Giuliano Gambin
STORIA DELLE COMUNITA’ DI
VILLAGA, TOARA
E BELVEDERE
CENTRO STUDI BERICI
Tutti i diritti sono riservati.
Giuliano Gambin
STORIA DELLE COMUNITA’ DI
A mia moglie e alle mie figlie
che mi hanno sostenuto
in questo lavoro storiografico
VILLAGA, TOARA
E BELVEDERE
CENTRO STUDI BERICI
Indice
PREFAZIONE
CAPITOLO PRIMO: TESTIMONIANZE NEL BASSO VICENTINO
E A VILLAGA
1. La grotta di S. Bernardino
2. I reperti di Ca’ Bissara a Pojana Maggiore
3. L’insediamento capannicolo di Sossano
4. I ritrovamenti a Barbarano e a Villaga
5. Altre tracce preistoriche a Villaga
6. Una curiosa notizia di geologia
10
11
11
12
13
14
CAPITOLO SECONDO: L’ETA’ ROMANA
1. Quattro date importanti
2. La centuriazione del territorio
3. I reperti archeologici
18
19
21
CAPITOLO TERZO: VILLAGA NELL’ETA’ FEUDALE
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
L’età longobarda
L’organizzazione pievana del territorio
I Benedettini nel Basso Vicentino
La Curtis di Barbarano
La Manifestatio Barbarani
Le infeudazioni del vescovo
Le origini del Comune di Villaga
Il tramonto dell’età feudale
I Traverso, i Godi e i Barbarano
5
26
27
27
28
29
31
31
34
34
INDICE
INDICE
10. I toponimi dei nostri luoghi
11. Le antiche contrade
35
38
CAPITOLO QUARTO: GLI ORDINI CAVALLERESCHI A VILLAGA
1.
2.
3.
4.
Gli Ordini religioso-cavallereschi nel Basso Vicentino
La Commenda di S. Silvestro di Villaga
La chiesa di S. Silvestro
La Domus hospitalis di Barbarano a Toara?
42
44
48
49
CAPITOLO SETTIMO: LA PARROCCHIA DI TOARA
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Le origini
L’inventario dei beni della chiesa dell’anno 1444
Le visite pastorali
La nuova chiesa
Il Beneficio parrocchiale
Il recente restauro della chiesa
La canonica
La chiesa di S. Antonio Abate di Belvedere
Descrizione della chiesa attuale
Elenco dei parroci di Toara e Belvedere
140
141
144
149
150
158
159
162
169
174
CAPITOLO QUINTO: IL PERIODO VENEZIANO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
Sotto la Repubblica Serenissima di Venezia
Statuti delle ville di Belvedere, Pozzolo, Villaga e Toara
La bonifica delle campagne
I nobili Barbarano a Toara e Belvedere
Il Castello trasformato in palazzo e l’erezione della villa di Toara
Il rapimento del figlio del conte Barbarano
Cesare Barbarano prigioniero a Belvedere
L’economia
L’avvento del mais
Dall’abbondanza alla carestia
I pastori
Gli Estimi
Gli atti notarili
52
53
59
60
62
63
66
68
69
70
71
74
89
CAPITOLO OTTAVO: LE CONFRATERNITE
1. Le Confraternite di Villaga
2. Le Confraternite di Toara
3. Le Pie Unioni
177
179
187
CAPITOLO NONO: LE ANAGRAFI PARROCCHIALI
1.
2.
3.
4.
5.
6.
I registri parrocchiali
La popolazione di Villaga
La popolazione di Toara
Come eravamo…
Villaga: nati, morti, matrimoni
Toara: nati, morti, matrimoni
189
193
200
206
209
225
CAPITOLO SESTO: LA PARROCCHIA DI VILLAGA
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Le notizie più antiche
L’Inventario dei beni della chiesa dell’anno 1492
Le visite pastorali
La chiesa attuale
Descrizione della chiesa
La canonica
Il cimitero
Cronologia dei parroci
Il Beneficio parrocchiale
La Fabbriceria
6
102
103
109
117
120
126
128
129
130
136
CAPITOLO DECIMO: L’OTTOCENTO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Le descrizioni di Villaga e di Toara del Maccà
La caduta della Repubblica di Venezia e il periodo napoleonico
Nel 1848 famiglie e comunità depredate
L’economia
La proprietà fondiaria
Salute e malattie
La scuola nell’Ottocento
7
240
241
242
243
249
251
256
INDICE
CAPITOLO UNDICESIMO: IL FASCISMO E LA SECONDA
GUERRA MONDIALE
1. Annotazioni delle maestre dall’anno 1928 all’anno 1945
Prefazione
260
CAPITOLO DODICESIMO: TESTIMONIANZE
1.
2.
3.
4.
Le 98 primavere di Umberta De Marchi
Gervasio Bruttomesso, l’ultimo reduce dalla Russia
I Ferrari, una famiglia di maniscalchi e di fabbri
Elettra Miglioranza: memoria storica di Belvedere
278
279
281
282
CAPITOLO TREDICESIMO: EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
Cappella Madonna della Neve
Villa Barbaran Conti Piovene Porto Godi
Oratorio di S. Giorgio
Villa Palma Bedeschi
Villa Barbarano detta il Castello
Casa Barbieri
Fattoria Zonin
Villa Rasia Dani
La Colombara del Paradiso
Il portico di casa Bruttomesso
Villa Bruttomesso
Villa Castagna
Statue artistiche: le Madonne di via Salgan
8
286
288
290
291
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297
298
299
300
302
304
L’opera che sono lieto di presentare, che completa il lavoro già avviato col
volume pubblicato nel 2003 “Il Novecento a Villaga”, è scaturita dalla volontà
di indagare sulle vicende delle nostre comunità di Villaga, Toara e Belvedere, a
partire dalle origini per giungere sino ai giorni nostri, al fine di conoscere la
nostra storia, alla scoperta dei valori morali e civili che l’hanno contraddistinta. Sono convinto, infatti, che fare “memoria storica” è rendere un prezioso
servizio ai cittadini, perchè una comunità senza memoria è come un popolo
senza storia e identità.
Il volume presenta la storia (dal greco “istorìa” = ricerca) dei documenti che
riguardano il nostro territorio e attraverso questi ne ricostruisce l’identità, ne
traccia le linee di sviluppo e ne interpreta i cambiamenti che vi sono avvenuti.
L’indagine effettuata, che indubbiamente non ha pretesa di dare una risposta
nè definitiva, nè totalmente esauriente a tutti i problemi o gli interrogativi che
possono sorgere sulla vita del passato, è stata condotta, però, sulla base di precise documentazioni rinvenute nei vari archivi comunali, parrocchiali, della
Curia vescovile e di Stato, cercando di decifrare e interpretare le carte antiche
con rigore scientifico, ma nello stesso tempo di presentarle nel modo più semplice ed accessibile a tutta la popolazione.
Le informazioni raccolte nel corso del lavoro hanno consigliato di suddividere
la trattazione in vari momenti storici, nel tentativo di inquadrare le vicende di
Villaga sullo sfondo della storia vissuta dalla nostra regione e dall’area bassovicentina, dalla preistoria al secondo dopoguerra. Non potevo perciò limitare il
lavoro ai soli fatti riguardanti il nostro Comune, poiché ne sarebbe uscito uno
scritto frammentario e disorganico e quindi di difficile lettura. Infatti, pur
ponendo tutta la mia attenzione agli avvenimenti che si svolsero a Villaga, non
potevo non metterli in relazione alla storia, perché solo così è possibile capire
perchè avvennero e perchè proprio in quel dato momento storico.
Nel pensare e nello scrivere questo libro, ho tenuto presente il principio che
adottano quanti, oggi, scrivono di storia locale, e cioè il concetto che occorre
9
PREFAZIONE
considerare la storia come qualcosa che nasce anche “dal basso”, che appartiene non solo ai personaggi illustri, ma anche alla gente comune. Pertanto ho
cercato di dar spazio ad una ricostruzione storica che, seppur priva di grandi
eventi, racconta la quotidiana lotta per la sopravvivenza della nostra gente e il
suo riscatto in tempi recenti che ha portato alla situazione attuale.
Nel volume poi trovano adeguato spazio le fotografie d’epoca e moderne, con
le quali ho potuto corredare il tutto, grazie alla collaborazione di tante famiglie
a cui sono riconoscente per la disponibilità dimostrata. Un ringraziamento particolare va poi ai parroci, don Giancarlo, don Valerio e don Giuseppe per avermi dato la possibilità di consultare gli archivi parrocchiali da cui sono emerse
preziose informazioni sulla vita delle nostre comunità.
Mi auguro che questo lavoro storiografico possa stimolare le comunità locali a
sentirsi maggiormente unite e a non disperdere il grande patrimonio di valori
che ci hanno trasmesso le generazioni passate e che noi abbiamo il dovere di
conservare e l’arduo compito di continuare a tramandare.
Belvedere di Villaga, novembre 2007
10
CAPITOLO PRIMO
TESTIMONIANZE PREISTORICHE
NEL BASSO VICENTINO E A VILLAGA
La storia dell’archeologia del Basso Vicentino si è arricchita negli ultimi anni di
una serie di importanti ritrovamenti che hanno contribuito a far piena luce
sulla vita degli uomini nella preistoria.
1. LA GROTTA DI S. BERNARDINO
Già si sapeva che l’area dei Colli Berici è ricca di siti rupestri abitati sin da
epoche remote. Il più antico è certamente la grotta di S. Bernardino a Mossano,
ritenuto tra i più importanti d’Europa. In essa sono state condotte, a partire dal
1986, ben sette campagne di scavi – finanziate dalla Provincia di Vicenza – da
parte dell’èquipe del prof. Broglio del dipartimento di scienze geologiche e
paleontologiche dell’università di Ferrara, che hanno portato a interessanti
ritrovamenti e all’acquisizione di preziose informazioni scientifiche.
Innanzitutto è stato possibile riconoscere nella sequenza stratigrafica una successione di climi che si sono succeduti nell’era quaternaria: dapprima fresco e
umido, poi decisamente freddo, quindi più umido e temperato.
Per quanto riguarda i resti paleontologici, sono stati rinvenuti tre denti e una
falangetta umani, appartenenti a uomini neanderthaliani; i resti di mammiferi
di media e grossa taglia: l’orso delle caverne, l’alce, il cinghiale, la lince, il
leopardo, il cervo, lo stambecco, il camoscio, la martora, il castoro, la marmotta.
Nell’ultima ricerca sono venuti alla luce un deposito di manufatti, più un centinaio di selci e una cavità con uno strato di ceneri che rappresentano, allo stato
attuale delle ricerche, la più antica documentazione dell’accensione di fuochi
in un sito preistorico italiano. Sono stati scoperti infatti i resti di due focolari,
di forma circolare, caratterizzati da una sovrapposizione di livelli. Uno di essi,
dopo l’analisi con il metodo torio-uranio, ha fissato la data di addomesticazione del fuoco in quest’area a 270mila anni fa.
Inoltre, i manufatti ritrovati nella parte inferiore del deposito attestano l’esistenza dei metodi di lavorazione Levallois già a partire da 300-250mila anni
11
CAPITOLO PRIMO
TESTIMONIANZE PREISTORICHE NEL BASSO VICENTINO E A VILLAGA
fa. Per il prof. Peresani si tratta della più antica industria Levallois conosciuta
nell’Italia settentrionale. I ritrovamenti hanno poi evidenziato che i gruppi
umani che a più riprese hanno frequentato il sito avevano una buona
conoscenza del territorio, di cui sfruttavano le risorse in attività quali la caccia,
la raccolta di molluschi, la lavorazione della selce. 1
Il materiale ritrovato – ha scritto Leonilo Frison in un suo testo dal titolo “L’età
del bronzo”– tuttora conservato presso il Museo Civico di Vicenza, consiste in
tipiche lame e microbulini, cuspidi di freccia e martelli di pietra levigata; il che
testimonia ancora una volta della rarità di manufatti in bronzo nella nostra
zona; fra le ceramiche sono presenti le anse a cornetti e le immancabili anse a
cilindro verticale che caratterizzano una successiva frequentazione del sito.
Un altro insediamento protostorico, della fase recente dell’età del Bronzo,
segnalato da Frison, si trova ancora a Sossano nel cosiddetto “Castellaro dei
Dordo”situato sul Monte della Croce, purtroppo devastato da una grande cava
di pietra negli anni Sessanta del secolo scorso.
2. I REPERTI DI CA’ BISSARA A POJANA MAGGIORE
Altra significativa scoperta archeologica avvenuta negli anni scorsi è l’individuazione nella bassa pianura vicentina (che si pensava una grande palude
inospitale) di tracce di un villaggio risalente alla fine del V millennio a. C. in
località Ca’ Bissara presso Pojana Maggiore. Tale insediamento, secondo
Giancarlo Zaffanella che ha condotto le ricerche assieme da altri studiosi del
Centro ricerche ambientali “Athesia”, testimonia la presenza di coloni provenienti dalla costa adriatica. Lo si può riconoscere dalla presenza di oggetti in terracotta, che venivano abitualmente lavorati da coloni e agricoltori provenienti
da quest’area e più anticamente dal vicino oriente dove la terracotta era già
conosciuta da alcuni millenni. 2 Tra i materiali rinvenuti, va detto che vi sono
oggetti estremamente interessanti, testimonianti almeno tre distinte fasi di
occupazione: pre-Fiorano, Fiorano e tardo Vasi a bocca quadrata.
Sulla base di questi elementi, Zaffanella ipotizza che verso la metà del V millennio a. C. siano giunti nella pianura veneta coloni che trovarono un territorio popolato da cacciatori e raccoglitori nomadi (mesolitici). Il contatto allora
stabilito innescò un lungo processo di trasformazione dell’economia di queste
popolazioni locali col risultato di un progressivo mutamento delle forme di
vita. Da caccciatori e raccoglitori di prodotti spontanei della terra, queste genti
impararono l’agricoltura e l’allevamento: in altre parole – sostiene Zaffanella –
si realizzò la cosiddetta “rivoluzione”neolitica. 3
3. L’INSEDIAMENTO CAPANNICOLO DI SOSSANO
Durante l’ultima guerra mondiale, è stata fatta a Sossano, dai tedeschi, una
trincea anticarro e su una parete della fossa è comparsa la sezione di un villaggio con fondi di capanne con tutte le sue buche. Tale insediamento veniva a
trovarsi nei pressi del Monticello dove risiede la famiglia Borga. Il materiale fu
raccolto dal prof. Perin e successivamente studiato dal prof. Pietro Leonardi,
docente di geologia dell’università di Ferrara. L’insediamento di Sossano venne
definito come un villaggio di capannicoli neo-eneolitici di cultura remedelliana.
1
Tali notizie sono tratte da un articolo dal titolo: “L’uomo preistorico abitava sui Berici”, pubblicato sul settimanale diocesano “La Voce dei Berici”in data 20 ottobre 1996, a pag. 22
2
G. Zaffanella, Importante scoperta archeologica tra Pojana e Noventa, in “Il Basso Vicentino”.
3
G. Zaffanella, op. cit.
12
4. I RITROVAMENTI A BARBARANO E A VILLAGA
Ma nuovi e importanti dati sul popolamento della zona meridionale del
Vicentino, dal neolitico agli inizi dell’età del ferro, sono venuti dai recenti
ritrovamenti di Sandro Faccin, un appassionato di archeologia residente a
Barbarano, che da parecchi anni si dedica, con risultati sorprendenti, alla ricerca di superficie. Dal 1994 ad oggi ha rinvenuto una quantità straordinaria di
materiale in selce di lavorazione finissima, che costituisce un fatto raro per l’epoca in questione.
“Nel fondo Nardi, vicino al Bagno di Barbarano – spiega Faccin – ho raccolto le testimonianze più antiche di frequentazione umana: si tratta di pugnali, punte di freccia di varia tipologia, elementi di falcetto, bulini, strumenti a ritocco erto e alcune
ceramiche attribuibili all’ultima fase della Cultura dei vasi a bocca quadrata (fine del
IV – inizi del III millennio a. C.). Inoltre ho rinvenuto numerosissimi elementi di falcetto, tutti accomunati dalla stessa tecnica di scheggiatura e di ritocco. Queste lamefalci dimostrano che il sito era stabile e che l’agricoltura praticata in quest’area di
pianura era intensa”.
“Nella piana di Villaga ho localizzato un altro sito, in una zona oggi completamente asciutta, perché bonificata in maniera definitiva già dal Cinquecento. La
frequentazione umana qui è riferibile alla fine del III millennio a. C. e agli inizi
del secondo. L’ampia area diventa, in base ai ritrovamenti di superficie, divisibile in due settori: il primo, ancora Eneolitico, che ho battezzato “Murloniano”
(versione berica del Campignano lessineo), localizzabile alle pendici del Monte
Murlone e che assomiglia molto alla Cultura della Lagozza (da Lagozza di
Besnate presso Varese), mostra una tradizionale lavorazione della selce.
Realizzati in selce locale, sono raschiatoi foliati, grattatoi foliati a forma di
ogiva, oppure di tartaruga o anche ad ascia, caratterizzati da un ritocco bifacciale, lame raschiatoio frontale lungo e corto, troncature ed elementi di falcetto. La selce impiegata per la realizzazione di tali strumenti possiamo ipotizzare sia stata raccolta presso la collina di Monticello a Ponte di Barbarano,
oppure sulle pendici delle alture di Lovolo di Albettone, o ancora allo sbocco
13
CAPITOLO PRIMO
TESTIMONIANZE PREISTORICHE NEL BASSO VICENTINO E A VILLAGA
della Piana di Villaga, in località Ca’ Melato, oggi Dani.
Nel secondo settore della Piana di Villaga ci troviamo di fronte a materiali e forme
dell’età del Bronzo. I reperti sono stati rinvenuti in prossimità di un dosso sabbioso,
oggi praticamente scomparso. Il fossile guida in questo sito è rappresentato dalla
punta a base concava, tipica dell’età del Bronzo. Gli elementi di falcetto vengono
ritoccati nelle due facce con ritocco piatto coprente bifacciale con tecnica accurata e
precisa. Possiamo attribuire all’età del Bronzo anche due fusaiole e una decina di anse
a nastro, di cui quattro con apofisi ad ascia e una cornuta, tutte di impasto grossolano
e alcuni cocci pertinenti a tazze carenate di impasto nerastro, sempre prive di decorazioni incise o impresse”.
Secondo il prof. Felice Cocco, nella nostra zona scendeva una pista da Vicenza
lungo la Riviera verso Sossano, dove, come abbiamo già sottolineato, sorgeva
un villaggio di capanne. Anche le stazioni già di epoca preistorica del Brojon a
Costozza, di S. Bernardino e di Paina a Mossano, fanno pensare all’esistenza di
una importante via di collegamento che passava anche per il territorio collinare
di Villaga.6
5. ALTRE TRACCE PREISTORICHE NEL COMUNE DI VILLAGA
Allo sbocco della Piana di Villaga, in località Ca’ Melato, oggi proprietà della
famiglia Dani, emerge dalla pianura una collinetta simile a tante altre presenti
un po’ ovunque, ma che in realtà – sostiene Faccin - rivela al suo interno una
formazione rocciosa fino ad ora passata inosservata a quanti hanno scritto e
descritto i Colli Berici. Questa collinetta è costituita infatti da scaglia rossa
decolorata da azioni idrotermali, risalente al periodo turoniano (oltre 80
milioni di anni fa); si tratta di un calcare compatto che si presenta ben
stratificato e ricco di inclusioni di selce variegata.
Questo tipo di selce, pur essendo qualitativamente inferiore alla selce proveniente dal Biancone, è invece di buona qualità se paragonata a quella proveniente dalla scaglia rossa. La scoperta che le rocce superficiali più antiche
reperibili nell’Area Berica non sono le formazioni di scaglia rossa ma le sottostanti formazioni di scaglia variegata, in campo archeologico ha provocato
una piccola rivoluzione. Finora si è sempre detto e scritto che le selci rosse
trovate in zona erano originarie di qui mentre le selci variegate erano importate da fuori. Ed invece non è così, sostiene Faccin. Gli uomini preistorici non
avevano bisogno di portare o di far portare da fuori le selci variegate perché
giacimenti di questa varietà si trovavo anche qui da noi. E Faccin, appunto, ha
scoperto la collinetta Dani che garantiva l’approvigionamento. “Questo sito –
precisa – ha restituito molti resti di industria litica e particolarmente lo scarto della
lavorazione della selce, alcuni nuclei e altri blocchi appena saggiati, definibili dei prenucle”.
Sporadici ritrovamenti di superficie sono stati effettuati presso il Bagno di
Villaga, a Belvedere, a Quargente e a Toara. Si tratta di manufatti e strumenti in
selce difficilmente databili in quanto privi di ceramiche accompagnanti.
In località Fogomorto, inoltre, sono stati raccolti numerosi cocci prevalentemente pertinenti a ciotole e a vasi decorati a stralucido. E’ stato anche
ritrovato uno splendido amo in bronzo, riferibile all’età media del Ferro (VIIV secolo a. C ).
Inoltre, sulla sommità del Monte Tondo, segnalata come insediamento
preistorico da don Vittorio Peruzzo – scrive il prof. Broglio 4 – ignoti avevano
fatto (negli anni Sessanta del secolo scorso) numerosi scavi abusivi. Grazie
ad un contributo finanziario disposto dalla Presidenza dell’Istituto italiano
di preistoria e protostoria, l’Istituto ferrarese di paleontologia umana ha
organizzato una campagna di ricerche negli anni 1968-69… Una trincea scavata ad ovest della sommità, ha rivelato un terrazzo artificiale il cui riempimento conteneva una ceramica omogenea, della prima età del Bronzo. Una seconda trincea, aperta verso sud, ha messo in luce due terrazzi di probabile
costruzione preistorica: i riempimenti contenevano abbondanti cocci, riferibili
alla media età del Bronzo (vasi con anse cornute e rostrate). Tra i reperti trovati,
si segnala un frammento di vaso a quattro beccucci che testimonia la presenza
dell’uomo nell’ultima fase della Cultura dei vasi a bocca quadrata. Sono stati
poi rinvenuti resti faunistici che evidenziano sui colli di Villaga e in altre zone
dei Berici (Castellon del Brosimo, Monte Crocetta di Arcugnano, Fimon, Fondo
Tomellero) la pratica dell’allevamento della capra-pecora, del bue e del maiale.
La caccia, già in declino nell’antica Età del Bronzo, era ormai passata in secondo piano, con prevalente interesse per i grandi mammiferi, tra cui spicca il
cervo.5
6. UNA CURIOSA NOTIZIA DI GEOLOGIA:
A VILLAGA UN ICEBERG DI PIETRA
4
A. Broglio, Monte Tondo, in Rivista di scienze preistoriche, XXIII, 1968, Firenze, pag. 407
L. Fasani, L’età del Bronzo media e recente, in Storia di Vicenza, 1° volume, Accademia Olimpica Vicenza, Neri
Pozza Editore, pag. 92-93
5
14
6
F. Cocco, La preistoria nel territorio di Costozza, in Costozza, edito dalla Cassa Rurale e Artigiana di Costozza
e Tramonte-Praglia, 1983, pag. 50
15
Manufatti in selce rinvenuti nella
piana di Villaga (IV-III millennio a.C.)
Amo in bronzo trovato in località
Fogomorto (VI-IV secolo a.C.)
Manufatti in selce provenienti da Belvedere (fondo Bonomi e Crocifisso)
Manufatti in selce rinvenuti nel territorio di Villaga
Piana di Villaga
16
17
Frammenti di embrici e coppi affiorati in località Crocefisso a Belvedere.
Disegno in cui appaiono alcuni embrici sormontati da coppi; questi erano i materiali che costituivano i tetti delle case
romane. Il disegno è tratto dal saggio di Roberto Marchioro: “Periodo Romano” in Monticello Vive, a cura del Comitato
per la difesa di Barbarano Vicentino.
18
CAPITOLO SECONDO
L’ETA’ ROMANA
1. QUATTRO DATE IMPORTANTI
Prima dell’avvento del dominio di Roma, il territorio del Basso Vicentino doveva presentarsi dal punto di vista paesaggistico pressochè intatto; la sparuta
popolazione presente era dedita all’allevamento e alla pastorizia, alla caccia e
alla raccolta. Pochi dovevano essere gli spazi coltivati che si trovavano per lo
più intorno ai villaggi, generalmente di modesta entità, costruiti ai piedi di Colli
Berici.
Quattro date ci aiutano a ricostruire l’evoluzione politico-economica compiuta da Vicenza e dal suo agro sotto l’influenza della penetrazione romana.
Innanzitutto la costruzione dell’antica via Postumia, iniziata nel 148 a. C. dal
console Postumio Albino per collegare Genova ad Aquileia, diede l’impulso per
dare un assetto e un’organizzazione territoriale ben definiti alle varie comunità
e civitates del territorio.
Successivamente, nell’anno 89 a. C., Roma emanò la legge Pompeia con la
quale estese il diritto latino agli abitanti del territorio tra le Alpi e il Po; con tale
legge venne concesso il godimento dei diritti civili, cioè di esercitare il commercio e di contrarre matrimonio secondo la legge romana.
Quarant’anni dopo, nel 49 a. C., una seconda legge, promulgata dal tribuno
Roscio per volere di Giulio Cesare, estese la cittadinanza romana alla Gallia
Cisalpina: Vicenza divenne quindi “municipio romano”. L’ultima data che
vogliamo ricordare è l’anno 8 a. C. quando l’imperatore Ottaviano Augusto
divise la penisola italiana in undici regioni; il nostro territorio nord- orientale
divenne la Decima, chiamata Venetia e Histria, una regione di gran lunga più
vasta delle odierne tre Venezie, poiché comprendeva anche l’Istria.
Le nostre popolazioni non entrarono mai in conflitto con Roma; anzi, i Veneti
si dimostrarono preziosi alleati in più circostanze. Pertanto si può affermare
che essi non furono conquistati, ma si lasciarono romanizzare senza traumi,
per piccole tappe, accettando l’influsso della civiltà romana.
19
CAPITOLO SECONDO
L’ETA’ ROMANA
2. LA CENTURIAZIONE DEL TERRITORIO
IPOTESI DI CENTURIAZIONE
Ad Augusto dobbiamo anche l’assegnazione dell’agro. Col sopraggiungere
dei coloni romani, infatti, si assistette ad un graduale cambiamento del paesaggio naturale con l’affermarsi dei terreni coltivati, grazie anche al dissodamento e al prosciugamento di parte della pianura berico-euganea, a quel tempo
caratterizzata dalla presenza di specchi lacustri e di paludi. Tale opera venne poi
proseguita dai frati benedettini vari secoli più tardi, nell’Alto Medioevo.
Pertanto possiamo affermare che i Romani hanno dato una prima razionale organizzazione al nostro territorio partendo dalla regolamentazione e dalla disciplina
del sistema idraulico, favorendo poi, anche attraverso la centuriazione, il sorgere di
nuclei abitati.1 Queste opere agrarie, condotte con metodo razionale su vaste aree
agricole, non solo costituirono la resurrezione economica di Roma, ma, con la rete
viaria, sono le maggiori strutture sulle quali poggia in linea di massima tutto quello che troviamo nei secoli posteriori e che è giunto fino a noi. Diventa importante
quindi studiare questa struttura romana – osserva Aldo Benetti – per comprendere
meglio sia la topografia che la storia dei nostri paesi.2
Attraverso lo studio delle centuriazioni, sostiene Luciano Bosio, altro grande studioso di questo importante fenomeno, si apre davanti a noi una grande pagina di
storia che, con tutte le sue implicazioni e i suoi sviluppi di ordine strategico, politico, sociale ed economico, ancor oggi possiamo ritrovare nel tessuto ambientale che
caratterizza il paesaggio veneto, e nella presenza di tanti centri di vita disseminati
nella campagna.3 Prima di addentrarci nelle varie ipotesi di centuriazione del nostro territorio bassovicentino, occorre precisare il significato del termine. Per
“centuriazione” si intende un sistematico intervento di misurazione e di suddivisione dei terreni dell’agro pubblico al fine della loro assegnazione ai colonizzatori.
Il tutto attuato secondo uno schema a reticolato di forma ortogonale, cioè un sistema di coordinate generate da due assi principali, cardini e decumani, orientati
sulla base della natura del luogo. L’agro – scrive lo studioso Alessio De Bon nel suo
saggio “Romanità del territorio vicentino”, un lavoro storiografico superato in
alcune sue parti, ma estremamente documentato e molto leggibile – veniva misurato a spazi regolari chiamati“Centurie”, aventi 700 e pochi metri di lato ciascuna. Le
centurie erano a loro volta suddivise in “Iugeri”, ovverosia il tratto di terreno che
poteva essere arato da una coppia di buoi in una giornata; questi a loro volta per
Actus…Per le misurazioni il geometra si serviva di uno speciale strumento chiamato Groma, di qui il nome di Gromatico al misuratore… Le strade di varia
grandezza che attraversavano l’agro centuriato e i fossati ne costituivano naturalmente le linee divisorie. Talvolta venivano posti anche speciali termini in pietra agli
incroci dei cardini con i decumani.4
Aldo Benetti, missionario comboniano e studioso di archeologia classica e cristiana, nel 1976 ha ipotizzato l’esistenza di una centuriazione a sud di Vicenza,
con riferimento più importante nel centro di Barbarano, compresa tra il fiume
Bacchiglione a nord, il territorio municipale di Padova ad est, l’agro centuriato
di Este a sud e i Colli Berici ad ovest. Il cardine massimo sarebbe rappresentato da una strada scomparsa che congiungeva Volpara del Monte Santo (Colli
Euganei) con Costozza, mentre il decumano massimo congiungerebbe
Barbarano con Cervarese.5
Il Comune di Villaga, secondo Benetti, viene attraversato dai cardini ottavo,
nono e decimo; dai decumani terzo, sesto e settimo.
Più tardi, nel 1983 il Dorigo ha presentato una centuriazione simile a quella del
Benetti, con orientazione 0° 30’NO e un’estensione più ridotta, comprendente
circa 220 centurie e assai articolata ai piedi dei Colli, mentre risulta notevolmente distanziata dall’ager di Este e dalla centuriazione padovana di
Cittadella.6
Più di recente lo studioso Leonillo Frison, anche se ammette che la situazione
alquanto differenziata dei terreni e le conseguenti variazioni nell’orientamento dei reticoli rendono assai difficoltoso riconoscere la presenza della centuriazione romana nelle nostre zone, è convinto di aver individuato una centuriazione che ha in Sossano il suo caposaldo. Egli parte dalla constatazione che
gli impianti urbani di vari paesi dell’Area Berica (Sossano, Orgiano e Noventa)
derivano direttamente dall’età romana. Sossano, in particolare, rivela la sua
originaria funzione di“castrum”, cioè di borgo fortificato simile a quello di Este.
Frison sostiene che la centuriazione diviene evidente a livello cartografico
qualora si adotti una griglia di coordinate basata sui due assi principali, cardine
e decumano, incentrata sull’Olmo di Sossano, che costituisce l’umbelicus
urbano (luogo centrale) e del territorio. La rotazione di tale griglia a precisi
intervalli permette di evidenziare i parallelismi e i reticolati determinati dal sistema stradale e dalla rete idrografica che risultano in diretta connessione con
gli andamenti della via della Riviera e gli assi determinati dal crinale dei Berici.7
La presenza e il rilevamento di tracce di centuriazione nel nostro territorio –
osserva Alessandra Menegazzi – costituisce un problema a tutt’oggi dibattuto,
data la scarsezza del limites (linee di ripartizione della terra) rintracciabili sul
terreno, mentre l’incertezza dei dati materiali è determinata dai numerosi
interventi di sistemazione idraulica operati nella nostra pianura.8
1 Vedi in proposito il saggio del prof. Michelangelo Muraro “Geografia, storia e miti del Basso Vicentino fino al
Palladio”, in Nantopietra, alle radici dell’arte della scultura, ed. 1989/90
2 A. Benetti, Le pievi pagensi del Veneto, Verona 1978, pag. 12
3 L. Bosio, Capire la terra: la centuriazione romana del Veneto, in Misurare la terra: centuriazione e coloni nel
mondo romano. Il caso veneto, Modena 1984, pag. 21
4 A. De Bon, Romanità del territorio vicentino, 1938, Vicenza, pag. 7
5 A. Benetti, Barbarano e il suo agro centuriato, in Opuscola I. Raccolta di articoli e di studi storici del Veneto,
Verona 1976, pp. 4-11
6 W. Dorigo, Venezia origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, Milano, 1983, pag. 64
7 L. Frison, La centuriazione romana nel territorio della Riviera Berica, Provveditorato agli studi di Vicenza, centro di documentazione e formazione.
8 AA.VV, Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano, il caso Veneto, Modena 1984, pagg. 140144
20
21
CAPITOLO SECONDO
3. I REPERTI ARCHEOLOGICI
Pochi ma importanti reperti archeologici sono stati rinvenuti nell’Area Berica,
soprattutto lungo la fascia pedecollinare, mentre nella zona collinare i ritrovamenti appaiono sporadici e concentrati in particolare nel Comune di Sossano
(Monte della Croce e Monte Cistorello). Da ciò si può dedurre, come sostiene
De Rossi,9 che le colline beriche non fossero sede di insediamenti in epoca
romana, probabilmente perché coperte da boschi e da poveri terreni di pascolo, quindi poco adatte alla sussistenza umana.
Ritrovamenti di materiale romano si sono avuti in varie località ai piedi dei
Berici: a Costozza, Lumignano, Castegnero, Nanto, Barbarano, Villaga,
Sossano, Orgiano e a Lonigo.
Nel Comune di Villaga le testimonianze più significative provengono dalla
località Oche ( il nucleo abitato che si trova tra lo stabilimento di calce di
Piovan e via Crocenera): una trentina d’anni fa, in un terreno prospiciente alla
contrada, durante lavori agricoli, a una profondità media di 80 centimetri, vennero alla luce cinque rocchi di colonna scanalati e con i fori centrali per l’incastro. Inoltre, nello stesso terreno, durante successive arature, sono affiorati
cocci di laterizi. Ora i cinque rocchi sono conservati nel cortile di una fattoria
del luogo.10
Altri ritrovamenti recenti sono stati segnalati in località Fornasette, lungo la
Riviera Berica, dove sono stati raccolti frammenti di laterizi e un peso da bilancia in pietra levigata.11 Poi, in località Ponte Alto, in un campo lungo la strada
per Belvedere si ha notizia del rinvenimento, negli anni Ottanta, di embrici,
mattoni e forse anche di alcune monete, in occasione delle arature. Tali reperti, che sono andati dispersi, sono forse da mettere in relazione con la presenza, segnalata nella zona, di un edificio rustico romano.12
Restando a Belvedere, in località Crocifisso, in un terreno situato nei pressi del
canale Leb, è emerso, in seguito ad arature profonde, vario materiale (embrici,
coppi, frammenti di vasellame; uno di questi porta impresso il bollo di Quinto
Curio, uno dei più antichi fornaciai del Vicentino); il che fa presumere la presenza di un’abitazione romana.
Infine riportiamo la notizia, riferita dallo studioso Giarolo nel lontano 1906, del
rinvenimento in una zona collinare di Belvedere (probabilmente all’interno
delle mura del Castello) di tombe e monete romane, che poi sono andate disperse.13 Il De Rossi aggiunge anche che forse venne scoperto un tratto di stra-
L’ETA’ ROMANA
da diretta a Sossano.14 L’ipotesi di una strada romana che, provenendo da
Vicenza, attraversava il territorio villaghese è verosimile, tuttavia permane l’incertezza sul suo percorso: continuava a costeggiare i colli fino a Sossano, come
sembrano indicare l’ubicazione dei centri più antichi e i ritrovamenti archeologici avvenuti tra Barbarano e Sossano, oppure dal colle di S. Pancrazio si
dirigeva quasi rettilinea in direzione di Noventa passando per la località
Sajanega? 15
Non è escluso che esistessero entrambe le vie, che in ogni caso dovevano attraversare il territorio di Villaga per collegarsi a Sossano o a Campiglia e poi a
Noventa Vicentina.
Già il De Bon, nel lontano 1938 aveva ipotizzato l’esistenza di una serie di
strade vicinali che intersecavano il territorio, precisando che una via saliva
costeggiando i colli da sud per Barbarano e Longare. 16 Lo studioso Mazzadi poi
riprende questa tesi sostenendo che una via vicinale iniziava da San Tomà di
Lonigo e si indirizzava ad Orgiano attraverso Spessa; poi giungeva a Sossano,
passava vicino a Belvedere di Toara, per finire nella via Postumia.17
Accanto alle strade, altri elementi significativi sono i cippi gromatici rinvenuti
nei bivi di confluenza con strade e valli interne dei colli (a Costozza,
Castegnero, Nanto, Sossano, Orgiano, Sarego, Brendola). Uno di questi è stato
individuato anche nel Comune di Villaga, e precisamente a Toara, all’interno
della proprietà di villa Piovene. Purtroppo il manufatto, di sezione quadrangolare, non riporta iscrizioni latine, ma tutto fa pensare che indichi la presenza di
un sistema di divisione agraria riferibile alla pratica della centuriazione.
Grazie alle prime vie di comunicazione di cui abbiamo parlato sopra, sorsero i
primi nuclei insediativi ai piedi dei Berici, vale a dire i primi “vici”.
Da uno studio attento della toponomastica antica, è possibile individuare i
modesti vici di Costozza, Castegnero, Sossano, Orgiano, Alonte, che costituivano i primi nuclei urbani già organizzati. Tali vici erano ubicati sui promontori
della fascia pedecollinare, in zone soleggiate ed abbastanza protette, in corrispondenza dei naturali corsi d’acqua alimentati dalle copiose sorgenti dei
Berici.
E’ lecito pensare che i vici facessero capo al pagus di Barbarano, vicus più
importante, dove risiedeva il magistrato civile, data la sua notevole importanza religioso-amministrativa che assunse tale nucleo in periodo longobardo e
poi carolingio.18
9 G. De Rossi, I Colli Berici in epoca romana, in “Quaderni di archeologia del Veneto”, 1985, pag. 145
10 G. De Rossi, op. cit. pag. 147, nota 21 ; AA.VV, Carta archeologica del Veneto, vol . III, Franco Panini ed., 1992,
pag. 57.
11 A. Bruttomesso, Testimonianze preistoriche e romane del territorio di Barbarano, in AA.VV, “Barbarano
Vicentino”, vol. 1, La Serenissima, 1999, pag. 164.
12 G. De Rossi, op. cit. pag. 148, nota 23 ; AA. VV. , Carta archeologica del Veneto, pag. 56
13 D. Giarolo, Osservazioni sopra una lapide sepolcrale scoperta presso Lonigo, in “Rivista di scienze storiche”,
III, fasc. VIII, Pavia, pp. 3-27.
14 G. De Rossi, op. cit., pag. 147, nota 22.
15 G. De Rossi, op. cit. pag. 146
16 A. De Bon, Romanità del territorio vicentino, pag. 6
17 E. Mazzadi, Lonigo nella storia, vol 1, Amministrazione comunale di Lonigo, 1989, pag. 33
18 Studio per una proposta di vincolo paesaggistico sui Colli Berici, a cura di Italia Nostra, Tip. Rumor,Vicenza,
1975, pag. 26
22
23
Frammento di embrice romano rinvenuto in località Crocifisso a Belvedere con impresso il timbro di fabbrica:
Q.C.V.R.I•CF (Quntus Curius Cai Filius: Quinto Curio figlio di Caio). Il mattone appartiene alla fornace di Quinto
Curio che sembra sia stata molto attiva nel Vicentino nel primo secolo d.C.
Disegno della centuriazione romana di Barbarano, tratto dal testo: “Opuscola I^, di A. Benetti”.
24
Colonne romane venute alla luce in località Oche a Villaga.
Cippo situato vicino alla corte di Villa Piovene a Toara.
25
Veduta di Villaga con la Villa Palma Bedeschi posta sulla parte collinare.
26
CAPITOLO TERZO
VILLAGA NELL’ETA’ FEUDALE
1. L’ETA’ LONGOBARDA
Nel 568 i Longobardi, provenienti dalla Pannonia (l’attuale Ungheria),
invasero la X regio, Venetia e Histria (il territorio del Triveneto e dell’Istria)
e, seguendo l’itinerario dell’antica via Postumia, raggiunsero in quello
stesso anno il cuore del Veneto fino a Verona, cogliendo di sorpresa e
impreparati i Bizantini. Sul loro percorso, per cautelarsi, insediarono nei
principali centri fortificati dei duchi ai quali furono affidate le migliori
“fare”- cioè i corpi di spedizione e le carovane che raggruppavano un certo
numero di famiglie imparentate tra loro - a tutela di quei luoghi.
Tra i 36 ducati fondati dai Longobardi vi era quello di Vicenza che ben
presto si estese anche sui territori che in un primo momento erano rimasti
in mano ai Bizantini e, dopo le conquiste di Agilulfo nel 602 e quelle di
Grimaldo, venne pressappoco a coincidere con le attuali province di
Vicenza e Padova, includendo il Colognese, S. Bonifacio e la valle
dell’Alpone, fino all’Adige. L’occupazione longobarda ebbe carattere
essenzialmente militare e strategico. Presidi di Longobardi si attestarono
soprattutto in corrispondenza delle principali città e di luoghi fortificati.
Così gli antichi pagi si trasformarono in sculdasce, centenari o contrade.1
L’avvento dei Longobardi, periodo che va dal 569 al 774, segnò il tramonto della romanità. L’editto di Rotari, del 643, rappresentò in sostanza la
codificazione delle consuetudini dei popoli germanici, mitigate dall’influsso cristiano. 2
I due secoli di dominazione longobarda portarono poi ad un periodo di
relativa calma. Allo spaventoso abbandono delle terre e alle angherie
inferte alle nostre genti nelle numerose scorribande delle orde barbariche,
subentrò un’epoca meno instabile e di graduale progresso civile: i nuovi
1 L. Frison, Santi e cavalieri, dominio signorile e fondazioni monastiche nel Basso Vicentino nei secoli VII-XII,
Centro ricerche ambientali Athesia, pag. 167
2 A. Biasin, Asigliano nella storia, Giovani Editori, pag. 33
27
CAPITOLO TERZO
VILLAGA NELL’ETA’ FEUDALE
conquistatori instaurarono quasi subito un proficuo accordo con le istituzioni locali e specialmente con la Chiesa, soprattutto dopo la loro conversione. La benevolenza degli ultimi re longabardi, ormai cattolici, verso
la Chiesa favorì indubbiamente l’organizzazione pievana del territorio e
l’inserimento dei frati Benedettini. 3
aveva raccomandato ai suoi seguaci di portare una roncola appesa alla cintura, per far capire che i Benedettini erano pronti a lottare contro la natura selvaggia per aprire un sentiero, bonificare una palude e insegnare a
coltivare la terra. La loro regola era il motto “Ora et labora”; con la
preghiera il monaco invocava Dio e ne riceveva la forza per non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà; con il lavoro aiutava il prossimo.
Essi, pertanto, portarono anche nel Basso Vicentino quel seme di vita e di
civiltà cristiana che era simbolo di rinascita dopo epoche davvero tragiche.
Il prosciugamento di molte paludi della nostra area, la costruzione del
canale Bisatto, lo svegramento di molte terre incolte sui colli, la progressiva depaganizzazione dei nostri centri, l’istituzione di fondazioni monastiche contribuirono notevolmente al rilanciare l’agricoltura e a risvegliare
le abbandonate attività artigianali, dando impulso così alla vita civile ed
economica.7
Durante il periodo benedettino hanno origine molti dei paesi dei Berici, i
cui toponimi e santi titolari tradiscono ancora la loro origine longobardobenedettina: Villaga (S. Michele Arcangelo), Toara (S. Giorgio), Sossano (S.
Giustina), Zovencedo (S. Nicola), Castegnero (S. Giorgio), Lumignano (S.
Maiolo), Noventa (S. Vito), Villa del Ferro (S. Martino), Asigliano (S.
Martino). 8
I Benedettini poi eressero varie fondazioni monastiche: a Sossano e a
Orgiano frati nonantolani facenti capo al duca Anselmo, fattosi benedettino, diedero vita a xenodochi, cioè ospizi monasteriali; ad Albettone esisteva il monastero di S. Felice; a Barbarano erano presenti il priorato di S.
Martino, il monastero di S. Donato (a quel tempo ricompreso nel territorio barbaranese), l’ospizio di S. Caterina (posto vicino al Castello, nel versante verso Villaga), il complesso di S. Giovanni in Monte.
2. L’ORGANIZZAZIONE PIEVANA DEL TERRITORIO
Le prime comunità cristiane rurali erano organizzate attorno alle rispettive
pievi che esercitavano la loro giurisdizione su vaste circoscrizioni territoriali. Il termine “pieve” deriva dalla parola “plebs” che inizialmente significava il popolo (la comunità cristiana); poi fu esteso alla chiesa e al distretto giurisdizionale del pievano (l’arciprete).
