MARINO BIONDI CRONACHE da Dante ai contemporanei Le Lettere «NON È LA NOSTRA UNA RIVISTA DI LUCRO O DI VANITÀ» VOCI E VERSIONI DELLA CRITICA NELLA «VOCE»1 L’onestà non si ferma agli affari, ma va fino all’intelligenza. (Giuseppe Prezzolini, La nostra promessa, «La Voce», 27 dicembre 1908) Tu farai la tua strada; e loro resteranno a vociare. (Renato Serra a Luigi Ambrosini, 11 ottobre 1911)2 «Tormentarsi per la libertà» Un «ufficio di purificazione» – parola di Prezzolini – in un suo progetto di rivista del 1908. Purificazione non in astratto, ma nell’attualità dei problemi da affrontare con le armi dell’analisi e della critica. A questi paradigmi d’azione etico-politica avrebbe dovuto assolvere «La Voce», la rivista ancora non battezzata che si apprestava a varare. In seguito, in una lettera a Papini, Prezzolini parlava della «Voce», ormai entrata a regime, come di un’occasione a fare, a rendere possibili le azioni, a muovere le cose, a riunire e coordinare «tante 1 Edito in «La Voce» 1908-2008, a cura di S. Gentili, Firenze, Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux, Perugia, Morlacchi, 2010. Pubblico qui il testo della relazione al convegno fiorentino, con qualche sviluppo tematico, stimolato dal costante contrappunto del carteggio: G. Papini-G. Prezzolini, Carteggio, II, 1908-1915, Dalla nascita della «Voce» alla fine di «Lacerba», a cura di S. Gentili e G. Manghetti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Biblioteca Cantonale Lugano, Archivio Prezzolini, 2008 (siglato CII). Un supplemento di lavoro sarebbe occorso per mettere a fuoco sistematicamente le principali posizioni critiche dei vociani, vuoi i collaboratori fissi, vuoi quei vociani di complemento, imbarcati più o meno occasionalmente sulla rivista, come su una nave scuola della scrittura (da Mussolini a Nello Quilici). La critica, in un’accezione più generale, di illuminismo riformatore, stava al cuore della missione vociana. 2 R. Serra, Mio carissimo. Carteggio con Luigi Ambrosini, a cura e con uno scritto di A. Menetti, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura, Parma, Mup, 2009, p. 171 (siglato MC). 128 CRONACHE volontà»3. Era anche l’altro elemento che fecondava «La Voce», l’etica amendoliana della volontà e della volontà di bene4, in ottemperanza a quella purificazione nazionale, che sarebbe stato ufficio di quel collettivo, di quel fascio umano, chiamato a pensare e ad agire, a mettere ordine nel disordine (morale) del giolittismo. La recente storiografia, che s’interroga sulle fasi evolutive dello Stato-nazione nella data anniversaria del centocinquantenario, ha etichettato il travaglio e gli esiti vociani sotto la dizione di un nuovo linguaggio della nazione5. «La Voce» fu la cultura che si metteva a disposizione della rifondazione dello Stato. Se da quella «Voce» uscì anche la voce politica del fascismo, questo potè significare – ed è la tesi ben nota di Del Noce – che il fascismo non fu «un errore contro la cultura e invece piuttosto un errore della cultura»6. Un parto vociano anomalo perché iniziatore del mito ducesco e antidemocratico, così come una continuazione vociana verso l’antifascismo fu nella «Rivoluzione liberale» di Gobetti e in «Ordine Nuovo» di Gramsci. Il lievito volontaristico amendoliano fu, insieme al pensiero critico in azione di Salvemini7, essenziale ad animare «La Voce», a imprimerle l’immagine primaria, per così dire la versione della rivista secondo il profilo alto e ambizioso di una lectio difficilior, poi per varie cause e concause debilitata e frammentata fino a dissolversi in un vocianesimo bianco, che nulla aveva della continuità, ma sembrava interpretare una crepuscolare vendetta dei letterati puri contro gli intellettuali ideologici. Presentando i materiali del volume Amendola e La Voce, Prezzolini scrisse che se in quello su Gobetti e la Voce aveva raccolto e commentato la corrispondenza fra uno che aveva guidato «La Voce» e un altro che, assai più giovane, ne era stato «il continuatore e l’emulo», editando il volume amendoliano, non solo presentava al pubblico le relazioni fra due coetanei (1882), ma fra le due persone prime della rivista, coloro «che appartennero quasi ugualmente a “La Voce” o, secondo quello che Amendola pensava, ai quali “La Voce” appartenne, perché contribuirono, ciascuno a suo modo, a darle vita e rinomanza»8. 3 Prezzolini a Papini, Firenze, 19 ottobre 1909 (CII, p. 293). G. Amendola, La volontà è il bene, in Etica e biografia, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, MCMLIII, pp. 1-32. 5 A. De Bernardi L. Ganapini, Storia dell’Italia unita, Milano, Garzanti, 2010, pp. 965-978 (La «grande Italia»: il nuovo linguaggio della nazione). 6 A. Del Noce, L’interpretazione transpolitica della storia contemporanea, Napoli, Guida, 1982, p. 28. 7 Su una radice pugliese della «Voce», precisamente dalla «Rassegna pugliese», fondata dal tipografo V. Vecchi, su cui, poiché enfatizzata come antesignana delle riviste e «modello insuperato della “Voce”» da eruditi locali (W. Tommasino), Prezzolini riversò poi molta ironia, vd. M. Ferrario, Nasce a Trani “La Voce” di Prezzolini, in «Cartevive», a. XIII, n. 2 (32), luglio 2002, pp. 17-24. 8 Prezzolini, Amendola e La Voce, Firenze, Sansoni, 1973, Prefazione. Il mio amico e censore Amendola, p. 7. 4 «NON È LA NOSTRA UNA RIVISTA DI LUCRO O DI VANITÀ» 129 La borghesia intellettuale, nata negli anni Ottanta del XIX secolo, ebbe nella «Voce» prezzoliniana la sua testata madre e la madre di tutte le testate successive che si richiamarono quasi istintivamente a quella prova tanto riuscita eppure così esemplarmente fallita9. Nel senso che anche il fallimento riuscì di esempio, e modello. In un testo programmatico, inedito fino al 1984, Progetto di una rivista di pensiero in Italia, Prezzolini s’interrogava su ciò che mancava in termini di cultura e di strumenti di cultura all’Italia che egli e i suoi intendevano correggere dagli enormi refusi dell’Italietta degli scandali di fine Ottocento e del perdurante scandalo giolittiano. Non la rivista come vibrazione periodica del consenso intellettuale di categoria, deposito di beni culturali e parti intellettuali più o meno accademici. Un’influenza benefica avevano esercitato nella critica e nella filosofia il «Giornale storico della letteratura italiana», sulla breccia delle Università italiane fin dal 1883, e la «Critica» di Croce, che aveva inaugurato (con «Il Leonardo») il nuovo secolo nel 1903. La «critica libresca e rivistaia» non mancava con il suo ufficio di controllo dai benefici effetti, più che altro settoriali e corporativi. E anche le riviste già c’erano, ma s’acclimatavano «alle basse temperature della gente arrivata» ed era la loro una gastronomia culturale preparata «per il palato della gente per bene». Con quei distinguo dalla gente arrivata e per bene, Prezzolini voleva segnare una differenza fra il suo essere borghese, ma di nuovo conio, e quella borghesia adusa ormai ai ritmi di un benessere senza sorprese e senza scoperte, passibile di disimpegno, di lenta assuefazione all’esistente, di corruzione, ormai entrata nell’orbita del sistema giolittiano, sedotta dall’uomo politico senza idee e senza ideali, mera incarnazione dell’azione, da null’altro condizionata, per la conservazione, trasformistica e spartitoria, del potere. Era un chiamarsi fuori dalla borghesia più borghese, un marcare la propria appartenenza di ceto alla maniera di un nuovo Diderot per una rivoluzione che fosse appunto purificazione dagli antichi vizi della nazione: «Ciò che manca invece è una rivista dove si possa esercitare l’ufficio di purificazione e di riforma progressiva di cui ha bisogno la nostra cultura»10. Nessuna «chiesola» o «confraternita di gaudenti d’idee». Non articoli lunghi, perpetua arcadia dell’intellettuale italiano, ma articoli brevi e comunicativi, penetranti e vivaci, non localizzati alla città dove risiedeva la direzione (alla larga 9 Id., La Voce 1908-1913, Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, con la collaborazione di E. Gentile e V. Scheiwiller, Milano, Rusconi, 1974. Le citazioni sono tratte, quando non direttamente dalla rivista, da questa vasta selezione (siglata V). 