A questo riorientamento si collega l’obiettivo di selezionare meglio e ricalibrare gli impegni militari degli Stati Uniti all’estero – pur con la difficoltà (e, forse, l’impossibilità)12 di conciliare tale ridimensionamento con il mantenimento della leadership globale e dei suoi risvolti militari: il dispiegamento avanzato di forze terrestri e gruppi navali, il contrasto globale alla proliferazione e al terrorismo, la garanzia dell’ordine e della stabilità delle principali aree regionali, l’ampliamento stesso dell’obiettivo e dei requisiti minimi dello strumento militare oltre lo standard familiare delle due grandi guerre regionali13. La ragione immediata di questa revisione è la lesson learned delle due guerre fallimentari (in termini di rapporto tra costi sopportati e obiettivi politici conseguiti) in Iraq e in Afghanistan. «Ogni decisione di impegnare le truppe americane in ambienti ostili» ammonisce la Quadrennial Defense Review «dovrebbe essere basata sulla considerazione degli interessi degli Stati Uniti e degli alleati, inclusi gli impegni negoziali, oltre che sui costi probabili e sui rischi prevedibili dell’azione militare»14. Ma alla base di ciò stanno tre altre preoccupazioni di più ampio respiro. La prima, di natura eminentemente strategica, è quella (già invocata più volte dai critici dell’amministrazione Bush) di evitare la trappola della provocazione implicita in ogni strategia terroristica: «reagire eccessivamente in ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 77 Barack Obama due anni dopo modo tale da aprire fratture tra l’America e certe regioni o religioni mina la nostra leadership e ci rende meno sicuri»15. La seconda preoccupazione, di natura reputazionale, riguarda invece la necessità di riequilibrare il peso di efficienza e legittimità: «sebbene l’uso della forza a volte sia necessario, ogni volta che potremo esauriremo le altre opzioni prima di ricorrere alla guerra, e soppeseremo attentamente i costi e i rischi dell’azione con i costi e i rischi dell’inazione. Quando poi la forza si rivelerà necessaria, continueremo ad agire in modi che riflettano i nostri valori e rafforzino la nostra legittimità, e cercheremo un ampio sostegno internazionale operando insieme a istituzioni quali la Nato e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite»16, poiché ciò «rafforza chi agisce in linea con gli standard internazionali mentre isola e indebolisce chi non lo fa»17. «Sebbene l’uso delle forza a volte sia necessario, ogni volta che potremo esauriremo le altre opzioni prima di ricorrere alla guerra, e soppeseremo attentamente i costi e i rischi dell’azione con i costi e i rischi dell’inazione» La preoccupazione decisiva, tuttavia, resta quella consueta di evitare l’overstretch, tanto per allentare la pressione sul personale delle forze armate americane che, a causa delle guerre in corso, ha già sostenuto turni multipli in Afghanistan, in Iraq e altrove18, quanto per non pregiudicare la posizione stessa degli Stati Uniti nel sistema internazionale. «Quando usiamo in modo eccessivo la nostra capacità militare, o rinunciamo a finanziare o impiegare strumenti complementari, o operiamo senza i nostri partner, allora il nostro strumento militare finisce sovra esteso, gli americani sopportano un peso maggiore, e la nostra leadership nel mondo è identificata troppo strettamente con la forza militare. E noi sappiamo che i nostri nemici aspirano a sovra estendere le nostre Forze armate e a provocare divisioni tra noi e coloro che condividono i nostri interessi»19. Il comprehensive engagement e la ridefinizione della comunità internazionale La novità più celebrata della politica estera di Barack Obama deriva sempre da questo punto. Diversamente dall’elaborazione strategica e dalla politica estera del primo mandato di George Bush – ma già molto meno rispetto alla revisione in corsa del secondo mandato – l’amministrazione Obama ha deciso di tornare a un approccio almeno in linea di principio multilaterale, fondato da un lato sulla modernizzazione dell’architettura istituzionale ereditata dalla seconda metà del Novecento20 e, dall’altro, sulla definizione di un’architettura più flessibile, che include le istituzioni internazionali esistenti ma non si esaurisce in esse21. White House, National Security Strategy, cit., p. 22. Ivi. 17 Ivi. 18 Department of Defense, Quadrennial Defense Review, cit., p. 6. 19 White House, National Security Strategy, cit., p. 18. 20 Ibidem, pp. 46-47. 21 Ibidem, pp. 40-41. 15 16 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 77 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 78 internazionale Questa svolta in senso multilaterale risponde, a sua volta, ad almeno due motivazioni realistiche. La prima, simboleggiata dall’insistenza con la quale Barack Obama continua a definire la missione afghana come una missione non americana bensì della Nato, è la necessità di dividere i costi politici, economici e militari dell’egemonia con gli alleati. La seconda, ancora più stringente, è il riconoscimento che la distribuzione del potere a livello internazionale si sta modificando a vantaggio di un piccolo gruppo di grandi potenze emergenti (Cina, India e Russia prima di tutte) e che, nella nuova condizione, gli Stati Uniti hanno «bisogno di un coinvolgimento più ampio e più inclusivo con i paesi responsabili della maggior parte della produzione e del commercio mondiale»22. Non a caso, pur muovendo dalle stesse premesse, il comprehensive engagement23 promosso dall’amministrazione Obama si spinge ben oltre la correzione multilaterale del secondo Bush. Sul piano discorsivo, quest’ultima rimaneva frenata dall’enfasi (declinante, ma mai del tutto scomparsa) sul tema della democrazia e del rispetto dei diritti umani; mentre, sul piano dei comportamenti concreti, decisioni quali il dispiegamento dello scudo antimissile in Polonia e Repubblica Ceca contribuivano periodicamente a raffreddare, se non ad antagonizzare i rapporti con i possibili partner. La politica di strategic reassurance inaugura- Ibidem, p. 33. Ibidem, pp. 11-12. 24 K. ROTH, Empty Promises? Obama’s Hesitant Embrace of Human Rights, in «Foreign Affairs», MarchApril 2010, pp. 10-16. 25 P. BAKER, Obama Puts His Own Mark on Foreign Policy Issues, in «New York Times», April 13, 2010. Non è un caso che una valutazione positiva di questo riorientamento sia espressa da un commentatore di sicuro impianto realista quale C.A. KUPCHAN, Enemies Into Friends. How the United States Can Court Its Adversaries, in «Foreign Affairs», March-April 2010, pp. 120-134. 