La pieve pertanto era la chiesa battesimale matrice di tutte le altre chiese
minori del territorio, aveva un clero che faceva vita comune sotto la guida
di un arciprete, aveva un patrimonio originariamente comune e un’ampia
area in cui si trovavano molte cappelle ad essa soggette. 4 Si ritiene perciò
che la primitiva organizzazione ecclesiastica del territorio fosse costituita
da poche parrocchie con ambiti molto vasti. Tra le pievi del Basso Vicentino
(erano quattro: Barbarano, Costozza, Noventa e Lonigo), proprio quella di
Barbarano fu probabilmente la più antica e sorse tra il VI e l’VIII secolo
divenendo matrice di tutte le altre cappelle del circondario, sotto la guida
di un praesbyter.
In periodo longobardo è chiara l’organizzazione cristiana rurale: la pieve,
con la sua comunità di presbiteri che faceva vita comune, e le cappelle filiali. Se la pieve faceva riferimento all’antico “pagus” (grande villaggio,
borgo) romano, nei vari “vici”(piccoli villaggi) disseminati entro la sua circoscrizione, sorsero varie chiese minori, soggette alla pieve fino al suo
frazionamento, quando divennero parrocchie autonome.5
4. LA CURTIS DI BARBARANO
I Benedettini arrivarono nel territorio della diocesi di Vicenza a partire
dall’VIII secolo quando si insediarono a Vicenza fondando le abbazie di S.
Vito e S. Salvatore nonché il monastero di S. Felice.6
Essi giunsero in un momento particolarmente oscuro: le invasioni, la fame,
le pestilenze, le continue guerre avevano distrutto la vita civile. Nei
monaci benedettini la gente riconobbe un punto di appoggio per poter
riprendere una vita normale. Il loro fondatore, S. Benedetto da Norcia,
Donata ai vescovi di Vicenza nella seconda metà del X secolo dai re Ugo e
Lotario di Provenza, e confermata dal privilegio di Corrado II (anno 1026),
la “Curtis”di Barbarano comprendeva ben 23 centri, tra cui quelli di Villaga
e di Toara.
La curtis o curia, che era pertanto una circoscrizione territoriale comprendente varie località, era amministrata dal vescovo di Vicenza che deteneva
il potere come uno dei tanti signori feudali a cui l’imperatore aveva affidato tale governo 9; esercitava i diritti giurisdizionali e organizzava la gestione del territorio.
3 E. Reato, Profilo storico della Diocesi di Vicenza, in Storia religiosa del Veneto, La Diocesi di Vicenza, 1994.
4 F. Gasparini, La Pieve: piccola nota storica, testo dattiloscritto, pag. 1.
5 Ibidem, pag 2
6 E. Reato, Profilo storico della Diocesi, pag. 59
7 AA.VV, Studio per una proposta di vincolo paesaggistico sui Colli Berici, a cura di Italia Nostra, Tip. Rumor,
Vicenza, 1975, pag. 27
8 Ibidem, pag. 28
9 R. Dal Lago – M. N. Simeone, Barbarano nell’età feudale, in Barbarano Vicentino, a cura di E. Reato, E. Garon,
A. Girardi, Amministrazione comunale Barbarano, 1999, pag. 202
3. I BENEDETTINI NEL BASSO VICENTINO
28
29
CAPITOLO TERZO
VILLAGA NELL’ETA’ FEUDALE
Nella curtis di Barbarano il vescovo di Vicenza, nella seconda metà del secolo X, fa costruire uno dei suoi 19 castelli, che avevano più scopi: innanzitutto dovevano servire a difesa da eventuali minacce esterne (in quel
periodo, soprattutto, rappresentate dalle scorrerie degli Ungari), ma in
particolare, secondo lo studioso Settia, da esigenze derivate dall’economia, dall’amministrazione e dalla politica interna alla curtis stessa. 10
La sua ubicazione, suggerita dalla conformazione del luogo, era a cavallo
del dosso montuoso che divide Barbarano da Villaga, chiamato volgarmente “Castellaro”. L’abitazione ordinaria del vescovo (il suo palazzo) in
Barbarano era la casa che è oggi proprietà Carampin. Questa casa, unitamente al castello e ad un rocca vicina, formava un complesso di fortificazioni, di cui rimangono tracce nei sotterranei, ora adibiti a cantine.11
Barbarano ebbe quindi un castello vescovile fra i più ricchi e importanti
della nostra diocesi, munito di una possente rocca, dove il vescovo, come
abbiamo già detto, aveva la sua fastosa dimora con giurisdizione piena e
totale “di mero e misto imperio”, non avendo egli “nec parum, nec socium, nec
consortem praeter imperatorem” (nessuno al di sopra, nè suo pari, nè socio,
nè uguale all’infuori dell’imperatore).
escluse). Era consentito di portare al pascolo le bestie minute (pecore e
montoni) previa licenza del vescovo; per ottenere questo permesso, i pastori di Villaga avevano l’obbligo di consegnare sei forme di cacio (formaggio), in segno di riconoscenza.
Era proibita la caccia alle lepri, ai fagiani, alle pernici, come pure la pesca
nei fossi e nelle paludi, far funzionare mulini, se non si era pagata la relativa tassa. Al vescovo spettavano anche la pelle e un quarto di ogni animale ucciso.
Poi vi erano i diritti di mariganza (controllo del territorio con l’utilizzo di
“saltari”, cioè guardie armate), di riscossione di dazi e pedaggi e dell’imposta
sul macinato, la relativa licenza per il taglio dei boschi, e altri minori.
Sui territori coltivati, inoltre, gravavano i livelli e le decime. I terreni allivellati
pagavano al Vescovado un fitto annuo in natura dell’ammontare del terzo o del
quarto. Sui prodotti delle terre originariamente incolte che venivano trasmesse
mediante enfiteusi con l’obbligo del risanamento, gravava la decima. I Codici
feudali dell’archivio della Curia vescovile ci tramandano i nomi di più di 80
località sulle quali si esigeva l’onere della decima dominicale, derivante da un
diritto inerente al fondo. Tra queste vi sono anche Barbarano e Villaga. 13
In proposito gli studiosi Franchetto e Bressan osservano che, contrariamente al
modello dei feudatari laici che davano la terra ai contadini senza che costoro
potessero disporre liberamente di essa e per cui erano dei veri e propri servi
della gleba, i vescovi concedevano il libero ed ereditario uso, previo il pagamento della decima parte del prodotto, o del quartese. Tale sistema di conduzione, fondato sul libero uso della terra, porterà via via al sorgere della piccola proprietà contadina e verrà accordato dal vescovo anche a chi trasformerà
un terreno da incolto (res nullius) in coltura (res novalia). 14
Al vescovo spettava anche il diritto di amministrare la giustizia. Poiché non
poteva essere presente in modo costante a Barbarano, si serviva di un viceconte che lo sostituiva durante la sua assenza. Nella Manifestatio vengono definiti i compiti del viceconte il quale giudicava alcuni reati minori, percependo
tre lire per ogni intervento. 15
Il vescovo disponeva anche di tre ministeriali, detti anche “comandanti”, cioè
delle guardie di finanza che spiccavano le multe a chi era colto in flagranza di
reato nelle sue terre, ma con funzioni anche di guardie carcerarie e di ambasciatori. 16 Altra figura che rappresentava l’autorità del vescovo era il suo avvocato che aveva il compito, tra l’altro, di giustiziare i ladroni, impiccare i predoni,
tagliare i piedi, cavare gli occhi, troncare le mani. Ordinariamente, riporta il
Bortolan, l’avvocato risiedeva a Vicenza e in città giudicava facendosi condurre
i malfattori. Per ogni giudizio riscuoteva una tassa, di cui due terzi spettavano
5. LA MANIFESTATIO BARBARANI
Una prova ulteriore dell’importanza del luogo si ha anche nei titoli con cui
i vescovi vicentini solevano intestare i loro diplomi di concessione e i
proclami legali della loro corte, nei quali essi si qualificavano “rex, dux,
marchio e comes Barbarani et suarum pertinenciarum” (re, duca, conte e
marchese di Barbarano e delle sue pertinenze). Non ci deve meravigliare
vedere tra tali titoli anche quello di re, che fu ai vescovi attribuito non già
perché esercitassero un vero e proprio potere regio come oggi lo intendiamo, ma perché, secondo quanto ci informa il Bortolan, 12 al titolo erano
annessi determinati diritti, riconoscimenti o esenzioni di carattere fiscale,
come quella del pagamento della tassa di fodro e altro.
I diritti di cui godeva il vescovo su tutto questo territorio sono elencati
nella Manifestatio Jurisdictionum Barbarani fatta redigere dal vescovo
Bartolomeo da Breganze nel 1268. Si tratta di un “Istromento” rogato dal
notaio Giovanni da Marola in Barbarano, estesamente analizzato e commentato da mons. Domenico Bortolan in un opuscolo d’omaggio dedicato
al vescovo di Vicenza mons. Giovanni Antonio Farina che il 15 dicembre
1885 compiva il 25° anno di ministero episcopale nella diocesi di Vicenza.
Al vescovo spettavano i diritti sull’erbatico (taglio dell’erba e sua raccolta
per il bestiame) e il pisonatico (permesso di pascolare gli animali, capre
10 Ibidem, pag. 204
11 E. Marobin, Barbarano nella storia, Mensile “Il Basso Vicentino”.
12 D. Bortolan, Il Vescovo di Vicenza Re di Barbarano nel secolo XIII, Vicenza, Tip. S. Giuseppe, 1893
30
13 E. Mazzadi , Lonigo nella storia, vol.primo, pagg. 112-113.
14 R. Franchetto – C. Bressan, Villa del Ferro dentro la Val Liona, Giovani Editori, 2001, pagg. 73-74
15 R. Dal Lago – M.N. Simeone, Barbarano nell’età feudale, pag. 227
16 Ibidem, pag. 228
31
CAPITOLO TERZO
al vescovo, l’altro terzo costituiva il suo onorario. Per questo, l’avvocazia del
vescovo era un ricco ufficio, ambito dalle più nobili famiglie.
6. LE INFEUDAZIONI DEL VESCOVO
Tra i compiti più importanti del vescovo vi era quello di conferire investiture di
feudi. Molti di questi atti di infeudazione sono documentati nei Codici
Feudorum, grossi volumi in pergamena conservati nell’Archiivio della Curia di
Vicenza. Queste concessioni di feudi - spiegano Dal Lago e Simeone – sono da
considerarsi dei livelli, cioè degli affitti.17 La formula di infeudazione era la
seguente: “Per diritto di locazione…per la durata di 29 anni e con la possibilità di
rinnovo dietro esborso di una somma di denaro… il vescovo investe …di alcuni beni
immobili che vengono descritti; il beneficiario gli deve rendere ogni anno dei beni in
natura e la decima”. 18
Il vescovo Bartolomeo da Breganze, per esempio, nel 1268 concede un certo
numero di terre nelle pertinenze di Villaga a “Conforto delle Pecore campi 2 arativi in Pagnaga: versa un terzo di tutti i raccolti; Giacobino di Pietro Curto di un
quarto di terra prativa in Manerba: versa 2 stari di frumento; Guidone di Marcoaldo
da Tovara di 1 campo di terra arativa presso il pontesello di Salgaria: paga 4 stari di
frumento; Conforto di Girardino Rosso di tre quarti di campo a vigneto in Savonega
(Seonega), di uno spiazzo con ulivi in Castelpino presso il comune e la chiesa di
Villaga, di una pezza di terra in Polverara (Spolverare): paga un terzo dell’uva, 1
staro e mezzo di frumento e 2 soldi; Nordiglo di Marmontaro di 3 campi in
Castelpino: paga 4 stari e mezzo di frumento; Domenico di Caceta di mezzo campo in
Pagnaga: paga un terzo di tutti i raccolti; Porcella del quondam (fu) Giacobino di un
quarto di campo prativo in Pagnaga: paga 4 soldi; Benvenuto di Zilimiato di 2 pezze
di terra arativa di mezzo campo in Pagnaga: paga un terzo di tutti i raccolti; Guidone
di Prando, notaio, di una pezza di terra arativa in Sivirone (Siron) e di una in Runca
(Ronca): paga 2 stari di frumento; Lembricino quondam Conforto di mezzo campo
arativo in Pagnaga e 1 in Runcarso (Roncasso)”.19
7. LE ORIGINI DEL COMUNE DI VILLAGA
Nella Curtis di Barbarano, come abbiamo visto, era ricompreso anche il territorio di Villaga inteso come ”regula”, cioè come paese, villaggio. Nel secolo XIII
la regula di Villaga si dà un’organizzazione di tipo comunale.20
Il documento più antico che nomina il comune di “Viraga” è del 6 novembre
17 Ibidem, pag. 215
18 Ibidem
19 Ibidem, pagg. 215-216. Tali infeudazioni sono riportate in Feudi 1, cc. 97v – 98v, 141v – 145.
20 Ibidem, pag. 234
32
Vecchio Gonfalone del comune di Villaga, raffigurante il leopardo illeonito, simbolo della casata dei Conti Barbarano.
33
CAPITOLO TERZO
VILLAGA NELL’ETA’ FEUDALE
1223 21, ma è possibile che esso esistesse anche prima di questa data. Sappiamo
da un documento del 1227 22 che a reggere quella primitiva organizzazione era
il decano o degan, che a quel tempo erano due: Pietro Maranello e Wecerio
d’Orlando.
L’organo più rappresentativo del Comune era la Convicinia (o Vicinia o
Visinanza) che nel 1266, il vescovo Bartolomeo da Breganze fa convocare,
assieme a quelle di Barbarano e di Mossano, per discutere e far approvare lo
statuto dei Saltari (cioè la regolamentazione dell’utilizzo di guardie armate nei
boschi). 23
A questo punto occorre precisare la struttura del Comune e i suoi organi rappresentativi premettendo che all’inizio non aveva un’organizzazione ben
definita e regolamentata quale oggi noi conosciamo. Inoltre l’attività amministrativa nei Comuni di allora era regolata da norme e da consuetudini tramandate spesso in forma orale e abbastanza simili tra paese e paese. 24
Il Comune rurale fu sostanzialmente un’associazione di coltivatori della terra
che aveva il compito di proteggerli e di affrancarli dalle servitù feudali. Vi concorsero piccoli proprietari rimasti liberi – gli allodiali-, piccoli feudatari e
coloni. 25
Il decano, eletto dalla Convicinia, cioè l’assemblea generale dei capifamiglia
(homines), era il rappresentante legale della Comunità, durava in carica in
genere un anno (ma questa durata variava da comune a comune) e non poteva essere rieletto se non dopo un certo intervallo di tempo. Convocava la convicinia per mezzo di un banditore o di un comandador che a voce alta o col
suono della campana o battendo delle tavolette o anche, nei piccoli comuni,
passando di porta in porta, annunciava l’adunanza per deliberare su questioni
importanti per la collettività.26
Al Comune spettavano infatti vari compiti: i principali erano la raccolta delle
tasse e il loro versamento alle amministrazioni superiori; la costruzione e il
mantenimento in efficienza di opere pubbliche quali strade, ponti, canali; l’amministrazione dei beni, cioè terreni che potevano essere dati in affitto a terzi; la
regolamentazione della “saltaria”, cioè la facoltà di tenere in armi delle persone, delle guardie che custodissero i boschi e le terre per impedirvi furti, devastazioni, pascoli e caccia abusivi.27
Il Decano era affiancato da un certo numero di consiglieri, eletti dalla
Convicinia generale, che lo sostenevano nell’esercizio amministrativo e da
alcuni funzionari: gli estimatori che avevano il compito di accertare i danni
arrecati alle proprietà pubbliche e private da persone e animali; inoltre stabilivano il valore delle case, dei campi e degli animali, in vista della redazione degli
estimi; i sindaci che controllavano la contabilità del Comune, cioè il suo bilancio.
21 Ibidem pag. 235. Il documento di riferimento si trova in Archivio di Stato di Vicenza, sotto le Corporazioni
Religiose Soppresse “S. Felice”, b. 519a n. 30
22 Ibidem, pag. 236. Il documento è in Arch. Stato Vicenza, Corp. Rel. Sopp. S. Tomaso, b. 2594g.
23 Arch. Curia Vescovile, Codice Feudi, 1, c. 108
24 F. Dalla Libera, Pozzolo nel periodo veneziano, in Pozzolo di Villaga, Parrocchia di Santa Lucia, pag. 182
25 E. Mazzadi, Lonigo nella storia, parte prima, pag. 354
26 Ibidem, pag. 355
27 R. Dal Lago, Planecie a Lacu, a cura della Parrocchia di Pianezze, 1999, pagg. 33-34
34
8. IL TRAMONTO DELL’ ETA’ FEUDALE
Nel Trecento avvengono una serie di trasformazioni che pongono fine all’epoca
feudale nel nostro territorio.
Dopo mezzo secolo di dominazione padovana,Vicenza nel 1311 passa sotto la
signoria degli Scaligeri di Verona; nel 1387 è sottomessa dai Visconti di Milano;
in seguito, nel 1404 entra a far parte della Repubblica di Venezia.28
Villaga, come il rimanente territorio vicentino, segue le sorti della città di
Vicenza e subisce l’evoluzione dei rapporti tra città e campagna, che vedono
l’affermazione dei Comuni e il declino del potere feudale dei vescovi. Il cambiamento più significativo a cui si assiste nell’area che gravita attorno a
Barbarano è l’istituzione della nuova struttura amministrativa del vicariato. Il
vescovo di Vicenza continua anche per tutto il XIV secolo a infeudare e a livellare le terre dei suoi vasti possedimenti a Barbarano – osservano Dal Lago e
Simeone – 29 ma ormai egli non vi esercita più alcun potere politico, giudiziario,
amministrativo.
Con gli Scaligeri il territorio vicentino viene diviso in una serie di vicariati che
comprendono un certo numero di comuni rurali che tendono a governarsi in
base a propri statuti, in un primo tempo semplici regole tramandate oralmente,
in seguito codificate e preventivamente approvate da una apposita commissione distrettuale.
9. I TRAVERSO, I GODI E I BARBARANO
Nel Trecento appaiono nel territorio di Barbarano nuove famiglie nobili che
gradualmente acquistano un ruolo sempre più importante nel possesso dei
beni dell’area. Si tratta dei Traverso e dei Godi che ottengono in feudo molte
terre, spesso sottratte al controllo della famiglia Barbarano. Varie investiture
riguardano possedimenti situati a Villaga: nelle contrade Polverara
(Spolverare), Casalfardo, Castelpino, Muslone “sopra la costa del lago” (ci si
riferisce alla strada del Paradiso che costeggiava un antico lago che copriva
gran parte dell’attuale “campagna”della famiglia Baldisserotto), Grumolo (nell’area collinare tra Villaga e Toara), del Sirone, presso la strada che porta a
Sossano.30
28 R. Dal Lago – M.N. Simeone, Barbarano tra Scaligeri e Visconti, in Barbarano Vicentino, primo volume, pag.
331
29 Ibidem
30 R. Dal Lago – M. N. Simeone, Barbarano tra Scaligeri e Visconti, pag. 359
35
CAPITOLO TERZO
VILLAGA NELL’ETA’ FEUDALE
Della famiglia Godi sono documentate le infeudazioni di terre in varie località
di Villaga: Baxaga, Costa Broja, Runcharso (Roncasso), Montegnago
(Belvedere) e nella vallata di Pozzolo.
I Barbarano Mironi, nobile famiglia di cui si hanno riscontri già nel 1260, nella
seconda metà del Duecento e nei primi anni del Trecento erano schierati a fianco del vescovo di Vicenza. Essi controllavano vaste estensioni di terre allodiali
e feudali tra Barbarano, Villaga, Belvedere, Toara, S. Donato, Sossano,
Colloredo, Campolongo e Nanto, ricomprese nell’antica “curtis”barbaranese.31
Si può quindi affermare che la signoria rurale dei Barbarano ebbe un’origine
vescovile che trova fondamento nelle plurisecolari e rinnovate infeudazioni
vescovili raccolte nei Libri Feudorum e documentate dalla prof. Bulla. 32
fino a Este, Montagnana ed anco alle montagne di Bologna e Modena, da un’altra viene terminata dai Monti Euganei del padovano, distanti però dieci miglia,
e da altre bande viene terminata con i deliziosi colli di Barbarano, Villaga, Toara
e Sossano”.34
Toara, secondo la tradizione, deriva dal latino “Tofum”, volgare
“tufum”. Ciò indica la cava di “toazio”, cioè di materiale tufaceo, pietra
di origine vulcanica, un tempo utilizzata soprattutto per la pavimentazione delle case.
Toara è documentata anticamente come “Thovara”, col significato di
terra buona. In questa località infatti, già nel Medioevo si producevano vini e olio, poi, a partire dalla seconda metà del ‘500, anche riso.
L’antica borgata di Quargente, è citata come “Quarniente” già
nell’Inventario dei beni della parrocchia di Toara dell’anno 1444.
Secondo lo studioso Alberto Girardi, l’etimo si rifà al numero cardinale “quadraginta” che potrebbe alludere, come accade per altri
toponimi propri di fondi rustici, al numero di iugeri, di cui questa
località era formata. 35
Gorzon-Quargente: i due termini, secondo Leonilo Frison, si integrano; la forma Gorzon (Gordon) si riferisce a “Guara” , cioè gora (fossato) dalla quale deriva Gaur-d/zon. Il suffisso –te dà il nome a
Quargente (Gaur-d-zon-te) che indica l’insediamento, la località sul
Gorzon.
Alture è il toponimo che contraddistingue la zona tra i corsi d’acqua
Seonega, Fossa Nuova e Siron, ai confini con il Comune di Albettone.
Si tratta di una vasta distesa di campi che, grazie alle bonifiche realizzate nel Cinquecento, vennero recuperati e resi fertili.
Bagno di Villaga, di derivazione latina (da balneum), era riferito
originariamente alla presenza di fonti, con abbeveratoi, lavacri, vasche
per lavandaie. Anche Villaga aveva il suo bagno, lungo la via un tempo
chiamata Scorzona. Nella prima metà del Novecento questo luogo
pubblico si chiamava “Stabilimento Bagni di Villaga” e in esso confluivano coloro che venivano a fare il bagno in alcune vasche percorse
dall’acqua calda sorgiva a 27-28 gradi di temperatura, anche d’inverno. Ora le piccole cabine sono chiuse e il lungo lavatoio esterno è in
disuso, ma l’acqua calda continua a defluire tuttora. Il luogo, oggi
completamente abbandonato, meriterebbe di essere recuperato e valorizzato. Nel Medioevo e sino all’Ottocento, tale località era denominata “Fontana Calda”.
Siron è un vocabolo già presente nella lingua latina ed era usato particolarmente nel Medioevo (citato in documenti a partire dal XIII se-
LA TOPONOMASTICA
10. I TOPONIMI DEI NOSTRI LUOGHI
In questo paragrafo vengono presentati alcuni toponimi del territorio di
Villaga tratti da vari documenti. In gran parte essi derivano da voci indicanti le proprietà del suolo, le condizioni geografiche, la vegetazione, i
mestieri; alcuni provengono da nomi personali, altri, di etimo oscuro,
richiederebbero studi più approfonditi. Parecchi nomi delle contrade e
località di Villaga sono tipici di varie parti del territorio vicentino e spesso
del Veneto in generale.
Iniziamo col prendere in considerazione il nome del capoluogo, Villaga.
Lo studioso Dante Olivieri, nella sua opera sulla toponomastica veneta 33
considera il nome Villaga (anticamente “Viraga”) come “nome locale
derivato da nome di persona latino per mezzo di suffissi”; all’origine del
toponimo vi sarebbe dunque la presenza, nella zona, probabilmente come
proprietario terriero, di un tal Virius, colono romano, al quale forse si deve
il formarsi del primo insediamento umano.
Passiamo a Montegnago, nome originario di Belvedere, prima che tale
località fosse così ribattezzata dai conti Barbarano che ivi costruirono il
castello, poi trasformato in villa. Il toponimo deriva da Castrum
Mottaniacus; Motta significa mucchio, altura, sopra la quale venne eretta
una fortificazione. In seguito, ai suoi piedi, sorse il villaggio.
Belvedere, così chiamato per la bella vista che si gode dal castello. Lo
storico p. Francesco Barbarano de Mironi infatti scriveva che “così fu detto
dalla bella vista che gode, perché essendo situato sopra un mediocre colle d’altezza per in mezzo d’una campagna, per una parte gode una vista interminata
31 M. G. Bulla Borga, I nobili Barbarano Mironi a Colloredo, Toara e Belvedere nel Cinquecento”, Flli Corradin
editori, 2004, pag. 12
32 Ibidem, pag. 24
33 D. Olivieri, Toponomastica veneta, Firenze 1962, pag. 22
34 F. Barbarano Mironi, Storia ecclesiastica di Vicenza, libro 6, pag. 120
35 A. Girardi, L’evoluzione del paesaggio, in Barbarano Vicentino, a cura di E. Reato, E. Garon, A. Girardi,
Amministrazione comunale di Barbarano, vol. primo, 1999, pag. 55 nota 47
36
37
CAPITOLO TERZO
VILLAGA NELL’ETA’ FEUDALE
colo) per indicare i canali di bonifica. Si tratta di un corso d’acqua
(chiamato anche Ghebbo, cioè canale, del Sinan o Sirone) che nasce a
Barbarano, poi scorre nei territori di Villaga e di Sossano.
Albaria era il nome dell’antica strada che portava a Toara (ora via
Villa). Deriva da “albarus”, albero riferito al pioppo; nei secoli scorsi
infatti lo stradone di Toara era costeggiato da alte “albare”; molti
ricordano ancora i platani che erano presenti lungo il ciglio della via,
che vennero tagliati verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso.
Stradon è ancora oggi il nome con cui è chiamato il tratto di strada
che dalla provinciale Berico-Euganea porta a Toara. Composto di
“strada” più il suffisso accrescitivo –one, sta ad indicare un via di
comunicazione importante che collegava la pianura alla parte collinare dove si trova Pozzolo e poi la Val Liona.
Riveselle indica il sistema collinare che si protende da Toara verso
Sossano; il toponimo, già presente nel tardo Medioevo, deriva dal latino “ripa-cella” , cioè piccole rive. Da secoli l’altura appartiene alla
famiglia Barbarano-Conti-Piovene che vi coltiva pregiati vigneti.
Paluselli è un toponimo già esistente nel Medioevo e riferito ad una
estensione di campi tra lo stradone di Toara e le Riveselle. Derivato da
palus “, palude, più il suffisso –ellus più l’infisso –c, da cui “palucello”,
stava a significare piccole paludi. Si tratta quindi di terreni che vennero bonificati e resi coltivabili dai nobili Barbarano già nel
Quattrocento.
Roncasso era il nome di una località posta tra la Seonega e il Siron,
nelle vicinanze di Alture, ai confini col Comune di Sossano. Il toponimo si riferisce ad un luogo ove il bosco è stato tagliato (dal latino
“roncare” = tagliare, estirpare) e messo quindi a coltura. Il vocabolo ha
origine nel periodo altomedioevale con la progressiva opera di disboscamento e successiva coltivazione dei terreni.
Paradiso è il toponimo attestante la zona al di sotto del Monte
Murlone (il Castellaro), che divide Villaga da Barbarano; ancora oggi è
presente una torre colombara che in passato dipendeva dal vicino
Castello e che serviva da avvistamento.
Montesello è un toponimo estinto, che un tempo stava ad indicare
una piccola altura sopra la quale in genere si trovava una fattoria o
una fortificazione. E’ il caso della modesta collinetta posta lungo lo
stradone di Toara, che già nell’Inventario dei beni della parrocchia di
Toara, dell’anno 1444, era citata come “in ora Monteselli”, cioè in
località Montesello; attorno ad essa si estendeva una vasta tenuta
dapprima della famiglia Loschi, poi dei conti Barbarano.
Palestina: erano così chiamate le pezze di terra a Quargente, alla
confluenza tra il Gordon e la Seonega, attualmente di proprietà delle
famiglie Canella e Fontana; il toponimo si spiega col fatto che tali
appezzamenti, come la terra promessa degli Ebrei, sino alla fine
dell’Ottocento di proprietà del Vescovado, furono a lungo desiderate
dalle famiglie del luogo, fino a quando riuscirono nel tempo a riscattarle e a entrarne in possesso.
Tanto i paesi di Villaga come quelli di Toara, Belvedere e Pozzolo in
passato si presentavano suddivisi in varie vie e contrade, ognuna delle
quali aveva un suo nome specifico, a volte desunto da qualche particolare caratteristica del luogo.
Dalle vecchie carte topografiche dell’Archivio comunale di Villaga,
abbiamo desunto i nomi delle strade comunali (talvolta stravaganti e
folcloristici) che ancora oggi sono registrati nella toponomastica di
Villaga. Strade che esistono oramai solo sulla carta perché la maggior
parte di esse si sono ridotte a semplici cavezagne o “strozi” e di qualcuna si sono perse le tracce.
Ecco i nomi di queste strade: Balduina, Bondine, Braggia, Ca’Vecchia,
Castagnare, Cerati, Mottoli, dei Mucchi, dei Munari, dei Socchi, dei
Terragli, dei Zampogni, del Bosco Montan, del Braio, del Capitello, del
Cappelletto, del Carpano, del Cason, del Cereo, del Cimo, del Monte
Crò, del Monte Riveselle, del Monte Tondo, del Paradiso, dei
Pascoloni, del Prà Rosso, del Troson, della Bocca d’Orno, della Ca’
Larga, della Costa, della Fontana Calda, della Vagina, delle Ca’Vecchie,
delle Celle, delle Coste, delle Falde, delle Gualive, delle Laste, delle
Oche, delle Riveselle, delle Sabbionare, delle Sengielle, delle Tarche,
del Corio, di Costa Brogia, di Pagnaga, delle Marchiorette.
Ma se andiamo molto più indietro nel tempo e risaliamo agli Inventari
dei beni immobili delle parrocchie di Villaga e di Toara, redatti rispettivamente nel 1492 e nel 1444, scopriamo molti altri nomi di contrade,
a volte ancora in latino, che da tempo sono totalmente scomparsi o si
sono modificati con passare dei secoli.
Probabilmente non tutte sono da considerarsi contrade come le intendiamo noi adesso, cioè degli agglomerati di case. Molti nomi sembrano
più delle indicazioni di appezzamenti di terreni o semplici toponimi.
Ne riportiamo i nomi: Ca’ Benettella, Campazzi, Frascà, Cesura barbarana, Cesuron (Crosaron), Fransegolaro, Fornasigle (Fornasette),
delle Imole, Costa Nogara, Val Longa, Mortarello, Piazzola, Piscina,
Crosarola, Campagnola, Vignola, della Savonega (Seonega),
Castelpino, Runca (Ronca), Fratte, Cavaione, Croseta, Roncho Dugo,
Pezza Mala, Nosedo (Noseo), Fogomorto (ora via Berico-Euganea),
38
39
11. LE ANTICHE CONTRADE
CAPITOLO TERZO
Pianchi, Persegarola, Nizzon, Casalfardo, Bassega, Lovaria, Naviglio,
del Barco, Pontis Bononie (Ponte Bologna), Pulverara (Spolverare),
Fontanella, Triboli, Fontana Salgarii (Fontana del Salgan),
Pedegambaro, Coleti, Grumolo, Paluselli, Zocatelle, Montexelli
(Montesello), Monete, Paltana, Fesesela, Manerbe. Quest’ultimo
toponimo, citato per la prima volta nel 1245 nel Libro dei Feudi, secondo lo studioso Pellegrini deriva dalla dea pagana Minerva e
potrebbe essere stato legato all’esistenza di un tempietto dedicato a
quella divinità. 36
Villaga: gli edifici medioevali di casa Rasia-Dani e di Villa Palma Bedeschi, sede dell’antica Mason dei Templari e dei
Cavalieri di Malta.
36 A. Girardi, L’evoluzione del paesaggio, pag. 53, nota 44
40
CAPITOLO QUARTO
GLI ORDINI CAVALLERESCHI A VILLAGA
Una pagina importante della storia di Villaga spetta agli ordini cavallereschi
che lasciarono evidenti testimonianze della loro presenza nel nostro territorio.
Grazie a qualificate fonti archivistiche è stato possibile ricostruire le vicende di
alcuni di questi ordini: i Templari, i Cavalieri di Malta e del Santo Sepolcro che,
a partire dal secolo XII subentrarono progressivamente ai Benedettini nella
custodia dei vari ospizi esistenti nel Basso Vicentino.
Ma prima di addentrarci nella descrizione delle strutture assistenziali di quel
periodo, appare doveroso soffermarsi sull’evoluzione della forma più conosciuta dell’ospitalità medioevale per forestieri, cioè quella benefico-cristiana
istituzionalizzata dalla Chiesa e praticata in xenodochia, monasteri e ospizi.1
L’ospitalità dei cristiani si attuò in forme private nei secoli della persecuzione,
poi in quelli successivi essi cominciarono a costruire luoghi di accoglienza
chiamati “Xenodochia” (dal greco Xenos, “straniero”) per i pellegrini, ma anche
per poveri, vecchi, orfani e malati, offrendo loro vitto e alloggio gratuito per
qualche giorno. In molti casi gli xenodochia sorgevano dentro o affiancati agli
edifici delle sedi vescovili o dei monasteri o lungo le strade di grande comunicazione. La loro diffusione fu determinata in parte anche dall’affermarsi delle
regole monastiche orientali di Pacomio e Basilio miranti a promuovere l’ospitalità mettendo in pratica l’idea fondamentale dell’amore per il prossimo che
trovava la sua realizzazione proprio nell’assistenza ospitale.2
Nell’VIII e IX secolo, per effetto dei nuovi movimenti religiosi, dell’intensificarsi dei pellegrinaggi a Roma e dell’integrazione dei Longobardi nel regno dei
Franchi, vennero fondati parecchi nuovi xenodochia nell’Italia longobarda. In
quel periodo la definizione di “xenodochium”, mutuata dalla tarda antichità, fu
affiancata sempre più frequentemente da quelle di “hospitale”e “hospitium”.
Se in un primo momento xenodochium sembrava più indicare il ricovero per
forestieri, mentre hospitale quello per poveri, i due termini divennero presto
intercambiabili, finchè il vocabolo di derivazione latina soppiantò quello di
1 H.C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo, Editori Laterza, 2005, pag. 125
2 H.C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo, pag. 126
41
CAPITOLO QUARTO
GLI ORDINI CAVALLERESCHI A VILLAGA
origine greca. Così, nella maggior parte dei monasteri si affermò successivamente la distinzione tra hospitale hospitum o nobilium per gli ospiti aristocratici a cavallo, e hospitale pauperum per i poveri e gli ospiti a piedi.3
Negli ospizi benedettini vigeva la regola di S. Benedetto risalente al VI secolo,
che prevedeva tutta una serie di norme da seguire per l’ospitalità. In particolare prescriveva l’offerta di un pasto caldo, di solito una minestra di legumi e
ortaggi, pane, vino e a volte qualche frutto, e infine un letto, che poteva essere
anche condiviso con altri ospiti nei momenti di affollamento.4
Quanto ai pellegrini ammalati, i Benedettini si attenevano alle stesse prescrizioni stabilite per i confratelli infermi; il regolamento teneva conto delle
loro condizioni, indicando persino il tipo di locale dove tenerli e il cibo da consumare.5
Negli antichi xenodochia era previsto un grande dormitorio con più letti,
sorvegliato notte e giorno dai monaci che chiudevano la porta e nascondevano
la chiave perché nessuno potesse lasciare il locale a loro insaputa: una previdente misura, dal momento che i ladri e persino gli assassini, che a decine si
travestivano da viandanti sulle vie di pellegrinaggio, spesso approfittavano del
sonno degli incauti pellegrini per compiere le loro nefandezze.
L’ospitalità, totalmente gratuita, era garantita al massimo per tre giorni, dopo
di che gli ospiti erano tenuti ad andarsene oppure a collaborare attivamente
alle faccende del monastero: un modo utile ad alleviare l’onere non disprezzabile che gravava sull’economia del convento per ogni persona alloggiata.6
Riprendendo il nostro excursus storico, vi è da osservare che tra il IX e il XII
secolo si assistette ad una rinascita dell’ospitalità ecclesiastica con un’ondata di
nuove fondazioni localizzate in un primo momento lungo le grandi vie di pellegrinaggio e commerciali dirette a Roma o in Terrasanta, ed estese in seguito
a tutta l’Europa occidentale, fino al nuovo declino del XIII secolo. Questa fortuna coincise con l’epoca delle Crociate, dei viaggi commerciali e dei pellegrinaggi, dell’aumento generale della mobilità dei popoli europei.7
Le prime esperienze assistenziali nel territorio vicentino, analizzate dallo studioso Reato, si sviluppano del secondo millennio come iniziative di persone
singole, di comunità o di confraternite religiose o corporazioni professionali. A
Vicenza, fin dal XII secolo si assiste al moltiplicarsi di fedeli legati alla regola
benedettina in qualità di conversi o fratelli laici addetti all’assistenza dei poveri
e dei pellegrini; essi vivevano in piccole comunità come “fratres o sorores” o
anche come fratres et conversi.8 Da queste originali esperienze caritatevoli nacquero i primi ospedali, che, osserva Reato, non si possono certo paragonare
agli ospedali moderni; quelli erano poco più di un ostello dove i bisognosi
potevano ricevere per qualche giorno solo le cure più elementari, compatibili
con la scienza medica del tempo.9
1. GLI ORDINI RELIGIOSO-CAVALLERESCHI
NEL BASSO VICENTINO
Nel Vicentino si svilupparono, a partire dal secolo X numerosi insediamenti
monastici benedettini. Lungo la via della Riviera Berica i Benedettini eressero
attrezzati ospizi, situati in genere nei pressi di preesistenti “mansiones”(luoghi
di sosta e ristoro) romane, costituite lungo strade di comunicazione di una
certa importanza. Nel nostro territorio, in particolare, si stanziarono a
Barbarano erigendo il Priorato di S. Martino, la chiesa di S. Giovanni in Monte
e quella di S. Caterina, nei pressi del Castello; quella di S. Remigio a Ponte di
Barbarano.
A Villaga abbiamo la presenza benedettina a S. Donato (a quel tempo, e fino
alla metà del secolo XVI, appartenente alla Curtis di Barbarano) dove nel 1283
sorse un’abbazia retta da una comunità religiosa femminile che seguiva la
regola del monachesimo albo patavino.10 Ai numerosi priorati benedettini
subentrarono progressivamente, nel corso del secolo XIII, gli ordini religiosocavallereschi, primo fra tutti nel Basso Vicentino quello dei Templari 11, che vantano una presenza significativa a Barbarano dove possedevano molti beni.
L’Ordine del Tempio cercò infatti di stabilirsi lungo le grandi vie di comunicazione della nostra regione; strade percorse da viandanti e da pellegrini che si
recavano a Roma, ma anche da coloro che erano diretti a Venezia allo scopo di
imbarcarsi per Gerusalemme.
Come ha già evidenziato lo studioso Giovanni Mantese 12, il territorio a sud di
3 Ibidem, pag. 130
4 M.C. Fuentes, La cucina dei pellegrini, Edizioni Paoline, pag. 184
5 Ibidem, pag. 184
6 Ibidem, pag. 185
7 H.C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo, pag. 135
8 E. Reato, Carità e assistenza in sette secoli di storia vicentina, in “La carità a Vicenza, i luoghi e le immagini”,
Marsilio, 2002, pag. 3
9 Ibidem, pag. 3
10 Vedasi in proposito l’interessante e ben documentato saggio di Maria Grazia Bulla: “Monachesimo Albo
Patavino in S. Donato di Barbarano-Villaga 1283”, edito nel 2006 dai f.lli Corradin.
Su S. Donato ricordiamo anche il libro di G. Cichellero, M.P. Procacci, S. Carrettoni, L’eremo di San Donato a
Villaga, Noventa Vicentina, Giovani Editori, 1988; inoltre: E. Gleria, L’antico insediamento monastico di San
Donato del Covolo, in Pozzolo di Villaga, ambiente, storia e tradizioni di un paese dei Colli Berici, a cura di G.
Negretto e F. Dalla Libera, pubblicato nel 2003 dalla Parrocchia di Santa Lucia.
11 I Cavalieri dell’Ordine del Tempio, o Templari, furono un ordine monastico ospedaliero-militare. Sorsero nel
1119, all’inizio come congregazione con regola di Sant’Agostino, per iniziativa di Ugo di Payns che riunì a
Gerusalemme, da poco conquistata dai Crociati, un piccolo numero di adepti che si proponevano la difesa in
armi dei luoghi santi di Palestina e dei pellegrini che vi affluivano da tutta l’Europa cristiana. Ottenuto il
riconoscimento dal re cristiano di Gerusalemme Baldovino, l’Ordine Templare divenne ben presto ricco e
potente, diffondendosi in tutta Europa e costituendo una rete capillare di stazioni di assistenza dette “mansioni” (o magioni) lungo le principali e più frequentate vie di comunicazione. Anche nel Veneto esso conobbe
una rilevante presenza: Venezia rappresentava infatti, nei secoli XII e XIII, il principale scalo per la Terrasanta
ove convenivano i pellegrini del Nord Europa e dell’Italia settentrionale.
Numerosi furono gli insediamenti templari presenti nel Vicentino, nel Veronese, nel Padovano e nel Trevigiano.
L’Ordine venne poi soppresso da Papa Clemente V nel 1314, indotto a questo grave provvedimento dalle accuse
di eresia e di trame esoteriche mosse ai Templari dal re di Francia Filippo il Bello. I beni dell’Ordine vennero
confiscati e il patrimonio morale e materiale dei Templari passò ai Giovanniti (Ordine ospedaliero di S.
Giovanni).
12 G. Mantese, Memorie storiche della chiesa vicentina, vol.III, Istituto S. Gaetano Vicenza, 1958, pag. 326.
42
43
GLI ORDINI CAVALLERESCHI A VILLAGA
Vicenza, e in particolare la Riviera Berica, costituiva una tappa importante di
passaggio; pertanto sorsero numerosi luoghi di raccolta e soccorso aperti
anche ai poveri, agli indigenti e ai malati. Ancora oggi si possono rinvenire
nella nostra area alcune di queste istituzioni: la Mason di Montebello, la
Commenda di San Giovanni di Longara, la Commenda di San Silvestro a
Villaga, la Mason di Sajanega di Sossano; sono invece scomparsi i priorati di S.
Giustina e del Santo Sepolcro di Sossano 13 e la Domus hospitalis di Barbarano.
2. LA COMMENDA DI SAN SILVESTRO DI VILLAGA
La Commenda di San Silvestro vista dalla strada comunale.
Il complesso della Commenda di San Slvestro vista dall’alto.
44
Sopra l’abitato di Villaga sorge la Commenda di S. Silvestro, oggi villa PalmaBedeschi, che, secondo la tradizione, nel secolo XIII venne fondata dai
Templari.
Ma non tutti gli storici sono concordi nel sostenere questa tesi. Lo studioso
Lorenzo Tacchella, infatti, asserisce che l’origine dell’ospizio di Villaga si deve
invece agli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, più noti come
Giovanniti. 14
A fare chiarezza sulla fondazione di S. Silvestro è un documento del 1274, tratto dai“Libri feudorum”(Libri dei feudi, cioè indicanti le infeudazioni del vescovo di Vicenza nel territorio vicentino), nel quale vengono citati i cavalieri della
Milizia del Tempio (Templari) presenti nella Domus di Villaga.15
Più tardi, dopo il 1312, anno in cui fu soppresso l’ordine dei Templari da papa
Clemente V, l’ospizio-ospedale di S. Silvestro passò sotto il controllo dei
13 Un’interessante singolarità spetta a queste due strutture assistenziali presenti un tempo a Sossano: l’essere
gli unici due insediamenti dell’Ordine del Santo Sepolcro riscontrati nel Veneto e documentati a partire dal secolo XIII.
14 L. Tacchella, Il Sovrano Militare Ordine di Malta nella storia di Vicenza, Padova,Verona e Brescia, estratto da
Studi storici veronesi Luigi Simeoni, 1968-69, pag. 6 n. 3.