10 Id., Progetto di una rivista di pensiero in Italia, autografo e senza data [maggio 1908], fra le Carte Papini, Fondazione Primo Conti (Fiesole), in Italia 1912, Dieci anni di vita intellettuale (1903-1912), Introduzione e note a cura di C. M. Simonetti, Firenze, Vallecchi, 1984, p. 97. 130 CRONACHE dunque dal fiorentinismo11), con cospicua parte alle corrispondenze dalle molte città della penisola (un’Italia dalle molte teste di ponte), a raccogliere materiali e a sondare le condizioni presenti degli italiani, ai quali proporre «miglioramenti pratici» nel mentre si denunciano «gli abusi e le imbecillità»12. Un difensore civico per i cittadini ingannati dalla politica (il giolittismo), torchiati dalla burocrazia, lontani da un qualsivoglia senso dello Stato, a sua volta lontano e vessatorio, ma con moderazione, e cautela procedurale, tolleranti con i mediocri che si impegnano ma implacabili contro le arciconfraternite del potere, «gli interessi di cricca, mondani, professorali dilettanteschi». Le cosche e le consorterie, le mafie e le massonerie, le famiglie nepotistiche e i molti ciarlatani in circolazione, questi sarebbero stati gli obiettivi da colpire. Fiducia larga per ammettere collaboratori non costretti alla «necessità di un credo artistico e filosofico come quello che bisogna sottoscrivere per pubblicare, ad esempio, nella Critica». Pluralismo di vedute, vincolate però a una razionalità del proprio agire intellettuale, e a una condivisione di una piattaforma di idee generali13. Ciò che si sarebbe scritto doveva essere «suscittibile di difesa razionale», cioè verificabile e confutabile, e non «titillamento» di fantasie o «sfogo» sentimentale. Da questo punto di vista la contraddizione con gli esiti letterari del vocianesimo ebbe a risultare palese, nel senso che dalla «Voce» si dipartì una letteratura, che senza essere adescata da bassi sentimentalismi e corrive soggettività, pure fu intensivamente incline all’autobiografia. Anzi si potrebbe dire che i vociani, per la letteratura, si misero in proprio14. Ma anche in quella compagine organizzata, la vita entrava senza chiedere e scompaginava i piani. Mentre Slataper stava per assumere la direzione vociana, visse la tragedia della ragazza cui era legato, Anna-Gioietta Pulitzer, suicidatasi a Trieste il 2 maggio 1910. Il suicidio del padre, pastore valdese, aveva funestato nel 1897 anche la vita di Piero Jahier. La letteratura, la cultura, non potevano andare esenti dal contagio del dolore. E nell’ambiente vociano si respirava, vero e anche un po’ artefatto, aria di dramma15. 11 Sintomatico al contrario il fiorentinismo di Papini. In una cartolina postale a Prezzolini, Torino, 23 ottobre 1909, descrive una trasferta a Torino come un viaggio in un altro paese, lontano e desolato, quasi un provvisorio esilio: « [...] ho trovato la tua affettuosa e incitante lettera che mi ha confortato arrivando in questa malinconica e buia città. Non mi par vero di tornar definitivamente a F. [irenze] per ritrovare i miei libri [?], i miei fogli, i miei lavori, i miei amici, la mia patria» (CII, p. 298). 12 Prezzolini, Progetto di una rivista di pensiero in Italia, cit., p. 99. 13 Ciò che Papini aveva condensato in una lettera a Prezzolini, Bulciano, 7 ottobre 1909: «Per quanto la V. [oce] tenga ad esser pratica pure non ha mai abbandonato le idee generali» (CII, p. 292). 14 G. Ragone, Il romanzo degli editori giovani: «La Voce» e Piero Gobetti, in Classici dietro le quinte. Storie di libri e di editori. Da Dante a Pasolini, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 255. 15 Un ritratto di Slataper, e di altri intellettuali giuliani, nel crogiuolo di passione e di tormento negli anni che portarono alla Grande guerra, nel bel vol. di R. Lunzer, Irredenti «NON È LA NOSTRA UNA RIVISTA DI LUCRO O DI VANITÀ» 131 La letteratura dell’io che fa diga contro il romanzo, l’autobiografia dell’uno contro l’autobiografia del possibile, fu ciò che Giacomo Debenedetti aveva indicato come un peccato originale di una letteratura senza narrativa. Un altro elemento messo in agenda riguardava l’atteggiamento da tenere verso i precedenti storici della cultura, nel senso che la nuova rivista non avrebbe condiviso il verbo e il credo delle avanguardie disposte solo a sacrificare al demone del nuovo. Qualcosa era stato fatto anche prima che i contemporanei esistessero, e quel qualcosa poteva e doveva essere accolto. La critica anche a questo serviva, da dogana, da scrutinio, per selezionare i beni trasmessi dalla tradizione. Prezzolini aveva in mente un organo di informazione che fosse anche di formazione, di educazione, si direbbe, a mezzo stampa, visto che la pubblica istruzione, scuole, università, biblioteche, latitavano dal loro compito primario. Formazione sì, e una formazione a tempo, ipotizzata anche come un disegno di egemonia16, ma formazione da tener desta nel momento della comunicazione con un linguaggio rispettoso del pubblico, cioè portato alla divulgazione di forme e di contenuti, e con «l’efficacia della discussione logica». Uno scrivere accorto, documentato, ma che fosse efficace e anche brillante. Non sempre fu così, ma Prezzolini aveva visto giusto nel dire che così doveva essere. Qui si dava a vedere il grande giornalista, uno dei maestri novecenteschi dell’articolo, dell’editoriale, colui che tanto aveva polemizzato contro i dotti dell’Istituto di Studi Superiori di Firenze, intelletti fors’anche superiori ma incapaci di farsi capire, inabili a qualsivoglia pubblico discorso: «Una rivista si fa per agire sul pubblico ed è se non altro poco sincero mostrarsi di infischiarsi di quel pubblico per il quale si lavora e si spende. Primo carattere dunque sarà la attualità degli oggetti su i quali fermare l’attenzione»17. Non sempre la rivista, per pedanteria, inconscio accademismo di collaboratori, smisuratezza polemica, remore corporativistiche, seppe tenere desta l’attenzione, vittima di un circuito di referenzialità tutta interna e dimentica del pubblico di lettori, ma non si sottrasse mai alla sua missione. Quella che sarebbe stata «La Voce» intendeva ridisegnare «le forme disoneredenti. Intellettuali giuliani del ’900, Introduzione di M. Isnenghi, trad. di F. Marzi, Trieste, Lint, 2009. 16 Un organigramma futuro nella costellazione di riviste, anche altrui, nella lettera di Prezzolini a Papini, Firenze, 22 ottobre 1909: «La Voce non deve essere eterna. Il compito suo è di radunare dei giovani, di formare un pubblico, di preparare dei materiali, di educare delle menti: fra un cinque anni si sarà già fatto un bel po’. Allora quando Croce cesserà la vecchia Critica e fonderà la nuova, siccome questa sarà solamente di studio e di riflessione, tu fonderai la tua, che sarà di fantasia e di creazione. E la Voce avrà compiuto il suo dovere. Avremo allora un centinaio di volumi sui quali avrà avuto efficacia il pensiero, il lavoro, il consiglio nostro. E ci saranno di pubblica e storica garanzia. Peccato che il R. [innovamento] cessi. Era una tendenza. Bisognerà raccoglierne meglio che potremo l’eredità buona nella Voce». (CII, p. 297). 17 Italia 1912, cit., p. 98. 