22 23 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 78 ta dall’amministrazione Obama sin dai primi mesi del proprio mandato ha accettato di pagare un prezzo significativo su tutti e due i piani. Su quello discorsivo, l’imperativo di coinvolgere le grandi potenze emergenti (comprese, naturalmente, quelle non democratiche quali la Cina) in una architettura comune ha richiesto di abbassare i toni del richiamo alla democrazia e ai diritti umani – anche a costo di sollevare le perplessità e le critiche di una parte del tradizionale milieu intellettuale democratico24. Sul piano delle politiche, soprattutto, l’obiettivo della strategic reassurance è passato dal tentativo di disinnescare i dilemmi della sicurezza attivati dall’amministrazione precedente, tanto nei confronti di potenziali partner globali quali la Russia e la Cina quanto, almeno nella fase iniziale, nei confronti di tradizionali antagonisti regionali quali l’Iran – ma con lo svantaggio, anche qui, di sollevare la diffidenza di qualcuno degli alleati (Georgia, Polonia, Israele stesso), suggerendo oltre tutto l’immagine paradossale di un Barack Obama realpolitiker contrapposto agli eccessi ideologici dell’amministrazione precedente25. Quella che si profila è nientedimeno che una rappresentazione alternativa della comunità internazionale: molto esigente e, quindi, necessariamente esclusiva quella di George W. Bush, centrata su un nocciolo duro di democrazie e sospettosa, se non dichiaratamente ostile nei confronti delle grandi ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 79 Barack Obama due anni dopo potenze non democratiche; il più possibile inclusiva e, quindi, necessariamente meno esigente quella di Barack Obama, disposta ad abbassare la soglia d’accesso pur di coinvolgere il maggior numero possibile di attori significativi, tanto a livello globale quanto a livello regionale. L’accantonamento della formula di semplificazione del terrore Ma ad aprire lo spazio per l’emergere di questa nuova rappresentazione è una visione altrettanto diversa della congiuntura internazionale. L’amministrazione Bush, come già accennato, aveva fatto della guerra al terrore non soltanto la vicenda prioritaria, ma anche la cornice unitaria della politica internazionale del nuovo secolo: una sorta di sostituto strategico e ideologico della guerra fredda capace, come questa, di dividere il sistema internazionale in due campi, subordinando a se stessa tutte le altre vicende. Rispetto a questa forzatura pratica e teorica, l’amministrazione Obama ha compiuto un deciso passo indietro. È vero che, come nei documenti della passata amministrazione, anche nel primo documento della nuova gli Stati Uniti sono dichiarati «una nazione in guerra»26, anzi in una guerra che «continua in tutto il mondo»27. Ma, questo è il punto, il destinatario di questa guerra non è più un’entità indefinita e indefinibile quale il «terrorismo» o, peggio, il «terrore» – una nozione fatta apposta per raggruppare sotto la stessa etichetta i gruppi terroristici, gli stati canaglia e la stessa proliferazione delle armi di distruzione di massa. Nei documenti dell’amministrazione Obama il nemico torna a essere un soggetto specifico, Al Qaeda: «gli Stati Uniti stanno combattendo una campagna globale contro Al-Qaeda e i gruppi terroristici affiliati. (…) Noi cercheremo sempre di delegittimare l’uso del terrorismo e di isolare coloro che lo impiegano. Tuttavia questa non è una guerra globale contro una tattica, il terrorismo, o una religione, l’Islam. Siamo in guerra contro una rete specifica, Al-Qaeda, e i gruppi terroristici affiliati che sostengono gli sforzi di attaccare gli Stati Uniti, i nostri alleati e i nostri partner»28. Sarebbe un errore vedere in questa ridefinizione una pura e semplice questione semantica. Dietro di essa, infatti, si profilano alcune delle novità più importanti introdotte dalla nuova amministrazione. La prima è il drastico ridimensionamento politico delle imprese militari ereditate dall’amministrazione Bush: le guerre in Iraq e in Afghanistan e la stessa guerra contro il terrorismo. Gli Stati Uniti, recita la National Security Strategy, «stanno combattendo in questo momento due guerre (…) e centinaia di miliardi di dollari sono destinati al finanziamento di questi conflitti. (…) Tuttavia queste guerre – e i nostri sforzi globali per contrastare efficacemente l’estremismo violento – sono solo un elemento del nostro ambiente strategico e non Department of Defense, Quadrennial Defense Review, cit., p. 5. Ibidem, p. 6. 28 White House, National Security Strategy, cit., pp. 19-20. 26 27 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 79 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 80 internazionale possono definire l’impegno dell’America nel mondo. Il terrorismo è soltanto una delle molte minacce che risultano più significative in una età globale»29. La seconda novità, già chiaramente delineata negli ultimi anni dell’amministrazione precedente, è il definitivo spostamento del baricentro della politica estera degli Stati Uniti dal «regime emergenziale» adottato all’indomani dell’11 settembre 2001 alle considerazioni di lungo periodo più consone alle responsabilità di una grande potenza egemone; e, in questo passaggio, dalla competizione con attori minori o marginali quali i gruppi terroristici e i rogue states alla dinamica più tradizionale dei rapporti diplomatici e strategici con le altre maggiori potenze del sistema internazionale. «È giunto il momento» scrive la Quadrennial Defense Review «di concentrarsi su una architettura strategica in grado di servire meglio gli interessi degli Stati Uniti, degli alleati e dei partner nel medio e lungo periodo»30. La National Security Strategy è ancora più esplicita: «dobbiamo riequilibrare le nostre priorità di lungo periodo in modo da andare con successo oltre le guerre di oggi, e concentrare la nostra attenzione e le nostre risorse su uno spettro più ampio di paesi e sfide»31. La terza novità è persino più incisiva, almeno per la gestione diplomatica e strategica dell’ordine internazionale esistente. Mentre l’amministrazione Bush, avendo fuso tutte le principali vicende (dall’Iraq all’Afghanistan all’I- 80 L’amministrazione Obama sta cercando di recuperare la flessibilità strategica e diplomatica disponibile in un contesto non bipolare, ampliando i propri spazi di manovra sulla base della convinzione che le concessioni fatte su un tavolo non sono più necessariamente pagate su tutti gli altri A questo recupero può arrivare a collegarsi, anzi, una vera e propria inversione dei rapporti di interdipendenza tra le issues. Prendiamo ad esempio – ma è un esempio tutt’altro che secondario – il rapporto tra le guerre in Afghanistan e in Iraq, da un lato, e la questione palestinese dall’altro. Con una delle forzature ideologiche più caratteristiche di tutto il proprio mandato, l’amministrazione Bush aveva deciso di inscrivere la resistenza armata all’occupazione israeliana nella narrazione globale della guerra al terrore e, Ibidem, p. 8. Department of Defense, Quadrennial Defense Review, cit., p. 67. 31 White House, National Security Strategy, cit., p. 9. 29 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 ran alla questione palestinese) in una sola vicenda dominante (la guerra al terrore, l’esportazione della democrazia), si era preclusa di possibilità di trattare ciascuna di esse separatamente dalle altre, l’amministrazione Obama sta cercando di recuperare la flessibilità strategica e diplomatica disponibile in un contesto non bipolare, ampliando i propri spazi di manovra sulla base della convinzione che le concessioni fatte su un tavolo non sono più necessariamente pagate su tutti gli altri. 30 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 81 Barack Obama due anni dopo allo stesso tempo, di subordinare la soluzione della questione palestinese al progetto di un Grande Medio Oriente democratico; mentre, facendo delle missioni in Iraq e in Afghanistan l’epicentro di quella guerra e di quel progetto, aveva suggerito che la strada della pace in Palestina dovesse necessariamente passare per Baghdad e, magari, per Kabul. L’amministrazione Obama ha progressivamente disarticolato questa connessione. Intanto, riconoscendo che la questione palestinese costituisce il cuore simbolico della contestazione anti-occidentale nella regione, la nuova amministrazione si è almeno sforzata (senza troppi risultati, peraltro) di rimettere il negoziato di pace al centro degli sforzi diplomatici degli Stati Uniti. Di più, seguendo l’impegnativa e dura presa di posizione del generale Petraeus, lo stesso Barack Obama si è spinto fino a vedere nel conflitto israelo-palestinese «un interesse di sicurezza nazionale vitale per gli Stati Uniti», destinato a «costare in modo significativo sia in termini di sangue che di denaro americano» – ponendo quello 32 che è stato avvertito come un collegamento esplicito tra quel conflitto e la sicurezza delle truppe americane in Iraq e in Afghanistan32; esattamente l’opposto, quindi, del tipo di connessione suggerito dall’amministrazione precedente. Conclusioni Questo sforzo di adattamento tende a scontrarsi sempre di più, tuttavia, con l’indebolimento interno dell’amministrazione. Pressato da un lato da un’opposizione repubblicana schierata su posizioni sempre più radicali, e, dall’altro, dalla crescente diffidenza del suo stesso partito, Barack Obama rischia di trovarsi presto costretto a cercare un nuovo equilibrio tra l’obiettivo di perseguire una politica estera più prudente e la tentazione di rilanciare il proprio ruolo di leader, anche a costo di servirsi di quella macchina per la fabbricazione di mali assoluti che è la cultura politica internazionalistica degli Stati Uniti. M. LANDLER - H. COOPER, Obama Speech Signals a U.S. Shift on Middle East; in «New York Times», April 15, 2010. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 81 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 82 internazionale Marco Pinfari Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” MARCO PINFARI is Teaching Fellow at the London School of Economics and Political Science and Visiting Lecturer at Cairo University Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Ottobre 2010 82 The recent border skirmishes between Israeli and Lebanese forces in August 2010, the debates over the Israeli handling of the “Freedom Flotilla” crisis and the renewed attempts of the Obama administration to relaunch the peace negotiations highlight how the Arab-Israeli-Palestinian conflict remains at the heart of the strategic dilemmas of the Middle East and North African region (MENA), and of the Mediterranean as a whole. However, despite the increasing wealth of initiatives set in place in recent years, including the controversial creation of the “Union for the Mediterranean”, it is now apparent that the European Union (EU) and its member states are struggling even more than in the past to get to grips with the challenges posed by the post-9/11 security scenario. Traditionally, the EU has faced two problems in dealing with the MENA region: the lack of political will, or of significant policy convergence among member states; and the lack of political, military and diplomatic tools that would enable the EU as an institution to react effectively to crises in the region1. This paper will argue that the consequences of these twin problems are not only still evident in EU foreign policy towards the MENA region, but also, and more crucially, that they have 1 been exacerbated by the recent developments in the region. These developments, it will be suggested, can mostly be associated with the emergence of what some analysts have branded as “hybrid” wars – i.e. conflicts that challenge the traditional distinctions between symmetric and asymmetric, or conventional and un-conventional wars. In the following paragraphs I will first consider three general consequences of the emergence of “hybrid” wars, before turning to assessing how these impact both on the ability of European states to converge on shared diplomatic positions when faced with severe diplomatic crises, and on the attempts of the EU as an institution to act as an effective mediator in the region. Examples from the 2006 Lebanon war and the 2008-9 war in Gaza will be used to demonstrate that from both perspectives the increased relevance of hybrid wars has exposed the inherent shortcomings of EU’s foreign policy towards the region – especially the lack of effective short-term conflict management tools and the problems of projecting an image of “normative power” in the absence of a broadly accepted legal and moral framework. In the conclusive paragraphs, I will review the main implications of these suggestions for the mak- R. YOUNGS, Europe and the Middle East: In the Shadow of September 11, Boulder and London 2006, pp. 24-26. ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 83 Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” ing of Europe’s foreign policy towards the MENA region and consider some available options for facilitating the convergence of EU member states towards a shared diplomatic stance visà-vis hybrid conflicts. Europe must assert itself as a relevant actor. It is today widely accepted that the security challenges faced by MENA countries should be of concern to European countries, and to the EU as an institution Two challenges It is today widely accepted that the security challenges faced by MENA countries should be of concern to European countries, and to the EU as an institution. Especially after 9/11, domestic instability and lack of democracy in MENA countries are seen as a potential source of threats for European countries, and southern European countries regularly call for tighter cooperation with Maghreb countries for fighting illegal immigration. Many European countries, notably those on the southern shores of the continent – Spain, France, Italy and Greece – have reviewed their Mediterranean policies since the end of the Cold War, and Euro-Mediterranean relations, whether in the context of the Barcelona process or of the European Neighbourhood Policy (ENP), are one of the main areas of concern in EU foreign policy. More generally, the lack of effective regional arrangements among MENA countries and the settlement of major conflicts in the Balkans led European countries and the EU to increasingly perceive the MENA region as an area whose stabilization should be of direct concern to EU countries and in which However, various important developments in the security situation in the region still receive insufficient attention from the growing literature on the role of the EU in peacekeeping and conflict resolution in its MENA neighborhood. Most of these can be associated with the changing nature of the wars that periodically emerge as a byproduct of the Arab-Israeli-Palestinian conflict. This, in turn, has had a series of consequences on the discursive framework used to describe the security issues faced by MENA countries, the requirements of conflict resolution activities in the region, and the very relevance of multilateral “peace processes” as a panacea for the problems of the region. One dynamic which has aroused significant interest among American strategists is the evolution of conflicts in the Middle East from what are often still classified as “asymmetric” conflicts into “hybrid” wars. After 9/11, the branding of specific groups as terrorist has become one of the primary concerns of national governments and regional and international institutions. However, recent major conflicts such as the 2006 Lebanon war and the 2008-9 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 83 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 84 internazionale war in Gaza also signaled the emergence of a new form of warfare that defies clear-cut classifications. While the concept of “asymmetric” warfare describes the encounter between a conventional army and a non-conventional force, in “hybrid” wars this Manichean distinction is blurred as both parties employ both conventional and non-conventional modes of warfare. According to the definition provided by Frank Hoffman: Hybrid wars can be conducted by both states and a variety of nonstate actors. Hybrid wars incorporate a range of different modes of warfare, including conventional capabilities, irregular tactics and formations, terrorist acts including indiscriminate violence and coercion, and criminal disorder. These multi-modal activities can be conducted by separate units, or even by the same unit, but are generally operationally and tactically directed and coordinated within the main battlespace to achieve synergistic effects2. The important analytical insight to be drawn from this definition is not so much that state actors might use nonconventional fighting techniques, nor that non-state actors, especially when supported by foreign governments, could use conventional capabilities; both these intuitions hardly constitute “new” insights into ethnic warfare. Rather, when applied to the Middle East, it seems to suggest that the age- F. HOFFMAN, Conflict in the 21st Century: The Rise of Hybrid Wars, Potomac Institute for Policy Studies, Arlington 2007, p. 14. 