Quest’Ordine, detto anche Ospitaliero di S. Giovanni di Gerusalemme, di Rodi, di Malta, è tra i più insigni e
gloriosi della cristianità. E’ il più antico ordine cavalleresco oggi esistente nel mondo e vanta una storia di quasi
900 anni. Esso fu istituito ufficialmente nel 1113 e approvato dal Pontefice Pasquale II che lo pose, primo fra gli
ordini, sotto la protezione della Santa Sede. I suoi aderenti facevano voto di castità, povertà e obbedienza, vestivano un saio e un mantello nero, su cui, più tardi, venne apposta una croce bianca ad otto punte, le quali stavano a simboleggiare le otto beatitudini, indicate da Cristo. Nel 1126 l’ordine ampliò le sue finalità accogliendo, oltre alla dimensione caritatevole-assistenziale, anche l’ideale religioso-militare, poiché ebbe il compito di
difendere il Regno Latino di Gerusalemme e proteggere i pellegrini nel loro avventuroso viaggio verso la
Terrasanta. Verso il 1310, i Cavalieri di S. Giovanni occuparono militarmente Rodi e vi si stabilirono; pertanto
presero anche il nome dell’isola. Più tardi, nel 1522 i Cavalieri di Rodi non riuscirono a respingere l’armata di
Solimano II; pertanto, dopo 212 anni furono costretti a lasciare l’isola. Otto anni dopo, nel 1530, l’imperatore
Carlo V cedette alla Sovranità Gerosolimitana l’isola di Malta, nella quale l’Ordine vi si stabilì e la mantenne
fino al 1789. Da quel tempo i gerosolimitani vennero conosciuti sotto il nome di Cavalieri di Malta. In seguito,
nel 1798, il generale Napoleone Bonaparte tolse l’isola ai Cavalieri e confiscò i loro beni. La sede dell’ordine,
dopo alterne vicende, venne trasferita a Roma, dove attualmente si trova il Gran Magistero, sotto la diretta protezione dei Pontefici. Lo Stato italiano, in base ad una convenzione, ne ha riconosciuto la sovranità. A Roma,
quindi, esiste un secondo piccolo Stato, dopo il Vaticano: quello appunto dei Cavalieri di Malta. L’Ordine ha sedi
proprie, con diritto di extraterritorialità, rilascia ai Cavalieri un passaporto, riconosciuto internazionalmente, ha
una bandiera e un inno proprio. Queste notizie sono state desunte dal libro di Mario Visentin: La funzione storica, sociale, religiosa della cavalleria e la perenne vitalità dei suoi ideali, Centro di studi storici Cologna Veneta,
1981.
15 Il documento in questione, conservato presso l’archivio della Curia vescovile di Vicenza, viene richiamato
dalla prof. Bulla Borga nel volume “Monachesimo Albo patavino in San Donato di Barbarano-Villaga, a pag. 23.
45
GLI ORDINI CAVALLERESCHI A VILLAGA
Cavalieri di S. Giovanni, poi di Malta, che lo mantennero fino al 1864, anno in
cui entrò in possesso della famiglia Chemin. Col tempo la casa giovannita
perse la sua funzione assistenziale per divenire una risorsa territoriale che forniva fondi, i quali, con le offerte dei fedeli, contribuivano a sostenere (assieme
al contributo di tante altre Commende) l’armata di S. Giovanni e l’organizzazione di frequenti spedizioni contro i Turchi.16
La Commenda di S. Silvestro, a partire dal XIV secolo, venne governata da un
cavaliere Commendatore o Precettore, che gestiva i suoi beni (case e terreni).
Essa era autonoma nelle sue funzioni e, con un certo numero di altre, formava
un Baliaggio, retto da un Balì. Un gruppo di Balì, poi, di norma, dava vita, a seconda dell’importanza, ad un Priorato o Gran Priorato.17 La Commenda di
Villaga, assieme a quella di Longara, faceva parte del Gran Priorato di
Lombardia e Venezia.
Alla metà di 1400, le precettorie di S. Giovanni di Longara e di Villaga erano
rette da Pietro Morosin. Alla sua morte, nel 1466, vennero conferite al
veneziano Lodovico di Pietro Marcello.18
Dal Mantese poi apprendiamo che S. Silvestro nel 1490 aveva ancora la
“domus”(casa) con le relative proprietà terriere ed era governata dal cavaliere
commendatore Bartolomeo Barozzi.19
Le sue proprietà non comprendevano solo le pertinenze di Villaga ma si estendevano anche a Sajanega, in territorio sossanese, dove era presente la Mason
appartenuta dapprima ai Templari e passata poi ai Cavalieri di Malta e dipendente successivamente dalla Commenda di S. Silvestro.
Nel secolo seguente, in un documento del 1586, un certo frate Leonida dei
Loschi investiva della Commenda, attraverso un antico e curioso cerimoniale,
Nicola del Benino 20, il quale ne rimase commendatore fino al 1594, quando la
affittò a“messer Martino quondam Iseppo Salvadio” con tutti i diritti ad essa legati
21
. In seguito, un altro commendatore, il cavalier fra Giovan Battista Covalle, il
3 novembre 1626 affittò “la suddetta Commenda con tutte le sue entrate conforme
agli statuti della Sacra religione Gerosolimitana al molto illustre signor commendatore frà Giulio Palio commendatore di Polla e di Gradisca”.22
In data 1666 esiste un estimo dei beni della Commenda di S. Silvestro, governata dal commendatore frà Mario Verdelli. 23 Da un altro estimo generale del
Lo stemma dell’Ordine dei Cavalieri Templari.
Lo stemma dipinto dell’Ordine dei Cavalieri di Malta raffigurato nella parete rivolta verso il giardino.
46
16 M. Visentin, La funzione storica, sociale, religiosa della Cavalleria e la perenne vitalità dei suoi ideali, pag.
130.
17 Ibidem.
18 R. Dal Lago – M.N. Simeone, Barbarano nell’età feudale, in Barbarano Vicentino, pag. 292.
19 G. Mantese, Lo storico vicentino P. Francesco da Barbarano, in Odeo Olimpico IX – X, pagg. 51 – 52.
20 R. Dal Lago. M. N. Simeone, Barbarano nell’età feudale, pag. 292.
21 Ibidem (si fa riferimento a un atto del notaio Caltran Caltrani, b. 8936, conservato in Archivio di Stato di
Vicenza).
22 Ibidem (altro riferimento ad un atto notarile rogato da Francesco Frescurato, b. 1435, in Archivio di Stato di
Vicenza).
23 L. Tacchella, il Sovrano Militare Ordine di Malta, pag. 48.
47
CAPITOLO QUARTO
GLI ORDINI CAVALLERESCHI A VILLAGA
Comune di Villaga, del 1665 24 risulta che la Commenda possedeva a Villaga:
campi 9 arativi, boschivi, piantà con casa; campi 1 arativo detto il campo del
Zaffran; campi sette arativi, boschivi, zappativi con casa Commenda di S.
Silvestro; campi uno di S. Silvestro; campi tredici a Fogomorto; campi tre in
Roncasso; campi cinque in contrà di Pezzamala; campi 3 e due quartieri in contrà di Ronca; campi due in contrà di Crosarola; campi sei in contrà de Roche;
campi otto in contrà di Fontana Calda.
A Toara: un campo in contrà della Piazza; campi due in contrà del Saltarello;
campi trenta arativi e parte prativi in contrà di S. Pietro; campi due in contrà di
Campagnola; campi quattro in contrà della Pezza Grande; campi tre in contrà
della Vignola; campi uno in contrà del Cengio; campi due in contrà della
Paltana.
A Belvedere; campi due in contrà del Casamento.
Inoltre la Commenda riscuoteva numerosissimi livelli non solo nel Comune di
Villaga, ma anche a Barbarano, Mossano, Orgiano, Campiglia, Noventa,
Albettone, Asigliano.
Agli inizi del XVIII secolo era commendatore di S. Silvestro frà Gio Battista
Spinola, conte di Ronco di Genova e marchese di Roccaforte. 25 Apprendiamo
poi da un atto rogato dal notaio Gottardo, conservato nell’Archivio di Stato di
Vicenza (busta 3005) che Andrea Giacomuzzo, affittuale della Commenda –
allora governata dal nobile frà Giobatta Dotto dei Paoli – faceva presente la
necessità di intervenire nella Commenda che era bisognosa di restauri, così
come la chiesa di S. Silvestro (il tetto del sacro edificio era lesionato); dichiarava anche che “le mura che serano la corte minacciano rovina e vi è bisogno di farvi
fare subito un barbacane di piedi quattro sopra terra, mancando delli portoni laterali alla strada pubblica”.
Nel 1726 iniziò una lotta processuale tra le contesse Godi e il commendatore
di S. Silvestro frà Giovanni Battista Dotto dei Dauli. I motivi di tale dissidio
riguardarono i diritti che entrambe le parti rivendicavano sul bosco di “Nosedo”
(Noseo). La disputa si protrasse fino al 2 settembre 1729, quando il giudice si
espresse definitivamente a favore delle nobili Godi. 26
Nel frattempo la Commenda era stata aggregata a quella di S. Giovanni di
Rovigo. Poi, nel 1772, venne nuovamente smembrata e unita (dal punto di vista
amministrativo) a quella di S. Giovanni di Longara, su disposizione del Gran
maestro fr. Emanuele Pinto. 27 Nel secolo successivo, e precisamente nell’anno
1864, la Commenda, con i suoi beni, venne acquistata dalla famiglia Chemin,
poi passò ai Palma e infine alla famiglia Bedeschi, attuale proprietaria.
Gli ordini religioso-cavallereschi disponevano di chiese e di cappelle riservate
a loro uso. Nelle commende templari e ospedaliere – osserva il Demurger, uno
tra i massimi studiosi del fenomeno – la chiesetta è un modesto edificio rettangolare, a navata unica e tre campate, a terminazione rettilinea o absidata.
Questo modello è frutto di una deliberata volontà di semplicità e di sobrietà,
propria degli ordini influenzati dallo spirito cistercense e più preoccupati di
investire negli ospizi-ospedali che nelle chiese.28
Probabilmente anche la cappella di S. Silvestro di Villaga, situata poco lontano
dalla Commenda e quindi autonoma, obbediva a queste caratteristiche. Essa
era destinata ai bisogni spirituali dei membri dell’ordine e vi officiavano dei
frati cappellani. La chiesa viene citata in un documento del 1492 dove si dice
che venne fondata in località S. Silvestro, nei pressi di una fontana: “in ora
Sancti Silvestri et fontanae apud ecclesiam Sancti Silvestri, apud viam Communis,
apud fontanam et gaibum fontanae” 29 (in località di S. Silvestro e della fontana,
presso la chiesa di S. Silvestro, presso la Via Comune, presso la fontana e il
canale della fontana).
Per avere ulteriori notizie della cappella di S. Silvestro dobbiamo attendere
l’anno 1664, quando in uno scritto, il curato della parrocchia di Villaga Vincenzo
Commi, monaco olivetano, precisa che il commendatore Verdelli ha affittato ad
Anzolo Pelizari, per il prezzo di ducati centonovanta, la terra in collina del
Monte di Noseo denominata “Teolenda”, su cui sorge la chiesa della
Commenda di S. Silvestro; inoltre il curato aggiunge che lui stesso officia la
chiesetta con due messe settimanali ricevendo d’elemosina ducati venti all’anno.30
Più di un secolo dopo, nel 1780 il parroco don Giacomo Marconi scrive che
nella chiesa di S. Silvestro, “posta al monte 20 pertiche circa discosto dalla parrocchiale, si celebrano messe tre in settimana ed è della Commenda di Malta… Marco
Antonio Trenti Padovano ne è il commendatore”.31
Dieci anni dopo, nel 1790 veniamo a sapere che don Domenico Rossetti celebra la messa alla Cappellania di S. Silvestro.32 Nel 1820, in occasione della visita pastorale a Villaga del vescovo Giovanni Maria Peruzzi, il parroco don
Antonio Brocardo nella sua relazione puntualizza che la chiesa di S. Silvestro è
passata in proprietà del Demanio.33 Era perciò iniziata la parabola discendente
di questa chiesa che alcuni anni dopo, nel 1829 risultava sospesa, così come il
sottostante oratorio della Beata Vergine Maria (della Neve).34
24 Arch. Stato Vicenza, Estimo Barbarano e le ville del suo vicariato 1665, Polizze, b.329.
25 L. Tacchella, Il Sovrano Militare Ordine di Malta, pag. 49.
26 R. Dal Lago – M.N. Simeone, Barbarano nel periodo veneziano, in Barbarano Vicentino, pagg. 521-522.
27 L. Tacchella, Il Sovrano Militare Ordine di Malta, pag. 49
28 A. Demurger, I cavalieri di Cristo, Collezione storica Garzanti, pagg. 194-195.
29 Arch. Parr. Villaga, Inventario dei beni mobili e immobili della Chiesa di S. Michele di Villaga, anno 1492.
30 Arch. Curia Vescovile Vicenza, Stato delle Chiese, b. 330, f. 92
31 Arch. Curia Vescovile Vicenza Stato delle Chiese, b. 330, foglio sciolto
32 Arch. Curia Vicenza. Stato delle chiese, b. 330, foglio sciolto
33 G. Mantese– E. Reato, La visita pastorale di Giuseppe Maria Peruzzi nella Diocesi di Vicenza, Roma 1972,
Ed. Storia e Letteratura, pag. 189
34 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, b. 330, foglio sciolto
48
La chiesa di San Silvestro
49
Località Grumolo, al di sotto della Cà Larga, luogo dove presumibilmente si trovava l’antica Domus di San Giovanni.
Nella successiva visita pastorale compiuta nel 1871 dal vescovo mons.
Giovanni Antonio Farina, della chiesetta di S. Silvestro non si fa più menzione;
ciò sta a significare che la chiesa nel frattempo era caduta in abbandono ed era
stata sconsacrata. Fu poi ridotta in abitazione, quindi demolita per far posto ad
una moderna villetta.
4. LA DOMUS HOSPITALIS DI BARBARANO A TOARA?
Sulla “Domus hospitalis” di Barbarano molto è stato scritto, ma la questione
rimane ancora aperta per le posizioni diverse espresse da vari studiosi.
Cominciamo dal Mantese, il quale sostiene che a Barbarano i Templari avevano
un ospedale, come risulterebbe anche dalle Rationes Decimarum”dell’anno
1297, conservate nell’archivio Vaticano, in cui appare elencata la “domus hospitalis” di Barbarano.35 Egli fa corrispondere tale ospedale alla vecchia chiesa
parrocchiale di S. Giovanni in Monte (dagli anni Cinquanta del secolo scorso
appartiene al Demanio militare che vi ha insediato una importante stazione
del 32° Reggimento trasmissioni).
La tesi del Mantese però non viene confermata dagli studiosi Dal Lago e
35 G. Mantese, Memorie storiche della Chiesa vicentina, vol. III, pag 328.
50
Simeone36 che sottolineano la mancanza di documenti a sostegno di questa
ipotesi: Essi, invece, sono più propensi a credere che tale ospedale dei Templari
possa essere identificato con quello di S. Silvestro di Villaga; ma avanzano
anche un’altra possibilità, vale a dire che poteva trattarsi semplicemente di uno
dei tanti ospedali dove trovavano accoglienza i pellegrini o gli infermi, tenuto
da un ordine religioso diverso da quello dei Templari e il riferimento è
all’ospedale di S. Caterina, posto nei pressi del Castello di Barbarano, sul versante verso Villaga, dove sorgeva anche la chiesa, ed è documentato già a partire dalla fine del XIII secolo.37
Su questa “Domus” hanno preso posizione anche Caruso e Pezzella, 38 esperti
di studi di ordini religioso-cavallereschi, osservando che tale ospedale “è stato
impropriamente attribuito ai Templari, perchè se le decime del 1297 possono essere
abbastanza generiche con la dizione “domus hospitalis de Barbarano”, il fatto che nel
sopraccitato documento vi fosse una riunione dei Giovanniti, tra cui il precettore di
Barbarano, toglie ogni dubbio – sostengono – sull’appartenenza della domus
all’ospedale” che viene quindi attribuito all’Ordine dei Cavalieri Giovanniti, poi
di Malta.
D’accordo con questa tesi è pure Antonio Diano, il quale puntualizza che la
Domus di Barbarano fu giovannita, non templare, ed è insediamento da individuare come sito ai margini dell’abitato, benché ancora sussista qualche ragguardevole problema di identificazione precisa.39
Ma l’argomentazione più incisiva e documentata, anche se più discussa,
rimane quella di Lorenzo Tacchella, il quale scrive che “l’ausilio di uno studioso
e competente cultore di storia locale, Antonio Verlato, gli ha consentito di poter stabilire che la chiesa e l’ospedale templare e poi giovannita di S. Giovanni di Barbarano
erano fondati in località Grumolo, fra Toara e Villaga (nei pressi della località Cà
Larga, vicino al “Crosaron”), attualmente nella giurisdizione parrocchiale di Toara,
allora pievania di Barbarano.40 A confermarlo è una mappa del 1776 conservata in
Archivio di Stato di Vicenza, disegnata da Andrea Sciotto, pubblico perito a Padova,
in cui appare la chiesa di S. Giovanni collocata sulle colline sopra Toara, con accanto la didascalia: “vestigge dell’antica chiesa della Comenda”.41
Altri riferimenti che potrebbero portare ulteriori elementi a favore di questa
tesi li ritroviamo in due importanti documenti conservati negli archivi delle
chiese parrocchiali di Villaga e di Toara. Si tratta degli inventari dei beni mobili
e immobili della chiesa di Villaga, redatto nell’anno 1492, e della chiesa di
36 R. Dal Lago – M.N.Simeone, Barbarano nell’età feudale, pag. 291
37 Dal Lago – Simeone, Barbarano nell’età feudale, pag. 291
38 M. Caruso – N. Pezzella, Templari, Giovanniti e Cavalieri del Santo Sepolcro in territorio vicentino, ed. Penne
e Papiri, Latina 1997, pag. 10
39 A. Viano, Architettura ecclesiastica medioevale nell’area dei Colli Berici, in fascicolo dal titolo: “Tredicesimo
incontro in ricordo di Michelangelo Muraro”, 15 maggio 2004, Comune di Sossano, Centro studi Berici, pag. 23
40 L. Tacchella, Il Sovrano Militare Ordine di Malta nella storia di Vicenza, Padova,Verona e Brescia, estratto da
Studi storici veronesi Luigi Simeone, 1968-69, pag. 45
41 Arch. Stato Vicenza, Cart. Corporazioni religiose soppresse, n. 3072
51
Toara, risalente all’anno 1444. Nel primo inventario sono più volte citati i diritti
della chiesa di S. Giovanni: “…poi una pezza di terra arativa e zappativi che può essere
di circa un campo nelle pertinenze di Villaga, in località di Moti, presso la via Comune,
presso i diritti di S. Giovanni”, e ancora:“…presso i diritti della Mansione per due parti
presso Marco Antonio, presso la fontana dello scaranto, la cui proprietà è di S. Giovanni”;
inoltre: “…presso la via Comune, presso i diritti della Santa Chiesa di S: Giovanni di
Barbarano e presso i diritti di S. Giorgio di Toara”.42
Nell’inventario di Toara si legge: “Primo una pezza di terra arativa e piantata a viti e
alberi, circa tre campi in dette pertinenze all’inizio del paese, vicino alla via del Comune,
vicino Gabriele dei Traversi, presso i diritti di S. Giovanni di Barbarano”; “una pezza di
terra arativa e piantata di circa un campo nella contrada di Pranchis, presso la via
Comune, presso i diritti di S. Giovanni di Barbarano, presso i diritti di S. Michele di
Villaga”; “…poi una pezza di terra arativa di circa mezzo campo nella citata contrada
vicino a Lorenzo Leonardi, vicino agli eredi del signor Antonio de Loschi, presso i diritti
di S. Giovanni”; “…poi una pezza di terra arativa e piantata di circa sette campi in dette
pertinenze in contrada Croce, presso la via Comune, presso la via Consortiva, presso i
diritti di S. Giovanni di Barbarano”; “poi un sedime di circa un campo nel paese di Toara,
presso la via Comune, presso i diritti di S. Giovanni”; “…poi una pezza di terra arativa e
piantata di circa mezzo campo in detta contrada (Molete) presso i diritti di S. Giovanni”.43
Tacchella poi scrive che “entrambe le chiese, l’antica di S. Giovanni e quella di S. Silvestro,
posteriore e pur antica anch’essa, erano fondate nel territorio giurisdizionale dell’antica
mansione di S. Giovanni di Barbarano” 44 e aggiunge che, dopo la soppressione dei
Templari, la residenza del precettore giovannita venne trasferita nella Commenda
di S. Silvestro, “sempre in territorio giurisdizionale dell’antica mansione”.45 Inoltre precisa che il nome dell’antica chiesa di S. Giovanni rimarrà legato al titolo della
Mansione e della Commenda fino al secolo XVII; successivamente sarà sostituito
con quello di S. Silvestro.
Tacchella, infine, cita un documento dell’anno 1558 45 concernente le mansioni
che versano tributi al clero di Vicenza: tra le varie è riportato “S. Giovanni
Gerosolimitano di Villaga” e non di Barbarano; ciò è spiegabile col fatto che
attorno alla metà del Cinquecento il territorio collinare situato tra Villaga, Toara
e Pozzolo passò sotto la parrocchia di Villaga, tanto è vero che anche S. Donato,
a quel tempo, non era più appartenente alla giurisdizione di Barbarano ma
dipendeva da Villaga.
42 Arch. Parr. Villaga, Inventario dei beni mobili e immobili appartenenti alla chiesa di San Michele di Villaga,
copia manoscritta del 1795 redatta da Antonio Todeschini.
43 Arch. Parr. Toara, Inventario di tutti i beni mobili e immobili spettanti alla chiesa di S. Giorgio di Toara, Copia
manoscritta del 1702
44 L. Tacchella, Il Sovrano Militare Ordine di Malta…, pag. 47.
45 Ibidem, pag. 48
45 Tale documento è conservato in Arch. Stato Vicenza, Corporazioni religiose soppresse, B. 3079.
52
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
1. SOTTO LA SERENISSIMA REPUBBLICA DI VENEZIA
La svolta determinante per la storia del nostro territorio avviene nel 1404 con
la sottomissione di Vicenza alla Serenissima Repubblica di Venezia.
Incominciano allora a giungere anche nei nostri paesi numerosi nobili
veneziani con incarichi militari o amministrativi, in qualità di podestà o di rettori. 1
Sempre più numerose sono le famiglie nobili che, con lungimiranza, iniziano
ad investire i loro capitali nell’acquisto di proprietà fondiarie. Ottengono a
prezzi irrisori quei terreni che le comunità locali (spesso prive di mezzi) non
erano in grado di bonificare; altri, come dimostra il Mantese, ricevono dal
vescovo di Vicenza l’investitura di terre incolte, offrendosi di dissodarle; altri
ancora, infine, acquistano varie proprietà già appartenute a ordini religiosi
(Benedettini, Cistercensi…). Gli investimenti nel settore fondiario furono
notevoli, al punto che – come sostiene lo studioso Beltrame - il 90 per cento
delle campagne nel ‘700 era in mano della nobiltà. 2
Nel Quattrocento il territorio vicentino continuò ad essere organizzato in
quindici Vicariati civili (11 maggiori e 4 minori) e due Podesterie, secondo le
strutture amministrative già introdotte dagli Scaligeri. Venezia mantenne tale
assetto limitandosi a perfezionare le procedure di nomina dei Vicari. Tra gli
undici Vicariati maggiori vi era quello di Barbarano; ogni Vicariato aveva sotto
la propria giurisdizione un certo numero di Comuni rurali. Villaga, naturalmente, apparteneva al Vicariato di Barbarano.
Ogni Comune, in età veneziana, continuò a governarsi in base a propri statuti, in un primo tempo semplici regole tramandate oralmente, in seguito codificate e preventivamente approvate da un’apposita commissione distrettuale.
1 M. Muraro, Geografia, storia e miti del Basso Vicentino fino al Palladio, in Nantopietra, alle radici dell’arte e
della scultura, 89-90, pag. 12
2 Ibidem
53
CAPITOLO QUINTO
2. STATUTI DELLE VILLE DI BELVEDERE, POZZOLO,
VILLAGA E TOARA
A partire dai primi anni del Cinquecento, via via tutti i Comuni del territorio
vicentino si dotarono di uno statuto, cioè di un codice scritto di leggi che ne
regolava la vita amministrativa.
Il 24 agosto 1545 gli homeni (i capifamiglia) delle ville (paesi) di Villaga, Toara,
Pozzolo e Belvedere si riunirono in “publica visinanza” e approvarono all’unanimità nove capitoli che costituirono gli Statuti del Comune di Villaga.3 In essi
vengono regolamentati l’obbligo di presenza per i consiglieri, le modalità di
convocazione della convicinia, le decisioni a maggioranza, le sanzioni ai contravvenenti; si definiscono inoltre i compiti del Consiglio: la ripartizione di
colte, la realizzazione degli estimi, l’affitto dei beni comunali, la manutenzione
del Siron, dei fossi in generale (pioveghi), delle strade e degli argini.
Ma vediamo di conoscere più da vicino i contenuti di tale documento, a partire
dal motivo che ha spinto la “Visinanza” ad approvare nuovi statuti. Si premette
che quando i funzionari di Venezia o di Vicenza vengono in missione, si rende
necessario convocare “la visinanza de li homeni del comun nostro della villa de
Villaga, Thoara, Belvedere e Pozzolo” per discutere e deliberare su questioni
importanti. I capifamiglia (homeni) hanno quindi il dovere di presenziare a
queste riunioni perché altrimenti la loro assenza impedisce di provvedere “alli
bisogni nostri e per tal manchamento alchune volte el detto comun (le comunità di
Villaga) patisse gravissimi danni et spese”. Pertanto il primo capitolo dello statuto prevede che i deputati homeni che risultassero assenti alle riunioni vengano
multati di dieci soldi di moneta vicentina (erano esentati coloro che erano
ammalati o si trovavano temporaneamente fuori dal territorio comunale). La
multa scendeva a cinque soldi se le visinanze prevedevano all’ordine del
giorno argomenti di carattere locale. E se il comandador del Comune, quando
passava per la convocazione di porta in porta non trovava nessuno in casa,
doveva avvisare dell’adunanza segnando una croce con la calce o un pezzo di
carbone.
Nel secondo capitolo si stabiliva che tutte le multe raccolte dovevano essere
“messe a universal beneficio de tutto il comun nostro”; inoltre il degan e gli stessi
consiglieri erano tenuti più degli altri ad osservare gli ordini contenuti negli
statuti. In caso di loro inosservanza avrebbero pagato il doppio della pena che
“aspettava a ciascun altro contrafaciente”. 4
3 Biblioteca Civica Bertoliana, Archivio Torre – Lib. Provv. VII c. 583 – 587; inoltre tale documento è stato pubblicato in “Statuti delle ville di Belvedere, Pozzolo, Villaga e Toara”, Nozze Marzotto- Conti Barbaran, Vicenza
1886, pagg. 16 (Fondo Gonzati, 325.11)
4 Vedi in proposito il 1° paragrafo dal titolo “Gli Statuti comunali del 1545”, inserito nel capitolo “Pozzolo nel
periodo veneziano”, di F. Dalla Libera, contenuto in Pozzolo di Villaga, edito dalla Parrocchia di S. Lucia di
Pozzolo.
4 I Colonnelli significavano, nel linguaggio giuridico veneziano, “aggregazione” di carattere amministrativo e
geografico.
54
IL PERIODO VENEZIANO
Nel terzo capitolo si pone l’attenzione sulla pulizia dei fossati, e in particolare
sul Siron, il cui controllo era di competenza del degan o di un suo delegato che
doveva verificare gli eventuali lavori dati in appalto; se fosse mancato il controllo, sarebbe scattata una multa di venti soldi.
Nel caso in cui i lavori fossero eseguiti direttamente, ciascuno per la sua parte,
il degan di Villaga doveva dare disposizioni ai capi de desena (insieme di dieci
famiglie) in modo che ognuno curasse la sua porzione di Siron, coinvolgendo
anche i degani degli altri tre colonnelli (di Toara, Belvedere e Pozzolo) che a
loro volta dovevano far fare tale lavoro ai propri sottoposti, entro tre giorni. In
caso di inosservanza di quanto stabilito, il capitolo quarto prevedeva che il
degano principale doveva sborsare venti soldi, e così pure gli altri degani.
Nel quinto capitolo si decide che le deliberazioni dell’organo comunale dovevano essere “balotate a busoli e balote”, cioè messe ai voti inserendo delle palline
colorate in un’urna: un colore doveva indicare i voti favorevoli, un altro colore
i voti contrari. La deliberazione era approvata con una maggioranza di palline
riferite ai favorevoli.
Nel sesto capitolo si stabilisce che coloro che prendono in affitto beni del
Comune non hanno diritto ad alcuna agevolazione o sussidio da parte del
Comune, mentre nel settimo si invitavano i degani e i consiglieri di sostituire
gli stimatori degli estimi che risultassero non disponibili e di multarli.
Nell’ottavo capitolo si dispone che quando si riunisce “la visinanza degli homeni nostri”, spetta al degano o al consigliere più anziano del colonnnello di
Villaga presiedere l’adunanza e illustrare gli argomenti in discussione“soto pena
alli contrafacienti de pagar del suo soldi diece”.
Gli statuti si chiudono con le disposizioni ai singoli convocati in visinanza di
convenire nel luogo consueto dell’assemblea e di aspettare gli altri per almeno
tre ore. Se un consigliere se ne andava prima della scadenza del tempo prestabilito, veniva multato di dieci soldi o di cinque, a seconda dell’importanza dell’adunanza.
Gli Statuti, scritti in volgare dal notaio Nicolò da Cornedo, vennero mandati a
Vicenza e qui, dopo due anni e quattro mesi, il 29 dicembre 1547, furono
approvati dai “deputati ad utilia”: D. Nicolaus de Portis eques, D. Leonardus de
Plovenis doctor et eques, D. Hieronymus de Thienis q. d. Joannis eques, D.
Hieronymus de Ferramuschis doctor, D. Franciscus de Gualdo, D. Antonius a
Vulpe et D. Jacobus de Tridento, alla presenza dei nobili Ioanne Matheo ab
Urciis e Camillo de Lugo, cittadini vicentini, e trascritti dal notaio Jacobus
Antonius De Bragantis.
Si tratta quindi di un documento interessante che ci fa conoscere e apprezzare
il senso di responsabilità e l’alto livello del vivere civile dei nostri antenati e che
merita di essere pubblicato e letto, come parte integrante della nostra storia
locale.
55
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
Perchè spesse volte accade convocar la vicinanza de li homeni del comun nostro della villa de Villaga, Thoara, Belvedere et Pozzolo, et maxime de quelli che
hanno officio et sono deputati al proveder sì alli mandati della Illustrissima
Signoria nostra di Venetia, et de li soi Magnifici Rettori, Vicarii, Iudici, li Magnifici
Deputati, Ufficiali et altri comessi soi, come anchora a molte altre occurrentie
nostre quale quotidianamente accadeno nel ditto comun, et perchè de questi
tali homeni alcuni sono che quantunque siano citadi ricusano camparere, per la
qual absentia et contumacia non si vuol proveder alli bisogni nostri, et per tal
mancamento alcune volte el ditto comun patisse gravissimi danni et spese:
unde essendo bisogno a tali et altri molti inconvenienti provedere, et quelli per
lo advenire a meglior esser del passato per comun beneficio redure, imperhò
noi Domenego Ronchin degan principale, et similmente Domenego Lugan,
Lorenzo Ferraro, Bartholamio dalle Oche, Zorzo di Polati, Lorenzo Bertuzzo, et
Zandonà di Rappi, sindici generali et consiglieri del prefato comun, per meglior
observantia delle preditte cose, laudando et confirmando ogni altro antiquissimo et usitato consueto nostro in altre materie et cause osservato, non perhò
derogando alli novi infrascritti ordeni et capituli nostri così da ciascheduno per
lo advenire inviolabilmente senza alchuna remissione alli contrafacenti ordinato
ed osservato, volemo che sia et esser se intenda siccome ne li infrascritti capituli più chiaramente si contiene:
Primo che quando venirà alcun mandato a noi per nome della Illustrissima
Signoria nostra, overo de soi Magnifici Rettori et altri comessi soi, per il che
achada chiamar la vicinanza secondo il consueto per occasion di proveder a
quelli, che in tal caso tutti li deputati homeni siano citadi con pena de soldi diece
de moneda vesentina, che si debano redure alla vicinanza, dechiarandoli il
giorno deputado o per la matina, overo per dapoi disnare secondo la importantia, et tutti quelli et qualunche sarà citado ut supra, et potendo et non volendo,
non venirà in tempo, siano et esser se intendano incorsi in la preditta pena de
soldi diece reservando perhò sempre la impotentia, che se fusseno amalati,
overo che non si attrovasseno sul ditto comun al tempo della citatione: in tutte
le altre veramente vicinanze dove non si tratterà mandati apartinenti alla
Illustrissima Signoria nostra, come è a meter colte, a far li estimi, affitanzie,
piovegi, et d’fogni altra occurentia nostra, che in tale et simil casi che tutti et
qualunche deputato sia citato in pena de soldi cinque, et se serano ut supra
inobedienti che tutti et qualunche contrafaciente sia et esser se intenda incorso
in pena de soldi cinque della predetta moneta: et che quando in comandador
de comun andarà a comandar alle case, et che per sorte come spesse volte
achade non troverà nessuno in casa, che lui sia obligato soto la preditta pena
se contrafarà, a far con calcina overo con carbon, o con qualche altra cosa, una
croce suso la porta overo usso de la sua habitazione o casa, aciò che vedendo el segno sapia di esser sta citato, et non si possa per tal causa excusare:
2° Item che tutte le pene et danari che se torranno et saranno tolte, siano
messe in colte a universal beneficio de tutto el comun nostro sì di li contrafacienti come de ciascheduno altro del ditto comun, et chel degan insieme con li
consiglieri siano et esser debiano esecutori de tutti li ordeni ed capituli nostri in
osservarli et farli ad altri del nostro comun osservare soto pena alli prefati degan
et consiglieri de pagar per ciascadun de lori el dopio del suo che expetteria al
alchuno altro contrafaciente pagare, come et a scoder le pene et dinari da li
inobedienti:
3° Item che quando se comanderà la vicinanza per causa de far over
affittar, el Siron secondo el consueto, sel se affitterà, chel degan overo uno per
suo nome qual sia persona intelligente debba andar a vederlo sel sarà ben
fatto, avanti che li mercenarii siano satisfati: et sel non serà ben fatto fargelo
fare, soto pena al degan de pagar soldi vinti sel contrafarà del suo, da esser
spesi a beneficio comun ut supra:
4° Item sel se farà per compartita, quando sarà tempo de farlo, chel
degan principale del colonello de Villaga sia obligato far comandamento a tutti
li capi de desena sottoposti al suo colonello che debano fare et far fare a
chadauno sotoposto alla sua desena la sua portione et parte del ditto Siron, et
poi far comandamento alli altri degani de Thoara, Belvedere, et de Pozzolo che
similmente debano far etfar fare in termine de tre giorni, et passati che serano
li giorni tri, che tutti quelli che non haverano fatto la sua parte, che siano et esser
se intendano incorsi in la pena de soldi diese per cadauno contrafaciente et che
in tal caso non siano reservate alchune excusatione ne de infirmitade ne de altre
cause, et quelli che non potrano, debano trovar chi faccia la sua parte per lori
et pagarli, acciò chel particolar benefficio non deroge al generale, et chel comodo de uno non sia incomodo a molti, et sel degan principale mancherà de
quanto è ordinato che lui deba pagar del suo soldi vinti, et così li altri degani et
capi de desena de li sopra nominati colonelli de Thoara, Belvedere et Pozzolo,
non procurerano et farano che lo soi capi de desena faciano et faciano fare alli
soi homeni sotoposti alle sue desene le sue portione, che quelli che mancherano videlicet o degan, overo capo de desena, sia et esser se intenda incorso
in la preditta pena de soldi vinti, passato che sarà il preditto termine de giorni
tre, et così chadauno altro inobediente:
5° Item che per lo advenire tutte le occurentie che achaderano sul ditto
comun pur che non sia fatto overo mandato della Illustrissima Signoria nostra,
overo de li soi Magnifici Rettori, overo de la magnifica Città di Vicenza, overo de
li Magnifici Deputà, si debano balotar a bussoli et balote, et che la maggior
parte sempre delle balote siano vincitrice, et vincer debano: in tutte veramente
le occurentie della Illustrissima Signoria nostra, non se deba altramente ballotare: ma che con ogni maggior prestezza nostra, si come semo obligati si
deba immediate obedir, et simelmente si deba far nelle occurentie delli soi
Magnifici Rettori, et altri soi comessi:
6° Item che tutti quelli che torano beni del comun nostro a fitto non
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CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
debiano ne non possino haver alcun ristoro dal ditto comun, ma integralmente
pagar lo integro fitto, siccome lo havevano levato al publico incanto, ma debbano advertir de farsi bon mercato, et non per causa de nocer ad altri, far male
a se medemi:
7° Item che quando fusseno citadi, li stimadori deputati a far li estimi del
ditto comun, et chel ge manchasse uno o dui e più stimadori, per il che non si
potesse far lo estimo, che in tal caso il degan et conseglieri del comun, debano
elezerne de li altri al suplimento de la sufficiente summa, et tuor la pena a quelli che non fusseno venuti, riservando sempre la importantia per legitima causa
ut supra declaratum fuit et est:
8° Item che quando si congregerà la vicinanza de li homeni nostri, congregata che serà, el degan overo el più vechio consegliero del primario colonello nostro de Villaga sia et esser deba obligato di proponer la causa de ditta congregatione alli altri congregati homeni, soto pena alli contrafacienti de pagar del
suo soldi diece de la predetta moneta ut supra:
9° Item che ogni volta che se comanderà la vicinanza che tutti et
qualunche citado deba redurse al loco solito et consueto, et ivi star di continuo
per spacio de hore tre expettando li altri, et se ben el venirà uno e più delli deputati homeni, et che se partirà o partiranno avanti il prenominato tempo et spacio, che non se intendano esser venuti, et torli la pena ut supra ordinatum fuit et
est de soldi diese sel serà mandato apertinente alle occurentie della
Illustrissima Signoria nostra, overo de soi Magnifici Rettori ut supra, et altre
occurentie nostre che non sia mandato della Illustrissima Signoria, ma altre particularitade nostre, come spesse volte accade, debano pagar solum soldi
cinque ut supra dictum est et questo senza alchuna remissione.
1545 adì luni 24 Agosto, in publica visinanza sono stati laudati et comprobati
tutti li soprascritti ordeni et capituli, nessuno contradicente et in defe de ciò, de
comission del soprascritto degan et consiliarii, presente messer Lodovigo Buso
cittadin de Vicenza, et Zambaptista Calderaro da Vicenza mi ho sottoscritto:
“E mi Nicolò da Cornedo nodaro del ditto comun”.
Marchioretto et Giulio Albanese del numero delli sette consiglieri del comun di
Villagha et suoi colonelli attestiamo et facciamo amplissima fede, qualmente questo
nostro Comune si ritrova diviso in tre colonnati il primo de quali si è Villagha, la
quale dà la denominazione al Comun chiamato di Villagha, et in questo nostro
Comun abbiamo tre chiese distinte, le quali sono tutte tre parrocchiali, nominate di
S. Michiele di Villagha, S. Giorgio di Toara et S. ta Lucia di Pozzolo, che tali appunto
sono chiamati li colonnati distinti, et queste sono governate da proprii parrochi o rettori, et noi altri facciamo tutte le funzioni che ci aspettano ad utile et beneficio del nostro Comun nel sopradetto colonnato di Villagha, nel quale abbiamo la nostra casa
chiamata del Comun, per ridurci ad ogni beneplacito e bisogno di questa”.
Il Comune, alla metà del ‘500, era formato dai quattro colonnelli di Villaga,
Toara, Pozzolo e Belvedere, ognuno con una propria visinanza presieduta da un
proprio degan, ma si riunivano insieme in un’unica assemblea sotto la presidenza del degan principale, quello di Villaga. 5
Più tardi, nella seconda metà del Seicento, e precisamente nel 1665, il Comune
di Villaga venne diviso nei tre colonnati di Villaga, Toara e Pozzolo, (sparì quindi il colonnato di Belvedere, previsto invece negli statuti del 1545) coincidenti
con le tre parrocchie. In proposito abbiamo una dichiarazione scritta dei sette
consiglieri di Villaga, datata 1 giugno 1665, che sottoscrivono quanto segue:
“Noi Zuanne Mambrin degan, Zuanne dei Mani, Antonio Grandi, Mattio
CARICHE COMUNALI 1545-1721
Anno 1545
Domenico Ronchin Degan
Domenego Lugan, Lorenzo Ferraro, Bortolamio dalle Oche, Zorzi Polati,
Lorenzo Bertuzzo, Zandonà Rappo, Consiglieri
Anno 1581
Pasqualin Bugarini Degan
Gasparo Bugarin, Francesco Gobbo, Francesco Veronese, Iseppo Borinato,
Michiel Muraro, Michiel Pollato, Bortolo Di Grandi Consiglieri
Anno 1665
Zuanne Mambrin Degan
Antonio de Grandi, Zuanne Mani, Mattio Marchioretto, Giulio Albanese
Consiglieri
Anno 1700
Anzolo Mambrin Degan
Zuanne Guarato, Marco Vinante, Bernardo Muraro, Pelegrin Breganzato,
Iseppo Donaello, Pietro Bertuzzo Consiglieri
Anno 1716
Gaetan Mambrin Degan
Bellin Bellini sindico
Francesco Veronese, Antonio Zanini, Bernardin Danieli, Paulo Faccio, Batta
Bettio Consiglieri
Anno 1721
Gaetan Mambrin
Degan
5 F. Dalla Libera, Pozzolo nel periodo veneziano, pag. 185
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CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
Bernardin Danieli Sindico
Paulo Rappo, Bellin Bellini, Pelegrin Fatore, Mattio Pasquale, Zuanne De
Grandi, Domenico Bertuzzo Consiglieri
l’atto di nascita del Consorzio, resta comunque una tappa importante nella storia
della bonifica delle nostre terre. Essa infatti andava ad inserirsi in un progetto di più
ampio respiro che comprendeva la vasta plaga di terre basse e acquitrinose che giace
ai confini delle province di Verona, Padova, Vicenza, dai Berici agli Euganei,
all’Adige”. 11
La sistemazione pressochè definitiva delle campagne del Basso Vicentino culminò con il “piano generale” del 30 giugno 1563, volto a disciplinare tutta la
rete idrografica della zona, creando un ordinato sistema di canali: “d’ora in poi
– scriveva Michelangelo Muraro – il Bisatto, la Liona, l’Alonte, il Gorzon non creeranno più i disagi di un tempo. E d’ora in poi, notevolissimo è, di conseguenza, l’impulso dato alle attività agricole”. 12
A conclusione di questa illustrazione sulle opere di bonifica attuate nel
Cinquecento, è bene ricordare le disposizioni del Magistrato sopra i Beni
Inculti, il quale “volendo dar regola alle acque, dichiara e comanda che tutte le acque
che entrano nel Bacchiglione (in realtà si trattava del canale Bisatto, derivazione
del Bacchiglione) da Barbaran in zoso, che sono la Bandizza, Nina, Liona, Ronego,
Siron, Alonte e altre acque vive che a beneffitio della navigation da Este a Battaglia,
e sia congiunta la fossa Bandizza con altre particolarità qui descritte…” 13
Nei secoli successivi vennero realizzati una serie di manufatti in punti strategici, allo scopo di migliorare lo scolo delle acque; nel Comune di Villaga gli
interventi riguardarono: il ponte Frasca, le Porte e il ponte sulla Seonega, il
ponte sul Gorzon a Quargente, il ponte e la chiavica sul Fiumicello, il ponte
Bologna-Siron in zona Baracca a Fogomorto, il soprapassaggio del fosso
Alture, il sottopassaggio della Fossa Nuova, il ponte Conte Conti per Toara, il
ponte Alto, sulla strada da Belvedere per Sossano.14
3. LA BONIFICA DELLE CAMPAGNE
Nei primi decenni del Cinquecento la politica veneziana si orientò sempre più
verso la terraferma, finalmente pacificata dopo la sanguinosa guerra di
Cambrai. La Serenissima incamerò estese proprietà confiscate alle famiglie che
avevano parteggiato per gli imperiali; ad approfittarne furono i patrizi che
acquisirono vasti possedimenti. 6
Nel frattempo si facevano sempre più pressanti le suppliche dei vari centri dell’area berico-euganea affinchè la Serenissima avviasse un piano organico e
razionale di bonifica: infatti vi erano ancora zone che risultavano incolte e
paludose. 7
Il governo veneziano, pertanto, istituì il 10 ottobre 1556 la Magistratura sopra
i Beni Inculti e già l’anno successivo diede inizio ad una vasta opera di bonifica denominata “Retratto di Lozzo”, che, oltre ad alcune località del Veronese e
del Padovano, interessò anche numerose località del Basso Vicentino fra le
quali Noventa, Pojana Maggiore, Sossano, Orgiano, Campiglia, Albettone, S.