132 CRONACHE ste» dell’Italia contemporanea18. Rifondare il paese, appena cinquantenne e già così moralmente decrepito. Un’Italia che non piaceva ai vociani, e proprio in concomitanza con la prima ma sofferta data anniversaria dell’Unità19. Se critica fu, fu critica portata ai massimi livelli della propria funzione e destinazione, critica ai tempi, alla nazione, al potere, ai metodi di governo, alle remore dello sviluppo, ai nemici del progresso, non certo critica letteraria, o solo critica letteraria, già esaudita da fin troppi organi di competenza e di controllo. Ecco che mettersi sulle tracce della critica letteraria, sfogliando «La Voce», timbrando ogni volta il cartellino dell’articolo o del saggio letterario, è come cercare l’accessorio fra ben altre sostanziose offerte della casa madre. Prezzolini aveva dato vita all’impresa perché, come scrisse a Giovanni Gentile, aveva «una grande fiducia nell’efficacia del pensiero per il risorgimento del carattere italiano»20. Risorgimento e carattere, due parole molto connotate di senso, l’ascesa di un paese intero e il modo di essere atavico dell’italiano, con le sue inerzie secolari, sì che il risorgimento doveva effettuarsi anche dentro ogni individuo per modificarne l’assetto in funzione del risorgimento collettivo di un popolo, e pertanto parole replicate nel corso delle interpretazioni dello stato della nazione. Era quanto un filosofo, che di fiducia ne nutriva per lo meno altrettanta, voleva sentirsi dire, e infatti anche Gentile fu vociano e Prezzolini fu, oltre che crociano, anche gentiliano, sentendo nel filosofo siciliano un maggiore calore di religione. L’empatia che con Croce non era forse caratterialmente possibile. Ai tempi della guerra, tempo di passione e di epica del sacrificio, la personalità di Gentile prevalse decisamente su quella del neutralista Croce. Essere neutralisti significava essere e confermarsi razionalisti, senza concessioni ad alcuna poematicità della storia. Curiosamente fu un errore di stampa che diede l’occasione a Gentile di mandare un articolo alla rivista. In Bibliografie. La filosofia hegeliana in Italia, uscito su «La Voce» il 4 febbraio 1909, Prezzolini aveva scritto che «Il Gentile stesso va annoverato alla Chiesa degli hegeliani d’Italia, sebbene applichi con libertà sempre crescente il pensiero del maestro». Il refuso, o «errore 18 Ivi, p. 100. E. Gentile ha ricostruito le reazioni alle date anniversarie dell’Unità d’Italia, 1911 e 1961, e profetizzato la data del 2011. Lo scontento vociano, manifestato da Prezzolini e da Amendola, ma con il concorso di un po’ tutti gli intellettuali aderenti al progetto («La democrazia presente non contenta più gli animi degli onesti. Essa non rappresenta ormai che un abbassamento d’ogni limite, per far credere d’aver innalzato gli individui: mentre non si è fatto che l’interesse dei più avidi e più prepotenti»; Prezzolini, Che fare?, 1910), marca con una ferma ricusazione etica il cinquantenario della Patria: vd. Id., Né Stato né Nazione. Italiani senza meta, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 5-16 («L’Italia come oggi è non ci piace»). 20 Prezzolini, cartolina postale a G. Gentile, Firenze, 30 gennaio 1909, in G. GentilePrezzolini, Carteggio 1908-1940, a cura di A. Tarquini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Biblioteca Cantonale Lugano Archivio Prezzolini, 2006, p. 11. 19 «NON È LA NOSTRA UNA RIVISTA DI LUCRO O DI VANITÀ» 133 scusato» del correttore di bozze, era in quella Chiesa, così antitetica al libero pensiero, di cui si era fatto forte Gentile per stendere l’articolo La Chiesa hegeliana, uscito il 18 febbraio successivo21. Gentile significava dialogo sul Modernismo e sull’educazione religiosa dei laici. Ma significava anche e soprattutto tradizione filosofica e storiografia erudita nell’ambito del pensiero, di cui cominciava a dare un saggio commentando la monografia crociana di Prezzolini, elogiandola «della penetrazione simpatica con cui avete saputo entrare nello spirito del nostro amico», mentre ne rivelava le lacune nelle conoscenze storiografiche, dagli scritti di Croce sulla «Rassegna pugliese» del 1885 ai rapporti con Labriola, ai trascurati elementi herbartiani, all’opera di Bertrando Spaventa non adeguatamente apprezzata, e qui esaltata oltre ogni limite: «Intanto, è certo che, senza Spaventa, tutti i lumi oggi in Europa, cioè nel mondo, sarebbero spenti»22. Era Gentile stesso a rendersi conto che «La Voce» si appesantiva con tutte quelle questioni e deragliava sul binario della «Critica» crociana e gentiliana. In queste circostanze, di regia culturale, di richiesta e smistamento o taglio di articoli, Prezzolini appariva chiaramente in difficoltà23, per un deficit di cultura di cui avvertiva il peso nei confronti di quei calibri. Ma gli andava riconosciuta comunque l’autonomia di idee se non di pensiero, quando per esempio opponeva a Gentile e alla sua concezione della scuola classica, come costituita necessariamente di umanità latina e greca, un’altra classicità, moderna ed europea, tedesca o inglese: «anzi tedesca. Se no la scuola veramente classica o umana, come lei vorrebbe, dovrebbe essere anche sanscritista, anzi allargarsi alla letteratura ebraica, che ha, nella formazione dello spirito nostro, per via del cristianesimo, tanta importanza»24. Non solo, anche sul Modernismo, a proposito del capitolo su Le forme assolute dello spirito, inserito nel volume laterziano di Gentile del 1909, Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia, l’accordo non era trovato. E Gentile mostrava di gradire quella dialettica che, essendo l’opera ancora in fieri, avrebbe giovato alla sua stesura definitiva25. Fu, «La Voce», una chiamata alle armi dell’intelletto critico e indagatore, rivolta a una generazione operosa, seria, che della serietà e dell’impegno fece la sua arma e la sua bandiera. Impegno nel fare, nel convertire il sapere nella pratica, sotto l’egida della Pratica crociana, elevata a categoria dello spirito e a modello di metodo. La filosofia, nella fattispecie il crocianesimo di riferimento, tornava a essere non una negazione ma una affermazione del mondo, 21 Prezzolini a Gentile, senza data; responsiva di Gentile, Palermo, 8 febbraio 1909 (ivi, pp. 12-13). 22 Gentile, Palermo, 8 febbraio 1909; ivi, p. 13. 23 Prezzolini, cartolina postale a Gentile, Firenze, 25 ottobre 1909; ivi, p. 26. 24 Id., a Gentile, lettera senza data, collocabile nell’ottobre 1909; ivi, p. 23. 25 Gentile, cartolina postale a Prezzolini, Roma, 4 novembre 1909; ivi, p. 27. 134 CRONACHE una ritrovata quanto operosa concordia con la vita degli uomini. Seria, «La Voce», di una serietà ostentata e dichiarata, come un programma, soprattutto fino al rigorismo calvinista di certe pagine jahieriane. Una serietà spinta fino al cipiglio, e a una certa dose di mutria pedante. Il monopolio della serietà, che «La Voce» sembrava d’ufficio volere avocare a sé, fu uno dei motivi di insofferenza nei confronti di quel covo di politicanti virtuosi (così all’incirca si esprimeva, mettendosi per una volta nei panni di Serra, il Contini di Serra e l’irrazionale). E un certo sovrappeso di indignazione zavorrava ogni argomentazione. Péguy, con la sua rivista anch’essa versata sulle cose di Francia, fu sicuramente un modello di serietà e di coerenza, e quando Prezzolini lo evocò, esaltandone l’inflessibilità e la nessuna propensione alla partita doppia fra atti e principî, fece quasi un autoritratto26. Era un sommare moralità a moralità, austerità ad austerità, «La Voce» ai «Cahiers de la Quinzaine». Un’isola di carta, ma una magna carta etica e intellettuale, nella corrente delle cose e dei fatti, che era chiamata a commentare, con cui pure doveva mescolarsi, entrando a far parte dello stesso teatro. I moralisti e censori nella stessa compagnia dei fustigati e criticati. I numeri della «Voce» erano