3 Israel ultimately decided to officially designate the Lebanon conflict as a “war”, but the decision came only on 25 March 2007 – i.e. eight months after the end of the conflict. See S. NAVOT, Israel – The Governmental Commission of Inquiry for the Second Lebanon War, 2007, in «European Public Law», 15, 4, 2009, p. 17. 2 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 84 long Arab-Israeli-Palestinian conflict has now evolved into a third phase: after the conventional (until 1967) and asymmetric phases (after 1967), the conflict against Israel is now primarily waged by quasi-state actors, like Hezbollah and Hamas, who are able to use both asymmetric and conventional techniques. This change is signaled by the fact that these formally non-state actors now enjoy de facto sovereignty over two small regions bordering with Israel, and by their ability to use relatively sophisticated weaponry, especially short-range rockets. This, in turn, resulted in a drastic change in the political and ethical discourse that surrounds the IsraeliPalestinian conflict. If, on purely strategic grounds, these developments reveal the presence of more obdurate adversaries to Israeli regional policies than in the recent past, the Israeli government and pro-Israel media have also been able to take advantage of this “grey area” to provide more robust justifications to substantial military campaigns. In fact, they made it possible for Israel to justify extensive damage to the civilian infrastructure in neighboring regions as required by the simultaneous use of conventional and asymmetric fighting techniques by its adversaries, while, at the same time, refusing to classify these conflicts as “wars” by insisting on their non-fullyconventional nature3. In the past, Israel often struggled to credibly refer to the traditional “just war” principles to justify its actions against challengers who ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 85 Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” employed primitive methods of resistance (like stone-throwing during the first intifada); now, it can effectively point at the increasing organizational resilience of its adversaries and their use of a broad variety of fighting techniques as grounds for defending major military operations as “just” and “proportionate”, even without acknowledging the status of warring parties to its adversaries and even if its overwhelming military and strategic superiority over any regional enemy remains unchallenged4. These developments also inevitably impacted on the types of conflict resolution initiatives required for contributing to peace and security in the region. So far, the debate on the contribution of EU countries and of the EU as an institution to peace in the MENA region concentrated primarily on conflict prevention and “conflict transformation” activities focused on the longterm conflicts that plague the region, notably in Israel-Palestine and Cyprus5. This approach is still largely modeled around the “New Middle East” paradigm that inspired the 1991 Madrid peace conference, and on an almost unscathed faith in the transformative power of peace processes. While reaching a comprehensive solution to these conflicts would certainly provide a significant contribution to the stabilization of the region, in recent years the EU and its member states had to face a series of other comparatively minor, yet politically and militarily relevant episodes of conflict which aroused significant international attention, including the abovementioned wars in Lebanon and Gaza. Both the initiatives aimed at reaching durable solutions to prolonged conflicts and political or military interventions in specific crises could fall within the area of “conflict resolution”; however, they raise radically different conceptual problems and practical challenges. Most notably, while the former involve by definition activities which unfold in the medium- or long-term, interventions in political and military crises require short-term conflict resolution initiatives – including mediation, dispute resolution and other crisis management activities. The impact on policy coordination But how exactly has the emergence of “hybrid” conflicts impacted on the two underlying problems of European foreign policy towards the MENA region? On the one hand, it is apparent that the changing nature of the political crises that surround the IsraeliPalestinian conflict have made the al- Israel’s systematic attempts to downplay the relevance and impact of the 2006 Lebanon war are discussed by an Israeli academic in D. GAVRIELI-NURI, The “Metaphorical Annihilation” of the Second Lebanon War (2006) from the Israeli Political Discourse, in «Discourse Society», 19, 2008, 5, pp. 5-20. On the applicability to the 2006 Lebanon war of “just war” criteria and of legal principles traditionally used vis-àvis conventional wars, see J. S. WRACHFORD, The 2006 Israeli Invasion of Lebanon: Aggression, Self-Defense, or a Reprisal Gone Bad?, in «Air Force Law Review», 60, 2007, pp. 29-90. 5 See for instance: T. DIEZ - S. STETTER - M. ALBERT, The European Union and Border Conflicts: The Transformative Power of Integration, in «International Organization», 60, 2006, pp. 563-593; N. CASARINI - C. MUSU (eds.), European Foreign Policy in an Evolving International System: The Road Towards Convergence, Basingstoke 2007; N. TOCCI, The EU and Conflict Resolution: Promoting Peace in the Backyard, London 2007. 4 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 85 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 86 internazionale ready difficult task of ensuring some degree of foreign policy coordination among EU member states even more daunting. Apart from the usual problems related to diverging political agendas vis-à-vis the MENA region, the attempts by European countries to converge on a common position during both the 2006 Lebanon war and the 2008-9 conflict in Gaza were complicated by fact that the European governments essentially disagreed on how to define the conflicts that they were witnessing, and therefore on what legal and moral framework was appropriate for addressing the dilemmas that they posed. How exactly has the emergence of “hybrid” conflicts impacted on the two underlying problems of European foreign policy towards the MENA region? The political debates that preceded the adoption of a shared document that summarised the European position during the 2006 Lebanon war effectively exemplify these dilemmas. The document was adopted as part of an extraordinary meeting of the General Affairs and External Relations on 1 August 2006, in the third week of the conflict and after several major military operations and diplomatic incidents – including the killing of four UN military observers – had already taken place. In the final version of the document, the Council expressed «its utmost concern at the Lebanese and Is- The final document can be accessed from the website of the Council of the European Union: http://www.consilium.europa.eu. 7 Details of the draft version were discussed in: Germany backs Britain’s refusal to call for ceasefire, in «The Guardian», August 1, 2006. 