Germano e Grancona. 8
Intanto, l’anno precedente, un gruppo di 26 grandi proprietari, tra cui i nobili
Giulio Barbaran, Montano Barbarano, Vincenzo Godi, Vincenzo Nievo, Zuane
Loschi avevano sottoscritto un accordo convinti che, con poca spesa, si potevano ridurre a coltura e fertilità in questo territorio circa cinquemila campi
“quali si trovano palludosi et occupati dall’acque, situati et posti sotto le pertinenze
del vicariato di Orgiano et Barbarano nelli lochi parte di S. German, Villa del Ferro,
Campo Longo, Orgiano, Zossano, Campiglia, L’Agugiaro, Villaga, per li quali lochi
discende et scorre l’acqua della Liona”. 9
Costoro si proponevano di far scavare il greto della Liona per far defluire maggiormente le acque, che nei periodi piovosi ristagnavano nelle campagne.
Chiedevano pertanto la delega di poter agire a nome dell’autorità pubblica,
soprattutto in materia di tassazione. “Per questo motivo – puntualizza Reginaldo
Dal Lago – ci sentiamo di poter dire che in quel 17 febbraio 1555 (giorno in cui
venne deciso lo scavo della Liona per dar scolo alle acque) prendeva avvio il
Consorzio Liona-Frassenella che in un primo momento si sarebbe interessato alla
cura dell’alveo e degli argini del Liona e che, in un secondo momento, si sarebbe preso
carico anche delle acque stagnanti da far confluire nel Frassenella" 10 E aggiunge che
“l’iniziativa dei nostri 26 concittadini, al di là che possa essere considerata o meno
6 M. Muraro, Geografia, storia e miti del Basso vicentino fino al Palladio, pag. 13
7 Ibidem
8 Ibidem
9 R. Dal Lago., Guardiani delle acque, Consorzio di bonifica Riviera Berica, Centro Studi Berici, pag. 15
10 Ibidem, pag. 16
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4. I NOBILI BARBARANO A TOARA E A BELVEDERE
Nella prima metà del Cinquecento, la famiglia Barbarano, il cui nome deriva
dall’origine barbaranese del casato, arrivò a possedere più di ottocento campi
in pianura, concentrati fra Toara, Belvedere, Villaga e Colloredo. I conti
Barbarano, dapprima Montano III, poi i figli Giovanni e Carlo, successivamente
i nipoti Giulio e Montano IV, si adoperarono per bonificare vari terreni e si specializzarono nella coltivazione delle vite e dell’ulivo in collina, mentre in pianura diedero spazio alle risaie.
“Dal cospicuo patrimonio agrario – osserva la studiosa prof.ssa Maria Grazia
Bulla Borga – non derivò alcuna egemonia politica (da parte dei Barbarano) sul
territorio, nel quale vi erano altre importanti famiglie, tra cui Dolfin, Priuli e Balbi
11 Ibidem
12 M. Muraro, Geografia, storia e miti del Basso Vicentino, pag. 13
13 Biblioteca Civica Bertoliana, Catastico IV, Acque, Legge 44 n. 1 c. 245
14 R. Dal Lago, Guardiani delle acque, pag. 25
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CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
patrizi veneti; Loschi, Ferramosca, Godi e Pigafetta nobili vicentini; Broia, Mainente
e Caliari agrari senza titoli”. 15
Montano III, vissuto fra la metà del Quattrocento e il 1525, fu particolarmente
legato al castello di Belvedere, dalla cui torre si poteva dominare la pianura circostante e controllare le vaste proprietà della famiglia. Alla sua morte la stirpe dei
Barbarano Mironi si divise in due rami, quello di Colloredo e Toara e quello di
Belvedere. Più tardi, nel 1583, con la divisione dei beni fra Flavio e Druso, figli dello
studioso e scrittore Giulio, anche i beni di Toara e di Colloredo furono separati.
5. IL CASTELLO TRASFORMATO IN PALAZZO
E L’EREZIONE DELLA VILLA A TOARA
Nella seconda metà del Cinquecento, dopo che Montano IV, nel 1552 fu
insignito dal doge col titolo di “Conte di Belvedere”, avvenne la trasformazione
del castello di Belvedere in una residenza signorile, certamente più adatta alle
mutate esigenze dei tempi. Secondo gli studiosi Canova e Mantese16, tale evento si sarebbe verificato intorno al 1570; più che una data (1569) riportata sul
maestoso portale del viale d’ingresso, questa ipotesi trova fondamento sul fatto
che si riconduce proprio in quel periodo la presenza a Toara di Domenico
Groppino, capomastro-architetto di scuola palladiana, chiamato dai Barbarano
per la ricostruzione della cappella gentilizia di Belvedere.
Fu Montano IV, nel 1588, per sua volontà testamentaria, a ordinare che la
ristrutturazione del castello, secondo il modello del Groppino, fosse portata
termine. Pertanto – puntualizza la prof. Bulla - nel 1588 la trasformazione del
Castello in villa non era ancora stata compiuta.17 Poiché Montano, alla sua
morte, aveva lasciato molti debiti, i lavori a Belvedere ripresero qualche decennio dopo, tra il 1610 e il 1620, e si conclusero nell’arco del Seicento. 18 Ancora
oggi si ammirano le mura di recinzione del serraglio pentagonale del Castello:
2920 metri di mura che cingono ben 157 campi vicentini, cioè oltre 60 ettari di
terreno.
L’erezione di questo vasto recinto murato aveva anche lo scopo di sfuggire
all’onere della decima e del quartese, diritti ecclesiastici che gravavano sulle
terre dei contadini e dei grandi proprietari terrieri.
Anche Flavio Barbarano, verso la fine del Cinquecento fece recintare con mura
un esteso vigneto, al termine dello stradone che porta a Toara, e fece erigere lo
stupendo portale che immette nel brolo recintato. 19 Ma soprattutto trasformò
la corte rurale in villa: lo stemma sulla porta bugnata e centinata d’ingresso
riporta incisa la data 1590 e vi si legge: “FLAVIUS BARBARANUS JULII FI”.
Villa Piovene a Toara vista dall’alto.
15 M. G. Bulla Borga, I nobili Barbarano Mironi a Colloredo, Toara e Belvedere nel Cinquecento. Richiami
medievali e spirito rinascimentale, F.lli Corradini editori, 2004, pag. 10
16 A. Canova – G. Mantese, I castelli medievali del Vicentino, Accademia Olimpica, pag. 47
17 M. G. Bulla Borga, op. cit. , pag. 43
18 Ibidem
19 Ibidem, pag. 44
Il Castello di Belvedere con la torre merlata.
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CAPITOLO QUINTO
Foto di Villa Piovene nei primi anni del ‘900.
IL PERIODO VENEZIANO
Antico stemma dei Conti Barbarano incastonato sopra la porta di ingresso di casa Piovene a Cà Larga, forse anteriore
al ‘600, secondo la prof. Bulla.
Nel corso del Seicento venne meno la discendenza maschile nella famiglia di
Toara e si consolidò la dinastia Conti-Barbarano, il cui ultimo discendente,
Giulio, morì nel 1927. Il Castello di Belvedere nel 1836 venne venduto da
Francesco Barbarano e subì poi vari passaggi di proprietà.
6. IL RAPIMENTO DEL FIGLIO DEL CONTE BARBARANO
Verso la fine del ‘500 e nella prima metà del Seicento, la situazione dell’ordine
pubblico era estremamente tesa e caratterizzata da fenomeni criminosi provenienti dalla pericolosa commistione tra faida aristocratica e banditismo rurale.20
I nobili facevano valere oltremisura i loro privilegi ed avevano a disposizione i
“Bravi”e i “banditi”che, spesso impunemente, erano responsabili di violenze e
sopraffazioni. Questi vivevano al soldo dei potenti ed erano una logica espressione di un potere malvagio che voleva prescindere dalla legalità. Tali individui
avevano una specie di divisa, segnalata da un berrettino di velluto in testa,
bavero al collo, giubbone di tela, spada, pugnale, gambe coperte da maglia, la
celata agganciata ad un uncino della cintura; giuravano fedeltà al potente che
li pagava, ma pronti a tradire se altri offrivano di più.
Gli attacchi alle persone isolate che giravano di notte erano cosa naturale e frequentissima: borsaioli e pugnalatori spuntavano improvvisamente operando
20 C. Povolo, L’intrigo dell’onore, Cierre Edizioni, pag. 413
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con destrezza e senza scrupoli; incamminarsi per le campagne di notte significava quindi sfidare il destino.21
Nel Basso Vicentino era diffuso il banditismo nobiliare che aveva connessioni
con i conflitti sorti tra le diverse consorterie per la gestione e il controllo del territorio.22
Già nel 1581 i padri di Sant’Elena di Venezia ricorsero al Collegio di Vicenza per
lamentare le violenze e le sopraffazioni commesse dal nobile Scipione Godi di
Villaga contro il padre Gabriele da Padova, a quel tempo curato della parrocchia di Villaga. I monaci olivetani di Sant’Elena godevano infatti del diritto di
patronato sulla chiesa di Villaga e possedevano alcuni beni di cui il Godi voleva impadronirsi. La supplica, dopo aver narrato il fatto, concludeva: “…non è
lecito nè conveniente che noi procuratori del monastero preditto di questa città dobbiamo comparer a Vicenza, et conoscendo anco chiaramente che se esso delinquente
fosse giudicato in detta città de Vicenza, respetto al parentado et favori che egli ha in
essa, non poteressimo conseguir la debita giustitia…”. 23
Ma un fatto ben più grave accadde l’11 settembre 1609, quando la banda del
conte Zuanne Branzo, che riuniva più di 60-70 persone, rapiva nella sua villa
di Toara il giovane conte Giulio Barbarano, chiedendo poi per la sua liberazione
21 L.Piva, Nella terra dei Dogi – Vita del popolo veneto nei secoli XVI – XVII, Ed Del Noce, 1993, pag. 296-299.
22 C. Povolo, L’intrigo dell’onore, pag. 413
23 Ibidem, pagg. 55 – 56.Vedi anche Arch. Stato Venezia, Collegio, Risposte di fuori, filza 335, 3 settembre 1581
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CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
7. CESARE BARBARANO PRIGIONIERO A BELVEDERE
Portale Bugnato che immette all’interno delle mura del Castello, costruito attorno all’anno 1569.
un ingente riscatto. Il fatto – osserva
lo studioso Povolo – forse mai
avvenuto in precedenza nel
Vicentino, impressionò molto la città
di Vicenza. 24
Ma in seguito arrivò la vendetta dei
Barbarano e delle famiglie loro collegate. I Barbarano, infatti, colpiti nell’onore e desiderosi di vendicarsi dell’offesa subita, diedero la caccia al
Branzo e alla sua banda e lo
inseguirono fin nelle campagne del
Cremonese, in Lombardia, finchè lo
catturarono e lo giustiziarono nel
dicembre 1609. 25
Antico stemma dei Conti Barbarano collocato sopra il
portale di ingresso alla corte del Castello di Belvedere,
datato tra il 1569 e il 1588.
E passiamo ad un altro fatto molto grave accaduto all’interno della famiglia dei
Barbarano di Belvedere.
Da un interessante lavoro storiografico dello studioso Giambattista Zanazzo,
dal titolo “Bravi e signorotti in Vicenza e nel Vicentino nei secoli XVI e XVII 26 , veniamo a conoscere un fatto molto grave e deplorevole, documentato nelle
“Lettere dei Rettori ai Capi del Consiglio dei Dieci”, conservate presso l’Archivio di
Stato di Venezia.
Zanazzo riporta che nell’ottobre 1634 il conte Francesco Barbarano, diciottenne, figlio del conte Giulio Cesare, si presenta al Podestà Andrea Bragadin
per denunciargli che il padre stava rinchiuso da quattro anni “in un’oscura prigione in sua casa, nella villa di Belvedere postovi a viva forza dalli co. Giobatta,
Montan, Camillo et Carlo pur suoi figli maggiori, trattandolo con termini di istraordinaria inumanità con divulgatione che fosse incorso in pazzia, et mi fece istanza di
farlo restituire in libertà…”. Il Podestà lo ascolta attentamente, promettendogli
di occuparsene con la massima diligenza e prudenza. Fa subito delle indagini
ed accerta che la voce della supposta pazzia era stata diffusa esclusivamente
dai figli. Il conte Francesco, dopo pochi giorni, ritorna ad insistere calorosamente ed il Podestà, commosso ed anche convinto che vi fosse sotto qualche
cosa di losco, manda a Belvedere di Villaga un pubblico ministero con l’ordine
espresso di liberare il padre, che “fu trovato fuori della prigione che s’era stata
apperta in quei giorni dalli figliuoli, essendo pervenute alle orecchie loro le istanze del
fratello minore presso la giustizia”.
Il conte Giulio Cesare prega il ministro, che gli aveva mostrato il decreto di liberazione, di riferire al Podestà il suo estremo stato di debolezza che, per il
momento, gli impediva di recarsi da lui, ma lo assicurasse che l’avrebbe fatto
quanto prima. Siccome i figli, com’è facile comprendere, cercavano di ostacolare al padre, con futili pretesti, il ritorno in città, il Podestà – su richiesta anche
del conte Francesco – vi spedì un altro ministro con una carrozza che condusse
il conte Giulio Cesare a Vicenza nel convento di S. Biasio dei Minori
Osservanti, “nel qual loco per ancora dimora”. Recatosi il conte Giulio, parecchie
volte, a conferire con il Podestà “in tempo di notte per non essere veduto nelle miserie che gli prova venir a parlarmi”, ebbe modo non solo di narrargli le iniquità
commesse dai figli snaturati, ma anche di fargli conoscere “in tutti li ragionamenti con gran costanza d’esser di mente sano”.
Mortagli la moglie nell’anno 1628, rimasto “coll’aggravio di molti figli, fu assalito da infermità, che lo trattenne in letto per il corso d’otto mesi”. Mentre stava per
lasciare la città – racconta Zanazzo - per trascorrere la convalescenza nella villa
di Belvedere, fu assalito in casa da due persone armate, “di casa del conte
Giacomo Bissaro suo genero”, e privato di tutto il denaro che teneva.
24 C. Povolo, Processo contro Paolo Orgiano, in Studi Storici, rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, 1988,
aprile-giugno, pag. 358-359
25 C. Povolo, L’intrigo dell’onore, pag. 414-415
26 G.B. Zanazzo, Bravi e signorotti in Vicenza e nel Vicentino nei secoli XVI e XVII, in Odeo Olimpico, VIII
(1969-1970), pagg. 200 - 202
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CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
In seguito il conte Giobatta ed altri fratelli gli “esportarono dalla villa biave
diverse, et molti mobili di valore. Ricuperata la pristina salute, un giorno, accompagnato da un servitore e da un soldato (cioè da un bravo), si portò a Padova, ove manteneva i figli agli studi con ogni comodità “di vivere, di casa, di servitio et di
Precettore”. Ma fu accolto “con termine irriverente” e se ne partì disgustato.
Scoppiata la peste in Padova, i figli si rifugiarono nella villa paterna, ma l’offeso genitore non volle ospitarli e li mandò “a ricoverarsi nelle stanze del custode”.
Questi allora – con esclusione del minore conte Francesco - con la complicità
e con la partecipazione del conte Giulio Barbarano, “loro parente, nemico del
padre” e del dott. Giobatta Barbarano, pur “avversario per occasione di litte”,
adunato uno stuolo di gente, s’introdussero notte tempo nella dimora del
padre, lo afferrarono violentemente, s’appropriarono di tutto il denaro, lo
rinchiusero in una camera per due giorni con continue guardie, “nel qual tempo
fecero otturare due finestre in una camera a volto nella colombara lasciandovi un solo
foro picolo in altezza tale, che non vi si poteva arivare, et in esso loco lo posero serrato con porta rinforzata di doppie tole, e di due cadenazzi, ove è stato per il corso di
quattro anni e giorni 14, havendo continuamente divulgato li suoi figliuoli maggiori,
che era divenuto pazzo”.
Nè le figliuole, nè altri, cui si era rivolto per essere liberato “per via della giustizia”, vollero interessarsi in suo favore, “in riguardo dei figli”. Nella lunga prigionia di oltre quattro anni non gli somministrarono “se non debolissimamente il
vivere, dandogli pane e vino pessimo: il pane era appena buono per cibo de cani”.
Fu colpito a più riprese da malattie e i figli, benché insistentemente pregati, “gli
hanno negato la confessione e la Comunione”. Hanno persino tentato di mandarlo al Creatore, conniventi altre persone, con pollo avvelenato. La sua forte fibra
lo salvò dalla morte, ma gli caddero tutti i capelli del capo e i peli della barba e
del corpo. A questo povero vecchio di 58 anni, tutto “coperto di broze, col crucio
d’altri sponzelli”, non vennero mai “somministrati drappi, né camise da murarsi”.
“E’ uscito – scrive sempre il Podestà – di quelle miserie in abito mendico, che muove
ogn’uno a compassione…”.
Poco dopo la sua carcerazione, la serva di casa, Margherita Bolza, chiese d’esser “soddisfatta di suoi salari”. Ma i figli, con l’aiuto d’altri sicari, le tagliarono i
capelli e “levatile in capo le vesti ardirono percuoterla con una padella nelle parti
posteriori, maltrattandola ancora con altri detestandi modi, et poi la cacciarono di
casa senza alcun pagamento. Tutti questi diabolici trattamenti del padre – continua
il Podestà – e della predetta Margherita vengono raffermati dal conte Francesco e
dalla medesima donna, soggiungendo il conte Francesco che, prima per la sua tenera
età, non ha potuto ardire di venire alla giustizia, ma haverne fatta istanza a diverse
persone e specialmente alli Degan della Villa, nè alcuno à voluto adoperarsi per timore di essi suoi fratelli…”.
I Rettori di Vicenza (che erano due nobili veneti, un Podestà e un Capitano che,
alla fine del loro mandato presentavano al Doge e al Senato, una sintetica
relazione del loro operato e dei fatti più significativi dei quali erano stati testimoni) il 31 dicembre 1634 inviano ai Capi del Consiglio dei Dieci la relazione
di questi crimini inauditi e vi allegano anche l’esposto del conte Giulio Cesare
in cui, tra l’altro, scrive che l’8 ottobre 1630, in Belvedere, fu circondato “da una
numerosa setta di crudelissimi sicari tutti armati” che rabbiosamente lo bastonarono, lo rinchiusero “in una fortissima torre esistente nel casamento, ove con
barbara tirannide mi hanno tenuto continuamente sin al 28 ottobre dell’anno presente. Quanti siano stati i patimenti che ho sofferto in questo tempo, di privazione di
luce, di fame, di sete, di freddo, di caldo, e di mill’altre maniere d’infernali tormenti,
non lo so esprimere…”.
Accenna anche alla dilapidazione delle sue sostanze fatta dai figli e supplica i
Capi che, date le minacce di questi snaturati e dei loro complici, il processo
venga istituito e celebrato dai Rettori con la Corte Pretoria. I Capi, non solo
accolgono la preghiera del conte, ma anche decidono di mandare a Vicenza,
per una rigorosa inchiesta, un Avogadore.27
68
8. L’ECONOMIA
Nel Cinquecento, dopo la guerra di Cambrai, iniziò un lungo periodo di pace
e di buon governo da parte della Repubblica Veneta. Anche l’economia ne
trasse benefici, tanto è vero che si intensificarono i commerci e di conseguenza la circolazione della moneta cominciò ad avere un ruolo sempre più importante anche per i territori di campagna ove era ancora presente il baratto.
La moneta utilizzata in quel periodo era il Ducato che equivaleva a troni o Lire
Venete 6 e 4 soldi o marchetti.
Fiorirono l’artigianato e le arti con apposite fraglie e relativi statuti: sorsero industrie seriche a Barbarano e a Lonigo, vennero riattivati i mulini ad acqua sia per il
frumento che per il riso (a Mossano ve ne erano 12, a Barbarano 15, di cui due per
il riso; a Calto di Pozzolo una decina, poi a Pederiva di Grancona, ad Alonte, a
Fimon, a Brendola), si diffuse l’estrazione della pietra da taglio a Nanto e a
Costozza, così come le attività estrattive di ferro, ligniti e torba in Val Liona.28
L’agricoltura, nel Cinquecento, continuava comunque ad essere il cardine dell’economia vicentina. Le colture di gran lunga prevalenti erano quelle ceralicole: il frumento, innanzitutto, poi il miglio, il panico, l’orzo e il sorgo.
Quest’ultimo non era il granoturco, che doveva ancora giungere in Europa, ma
la saggina, un tempo molto coltivata in tutto il Vicentino: dai semi si ricavava
un farina che i più poveri usavano per fare la polenta, mentre con le
infiorescenze si costruivano scope.29
27 G. B. Zanazzo, op. cit. pagg. 200 - 202
28 AA.VV. Studio per una proposta di vincolo paesaggistico sui Colli Berici, a cura di Italia Nostra, Tip. Rumor,
Vicenza, 1975, pag. 30
29 AA.VV. I lavori dei contadini, Banca Popolare di Vicenza, pag. 45
69
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
Anche il riso conosceva un nuovo sviluppo, dovuto anche alla presenza di terre
paludose e di abbondanza di acqua. A partire infatti dalla seconda metà del
1500 varie zone del Basso Vicentino furono adibite a risicoltura: a Barbarano,
Toara, Sossano, Campiglia dei Berici, Grancona, Lonigo, Alonte, Orgiano.
Molte aziende nobiliari, invogliate dai forti rialzi che subì il prodotto verso la
fine di quel secolo, decisero di compiere ingenti investimenti per avviare nei
propri possedimenti la coltivazione del riso. Delle 35 risaie esistenti nel Basso
Vicentino, nel periodo 1594-95, osserva Girardi, ben 9 risultavano intestate al
patriziato veneziano. 30
Nel territorio tra Barbarano e Villaga vi era un’ampia risaia a sud del Castellaro,
di proprietà di Cesare Nievo, comprendente anche una porzione del territorio
di Villaga, che veniva rifornita d’acqua da una sorgente posta ai piedi della collina, e dal Bagno di Barbarano. Anche a Toara vi erano parecchi campi coltivati
a riso dalla nobile famiglia Barbarano, e si trovavano tra lo stradone, via Salgan
e le mura del castello di Belvedere. Un’altra zona coltivata a riso era in località
Alture, solcata da vari corsi d’acqua. Nel 1572, infatti, Antonio Manente aveva
inoltrato al magistrato ai Beni Inculti di Venezia una supplica per ottenere l’acqua del Siron, del Tro, della Fontana Calda di Villaga (il Bagno) e della Seonega
allo scopo di trasformare parecchi suoi campi in risaia. 31
Nel ‘500 vennero poi potenziate le coltivazioni della vite: già in quel tempo
erano decantati i vini dei Berici. Andrea Scoto, in particolare, nel suo “Itinerario
d’Italia”, esaltava i vini di Barbarano, Costozza e Lonigo; visitando il territorio
a sud di Vicenza annotava: “… per la strada della Riviera, tra il fiume e i monti,
vedrai Barbarano vicariato, le cui colline, incurvandosi e ricevendo il sole, dal fitto
meriggio ti daranno vini che ne beverebbe l’Imperatore…”. 32 Anche le colline di
Toara hanno una tradizione plurisecolare nella produzione di ottimi vini,
soprattutto per l’impegno dei Barbarano, fino a giungere ai Piovene Porto
Godi.
risalenti al 1554, un po’ alla volta si diffuse anche nella provincia di
Vicenza. 34 Il granoturco, poiché appariva ai contadini simile alle piante della
saggina, venne anch’esso definito sorgo ma con l’aggiunta dell’aggettivo turco,
che serviva da un lato a distinguere la nuova pianta venuta dall’America dalla
vecchia saggina e dall’altro anche a sottolinearne la provenienza da un paese
straniero (dato che la parola “turco” nel Cinquecento aveva il significato di
“straniero”). 35 Poi, nel Settecento, con la progressiva scomparsa della coltura
della saggina, sostituita dal mais, questo perde col tempo l’appellativo turco e
viene designato semplicemente come sorgo.36
Il mais rappresentò una profonda trasformazione nel sistema e nel paesaggio
agrario: dai vecchi metodi agricoli basati sulla tradizionale alternanza biennale
(maggese-frumento), o triennale (maggese-frumento-coltura minore) si passò
gradualmente a un sistema a rotazione continua mais-frumento, nel quale il
primo veniva a svolgere la funzione di pianta di rinnovo; il cambiamento del
paesaggio agricolo, prodotto da tale avvicendamento, finiva così per cancellare
definitivamente il maggese. 37
Immesso nel ciclo delle rotazioni e coltivato dapprima nei poderi di grandi
dimensioni, per essere commercializzato, ma presto seminato anche in appezzamenti meno estesi, il granoturco diveniva nel Sei-Settecento il cereale più
familiare ai contadini della repubblica veneta. 38 Il suo larghissimo consumo
portò a una vera e propria “rivoluzione alimentare”, a un’alterazione profonda
nel modo di alimentarsi della popolazione rurale, sino a divenire nell’800 l’unico e quasi esclusivo nutrimento per tante famiglie povere.
10. DALL’ABBONDANZA ALLA CARESTIA
Verso la fine del ‘500 comincia a diffondersi anche la nuova coltivazione
del mais. La Repubblica Veneta, esperta in commerci, per prima, ne aveva
intuito l’importanza: “il mais – scrive Messedaglia – dovette bene
apparire…come un promettente cereale, per il consumo locale e interno, a
Venezia e nelle non eccessivamente ricche province di terraferma, possedute
dalla Serenissima, nelle quali, non di rado, imperversavano le carestie”. 33
Il mais, dopo le prime coltivazioni nel Polesine e nel Basso Veronese,
Nei primi decenni del Seicento il quieto vivere delle popolazioni del Basso
Vicentino, e più in generale del Veneto, venne meno poiché iniziò una lunga
serie di anni difficili, caratterizzati da carestie e culminati con la terribile epidemia di peste.
Dagli inizi del secolo e fino al 1630, anno in cui infierì spietatamente la peste,
si susseguirono alternativamente anni contrassegnati da lunghe e forti
piovosità, con conseguenti allagamenti e distruzione delle messi, ad anni caratterizzati da desolanti siccità con raccolti quasi nulli o del tutto insufficienti. 39
Ma il peggio doveva ancora venire. Tra il 1628 e il 1629 una tremenda carestia
aveva ridotto allo stremo la popolazione, le devastazioni e le ruberie dei vari
eserciti francesci, spagnoli e imperiali, che percorrevano le nostre contrade
impegnati in un’inutile guerra; ed infine l’epidemia di peste, negli anni ’30 e
30 A. Girardi, L’evoluzione del paesaggio, in Barbarano Vicentino, vol. 1°, pag. 94
31 Ibidem, pag. 96
32 A. Costacurta – S. Cancellier, I vitigni dei Berici, Camera di Commercio di Vicenza, 1999, pagg. 10-11
33 L. Messedaglia, Notizie storiche sul mais, In Quaderno Mensile – Istituto Federale di Credito,Venezia, 1924,
pag. 75
34 AA.VV. I lavori dei contadini, pag. 161
35 Ibidem, pagg. 78 - 79
36 Ibidem, pag. 79
37 A. Girardi, L’evoluzione del paesaggio, pag. 92
38 M. Bellabarba – G. Mometto, Dalla Convicinia al Comune. Bolzano Vicentino nei secoli XV – XIX, pag. 72
39 A. Biasin, Asigliano nella storia, Giovani Editori, pag. 65
9. L’AVVENTO DEL MAIS
70
71
CAPITOLO QUINTO
’31 compirono l’immane tragedia. 40
Le province più devastate dal contagio furono quelle di Verona, Vicenza e
Padova. Anche nel nostro Comune i morti furono molti, in seguito alla tremenda epidemia. Il registro dei morti di quell’epoca non riporta le cause della
morte, tuttavia il numero dei decessi fu decisamente più elevato rispetto agli
anni precedenti. Sappiamo dallo storico Pasqualigo che a Pojana Maggiore i
morti furono 689, quasi due terzi della popolazione allora esistente; a Vicenza
morirono oltre 15mila persone, mille a Lonigo, 574 a Noventa, quasi duemila
a Cologna veneta, 1402 a Montagnana, oltre 20mila a Padova. 41
Il podestà Andrea Bragadin, nella relazione del 1635, usava parole fosche per
descrivere la desolata situazione di un territorio la cui popolazione era stata
decimata: “…per la perdita di essa gente le campagne restano in gran parte incolte,
oltrechè li lavoratori e gli affittuali, che sono in ristretto numero, afflitti dalla
povertà non possono sostenere nella dovuta maniera il peso della coltivazione, la
quale nei tempi correnti è dispendiosissima, eccedendo l’aggravio delle spese la
summa delle entrate, onde li padroni interessati con grosse sovventioni date a lavoratori convengono sofferire il colpo di perdite rilevanti et annihilandosi gl’affittuali
per le ragioni narrate pochi si vogliono sottoponere ad affittanze, se non con il callo
del terzo o più, dimodochè li padroni, gl’affittuali et li lavoratori sono costituiti
quasi tutti in miseria”. 42
IL PERIODO VENEZIANO
Il pastore Pietro Lunardi con un bambino che tiene in braccio un agnello, sulla strada per l’altopiano di Asiago.
11. I PASTORI
Un’attività economica che nel Seicento aveva una sua rilevanza nel nostro territorio era la pastorizia. Da una nota delle pecore che si trovavano nel Comune
di Villaga nell’anno 164443 riscontriamo la presenza di ben dieci pastori che in
totale possedevano 1042 pecore:
- Mattio Violin
- Alessandro Borinato
- Marco di Ghirardi
- Marco di Ghirardi importa
da C. Montan e da fratelli Barbarani
- Batta dalle Poche
- Lazaro Pertene
- Zamaria Asta
- Antonio Gianesin
- Batta di Ghirardi
- Pietro Pagiaro
- Menego Gianesin
pecore quaranta
pecore cento
pecore centotredici
pecore centocinquanta
pecore novantaquattro
pecore centoventi
pecore novantasette
pecore novanta
pecore cinquantatre
pecore ottantasei
pecore novantanove
40 A. Biasin, Asigliano nella storia, pagg. 67 - 68
41 Ibidem, pagg. 70 - 71
42 M. Bellabarba – G. Mometto, Dalla Convicinia al Comune, pag. 38; inoltre da Relazioni dei Rettori veneti in
terraferma, VII, Milano, Giuffrè 1976, pag. 359
72
Scena di vita pastorale con in primo piano il pastore Pietro Lunardi.
73
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
Dai registri della parrocchia di Villaga veniamo a conoscere il nome e la provenienza di altri pastori che si stabilirono a Villaga nella seconda metà del
Seicento e nel Settecento: Lunardi (Foza), Sambugaro (Gallio), Cherubino
(Gallio), Rossi (Asiago), Tomaso dalla Mezza Valle, Sartori (Gallio), Baù
(Gallio), Marinelo (Enego), Dei Grandi (Foza), Dei Ceschi (Foza).
Dell’Ottocento ricordiamo Pagliaro Pietro e Munari Domenico, entrambi originari di Gallio.
Un tempo erano in tanti a praticare questo mestiere. A maggio partivano col
loro gregge diretti verso l’Altopiano di Asiago, attraversando i Colli Berici e
quindi nell’Alto Vicentino. Poi, verso la fine di settembre, facevano ritorno in
pianura. Questo migrare dei pastori con il loro bestiame costituiva la pratica
della transumanza. Ma c’era anche il fenomeno inverso, dei pastori
dell’Altopiano dei Sette Comuni che in inverno portavano in pianura a pascolare le loro pecore montane. E qui si innesca il difficile rapporto con l’agricoltura di pianura. Il passaggio e lo stazionamento degli ovini rappresentava di
frequente un fatto capace di sconvolgere gli equilibri economici, spesso già
precari, dei territori di pianura – osserva il prof. Wanter Panciera. L’area bassovicentina fu tra l’altro attraversata, tra il XVI e il XVII secolo, da importanti
mutamenti nello sfruttamento del suolo e nella struttura della proprietà. Il
restringersi dell’incolto, l’usurpazione da parte dei privati dei beni di proprietà
comunale, la massiccia estensione dell’arativo, la diffusione della grande proprietà, specialmente nobiliare, contribuirono a rendere sempre meno tollerata
la presenza delle pecore.44
Il trasferimento delle pecore dalla montagna alla pianura e viceversa costituiva
un potenziale pericolo per la lentezza del passaggio, connessa all’ovvia necessità di nutrire gli armenti. Non esistendo alcuna regolamentazione specifica
sullo spostamento, nè dei percorsi ufficialmente adibiti allo scopo, il controllo
doveva risultare molto difficile, e neppure le recinzioni riuscivano ad evitare gli
sconfinamenti delle pecore.45 L’irruzione nei campi seminati o nelle piante giovani, il calpestio sui campi appena arati, i danneggiamenti agli argini di fiumi,
fossi e canali o alle siepi erano certamente eventi abbastanza frequenti.46
La prima metà dell’Ottocento, con la crisi delle manifatture laniere, segnò il
declino dell’allevamento ovino nel Veneto. Ciò non significò l’abbandono della
pratica della transumanza, che ebbe modo di prosperare almeno fino allo scoppio della prima guerra mondiale, quando gli eventi bellici sconvolsero l’altopiano.47 Con la Grande Guerra, molte famiglie montane dovettero abbandonare le loro abitazioni e i loro pascoli per cercare rifugio in pianura, iniziando così a diffondere forme di allevamento a carattere maggiormente stanziale.
Poi, lentamente, ma inesorabilmente, questa antica attività si trovò infine a
scontrarsi con la modernizzazione delle strutture economiche, soprattutto nel
secondo dopoguerra. L’industrializzazione in pianura, lo sviluppo della rete dei
trasporti, la nascita dell’economia del turismo e un sempre maggior consumo
di carne bovina, ha reso sempre più problematica la sopravvivenza stessa della
pastorizia, almeno nell’Italia Settentrionale.48 Quella dei pochissimi pastori che
sono rimasti oggi è un’altra civiltà, che cammina ancora con le gambe degli
uomini, non delle macchine, ma per questo destinata, purtoppo, a scomparire.
43 Arch. Stato Vicenza, Estimo, b. 1384, 27 v
44 W. Panciera, I pastori dell’Altopiano: transumanza e pensionatico, in Storia dell’Altopiano dei Sette Comuni,
Neri Pozza Editore, pag. 421
45 Ibidem, pag. 439
46 Ibidem, pag. 440
47 Ibidem, pagg. 444-445
74
12. GLI ESTIMI
Uno dei compiti più impegnativi e delicati che spettavano ai Comuni, nei secoli scorsi, era quello dell’estimo, cioè della stima dei beni in possesso dei singoli cittadini, allo scopo di applicare le tasse relative. Negli estimi generali del
1544-1564 e del 1665 vengono riportate notizie limitate ai beni dei Territoriali
e dei Nobili Veneti del posto, in quanto essi soltanto, a quel tempo, erano considerati soggetti fiscali. In genere, quindi, erano le proprietà fondiarie (agricole)
che venivano tassate, mentre le abitazioni quasi non rivestivano un reddito,
essendo ritenute parte integrante della conduzione dei campi.
Il registro più antico, dal quale si possono ricavare preziose informazioni sul
territorio di Villaga, è il “Balanzon dell’estimo di Barbarano e delle sue ville”,
risalente al 1544 e consultabile presso l’Archivio di Stato di Vicenza.
Dalla lettura (non semplice) delle pagine di questo documento, vediamo che la
maggior parte delle terre apparteneva a poche famiglie, e specialmente ai conti
Barbarano a Toara e Belvedere, ai nobili Godi, Loschi, Molini e Nievo a Villaga;
una parte non disprezzabile apparteneva poi alle congregazioni religiose quali
le monache benedettine di S. Caterina e quelle di Ognissanti di Vicenza, o alla
Commenda di San Silvestro, dei Cavalieri di Malta.
I beni dei conti Barbarano a Toara
A Toara, il conte Carlo Barbarano, nel 1544 possedeva, oltre alla casa dominicale (che sarà poi trasformata in villa verso la fine del ‘500), sei case e centinaia di campi.
Riportiamo il testo del catasto con la descrizione dei beni:49 “una casa
dominicale con colombara, due teze de copo de cassi 19, con corte, orto, brolo de
circa 20 campi, quasi tutti in monte, piantà de vide e arbori e frutari in
Tovara;…item (poi) una caseta con teza de cassi 5 in Tovara con poco di terra
piantà con 5 morari; item un’altra casa de copo da lavoratori, con muraglia, ara
e mezo campo, in Tovara apresso la giesa (chiesa); item un’altra caseta de copo
48 Ibidem, pag. 448
49 Arch. Stato Vicenza, Estimo Balanzon del Vicariato di Barbarano, b. 16, ff. 66r e v, 67r e v
75
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
con orticello apresso la giesa; item una casa cupata con teza de cassi 4 con ara, orto e con
un’altra caseta de copo in dette pertinenze; item una casa con teza de cassi 2 de copo, ara,
orto e brolo piantà de morari in contrà della Fontanella; item una casa de copo con teza de
cassi 4 con altra caseta de copo sul monte in contrà Casa Larga (Cà Larga), con ara, orto
e brolo”.
I Barbarano avevano terreni in varie contrade: del Cengio, della Croce, Casare,
Salgan, Tribolo, Paltana, Casamenti, Piscina, Pianca, Quagli, Fontana, Fornasigle,
Palusello,Vignola, Cà Rossa, Campagnola, Savonega, della Costa, del Bosco; inoltre
disponevano di“50 campi a Roncasso, vicino al Ponte delle Botti, in pertinenze di Vilaga,
e campi 25 paludosi in deto loco con casa de pagia”.
Vent’anni dopo, nel 1564, Alessandro, figlio di Carlo, dichiarò il possesso di una
casa con sala grande, murà e cupà, con guarda camera, con canipa (cantina), con la
scala di pietra rivolta verso il cortile (parti tuttora presenti nella villa dei Piovene).50
I beni del Comune di Villaga
I beni dei conti Barbarano a Belvedere e a Villaga
Anche il Comune di Villaga disponeva di alcuni beni:54 “campi cinque e mezo prà
paludivi in contrada Fogomorto del valore di ducati 27 e mezzo; campi cinque de prà
in contrada del Fasan; campi dieci di bosco a Pozolo di Vilaga in contrà di Calto; una
camara con camin senza solaro, murà, cupà, messa in Viraga nella contrà delle
Piazza”.
I piccoli proprietari
Pochi erano i piccoli proprietari che possedevano modesti appezzamenti. Fra
questi troviamo Battista Brusolaro da Villaga che dichiarava al catasto“una caseta da copo, un casoto de pagia e un pezo di terra in monte sopra Vilaga piantà de vide
e arbori”.55 Poi una nota del 1564 ci segnala la costruzione da parte del
Brusolaro di “una camara murà, cupà senza solaro, atacata alla casa vecchia, con
una sezonta da copo, posta nella contrà della giesa” (chiesa).56
I fratelli Dominigo e Mathio (Domenico e Matteo) in Villaga possedevano “una
casa da copo con teza da pagia e casi quatro, ara e orto in contrà Noseo; campi quattro di terra in monte piantà de vide e arbori con morari 15; mezo quartiero di terra
zapata con 23 piedi di ulivi (23 piante); campi tre e mezo boschivi e vegri in sul
monte de Vilaga”.57
Gli eredi di Giovanni Barbarano, figlio di Montano III, dichiararono di essere in
possesso di svariati beni, che la prof. Maria Grazia Bulla Borga ha così sintetizzato: “quarantacinque beni immobili situati al Roncasso, in territorio sia di Villaga che di
Sossano; altri trenta beni immobili in Villaga, località Fogomorto; il Castello di Belvedere
con il Serraglio, altre sette case e appezzamenti vari sempre a Belvedere e una casa con
oltre cento campi in Sajanega”.51
Ma vediamo di conoscere meglio questi beni descritti nell’estimo:52 “…una casa
dominicale con colombara e teza con corte e orto, con campi 110 intorno, tra arativi e brolo
e orti, campi bassi mezo paludivi, parte piantà de vide e arbori e parte no, in Belvedere,
chiamata el castello”.
Una casa di copo con teza, cassi sei, ara, orto, in contrada S.Tibaldo con campi 130;
una caseta da copo con ara in contrà della Crose; un’altra caseta da copo in contrà
della Piazza a Belvedere; un’altra casa con teza, cassi cinque da copo, per lavoratori con ara, orto anch’essa in contrà della Piazza a Belvedere; un’altra casetta con
una teza di cassi due e mezzo ancora in contrà Piazza; un’altra caseta con mureta
con orto, presso la chiesa; poi due case con cassi nove con due teze da copo, una
vicina all’altra, con ara, orto e brolo in contrada Crocifisso, si affitta per ducati dieci,
ha valore di ducati dosento (200); alle soprascritte case vi sono campi 29.
Nel catasto sono poi annotati miglioramenti apportati nell’anno 1564 al Castello e
in “una sua casa con colombara, murà e solarà, e ad un’altra casa contigua alla detta
colombara di cassi due di teza murà, cupà e canipa (cantina), con colombara in Belvedere
presso la strada al Capitello” (presumibilmente l’attuale casa Castagna).53
1. Conte Licurgo Losco
2. Angela Montagnana Regaù
3. Paulo Mattiello
4. Conte Guido Bissari
5. Conti Gabriel e frat. Porti
6. Conte Giulio Barbaran
7. Conte Alessandro Trenti
8. Conte Francesco Garzadore
9. Vincenzo e Emilio Arnaldi
50 Ibidem, b. 16, f. 67v
51 M. G. Bulla Borga, I nobili Barbarano Mironi, pag. 40
52 Arch. Stato Vicenza, Estimo b. 16, ff. 73-74
53 Ibidem
54 Arch. Stato Vicenza, Estimo, b. 16, 513r/183
55 Arch. Stato Vicenza, Estimo, b. 16, f. 500/170
56 Ibidem
57 Ibidem
58 Arch. Stato Vicenza, Estimo b. 329, f. 876 e seguenti
76
L’Estimo dell’anno 1665
Nel successivo registro dell’estimo del 1665 vediamo definirsi meglio le proprietà.
Riportiamo l’Estimo con i proprietari e le relative polizze che indicavano le valutazioni dei terreni.58
577.17 Ducati
61.10
14. 3.4
45.6
58.5.1
5.237.10.1
88.16
349.15.5
419.5.7
77
CAPITOLO QUINTO
10. Conte Lodovico Barbaran
11. Attilio Capasanta
12. Conte Barbaran Barbarani
13. Conte Giacomo Velo
14. Conte Orazio e fratelli Godi
15. Pio Ospital di S. Marcello
16. Rev. Monastero d’Ogni Santi
17. Zuanne e fratelli Pellizzari
18. Pietro Redetti
19. Paolo e frat. Librati
20. Franco Bonicello
21. Gio. Maria di Zanini
22. Agostin Frescurato
23. Alvise Losco
24. Franco Bertuzzo
25. Vicenzo Pizzo
26. Pietro Godi
27. Maddalena e Luca Donzello
28. Marin Dei Marchi
29. Mattio Di Signori
30. Lazaro Bertuzzo
31. Gio. Domenico Frescurato
32. Giacomo Carampin
33. Gio. Andrea Cavazzola
34. Girardo Rosa
35. Ghirardo Frescurato
36. Gio Batta Trevisan
37. Gasparin Giacomello
38. Girardo Zanini
39. Girardo Mistrorigo
40. Lodovico Vanetto
41. Cristoforo Brunello
42. Bernardo Fanin
43. Bortolo Cappa
44. Gio Maria Scarenzin
45. Andrea Di Bianchi
46. Gasparo Limonato
47. Franco Fiorini
48. Conte Camillo Barbaran
49. Alfonso Godi
50. Isabella Danieli
51. Pellegrin Fattore
IL PERIODO VENEZIANO
1137.16
171.12
188.14.5
104.2
2003.7.7
136.13
462.10.2
162.9.10
1502.2.5
11.17.6
53.2
341.0.2
5.17
123.8.1
15.6
69.6.3
711.2.2
29.16.3
4.5
34
7.15.3
63.15.10
469.15.9
224.10.108
17.8.12
10.7.32
33.13.6
56.8.5
26.19.5
111.15.35
62.18.8
33.13.26
55.2.11
20.15
22.12.5
58.6.6
17.17.2
81.2
600.3.5
262.11
169.8
6.1.2
52. Batta Ronzan
53. N.H. Montan e frat. Barbaran
54. Bortolo Frescurato
55. N.H. Niccolò Marcello e Niccolò Magno
56. N.H. Cesare Ferramosca
57. N.H. Ferigo Dolfin
58. N.H. Andrea Soranzo
59. N.H. Pietro Molin
60. Conte Giobatta Barbaran
61. Monastero di Santa Caterina
62. Chiesa parrocchiale di Villaga
63. Vicenzo Taverna
64. Chiesa Beni Commenda di Villaga
61.7.8
3367.14
20.9.4
703.10
2293.17.8
2079.18
165.02
1772.15
2612.15.5
507.17
297.5.5
3
546.6.6
Dal riscontro dei dati, osserviamo che la maggior parte del territorio di Villaga
apparteneva a una decina di famiglie: al conte Giulio Barbarano (maggior possidente), ai nobili Montano e fratelli Barbarano, a Giobatta Barbarano, al conte
Orazio e fratelli Godi, al conte Lodovico Barbarano, a Pietro Redetti, ai nobili
Cesare Ferramosca, Ferigo Dolfin, Pietro Molin.