solidi, fabbricati con impegno, talora scialbi però, senza ritmo, ponderosamente cementati in monografie tematiche, o come notava un Papini fattosi lettore, senza la sufficiente animazione per tenere vivo il contatto con il destinatario. Quel famoso lettore, solo per cui si doveva scrivere. A questo lettore, e Papini sapeva mettersi dalla sua parte, non bastavano infatti le cose giuste, le ragioni dignitose, le informazioni adeguate, anche la dottrina documentaria (pezzi di conferenze impaginati27), per dirsene appagato. Prezzolini, che non mancava né di onestà né di chiarezza, avvertendo malumori e dispiaceri, in verità più fra i collaboratori che fra i lettori, s’indusse a scrivere il 25 luglio 1909 una lettera aperta al collettivo vociano, in cui diceva che bisognava pur rassegnarsi alle disparità di pareri sui numeri della rivista e la loro qualità28. Prezzolini insisteva schematicamente su una antitesi fra la razionalità d’impostazione, e di governo amministrativo, e 26 Prezzolini, I «Cahiers de la Quinzaine», in «La Voce», II, 34, 4 aprile 1910, p. 369. Un incontro con Péguy, e Sorel, ai «Cahiers», è registrato nel Diario 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978, p. 90, alla data del 10 marzo 1910. Vd. anche la carte postale, da Parigi a Papini, 11 [?] marzo 1910, in CII, p. 316. 27 G. Salvemini, La riforma della scuola media, in «La Voce», a. i, n. 24, 27 maggio 1909. 28 CII, p. 261: «Abbiamo un concetto molto diverso del giornale: per voi è un’opera arbitraria e poetica – per me è razionale e pratica. Finché si combacia, e in tante cose si combacia, va bene; ma poi io seguo la mia via, e voi il vostro gusto. Bisogna che voi vi rassegnate a essere urtati da certe cose, e io mi rassegni ai vostri lamenti, e io mi rassegnerò forse più tardi di voi, perché ho più simpatia per il vostro arbitrio di quel che voi non abbiate per la mia ragione». E poi la domanda cruciale di un amministratore: «Com’è possibile evitare la parte dei numeri?». «NON È LA NOSTRA UNA RIVISTA DI LUCRO O DI VANITÀ» 135 l’arbitrarietà di ricezione. Lui si sentiva dalla parte dell’oggettività razionale (era il suo crocianesimo di quella stagione); gli altri dalla parte dell’arbitrarietà, la quale a sua volta consisteva nell’opporre resistenza e nel dire che la rivista, in tutto o in parte, non piaceva (alla fiorentina, non garbava29). E sapeva, lui per primo, di avere a che fare con un sinedrio in parte costituito di prime donne, e comunque un uditorio tanto sensibile quanto difficile, pronto a ogni alito di vento a scatenare un «buggerio» di dichiarazioni dei diritti dell’Uomo – a ciascuno la propria dichiarazione e il proprio diritto – e buggerio lo chiamò in una lettera successiva del 29 luglio30. La capricciosa democrazia redazionale fece sentire sovente i suoi effetti anche sui nervi di Prezzolini, portandoli a esaurimento. Chiunque operi fra gli uomini, gli rammentava Papini scrivendogli il 1 gennaio 1910 nel corso di una delle sue ricorrenti crisi di sfiducia, non poteva che essere turbato da debolezze e tristezze e Prezzolini non era alieno da quei turbamenti31. C’erano momenti, come attesta una sua lettera a Soffici del 20 dicembre 1909, in cui si sentiva come un limone spremuto, anzi «stretto con le dita, con le mani, e poi coi denti». Aveva accettato di essere direttore, abitando a Firenze, vicino alla tipografia, altrimenti si sarebbe acconciato alla parte di collaboratore32, e gli si può ben credere, tanto numerose e fulminee furono le uscite di scena. Spesso si annidava in quelle pagine il pettegolezzo culturale, come risultato di contrapposizioni e polemiche, e strascichi di polemiche, spesso equivoci e malintesi che si sclerotizzavano in polemiche, che nutrivano articoli, che andavano a costituire un patrimonio passivo del vocianesimo. E si è visto come la polemica scaturisse in prima istanza per autocombustione ambientale, e attrito fra le stesse personalità dei vociani. Prima ancora di attizzarle, extra moenia, dalle parti del giornalismo nazionale o della consorteria politica e burocratica, o dell’odiata capitale politica del paese, ridotta a pochi squallidi avventori delle lettere patrie (come Bellonci, e Cardarelli, prima amico della «Voce», più tardi nemico). Sfide a duello, come quella con il periodico nazionalista «Il Carroccio», attaccato duramente da Prezzolini con un articolo del 25 febbraio 1909 (Nazionalismo a tanto la riga), poi sospese e seguite da referendum-consultazione dei collaboratori (A proposito di un rifiuto di sfida), restituivano all’esterno un’atmosfera fra greve e comica, come se quei signori si prendessero un po’ troppo sul serio. Un trascinamento verboso che fu uno specifico manierismo di genere della «Voce», e in ultima analisi avviò 29 CII, p. 267: «Quel che intendo per arbitrario l’ho detto un milione di volte. Un segno dell’arbitrario è, per es., la vostra intolleranza per tutto ciò che non vi garba, senza addurre, in fondo, altra ragione, che non vi garba». 30 CII, p. 266. 31 CII, p. 310. 32 Prezzolini, Italia 1912, cit., p. 101. 136 CRONACHE quel processo di intima erosione che portò all’implosione della testata, ereditata poi dai letterati puri, come Giuseppe De Robertis, altrettanto polemici contro tutte le impurità della filosofia, della politica e della storia. Alla sensibilità di un lettore inquieto e nervoso una certa noia poteva insorgere, con tutti quei catoni schierati, a ogni momento. Il vociare, di cui scriveva con crescente fastidio il non vociano Serra a un vociano scalpitante e opportunista (e pertanto alla lunga infedele), come l’amico suo Luigi Ambrosini33. A margine di queste considerazioni, che hanno messo in rilievo una certa autoreferenzialità nei modi e nel carattere in questi intellettuali di rivista, ci sarebbe anche da chiedersi se un’ottica storiografica molto centrogravitata sulla città, in altre parole marcatamente fiorentina, non abbia fin troppo scommesso sulla centralità “nazionale” della testata vociana, e di conseguenza sulla sua leggenda, mentre vige pure un’autorevole storiografia, si pensi ad Asor Rosa, che non mostra affatto questa condiscendenza: «Non sembri paradossale od offensiva l’affermazione che gli intellettuali fiorentini del tempo fanno riviste perché non hanno altro da fare»34. Il leonardismo, l’ultimo fascicolo datava all’agosto 1907, stava appena alle spalle e significava tante cose, a cominciare dalla proiezione egotistica di se stessi, quasi uomini-dei, a detrimento di un contatto positivo, o solo realistico, con la cultura italiana nella sua attualità. Gentili, nell’Introduzione all’edizione del secondo tomo del Carteggio, ha descritto partitamente che cosa significasse in ciascuna delle due personalità redazionali essere ormai fuori dal «Leonardo», e dover puntare ad altre mete, ad altre legittimazioni culturali e critiche, fra la Firenze delle varie istituzioni di cultura e della Biblioteca Filosofica e la Milano della grande stampa nazionale («Corriere della Sera»), dell’editoria industriale (Treves) e del Modernismo confluito nel gruppo del «Rinnovamento», comprensivo di una personalità dai molti talenti e dalle importanti funzioni, come quella di Alessandro Casati. Una vera e propria riprogrammazione, che non poteva se non astrattamente essere compiuta all’unisono, né lo fu di fatto, scontando anche le divergenze che si erano manifestate nell’ultima fase del leonardismo35. Prezzolini aveva decretato per sé e per chi avrebbe dovuto seguirlo la fine dell’arbitrarietà vinciana e aveva posto la questione esattamente nei termini di un’arbitrarietà avversa al metodo dei principi logici esaminabili. In una lettera a Papini, in cui si dichiarava in 33 Vd. ora in proposito, M. Biondi, Renato Serra. Un profilo fra lettere e scritti critici, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna dall’Ottocento al Contemporaneo, a cura di P. Pieri e L. Weber, vol. I, Dall’Unità alla Grande guerra, Bologna, CLUEB, 2010, pp. 188-189, p. 198, pp. 201-203, p. 215. 