8 European Parliament Political Groups Issue Unanimous Call for Immediate Middle East Ceasefire, in «US Fed News», August 1, 2006. 6 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 86 raeli civilian casualties and human suffering», stated that «[a]ll parties must do everything possible to protect civilian populations and to refrain from actions in violation of international humanitarian law», and called «for an immediate cessation of hostilities to be followed by a sustainable cease-fire». It also expressed its support for the mediation activity of the UN, reinforced its commitment to provide economic aid to Lebanon and called the Israelis and Palestinians to «return to the peace process on the basis of the Road Map»6. In the political negotiations that led to the adoption of this final declaration, European countries split in two groups on two fundamental issues7. One debate concerned the exact sequencing of diplomatic initiatives required for effectively terminating the conflict. A coalition led by the Finnish presidency and France, and supported by other countries including Spain, Sweden and Greece, called for the adoption of an “immediate ceasefire” as a precondition for political negotiations between the parties to begin. This position was also backed “unanimously” by the European Parliament, then led by the Spaniard Josep Borrell8. This group was contrasted by a coalition led by the United Kingdom and Germany, that included the Czech Republic, Poland, Denmark and the Netherlands and which was close to the position expressed by the United States, which argued that the convergence between the two warring parties over a diplomatic ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 87 Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” settlement was to precede the adoption of a ceasefire9. The same diplomatic split was replicated in a second, and more interesting debate focused on the applicability of international humanitarian law to the conflict. The final document asked both sides to «refrain from actions in violation of international humanitarian law»; crucially, this did not automatically imply that the parties had committed any violation by the time in which the document was approved, nor did the document explicitly define «the loss of innocent civilian life» as illegal, but rather just as «“deplor[able]”». The earlier draft, on the other hand, clearly warned the parties that «disregard for necessary precautions to avoid loss of civilian life constitutes a severe breach of international humanitarian law». These differences suggest not just that the parties adopted a more or less lenient attitude towards the Israeli military operation, but also that they disagreed on the very nature of the conflict. The sentence «disregard for necessary precautions to avoid loss of civilian life constitutes a severe breach of international humanitarian law», with its unqualified reference to «civilian life», is a textbook definition of the jus in bello principle of “discrimination”. The mention of «necessary precautions» seems also to be a direct reference to the “doctrine of double effect” – a central component of the ethical debate on discrimination – and its casuistry10. As well known, the ethical framework of just war theory and its legal backing have been developed with reference primarily, if not exclusively, to inter-state conflicts. Therefore, the draft seems to be aimed at reminding the warring parties about the basic ethical and legal boundaries of conventional wars. The refusal of the coalition led by Great Britain and Germany to explicitly define the loss of civilian life as a «severe breach of international humanitarian law», on the other hand, suggests that other European partners considered this war primarily as a conflict against an enemy which relied on unconventional fighters and tactics – hence the need to specify that only the death of “innocent” civilians was deplorable. EU member states faced similar problems when it came to agree on a common stance on the 2008-9 war in the Gaza strip. The main diplomatic crisis was in that occasion unleashed by the statement issued by the spokesman of the Czech presidency on 3 January 2009 in which the war was defined as «more defensive than offensive». This statement, for which the Czech presidency quickly apologized, was met with severe criticism by most European countries but was nevertheless echoed by some other governments. A follow-up statement by the Dutch Prime Minister Jan Peter Balkenende – in which he saw the loss of civilian lives as «always regrettable», but also hinted that an Israeli attack was inevitable since «Hamas [is] continuously firing rockets on Israel»11 – Convoluted EU statement doesn’t quite call for immediate cease-fire, in «The Jerusalem Post», August 2, 2006; Protests Mount as EU Fails to Agree over Middle East Ceasefire, in «Agence France Presse», August 1, 2006. 10 For a discussion on the principle of discrimination or non-combatant immunity, see: M. WALZER, Just and Unjust Wars, New York 1977, pp. 138-159; J. TURNER JOHNSON, Maintaining the Protection of Non-Combatants, in «Journal of Peace Research», 37, 2000, pp. 421-448. 11 D. CHARTER, EU flounders as squabbling countries lose chance to lead, in «The Times», January 5, 2009. 9 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 87 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 88 internazionale effectively highlighted that, once again, European countries struggled to agree on how the involvement of a quasistate actor like Hamas employing both conventional and asymmetric fighting methods impacted on the applicability of traditional just war criteria – on this occasion the ad bellum principle of “just cause” and the in bello principle of proportionality. In this case, these divisions resulted not only in a series of more or less embarrassed and contradictory statements of EU member states and institutional bodies, but also in two separate diplomatic missions (one led by the Czech EU presidency and another by French president Nicolas Sarkozy) travelling to the Middle East in the very same days but with different itineraries. These disagreements had deep repercussions. In 2006, the compromises included in the final version of statement released on 1 August made it not just extremely “convoluted”, but also essentially irrelevant among the various diplomatic initiatives that were set in place at the height of the crisis12. The former EU Commission president and then Italian Prime Minister Romano Prodi was merciless in dubbing this document as a demonstration that «European policy is very weak» and «hugely inefficient in dramatic moments»13. In 2009, the Times noted that Europe’s «failure to present a united front could not have come at a worse time for the EU because of its opportunity to lead the global response during the leadership vacuum at the end 88 The narrowing scope of EU mediation The changing nature of the strategic dilemmas surrounding the IsraeliPalestinian conflict have not only made it more difficult for EU member states to generate significant policy convergence, but has also affected the ability of the EU as an institutional actor to effectively contribute to conflict resolution in the MENA region. The EU has traditionally been a second-tier actor in most conflict resolution efforts in the region, trailing behind the UN in terms of institutional and moral legitimacy to intervene and the US in terms of military capabilities. The Barcelona process and the ENP, however, endowed the EU with a series of diplomatic tools that allowed it to play a more effective and obtrusive role in the region than in the past. In particular, between 1997 and 2006 the EU signed bilateral association agreements with the large majority of countries on the shores of the Mediterranean, including Israel, Lebanon and the Palestinian Authority. These treaties, that ultimately aim at the creation of a Mediterranean free trade Convoluted EU statement doesn’t quite call for immediate cease-fire, cit. Prodi warns Israel over “excess”, says ceasefire failure a mistake, in «Agence France Press», August 4, 2006. 