L’Estimo comunale del 1703
Prima di passare ad analizzare l’estimo comunale del 1703, vediamo di definire
le caratteristiche delle abitazioni dei nostri paesi. Con l’estimo del 1703 anche
le case, come i campi, vengono considerate fonte di reddito e pertanto vengono
tassate. Al computo del reddito e della relativa tassazione erano chiamati gli
“estimatori”del comune che rilevavano sul posto gli elementi utili alla classificazione degli edifici. Innanzitutto l’architettura del fabbricato: se murata (in
muratura), cupata (col tetto in coppi), solarata (con il solaio in legno); il
numero delle camere, il tetto (se di paglia o in cotto); gli annessi rustici, se
c’erano: la caneva, la stalla, la teza (il fienile) col numero di cassi (era il nome
che si dava ad una delle parti in cui era suddiviso il fienile, generalmente tra
pilastro e pilastro), il portico, il pollaio, il porcile, la “sezonta” (dal dialetto sezonta=aggiunta, in genere una tettoia), i casoni di paglia con il serraglio. Poi si
verificava se vi erano: il “cortivo”(il cortile), l’ara (l’aia), la “muragia”(il muro di
cinta), il forno, che quasi ogni famiglia possedeva; infine l’aspetto agrario:
l’orto e gli “arbori” (alberi) attorno casa, e in particolare i morari (gelsi) annotati per numero, poiché producevano reddito.59
Il valore medio di questo tipo di abitazioni, con un po’ d’orto, era di 36-40
ducati, che aumentava a 50-60 se la casa aveva anche il fienile e l’aia. Per case
59 R. Franchetto, C. Bressan, Villa del Ferro dentro la Val Liona, Giovani Editori, 2001, pag. 137
78
79
Fattoria Montesello a Belvedere.
Casa Mazzucco a Quargente.
Casa Cichellero (un tempo Cà Vaienta) a Belvedere.
Casa Gianesini a Quargente. Il portico è datato 1704.
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81
CAPITOLO QUINTO
di queste caratteristiche, date in affitto, si pagavano dai 6 ai 12 troni, a cui andava sempre aggiunta un’onoranza consistente in un paio di galline o di pollastri. Se proprietari erano chiese o conventi, l’affitto o il livello veniva corrisposto, a volte, in natura, cioè in staia di miglio e di sorgo o di frumento.60
Catalogazione a parte meritava il casone 61, tipica costruzione veneta frequente
nelle nostre campagne fino a pochi decenni fa, composto di solito da un’unica
stanza, costruita “con mattoni legati a calce o con terreno cretoso, un tetto di paglia
e di canne lacustri, appuntito e sostenuto con un intreccio di pertiche; un pavimento
in terra nuda, con qualche pietra per battervi la legna da rompere con la mannaia”.62
“Pur essendo poverissime – osserva lo studioso di storia veneta Ivone
Cacciavillani – erano pur sempre “costruzioni” e come tali erano regolarmente censite
negli estimi agrari, accanto alla “casa” e alla “teza”; ma per le case si devono intendere (negli estimi veneti) i tuguri …perché quelle che noi oggi definiamo “case” erano
negli estimi censite come “casa granda de muro”.63
Per quanto riguarda il valore di stima dei casoni, esso si aggirava mediamente
sui 14 ducati, mentre l’affitto era fissato sui tre ducati.64 Essi erano abitati presumibilmente dalla manodopera bracciantile, certamente molto più povera
della famiglia contadina che risiedeva nelle case da lavoratori.
Ben più consistenti infatti erano le abitazioni dei coloni, cioè le “case da lavorador”, come vengono chiamate negli estimi. Di proprietà di famiglie nobili,
erano sempre in muratura, con solaio e tetto in coppi. A volte avevano la cantina e il portico, mentre il forno era sempre presente. Incorporata poteva esserci la sezonta, anch’essa in muratura. Staccate vi erano le tezze da più cassi, tutt’attorno la corte, l’aia, l’orto, il brolo, dove predominavano i gelsi. La stima di
queste abitazioni variava dai 90 ai 150 ducati.65
IL PERIODO VENEZIANO
Antico forno di Casa Panarotto.
L’8 dicembre 1700 si riunisce la General vicinia nella casa comunale di Villaga
per la revisione dell’estimo del 1660, non più rinnovato “causa molti reclami de
particolari soggetti al medesimo estimo, e così molti riconosciuti meritevoli di applicazione”.66
Per far ciò vengono scelti due notai: Zuanne Franceschini e Gio. Antonio
Carampino. Poi si passa all’elezione di tre estimatori, uno per il colonnato di
Villaga, uno per Toara e Belvedere, un altro per il colonnato di Pozzolo, con l’assistenza di due consiglieri. Dopo la votazione, 45 balle vengono contate nel
Il pozzo Bellan a Belvedere, già documentato
nel ‘600.
60 N. Sborgia, Paesaggio agrario e regime fondiario, in Costozza, Cassa Rurale e Artigiana di Costozza e
Tramonte- Praglia, 1983, pag. 497
61 Secondo P. Tieto, I casoni veneti, Padova, Panda 1981, pag. 45, il termine “casone” è una derivazione accrescitiva della parola casa, colta nel suo senso etimologico più popolare di abitazione di campagna, di capanna;
si tratta perciò di un’edilizia povera, realizzata utilizzando le risorse locali: paglia e canne lacustri.
62 R. Ferrarese, Cavarzere attraverso i tempi, Vigorovea, La grafica, 1973, pag. 104
63 I. Cacciavillani, Le leggi veneziane sul territorio 1471 – 1789, Signum edizioni, 1984, pag. 87
64 N. Sborgia, op. cit. pag. 497
65 Ibidem
66 Arch. Stato Vicenza, Estimo b. 1384, f. 3 e seguenti
82
Casa Tapparo ora Giacomuzzo in via Longhe a Toara.
83
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
bozzolo bianco (i voti favorevoli) e 10 nel bozzolo rosso (i voti contrari). I nomi
degli estimatori risultano essere: per Villaga Andrea Giacomuzzo; per Toara e
Belvedere Giobatta Bechello; per Pozzolo Lorenzo Bettio.
Dopo tre anni di lavoro, nel 1703 l’estimo viene rivisto e approvato dall’organo
comunale. Vediamo di conoscerne i contenuti.67
Bernardo Danielli disponeva di “un sedime con casa murà, cupà con cassi due di
teda e stalla, con forno e sua porzion di canevaro; campi 5 e mezzo di terra arativa,
con vide e arbori e due morari, in contrà delle Quarniente”. Più tardi, nel 1736, nel
catasto viene riportata la nota dell’acquisto di “7 campi e mezzo arativi da
Antonio Cavalon”, sempre in contrà Quargente.
Mattio Pasquale aveva “un cason coperto di pagia in contrà delle Quarniente con
campi uno e quarti due e mezzo”.
Zuanne Guerrato godeva di “una casa murà, cupà, solarà con camere, caneva, teza,
stalla, portichetto, forno e punaro con corte, parte sarà da muro, compresa la casa che
era di Ghirardo di Zanini, in contrà delle Quarniente, con mezo campo di brolo dietro
la casa apresso la strada comunale e il Gordon. Anno 1708: cresce per una camera e
teda fabbricata di novo.
Poi 5 campi di terra arativa in contrà appo il Gordon; anno 1720: ampliati la caneva e il granaro”.
Antonio Guerrato fruiva di “una casa murà, cupà di due camere fatte da novo, un
cortivo parte sarà da muro con frutari in contrà delle Quarniente, vicino a Zuanne
suo zio”.
Gli eredi di Vicenzo Guerrato possedevano: “una casa murà, cupà, solarà, con
caneva, forno, ara, orto e campi 3 arativi presso il Gordon in contrà delle
Quarniente”.
Nicolò Pagello disponeva di “tre quarti di terra arativa piantà de vide e arbori
sopra li quali vi è un cason coperto di paglia in contrà delle Quarniente presso il
ghebbo (canale) del Gordon”.
A Quargente vi era anche un campo posseduto dalla Fraglia di Agugliaro;
anche l’Ordine del Santo Sepolcro di Sossano deteneva due campetti a
Quargente.
Zuanne e Pietro Di Mani disponevano di“una casa murà, cupà, solarà con diverse
camere, con teza, stalla e portico, ara, canevaro in Belvedere, vicino alle proprietà dei
nobili Barbarano; poi campi 6 di terra arativa in Belvedere in contrà della Fratta e
del Bosco, compreso il campo che tengono a livello (in affitto), et era del conte Gio.
Barbarano”.
Dominico Mazaron possedeva “una casa murata, cupata, solarata con camere 3,
compresa la bottega, forno e orto, mezo campo di terra arativa con piante giovani, frutari e due morari; poi due campi e mezo terra arativa piantà in contrà delle
Quarniente”.
Antonio Trivisan, livellario dei nobili Barbarano, aveva “una casa murata, cupata, solarata, forno con sezonta (barchessa) coperta di paglia, ara, orto e canevaro in
Belvedere in contrà del Pozzo del Bellan”.
Colonnato di Villaga
I proprietari di beni (case e terre) erano: Mattio da Soghe, Batta Marangon,
Nicolò Contin, Lodovico Tomasi, Antonio Donaello, Pelegrin Fattore, Andrea
Gaspari, Carlo Rapo, Antonio Bettio, Zuanne Rapo, Mattio Capa, Mattio de
Signori, Pelegrin Breganzato, Orazio Chierego, Lodovico Di Grandi, Piero
Pollo, Marco Di Grandi, Zuanne Fattore, Bortolo Fiorin, Prospero Simonato,
Pietro Speroto, fra’ Bortolomio Trevisan, Domenico Maran, Francesco Gatton e
gli eredi di Zuanne Mambrin.
Vediamo che cosa possedevano gli ultimi quattro proprietari dell’elenco.
“Fra’ Bortolamio Trevisan, eremita, possiede e riconosce dal comun di Villaga li beni:
un campo in circa di terra montuosa, era vegra, in Toara in contrà detta del Cengio
de Bechetto d’ove lì ha fabbricato una celletta et li consilieri in occasione anco della
vicinia la concessero licenza di fabricar a svegrar alla terra e piantarla e pagherà ogni
anno da S. Martin lire una di denaro”.
Domenico Maran possiede “una casa di due stanze picciole coperte da copo con
cason coperto di pagia, forno coperto di pietra, con pocco d’ara in contrà di Nizzon”.
Francesco Gatton possiede “una casa murà, cupà, solarà, forno, ara con un moraro
e canevaro in Villaga in contrà della Cà Rossa; campi uno circa di terra arativa, zapativa, piantà de vide e arbori appresso a detta casa”.
Gli eredi di Zuanne Mambrin possiedono “campi tre di terra arativa, zapativa in
contrà Cà Rossa; un sedime con casa murà, cupà, solarà, stala, tedeta, ara, forno in
contrà di Noseo con campi uno quarti due di terra arativa piantà di vide et arbori e
morari; poi campi 4 terra arativa, zapativa, piantà de vide e arbori e montuosa, sempre in contrà Noseo, presso la stada comunale a due lati, lo scaranto, detti
Mambrini”.
Colonnato Belvedere- Toara
A Belvedere e Quargente i proprietari erano: Michiele Pomaro, Dominico
Pomaro, Bastian Zambonin, Mattio Pasquale, Bernardo Danielli (Danieli),
Zuanne Guerrato (Guarato), Antonio Guerrato, Vicenzo Guerrato, Ghirardo
Zanini, Benetto Casaro, Bortolo Pollari, eredi Bernardo Zonato, eredi Bortolo
Garbin, Zuanne e Pietro Di Mani (De Mani), Dominico Mazaron (Mazzaron),
Antonio Trivisan, Nicolò Pagello, Nicolò Frizzo, Girolamo Polatto.
A Toara i possidenti erano: Antonio Di Grandi, Dominico di Grandi, Silvestro
Di Grandi, Stefano Di Grandi, Zuanne Di Grandi, Giacomo Rapo, Batta
67 Ibidem
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CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
Bertuzzo, Piero Bertuzzo, Lazaro Bertuzzo, Paolo Faccio, Antonio Giacomuzzo,
Francesco Priante, Andrea Muraro, Paolo Zago, Dominico Vaneto, Sebastian
Vaneto, Anzolo Vaneto, Antonio Di Mani, Gregorio Zanonato, Martin Di
Marchi (De Marchi).
Gli eredi di Antonio Di Grandi possiedono “una casa murà, cupà, solarà, di
camere 3 in contrà della Chiesa con corticella (piccola corte), orto e un moraro che era
della chiesa”.
Giacomo Rapo dichiara “una casa murà, cupà, solarà con pozolo (poggiolo) e
muraglia, ara, brolo con poche vide e poco terreno montuoso in Toara in contrà della
Piazza, confinante a due parti col conte Alessandro Barbaran”.
Paolo Faccio possiede “una casa murà, cupà di 2 camere con un solaro, forno, ara,
orto in contrà della Zonata a Toara; poi campi 1 di terra piantà de vide e arbori presso la casa “Il Prà” del signor conte Barbaran; campi 1 e un quarto di terra in contrà
della Longa; poi altri 3 campi di terra prativa sempre in contrà della Longa”. Nel
1791 Faccio Giobatta dichiara al catasto “una casa fabbricata da novo con due
camere terrene e due superiori”.
Antonio Giacomuzzo dispone di “una casa murà, cupà, solarà, forno e ara, con
terra arativa piantà de vide e arbori e zapativa con un moraro in Toara appo (presso) il trozo che va al monte, vicino alla chiesa di Toara; poi campi 2 e mezzo di terra
arativa e boschiva in contrà della Vignola detta la Guastura; 1 campo di terra montuosa in contrà delle Valeselle (Riveselle), vicino al conte Barbaran”.
Martin fu Domenico Di Marchi possiede “una casa murà, cupà, solarà, caneva,
portico, teza, stala, forno, ara, orto in contrà della Costa di Tarche, sopra Toara; poi 3
campi di terra montuosa alle Tarche; poi 4 campi vegri sassosi e parte inutili in contrà della Vignola e del Cengio; poi 4 campi di terra arativa con alcuni olivari in contrà della Riva; poi 3 campi di terra vegra e inutile sotto casa; ancora 9 campi di terra
arativa vide e arbori in contrà Tarche; campi 2 arativa nominati San Pierolo, confinanti con proprietà del conte Alessandro Barbaran; poi campi 1 e un quarto di terra
prativa alle Tarche nominata La Pilla”.
piantati a vite e alberi in contrà Salgan detti li Quagli; 16 campi arativi e di viti
nominati le Paltane lungo la strada dell’Albaria (lo stradone); 30 campi prativi detti
il Prà Grande, sui quali la chiesa di Toara riscuote la metà del fieno; una casa di lavoratori in contrà di Caovilla con un campo di terra, orto e prato; 10 di terra arativa e
viti detti Verlati vicino alla strada comunale e alla fontana Piscina; 34 di terra arativa e viti in contrà del Montesello; 50 di terra arativa, viti e alberi detti L’Albaria,
presso la strada Regia (l’attuale strada provinciale Berico-Euganea) e l’Albaria;
10 arativi a Ponte Alto detti li Gordoni; 3 e mezzo arativi e viti detti le Faustine in
contrà Longhe; 8 tra contrà Costa e Riveselle; 30 di terra boschiva, vegra e inutile
chiamata il Borgo Grande, tra Boccadorno e Riveselle; 50 arativi e boschivi sopra il
monte alla Ca’ Larga; altri 16 montuosi e boschivi sopra Toara; altri 11 boschivi detti
le Soldane; 8 di terra montuosa boschiva con olivari, viti e alberi in contrà di
Grumolo, sotto la Ca’ larga, appo li monti di Comun, compresa parte de prativi, ove
era una casa distrutta; 100 prativi, sassosi, parte inutili sopra Toara, sopra li
Scorzoni”.
I nobili Ferramosca alle Alture possedevano 150 campi prativi-pascolivi; poi
una casa di lavoratori con stalla, teza, portico, vicino alla Seonega; altri 16
campi arativi, prativi con casa di lavoratori alle Alture; altri 6 campi arativi a
Quargente.
I conti Giobatta e Francesco Barbarano erano proprietari di: “40 campi con
casa di lavoratori, arativi e viti presso il Crocefisso di Belvedere; 42 campi arativi
e viti in contrà del Crocifisso presso la strada Regia; 4 campi arativi in contrà del
Casamento; 60 campi arativi e prativi con casa di lavoratori in contrà di
Sant’Ubaldo (nei pressi dell’ex casello ferroviario di Belvedere); 14 campi di
viti e alberi detti La Valle vicino alla Seonega; 36 prativi a Fogomorto detti le
Vescovà; ancora 6 campi a Fogomorto detti le Paluselle; 95 arativi con viti e
arbori, con casa di lavoratori, teza, portico, caneva e corte in contrà di Roncasso
detti la Possessione di Roncasso; 2 campi e mezzo prativi con morari in Villaga
detti il “Prà Longo”.
Al conte Montano Barbarano e ai nipoti appartenevano i seguenti beni: “una
casa di lavoratori con cassi 5 di teza con camere 2, ara, orto in Belvedere, dentro
il Serraglio; una casa da lavoratori con colombara e teza da boaria, disgiunta da
detta casa, presso la strada che va dal Castello e dalla chiesa al Crocifisso; una
casa murata, cupata, in contrà del Pozzo di Bellan con corte e orticello; una casa
da brazente (braccianti), murà, cupà, con cortesella, orto, abitata da Iseppo Todaro
con campi 2 di terra vicino ai campi di Zuanne Di Mani; altra casa da brazente
era abitata da Antonio Roeto in Belvedere con campi 2; una caseta murata, cupata in Belvedere, abitata da Girolamo Venturin con un campo di terra; altra caseta
murata, cupata in contrà del Casamento con ara e ortesello con mezo campo; una
casa murata, cupata, solarata con portico, ara e mezo campo di terra arativa, abitata dal Priante Marangon; caseta de brazente 1 camera con teza vicino a Zuanne
De Mani; un’altra caseta di 2 camere abitata da Albino Muraro; un’altra casa
Le proprietà nobiliari e delle congregazioni religiose
Agli inizi dell’Ottocento la famiglia con maggiori beni risultava casa Conti
Barbarano di Toara.68
Bernardin Conti Barbarano dichiarava di possedere un lungo elenco di proprietà: “63 campi di risara e prativi presso la Seonega e la campagna di Salgan; 17
campi prativi e in parte a risara in Ronca e Frasca; 14 campi parte risara detti li
Paluselli; 13 campi di terra arativa li Broli; 8 campi e mezzo di terra arativa detti li
Scorzoni; 4 campi di terra arativa attorno alla villa; 10 campi arativi in contrà Pilla
detti le Barbarane; 52 campi di terra arativa presso la Seonega, ove è fabbricata la
casa con la pilla da riso, vi è la risara e la fossa detta il Salgan; 21 campi arativi
68 Arch. Stato Vicenza, Estimo b. 1384
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CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
murà, cupà, con poca terra, contigua a detta casa verso il pozzo di Bellan; diverse
case con stanze diverse e cadenti in Belvedere, in contrà della Piazza ove è presente
l’immagine della Beata Vergine e di S. Iseppo, una di queste abitata da Bastian
Orlando; un’altra casa in Belvedere in contrà della Piazza di camere 3 compresa
la bottega del fabbro e un quartiere di terra arativa; un cason di camere 2 con
muraglia coperta di paglia con quartiere di terra arativa; un cason di paglia con
orto e campi 2 e mezzo in contrà della Frascà; 4 campi di terra arativa e viti in
contrà della Frascà; campi due arativi in contrà Caneva o Armelinaro; campi 3 in
contrà Frasca sopra i quali vi è un cason di paglia con forno; campi 5 di terra arativa in contrà delle Strette dentro ai quali passa il Condusello che va nella
Seonega; campi 16 di terra arativa in contrà Ponte Alto del Gordon detti il Tereto;
4 arativi in contrà Canova; campi 7 arativi erano beni “Marcelli”, (cioè dell’ospedale di S. Marcello di Vicenza che accoglieva i bambini orfani e abbandonati); campi 8 arativi e viti in contrà del Ponte di Bologna; 30 campi arativi e
viti nominati la Campagnola dell’Albaria, presso la strada comune che va a
Sossano; 31 campi detti le Frascà, il Vegron e l’Armelinaro, presso la strada della
Seonega; 22 campi con casa sopra murà, cupà, con camere, teza, stalla, corte, al
Ponte di Bologna”.
I nobili Vicenzo e Antonio Molin erano possessori di :”98 campi di terra prativa, paludosa e risara al Ponte Bologna detti la Risara del Fasan; 32 campi arativi e prativi con casa di lavoratori in contrà della Volta del Fiume e Roncasso,
presso la strada Regia; 50 campi di terra arativa, viti e arbori con casa sopra di
lavoratori in contrà della Volta del Fiume; 5 campi con casa dei lavoratori detti li
Casamenti in contrà del Poigo; 52 campi di terra paludosa, risara detta la Risara
del Trò”.
“Zorzi Zorzi, in luogo dei nobili Redetti, avevano 102 campi di terra arativa, prativa, viti e alberi e parte vacua con casa di lavoratori con camere, stalle, teze e
colombara e corte in contrà del Ponte di Bologna, nominati la Possession della
Colombara Quadra; campi 28 in contrà Fogomorto, presso il Ghebbo del Siron;
una casa di lavoratori con camere, granai e stalle, in contrà Ronca con 6 campi;
casa murata, solarata e forno con campi 2 in contrà Costa Broglia; 30 campi in
contrà Ronca detti le Polverare”.
Domenico Carampin e fratelli disponevano di “casa murara, cupata, solarata,
diverse stanze con stalle e colombara Tonda con corte e orto e campo 1 terra prativa detto la Colombara Tonda, presso la strada Comune; 60 campi in contrà
Colombara con casa e teza tra Belvedere e contrà Oche; 16 campi in contrà delle
Malerbe”.
Gli eredi di Leonardo Loschi e fratelli potevano contare su “una casa murà,
cupà con stalla e colombara con campi 7 arativi in contrà di Pagnaga a Villaga;
15 campi detti il Prà di Pagnaga; 19 di terra arativa con piante giovani ancora a
Pagnaga; una casa murà, cupà e solarà sopra campi 7 detti il Paradiso”.
Il conte Massimiliano Godi possedeva a Villaga“una casa di molte camere,
barchesse, granai, teze, stalle e colombara su campi 15 di terra arativa e viti nominati “il Casermon” (l’attuale fattoria di Gervasio Bruttomesso); due case, una
in contrà della Chiesa chiamata il Fransegolaro; 14 campi a Pagnaga detti le
Malerbe; 6 campi a Caovilla; una casa in contrà Fontana Calda; 35 campi a
Fontana Calda detti le Mandolare; altri 37 nella stessa contrada; 8 di terra paludosa vicino risara; la possessione di 45 campi con casa in contrà del Ponte di
Bologna detta il Barco; la possessione di 65 campi presso la strada comunale;
campi 7 in Costa Broglia; campi 8 in contrà Ronca; campi 6 con casa da lavoratori in contrà delle Oche; altra casa murà e cupà in Prior di Vagina, poi altri terreni qua e là di pochi campi”.
La Commenda di S. Silvestro era in possesso di “una casa dominicale con il
commando per la boaria fabbricata sopra campi 7 arativi, zapativi piantà de vide
e arbori chiamati il Braglio in contrà della Mason; poi 3 campi piantati a vide in
Noseo; 1 campo e mezo di terra arativa nominata il Zaffrano; campi 2 di terra
arativa montuosa con olivari in contrà detta Ca’ Brunona; 1 campo con olivari in
contrà S. Silvestro; 1 campo prativo in contrà Fontana Calda; 12 campi di terra
arativa in contrà Ronca; 4 campi di terra arativa in contrà Canova; 12 campi arativi presso Fogomorto e altri piccoli appezzamenti sparsi in varie contrade; poi una
casa murata, cupata di diverse stanze con una corte (Mason di Sotto) situata
sopra 4 campi prativi piantà de vide, arbori e frutari; campi 10 prativi in contrada Pagnaga; altra casa murata, cupata, solarata posta in contrà del Prior di
Vagina con 1 campo e mezzo di terra e vide”.
Le Reverende Madri di Santa Caterina di Vicenza erano proprietarie di “una
casa murata, solarata, cupata, tede, stalle, portico con la boaria in contrà Oche
(l’attuale villa Bruttomesso Armando e Mario); campi 28 in contrà Oche; una
casa murata, cupata con camere, granai e stalle in contrà S. Donato; campi 8 detti
Val di Casa; campi 3 sopra Val del Carbon; campi 16 boschivi con castagnare e
carpani detti la Babboina”.
Alle Reverende Madri di Ognissanti di Vicenza appartenevano “una casa
murata, cupata, solarata in contrà del Capitello, con un campo di terra brolina
presso la strada comune; 4 campi le Albare; 7 sotto il Braglio e sopra la strada
Comunale; 2 presso la chiesa di Villaga detti il Tarabuso; 2 a Ronca, altri 2 alle
Polverare, altri 2 in contrà Pilla; poi campi vari alle Imole, a Fogomorto al Prà
Sacolin (15 campi); poi 4 campi al Noseo con olivari; una casa murata, cupata,
solarata con campi 1 in contrà della chiesa di Villaga”.
Anche il Principe di Venezia, cioè il Doge, aveva una piccola proprietà di 5
campi e un quarto in contrà della Vagina, confinanti con quelli delle Madri
di Ognissanti.
88
89
CAPITOLO QUINTO
13. GLI ATTI NOTARILI
I TESTAMENTI
Il primo testamento che riportiamo è quello redatto dal nobile Godo Godi
nella sua casa in contrà S. Faustino a Vicenza in data 25 luglio 1404.69 Questo
atto ci interessa perché il testatore, tra le sue disposizioni, lascia alcune somme
di denaro ad alcune chiese, tra cui quella di S. Michele Arcangelo di Villaga “per
le riparazioni” di cui avessero bisogno.
Ai figli maschi: Giudone, Marco e Silvestro lascia un notevole patrimonio fatto
di case e terreni, molti dei quali ricompresi nel territorio di Villaga, che ora
elenchiamo.
A Guidone toccano le clausure di Castelpino e della Croseta di Villaga, tre
quartieri di terra in contrà Ronca, due campi di terra prativa in contrà Roncarso
(Roncasso), un campo prativo in contrà Fontana Calda.
A Marco alcuni beni presenti a Pozzolo, in contrada Cogombola, la possessione
di Belvedere e di S. Tebaldo di Toara, sei campi e mezzo in contrà delle Fratte a
Belvedere, due campi in contrà Frascà, la clausura di Vaghina (Vagina)con olivari, nei pressi della Croce Nera.
A Silvestro vanno la casa in contrà Cavaione a Villaga, una clausura in contrà
Basge, sempre a Villaga, un’altra clausura con bosco e olivi in contrà Nosedo
(Noseo), una terza clausura di Baxega, ancora a Villaga; quattro campi di terra
in contrà delle Fratte; infine tre campi in contrà del Sirone (Siron).
Per capire come era fatto un atto testamentario riportiamo per intero quello di
don Giovanni Zanini, parroco di Toara, il quale, nel 1697, giacente a letto
ammalato, detta le sue ultime volontà al notaio Francesco Zannonato.70
“In Christi Nomine Amen. Anno Domini 1697 – Inditione quinta, giorno di venere
29 del mese di marzo, in Toara, Distretto di Vicenza, in casa dell’ infrascritto Molto
Rev. Testatore, presenti il Molto Rev. Sig. Don Giovanni Maitonio, parroco di
Campolongo, il Molto Rev. Sig. Don Melchioro Trivisan habitante in Belvedere, il sig.
Alessandro Pompei habitante in Sossano, Silvestro Di Grande, Andrea Muraro,
Anzolo Bedin, Francesco Bedin, figliolo del suddetto Anzolo habitanti al presente in
Toara testimoni rogati.
Non essendo cosa più certa della morte, e incerta l’ora di quella: a ciò considerando
il molto Rev.sig. Don Giovanni Zanini paroco di Toara, giacente in letto, infermo nel
corpo ma per l’Iddio grazia sano di mente, d’intelletto, chiara loquella, di ottima
memoria, ne volendo partirsi di questo suolo, senza ordinar le cose sue, e disponer
della sua poca facoltà, come segue.
Che perciò ha fatto chiamare me infrascritto nodaro, acciò scrivi questo suo ultimo
testamento, l’ultima volontà, da esser dopo la lui morte il tutto inviolabilmente osservata e eseguito.
IL PERIODO VENEZIANO
Et prima di tutte le cose raccomanda l’anima sua al Sommo e Onnipotente Iddio, e alla
gloriosa sua sempre Madre Vergine Maria, e a tutta la Corte Celestiale, chiedendo umil
perdono de suoi trascorsi, pregando S.D.M compiacersi collocarvi l’Anima sua in loco
di salute.
Ordina che seguita la sua morte, il suo corpo sia sepolto nella chiesa di Toara con quelle
esequie e funerale confacente al suo stato, e conforme parerà all’infrascritti suoi commissari, con sette sacerdoti almeno.
Interrogato per termine del mio uffizio, se vuol lasciar alcuna cosa per l’amor di Dio, a
chiese, ospitali, o altri luoghi pii, e principalmente al pio Ospedale di San Marcello di
Vicenza, ha risposto che, seguita la sua morte, vuole le sii fatto celebrare li quattro offizi
di messe, che ordina la chiesa, cioè terzo, settimo, trentesimo, il capo d’anno, con quelli
sacerdoti che pareranno alli suoi commissari.
Le due pianete, che si ritrova, una della Madonna e l’altra Pavonazza, le quali esso sig.
don Giovanni ha fatte fare col suo proprio danaro, e le cossan lire cento e venti, se quelli che havevanno la custodia della chiesa o li governatori delle Fraglie le volessero, le
siino date, con obligo che le faccino celebrare messe numero ottanta e non volendole, una
di esse le sii messa addosso a lui, e l’altra sii data alli RR. PP. Cappuzzini da
Montagnana, con l’obligo che le celebrino messe n° 40.
Lascia a Mari Antonio figliolo de Silvestro di Grande le due pezzatelle di terra de un
campo e mezo in circa fra tutte due, poste in pertinenze di Toara, in contrà di Capovilla,
acquistate per detto testatore col suo proprio danaro, e ciò per la fedel servitù prestatali
dal sudetto Silvestro padre di detto Mari Antonio.
Dichiara essere creditore di Zuanne Di Grande ducati sedici, delli quali gliene lascia
ducati quattro per amor di Dio, e li altri ducati dodici li lascia al sig. Francesco figliolo
del sig. Alessandro Pompei.
A Silvestro Di Grande li lascia stara quattro formento, item stara tre sorgo turco, che li
deve Grigolo Salamon. Un mestello vino col suo caratello.
Il danaro che si ritrova havere in cassa, che consiste in ducati cento in circa, de quali ne
lascia ducati venti al sig. Alessandro Pompei, e ducati dieci al molto Rev. Sig. Don
Giovanni Maitonio, che le celebri tante messe, e il rimanente dovrà servire per pagar
gravezze et altri che occorreranno. Più lascia al sudetto sig. Alessandro Pompei la tavola
tonda, la cassa di nogara che sono nel salon, due secchi e il secchiello da man.
A Lucrezia Bruna sua serva le lascia un sacco di formento, un mestello vino con il carattello, un caldirolo di rame, una schiavina usada, e due linzoli, uno nuovo e uno usado, e
una cadena de fogo.
Alla chiesa di Toara, sine al parroco, che pro tempore serà lì lascia certa pocca terra, da
esso acquistata per troni ottanta, posta in pertinenze di Toara sudetta, di sopra dalla
chiesa, con obligo di celebrarli o farli celebrare perpetuamente messe tre all’anno.
Alli suoi più prossimi e più poveri parenti li lascia ducati otto e un paro lincioli, e se trovasse
sopra di ciò contese e cavillazione, non habbiano cosa alcuna, ma siano di detti danari e lincioli fatte celebrar tante messe nella chiesa di Toara per l’anima di detto testatore.
69 Arch. Stato Vicenza, S. Giovanni di Longara e S. Silvestro di Villaga, b. 3068
70 Arch. Parr. Toara, Testamento don Giovanni Zanini, notaio Francesco Zannonato
90
91
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
A Andrea Muraro detto Comin, le lascia due careghe e una tavola di nogara.
A Malgarita di Grande le lascia una cassa di pezzo a fiore e una schiavina
usada.
A Lucrezia figliola di Mattio Barugola le lascia un lenzuolo et una cadena de
foco.
A Lucia figliola di Battista Tamisari le lascia un linzolo nuovo. Il rimanente di
quelle poche massarie e mobili che non fossero nominati nella presente disposizione e testamento, adempite che saranno le cose sopra espresse, dichiara che
siino divise dette massarie per metà fra Anzolo suo fratello e li figlioli del quondam Francesco pur suo altro fratello del detto testatore pacificamente e senza
contese, pregando li infrascritti suoi commissari contentarsi haver la bontà di
dividerli le sudette robbe, acciò il tutto si esegua con amorevolezza.
Lascia suoi commissari il molto rev. Sig. Don Giovanni Maitonio, paroco in
Campolongo, e il sig. Alessandro Pompei, quali habbiano l’autorità e la sopraintendenza di far che resti con tutta pontualità adempito quanto si ha espresso e
ordinato nel presente testamento, pregandoli per carità contentarsi ricever
questo incommodo.
Et questo vuole che sii il suo ultimo testamento e ultima volontà, e che vagli per
tutte quelle vie, modi e condizioni, che valer può e per amor di Dio.
Dalli rogiti di me Francesco Zannonato nodaro publico di Sossano”.
Altro interessante testamento è quello del conte Girolamo Barbarano che
era morto il 24 febbraio 1719 nella dimora signorile del Castello di
Belvedere. Il notaio Gottardi scrive che73 “il conte Girolamo, essendo aggravato di impetuoso, volle riferire le sottoscritte cose al sig. arciprete Giobatta
Pilani. L’arciprete riferisce che il nobile Girolamo, essendo aggravato, li disse
che se il male le havesse dato un poco di respiro, aveva mandato a chiamare me
perché dovesse scrivere il suo testamento, ma che se il male si fosse incalzato, e
che dovesse morire, raccomandava di riferir ad un notaio le sue volontà nella
forma infrascritta e disse: Voglio che seguendo la mia morte il mio corpo sia
sepolto nella sepoltura di Belvedere con quella decenza propria al mio stato, con
quelli religiosi si possano avere, con il settimo e trigesimo, e capo d’anno con più
messe possibili, che sia avvisato subito il nob. Conte Montan, mio zio, che paga
di far celebrare le messe e tutto quello spenderà sii rimborsato sopra la sua
porzione de animali bovini, che Bortolo Morseloso sa quali sono e che lo prego
esso signor arciprete di venir notta e pregare detto zio di voler mandar al santo
perdon d’avisi per l’anima mia.
Poi disse: Intendo che tutti drappi, veste e linzoli e tella e altro siino per Maria
Loga, non le sii molestata cosa alcuna.
Poi disse: So che mio fratello conte Giulio ha molte ricevute di Morseloso, che
gliele debba restituire come bonifico con tutto quello ha da avere, e che sii lo
stesso solevato per tutte le piazarie e altri impegni presi per la nostra casa,
essendo stato in tutte le mie congiunture, assai molto affettuosissimo.
Più che sii sodisfato il sig. Giobatta Di Grandi mio cappellano di quanto deve
perchè ne ha bisogno.
Più il gastaldo non ha scritto, ma il sudetto sig. Giobatta cappellano sa il tutto.
Più disse al medesimo sig. arciprete: Voi sapete quello havete d’havere, parlatene
col sudetto zio conte Montan e i miei fratelli che sarete sodisfatto. Li prego voler
sodisfare tutti i miei creditori che mi hanno assistito ne miei bisogni per sollievo dell’anima mia e per riputazione della nostra casa.
E suggerito dal sudetto arciprete se volesse chiamare testimoni che havrebbero
sentito a comandare le cose sudette, esso sospirando rispose: O Dio, mi dole sì
fortemente la testa. Sono cristiani, crederanno a voi.
E questo è quanto disse l’arciprete Pilani che doveva riferire a me notaio, in
scarico della propria coscienza giurando esser le verità che ha espresso” (il
conte Girolamo).
Altro testamento è quello di Zuanne De Grandi che il 12 settembre 1716,
sul Monte Nizon di Villaga, giacente a letto infermo, ma sano di mente,
dispone di lasciare i suoi beni alla moglie. Chiede poi che alla morte del
coniuge i beni rimasti vadano alla veneranda Fraglia del SS.mo Rosario
della chiesa di Villaga, con l’obbligo dei massari deella confraternita di far
celebrare sei messe di Requiem “per una volta tanto tra tutti e due”.71
Passiamo al testamento dettato il 12 agosto 1717 da Orazio Chierego, giacente a letto infermo a causa di una “cascata d’una mandolara, ma per grazia
di Dio sano di mente, chiara loquella e ottima volontà...” il quale lascia un
legato ad Antonia Fattore: “ per raggion di legato lascio all’infrascritto mio
erede che dopo la mia morte sia fatto quelle esequie e funeralli più propri con
sei sacerdoti alla sepoltura, sei al settimo, e sei al capo d’anno, e nel termine
d’anni due dopo la sua morte le sia fatto celebrar 100 messe di requiem per l’anima sua e per i suoi antecessori e sua moglie. Più le lascia l’obbligo di sodisfar
tutti li suoi oblighi, della Fraglia venerabile di Villaga, come ad altri suoi creditori, e dovrà lavorar il suo loco seminarlo e bruscarlo e corrisponderle la metà
dell’entrata per il suo sostentamento persino che vivrà”.72
71 Arch. Stato Vicenza, Fondo notai, Gottardo Gottardi, b. 3005, 12 settembre 1716
72 Ibidem, 12 agosto 1717
92
Dieci anni dopo, il 29 luglio 1729, è il parroco don Giobatta Pilani a far
testamento74, alla presenza del conte Gio Barbarano, dell’eremita fra’
Bortolamio Trevisan, di Antonio Di Grandi, di Paolo Faccio, di Antonio
Giacomuzzo e di Ippolito Burinato (quest’ultimo di Pozzolo), poiché il
73 Ibidem, 24 febbraio 1719
74 Ibidem, 29 luglio 1729
93
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
reverendo è giacente a letto infermo del corpo ma sano di mente. Don
Pilani dispone che vengano celebrate messe 200 nel termine di due anni
dopo la sua morte, poi altre sei messe all’anno per tutto il tempo che vivrà
il suo erede. Poi nomina suo erede il nipote Iseppo a cui mette a disposizione un capitale di ducati 400.
Cinque anni dopo, il 21 maggio 1721, altro rinnovo di livello nella Casa del
Comune.78
“Sin dall’anno 1641 11 agosto fu investito Pasquale Albanese in loco (al posto di) di
Michiel Pomaro di una pezza di terra per la qual pagano stata due di formento da S.
Felice; tale obbligo poi con l’assenso del sig. Pietro Redetti (nell’anno) 1676, che è poi
passata con l’obbligazione alla persona di Pietro Guaratto quondam (del fu) Vicenzo
nell’anno 1716, che però nel progresso del tempo nel pagar detto formento alli esattori sempre patiscono “strutti” per la qualità del formento stesso e poi nel stabilimento de conti al medesimo non lo bonifica se non al più vil prezzo asserendo che fu della
più inferior condizione onde d’incomodo a detti debitori e conseguentemente di poco
utile al Comune; perciò li sottoscritti consiglieri, riflettendo alle cose suddette, hanno
deliberato che invece di più pagar detto fromento habbi da pagar in denaro a raggion
de lire tre e soldi 10 per stara al tempo del Santo Martino di cadaun anno con la stessa obbligazione come nell’antecedente istrumento, restando inoltre obbligato esso
Guarato a fondi descritti nel medesimo con ogni dove de beni con eredi”.
Ancora nella casa del Comune a Villaga, il 5 aprile 1724 avviene l’affittanza di
una casa del Comune al parroco di allora, il padre olivetano Placido Saffi 79 : “li
sottoscritti governatori del Comun di Villaga hanno dato e conceduto all’ill.mo padre
arciprete di detto loco la casa, cioè camera e canevaro di raggione del Comune in via
del Condutore. L’arciprete si impegna a pagare al Comune lire 20 annue per l’affitto
a San Martino”.
Ancora, l’8 gennaio 1729, al Castello di Belvedere, in casa del nobile Francesco
Barbarano, “Paolo Faccio prende a livello per lire 34 una casa in Belvedere poi una
pezza di terra arativa, piantà de vide et arbori de campi due incirca situata nella contrà delle Longhe”. 80
Anche le confraternite locali affittavano i terreni in loro possesso. E’quello che
accade l’11 novembre 1717 a Toara, quando i massari Bortolamio Muraro e
Bernardino Danieli della venerabile Fraglia del S.mo Rosario affittano “due
pezze di terra con olivi, poste in contrà sopra Toara, poi un’altra pezza di terra con
olivi in contrà della Bussola a Mattio De Grandi per lire quattro e mezza a S.
Martino, liberi da ogni gravezza”.81
Il 15 febbraio 1738 è il parroco di Toara, don Giobatta Pilani a prendere in affitto una casetta appartenente alla contessa Isabetta Bissari Barbaran:82 “…premendo al reverendo Giobatta Pilani ridar a perfezione la fabrica di detta chiesa parrocchiale intrapresa dal suo zelo e carità, e a maggior comodo di quegli abitanti e
desiderando in tale occasione di essere investito dell’infrascritta casetta, che s’atrova
in pessimo stato e poco terra di raggione dell’eredità del sig. Conte Girolamo
Barbarano e che la signora contessa Isabetta Bissari, erede infrascritta…conoscendo
I CONTRATTI DI LIVELLO
Molti terreni erano dati a livello (in affitto) dai grandi proprietari fondiari con
l’obbligo del pagamento di un canone annuo e di coltivarli con migliorie.
L’affitto annuo che il conduttore doveva pagare al locatore (colui che affittava)
consisteva nel 6 per cento (ma anche nel 4) del valore del capitale. Il rinnovo
dei livelli doveva avvenire entro il decimo anno, passato il quale si perdeva il
diritto di poter godere ancora di quei terreni.
Vediamo qualcuno di questi contratti.
Nell’anno 1647 “Camilla, relita (vedova) di Federico Godi, anche in nome del figliolo Zampiero, livella una sua pezza di terra arativa, zappativa, piantà de vide e
arbori, di campi tre posta nelle pertinenze di Villaga in contrà della Crose Bianca,
nominata Costa Brogia, ad Antonio di Zanini, abitante a Villaga, per la cifra di
ducati 14 all’anno da versare una parte (la metà) alla festa di S. Cristoforo e l’altra
metà a S. Martino”.75
Sempre in quell’anno, nel Castello di Belvedere “il conte Giulio Cesare
Barbarano cede a livello una casa con caneva, botega da forno, teda posta a Belvedere
a Spagnolo Zamaria”. 76
In quest’altro documento notarile, datato domenica 18 ottobre 1716, gli
amministratori del Comune di Villaga decidono di rinnovare il livello a Batta e
Antonio Da Soghe.77
“In casa del Comun di Villaga, presenti Antonio Bettio e Giacomo Fachin testimoni,
in vigor dell’istromento (dell’anno)1676 4 ottobre, notaio il sig. Giacomo Carampino,
fu investito dal Comun di Villaga Francesco Da Soghe dell’infrascritti beni a livello
con obligo al detto Da Soghe di pagare stare nove e mezzo; che però gli infrascritti
consiglieri, riflettendo al pregiudizio che ne produce esso istromento sì al Comun come
alli livellari a causa dei prezzi che nel stabilimento dei conti con signor esatori viene
sempre in avantagio dei medesimi…perciò hanno risolto li egregi sig. Bellin Bellini,
sindico, Francesco Veronese, Antonio Zanini, Bernardin Danieli, Paulo Faccio, Batta
Bettio consilieri e Gaetano Mambrin (degan)…ridurre esso livello al mettodo delle
tariffe calcolando la stima che fu stabilita nel preaccennato istrumento 1676, che sono
ducati 80 non compreso le muraglie, coppi e travi … in virtù del presente istrumento di rinovazione di livello restano investiti li Batta e Antonio fratelli, figlioli del suddetto Francesco Da Soghe, qui presenti e accettanti per loro stessi et eredi successori
loro a migliorare e non peggiorare…”.