34 A. Asor Rosa, Storia d’Italia, IV, Dall’Unità a oggi, La cultura, Torino, Einaudi, 1975, p. 1148 («Me e non me». Saggio di una cultura negativa). 35 Gentili, Introduzione, in CII, pp. vi-vii. «NON È LA NOSTRA UNA RIVISTA DI LUCRO O DI VANITÀ» 137 cerca di un modo di rendersi conto della storia umana, accusava Papini (e il cervellotico Soffici) di personalismo (o arbitrio), rei entrambi di trasportare le loro simpatie, capricci e affinità, nel dominio della logica. Si potrebbe adoperare il termine «orfismo» per questo tipo di alleanze elettive e simpatetiche, punteggiate di creazionismi ed eroismi individuali, che per Prezzolini erano il tradimento della procedura logica e storicista, vale a dire l’antitesi a un pensiero sottoposto a verifica e passibile di traslazione nel mondo dell’attività pratica. Si affacciavano Croce e il crocianesimo come sistema e garanzia: «Voi pretendete fare la critica su basi personali ed arbitrarie. Io pretendo che essa parta da principi logicamente esaminabili. Ecco il nostro dissidio. L’arbitrario e l’assoluto» e aggiungeva, al fine di una possibile ricucitura: «Noi resteremo uniti se l’affare individuale rientrerà nella sua sfera»36. Vero è che Papini, nella responsiva da Milano del 7 marzo 1908, gli dirà che quel fervore di puritanesimo intellettualistico era anche una conseguenza del suo «libertinaggio anteriore», e il dissidio non era poi così profondo37. Pertanto si era poi sentito «solissimo» Prezzolini nella preparazione della rivista, e se ne era lamentato in una lettera ad Alessandro Casati del 18-21 dicembre 1908, solo, s’intende, per il disinteresse manifestato da Papini alla parte organizzativa dell’impresa. Fino a quel momento l’unità d’intenti era stata forte abbastanza da resistere a libri scritti a più mani, come la Coltura italiana, che Papini aveva condiviso per un certo tratto, giudicando poi eccessivo l’impegno, l’investimento profusovi dal sodale38. Prezzolini era stato toccato da una religione laica, presupposto anche della sua fidelizzazione crociana, lo storicismo. Gli uomini nella storia, la storia come istituzionalizzazione umana nel tempo. Di qui l’interesse per ogni cosa concernesse questa presenza, questo radicamento e questa responsabilità. In seguito la religione, a cui constatava l’impossibilità di un accesso innocente da parte di intellettuali ormai segnati da una immodificabile ratio, gli rimase dentro come un tormento fino alla tarda età, e alle domande ultime sul rischio di Dio. Ma, come dichiarava già al tempo del dopoguerra nella lettera a Piero Gobetti, la religione, il credere e il non credere, restavano in un uomo di pensiero quale non poteva non essere l’intellettuale «il problema urgente e centrale», che non poteva essere sanato dalle negazioni irrazionalistiche né dagli idealismi vicari della religione quale quello gentiliano39. Il vocianesimo era una forma di religione laica e operante, per uomini che non potevano più essere religiosi nel senso tradizionale ma che non si rassegnavano alla irreligiosità, perché sentivano den- 36 37 38 39 sgg. Prezzolini a Papini, Firenze, 6 marzo 1908 (CII, pp. 85-86). CII, p. 87. Si rinvia a Biondi, La cultura di Prezzolini, Firenze, Polistampa, 2005. Prezzolini, Io credo, Torino, Pittavino, 1923, Lettera introduttiva a Gobetti, p. viii, 138 CRONACHE tro un impegno e una spinta che almeno per traslato religiosi continuavano a essere. Anche la guerra entrava a far parte di queste nuove versioni della religione e della fede, e religiosamente era stata vissuta. Papini, per il quale il distacco dal «Leonardo» fu ben altrimenti traumatico40, era rimasto al fondo leonardiano, individualista, artista, se vogliamo anche venturiero. Il distacco dal «Leonardo» era coinciso con un «periodo di sonnolenza poetica, venuto dopo la disappetenza rivistaia»41. Le sue «ali irrequiete» battevano contro le pareti di dimore sempre troppo anguste42. Il nodo segreto del suo pensiero era a quel tempo la fuga, la repulsa dalla realtà, un disprezzo cosmico, non la sanzione delle cose o il loro aggiustamento riformistico43. Amava le burrasche di scritture tumultuose, che si accavallavano l’una sull’altra, come le sue letture, non i compiti impartiti per l’indomani vociano dal direttore suo amico. Il fai questo o il fai quello per riempire un numero non gli fu mai compatibile. Anche a Sturm und Drang passato, la polla di quelle tempeste restava al fondo del suo io44. Inoltre Papini era del tutto estraneo alla critica come servizio, a interessarlo era la critica come esperienza di ricerca, di confronto, di navigazione procellosa fra gli scogli della filosofia e del pensiero e le spiagge più quiete e più liete della letteratura, parola che diceva di odiare per quel tanto di decorativo e rilassato che ostentava nel nome. Che non potesse essere disposto alla critica come servizio, agli scritti servili, alla funzionalità del mestiere, lo diceva anche la sua «invincibile antipatia per la gente che mette insieme poesie, novelle e romanzi per altrui divertimento e propria utilità»45. Insomma Papini non voleva rendersi utile agli utilitari delle lettere e non aveva rinunciato, per sé, ai grandi orizzonti, alle mete supreme. Ma, per quanto incerto sulla «Voce», e metodicamente malpensante, Papini era amico sincero di Prezzolini, pronto a schierarsi dalla sua parte se il direttore vociano ne avesse avuto bisogno, contro le cricche letterarie del paese (ci fu un complottismo della «Voce»), o contro gli attacchi proditori (come quello di Corradini, che, in via dell’Oriuolo a Firenze il 27 maggio 1909, aveva coronato a suon di cazzotti i battibecchi nazionalisti fra «Voce» e «Marzocco»46). Anche le rispettive crisi, di cui si davano puntuali referti pe40 Gentili, Introduzione, cit., p. xiii (Papini a Milano e a Bulciano). Papini, lettera a Prezzolini, Bulciano, 2 aprile 1909 sera, in CII, p. 225. 42 Papini, Un uomo finito, Con un’appendice di inediti, documenti e annotazioni a cura di A. Casini Paszkowski, Introduzione di G. Luti, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994, p. 91 (I fratelli morti). 43 Ivi, p. 87 (La fuga dalla realtà). 44 Ivi, pp. 86-87. 45 Ivi, p. 89. 46 Prezzolini, lettera a Papini, Firenze, 30 maggio 1909: «Sta il fatto che C. [orradini] andò all’ospedale mentre io non avevo nemmeno un graffio alla faccia. L’incidente è disgustoso ma bisogna esser preparati a tutto, anche a peggio» (CII, pp. 242-243); Papini, lettera a Prezzolini, Bulciano, 30 maggio 1909 (CII, p. 244). 