14 D. CHARTER, EU flounders as squabbling countries lose chance to lead, cit. 12 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 of George Bush's presidency in the US»14. In both cases, the failure of European countries to converge on a shared position significantly weakened Europe’s ambition to play a decisive role as a mediator in the Mediterranean. 13 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 89 Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” area, explicitly consider the respect of human rights and democratic principles as an “essential part” of the deal. The bilateral agreements were supported until 2006 by a substantial aid programme specifically designed for the Mediterranean region called MEDA, which was put in place in 1995 and which was allocated a €5.35 billion budget for the 2000-2006 period. In 2006 MEDA was replaced by a unified financial mechanism for all the countries involved in the ENP – known as European Neighbourhood and Partnership Instrument (ENPI) – with an aggregate budget of €12 billion for the 2007-2013 period15. The EU has traditionally been a second-tier actor in most conflict resolution efforts in the region, trailing behind the UN in terms of institutional and moral legitimacy to intervene and the US in terms of military capabilities These agreements and the range of future benefits that they delineate allow the EU to impact on the political life of its Mediterranean partners and their human rights record through positive or negative conditionality – i.e. by either promising economic rewards or threatening to withdraw them. Yet it has been sometimes suggested that the ability of the EU to influence the policy choices of MENA countries spans beyond the mere material, cost-benefit dimension. According to Nathalie Tocci, by participating in the regional frameworks set in place by the EU, or even by being in “close contact” with it, «parties may come to alter their substantive beliefs, visions and purposes» and «may also alter their preferred strategies» in dealing with other regional actors or domestic adversaries, preferring «negotiation, compromise and international law over unilateralism, brinkmanship and political violence»16. This process of socialisation could even result, it has been argued, in the abovementioned norms and principles being accepted and applied by partner states not because of the implicit or explicit threats of policy conditionality, but rather because they become internalized and «viewed as a sine qua non» by the target country – an effect that has been called «passive enforcement»17. Without entering into the debates on the actual effectiveness and relevance of each of these processes in the relations between the EU and MENA countries (especially if they involve countries that are not plausible candidates for EU accession), when we consider in general terms the set of conflict resolution tools available to the EU two issues come immediately to the fore. First, these tools are suited for conflict transformation or conflict prevention, but not for conflict management. That is, they might play an important role in making the emergence of conflicts in the region less likely in the long run or in gradually transforming the parties’ perceptions of each other and of the desirability of es- For a detailed review of the evolution of EU policies towards the Mediterranean, see F. BICCHI, European Foreign Policy Making Toward the Mediterranean, New York 2007. Details on more recent initiatives, including the institution of ENPI, can be found at: http://ec.europa.eu/world/enp/ funding_en.htm. 16 N. TOCCI, The EU and Conflict Resolution: Promoting Peace in the Backyard, cit., p. 15. 17 Ibidem, p. 17. 15 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 89 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 90 internazionale calating disputes into armed wars, but they can hardly impact in the shortterm management of crises or wars once they erupt. The deep implications of this problem, which is not new to the literature on EU foreign policy, were not immediately apparent when the overwhelming focus of EU diplomacy was the support for medium- or long-term peace processes, as in the 1990s and in the first years of the new century18. The increased relevance of “hybrid” wars in the framework of the Israeli-Palestinian conflict, however, has now highlighted that the absence of effective conflict management tools might systematically impact on the reputation of the EU in the region, and impinge on its credibility also when it is involved in long-term conflict resolution efforts. The suggestion that the EU lacks effective short-term conflict management could lead to underestimate other important aspects in the conflict resolution capabilities of EU bodies. Positive conditionality and the promise of a substantial increase in bilateral aid are regularly used as part of broader mediation strategies to incentive the parties in a conflict to consider political compromises. Also, in 2006 the EU and its member states have shown significant leadership in providing most of the military personnel and equipment for the renewed UNIFIL mission in Lebanon, earning enthusiastic praises from the UN Secretary General. Finally, it can be argued that the both so- See C. HILL, The EU’s Capacity for Conflict Prevention, in «European Foreign Affairs Review», 6, 2001, pp. 315-333. 19 N. TOCCI, The EU and Conflict Resolution: Promoting Peace in the Backyard, cit., p. 17. 20 On the EU as a “normative power” see: I. MANNERS, Normative Power Europe: A Contradiction in Terms?, in «Journal of Common Market Studies», 40, 2, 2002, pp. 235-258. 18 Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 90 cialization and “passive enforcement” could help the EU, if not to directly solve a conflict, at least to be perceived as a particularly legitimate actor when it does decide to mediate in an ongoing crisis. However, on this latter aspect, it is also possible to suggest that both the “war on terror” and the emergence of hybrid wars at Israel’s border have severely affected the power of the EU to impose itself as a relevant actor in the region merely on the basis of the values and norms that it incarnates. The suggestion that the EU can count on some form of “social learning”, in particular, relies on the assumption that it is possible to identify what are «the norms and logic underpinning the EU system»19, and that these norms and logic are perceived as legitimate. After 9/11 and the 2003 war in Iraq, however, it is more difficult for any actor to portray itself as a “normative power” in conflict resolution simply because the scope and intrinsic value of many basic international legal principles applied in conflict resolution efforts are now perceived as less apparent than in the past20. In these conditions, it is unclear if, as Tocci argued, socialization with the EU can indeed convince local actors to prefer «negotiation, compromise and international law over unilateralism, brinkmanship and political violence», or if the claim of incarnating these values can be sufficient to confer special legitimacy for mediating in local disputes. ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 91 Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” Both the “war on terror” and the emergence of hybrid wars at Israel’s border have severely affected the power of the EU to impose itself as a relevant actor in the region merely on the basis of the values and norms that it incarnates Indeed, in the middle of both the 2006 Lebanon war and the 2008-9 war in Gaza, the position of the EU as a mediator was weakened by the fact that it found itself involved in international rows over the validity and consistency of the normative framework through which it approached these conflicts. On the one hand, EU’s refusal to include Hezbollah in the “black list” of terrorist organizations not just spurred international criticism from the US and Israel, but also, and more importantly, resulted in a series of embarrassed and confused statements by the Finnish presidency from which the EU emerged as little more than as an opportunist mediator. The Finnish Foreign Minister Erkki Tuomioja replied to a letter signed by 213 members of the US congress asking the EU to include Hezbollah in its list of terrorist organizations by stating that he did not «think this is something we will be acting on now», but also adding that «it can be later on when we see […] the outcome of the political agreement» among Lebanese forces21. However, it was unclear how «the outcome of a political agreement» should have impacted on a decision 21 that was supposed to be taken primarily, if not exclusively, on normative and legal grounds. On the other hand, the fact of having included a group – Hamas – in EU’s list of terrorist organizations made it impossible for EU mediators to engage in direct negotiations with its members when a major crisis erupted in December 2008. During the Gaza war, therefore, the EU had to realize how, in the context of hybrid wars and counter-terrorist operations, one of the sine qua non values that are often portrayed as integral to the European model of conflict resolution – choosing negotiation over unilateralism – was incompatible with the attempt to build a shared legal framework for addressing terrorism worldwide. Conclusion Europe has always struggled to develop a shared approach to the security dilemmas of the MENA region. Yet, despite the increasing efforts of EU member states and of the EU as an institutional actor to generate some policy convergence at least in dealing with the Israeli-Palestinian conflict and its regional implications, this paper has suggested that the changing requirements of conflict resolution in the region mean that Europe’s attempts to impose itself as a relevant actor in the region are bound to be less successful today than in the recent past. The increasingly complex normative and le- EU not to place Hezbollah on terrorist list, for now: presidency, in «Agence France Press», August 1, 2006. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 91 ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd osservatorio 4-11-2010 9:36 Pagina 92 internazionale gal framework of conflicts such as the 2006 Lebanon war and the 2008-9 war in Gaza make it more difficult for European countries to converge on common positions, expose the lack of effective short-term conflict management tools available to EU institutional bodies, and weaken EU’s credentials as a “normative” power and its claim to bear special legitimacy when mediating in conflicts in the MENA region. Any recipe for addressing these shortcomings should involve a systematic reflection on how the rise of quasi-state actors like Hezbollah and Hamas will impact on the future of the Israeli-Palestinian conflict, which, in turn, is correctly perceived as the keystone of the security problems of the entire MENA region. More specifically, it is important to consider the extent to which peace negotiations based on the Oslo framework – such as those prefigured in the 2003 Roadmap, which is regularly mentioned in EU’s official statements – are still appropriate for resolving the Israeli-Palestinian conflict. The problems with this approach are twofold. On the one hand, the rationale of the 2003 Road Map, like most mediation efforts put in place since the late 1990s, was to kickstart a series of negotiation efforts under a tight timeframe. As all these deadlines are today long foregone, it is unclear how it can still provide a suitable timetable for any significant negotiation effort. Also, the diplomatic setting of the Israeli-Palestinian conflict today bears more resemblance with the Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 92 pre-Oslo situation, where Israel and its counterpart did not formally recognize each other, and mutual recognition was a fundamental precondition for substantive talks to begin. Any mention of a peace process based on the 2003 Road Map will inevitably sound hollow and hardly credible until such channels for negotiation, especially between Israel and Hamas, are opened. Furthermore, today even more than in the recent past, it is of paramount importance to renew efforts to generate a deep, systematic convergence of the foreign policy agendas of EU member states towards the MENA region. In the short or medium-term, it is hard to see how confrontations between pro and anti-Israel groups, or disagreements between countries eager to define these conflicts as little less than conventional wars and those that see them as counter-insurgency operations, can be avoided. Our analysis showed that, during both the 2006 Lebanon war and the 2008-9 war in Gaza, not just European countries split neatly into at least two opposing coalitions, but also that some countries – most notably France – consistently interpreted these conflicts as asymmetric wars for which Israel carried a significant responsibility and stressed the importance of establishing unconditional ceasefires early on in the conflicts, while others – including the Czech Republic and the Netherlands – saw them as little less than conventional wars and backed the imposition of cease- ispi_VOLAIT@0068-0093#.qxd 4-11-2010 9:36 Pagina 93 Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” fires only at certain conditions, which cific tactical decisions. “Conventional” usually involved remarking Israel’s operations include, for instance, atright to self-defense. tacks against civilian infrastructures (including airports, power plants, bridges, etc.) whose primary aim is to It is of paramount important make enemy actions less efficient – a to renew efforts to generate typical item in the debates on just war a deep, systematic convergence theory. It seems clear that condemning of the foreign policy agendas disproportionate or unnecessary atof EU member states towards tacks to civilian infrastructure as unthe MENA region lawful and immoral does not directly However, our analysis also seems to impinge on the potential lawfulness of suggest that the problems in under- the killing of unconventional fighters standing and defining the nature of in separate military operations. In this these conflicts have an impact on the sense, the real major failure in the polidentification of potential areas for icy coordination efforts of the EU durcompromise between these polar posi- ing the 2006 Lebanon war lied not so tions, and that it might be possible for much in