75 Arch. Stato Vicenza, Fondo Notai, Fabri Girolamo, b. 1915
76 Ibidem
77 Arch. Stato Vicenza, Fondo notai, Gottardi, b. 3005, 18 ottobre 1716
94
78 Ibidem, 21 maggio 1721
79 Ibidem, b. 3005, 5 aprile 1724
80 Ibidem, 8 gennaio 1729
81 Ibidem, 11 novembre 1717
82 Arch. Parr. Toara, Istromento 15 febbraio 1738
95
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
cosa utile all’eredità livellar la casa medesima che la sua riparazione
ricercherebbe,…situata in facia alla chiesa con l’impegno di megliorarla, con l’obligo
della manutenzione. Il prezzo di tale livello perpetuo viene fissato in troni 596 per la
casa murata, cupata posta davanti alla chiesa, confina a mezzodì parte Francesco
Priante, parte la strada consortiva; a mattina altra casa di ragione della contessa; a
tramontana la via comune mediante la fontana corente; a sera eredi ill.mo Conte
Alessandro Barbaran”. La casetta venne poi venduta nel 1817 da Bernardino
Conti Barbarano all’allora parroco don Pietro Castelli, per mezzo del sig.
Antonio Caldonazzo, amministratore della famiglia Conti.
tutti per la manutenzione e conservazione di tale affrancazione sotto solenne
obbligazione…” .
Il successivo “istrumento”, del 21 novembre 1643,87 ci presenta una permutazione di terre, cioè un cambio tra Francesco Bragion e Bortolamio
Bertuzzo. “Bragion ha dato e permutato con il suddetto Bortolamio una sua pezza
di terra arativa zappativa piantà de vide e arbori, posta nelle pertinenze di
Belvedere, confinante con il sig. conte Zuane Barbarano a matina, la strada comunale a tramontana, a mezodì la strada comunale, a sera con Gasparo Cosaro. In
cambio Bortolamio ha dato al suddetto Francesco una sua pezza di terra prativa
posta nelle pertinenze di Sossano mezza e l’altra mezza sopra il Comun di Villaga
nelle pertinenze di Toara in contrà della Seriola”.
L’ACQUISTO
Vediamo ora un atto di acquisto di un terreno da parte di Giobatta Spigarolo,
avvenuto il 7 novembre 1744 in contrà S. Silvestro di Villaga, presenti
Bortolamio Montan e Valerio Girelo. “Batta di Girardi vende a Giobatta Spigarolo
una pezza di terra arativa piantà de vide e arbori di campi dieci posta in contrà di
Pagnaga, appresso le proprietà dei Godi, per la somma di ducati 100 con l'obbligo di
dover pagare al Magnifico sig. Marcantonio Marzari ducati 30 ogni anno , come
appare da suo livello, e stare quatordese de formento al Vescovado di Vicenza”.83
L’AFFRANCAZIONE
A partire dal Seicento, accanto all’odiato rinnovo dei livelli, prende piede
l’affrancazione, la liberazione, cioè, da essi dietro esborso di denaro, accumulato dopo tante privazioni, o con permutazione d’equivalente superficie
agraria.84
Se l’investito voleva liberarsi dell’affitto e diventare proprietario del terreno,
doveva versare una somma pari a venti volte il canone annuo (di affitto).85
Relativamente all’estinzione dei livelli abbiamo il seguente atto notarile
risalente all’anno 1643, in cui il livello viene affrancato solo in parte: 86 “Batta
Fachin ha confessato aver avuto e recepito da Mattio Dalla Pozza ducati 65 in
tanti buoni denari spendibili, e usuali avanti la stipulazione del presente istrumento; e questi confessa d’averli avuti e recepiti et abonconto (in acconto) del capitale de un annuo affitto de ducati 6 qual è venuto pagare ogni anno il suddetto
Mattio sotto li 22 del mese di marzo 1643… …sopra liberarlo e affrancando il
suddetto Mattio di tal aggravio cioè per il suo capitale restando suo livellario solamente de troni nove soldi 16 renunciando ad ogni futura speranza di doverli ricevere promettendo di mantenere e difendere il suddetto Mattio da tutti e contro
83 Arch. Stato Vicenza, Fondo Notai, Gottardi, b. 3005, 7 novembre 1744
84 G. Franchetto – C. Bressan, Villa del Ferro dentro la Val Liona, pag. 115
85 F. Dalla Libera, Pozzolo nel periodo veneziano, pag. 193
86 Arch. Stato Vicenza, Fondo Notai, Fabri Girolamo, b. 1915, 26 aprile 1643
96
LE LITI
I notai erano chiamati anche a dirimere questioni private e liti che scoppiavano di frequente nel nostro territorio comunale.
Il rev. Don Domenico Nogarola, “nodaro di autorità riconosciuto”, mette
per iscritto che “l’anno 1608, 17 marzo, nella canonica di Villaga …erano già
alcuni mesi che era in atto una lite tra Pellegrin Carlo di Zovencedo e Vicenzo
Lando abitante a Villaga, suo nipote, il quale domandava che da esso M.
Pelegrin suo barba come già suo tutore et commissario li fosse resi conto et
ragione dell’amministrazione per lui fatta delli beni e facultà lasciate dal
quondam (fu) Santin Lando, padre di Vicenzo, e questo per lo spazio di anni
sei nel qual tempo esso Vicenzo ritrovandosi in età minore, è stato in casa del
sopradetto M. Pelegrin suo barba insieme con la sorella”.
Il parroco di Villaga padre Michelangelo Molino e il notaio Nogarola
dapprima hanno eletto tre giudici arbitri della lite, poi hanno messo
d’accordo i due contendenti alle seguenti condizioni:
“M. Vicenzo fa libera e perpetua quietazione a M. Pelegrin suo barba di ogni
et qualunque raggione e presentione. Pelegrin fa a suo nipote l’esborsazione
(oblazione) di ducati duecento”.88
Negli atti notarili si denunciavano anche eventuali danni arrecati ai
campi presi a livello dalle avversità atmosferiche. E’ il caso di Zuane
Guarato: “l’11marzo 1716 davanti ai testimoni Vangelina De Santi e Zuane
Fongaro di Belvedere, colonnato di Villaga, esposero essersi conferiti ad istanza di Zuane Guarato sopra la campagna che esso Guarato tiene ad affitto
dalla signora contessa Paolina Barbarano, situata in Belvedere in contrà del
Crocifisso confinante con la Seonega, e ciò esposero haver considerato esservi
nella detta campagna il danno causato dalle acque l’anno passato 1715 di
campi quatordeci andati vodi, e campi quatro circa seminati e haver havuto
87 Ibidem, 21 novembre 1643
88 Arch. Stato Vicenza, Fondo Notai, Nogarola Domenico, 17 marzo 1608
97
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
mezo racolto; tanto attestano con loro giuramento per la cognificione (constatazione)89 delle revisioni et cossì alla presenza delli sottoscritti testimoni
giurò in mano di me nodaro cossì esser e haver fatto e considerato la terra
suddetta ne haver preso prove alcuno tostandosi che sanino per loro fatiche
le mercedi troni 3 soldi 2 per cadauno”.
A volte il notaio veniva chiamato per verificare i confini di terre; in questo
caso sono i due parroci di Villaga e di Toara che conducono un sopralluogo per chiarire quanto segue: “L’anno 15 marzo 1710 in Villaga, presenti i sig.
Francesco Cavalon e Giacomo Rappo come testimoni, convengono amichevolmente e di comune consenso i reverendi Antonio Maria Camin, parroco di
Villaga, e Giobatta Pilani, parroco di Toara per fare un sopralluogo con due
comuni amici uno per parte (Marco De Grandi e Lazaro Bertuzzo) pratici più di
ogni altro in paese, per riconoscer i confini delle pezze di Toara sopra le quali il
parroco di Villaga riscuote le decime per le ragion del suo catastico, e a tal effetto hanno li suddetti parrochi pregato me (notaio Gottardi) di volermi portare
sopra luogo per scrivere con fedeltà ciò che si potrà ricavare dalla ricognizione
che si andrà facendo di pezza in pezza. Ci siamo portati sopra una pezza di terra
chiamata il Tribolo sopra la quale riscuote la decima il parroco di Toara. Poi in
contrada le Seoneghe, poi al Ghebo del Salgan, in contrada Pezza Gagliarda,
nella Possessione di Gregorio Zanonato posta tra Belvedere, la Seonega e il
Gordon…”. 90
Altre volte il notaio mette per iscritto dichiarazioni di cittadini che rivendicano,
in questo caso, l’appartenenza della chiesa di S. Donato alla parrocchia di
Villaga:91 “ 26 maggio 1724. Paulo Rappo, abitante in contrà S. Donato, di 51 anni,
e Marco Di Grandi, nativo di detto loco, d’anni 74, poi Angelo Mambrin di anni 50,
sostengono che è verità più che infalibile che sempre per il passato li parochi di questa chiesa di Villaga sono andati con le rogazioni nella chiesa di S. Donato sopra il
monte…perciò si può arguire che detta chiesa di S. Donato e certe celle dei romiti
sotto là, spettano alla parrocchia di Villaga…poi si dice che nel giorno di S. Bovo in
S. Donato si fa solennità, esservi stati li parrochi di Villaga a cantar la messa solenne,
e in spetie il revdo p. Angelo Maria da Camin che fu parroco, dove vi fece anco un
discorso”.
A volte le liti finivano per coinvolgere l’intero territorio comunale, come nel
caso della raccolta delle contribuzioni (tributi), che vede contrapporsi da una
parte Villaga e Pozzolo, dall’altra Toara e Belvedere.92
“In Christi nomine Amen. Anno 1749 il giorno di mercoledì 22 del mese di gennaio
in casa del Comun di Villaga, Distretto Vicenza, si è riunita la general Convicinia con
l'assistenza del Vicario di Barbarano e la presenza di Maran Vinante, Bortolo
Veronese, Santo Da Soghe, Giacomo Burinato consiglieri di Villaga e Pozzolo, e non di
Toara e Belvedere essendo questi in continue agitazioni e dissidi …stimandosi unico
rimedio che si produca la pace e quiete il divider il Comune medesimo in tre
Colonelli” (aggregazioni, località). Messa ai voti, la deliberazione viene accolta
con 69 voti favorevoli e quattro contrari.
89 Arch. Stato Vicenza, Fondo Notai, Gottardi, b. 3005, 11 marzo 1716
90 Ibidem, 15 marzo 1710
91 Ibidem, 26 marzo 1724
92 Arch. Stato Vicenza, Fondo Notai, Donaello Marco, b. 13012, 22 gennaio 1749
98
IL CONTRATTO DI NOZZE O DI DOTE
La dote, abolita nel nostro ordinamento con la riforma del diritto di famiglia
del 1975, era una convenzione matrimoniale composta da un insieme di beni
che la moglie donava al marito per sostenete il peso del matrimonio. Essa comportava una perpetua destinazione dei beni della moglie ai bisogni della
famiglia; pur rimanendo gli stessi in proprietà della moglie, il marito ne
acquisiva solamente i frutti senza poterli sperperare, sotto pena di perdita della
loro amministrazione.
La dote è un’istituzione antichissima: i primi documenti in cui se ne fa cenno
risalgono all’XI° secolo, dove la dote era tramandata da madre in figlia. Altri
beni, pari alla metà del patrimonio del marito, erano concessi dal marito alla
moglie, la quale ne entrava in possesso soltanto dopo aver consumato il matrimonio.93
Anche a Villaga il contratto della dote diventa consuetudine. Ma vediamo da
quali beni era composta la dote. Innanzitutto dal vestiario e dalla biancheria, i
cui elementi essenziali erano la schiavina (una coperta da letto di lana ruvida),
i linzuli (lenzuola) di canevo (canapa) o stoppa (derivata dalla pettinatura del
lino e della canapa) nuovi o vecchi, le forette (federe), le camìse (camicie), le
cottole (sottane), le traverse (grembiuli), mentre i tessuti più diffusi erano di
canevo e di stoppa, poi di bombasin (tela grossa), di filisello (filato di seta), di
lino e di lana.94
Una parte importante avevano anche i mobili (letto, credenza, sedie, tavolo), gli
oggetti della casa (pignatte, sessole, secchi, rami, tamisi), gli attrezzi da lavoro
(badili, rastrelli, versori, forche, ecc.), persino gli animali (vacche, buoi, animali
da cortile).
Passiamo a vedere alcune “carte de dotte”, a cominciare da quella di Germano
Albanese e di Zuana sua consorte, stilata dal notaio Fabri il 30 settembre
1673:95
Un letto di pena, una schiavina vecchia, sette pironi, 7 guchiari (cucchiai), una sesola, un panaro, un menestro forà, uan tovagia (tovaglia), sette tovalioli usadi, una
cadena da fogo, una piana da gratare, una gratta casola, un nezolo di pezo vecchio,
un nezolo di un mestello, un mestello da lisia, una tavola de pezzo, un nizolo di canevo novo, una litiera de nogara, un caliero di rame picolo, un cortelazo vechio, una
zappa, sette camise da dona vechie, un fazoleto da testa, un grombiule vechio, una
93 R. Lembo, Pane, amore e dote, in Sossano Notizie
94 M. Biscaro, La dote a Lisiera, in AA.VV. Lisiera. Storia e cultura di una comunità veneta, ed. Parrocchia
Lisiera, Tomo 1, 1981, pag. 746
95 Arch. Stato Vicenza, Fondo Notai, Fabri, b. 1915, 30 settembre 1673
99
CAPITOLO QUINTO
IL PERIODO VENEZIANO
meza lana vechia, tre nizoli vechi, una camicia da dona nova, un ninzolo vechio.
Il tutto per un valore di dote di 179 ducati.
Sempre in quell’anno, l’11 giugno 1673, Laura, figliola di Francesco Beluso,
maritata con Horatio Carlan, riceve in dote: 96 “Un ninzolo di canevo e uno usato,
una casa depenta, un paro de ninzoli di canevo novi, una camiscia di canevo nova da
dona, otto camiscie da bagnare di canevo e stopa, braza nuove di tella da facoliti, una
tenzolana rossa nova, un guarnelo di canevo turchin con caso e maneghe de fileselo,
un guarnelo con busto di rasa, un grombiule di renso, un grombiule di canevo, un
altro gurnelo, una traversa di bende, una tenzolana naranzeta, un facoleto di bambaso, una camiscia di canevo bagnata, una veletta bianca, un paro scofoni e scarpe, doi
pacoletti da collo, una meza lana verde, un carro, una vaca negra, una vaca bianca,
un versoro, un paro de manteli da usare, un paro de sechi vechi, una stiavina, un
caliero, un tinazo di fero, un tinazo, una botte de castegnara, un vezolo di mezzo caro,
un vezolo di doi mesteli, un vezolo vecchio di doi mestelli.”
Passiamo alla “dotte di Cattarina Mazaron, moglie di Pietro Guarato, fatta stimare l’11 novembre 1717 a Toara e donata dal padre Domenico Mazaron:97
- un grembiulle fornido disegno
- due fazoleti da sera diversi usadi
- tre grembiulli bianchi diversi
- fazzoletti da spalle diversi n. 12
- aghi d’argento diversi n. 14 e 3 dorati
- pevosini d’oro n. 24
- un fillo…
- due cendaline, una rosa, un’altra turchina
- un paio calzeti rossi
- un fazolo da testa drappello fornido de merli a cappa
- una cassa nogara
- una veste meza lana usada fornida passaman antico
- letto con i suoi fornimenti
- una schiavina lana
- lenzoli 6 stopa e canevo forniti con zane merli e groppi diversi
- camise di drappello nuove n. 6
- camise drappello usate n. 2 fornide de corde
- camise de canevo nove n. 8
- una veste filesello nel canevo con busto e maneghe e petorina
- un abito banelon cioè busso e maneghe e petorina
- un busso e maneghe banelon turchin con veste filesello
- un busso senza maneghe filesello rigà con veste rigadina di lino
- un busso e maneghe filesello a fiori rosso e turchino con veste
- un busso e maneghe filesello a fiori turchin con veste
filesello usato
- un busso e maneghe mezofogia con veste meza lana
- un busso a maneghe a fiori
- una veste bombasina turchina
- un busso a maneghe meza taglia nova con veste meza
lana nova
- una corpeta pano rosso fornida d’oro falso e camisola
pano rosso
- una cottola a ochielli e una da cusire e una usada, in tutto
- due grembiulli, cinque da cusire e uno seta lino
- un fazzolo da testa fornido disegno
E arriviamo al secolo scorso e
Cichellero Prisco consegna alla
costituita dai seguenti oggetti:98
Armadio
Letto di pena
Trapunta e coperta lana
Coperte n. 2
Lenzuola n. 8
Intimele n. 16
Accompagnamento camera
Piumini
Camicie n. 12
Camicie da notte n. 4
Camicie colore n. 4
Asciugamani n. 9
Mutande n. 6
Mutande colorate n. 6
Sottoveste n. 8
Flanele lana n. 2
Flanele cotone n. 4
Grembiuli n. 3
Vestaglie nuove n. 3
Paltò n. 2
Abiti inverno n. 2
96 Arch. Stato Vicenza, Fondo Notai, Fabri, b. 1915, 11 giugno 1673
97 Arch. Stato Vicenza, Fondo Notai, Gottardi, b. 3005, 11 novembre 1717
100
lire 135
lire 24
lire 70
lire 55
lire 13
lire 52
lire 28
lire 34:10
lire 34
lire 20
lire 34
lire 18:10
lire 16
lire 16
lire 15
lire 20
lire 26
lire 24
lire 18
lire 8
lire 10
lire 5
lire 12
lire 12:10
lire 6:6
lire 52
lire 6
lire 2:10
lire 2:15
lire 10
lire 24
lire 9
Totale lire 855:11
Il tutto fu consegnato a Piero, lo sposo in conto di dotte della predetta
Cattarina sua sposa.
precisamente al 28 novembre 1934, quando
figlia Sira , sposata con Faccio Alcide, la dote
L. 300
L. 160
L. 125
L. 100
L. 220
L. 70
L. 150
L. 42
L. 90
L. 39
L. 25
L. 36
L. 27
L. 25
L. 30
L. 34
L. 24
L. 36
L. 145
L. 188
L. 100
98 Documento di dote di proprietà di Faccio Bonifacio
101
CAPITOLO QUINTO
Soprabito n. 1
Vestito bianco
Vestaglie lana n. 3
Calze de lana n. 5
Calze cotone n. 6
Calze fine n. 3
Velo nero
Velo bianco
Sciarpa de lana
Fazzoletti n. 36
Guanti, borsa, capello
Traverse n. 2
Vestiti usi n. 2
Mutande use n. 2
Camicie use n. 2
Scarpe nuove nere e bianche
Scarpe vecchie e zurli
Sottana a quadri
Sottana e blusa lana
Catenella d’oro
Orecchini un paio
Totale
L. 100
L. 70
L. 50
L. 50
L. 30
L. 10
L. 40
L. 17
L. 25
L. 28
L. 30
L. 16
L. 10
L. 4
L. 6
L. 43
L. 33
L. 17
L. 35
L. 60
L. 10
L. 2650
102
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
1. LE NOTIZIE PIU’ ANTICHE
La chiesa parrocchiale di Villaga era un’antica cappella della vicina pieve di
Barbarano. Il nome del patrono, San Michele Arcangelo, farebbe pensare a
un’origine longobarda.
Il culto dell’Arcangelo armato infatti ebbe larga diffusione nel nostro territorio
già nell’alto Medioevo. Nell’anno 663, i Longobardi avevano sconfitto i
Saraceni e ne attribuirono il merito a S. Michele, il quale divenne il
patrono del loro sentimento cavalleresco. Da allora si diffuse la
devozione all’Arcangelo al quale
sono state dedicate molte chiese
anche nel Vicentino E’ possibile
quindi che il paese di Villaga sia
sorto in epoca longobarda, quando Vicenza divenne sede di uno
dei 36 ducati del regno longobardo.
Il riferimento più antico che abbiamo sull’esistenza della parrocchia di Villaga è un documento del
1187, conservato in Archivio di Anno 1930: la Chiesa con la vecchia canonica, poi abbattuta e
Stato a Vicenza sotto il fondo S. ricostruita nel 1936.
Felice (b. 528 b, perg. 47), in cui
l’arciprete di Barbarano, poiché aveva in atto una disputa con i frati benedettini, nominò il presbitero Arnaldo da Villaga procuratore nella lite fra il Capitolo
di Barbarano e l’abate di S. Felice di Vicenza. Questo proverebbe che a quell’epoca Villaga disponeva già di un sacerdote stabile.
103
CAPITOLO SESTO
Le “Rationes Decimarum” (1297 – 1303) pagate a papa Bonifacio VIII attestano
che S. Michele Arcangelo, già allora, era chiesa parrocchiale retta dal presbitero
Artuxius (Artusio). 1
Il Maccà poi riporta un documento del 1367 2 nel quale si descrive una certa
pezza di terra posta nelle pertinenze di Villaga e si dice che era situata “ apud
jura Sancti Michaelis de Viraga” (presso i diritti di San Michele di Villaga).
Riferisce anche di alcuni presbiteri, titolari del beneficio parrocchiale nel XV
secolo; nell’anno 1424: “Collatio presbiteri Johannis de Montefalco pro Ecclesia
Sancti Michaelis de Viraga pro morte presbiteri Alexandri de Parma olim rectoris
dicte ecclesie” 3 (Il contributo del sacerdote Giovanni di Montefalco a favore della
chiesa di S. Michele di Villaga a causa della morte del sacerdote Alessandro di
Parma un tempo rettore di detta chiesa); nell’anno 1425 scrive: “Collatio presbiteri Jacobi de Ferraria pro Ecclesia Sancti Michaelis de Viraga per absentiam presbiteri Johannis de Montefalco” 4 (Il contributo del sacerdote Jacopo di Ferrara a
favore della chiesa di S. Michele di Villaga, vacante per l’assenza del sacerdote
Giovanni di Montefalco); e ancora nell’anno 1428: “Collatio presbiteri Nicolai de
Drivesto pro ecclesia Sancti Michaelis de Viraga … qua vacat propter absentiam
presbiteri Jacobi de Ferraria olim ispius ecclesie ultimi rectoris” 5 (Il contributo del
sacerdote Nicolò di Drivasto a favore della chiesa di S. Michele di Villaga… che
è vacante per l’assenza del presbitero Jacopo di Ferrara un tempo egli stesso
ultimo rettore); riferito allo stesso anno cita il presbitero “Andree de noctiano”.6
Infine, puntualizza che nel 1466 era rettore di Villaga il presbitero “Jacobo de
monte de marchia”.7
L’Inventario dei beni della chiesa dell’anno 1492
Le prime notizie riguardanti lo stato patrimoniale della chiesa di Villaga sono
contenute nell’Inventario dei beni mobili e immobili redatto nel 1492 8.
Il documento venne stilato dall’allora parroco - rettore di Villaga, Bartolomeo
di Barbarano, con il Decano e alcuni capifamiglia, riuniti in pubblica convicinia,
in esecuzione degli ordini del vescovo.
Fu poi presentato in Episcopato dallo stesso parroco, da Bartolomeo Clementi,
vicedecano, da Francesco Pochini, Blasio Zanetti, Antonio Iuliani e Domenico
Giacobini, tutti di Villaga.
I Beni mobili della soprascritta chiesa sono:
Primo un calice d’argento con patena del valore di ducati dieci;
1 G. Mantese, Vicenza Sacra, in Odeo Olimpico III, 1943.
2 G. Maccà, Storia del territorio vicentino, tomo IV, pag. 343.
3 G. Maccà, ibidem, pag. 344.
4 Ibidem.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 Ibidem, pag. 345
8 Inventarium bonorum mobilium et immobilium ecclesiae Sancti Michaelis de Viraga, conservato presso
l’archivio parrocchiale di Villaga (copia manoscritta del notaio Antonio Todeschini anno 1795).
104
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
Poi un messale bombicino del valore di un ducato;
Poi una pianeta di sindone con camice, stola, manipolo, amito;
Poi un libro per i battesimi;
Poi una tovaglia nuova;
Poi un messale vecchio;
Poi nove tavole;
Poi due tovaglie vecchie;
Poi una veste a mezza vita.
Beni della Caminata (Canonica)
Primo un lettuccio consumato;
Poi una catena per il fuoco;
Poi una lucerna;
Poi un tinazzo antico per il vino.
Beni immobili della soprascritta chiesa
Primo una casa cupata, (cioè con i coppi), murata, cum tegete murato, (con
coperto murato), ara (aia), et orto, posita in dicta villa (posta in detto paese di
Villaga) in ora Ecclesie (nel luogo vicino alla chiesa), apud viam Communis
(presso la via Comune), apud jura Ecclesie Sancte Marie de Barbarano (presso i diritti della chiesa di Santa Maria di Barbarano), in qua habitat Rector dicte
Ecclesie (nella quale abita il rettore di detta chiesa). Si tratta quindi dell’abitazione del parroco.
Poi un quartiere di terra all’incirca, con una piccola “teza” di paglia in dette pertinenze e contrada, presso la soprascritta casa, presso i diritti della chiesa di S.
Maria di Barbarano ed è tenuta dagli eredi di Marco Guidone di Villaga.
Poi una pezza di terra, che può essere di circa un campo in dette pertinenze,
nella contrada della Fontana, presso lo Scaranto della fontana, presso gli eredi
di Silvestro del Buso, presso i diritti di San Fermo di Lonigo, e presso Nicolò
Cerdone, corrispondendo la terza parte e la decima.
Poi una pezza di terra arativa, che può essere di circa quattro campi in dette
pertinenze, nella contrada della Fontana Calda, presso la via Comune, presso
gli eredi di Cristoforo di Godi e presso i diritti degli eredi di Domenico Ronchino,
corrispondendo la terza parte e la decima.
Poi una pezza di terra, arativa e piantata, che può essere di circa un campo e
mezzo in dette pertinenze, nella contrada di Ronco Dugo, presso Giovanni
Domenico del Neno per due parti, presso la via comune e presso Nicolò
Cerdone, pagando uno staro di frumento per l’affitto e la decima.
Poi una pezza di terra, arativa e piantata, di circa un campo e mezzo in dette
pertinenze, nella contrada della Pezzamala, presso i diritti di Donato Zamboni,
105
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
di Bartolomeo Clementi e di Bartolomeo detto Piemontese, pagando la terza
parte e la decima.
Poi una pezza di terra arativa e piantata, che può essere di circa quattro campi
in dette pertinenze in contrada Savonica (Seonega) , presso il canale Savonica,
presso i diritti della Mansione, presso la via consortiva e forse presso altri; il rettore soprascritto della chiesa è tenuto a celebrare ogni mese una messa per
l’anima della signora Francesca, moglie di Jacopo Longo di Villaga.
Poi una pezza di terra zappativa con olivi, che può essere di circa un quartiere
in dette pertinenze, in contrada del “Nosedo” (Noseo) presso la via comune,
presso gli eredi di Guidone di Godi, pagando la terza parte e la decima.
Poi una pezza di terra arativa, che può essere di circa due campi in dette pertinenze, nella contrada di Ronco Dugo, presso il canale Seonega, presso
Cristoforo di Barbarano (il conte Cristoforo Barbarano, proprietario del castello
di Belvedere), presso gli eredi di Silvestro di Buso e di Carlo “de Belvederio” (di
Belvedere), pagando la terza parte e la decima.
Poi una pezza di terra arativa, che può essere di circa cinque quartieri in dette
pertinenze, nella contrada di Fogomorto, presso i diritti di San Donato, presso
Nicolò Cerdone e presso Cristoforo di Barbarano.
Poi una pezza di terra arativa e piantata, che può essere di circa un campo in
contrada di Belvedere, presso la via comune, presso Andrea di Barbarano,
presso Cristoforo di Barbarano, presso Rolando di Paolo, pagando la terza
parte e la decima.
Poi una pezza di terra, arativa e piantata, che può essere di circa due campi
nelle pertinenze di Belvedere, nella contrada della Fratta (l’attuale via Conti
Barbarano che proseguiva lungo il corso della Seonega ) presso Cristoforo
Zampetti, per due parti, presso Giovanni Antonio di Michele di Belvedere, presso la via consortiva, pagando la terza parte e la decima.
Poi due sedimi con case murate con due teze, una murata e cupata, l’altra
murata e con paglia, aia, orto e circa due campi nelle pertinenze di Belvedere,
presso la via comune da due parti, presso Cristoforo di Barbarano, presso la
chiesa di sant’Antonio di Belvedere, pagando venti soldi, due polli e la decima
su tutto il raccolto.
Poi un sedime con casa murata e cupata con piccola tezza murata e cupata,
aia, orto, che può essere di tre campi, posta in Villa Toarie (nel paese di Toara),
nella contrada “Trium”, presso la via comune, presso Cristoforo di Barbarano e
da altre parti, corrispondendo di affitto venti soldi e la decima.
Poi un sedime con casa murata e cupata, aia e orto, che può essere di un
quartiero posto nel paese di Toara, presso la via comune, presso Cristoforo di
Barbarano, presso i diritti di San Giorgio di Toara, pagando una spalla di porco,
due polli e la decima.
Poi una pezza di terra prativa, che può essere di circa due campi in dette pertinenze, in contrada Forasesie (?), presso i diritti di San Giorgio di Toara, pres-
so Cristoforo di Barbarano, presso “Gaibun fornaxilie” (il canale Fornasile), da
due parti, e presso Andrea di Barbarano da due parti.
Poi una pezza di terra, che può essere di circa un campo, nelle pertinenze di
Toara, in contrada “Persegarola”, presso gli eredi del signor Antonio de Loschi,
presso Cristoforo di Barbarano; tali pezze sono tenute dagli eredi di Vaneto di
Toara e da Vincenzo Alberini di Barbarano, pagando tre libbre e due polli.
Poi una pezza arativa e zappativa, che può essere di un campo, nelle pertinenze di Villaga, in contrada di “Motis” (Motta), presso la via comune, presso i diritti di San Giovanni di Barbarano, presso gli eredi di Silvestro del Buso e di
Guidone de Godi, pagando la terza parte e la decima.
Poi un sedime con casa murata, cupata, aia e orto, che può essere di circa un
quartiere, posto nel paese di Villaga, in contrada “Mediavilla” (Mezzavilla), presso Cristoforo di Godi, presso lo Scaranto e presso la via comune di Villaga; per
la qual casa il rettore soprascritto della chiesa è tenuto a celebrare in
qualunque mese una messa per l’anima di Nicolò Taiarino.
Poi una pezza di terra zappativa con sette piedi di olivi, che può essere di circa
un campo e mezzo in dette pertinenze, in contrada di Nizon, presso gli eredi
del Buso, presso i diritti della Mansione, presso gli eredi di Paolo di Belvedere,
e forse presso altri, pagando sei soldi e la decima.
106
Da notare che alcune pezze sono state tralasciate perché ripetevano toponimi
di contrade e nomi di persone già noti.
Passiamo all’elenco delle terre soggette a decime 9 e quartesi 10 di cui riportiamo
soltanto i più interessanti.
Primo spetta e appartiene alla chiesa di San Michele di Villaga tutto il quartese
di Roncasii (Roncasso) nelle pertinenze di Villaga, presso Sjronem magnum (il
Siron grande), presso i diritti del Comune “de Celsano” (di Sossano).
Poi spetta e appartiene a detta chiesa metà del quartese di “Quarnientis”
(Quargente) in Belvedere in contrà di Quarnientis presso la via comune, da
due parti, presso “Gaibun Gordoni” (il canale Gordon) , presso il Siron grande.
Poi spetta e appartiene a questa chiesa la decima di una pezza di terra, parte
prativa e parte arativa, che può essere di circa trenta campi in dette pertinenze, in contrada Fontana Calda e Poigo, presso il canale Navilii (Naviglio), presso la via comune, presso gli eredi di Cristoforo di Godi; la proprietà è di detti
eredi, pagando la decima a detta chiesa.
Poi un sedime con casa murata e cupata, aia e orto, terra arativa piantata che
può essere di circa due campi in contrada Casalfardi, presso i diritti della
9 Ricordiamo che la decima, secondo l’antica legislazione ebraica, era la decima parte del raccolto che il contadino era tenuto a offrire alla tribù sacerdotale dei Leviti; analogo tributo che nel mondo romano i coltivatori
dell’agro pubblico dovevano allo Stato e che nel Medioevo era dovuto alla Chiesa (definizione tratta dal
Dizionario Garzanti 2003)
10 Il quartese era la quarta parte della decima.
107
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
Mansione da due parti, presso Marco Antonio Zoga, presso lo Scaranto della
fontana; la proprietà è di S. Giovanni, pagando la decima a detta chiesa.
Poi una pezza di terra, arativa e parte zappativa, che può essere di circa sei
campi in contrada San Silvestro, e Fontana, presso la chiesa di San Silvestro,
presso la via comune presso la fontana e il corso d’acqua della fontana, presso Nicolò Cerdone, pagando la decima a detta chiesa.
Poi una pezza di terra, piantata e arativa, che può essere di un campo in dette
pertinenze, in contrada San Silvestro, presso lo Scaranto, presso i diritti della
Mansione; proprietaria è la soprascritta mansione, pagando la decima a detta
chiesa.
Poi un sedime con casa murata e piccola teza di paglia, aia, orto e terra arativa che può essere di circa due campi in dette pertinenze, in contrada Noseo,
presso la via comune da due parti, presso il nobile uomo Battista di
Barbarano, presso lo Scaranto, presso Alberto di Godi; la proprietà è degli
eredi di Cristoforo di Godi che corrispondono la decima a detta chiesa.
Poi una pezza di terra, arativa e piantata, che può essere di tre campi in dette
pertinenze, in contrada di Bondanis (Bondine), presso la via comune da due
parti, presso i diritti della Chiesa Maggiore di Vicenza, presso gli eredi di
Guidone di Godi; la proprietà è degli eredi di Cristoforo di Godi che corrispondono la decima a detta chiesa.
Poi un sedime con casa murata e cupata, aia, orto e terra arativa piantata, che
può essere di due campi all’inizio del paese (di Villaga) presso la via comune,
presso Andrea di Barbarano, presso i diritti di Santa Maria del Duomo; la proprietà è di Ludovico de Traversi ed è tenuto da Matteo Ianuense che corrisponde la decima per metà.
Poi un sedime con casa murata e piccola teza murata, aia e orto, che può
essere di circa tre campi nella località predetta, presso la via comune da due
parti, presso Battista di Barbarano; la proprietà è del soprascritto Battista che
corrisponde la decima a detta chiesa.
Poi una pezza di terra, arativa e piantata, che può essere di cinque quartieri
in contrada “Pontis Bononie” (Ponte Bologna), presso la via comune da due
parti e presso Ludovico de Traversi; la proprietà è del soprascritto Ludovico
che corrisponde la decima.
Poi una pezza, arativa e piantata, che può essere di due campi in contrada
delle Oche, presso la via comune, presso i diritti della Mansione, presso gli
eredi Melchiorre di Godi, presso Giovanni Domenico del Neno; la proprietà è
di Nicolò Cerdone di Barbarano che paga la decima.
Poi una pezza di terra, arativa e piantata, che può essere di un campo e
mezzo in contrada della Vagina, presso la via comune, presso i diritti della
Santa Chiesa San Giovanni di Barbarano e presso i diritti di San Giorgio di
Toara, la proprietà è di Battista di Barbarano che corrisponde la decima.
Poi una pezza di terra, arativa e piantata, di due campi nelle pertinenze di
Belvedere in contrada “Frazucane”, presso i diritti dell’Episcopato da due
parti, presso Jacopo Carlo, presso la via consortiva; la proprietà è di Marco di
Belvedere che corrisponde la decima.
Poi una pezza di terra, zappativa con olivi, di tre quartieri in contrada di
“Pedegambaro”, presso Ludovico di Traversi, presso la via comune, presso gli
eredi del signor Francesco de Loschi; la proprietà è di Carlo di Belvedere che
corrisponde la decima.
Poi tre pezze di terra in detta contrada appartengono a Bernardo di Belvedere
che corrisponde la decima.
Poi una pezza di terra piantata, di cinque quartieri, nella contrada di San
Donato, presso i diritti di San Donato di Villaga, della cui proprietà è la
soprascritta chiesa di San Donato che corrisponde la decima.
Come si vede, il patromonio della chiesa consisteva soprattutto in beni immobili, cioè alcune case e appezzamenti situati in varie contrade. Molti erano dati
in affitto con la corresponsione annuale di una certa quantità di prodotti, più
spesso nella misura di un quarto o un terzo del raccolto, oppure la consegna di
staia o stara (unità di misura che corrispondeva a 27 litri circa) di frumento,
sorgo, biada. Talora invece è imposto il versamento di libre (una libra o lira valeva 20 soldi, un soldo 12 denari, chiamati anche piccoli), soldi, denari. Ma vi
erano anche le regalie: una gallina, due polli, una spalla di porco, ecc. Inoltre si
doveva corrispondere la decima.
Anno 1954: visita pastorale alla parrocchia di Villaga del Vescovo Zinato.
108
109
CAPITOLO SESTO
3. LE VISITE PASTORALI
Fonti attendibili e preziose da cui ricavare notizie riguardanti la chiesa e la vita
dei nostri paesi sono certamente le relazioni delle visite pastorali compiute dai
Vescovi alle nostre parrocchie. Dopo il Concilio di Trento, infatti, si consolidò
l’usanza delle visite pastorali dei vescovi nelle parrocchie della loro diocesi.
Pertanto la consultazione dei libri delle Visitationes ci ha permesso di
conoscere lo stato delle nostre chiese, degli arredi, la situazione religiosa e
morale delle nostre comunità, i comportamenti dei presbiteri che si sono avvicendati in quegli anni alla guida delle parrocchie.
La visita del 1530
La prima visita vescovile documentata alla chiesa di S. Michele di Villaga
avviene nel 1530 durante l’episcopato di mons. Nicola Rodolfi. In quel periodo era rettore delle chiese di Villaga e di Pozzolo (fino al 1564 la chiesa
di Pozzolo dipese da quella di Villaga) il presbitero Hieronimo de Bollis.
Il 6 ottobre 1530 l’Arcidiacono Pietro Alessandro, vicario generale, con
l’episcopo suffraganeo Michele Jorba, si reca a Villaga. La relazione 11 dice:
“Visitò la chiesa parrocchiale di S. Michele di Villaga della diocesi di Vicenza, la
collazione del quale spetta al Rev.mo Vescovo e della quale è rettore titolare il
presbitero Jeronimo de Bollis, che risiede. In questa chiesa c’è un altare del
Santissimo Corpo di Cristo, il quale sacramento è collocato in un tabernacolo
ligneo; nel quale vi sono i sacramenti, sotto chiave, con il suo lume mantenuto
dal Comune; c’è un fonte battesimale con la sua chiave, c’è anche il paramento
feriale con calice argenteo, messale e il libro dei sacramenti in papiro e, poiché è
conveniente, ci sono dei corporali pulitissimi e similmente tovaglie e salviette.
Poiché la chiesa è antica, abbisogna di riparazione del tetto, la qual cosa promise, a nome del Comune, un certo “Domenico di Antonio Marchei Sapiens” del
Comune, ed esattore, essendo stato dato al Vicario Signore predetto il tempo di
due mesi; entro Natale ci sia una pisside 12 d’argento da mettere nel tabernacolo di legno ed è necessario che sia chiusa l’entrata del cimitero con un graticcio
(cancello), perché non sia preda degli animali; le quali cose promise saranno
fatte a nome del Comune e poiché due finestre di detta chiesa sono senza ferri,
attraverso le quali la chiesa fu spogliata e la campana minore fu rotta, si esortò
a riparare, altrimenti si ordina di togliere le messe e di non seppellire in
cimitero.
Gli uomini di questo luogo, come riferisce il predetto presbitero, vivono cattolicamente, non sono blasfemi, nè sopravvive tra loro l’antica superstizione, e sono
tutti confermati e comunicati; le anime sono 200. Il beneficio ha un valore di
ducati 60”.
11 Arch. Parr. Barbarano, Prebenda, Decima, Documenti e liti, b. 5, fascicolo D, fogli 56r-57v.
12 La pisside è un oggetto sacro a forma di coppa con coperchio nel quale sono contenute le ostie consacrate.
110
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
Più tardi, nel 1542, avendo rinunciato Hieronimo de Bollis alla reggenza
delle due parrocchie, viene nominato rettore Benedictius de Bollis al quale
viene affidato il beneficio parrocchiale di entrambe le chiese. Il documento nominato: “Collatio Ecclesiae sub vocabolo Sancti Michaelis de Viraga una
cum Ecclesia Sancta Luciae de Pozzolo in personam D. Benedicti de Bollis” 13 si
sofferma sull’investitura di Benedetto de Bollis: “…Noi (il dottore e rev.
Roberto de Monti e il vescovo don Nicola Rodolfi) volendo fare speciale
grazia a te, in considerazione dei tuoi predetti meriti, detta chiesa parrocchiale
di S. Michele insieme alla chiesa di S. Lucia di Pozzolo, insieme con ogni giurisdizione dichiarata e sua pertinenza, diamo e assegnamo dando l’investitura a te
che ti sei costituito davanti a noi, inginocchiato e che chiedi umilmente e che
ricevi pure l’imposizione del berretto sul tuo capo… poiché tu sarai obbediente
al Rev. Cardinale vescovo vicentino e fedele ai suoi successori e a noi e obbedirai ai dovuti ordini dei nostri successori e niente di ciò che appartiene alle predette chiese alienerai ma manterrai i diritti di ciascuna e difenderai con giuramento quanto potrai i santi Evangeli”.
Ma due anni dopo, nel 1544, in seguito ad una nuova visita pastorale alla
chiesa di Villaga, il vicario generale Roberto de Monti constata che il
rettore Benedictus de Bollis non vi risiede. Vi dimora al suo posto il vecchio presbitero Hieronimus de Bollis, talmente cagionevole di salute che
raramente riesce a celebrare la messa. La relazione della visita pastorale
14
riporta quanto segue: “Il 15 ottobre 1544 Roberto de Monti visita la chiesa
parrocchiale di Villaga che è cappella della pieve di S. Maria di Barbarano, la
cui collazione spetta al rev. Vescovo vicentino e il valore è di ottanta ducati e
il cui rettore è Benedictus de Bollis, chierico borgomense che non risiede; al
suo posto vi è il presbitero Hieronimus de Bollis che è infermo e in cattive condizioni di salute al punto che raramente celebra la messa, a detta degli uomini del luogo e non è in grado di confessare gli infermi. Pertanto si rende necessario provvedere alla nomina di un sacerdote idoneo per la parrocchia”. Il
Vicario conclude la sua visita ordinando la sospensione “a divinis” del
rettore.
Nel 1561 altra visita pastorale 15 del Vicario generale che “visitò la chiesa,
la cui collazione spetta all’Ordinario ed è del valore di ducati centoventi pro
officio al rettore dei frati di Sant’Elena, disse l’infrascritto signor cappellano”.
13 Arch. Parr. Barbarano, Prebenda, Decima, Documenti e liti, b. 5, fascicolo B, ff. 39-41.
14 Arch. Parr. Barbarano, Prebenda, decima, documenti e liti, busta 5, fascicolo D, ff. 60-61-62
15 Arch. Parr. Barbarano, Prebenda, decima, documenti e liti, busta 5, fascicolo B, ff. 43-44-45-46
111
CAPITOLO SESTO
I frati olivetani alla guida della parrocchia
La storia della chiesa di Villaga è segnata dalla presenza dei monaci Olivetani
del monastero di S. Elena di Venezia per più di due secoli. Dal 1560, infatti,
papa Pio IV, con bolla pontificia del 31 marzo di quell’anno, aveva tolto al
vescovo di Vicenza la giurisdizione della chiesa di Villaga per affidarla all’abate
del monastero di Sant’Elena a cui spettava il beneficio parrocchiale.
Gli Olivetani costituivano una famiglia del grande ordine benedettino, fondata nel 1313 a Monte Oliveto Maggiore dal Beato Bernardo Tolomei.