41 «NON È LA NOSTRA UNA RIVISTA DI LUCRO O DI VANITÀ» 139 riodici, avevano cause diverse: quelle di Prezzolini nascevano dal turbamento che gli suscitavano le cose degli uomini, il loro fare e disfare disorganizzato e ingrato; quelle di Papini dal venir meno dell’estro creativo. In una lettera all’amico del 30 marzo 1910 Papini scriveva che a Prezzolini interessavano tante cose (fra cui la cultura, e anche la democrazia); per lui, pessimista e misantropo («più che il pessimista, l’uomo di scherno e di satira», correggeva Prezzolini47), c’era un’unica via d’uscita dal senso di morte, la creazione48. Qualche volta i referti risultavano asincroni: uno vedeva rosa e l’altro nero. «Sono in momento di fiducia e di speranza, – scriveva Prezzolini il 16 febbraio 1910 – e la tua desolazione mi par così lontana come dal sole di questi giorni la neve della Siberia»49. Non è poi vero, alla luce di queste lettere, che fra i due, come è stato detto, non ci fosse confidenza altro che intellettuale. Comunque sia una serie di aspetti e di modi di essere, e vere e proprie atipicità o metamorfosi papiniane, sfuggivano a Prezzolini («c’è qualche cosa di misterioso in certe forme che tu assumi»)50, e ogni suo disorientamento fu riassunto nello sbigottimento davanti alla conversione. I tavoli di lavoro su cui Papini si esercitava erano numerosi, scriveva sonetti («sonettacci volgari»), leggeva filosofi antichi e moderni, storici, eretici, mistici, si confrontava con Croce, dietro consiglio di Prezzolini, «per fare una buona volta i miei conti definitivi con lui»51. Non disdegnava neppure di lavorare la terra, per accogliere a Bulciano l’attesa venuta di Dolores, moglie di Giuseppe. In ogni caso Papini, che tiene molto a marcare la sua autonomia anche nel modello di vita che si era scelto, era lo scriba solitario e intellettualmente dispotico, anche quando si metteva a dirigere i volumi della papiniana «Cultura dell’Anima», che «La Voce» pubblicizzò fin da subito. Papini, lettore ingordo, spaziava nel tempo e s’imboscava cinghialone vorace in tutte le discipline, come dimostrano i titoli di quella collezione, editi entro l’aprile 1909, amava trascorrere da Aristotele a Galileo, S. Anselmo, Schopenhauer, Boutroux, Sorel, Guicciardini, Machiavelli, Bergson, Swift, Paolo Sarpi, senza recinto alcuno e in piena libertà, con il gusto di materie e personalità diverse e tutte corposissime e nutrienti. Alberto Manguel ha ben descritto nella 47 Id., a Papini, Firenze, 4 aprile 1910 sera (CII, p. 324). CII, pp. 321-322. Il conforto di Prezzolini era nella lettera già citata del 4 aprile 1910: «Vedi piuttosto se non sei in errore. Anzitutto la nostra amicizia non è fondata sulle tue opere da venire, ma sulla nostra unione passata. E che cosa c’entra l’affetto per un amico con le sue capacità d’essere un genio?» (CII, p. 323). 49 CII, p. 364. 50 Prezzolini, lettera a Papini, Firenze, 16 febbraio 1911 (CII, pp. 364-365). 51 Papini, lettera a Prezzolini, Bulciano, 29 maggio 1909 (CII, p. 241). Nella lettera del 27 luglio 1909, si dà riscontro della lettura terminata, Estetica, Logica, Pratica e Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel: «Ho finito di rileggere tutto Croce (4 voll. il Sistema e il libro su Hegel) e tento di incrociarmi» (CII, p. 265). 48 140 CRONACHE sua Storia della lettura i lettori come Papini, cumulativi e a progressione geometrica, con libri suggeriti da altri libri, a catena e a spirale. Anche se Papini sentiva che non avrebbe potuto appagarsi di quei libretti, in cui pure condensava giganti, e infatti riprendeva in mano in quei giorni il Rapporto sugli uomini per un nuovo capitolo52, ma quei libretti di Carabba gli davano intense e mirate soddisfazioni critiche, come dimostrare con l’antologia galileiana che la filosofia non era solo quella abruzzese e napoletana del mentore vociano. Critica, quella papiniana, come conoscenza, esplorazione, appropriazione (l’antologia con prelievo di materia dagli autori), conquista e possesso del nucleo vitale delle personalità (le biografie di Carducci, Sant’Agostino, Dante, Michelangelo), trasversale, come fu la sua talvolta dilettantesca comparatistica53, ipercolta e bulimica, con una decisa oltranza intellettuale (romantica) che lo faceva sempre volare alto sul mestiere tradizionale del precettore di recensioni54. La sua idea di rivista, come si evince da una lettera del 12 ottobre 1909 ad Alessandro Casati, il benefico mecenate milanese delle sovvenzioni, contemplava, in riferimento al progetto «L’Uomo» presso Carabba, un foglio in cui in un clima di libertà anche un po’ pazza si alternassero studi seri, effusioni poetiche e speculazioni religiose. Dove la varietà avrebbe dovuto garantire l’estrinsecazione periodica del capriccio, contro il puritano ordo rerum del vocianesimo politico e filosofico. Inoltre Papini, ottimo amministratore della sua fama, sapeva che prima sarebbe stata necessaria l’opera, da usare come piedistallo per mettersi al comando di una nuova rivista, dove la critica sarebbe stata sostituita dalla creazione, la pratica dall’arte, l’informazione dalla filosofia55. C’è una frase nella lettera a Casati, rivelatrice della qualità del bisogno di cui Papini si faceva espressione, cercando di fare altre riviste mentre non avrebbe cessato la collaborazione alla «Voce». La quale – diceva – svolgeva bene il suo compito, soprattutto per le cose pratiche (e fra le cose pratiche metteva anche la critica), «ma non c’è in essa tutto quello di cui l’anima ha bisogno». Tuttavia anche Papini, il meno adatto da solista a essere impiegato in un coro, doveva fare i conti con una crisi personale, con la ricerca di un centro di attività che era andato perduto, con una fine (il leonardismo), e con un principio, che, a differenza di Prezzolini, non riusciva a intravvedere nella sanatoria del crocianesimo. I problemi, organizzati e domati, dello storicismo 52 241). Id., lettere a Prezzolini, Bulciano, 20 marzo 1909; 29 maggio 1909 (CII, p. 220, p. 53 Si ricordino le sue frequentazioni con Farinelli e Graf, nella buia Torino, di cui sopra (cartolina postale a Prezzolini, Torino, 24 ottobre 1909; CII, p. 299). 54 Bibliografia degli scritti di Giovanni Papini, a cura di A. Aveto e J. Lovreglio, Premessa di F. Contorbia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006. 55 Papini, lettera a Prezzolini, Firenze, 1 gennaio 1910 (CII, p. 311). «NON È LA NOSTRA UNA RIVISTA DI LUCRO O DI VANITÀ» 141 gli sembravano pedanterie, che ammaliavano Prezzolini, ma che distraevano, lui Papini, oltre che da un conflitto meno disciplinabile, dalla pagina, vuoi di poesia, vuoi di critica (insieme alla lettura esploratrice, la prediletta stroncatura), senz’altro impegno di quello profuso dal suo cervello nell’hic et nunc della presenza letteraria e intellettuale. Non fu il vocianesimo la conclusione per Papini, ma uno dei veicoli trainanti la stesura del suo «romanzo interno»56, Un uomo finito, edito nel gennaio 1913 dalla «Libreria della Voce», dove la sfida dell’autobiografo-narratore era quella di catturare l’attenzione dei lettori su «vicende puramente cerebrali e intellettuali, passioni e dolori che riguardan soltanto le cose dello spirito», come se quella materia fosse di «avventure donnesche e guerriere», inaugurando una sorta di inedito romanzo mentale. Quell’aggettivo «finito», del tutto incongruo se riferito a una durata biologica dell’esistenza, né mancò la ideale prosecuzione de La seconda nascita, stesa nel 1923, diceva quanto fosse rimarchevole la fine dell’avventura leonardiana57. In seguito Papini, che aveva assistito alla genesi della rivista, partecipandovi più come deuteragonista molto laterale e quasi antagonista che potenziale partner, si era accorto che Giuliano il Sofista, per quel carico di responsabilità etiche e storiche, aveva perso in leggerezza, e aveva aggiunto di suo «qualche presina di saccenteria»58. Era il contagio crociano del magistero, dell’indirizzo da imprimere alla cultura, del disegno di egemonia. Del pensiero che si faceva per ambizione anche politica. Un’autorevolezza autoritaria che lui non era disposto a tollerare. Fra i titoli in lizza per la rivista ci fu infatti «L’Italia che pensa»59, ma per evitare il ridicolo, fu fortunatamente schivato. Mario Missiroli propose Romanticismo, non errato in sé, ma molto, troppo metaforico. Si andava in cerca di un titolo, che significasse anche un criterio per orientarsi nelle realtà cultu- 56 Id., a Prezzolini, Bulciano, 24 agosto 1910 (CII, p. 348). Id., Un uomo finito, cit., p. 85 (La sortita). 