the fact that the shared politthe EU to converge towards a more ical statements included explicit comconvincing and effective common promises between opposing groups, stance while still keeping into account but rather that, as a consequence of the the differing agendas of its members. general confusion over the nature of The concept itself of “hybrid” wars the conflict, the tone of these docuprovides a partial solution to these ments were unduly generic and made dilemmas. One of the important im- them essentially irrelevant. plications of this concept is that, while If this scenario is correct, the chala conflict as a whole might be defined lenges facing Europe’s attempts to imas hybrid, specific military actions pose itself as a relevant peacemaker in within a conflict could be identified ei- the Mediterranean region cannot be ther as counter-insurgency operation resolved simply by increased activism, or as essentially “conventional”. In oth- but require a deeper reconsideration of er words, the conceptual problems that the broader strategies needed for adwe associate with the idea of “hybrid” dressing sudden diplomatic and miliwars apply to the strategic framework tary crises and for securing peace in of a conflict, but not necessarily to spe- the medium- and long-term. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 93 ispi_VOLAIT@0094-0096#.qxd 4-11-2010 internazionale osservatorio documentazione a cura di Valeria Talbot documentazione L’insicurezza energetica dell’India Quaderni di Relazioni Internazionali n. 9 Marzo 2009 94 9:51 Pagina 94 ispi_VOLAIT@0094-0096#.qxd 4-11-2010 9:52 Pagina 95 documentazione a cura di Matteo Villa Accordi commerciali dell’Unione europea Regioni / paesi Europa (Norvegia, Islanda, Svizzera) Tipo di accordo In vigore da Ambito di applicazione Libero scambio 1973 I, A, S Turchia Unione doganale parziale 1996 I, A, S (p) Israele Accordo di associazione 2000 I, A, S (p) Economic partnership agreements 2000 Accordi preferenziali Messico Libero scambio 2000 I, A (p), S (p) Sud Africa Libero scambio 2000 I, A (p) Accordi di associazione 1998-2005 I Libero scambio 2003 I, A (p), S (p) Accordi di associazione 2004-2010 I, A, S (p) Libero scambio 2010 (firma) I, A Africa, Caraibi e Pacifico Mediterraneo - Tunisia (1998) - Marocco (2000) - Giordania (2002) - Libano (2003) - Egitto (2004) - Algeria (2005) Cile Balcani occidentali - FYROM (2004) - Croazia (2005) - Bosnia-Erzegovina (2008) - Serbia (2010) - Montenegro (2010) Corea del Sud Legenda: I = prodotti industriali; A = prodotti agricoli; S = servizi; p = liberalizzazione parziale. Accordi commerciali in fase di negoziato Regioni / paesi Tipo di accordo Stato dei negoziati America centrale (Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Panama) Libero scambio Conclusi a maggio 2010; firma prevista entro il 2011 Singapore Libero scambio In corso ASEAN Libero scambio In corso MERCOSUR Libero scambio Sospesi nel 2007, rilanciati a maggio 2010 India Libero scambio Rallentati; attualmente poche probabilità di raggiungere un accordo in tempi brevi GCC Libero scambio Sospesi Ucraina Libero scambio Preliminari, iniziati nel 2008 Fonte: Direzione Generale del Commercio (DG Trade) – Unione europea. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 13 Novembre 2010 95 ispi_VOLAIT@0094-0096#.qxd 4-11-2010 9:52 Pagina 96 [email protected] 1 3-11-2010 9:48 Pagina 1 Editoriale di Boris Biancheri 3 dossier L’Europa e il suo posto nel mondo 4 Who Rules Europe? Pierre Hassner 17 Le relazioni speciali dei paesi europei Marco Clementi 30 Towards a Post-American Europe? Ulrike Guérot 42 Diplomatia: Dal sogno europeo all’Europa per necessità Rocco Cangelosi 22 Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo Lorenzo Fioramonti 57 La Polonia tra Europa e Russia Stefan Bielanski 68 osservatorio internazionale 69 Barack Obama due anni dopo Alessandro Colombo 82 Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” Marco Pinfari 94 documentazione a cura di Matteo Villa ISPI ISTITUTO PER GLI STUDI DI POLITICA INTERNAZIONALE Quaderni di Relazioni Internazionali Palazzo Clerici - Via Clerici 5 20121 Milano www.ispionline.it Comitato di direzione Alessandro Colombo, Paolo Magri Comitato scientifico Franco Buni (Direttore), Yury A. Bulatov (School of International Relations, MGIMO, Mosca), John Chipman (International Institute for Strategic Studies, Londra), Jakkie Cilliers (Institute for Security Studies, Pretoria), Josè Botafogo Gonçalves (Centro Brasileiro de Relações Internacionais, Rio de Janeiro), Daniel Gros (Center for European Policy Studies, Brussels), Hans Martens (European Policy Center, Bruxelles), Jessica T. Mathews (Carnegie Endowment for International Peace, Washington D.C.), Thierry de Montbrial (Institut Français des Relations Internationales, Parigi), Volker Perthes (Deutsches Institut für Internationale Politik und Sicherheit, Berlino), Strobe Talbott (The Brookings Institution, Washington D.C.), Seyfi Tashan (Foreign Policy Institute, Ankara), Jiemian Yang (Shanghai Institute for International Studies, Shanghai) L'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, fondato nel 1934, svolge attività di ricerca, formazione e promozione di eventi nel campo delle relazioni internazionali. La sua azione è caratterizzata da un approccio interdisciplinare assicurato dalla stretta collaborazione di specialisti in studi politici, economici, giuridici, storici e strategici. Via Salasco, 5 - 20136 MILANO Tel. 02/5836.5751 - Fax 02/5836.5753 www.egeaonline.it e-mail: [email protected] Progetto grafico: M Studio, Milano Impaginazione: erregi, Milano Stampa: Mediascan, via Mecenate 76/32, Milano Comitato editoriale Boris Biancheri (Presidente ISPI), Franco Bruni (Vicepresidente ISPI), Alessandro Colombo, Mario Deaglio, Massimo De Leonardis, Maurizio Ferrera, Paolo Magri (Direttore ISPI), Alberto Martinelli, Vittorio Emanuele Parsi, Marco Pedrazzi, Sergio Romano, Carlo Secchi (Vicepresidente ISPI) Guest Editor Marco Clementi Valeria Talbot (Coordinamento editoriale) [email protected] Quaderni di Relazioni Internazionali è pubblicato con il sostegno della Compagnia di San Paolo di Torino e della Fondazione Cariplo di Milano. Copyright © 2010 ISPI Periodico semestrale registrato al Tribunale di Milano al n. 150 del 01/03/2006 Direttore Responsabile: Alessandro Colombo Sede redazione: Via Clerici, 5 - 20121 Milano Quaderni di Relazioni Internazionali ospita articoli e analisi di varia scuola e provenienza. Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell'ISPI. La rivista è stata chiusa in tipografia il 29 Ottobre 2010. La riproduzione degli articoli o di parte di essi è vietata senza autorizzazione scritta. [email protected] 3-11-2010 9:52 Pagina 1 Osservatorio Internazionale Barack Obama due anni dopo di Alessandro Colombo Europe and Conflict Resolution in the Mediterranean: The Impact of “Hybrid Wars” di Marco Pinfari Documentazione ISSN 1125-9663 ISBN 978-88-238-6118-3 9 788823 861183 L’Europa e il suo posto nel mondo Who Rules Europe? di Pierre Hassner Le relazioni speciali dei paesi europei di Marco Clementi Towards a Post-American Europe? di Ulrike Guérot Diplomatia: Dal sogno europeo all’Europa per necessità di Rocco Cangelosi Europa potenza globale? Un ridimensionamento delle ambizioni europee nei rapporti tra Nord e Sud del mondo di Lorenzo Fioramonti La Polonia tra Europa e Russia di Stefan Bielański ISPI n. 13 2010 Quaderni di Relazioni Internazionali Dossier - L’Europa e il suo posto nel mondo ISPI Quaderni di Relazioni Internazionali Semestrale dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale n. 13 – Novembre 2010 L’Europa e il suo posto nel mondo