L’approvazione definitiva di tale congregazione e la facoltà di fondare nuovi
monasteri furono concesse da papa Clemente IV nel 1344. Nel territorio delle
Repubblica di Venezia gli Olivetani eressero dodici monasteri, tra cui si distingueva quello di S. Elena a Venezia. A questo monastero vennero poi affidate
le parrocchie di Orgiano e di Villaga per motivi che rimangono ignoti. Per oltre
duecento anni, quindi, potè usufruire della presenza e del ministero dei monaci
olivetani i quali, ritenendosi esenti da ogni giurisdizione vescovile, per un certo
periodo di tempo (dal 1723 al 1769) non accolsero le visite pastorali dei vescovi
di Vicenza.
La chiesa di Villaga dipese dal monastero di Sant’Elena fino al 1770, anno in
cui il Senato della Repubblica Veneta sospese i monaci olivetani dall’esercizio
della cura parrocchiale, facendo quindi ritornare Villaga alla responsabilità dei
sacerdoti diocesani vicentini.16
Ritornando alla visita pastorale del 1561, il Vicario visita il Santissimo
Sacramento che trovò in vaso ligneo riposto in un arredo nel muro. Serve questa chiesa il signor presbitero Francesco da Colonia, a cui spetta un salario di
ducati dodici, 12 stari di frumento e mezzo plaustro di vino, annualmente.Vide
il fonte battesimale ben tenuto, con scodella di rame che ordinò fosse elevata
e coperta con vetro. La chiesa era abbastanza pulita, ben tenuta e ornata con
quattro altari ben muniti di tovaglie e altro necessario. Vide un calice con la
coppa argentea e una patena d’argento, poi due paramenti non molto buoni,
tre pianete, una di damasco, un’altra di seta rossa e un’altra di panno vivido e
ordinò di verificarle perché fossero in ordine per le festività di Natale.
Comandò poi di fare un’altra pianeta dignitosa per i giorni festivi con i suoi finimenti.
Il presbitero Francesco da Colonia disse di avere circa 70 anime da comunione
e che era presente in parrocchia uno che contrasse matrimonio in grave
proibizione, che non volle assolvere.
Il Vicario interrogò Antonio di Domenico di Villaga, decano, e Pietro Ferrario di
questo luogo, sulla persona e le qualità del presbitero e sulla sua cura.
Risposero che quel presbitero era un buon sacerdote e provvedeva bene alla
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
cura delle anime e dava soddisfazione agli uomini di detta villa (paese); osservavano poi che aveva in canonica una massaia d’età tra i 40 e i 50 anni, non
sospetta e che non dà scandalo.
Infine, il Vicario ordinò di riparare il tetto nei locali in cui pioveva e di recintare
il cimitero perchè non entrassero gli animali.
L’anno successivo, nel 1562, il chierico Alessandro Beraldo, a nome del nobile
Andrea Marcello, venne investito del beneficio parrocchiale di Villaga per volere di Simone de Preti, canonico di Pesaro, vicario generale del cardinale
Giulio Feltrio della Rovere. 17
La visita del vescovo Michele Priuli
Nel 1583, il vescovo Michele Priuli, continuando la sua visita pastorale, giunse
alla chiesa parrocchiale di Villaga; gli venne incontro il reverendo Maurizio,
della Congregazione di Monte Oliveto, che lo accolse sotto il baldacchino e lo
condusse verso la chiesa in processione. Entratovi, il vescovo fece l’adorazione
della croce e inginocchiato pregò davanti al SS.mo Sacramento; poi, rivolto al
popolo, tenne un sermone. Fatta la confessione generale, concesse ed elargì
misericordiosamente l’assoluzione e l’indulgenza di quaranta giorni. 18
Visitò il Santissimo Sacramento, riposto sopra l’altare maggiore in un tabernacolo ligneo. Passò in rassegna i vari arredi sacri e diede disposizioni sulla conservazione dei vasi ordinando di far riparare la patena e di rinnovare il messale
romano.
Il giorno seguente, il vescovo ritornò alla chiesa di Villaga e visitò di nuovo
l’altare maggiore intitolato a S. Michele, di marmo e non consacrato, e ordinò
di far dipingere una nuova pala d’altare. Visitò l’altare a lato del S. Rosario,
marmoreo non consacrato; dispose che fossero rinnovati i candelabri. Visitò
l’altare dell’altro lato, dedicato alla Gloriosa Vergine Maria, marmoreo non
consacrato; ordinò di provvedere a un nuovo quadro d’altare, di chiudere i fori
dietro l’altare e di fornirlo di nuovi candelabri.
Nel 1623 il Vicario Benedetto Romano si recò presso la chiesa di S. Michele di
Villaga, il cui curato era Giovanni Francesco Fasdio, monaco della congregazione olivetana. 19 Fatta l’orazione davanti al Santissimo Sacramento, il
Vicario iniziò la visita ispezionando l’altare maggiore sopra il quale era deposto il SS. Sacramento in un vaso d’argento posto in un tabernacolo ligneo
indorato ben tenuto e custodito; visitò poi l’altare del Santo Spirito e, in seguito, quello della Beata Vergine del Rosario, abbastanza ornato, e ordinò di rinnovare gli angeli.Vide il fonte battesimale ben custodito, osservò tutta la chiesa
e ordinò di sostituire i vetri delle finestre e di risistemare il tetto.
17 Arch. Parr. Barbarano, Prebenda, decima, documenti e liti, busta 5, fascicolo D, ff. 45-48
18 Arch. Curia Vesc. Vicenza, Visitationes, b.4 / 0556
19 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, Barbarano b. 19/A
16 La Diocesi di Vicenza, 1998, Villaga, pag. 552
112
113
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
Vide il cimitero e invitò a riparare il muro di cinta. Questa chiesa – si legge
nel documento – ha la confraternita denominata del SS. Sacramento che è
governata dai suoi custodi che annualmente sono rinnovati, secondo le leggi
canoniche.
due altari: quello del Rosario e quello dedicato a S. Antonio da Padova; in esso
vi era custodita la reliquia del santo ed era presente una “schola sub titulo S.
Antonii” (confraternita sotto il titolo di S. Antonio), formata da tredici confratelli, che provvedeva al mantenimento dell’altare, che più tardi, nel 1822, venne
dedicato a S. Giuseppe.
Il presule visitò poi il fonte battesimale, posto nella parte sinistra in un’edicola
costruita appositamente; osservò l’immagine di S. Giovanni Battista collocata
sopra il sacrario. Si soffermò successivamente in sacrestia per visionare le suppellettili sacre che trovò abbastanza in ordine e diede disposizioni per l’acquisto di un messale per le nuove messe dei santi. Quindi lodò l’operato del parroco e dei suoi cooperatori in merito all’insegnamento della dottrina cristiana.
La visita del 1645
Nel 1645, e precisamente il 21 maggio, avvenne una nuova visita pastorale alla
chiesa di Villaga da parte del Vicario generale Giuseppe Zaghio. 20 Dopo l’orazione, il prelato visitò il Santissimo Sacramento posto in una pisside d’argento abbastanza decente, collocata in un tabernacolo ligneo sull’altare maggiore
e ordinò di porre, in cima al tabernacolo, una croce o un crocifisso.
Visitò il fonte battesimale, vide i vasetti degli olii per i battezzati e ordinò di
conservarli in una cassettina di cuoio.
Visitò gli olii santi, custoditi in un contenitore dorato posto in una finestrella
del coro presso l’altare; ordinò che fosse foderata e chiusa con una porticina
munita di chiave. Vide un piccolo vaso d’argento, utilizzato per il sacramento
dell’estrema unzione, e ordinò di sistemarlo in una urna di cuoio. Vide poi un
piccolo vaso d’argento con cui si porta la comunione agli infermi e ordinò di
apporvi un cerchio intorno per impedire che ne uscissero frammenti.
Esiste in detta chiesa al confraternita del Santissimo Sacramento con capitoli
non ancora approvati; ordinò pertanto di rinnovarli e di farli approvare dall’ordinario. Esiste poi la confraternita del Santo Rosario con Bolla dell’indulgenza
che il Vicario riconobbe e approvò, per grazia dell’arcidiacono Trissino e di
Francesco Bonelli, canonico vicentino.
Interrogato il parroco Paolino Raimondo, monaco olivetano, così rispose:
“Sono stato posto qui come curato dall’abate di Sant’Elena di Venezia sotto la
giurisdizione della quale è questa chiesa. Ho un salario d’entrata e l’obbligo
però di corrispondere al monastero quello che è stato accordato; ma non intendo dargli cosa alcuna avendo appena di che vivere. Ho la mia facoltà della cura
sottoscritta dalla Vostra Reverendissima”.
La visita del 1790
Il 29 agosto 1790 il vescovo Marco Zaguri venne in visita alla parrocchia di
Villaga.21 Entrato in chiesa si accostò all’altare del SS.mo Sacramento e constatò che l’eucarestia era conservata in un nuovo ciborio di marmo elaborato
con eleganza e grazia, dentro una pisside argentea. L’altare maggiore, costruito in quegli anni ed impreziosito dallo splendido marmo di Carrara,
incontrò il favore del vescovo che lo apprezzò. Passò poi in rassegna gli altri
Le visite nell’800
Nell’800 la parrocchia di Villaga venne visitata dai vescovi: Giuseppe Maria
Peruzzi nel 1820, da Giovanni Antonio Farina nel 1871 e da Antonio Feruglio
nel 1899.
Nel 1820 la parrocchia di Villaga contava su 405 abitanti e 91 famiglie; le anime
da comunione erano 295, i cresimandi “pochi – precisa il parroco don Antonio
Broccardo – perché nel 1814 avevano ricevuto il sacramento della cresima 109
ragazzi”. 22
Nella relazione al vescovo il parroco, in merito al beneficio parrocchiale,
dichiara: “non ho il dovere di rendere conto perché pago pensione ben gravosa al
demanio sopra questo beneficio di ducati spicci 60; vi sono legati per messe e funzioni;
niente si riscuote per funzioni e le messe a soldi trenta”. 23
Interpellato sulla vita religiosa e morale, il parroco puntualizza:“Predico a questo
mio popolo ogni festa, insegno la dottrina, assisto i moribondi, non pratico alcuno,
vesto da prete, ubbidisco e pubblico tutti gli ordini che spedisce la cancelleria”. Il cappellano era don Clemente Chiumenti, da Monte di Malo, di anni 52, che il parroco giudica “sacerdote di pietà, di dottrina, di semplicità ecclesiastica, interviene
alla dottrina, studia la teologia”. 24
In riferimento ai fedeli, don Brocardo precisa che i non confessi sono otto e che
in generale i suoi popolani sono poco amanti della loro chiesa. Quanto ai libri
proibiti, egli afferma che pochi sanno leggere.25
Nella successiva visita del 1871 gli abitanti della parrocchia erano 557 mentre
le famiglie risultavano 125; le anime da comunione 386, i cresimandi 23. Il parroco era don Giacomo Valente, coadiuvato dal cappellano Paolo Simionati. I
servizi della vita religiosa erano regolari; il catechismo era svolto nei pomerig-
22 G. Mantese- E. Reato, La visita pastorale di Giuseppe Maria Peruzzi nella diocesi di Vicenza, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1972, pag. 189
23 Ibidem
24 Ibidem, pag. 190
25 Ibidem
20 Arch. Curia Vesc. Vicenza, Visitationes, b. 8 / 0560
21 Arch. Curia Vicenza, Visitationes, b. 20/572
114
115
CAPITOLO SESTO
gi delle giornate festive. Era attiva in parrocchia la congregazione
dell’Immacolato Cuore di Maria, affiliato a quella dei Carmini di Vicenza.
In merito ai fedeli, il parroco osservava che vi erano una ventina di non comunicati a Pasqua e due coniugati che non coabitavano. 26
Nella visita del 15 agosto 1899, gli abitanti erano saliti a 920, di cui 515 ammessi alla comunione. Sulle rendite della parrocchia, il parroco don Giuseppe
Faccin dichiara: “Lo stato attivo del beneficio si forma dai terreni che costituiscono il
beneficio stesso e dalla decima dovuta al beneficio medesimo. Dai campi divisi da
diversi appezzamenti ricevo L. 1162, dalla decima L. 500 circa che ora si paga in
denaro, per cui il totale si può calcolare di L. 1600. Le passività per tasse governative
ammontano a L. 500 e più, di guisa che il reddito è presso a poco L. 1000 annue. Sul
beneficio gravita anche l’onere di S. Messe dodici all’anno, che furono sempre celebrate”. 27 L’entrata annua delle questue e delle elemosine ammontava a L. 45
circa.
I fabbricieri a quel tempo erano: Maccà Gaetano, Dal Toso Mosè e Conti
Giovanni. Sulla fabbriceria il parroco precisa che “non ha nè crediti nè debiti; a
seconda delle rendite tutte incerte, si spende. Le fonti di rendita sono le questue e le
offerte della popolazione”. 28
In merito alla vita religiosa e morale, la predicazione e istruzione religiosa ai
fanciulli e agli adulti è tenuta dal parroco nel pomeriggio delle domeniche. 29
“Il vescovo Feruglio – annota don Faccin – nell’occasione della visita pastorale cresima 94 fanciulli di Villaga. Lode a Dio che trovò (e sono parole sue) i fanciulli e le
fanciulle molto ben istruiti nel catechismo e la chiesa ben tenuta per pulizia e addobbamenti”. 30
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
La Chiesa parrocchiale di Villaga dedicata a San Michele Arcangelo, costruita nella seconda metà del ‘700.
La visita del 1915
Il 13 settembre 1915 venne in visita pastorale alla parrocchia di S. Michele
Arcangelo il vescovo Ferdinando Rodolfi, accolto dal parroco don Domenico
Ferronato. Alcuni giorni dopo la visita, il vescovo fece recapitare al parroco la
seguente lettera: 31 “Abbiamo compiuto la sacra visita pastorale alla parrocchia di
Villaga…e con grande conforto del nostro cuore, manifestiamo la compiacenza di
avervi trovato una popolazione dalla fede profonda e sinceramente professata, devota
alla chiesa ed al suo parroco.
La devota accoglienza preparataci, la frequenza ai santi sacramenti e l’attenzione
prestata alla nostra parola, ci assicurano che questo popolo vorrà costantemente dar
prova della sua fedeltà alla nostra santa religione.
26 G. A. Cisotto, La visita pastorale di Giovanni Antonio farina nella diocesi di Vicenza, Ed. Storia e letteratura,
pagg. 394-395
27 La visita pastorale di Antonio Feruglio nella diocesi di Vicenza, Roma 1985, pagg. 375-376
28 Ibidem
29 Ibidem
30 Arch. Parr. Villaga, Registro Cresimati a. 1899
31 Arch. Parr. Villaga, fascicolo Visita pastorale Rodolfi
116
Particolare del portale di ingresso della Chiesa sormontato da una lapide indicante l’anno di erezione della Chiesa.
117
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
I ricordi da noi dati prima di accomiatarci, li ripetiamo qui, nel desiderio che essi
formino la costante tradizione della parrocchia: si faccia ogni sacrificio perché tutti i
figlioli possano frequentare con esattezza e profitto le loro scuole della Dottrina
Cristiana, e diano il buon esempio gli adulti assistendo ogni festa alla spiegazione del
catechismo; fra tutti poi si conservi sempre il precetto della carità di N. S. Gesù
Cristo, e scenderanno copiose le benedizioni del Signore, come noi di cuore, sul parroco e sui fedeli invochiamo”.
di Villaga per esaminare e rllevare molte fatture occorrenti e necessarie ad ultimazione della sua Chiesa parochiale titolatta di S. Michele Arcangelo sogietta al Ius
Patronato del Serenissimo Principe…ho rilevato quanto segue.
Primo. Ritrovandosi la sudetta chiesa nel suo interno ridotta, e stabilità, con elegante
proporzione, e suficientemente ornata, ma mancante di faciata servendo alla stessa la
faciata vechia, la quale alquanto più bassa della nova chiesa viene tenuta malamente
difesa da tavole di legno è però esposta à danni et alle intemperie, ad eseguire
adunque la stessa nella sua totalità in ordine al mio dissegno rileva la spesa…L
5270.
Secondo. Per il soffitto interno della chiesa eseguito a finto volto di arelle, o cantinelle
disobligato dal coperto, con sue cadene al sustentamento di detto soffitto; il tutto liscio con le sue lunette alle finestre…risulta la spesa di materiali e fatture…in ducati
corenti n° 550: sono L. 3410”.35
Nel terzo punto, Fontana proponeva di non restaurare il vecchio campanile,
poiché era cadente, ma di “farlo novo dirimpetto alla chiesa a parte mattina ”.36
4. LA CHIESA ATTUALE
L’attuale chiesa venne eretta nel 1764, anno in cui risale la licenza concessa
dalla Curia vescovile di Vicenza al “M. Rev. P. d. Cesare Finozzi di benedire la
chiesa nuovamente rifabbricata”.32 La nuova chiesa era sorta sul luogo della
cadente vecchia parrocchiale, che esisteva da diversi secoli.
Al padre Finozzi va quindi il merito di aver portato a buon fine la costruzione
della nuova parrocchiale. A conferma di ciò è una lettera inviata al vescovo
Antonio Marino Priuli al quale comunicava la “lieta nuova di havere ultimato la
fabrica di questa parochiale, ne altro vi manca al total suo compimento, che il Coro,
quale a Dio piacendo si farà a miglior stagione”.33 In realtà, alla nuova chiesa, oltre
al Coro mancavano la facciata e il soffitto interno.
Più tardi, nel 1794, il Comune di Villaga inviò una supplica al Doge di Venezia
in cui si chiedevano sussidi per completare i lavori: “Serenissimo Principe, altre
volte il povero Comune di Villaga…accorse ai piedi dell’adorato suo principe per
ottenere soccorso alla Fabbrica della propria chiesa intitolata di S. Michele Arcangelo
annessa al venerando Monastero di S. Elena in Isola, e perciò soggetta al
Iuspatronato Reggio della Serenità Vostra, ch’era resa cadente, ed ottenne le caritatevoli assistenze, che risultano dalli due favorevoli decreti 18 gienaro 1763 e dal 15
settembre 1764; col mezo delle quali unindosi anche tuti quei aiuti, che tanto in publico, che in privato ha potuto prestare detto Comune, sortì allo stesso di veder innalzato il nuovo tempio d’Iddio. Mancano in presente a total compimento dell’opera…
tanto necessaria à quella popolazione varie fature raccolte nel fabisogno 24 maggio
1794 dal pubblico perito ed ingegnere Giacomo Fontana, che si rasegna, non tanto
ocorrenti all’abbellimento, chè indispensabili alla conservazione di quanto si è operato fin ora”.34
All’ing. Giacomo Fontana venne affidato il compito – da parte dell’allora parroco don Antonio Brocardo – di condurre i lavori di completamento della
chiesa. Egli preparò il disegno della nuova facciata e relazionò sul fabbisogno
necessario. In un suo scritto del 24 maggio 1794 egli riporta quanto segue:
“Richiamato io sottoscritto Proto Murer e Pubblico Perito ingegner dalli sig.ri Pietro
Veronese q.m Bortolo e Batta Mazaron q.m Domenico attuali Governatori del Comun
32 Arch. Curia Vicenza, Diversorum, b. 18
33 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, b. 330
34 Arch. Parr. Villaga, Fascicolo: Per il Reverendo paroco di S. Michiel di Villaga, anno 1790… foglio sciolto
118
Statua acroteriale raffigurante San Michele Arcangelo, posta sopra il timpano della facciata della Chiesa.
35 M. Saccardo, Notizie d’arte, anno 1981, pagg. 511-512
36 Ibidem, pag. 511
119
CAPITOLO SESTO
Il suo consiglio verrà recepito verso la metà dell’800, quando il parroco don Vito
Canale provvide alla costruzione del nuovo campanile.
Intanto si attuarono i lavori di erezione della nuova facciata, di restauro del
vecchio campanile e delle mura del cimitero, che stava attorno alla chiesa, ai
quali concorse anche il Comune di Villaga con lire 372 erogate dall’esattore del
Comune Gaetano Trulla.37
Nel 1797 tali lavori furono terminati. Il Maccà, in proposito, scrive: “La chiesa
parrocchiale di Villaga…fu ultimamente riedificata in assai più bella forma con tre
altari. L’altar maggiore ha un vago tabernacolo di marmo carrarese…Presentemente
viene uficiata da un rettore e da un cappellano".38
Un secolo dopo, nel 1899, don Faccin scriveva: “Si sa che il soffitto della chiesa e
il campanile furono fatti dal parroco don Vito Canale morto il 7 agosto 1846; che il
pavimento della chiesa, chiamato Terrazzo, e le tre campane furono fatte da don
Giacomo Valente. Gli altari sono tre: nel mezzo l’altare del coro con un ricco tabernacolo di marmo di Carrara e a destra della chiesa vi è l’altare dedicato a S. Giuseppe;
a sinistra di chi entra nella chiesa vi è l’altare dedicato alla Madonna del Rosario.
Questo è privilegiato perché vi è eretta canonicamente la Confraternita del Santo
Rosario”. 39
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
5. DESCRIZIONE DELLA CHIESA
La facciata
La chiesa, che è tra le più armoniose del
Vicentino, presenta una facciata rivolta ad
oriente, caratterizzata da quattro lesene che
terminano con capitelli di stile corinzio; la
parte superiore è contraddistinta da un
ampio frontone sopra il quale sono collocate tre statue acroteriali della fine del
Settecento, il cui autore è il valente scultore
Giovanni Bendazzoli. Esse raffigurano: al
centro S. Michele Arcangelo che impugna
la lancia e con essa trafigge una figura
demoniaca; sulla destra S. Giovanni evangelista, riconoscibile dal calice che regge in
mano; sulla destra S.Caterina da Siena che
indossa la veste domenicana. Le tre statue,
secondo lo studioso Mario Saccardo, 40 risalLa pala di Cristoforo Menarola raffigurante San
gono allo stesso anno dell’erezione della Michele Arcangelo con in primo piano i Santi
facciata (1797) ed esteticamente vanno Caterina da Siena e San Giovanni evangelista.
considerate di buona fattura.
Il portale è sormontato da un piccolo timpano entro il quale è scolpito il busto del Padre Eterno che regge con la mano
sinistra il globo, mentre l’altra mano è sollevata in atteggiamento benedicente.
Al centro della facciata è presente una lapide di forma rettangolare che riporta
la seguente iscrizione: DOM / DIVOQUE MICHAELI ARCHANGELO /
COELESTIS MILITIAE PRINCIPI / DICATUM / ANNO MDCCXCVII; la lapide ricorda l’anno di conclusione dei lavori di edificazione della nuova facciata
(1797).
L’ altare Maggiore
Chiesa parrocchiale di Villaga: il presbiterio con l’altare maggiore e sullo sfondo la pala di San Michele Arcangelo.
37 Arch. Parr. Villaga, Fascicolo: Per il Reverendo paroco…, foglio sciolto
38 G. Maccà, Storia del territorio vicentino, tomo IV, pag. 341
39 Arch. Curia Vicenza, Stato delle chiese, b. 330, Notizie prima della visita pastorale Feruglio
120
Nell’interno, ad un'unica navata, vi sono tre altari. L’altare maggiore, in marmo
bianco e rosso di Carrara, dedicato a S. Michele Arcangelo, è composto da un
paliotto rettangolare delimitato lateralmente da due pilastrini con specchiature
in marmo, mentre al centro è presente un motivo decorativo incorniciato da
marmo bianco. Sopra la mensa poggiano due gradini che fungono da basamento per il tabernacolo a tempietto che si conclude con una cupola ad ele-
40 M. Saccardo, Opere d’arte nella parrocchiale di Villaga, in Realtà Vicentina, marzo 2003, pag. 39
121
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
menti sovrapposti, abbellita da una statuetta in marmo bianco raffigurante il
Cristo benedicente. Questo altare era già presente nel 1790, quando il 29 agosto,
il vescovo Zaguri fece visita alla chiesa (nella relazione pastorale si legge…“recenter eleganterque extructum”, cioè costruito di recente e in forma elegante).41
La Pala di S. Michele Arcangelo
Dietro l’altare si ammira la pala centinata raffigurante S. Michele Arcangelo
vestito da soldato e dotato di grandi ali, contornato da un nugolo di nubi e
cherubini, che trafigge con una lancia il demonio. In basso, a sinistra, appare S.
Caterina da Siena in piedi su un piedistallo, vestita nel consueto abito domenicano, che regge un giglio e un crocifisso. Alla sua destra vi è S. Giovanni evangelista, anch’egli sul piedistallo, vestito con una tunica e un mantello, che regge
un calice e un libro chiuso. In mezzo ai due santi si apre un paesaggio con valle
e monti (secondo Antonio Verlato, si tratta proprio dell’ambiente di Villaga),
con nubi sovrastanti. L’opera è datata e firmata: “Cristofano Manarola fecce
1693”. Questo dipinto – osserva Katia Perana - 42 è forse il più antico finora conosciuto di Cristoforo Menarola (Bassano del Grappa, 1657 – Vicenza, 1731), pittore
apprezzabile e molto prolifico, cresciuto presso la bottega di Giovanni Battista
Volpato…Nel quadro di Villaga, molte caratteristiche fisionomiche dei volti dei santi,
le ali di S. Michele e le teste dei cherubini sono derivate dall’insegnamento di Volpato
e si confrontano, in particolare, col le sue opere feltrine. Manarola elabora le figure
seguendo modalità semplici e lineari, stendendo colori vibranti nelle vesti e marcando i volti con toni cupi, venati da accenti di rosa. Il dipinto è stato restaurato nel 2003
da Raffaello Peotta ed è ritornato alla originaria nitidezza di colori.
L’altare della Madonna del Rosario
Altare della Madonna del Rosario.
Nella parete sinistra della navata si trova l’altare
dedicato alla Madonna del Rosario, eretto nel 1770,
come riferito dalla lapide appostavi: DOM /
AT.Q.B.V. PATRONA ROSARII / CVRANTE BART.
VERONESE D.D. / ANNO MDCCLXX. L’iscrizione
fa riferimento ad un certo Bartolomeo Veronese, che
a quel tempo era il massaro della confraternita del
Rosario, che istituì l’altare e poi lo curò nel corso
degli anni.
L’altare è costituito da un paliotto rettangolare
delimitato ai lati da due volute, sopra il quale è colStatua di Sant’Anna.
41 Arch. Curia Vicenza, Visitationes, b. 20/0572
42 K. Perana, Una pala di Cristoforo Menarola raffigurante S. Michele Arcangelo, Catalogo Beni Culturali -Voce
dei Berici, pag. 21
122
Grande dipinto raffigurante l’Ultima Cena.
123
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
locato il tabernacolo; vi è poi il dossale con arco centinato al centro e una coppia di colonne in marmo rosso alle estremità. Nella nicchia si trovava fino al
1940 una statua della Beata Vergine, rivestita di indumenti. “La statua – è annotato in un inventario parrocchiale - 43 venne sostituita nel 1940 con una bella statua in legno, fattura Ortisei, donata dalla famiglia Piovan di Villaga”. La scultura
raffigura laVergine che tiene il Bambino Gesù in braccio e nella mano destra
stringe il Rosario. Il Bambino alza la mano destra in segno di benedizione.
altare – precisa lo studioso Saccardo – ne esisteva un altro, dedicato a S.
Antonio da Padova, che aveva una pala dello Spirito Santo ed era fornito
della statua di S. Antonio, ora inserita in una nicchia nella parete sinistra
della chiesa. 44 Ed aggiunge che questo altare appare l’insieme di vari elementi barocchi non bene armonizzati tra loro (probabilmente provenienti
dal vecchio altare di S. Antonio), con l’innesto di altri elementi lapidei e
marmorei.45
Nella nicchia è presente la statua di S. Giuseppe, in legno intagliato e dipinto, di bottega veneta, risalente all’inizio dell’800. Il santo è ritratto con
una veste blu coperta da un manto rosso, con i capelli lunghi, la barba folta
e marcate sopracciglia.
L’altare di S. Giuseppe
Sulla parete destra, di fronte a quello della Madonna, si erge l’altare di S.
Giuseppe, datato 1822, in pietra e marmo, con paliotto rettangolare decorato a
specchiature rosse e grigie. Il dossale evidenzia una nicchia centinata al centro,
affiancata da due piccole colonne in marmo rosso di Asiago. Prima di questo
Gli affreschi del soffitto
Il soffitto della navata è adornato da quattro dipinti murali ottocenteschi, in
buono stato di conservazione, che rappresentano, partendo dal fondo della
chiesa: l’annunciazione, l’incoronazione della Vergine, l’adorazione dei
Magi, la Fede; tutti e quattro gli affreschi sembrano appartenere allo stesso
autore, Giuseppe Pupin, pittore scledense, molto attivo nella nostra zona
nella seconda metà dell’Ottocento.
Il dipinto dell’Ultima Cena
Altare di San Giuseppe.
Sopra la bussola d’ingresso è collocata una grande tela raffigurante l’Ultima
Cena. Nella visita pastorale del vescovo Onisto, nel 1976, il dipinto venne
assegnato ad Alessandro Maganza e datato al 1580 circa. Tuttavia l’attribuzione
al Maganza è controversa. Il quadro non veniva citato nell’inventario parrocchiale del 1937, pertanto è stato acquisito in tempi abbastanza recenti.
Dell’opera pittorica dà notizia don Ezio Aste, quando nel 1969 si procedette al
suo restauro. Il dipinto raffigura una grande tavola imbandita attorno alla quale
siedono gli apostoli e al centro sta il Cristo con le braccia allargate mentre parla
ai commensali.
Completano l’interno della chiesa due acquasantiere a fusto in marmo rosso di
Asiago, di bottega veneta, datate alla fine del Settecento; un’acquasantiera a
muro in marmo rosso della metà dell’800; la statua in legno intagliato e dipinto di S. Anna, custodita in una nicchia sulla parete sinistra della chiesa; una Via
Crucis in terracotta dipinta, di ambito vicentino, risalente al primo Novecento;
l’insieme di due stalli del presbiterio in legno intagliato, di bottega veneta, di
fine ‘700.
In sacrestia merita una menzione lo splendido mobile in legno intarsiato
43 Arch. Parr. Villaga, Inventario e registro dello stato patrimoniale della chiesa di S. Michele Arcangelo in
Villaga dal 31 dicembre 1929 al 15 maggio 1937
44 M. Saccardo, Opere d’arte nella parrocchiale di Villaga, pag. 39
45 Ibidem
124
125
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
sul quale sono presenti quattro formelle lignee raffiguranti i santi Michele
Arcangelo, Anna, Giuseppe e Antonio da Padova. Il manufatto, che denota la mano di un qualificato intagliatore, risale alla seconda metà del ‘700.
Tra gli oggetti più significativi appartenenti alla chiesa segnaliamo: due
reliquiari in argento sbalzato, della seconda metà del ‘700; una pisside in
argento sbalzato degli inizi del ‘700; una croce astile in ottone bulinato, del
‘600; un ostensorio raggiato, in argento, degli inizi dell’800; una pianeta a
manipolo con decorazione, della prima metà del ‘700; un’altra pianeta con
stola e busta ricamati con motivi floreali, di fine ‘700; una terza pianeta in
velluto di seta nera broccato, della metà del ‘700; gli stendardi di S. Luigi
Gonzaga, della Madonna Incoronata e del Sacro Cuore di Gesù.
Il campanile
Davanti alla facciata della chiesa si apre il
sagrato, recinto da una ringhiera in ferro;
al centro, in asse con la porta maggiore
sono disposti tre gradini affiancati da due
alti piedistalli sopra i quali sono posti due
angeli barocchi, restaurati da qualche
anno, e probabilmente appartenuti alla
vecchia chiesa. Di fianco alla chiesa, sulla
parte destra, si eleva il campanile, alto 27
metri, fatto costruire tra il 1835 e il 1847 dal
parroco don Vito Canale. Le prime tre
campane, fuse dalla ditta Cavadini di
Verona, furono sistemate nella cella campanaria nell’anno 1850; 46 più tardi, nel
1946, se ne aggiunsero altre due, fornite
dalla ditta Colbacchini di Padova. Alla
quinta campana, per volere di don Tito
Meneguzzo, fu apposta la dicitura: “Milites
crudeli ac maximo bello 1940-1945, composito B. Mariae V: ad Nives grati, Regina
pacis, ora pro nobis”.47 Il sacro bronzo
venne quindi dedicato alla Madonna della
Neve per le grazie ricevute durante il secondo conflitto mondiale.
Il campanile della Chiesa parrocchiale.
46 Arch. Parr. Villaga, Inventario e registro dello stato patrimoniale della chiesa di S. Michele Arcangelo in
Villaga
47 Arch. Parr. Villaga, foglio volante datato 30 novembre 1945
126
6. LA CANONICA
Verso la fine del ‘700, oltre ai lavori di costruzione della nuova chiesa, si dovette
affrontare anche il problema della sistemazione della canonica che si trovava in
preoccupante stato di degrado.
Un certo Batta Dalla Rosa, muratore, il 16 dicembre 1789 dichiarava per iscritto quanto segue: “Atesto io sottoscritto con mio giuramento che la canonica di
Villaga è in precipizio e, se in breve non vengono fatti li coperti cadono giù, sichè io
consiglio il parocho a slogiare, a ritirarsi in altra casa se non volle restare sotto le
rovine”.48
Poiché la parrocchia di Villaga, fin dal 1560, per decreto del Pontefice PioIV, era
passata sotto il controllo dei padri Olivetani del monastero di Sant’Elena in
Isola di Venezia, questi ultimi chiesero al Comune di Villaga di concorrere alle
spese per il restauro della canonica.
Il 20 dicembre 1789, nella Casa del Comune, si riunì la generale Vicinia del solo
Colonnato di Villaga, presieduta da Francesco Gastaldello, degan. Erano presenti: Giacomo Mazzaron, Antonio Mazzaron, Francesco Dalla Rosa,
Francesco Borinato, Santo Dalla Libera, Bernardin Rossi, Francesco da Soghe,
Zuanne Maran, Antonio Fattore, Sebastian Dal Toso, Michiel Beggio, Pace
Cappa, Domenico Cappa, Antonio Donatello, Alessandro Orso, Zuanne
Soster, Francesco Troncon, Zuanne Rappo, Carlo Bellin, Nicolò Mattiello,
Zuanne Rossetto, Pietro Garbugio, Giacomo Zanin, Agostin Montan,
Domenico Riello, Francesco Roetta, Antonio Rodda, Batta Borinato, Mattio
Panizzolo, Bortolo Brunello, Basilico Fattore, Leopoldo Mambrin, Santo Cappa,
Iseppo Gottardo, Batta Dalla Rosa, Mattio di Signori, Francesco Fattore e
Domenico Garbugio.
Dopo il suono della campana fu esposto quanto segue: “ Professano il reverendo Monastero di S. Elena in Isola di Venezia e il rev.o arciprete di questa chiesa
parrochiale (don Antonio Brocardo), che a questo Comun sia incombente il restauro della canonica abitata dal sig. arciprete; ma non avendo mai il Comun concorso a spesa alcuna di restauri nella canonica; che furono sempre fatti da detto
Monastero Iuspatronato del beneficio parrocchiale, da cui ritrae annualmente
ducati sessanta correnti, credono li nostri Governatori col sentimento anche delli
difensori del Comun di non dover accordare di corrispondere somma alcuna per
restauri.
Per proceder però con ogni possibile cautela, li Governatori medesimi assoggettano
alli nostri voti il presente affare e perciò vi propongono di opporsi alla pretesa dei
restauri nella canonica..
Il che mandata alla votazione nel bossolo bianco che dice di sì per la opposizione
dei restauri trovassi: voti 40; nel bossolo rosso che dice no: voti 0”. 49
48 Arch. Parr. Villaga, Fascicolo: Per il Reverendo paroco…, foglio volante n. 6
49 Arch. Parr. Villaga, Fascicolo: Per il Reverendo paroco…, due fogli sparsi
127
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
Pertanto la General Vicinia si espresse all’unanimità per non contribuire al
restauro della canonica, sostenuta anche da una dichiarazione del vecchio
parroco, l’abate Giuseppe Finozzi, datata 16 febbraio 1789, il quale
osservò che “quando cadette il coperto di tutto il granaro e sfondato altresì il
pavimento con rovina tottale di tutto il fromento, e fracassato altresì due botti
di vino… La suddetta rovina fu rilevante ed il Rev.do Monastero di S. Elena
diede ordine a me, che lo riparassi, e quando dovetti pagarlo non potei ottenere
che soli ducati sessanta, dico 60, sebene la spesa fosse stata di 120, altro non ha
voluto somministrarmi, ma il Comun niente affatto ha concorso per il sopraddetto restauro”. 50
L’anno seguente, nel 1790, la canonica venne visitata dal Procuratore del
monastero di S. Elena; poi si giunse ad un accordo tra quest’ultimo e l’arciprete di Villaga. Il Monastero si impegnava a non richiedere più il canone
annuo di 60 ducati per gli anni necessari a rifondere la spesa a carico della
parrocchia che doveva pertanto provvedere alla ristrutturazione della
canonica.
Il documento, sottoscritto il 17 aprile 1790, riporta: 51
“1- Visitata nello scorso marzo 1790 la Canonica di Villaga… e riconosciuta la
necessità d’un pronto restauro della suddetta canonica et adiacenze, accorda il
R.mo Abate l’attual Cellerario e Procuratore, e tutto il Capitolo dei R.R. Monaci
Olivetani di Sant’Elena di Venezia, di rinonciare, ed anzi ipso facto cede e rinoncia al R. Antonio Brocardo arciprete di Villaga la pensione di ducati sessanta
correnti che esso Arciprete paga annnualmente al suddetto Venerando
Monastero, perché sia impiegata nel restauro della canonica ed adiacenze della
medesima e ciò per il corso di soli tanti anni, quanti si ricercaranno per compier l’opera de necessari, convenienti restauri.
2 - Il suddetto Arciprete d. Antonio Brocardo si obbliga ed assume l’impegno di
far seguire li restauri, come sopra con tutta la integrità e fedeltà e con la dovuta economia e di tenere il più esatto registro di tutto lo speso per rassegnare il
registro e le Polizze al Venerando Monastero ad ogni richiesta.
3 - Poiché lo stato rovinoso della canonica ed adiacenze può ricercare la pronta
spesa in una sol volta di somma assai maggiore di ducati sessanta, perciò si obbliga il Venerando Monastero nel caso della morte (che Dio nol voglia) del detto
Arciprete Antonio Brocardo, o nel caso di rinoncia al beneficio, ed in altri accidenti di tal genere, a rimborsare gli eredi dello stesso arciprete ovvero lo stesso d.
Antonio Brocardo delle spese incontrate oltre la somma delle scadute pensioni, e
rilevate dalla presentazione delle polizze e de'’giornalieri, fedeli registri”.
La scrittura privata si chiude con le firme dei rappresentanti del Monastero
Olivetano e del parroco di Villaga Brocardo; ma vi è poi una nota a fianco
che dice testualmente: “Intendendo tanto il Procuratore Abate quanto il 1°
punto che non abbino d’essere fatte cose voluttuose per la canonica e sue adiacenze, e senza niuno accrescimento di nuova fabrica, ma restringersi al puro necessario”. Verrebbe da dire: A buon intenditor poche parole!
La canonica venne quindi restaurata dalla parrocchia ed ospitò i parroci di
Villaga fino al 1936, anno in cui venne edificato un nuovo edificio per ordine
dell’amministrazione demaniale, a mezzo del Genio Civile di Vicenza.
Occorre precisare che nell’anno 1817 le proprietà parrocchiali dei monaci
olivetani vennero indemaniate e quindi anche i fabbricati (chiesa e canonica)
furono riconosciuti di proprietà del Regio Demanio, rimanendo usufruttuario
il parroco pro tempore.
In base a questa posizione giuridica, il parroco don Tito Meneguzzo, dopo il
suo ingresso in parrocchia nel 1934, avendo constatata l’urgenza di
provvedere alla riparazione e generale sistemazione della canonica che
trovava cadente, malsana e insufficiente negli spazi, rivolse urgente reclamo
al Regio Demanio che, nel 1935, intervenne con lavori di consolidamento
della struttura; poi, nel 1936 il parroco riuscì a ottenere la completa
demolizione del fabbricato e la sua ricostruzione per una spesa di L. 52.000,
concesse dal Ministero dei lavori pubblici.
7. IL CIMITERO
Nell’Alto Medioevo, con il sorgere e l’organizzarsi delle diocesi e delle varie
parrocchie, la sepoltura accanto alla chiesa fu sempre ritenuta un ambito privilegio. “Indubbiamente la sepoltura accanto alla chiesa parrocchiale – osserva lo
studioso Pendin – 52 era il fatto più comune perché in questo modo i fedeli ogni
domenica, recandosi alle cerimonie liturgiche, avevano la possibilità di sostare accanto ai loro cari, pregare per loro, invocare per la loro intercessione la protezione di Dio
sulle proprie famiglie”.
Già nel tardo Medioevo, quindi, sorsero attorno alle chiese di Villaga, di Toara
e di Belvedere i cimiteri, testimoniati nei libri canonici dei morti e nelle visite
pastorali dei vescovi che si soffermavano in questi luoghi per impartire l’assoluzione alle anime dei defunti.
I cimiteri rimasero quasi ovunque attorno alle chiese fino al 1806, anno in cui
venne promulgato l’editto napoleonico di Saint Cloud che imponeva di
trasportare tutti i luoghi di sepoltura fuori dai centri abitati.
A Villaga non ci fu bisogno dell’entrata in vigore di questo provvedimento.
Dieci anni prima, infatti, nel 1796, era già stato costruito il nuovo cimitero, dove
si trova attualmente, lungo la strada collinare che conduce al Castello e poi a
Barbarano. Il 7 febbraio di quell’anno il parroco don Brocardo aveva benedetto il nuovo camposanto; tra le prime salme inumate nel nuovo cimitero vi fu
52 G. Pendin, Cronache d’altri tempi, in Castegnero, dalle origini ai nostri giorni, Amministrazione comunale
di Castegnero, pag. 107
53 Arch. Parr. Villaga, Libro dei morti 1760-1827
50 Ibidem, foglio sparso
51 Ibidem, foglio sparso
128
129
CAPITOLO SESTO
quella di Angela, di anni 45, moglie di Giobatta Mazzaron.53
Cento anni dopo, nel 1895, il cimitero fu rinnovato in modo significativo. Don
Faccin scrive in proposito: “Franchin Domenico fu il primo sepolto dopo il radicale
restauro fatto nel cimitero appartenente a Villaga. Questo restauro consistè nel rendere
atto il terreno al seppellimento, passando tutto il terreno alla profondità delle sepolture
ed espurgandolo dai sassi e dai cengi a forza di mine e di leve, massi che impedivano a
tanti luoghi il seppellimento. Superato questo lavoro faticoso, si mise a livello il terreno,
si formarono i viali fiancati di profili di pietra e tutto gratuitamente per opera dei parrocchiani di Villaga eccitati ed incoraggiati e diretti da parroco. Il Comune contribuì nella
posa dei profili di pietra e della ghiaia, condizione stabilita dal parroco prima di
assumersi tale impegno”. 54
Del cimitero di Toara abbiamo una nota del parroco don Pietro Castelli il quale
riporta che 55 “nel 1810, per ordine pubblico fu ingrandito questo cimitero e fu benedetto l’11 aprile 1811 dall’arciprete vicario foraneo di Barbarano don Bortolo Rasia Dani”.
Tale affermazione ci fa capire che il cimitero già da tempo si trovava nell’area
attuale, quindi fuori dall’abitato.
Per il cimitero di Belvedere, invece, si dovette attendere l’anno 1965, quando, dopo
accese discussioni in Consiglio comunale, si giunse alla decisione di farlo erigere
a sud del paese, nel terreno di Crivellaro Virginio.