58 Id., lettera a Prezzolini, Pieve S. Stefano (Arezzo), 10 giugno 1908 (CII, p. 155). Nella lettera Papini ammetteva anche che Croce avesse avuto ragione nel considerare necessaria una tale rivista e aggiungeva: «Però non ti prometto le corrispondenze milanesi che risulterebbero, credo, molto scarne. Io contribuirò invece con frequenti articoletti. Bada però che l’appoggiarsi da troppe parti se giova alla cassa e alla diffusione presenta moltissimi pericoli come io ho sperimentato col Leonardo. Speriamo bene!» Come notano i curatori, il modello dei promessi articoli brevi è quello della rivista «Commento», il cui numero unico del 16 febbraio 1908, allestito celermente insieme a Soffici e a Casati era stato annunciato a cose fatte a Prezzolini, al quale era sembrato nient’altro che un’appendice del leonardismo più arbitrario e fazioso, il più lontano dall’ipotesi costruttiva del vocianesimo, allora ancora in pectore. Articoli che dovevano essere commenti ai racconti altrui. L’impegno di Papini risulta limitato fin dal principio, come se avesse notato dalla montante saccenteria del socio una diversità della proposta vociana rispetto all’impresa comune leonardiana. 59 Prezzolini, Italia 1912, cit., p. 101. 57 142 CRONACHE rali, onde interpretarle e giudicarle, estraendone una valenza educativa. Venne da Soffici il titolo «La Voce», da un vociano minore, che da «Lacerba» volle poi vendicarsi della sua carcerazione intellettuale nel vocianesimo crociano. Così commentava il titolo Prezzolini: «La Voce è il titolo di un capitolo de Il Sarto Spirituale del Prezzolini e vi stava a significare, in modo un po’ troppo letterario per dei futuri “vociani”, quella ispirazione poetica o filosofica che è una incomoda compagna degli uomini segnati dal destino a tormentarsi per la libertà, il sogno, la lotta, la gloria, lo scavo interiore e per altre diavolerie romantiche dello stesso genere»60. Tormentarsi per la libertà: è una frase felice, che fotografa nell’intimo molte delle anime vociane. Tormentarsi per la libertà, fino a perderla. Critica e virtù «Vi è qualcosa nella critica – scrive Michel Foucault in un suo libretto sull’esercizio critico dell’Illuminismo – che si associa alla virtù».61 Critica e virtù, o la critica che discende dalla virtù, da un suo acquisito parametro. Mi pare che si possa dire che in tutta la «Voce», dalla iniziatica promessa di Prezzolini ai numerosi editoriali dei vari moralisti vociani, viga un atteggiamento critico autoscientemente virtuoso, e una proposta critica autorizzata da conclamata, dispiegata virtù. «La Voce» critica perché sa, perché conosce i rimedi. Anche la guerra di Libia, scrive Prezzolini in un editoriale del 1912, ha avuto successo perché ha saputo ascoltare la voce della critica, la quale ha corretto gli spropositi (retorici) della politica africana crispina: «e se all’orgoglio nazionale deve farsi la sua buona parte, altrettanta va data alla critica nazionale»62. La critica nazionale. Come si vede, l’accezione di critica si allargava a comprendere il concetto di pubblica opinione, educata dalla critica delle élites e diventata a sua volta agente o soggetto collettivo di critica. «La Voce» fu virtuosa dispensatrice di idee, idee di varia provenienza disciplinare, con una copertura filosofica che fu, nel primo periodo, quella dell’idealismo crociano, ma idee che dovevano innestare movimenti, contagiare la politica e guarirla delle sue endemiche infezioni. La fisionomia di ragione che ebbe corso nella «Voce» fu quella di una organizzata propensione al fare insieme, all’opera comune, identificando un comune terreno e uno scopo, e, da parte di Prezzo- 60 Id., Introduzione, Il titolo, in V, p. 44. M. Foucault, Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Roma, Donzelli, 1997, p. 35: «E sotto un certo aspetto, quello di cui volevo parlarvi era proprio dell’atteggiamento critico come virtù in generale». (Illuminismo e critica). 62 Prezzolini, La guerra e la critica, in «La Voce», a. IV, n. 32, 1912 (Romanò, p. 477. Vd. nota n. 115). 61 «NON È LA NOSTRA UNA RIVISTA DI LUCRO O DI VANITÀ» 143 lini, quella razionalità fu il frutto anche di un proprio emendarsi dall’intuizionismo bergsoniano, sentito anche quello come arbitrio individuale oltre che come principio di scissione dualistica (materia e coscienza, spazio e tempo). Il crocianesimo, giunto ai tempi della «Voce» a formulare i temi della Logica (1909), che tanto avrebbe sollecitato le reazioni di Boine, garantiva una continuità organica nei gradi della vita spirituale. Tuttavia quella copertura filosofica, più che teoretica, fu metodologica e deontologica, sintetizzandosi in un invito pressante a lavorare, conoscere i problemi (le questioni), anzi porre problemi in serie per cercare a essi soluzioni. Un neopragmatismo intellettuale tutto italiano, impregnato di spirito nazionale, senza magismi leonardeschi, posato, quieto, con il ritmo giornaliero dell’impegno sistematico. Voce per aver voce in capitolo, nella sfera della realtà statuale esistente (il giolittismo), e di una società in mutamento. Il primo intoppo allo sviluppo potenziale della rivista fu costituito dalla guerra di Libia (1911), mentre nell’altra guerra il vocianesimo entrò quasi a vele spiegate come nel tempio finale del sacrificio ascetico (Jahier, Slataper, Serra). Voce per criticare, esprimersi, proporre, polemizzare, intervenire. «La Voce» fu sinonimo di intervento continuo a partire da un dissenso, per così dire costruttivo, da una sfiducia collaborante, da un dubbio programmato e propositivo, critico ma non eversivo (come era stato «Leonardo» e sarà «Lacerba»), protagonistico ma non narcisistico, secondo il modello di individualismo e mera pratica d’autocoscienza dell’asse leonardismo-lacerbismo, anticipatore per certi aspetti della teoria confluita molti decenni dopo ne La cultura del narcisismo di Christopher Lasch. Anche su un altro piano, essenziale per la democrazia, l’istruzione e le sue istituzioni, le differenze fra «La Voce» e asse leonardiano-lacerbiano, furono profonde. Dalla parte dei geni o sedicenti tali, la politica era quella di abolire l’istruzione pubblica, che intristiva e non sollevava gli animi (il papiniano Chiudiamo le scuole), le quali non servivano, se geni si nasce. Dall’altra la rivista prezzoliniana, non innatistica anche se pragmaticamente immanentistica, che le scuole e università le voleva migliori. «La Voce» aveva bisogno di un apparato statale e di una società con cui confrontarsi continuamente sulla base della vasta e innumerevole problematica ereditata dal processo unitario e dai suoi esiti. In un certo senso il giolittismo, che interpretava una fase di crescita del livello democratico, con certa sua spregiudicatezza consociativa di forze politiche-sindacali e l’uso di tattiche parlamentari, si prestava a produrre attriti e discordie in serie con il fronte del rigore vociano. Eppure Prezzolini nella sua cronaca della vita intellettuale di quegli anni aveva reso omaggio al carattere freddo, alla compassatezza burocratica e industriale, del Giolitti prosatore in politica, e pertanto superiore al Crispi, retore e poeta imperiale; e in un genere letterario come la prosa, che era anche il suo più compatibile stile, aveva riconosciuto la virtù di uno statista che sapeva scrivere in prosa «in una nazione di versaioli e di entu- 144 CRONACHE siasti»63. Vociano sotto questo profilo anche Giolitti. E tuttavia antigiolittiano fu il fronte degli intellettuali, dei ragionatori, della élite critica dei supervisori della gestione della cosa pubblica, che non facevano sconti alla politica politicante ma che a quella politica erano pure fortemente interessati, e in un certo senso vincolati. Tramontato il giolittismo, non ci sarebbe stato posto neppure per loro. I vociani erano interessati al potere e alla sua ramificazione burocratica-ministeriale, con largo raggio di competenze sul potere moderno, che non era più accentrato in qualche simbolico apparato ma dislocato su tutta l’area dei suoi presidi tecnici (viene in mente il Malaparte elaboratore di tecniche per il colpo di Stato), compreso l’esercito, che pure viveva, come sarà chiaro alla immediata vigilia della Grande guerra, una sua crisi militare, di cui si sarebbe dovuto occupare il direttore di «Armi e progresso» e «Il Pensiero militare» Fabio Ranzi, che però, nonostante le sollecitazioni, non collaborò alla «Voce». Ma i vociani furono più generalmente interessati ad alzare la soglia mentale della nazione. Un dovere che Prezzolini sentiva e voleva condividere con gli amici che più stimava (Papini) era «quello di lavorare perché le condizioni dell’intelligenza italiana si modifichino in meglio»64. Si configurava pertanto, in questo lavorare per la nazione, una forma di nazionalismo etico. Il «Leonardo» era stato un sogno astratto di dominio intellettuale. «La Voce» fu l’intelletto trasferito sul piano delle cose, riconvertito a doveri quasi neomazziniani di critica, di controllo morale e rilancio ideale, a beneficio di un paese giudicato in crisi sia per il passato (un Risorgimento incompiuto) sia per il presente (la gestione cinica del giolittismo, che però, in prosa politica, con il ritmo del codice civile, aveva svelato «la menzogna socialista»65). Costituì un modello, un prototipo, stabilendo una relazione fra intellettuali e società, politica, civile, anche religiosa, che ebbe una durata limitata e fallì, lasciando in ciascuno dei partecipanti all’impresa, ritornato ai propri itinerari individuali di esistenza e di ricerca, un senso acuto di fallimento, ma al tempo stesso un marchio di fabbrica, amaro e consapevole. Essere stati vociani, e ci fu un reducismo vociano, significò aver preso parte all’ultimo tentativo di assimilare gruppi intellettuali al tentativo di rinnovare lo Stato. Uno stato parassitario, burocratico, protezionista, dalla cintola in giù sotto scacco di camorre varie, accentratore e anarchico, secondo il paradosso di Prezzolini che è anarchico uno Stato corrotto e incapace ed è uomo d’ordine chi tenda a sovvertirlo. Ma il dissenso fu mantenuto entro un registro critico, non eversivo. Anche i lettori, se non furono un partito, si avvicinarono, o che fossero già formati o si formassero strada facendo per quel periodico nutrimento di idee, a essere anch’essi una comunità. Segno che certe idee, certe propulsioni 63 64 65 Id., Italia 1912, cit., Giolitti: la prosa, p. 77. Id., lettera a Papini, Firenze, 12 maggio 1908 (CII, p. 127). Id., Italia 1912, cit., p. 76. INDICE GENERALE Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 7 Fatti e fasti di Toscana. La letteratura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 11 Dante la potenza delle origini. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » «Un mondo perfetto come ogni paradiso» . . . . . . . . . . . . . . . . » Firenze una camera con vista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 12 31 41 Osservatorio leopardiano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 71 La narrazione delle «Lettere». . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 72 I nuovi Italiani: entusiasmi domati e spirito ragionatore . . . . . . » 105 «Non è la nostra una rivista di lucro o di vanità». Voci e versioni della critica nella «Voce» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 127 «Tormentarsi per la libertà» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 127 Critica e virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 142 Cosa fu il vocianesimo?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 171 Verso l’ignoto. Direzioni di marcia del futurismo fiorentino . . . . . » 189 Futurismo nella città del passato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 189 Un fronte lungo seicento giorni: «L’Italia futurista» . . . . . . . . . » 210 Vasco Pratolini: «Cronache di poveri amanti». Storia e cultura di un romanzo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 237 Un humus ermetico alle origini delle «Cronache»: la cultura di «Campo di Marte» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 237 Il romanzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 259 633 INDICE GENERALE Firenze una società letteraria. Alessandro Bonsanti il grande cerimoniere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 276 L’erede di Solaria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 276 Giornalista e gentiluomo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 279 Nota . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 292 Fatti e parole. La scrittura di Ernesto Rossi . . . . . . . . . . . . . . . . » 294 Il pessimismo liberale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 294 Scriptor rerum. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 304 Gattopardi in Sicilia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 314 Giuseppe Maggiore e Giuseppe Tomasi della fama in letteratura . . . . . . . . . . . All’ombra di «una fata cattiva» . . . . . . Il tempo, la cosiddetta storia . . . . . . . . di .. .. .. Lampedusa: misteri . . . . . . . . . . . . . . » 315 . . . . . . . . . . . . . . » 335 . . . . . . . . . . . . . . » 340 Il romanzo nel labirinto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 353 Un oscar per Rubé . . . . La narrativa di Borgese . L’uomo nel labirinto . . Nota . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » » » » 353 356 359 361 Scritture della guerra civile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 364 Un revisionismo illimitato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 364 Le ali alla scrittura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 368 Malaparte. L’Europa dei vinti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 404 Napoli il destino del continente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 404 Il marxismo di Sodoma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 412 Borrador di De Libero. «Come un cimitero di notte». . . . . . . . . . » 429 La cacciata dall’Eden . . . . . . . . . . . . . . . Lo spettatore che soffre . . . . . . . . . . . . . . «Poi è stata una rovina di uomini e di cose» L’osservatore letterario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » » » » 430 432 436 443 Frammenti di una storiografia espressionista. Piero Camporesi scrittore di storie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 446 Alma mater grembo fecondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 446 In principio fu l’Artusi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 451 634 INDICE GENERALE «Gli italiani non sono più quelli». Passato e presente del mito Pasolini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 470 L’oro nero del romanzo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 470 Trentacinque anni fa a Firenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 475 Umberto Eco. Storia e antistoria nel “pendolo” templare . . . . . . . » 485 Il tempo degli stregoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 485 Materialismo democratico e voglia di invisibile . . . . . . . . . . . . » 495 La storia a passo di gambero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 505 L’agenda del semiologo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 505 Credere all’incredibile: il soprannaturale mediatico. . . . . . . . . . » 514 Un treno per Roma. La dolce vita di Federico Fellini e la letteratura » 522 Letteratura e cultura del cinema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 523 «La dolce vita». Echi della stampa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 555 Indice analitico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 561