8. CRONOLOGIA DEI PARROCI DI VILLAGA NEL CORSO
DEI SECOLI
1297
1420
1424
1425
1428
1428
1466
1492
1522
1529
1530-1542
1542
1562
1564
1581
1584
1587
1588
Artuxius (Artusio)
Alessandro di Parma
Giovanni di Montefalco
Jacopo di Ferrara
Nicolò da Drivasto
Andrea de Noctiano
Jacopo di Monte di Marchia
Bartolomeo di Barbarano
Hieronimo da Bergamo
Benedictus de Bollis
Hieronimus de Bollis
Bendictus de Bollis (seconda investitura)
Alessandro Baraldo
Bernardin Restello
Gabriele da Padova
Michiele da Padova
Gabriele Garro da Padova
Cornelio Catto da Rovigo
54 Arch. Parr. Villaga, Registro dei morti, 1880- 1910
55 Arch. Parr. Toara, Libro dei nati, dei matrimoni e dei morti, 1798-1831
130
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
1608
1623
1637
1645
1646
1679-1697
1698-1711
1711-1712
1712-1720
1720-1723
1723-1756
1756-1769
1769-1770
1770-1787
1787-1828
1728-1834
1834-1847
1848-1875
1875-1878
1878-1879
1879-1909
1909-1911
1911-1934
1934-1946
1946-1980
1980-1984
1984-1991
1991-1993
1993-1997
1997-2006
Dal 1-10-2006
Michelangelo Molino
Giovanni Francesco Fasdio
Cristoforo Pezze
Paolino Raimondo
Vincenzo Commi
Carlo Dionisi
Antonio Maria Camin
Mattia Crivelli
Valeriano Monica
Anselmo Moles
Placido Saffi
Cesare Finozzi
Giovanni Mauro
Giacomo Marconi
Antonio Brocardo
Lodovico Gallo
Vito Canale
Giacomo Valente
Cristiano Valente
Giacomo Marchiori
Giuseppe Faccin
Luciano Dal Pozzolo
Domenico Ferronato
Tito Meneguzzo
Ezio Aste
Bruno Burato
Diego Carretta
Lorenzo Bizzotto
Antonio Dovigo/Giulio Perini
Giancarlo Pianezzola
Valerio Vestrini
9. IL BENEFICIO PARROCCHIALE
Abbiamo già visto, a proposito dell’Inventario dei beni immobili della chiesa di
Villaga redatto dal parroco Bartolomeo da Barbarano, che una parte consistente delle entrate del beneficio parrocchiale derivava dai livelli (affitti di
terre), dalle decime e dai quartesi.
Le decime erano classificate in: dominicali o feudali; ecclesiastiche o sacramentali o anche spirituali.56
56 Sull’argomento delle decime, vedi il saggio molto ben documentato del prof. Flavio Dalla Libera “Il beneficio parrocchiale di Pozzolo”, pagg. 105-145 in “Pozzolo di Villaga”, a cura di G. Negretto e F. Dalla Libera, edito
nel 2003 dalla Parrocchia di S. Lucia di Pozzolo.
131
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
Le decime dominicali “vengono considerate oneri di diritto privato dovute a
persona laica o ecclesiastica o ad enti per ragioni di dominio, cioè di terra ceduta in godimento dietro il pagamento del decimo dei prodotti…Gravavano su
determinati fondi, costituivano veri e propri diritti reali, e potevano competere a
chiunque, anche ad enti ecclesiastici, non come tali, ma come antichi proprietari
e concedenti.”.57
“Le decime ecclesiastiche o sacramentali invece vengono considerate oneri di
diritto pubblico dovute dai fedeli ad enti ecclesiastici, al vescovo o al parroco in
corrispettivo dell’amministrazione dei sacramenti e, in genere, delle funzioni del
culto”.58
Esse “si definiscono reali o prediali se gravano sui prodotti di un fondo, sanguinali se ricadono sui prodotti degli animali, personali se gravano sui prodotti
dell’attività umana”.59 L’istituto delle decime, codificato nel Codex juris
canonici, ebbe per lungo tempo tacito riconoscimento dalle autorità civili,
ma fu soprattutto in seguito alla Riforma protestante e alla Rivoluzione
francese che subì profonde modificazioni, fino a scomparire del tutto in
molti paesi.60 “In Italia, la legge 14 luglio 1887 n.4728 soppresse le decime
sacramentali, mentre permise la sopravvivenza di quelle dominicali, ammettendone la conversione in danaro e il riscatto con pagamento una tantum”.61
Il quartese “andava sempre a beneficio del clero ed era di solito la quarta parte
della decima stessa. Si trattava di un istituto forse derivante dall’avvenuta suddivisione delle decime dominicali vescovili in quattro parti, delle quali tre restavano al vescovo, anche per l’aiuto ai poveri e la manutenzione della chiesa
vescovile, mentre la quarta parte spettava al clero per il proprio sostentamento”.62
La decima di Barbarano, Pozzolo e Villaga si fondava, dunque, su titolo di
ragione civile e procurava entrate cospicue all’arciprete di Barbarano che ne era
il detentore, in forza della posizione dominante che la sede esercitava sul territorio. Sono quindi giustificabili le liti e le spese sostenute in diverse cause
come quella del “Parocco et Commun di Pozzolo contro Arciprete e Communità di
Barbaran”; controversia dovuta alla riscossione delle decime e del quartese nell’ambito di Pozzolo, che si protrasse dal 1717 al 1730. Ma sono anche i parroci
di Barbarano e Villaga a rivendicare nei confronti dei privati il diritto ad esigere,
per le rispettive quote, le decime sopra beni situati nei Comuni di Barbarano,
Villaga e Toara (anno 1821).
Sul piano concreto le decimazioni consistevano nella raccolta di prodotti della
terra, costituiti in gran parte da frumento, ma c’erano pure il sorgo, l’uva e
perfino dei capponi. Di queste rendite si doveva presentare polizza al fisco,e
più precisamente alla commissione incaricata di ripartire gli oneri fiscali diretti, chiamati in terra veneta “gravezze”. La ripartizione delle gravezze avveniva
in base agli estimi.
La decima di Barbarano, Pozzolo e Villaga
Venendo allo specifico delle nostre parrocchie, esisteva la decima di Barbarano,
Pozzolo e Villaga che derivava da un’investitura feudale da parte del vescovo e
non aveva nulla a che fare con le “decime sacramentali”, i tributi cioè dei fedeli
corrisposti ai sacerdoti per l’assistenza spirituale.
Era una decima dominicale che trovava il suo fondamento su una ragione di
diritto privato, mentre le decime sacramentali – come abbiamo visto nella
definizione sopra – erano fondate sul diritto pubblico ecclesiastico, secondo il
quale chi compie funzioni di culto ha diritto ad avere da coloro che ne beneficiano una ricompensa per il suo sostentamento.
57 E. Pegoraro, C’era una volta il livello, la decima e il quartese, Roma, Confederazione Italiana Agricoltori,
1996, pagg. 70-71
58 E. Pegoraro, op. cit., pagg. 25 e 71
59 Enciclopedia Europea Garzanti, vol. II, pag. 1068
60 Enciclopedia Europea Garzanti, vol. II, pag. 1068
61 Decima, in Enciclopedia Cattolica, vol. IV, pag. 1269, citata in E. Pegoraro, C’era una volta il livello…, pag. 73
62 E. Pegoraro, C’era una volta il livello, pag. 25
132
IL CATASTICO DELLA DECIMA DEL 1817
Alla Prebenda parrocchiale di Villaga spettavano le decime come previsto dal
Catastico del 1817, redatto dal parroco Antonio Brocardo.63 In tale documento
risultano gravati dalla decima 67 appezzamenti di varia grandezza, per un
totale di 196 campi, appartenenti a 20 ditte. I proprietari tenuti a pagare il
cespito erano: Conti Barbarano di Toara, Mazaron Giovanni, Zuccato Pietro,
Breganzato, De Signori Matteo, De Rossi Bernardin, Trulla Cesare, Chiumenti,
Trulla Francesco, Carampin, Maron, Maran Natale, Maran Batta, Maran
Antonio, Rasia Dani,Veronese Antonio, Pitta Giovanni, Cappellari, Bellotto e il
Demanio.
I BENI DELLA PARROCCHIA NEGLI ESTIMI E NEL CATASTICO
Nell’estimo dell’anno 1665 64 in cui sono riportate le polizze del Comune di
Villaga, la parrocchia di S. Michele Arcangelo risultava essere in possesso dei
seguenti beni: casa, teza e terra con 8 campi arativi in contrà Chiesa; campi 1
chiamato il Fossan in contrà del Ponte di Bologna; campi 2 in contrà di
Fogomorto; campi 1 in contrà del Ronco Dugo; campi 1 arativo senza piante
detto il Fangallo; campi 3 arativi detti la Rognosa; campi 5 arativi chiamati
Fontana Maggiore a Campo Tondo; campi 2 arativi chiamati i Salgarelli in contrà de Ronchi(Ronca); 2 campi in contrà della Pilla; campi 1 in contrà di Vegani;
campi 1 in contrà del Monte.
63 Arch. Parr. Villaga, Catastico delle decime anno 1817
64 Arch. Stato Vicenza, Estimo b. 329 Polizze del Comune di Villaga
133
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
In sintesi, la parrocchia possedeva una casa con teza (la canonica) e 27
campi sparsi nel territorio di Villaga.
Nell’estimo successivo del 1703 65 non si registrano sostanziali differenze:
i campi di proprietà della parrocchia sono 29, due in più rispetto alla
precedente denuncia.
Ricordiamo che dal 1560 al 1770 furono i padri Olivetani del monastero di
Sant’Elena in Isola di Venezia a godere il frutto del beneficio. Poi, il 5 maggio 1770 il Senato di Venezia, con suo decreto, sospese ai monaci l’esercizio delle funzioni parrocchiali e accordò il godimento dei beni (i 29
campi e la canonica) ai sacerdoti secolari della diocesi di Vicenza, primo
dei quali fu Giovanni Mauro, con l’obbligo di pagare il canone annuo di
60 ducati al suddetto monastero.
Passiamo al 1829, quando l’allora parroco don Lodovico Gallo redige un
catastico dei beni della parrocchia, 66 con l’assistenza di uomini esperti dei
decimanti anteriori e dei catastici vecchi.
Nel documento, in premessa, si dichiara che “tutti i campi della chiesa
pagano decima al beneficio, eccetto due campi delle Pezze male che pagano a
Barbarano; così fu praticato sempre; e così sta scritto nelle denunzie registrate
all’estimo di Conferenza del 1666 esistenti nell’Archivio di Vicenza”.
Segue l’elenco dei terreni:
3 detti le Imole siti in contrà Oche; 1 Fontana Maggiore al Cason; 1 e
mezzo Campazzo in contrà Campazzi; 1 Frascà in contrà Frascà; 1 Campo
del Paltare o Focomorto in contrà Fogomorto; 1 campo e un quarto Prà
Fogomorto in contrà Fogomorto; tre quarti Trevisan in contrà Pezzamala;
2 Salgarelli di sotto e di sopra in contrà Ronca; 4 Rognosi in contrà
Fontana Calda; 1 e un quarto Prion in contrà Cengia; tre quarti Giardin in
contrà S. Silvestro; mezzo Rivette in contrà Chiesa; 1 Vaginetta in contrà
Vagina; 2 Pila in contrà Pila; 7 Pezzemale in contrà Pezzamala; 1 Ronco
Dugo in contrà Ronco Dugo; 2 Nizzon Gualive in contrà Nizzon; mezzo
Monte Tondo in contrà Collesello o Monte Tondo; un quarto Pigiavento in
contrà Pigiavento.
Tali terreni vennero poi indemaniati prima del 1870, annota il parroco don
Ferronato in un questionario compilato nel 1929, e aggiunge che “per alcuni fu restituito alla Fabbriceria il capitale ricavato; un appezzamento fu ricuperato e la chiesa ne gode il reddito”. 67
I LIVELLI E I LEGATI
65 Arch. Stato Vicenza, Estimo, b. 1384
66 Arch. Parr. Villaga, Catastico anno 1828
67 Arch. Parr. Villaga, Inventario e registro dello stato patrimoniale della chiesa di S. Michele in Villaga.
134
I livelli erano una forma di contratto agrario molto antica, vigente già nel Medioevo
e molto simile all’enfiteusi.68 Essi prevedevano cessioni, a medio o a lungo termine,
o in perpetuo, di terreni con l’obbligo di pagare per essi un canone annuo e di coltivarli con migliorie. In genere erano i grandi proprietari che, approfittando di chi era
sprovvisto di un pezzo di terra e aveva necessità di trarre sostentamento da essa,
concedevano le terre in affitto.69
Anche la parrocchia di Villaga, disponendo di terreni, li dava in affitto, cioè a livello.
I livelli più antichi che conosciamo risalgono al Seicento e al Settecento. Ne citiamo
alcuni: livello Chierego, originato dal testamento di donna Sabina in Chierego, in
data 16 ottobre 1657, cui seguì concordato (18 maggio 1821) garantito da antico possesso e marca livellaria. Nel 1937 risultava debitore Angelo Chemin Palma.70
Altro livello era quello che pagavano i fratelli Mambrin Michele e Giobatta (lire
venete 9 e soldi 2) all’altare dello Spirito Santo, ora all’altare del Santissimo
Sacramento, lasciato da Michele Rossetto, come da testamento del 3 marzo 1760,
ripristinato con la scrittura del 21 novembre 1803. Nel 1845 passò a Marco Pozza, poi
nel 1861 a Graziotto Angelo, quindi a Graziotto Anna e nel 1895 a Simionati
Eugenio e poi alle sorelle Simionati Sabina e Maria. 71 Un terzo livello che si rifà agli
inizi del ‘700 è quello un tempo intestato a Mattio Dei Signori, in base al suo testamento del 6 novembre 1709. Il canone annuale – scriveva don Meneguzzo - era
suddiviso tra Tognetti Luigi, Mattiello Celeste, Visintin Giuseppe, Loro Giobbe e
Loro Mosè.72
I legati, invece, erano lasciti di fedeli, anche risalenti a un passato lontano, assegnati
prevalentemente alla celebrazione di messe in suffragio dei defunti, oppure
all’adempimento di spese per il culto – acquisto di cera o di olio per la lampada del
Santissimo Sacramento – o anche destinati in beneficio del parroco pro tempore o
della fabbriceria, o anche per scopi caritativi.73
Agli inizi del ‘900 i legati della parrocchia erano intestati a: Chemin Giobatta Palma,
Da Soghe Giuseppe, Fiorin Lucia vedova Donello Alberto, Loro Maddalena, Loro
Sante, Mattiello Celeste, Tognetti Luigi.
Esisteva poi il legato Faccin, riferito al parroco don Giuseppe Faccin che alla sua
morte (anno 1909) aveva lasciato in godimento al parroco pro tempore una casa con
annesso orto, dato in affitto al campanaro-sacrista Bellucco Giuseppe. Il parroco pro
tempore aveva l’onere di far celebrare due messe mensili alla memoria del defunto
sacerdote Faccin.74
68 A. Lazzaretto Zanolo, Vescovo clero parrocchia, Neri Pozza Editore, 1993, pag. 142
69 R. Franchetto-C. Bressan, Villa del Ferro dentro la Val Liona, 2001, Giovani Editori, pag. 112
70 Arch. Parr. Villaga, Inventario e registro dello stato patrimoniale della chiesa…, anno 1937, cap. 3: Livelli e
legati.
71 Arch. Parr. Villaga, Registro Livelli Villaga
72 Arch. Parr. Villaga, Inventario e registro dello stato patrimoniale della chiesa di S. Michele…
73 A. Lazzaretto Zanolo, Vescovo clero parrocchia, Neri Pozza ed., pag. 152
74 Arch. Parr. Villaga, foglio sciolto
135
CAPITOLO SESTO
LA PARROCCHIA DI VILLAGA
Dopo la morte di don Vito Canale nel 1847, in attesa del nuovo parroco, venne
chiamato a reggere temporaneamente la parrocchia di Villaga don Lodovico
Gallo, a quel tempo arciprete di Barbarano. Egli compilò un prospetto della
situazione del beneficio parrocchiale 75 che qui riportiamo.
19 Per coltura campi a mezzadria
£ 680,97
20 Per raccolta olive
£ 50
21 Mappe obbligate
£ 13,80
22 Retribuzione alla Fabbriceria per vino e ostie £ 16,09
23 Cereale e due pranzi di consuetudine
£ 75
Totale passività £ 1236,83
Risultanza nitida (bilancio attivo) di
£ 903,40
Elementi di rendita
10. LA FABBRICERIA
A- Prodotto di 29 campi e tre quarti a mezzadria
La Fabbriceria era l’organo che provvedeva all’amministrazione della parte del
patrimonio di una chiesa destinato alla conservazione e manutenzione della fabbrica (cioè al mantenimento in buona efficienza della chiesa) e alle spese per il
culto. Aveva le stesse funzioni che oggi ricopre il Consiglio per gli affari economici. 76 L’Istituto della Fabbriceria venne fondato nel 1807 ed operò per oltre cent’anni, fino al 1938, quando fu soppresso con un regio decreto. Prima dell’istituzione
della Fabbriceria erano i Massari, nominati dal Consiglio di Vicinia, ad occuparsi
dell’amministrazione del patrimonio di una parrocchia.
Fu con la legislazione napoleonica che venne introdotto il nuovo organismo che
dipendeva direttamente dal nuovo Ministero del Culto, previsto dal codice
napoleonico.77
Le funzioni e le attribuzioni affidate ai fabbriceri (letteralmente: fabbricanti di
cera) non erano molto diverse da quelle esercitate dai Massari; mutavano però a
seconda dei tempi e delle necessità ed erano sempre sottoposte, per la loro esecutività, alla previa approvazione del Consiglio comunale.
L’ambito di competenza toccava, in genere, tutti gli aspetti della vita parrocchiale:
dalla elezione o nomina del sacrestano, dell’organista, all’apertura delle gare
d’appalto per i lavori relativi alla chiesa e alle strutture parrocchiali, come pure la
raccolta di fondi (questue, cerche, sovvenzioni) o al pagamento di opere compiute
dalle varie imprese e perfino l’accensione di mutui, l’acquisto di cera e di suppellettili liturgiche. Inoltre, a partire dalla fine dell’800, i tre fabbriceri si occupavano
anche di conservare e tutelare oggetti e arredi sacri.78
La Fabbriceria cominciò a funzionare anche nelle tre parrocchie del Comune di
Villaga, dopo il 1807. Il 4 giugno 1827 si riunì la Deputazione comunale (formata
da Francesco Barbaran,Vicenzo Bettio e Paolo Veronese) nella residenza di Villaga
per ufficializzare il rinnovo delle cariche dei fabbriceri che sarebbero rimasti in
carica per un quinquennio.79 Alla seduta erano presenti i parroci: don Antonio
Brocardo per Villaga, Marcantonio Zanella per Pozzolo, Pietro Castelli per Toara;
poi i fabbriceri scaduti nel mandato e i nuovi.
STATO ATTIVO E PASSIVO
DEL BENEFICIO PARROCCHIALE NEL 1847
1 Frumento
2 Sorgo
3 Vino nero
4 Vino bianco
5 Minuti
6 Fascine di viti potate
7 Fieno artificiale
Staie 100 a £ 4,14
Staie 60 a £ 3,87
Mastelle 26 a £ 21,52
Mastelle 6 a £ 15,80
Staie 4 a £ 3,23
n° 800 a £ 3,44 %
Carri 1 a £ 40 al carro
Totale
= £ 414
= £ 232,20
= £ 552,50
= £ 94,80
= £ 12,92
= £ 27,52
= £ 40
£ 1343,94
B- Prodotto Decime e quartesi
8 Frumento
9 Sorgo
10 Vino nero
11 Vino bianco
12 Minuti
13 Avena
14 Olive
Staie 60 a £ 4,14
Staie 40 a £ 3,84
Mastelle 10 a £ 21,52
Mastelle 4 a £ 15,80
Staie 6 a £ 3,23
Staie 4 a £ 1,68
Staie 2 a £ 4
Totale
C- Prodotto Livelli Attivi
15 Livelli attivi in genere
16 Livelli in soldo
Totale Attività
= £ 248,40
= £ 154,80
= £ 215,20
= £ 63,20
= £ 19,38
= £ 6,72
=£8
£ 715,70
£ 49,29
£ 7,20
Totale £ 56,49
£ 2140,23
Elementi di spesa
17 Prediali e Consorzio
18 Al sig. Angelo Chemin per Regio Demanio
75 Arch. Parr. Villaga, busta Beneficio parrocchiale, foglio sciolto
136
£ 196,19
£ 218,78
76 A. Cogo, Il Novecento a Sossano, Giovani Editori, 2001, pag. 40
77 Don M. Rossi, Fontaniva nella storia, Parrocchia di Fontaniva, 1993, pag. 528
78 Ibidem, pag. 531
79 Arch. Parr. Villaga, Protocollo verbale d’istallazione delle tre fabbricerie di Villaga, Toara e Pozzolo
137
CAPITOLO SESTO
Le fabbricerie vennero così formate:
- per la parrocchia di Villaga Bellin Giovanni (tesoriere), Maran Battista e
Mazzaron Giovanni;
- per la parrocchia di Toara Barato Dominico (tesoriere), Faccio Gio. Battista,
Faccio Paolo;
- per la parrocchia di Pozzolo Bettio Angelo (tesoriere), Crivellaro Gio. Maria,
Gianello Stefano.
Nel verbale della seduta si legge “…la Deputazione comunale dichiara ai vecchi
fabbricieri che sono sciolti dalle loro incombenze ritenendoli però responsabili
della loro gestione sino a questo momento, incaricandoli d’erigere sollecitamente
un esatto inventario delle carte, libri, titolo ed istromenti di qualunque sorte,
nonché degli arredi sacri, suppellettili, cere, danari, ori, od argenti, e così pure di
tutti gli effetti, niuno eccettuato, d’appartenenza della chiesa di Villaga, di Toara
e di Pozzolo, ritenendoli responsabili in caso d’omissione di qualcheduno d’essi,
consegnando il tutto alla nuova fabbriceria. (…) Parimenti la Deputazione, in
unione agli intervenuti, dichiara ai nuovi fabbricieri, ed ai confermati, che
vengano ammessi e formalmente istallati nell’esercizio delle loro funzioni, inculcando loro e richiamandoli all’esatta osservanza del manuale de fabricieri,
nonché le successive disposizioni emanate dall’autorità superiore di produrre i
loro repertori ogni trimestre al Registro, altrimenti la multa alla quale anderebbero soggetti starà al personale loro carico, e non mai a peso delle rendite della
chiesa; d’esser zelanti e premurosi nel disimpegno de loro incumbenti, di non
lasciare trascorere il corrente anno per la rinnovazione presso l’ufficio Registro
delle ipoteche, dei livelli e legati medesimi sotto la personale loro responsabilità,
(…) di non permetter che alcuno si tratenga danaro di qualunque sorta, ma che
invece appena fatta la questua sia in chiesa che fuori, la somma debba riporsi
nelle apposite casselle, che i generi debbano essere venduti mediante asta pubblica, che il danaro delle casselle non possa essere estratto che coll’intervento del
Rev.do Parroco, e di tutti tre li fabbricieri mediante l’erezione d’apposito processo verbale, tenendo a tale oggetto presso li fabbricieri e reverendi parrochi chiavi diverse l’un dall’altra e tutto ciò per non dar motivo di sospetti di frode, che
scemerebbe la generosità dei fedeli, passando tosto il ricavato al cassiere il quale
non potrà provvedere ne far pagamenti senonchè dietro l’ordine in iscritto degli
altri fabbricieri, e sempre col riportare la quietanza e la specifica degli effetti
acquistati; di dover a tempo debito rassegnare alla Deputazione un esatto
Preventivo e Consuntivo di tutte le rendite e spese dell’anno senza ometterne
alcuna, altrimenti non osservando quanto sopra, nonché le disposizioni vigenti,
sarà in dovere della Deputazione il portare le proprie lagnanze all’Autorità
superiore…”.
Anno 1945: Don Tito Meneguzzo con i bambini della Cresima.
Anno 1959: Suor Adelia e Suor Rosetta con i bambini dell’asilo parrocchiale.
138
139
Bambini della Prima Comunione con le Suore di Villaga.
Bambini dell’asilo di Villaga nella seconda metà degli anni ‘50.
Anni ‘60: Don Ezio Aste con i bambini della Prima Comunione.
140
CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
1. LE ORIGINI
L’origine del luogo, anticamente chiamato “Tovara”, si rifà quasi certamente
all’epoca longobarda: il santo titolare della parrocchia, San Giorgio, fa pensare
a una cappella sorta nell’ambito dell’antica pieve di Barbarano, evolutasi poi in
chiesa parrocchiale.
Il documento più antico che nomina la chiesa di Toara, reperito dal Codice dei
Feudi dallo storico Gaetano Maccà, è datato 10 ottobre 1288 e cita “…in Tovara
Chiesa Parrocchiale di San Giorgio di Toara.
141
CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
una pecia terre in palusello… apud jura Ecclesie Sancti Georgii” 1 (in Toara…una
pezza di terra in località Palusello… presso i diritti della chiesa di San Giorgio).
In un altro documento rinvenuto nell’Archivio Vaticano, riferito alle decime
pagate dalle istituzioni ecclesiastiche negli anni 1297 – 1303 2 (le Rationes
Decimarum) viene richiamato un certo “Ubertus clericus et Rector Ecclesiae S.
Georgii de Thovara”, cioè Uberto era chierico e rettore che officiava a quel tempo
la chiesa di S. Giorgio di Toara.
Beni immobili di detta chiesa
2. L’INVENTARIO DEI BENI DELLA CHIESA
Nell’archivio parrocchiale abbiamo rinvenuto un inventario delle proprietà
della chiesa di San Giorgio di Toara redatto il 14 luglio 1444, quando era rettore
della parrocchia il prete Ruzerio di Napoli.
Tale rilevazione era stata richiesta a tutte le parrocchie della diocesi dapprima
dal vescovo Giovanni de Castiglione e poi dal suo successore Francesco
Malipiero per conoscere lo stato patrimoniale delle chiese. Si trattava del
“beneficio”, cioè della dotazione patrimoniale annessa al culto, cioè dei beni
di proprietà di una chiesa che venivano messi a disposizione del parroco che li
amministrava in usufrutto, in cambio della cura d’anime.
Del documento riportiamo la prima parte, con la traduzione del testo dal latino, poi ne proponiamo una sintesi.
“Inventario di tutti i beni mobili e immobili spettanti alla chiesa di san
Giorgio di Toara, fatto dall’onesto sacerdote Ruzerio di Napoli rettore della
soprascritta chiesa e da certi uomini del citato paese, tra i più anziani ed
esperti, eletti nella Convicinia, e giurati in esecuzione degli ordini del reverendissimo Signor Vescovo e prodotto presso la sua Cancelleria tramite
il signor Ruzerio e Giovanni Rigetti, Vano Salomone e Paolo Mani, tutti
agenti per il citato paese, nel nome del suo Comune e degli uomini del
citato paese e della citata chiesa, nel millequattrocentoquarantaquattro,
indizione settima, nel giorno di martedì quattordici del mese di luglio.
Beni mobili della detta chiesa
Primo un calice d’argento dorato del valore di ducati sei. Poi un paramento fulgido di ducati quattro. Poi un messale con un altro libro di ducati
dieci.
Primo una pezza di terra arativa e piantata a viti e alberi, circa tre campi,
nelle pertinenze all’inizio del paese, presso la via comune, presso Gabriele
dei Traversi, presso i diritti di San Giovanni di Barbarano e presso un certo
Cristoforo di Montano. Berto Iaconi la tiene pagando la terza parte e metà
dell’uva e la decima.
Poi una pezza di terra arativa, prativa e a vigna e alberi, circa quattro
campi, nella contrada di Sesella, presso la via comune, presso la via consortiva, presso quelli di Plegaseti. Il soprascritto Berto la tiene pagando un
terzo e la decima e venticinque soldi l’anno.
Poi una pezza di terra arativa e a vigna di circa cinque campi in contrada
di Palusello, presso gli eredi del signor Antonio De Loschi, presso
Cristoforo del fu Montano in due parti. Giovanni Rigeti tiene pagando un
terzo e la decima.
Poi un pezzo di terra arativa e piantata di circa un campo nella contrada
di Pranchis, presso la via comune, presso i diritti di S. Giovanni di
Barbarano e presso i diritti di S. Michele di Villaga. Bartolomeo Bertucci la
tiene pagando un terzo e la decima.
Poi un pezzo di terra a vigna con olivari, circa tre campi, all’inizio del
paese, presso la via comune, da due parti, presso Bartolomeo Botarini e
paga la terza parte e la decima.
Poi una pezza di terra arativa e prativa, circa tre campi, in contrada di
Peagnis, vicino Gaibo Fornasigle, vicino la via comune, vicino Bartolomeo
da Soga e corrisponde due stari e mezzo di frumento e la decima.
Poi una pezza di terra prativa e boschiva, circa un campo e mezzo, nella
contrada di Vignola vicino agli eredi del signor Antonio De Loschi, da due
parti, presso Scipione dei Godi e corrisponde due polli.
Poi una pezza di terra arativa di circa mezzo campo nella citata contrada,
vicino a Lorenzo Leonardi, vicino agli eredi del signor Antonio de Loschi,
presso i diritti di S. Giovanni e paga un quarto e la decima.
Poi una pezza di terra arativa e piantata di circa tre quarti nella citata contrada presso la via comune, vicino Lorenzo Leonardi, vicino a Cristoforo
del fu Montano e paga la quarta parte e la decima.
Poi una pezza di terra a vigna e boschiva di circa quattro campi in contrada della Fontana, vicino alla strada comune, da due parti, vicino a Lorenzo
Leonardi.
Poi una pezza di terra prativa di circa due campi nella contrada di Pranchi,
presso la via comune, presso i diritti di S. Giovanni di Barbarano, presso il
Ghebo Fornasigle.
Poi una pezza di terra paludosa, di circa un campo in contrada Paluselli,
presso Paolo Miani, presso gli eredi del signor Antonio de Loschi, presso
1 G. Maccà, Storia del territorio vicentino, Tomo IV, Caldogno 1813, pag. 334.
2 G. Mantese, Memorie storiche della Chiesa vicentina, vol. II, pag. 438
142
143
CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
Cristoforo Montani.
Poi una pezza di terra arativa e piantata di circa un campo in contrada
Montesello, presso la via comune, da due parti, presso Cristoforo
Montano. Berto Iaconi tiene pagando un quarto e la decima.
Poi una pezza con olivi, circa mezzo campo, in contrada Corzano, presso
Cristoforo Montani, presso la via comune. Iacobo Uguzione tiene pagando un terzo e la decima.
Poi una pezza di terra arativa e a piantata di circa un campo in contrada
Salgari, presso Cristoforo Montani, presso i diritti di S. Giovanni.
Poi un sedime con una casa coperta di paglia e terra con olivi di circa un
campo, in detta località, all’inizio del paese, presso i diritti della chiesa di
S. Michele di Villaga, presso i diritti della chiesa di S. Giorgio di Toara, e
presso la via. Vano Salomoni tiene corrispondendo un terzo e una libbra e
soldi dieci.
...Poi un sedime di circa un campo nel paese di Toara, presso la via
comune, presso i diritti di S. Giovanni, presso quelli di Plegafeti; lo tiene gli
eredi del sig. Antonio Nicolò de Loschi.
...Poi una pezza di terra arativa e piantata di circa un campo in contrà
Fontanelle, presso i diritti di S. Giorgio di Toara, presso Cristoforo Montani,
presso gli eredi del sig. Antonio de Loschi e della sig.ra Beatrice moglie
un tempo di Matteo Pietro. Nota che detta pezza di terra, dopo la morte
della signora Beatrice tornò alla chiesa col legato di Matteo Pietro”.
dusse il testamento di Gerardo Ognibene di Belvedere, scritto da Tomaso di
Vincenzo di Barbarano, notaio pubblico nel 1453, indizione prima, nel giorno di
lunedì 9 del mese di aprile per il quale Gerardo lasciava per testamento all’infrascritta chiesa una pezza di terra. Poi due campi di terra arativa e piantata a viti
posti nelle pertinenze di Belvedere, in contrada di Pezza Gavarda, presso
Cristoforo Montano, presso la via Comune”.
Il documento continua citando numerose altre pezze di terra poste in varie contrade tra cui: Belvere (Belvedere), Zocatelle, Croce, Fontanelle, Moceri, Tribulo,
Monede, Paltana. Riporta inoltre i nomi di alcuni grandi proprietari terrieri dell’epoca: i Loschi, i Godi, i Miani, i Botarini, i Barbarano (il riferimento è a
Cristoforo Montano, della famiglia Barbarano de Mironi, padrone del castello di
Belvedere e signore su molte terre della zona).
Piuttosto povera di beni mobili, la chiesa di Toara poteva invece contare sul possesso di ben 63 campi e mezzo, anche se, due secoli più tardi, a metà Seicento,
il suo patrimonio andrà di molto riducendosi.
C’è da osservare poi che metà delle rendite provenienti dai prodotti dei campi
andavano al vescovo, mentre l’altra metà spettava al parroco per il suo mantenimento e per la chiesa. Allegato all’inventario dei beni della parrocchia, vi è
riportato anche un testamento con una donazione di terra alla chiesa di Toara.
Ne riportiamo il testo in sintesi: “Nell’anno 1554, indizione seconda, nel giorno di
lunedì 25 aprile, nella Curia episcopale di Vicenza e nella Sala Grande, alla presenza di Antonio Magisteri Martini de Rugo e Silvestro suo figlio, al cospetto del
venerabile dottore signor Francesco Mauroceno, arcidiacono della chiesa di
Vicenza e vicario del reverendissimo signor vescovo di Vicenza, comparve Paolo
Mani di Belvedere nelle pertinenze di Toara, distretto di Vicenza e diocesi, e pro-
3. LE VISITE PASTORALI
Le relazioni pastorali, in merito alle visite compiute dai vescovi o dai loro vicari,
risultano interessanti perché ci aiutano a conoscere le trasformazioni avvenute
negli edifici e negli arredi delle chiese e alcuni aspetti della presenza viva, quotidiana dei nostri pastori d’anime. Tra le varie visite pastorali succedutesi a Toara,
mi soffermo su quelle più significative, ad iniziare da quella del vescovo Michele
Priuli avvenuta nel settembre 1583. 3
Visita Pastorale del Vescovo Mons. Zinato alla Parrocchia di Toara nel 1963.
La visita del 1583
Il Vescovo, avvicinandosi alla chiesa, trova ad accoglierlo il rettore, il rev.
Camillo de Grandi, che gli va incontro, lo riceve sotto il baldacchino e lo conduce alla chiesa in processione. Il vescovo, appena entrato, adora la croce e,
inginocchiato, prega davanti al Santissimo Sacramento. Tiene quindi un ser3 Arch. Curia Vicenza, Visitationes, b. 4/0556, Toara
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145
CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
mone al popolo e fatta la confessione generale, dà l’assoluzione e l’indulgenza per quaranta giorni a tutti i presenti, poi celebra la messa, benedice il
cimitero con l’acqua lustrale, assolve le anime dei defunti e conferma il sacramento della cresima ad alcuni fedeli.
La chiesa non dispone di una sacrestia. Il vescovo passa in rassegna i paramenti e gli arredi sacri: due calici, una patena, un messale romano riformato,
pianete, camici, stole, manipoli e piviale. Ordina di provvedere all’ombrello,
alle lanterne e al confessionale per le donne; poi di indorare il calice e la patena, di comperare un altro messale romano, di tenere tre corporali decenti per il
calice, e due buste, una bianca e una violacea. Successivamente controlla i libri
dei battezzati e dei matrimoni e ordina che ne siano tenuti altri due, uno per i
morti e uno per i cresimati.
Constata poi che è presente la società (confraternita) del Santissimo
Sacramento che non ha alcun introito e ha oltre cinquanta confratelli che versano un marchetto ciascuno ogni mese con cui provvedono a mantenere accesi i ceri e ad altre cose necessarie per gli altari. Raccomanda di eleggere il massaro ogni anno e di redigere i conti alla presenza del rettore.
Visita il Santissimo Sacramento posto sopra l’altare maggiore in un tabernacolo ligneo collocato su una lapide che ordina sia tolta; dispone inoltre di fare un
nuovo tabernacolo ligneo dorato e foderato di seta e un vaso dorato per conservare un così grande Sacramento. In seguito visita la custodia degli olii santi
conservati in vasi di stagno riposti in una cassetta collocata in un foro del muro
vicino all’altare; ordina di foderare il foro di seta; osserva l’olio santo per
l’estrema unzione degli infermi: ordina di rinnovare il vasetto e di chiuderlo in
una borsa di seta. Poi visita il sacro fonte battesimale provvisto di ciborio ligneo coperto di tela che dispone di rinnovare.
Ritorna all’altare maggiore intitolato a S. Giorgio, di marmo non consacrato:
ordina di far dipingere una pala, di tenere sopra di esso quattro candelabri di
oricalco e di far aprire una finestra a lato dell’altare.
Visita l’altare che guarda verso la canonica dedicato ai santi Paolo e Rocco, che
è di marmo non consacrato; dispone di tenere su di esso dei candelabri decenti. Quindi visita l’altare della Santa Croce, di marmo e consacrato; ordina di far
dipingere una nuova pala d’altare e di chiudere il cancello. Il Comune fornisce
l’olio per la lampada del Santissimo Sacramento con una spesa di sessantasette
troni all’anno.
Il vescovo ordina di rinnovare l’immagine di S. Pietro e la pila dell’acqua
benedetta; dispone inoltre di mettere i vetri alle finestre e nell’occhio della
chiesa; di fare la sacrestia a lato della porta, di riparare il muro del cimitero e di
fare una nuova porta lignea che si possa chiudere.
Il rettore è Camillo de Grandi e in parrocchia vi sono 160 anime da comunione
e in totale sono 300.
Il vescovo si reca in visita anche alla chiesa di S. Antonio a Belvedere che ha un
altare di marmo consunto; pertanto ordina di far dipingere una pala, di chiudere i fori e di sistemare le finestre nella cappella. Essa ha due calici, una patena, un messale romano riformato, due candelabri, tre pianete con i loro fornimenti; ha altri due altari a lato non consacrati che ordina siano tolti; ha il
cimitero che il vescovo benedice e assolve le anime dei defunti; dispone pure
di togliere l’altare, di recintare il camposanto e di riparare il muro di cinta.
Il vescovo si porta alla chiesetta del Crocefisso, di proprietà dei conti
Barbarano. Essa ha un altare ligneo che ordina di togliere e di costruire un
altare murato con mensa di marmo e di rinnovare il SS. Crocifisso per poter
celebrare in questo luogo; inoltre dispone di fare una casula e togliere la pila
benedetta dalla piccola sacrestia per collocarla nella cappella.
La visita del 1645
Il 21 maggio 1645 il vicario generale Giuseppe Zaghio è in visita pastorale alla
parrocchia di Toara.4 Entrato in chiesa, visita il SS. Sacramento posto sull’altare
maggiore nel tabernacolo e in una pisside decente; tuttavia ordina di foderare
il tabernacolo e di dorare le sue chiavi.Visita poi il battistero che giudica dimesso ma tollerabile; dispone comunque che detta pila sia provveduta di un coperchio e che alla sera il sacrario sia chiuso a chiave e protetto da un cancello.
Inoltre ordina di procurare un conopeo (drappo di seta) per coprire il ciborio.
Visita gli olii santi posti in una cassettina situata in sacrestia (costruita in seguito alle disposizioni del vescovo Michele Priuli); per la loro custodia ordina di
fare una piccola nicchia nel coro a fianco della sacrestia, la quale deve essere
foderata e sulla sua porticina scritto “Olii santi”.
Vede il confessionale nel coro che proibisce per le confessioni delle donne; pertanto dà disposizioni perché si faccia un altro confessionale per le donne. Si
porta poi di fronte all’altare maggiore che ha una mensa antica e ordina di
provvedere ad una nuova pietra da inserire, in modo che non si stacchi e che
sia un po’ più elevata. Esiste qui la confraternita del SS.mo Sacramento con i
suoi capitoli che ordina di rinnovare e poi di approvare. Visita l’altare della
Santa Croce e ordina che sia provvisto di una nuova pietra, di una tabella sacra
e di una croce. Si sofferma poi davanti all’altare della Beata Vergine del S.
Rosario che ha un portatile antico (pietra sacra); il prelato dà disposizioni perché sia inserita una nuova mensa altrimenti l’altare verrà sospeso.
E’ presente la confraternita del Rosario con bolle delle indulgenze vidimate
dall’ordinario; tuttavia il vescovo comanda che il regolamento della confraternita venga rinnovato e approvato. Visita la sacrestia e ordina di provvedere ad
un lavello per il lavaggio delle mani, di un inginocchiatoio e di una borsa nera.
Interrogati gli anziani del luogo sulla vita e sul comportamento del rettore, essi
4 Arch. Curia Vicenza, Visitationes, b. 8/0560, Toara
146
147
CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
rispondono esprimendo un giudizio positivo sul parroco che è Francesco
Danieli. Chiamato in causa dal vicario disse:“Ho avuto questo beneficio al concorso e ho la mia bolla, con data 3 dicembre 1635; è di collazione dell’ordinario. Ricevo
d’entrata appena cento ducati sopra i quali si pagano le gravezze ordinarie. Per quanto riguarda le riparazioni della chiesa non so a chi competano. So che il Comune
mantiene la lampada del Santissimo. Le anime da comunione sono 180 e in tutto 300
circa. Sotto questa cura vi è la chiesa di Belvedere e un capitello, entrambi dei conti
Barbarano. Ho un solo inconfesso, concubinario pubblico che attualmente ha mandato via la concubina”.
Nel 1820, all’arrivo del vescovo Peruzzi,6 la parrocchia di Toara contava su 440
abitanti e da 103 famiglie; le anime da comunione erano 294, i cresimandi 17.
Il presule verifica la vita religiosa e morale della parrocchia dove vengono segnalati normali servizi di culto e di assistenza agli infermi; inoltre è impartito
l’insegnamento religioso agli adulti con spiegazione festiva del Vangelo e del
catechismo. Il giudizio del vescovo sul parroco don Pietro Castelli è nettamente
positivo e favorevole anche nei riguardi del cappellano don Giovanni
Cichellero, il quale riceve dal parroco uno stipendio annuo di 35 ducati.
Sul comportamento dei fedeli, il parroco osserva che non vi è nessuno scandalo di rilievo, se si eccettuano due “non comunicati”a Pasqua e qualche caso di
bestemmia e una coppia di sposi separata.
Tra le disposizioni vescovili: porre i veli e le sante immagini ai confessionali;
chiudere il sacrario con un coperchio e un cancello; provvedere l’oratorio di S.
Antonio di un baldacchino per le processioni.
Il Vicario, proseguendo nella sua visita, si portò alla chiesa di S. Antonio a
Belvedere, che ha un unico altare (e non più tre come era stato rilevato nella
visita pastorale del 1583), il campanile e il cimitero ed è costruita da molto
tempo.Visitò l’altare che ha la pala della Beata Vergine e altri santi, senza alcuna immagine di S. Antonio, e un pietra sacra antica. Comandò di provvedere
ad un nuovo portatile inserito nell’altare e di sostituire la pala d’altare della
Vergine con un dipinto raffigurante il santo titolare della chiesa (S. Antonio
abate).
Visitò la sacrestia e ordinò che il calice fosse dorato e di provvedere ad una
patena d’argento e ad un nuovo messale, poiché quello in dotazione era oramai troppo antico. Dispose anche due nuove pianete, una nera e un’altra viola,
e dei corporali.
Vide il campanile e ordinò di porre sulla sommità una croce. Visitò il cimitero
nel quale comandò che fosse eretta una croce e di tagliare le piante colà
esistenti.
Il Vicario passò in visita anche al capitello del Crocifisso posto sulla pubblica
via. Ha un altare con un’immagine del Crocifisso che gode di grande
devozione, poi una mensa antica. Ma questo capitello è troppo piccolo e ha il
frontespizio con cancello di legno. Il Vicario lo dichiarò sospeso.
Quarant’anni dopo, il 15 maggio 1685, il vescovo Giovanni Battista Rubini si
reca in visita pastorale alla chiesa di Toara.5 La parrocchiale, dalla relazione
redatta per l’occasione, non risulta in condizioni molto diverse dalla visita
precedente.
Le visite dell’800
Nell’Ottocento sono segnalate tre visite pastorali compiute nel 1820 dal vescovo Giuseppe Maria Peruzzi, nel 1871 da Giovanni Antonio Farina e nel 1899 da
Antonio Feruglio.
5 Arch. Curia Vicenza, Visitationes, b. 11/0563, Toara
148
Nella successiva visita del 1871,7 la popolazione era salita a 644 abitanti con
124 famiglie; le anime da comunione erano 439, i cresimandi 27. Dal 1846 era
parroco don Antonio Pagani, mentre il cappellano era don Pietro Marchesini.
Il vescovo Farina ha parole d’elogio per il cappellano che“è di buona condotta ed
assiste con zelo alla cura dell’anime”. Il parroco riferisce al vescovo le seguenti
osservazioni sui fedeli: circa 15 i fedeli non comunicati a Pasqua; tra i vizi segnala la bestemmia, qualche piccolo furto e la disonestà in vari giovani.
I decreti dispositivi del vescovo erano: porre le lettere sulle ampolle degli olii
sacri; il lavello in sacrestia; le appendici al messale nell’oratorio di Belvedere.
Il 14 agosto 1899 è il vescovo Feruglio a recarsi a Toara in visita alla parrocchia.8
La popolazione ammonta a 820 abitanti, di cui 580 ammessi alla comunione; i
cresimati erano 145. Il parroco don Agostino Ancetti, nella relazione presentata al vescovo, dichiara che “la rendita di questo beneficio è di L. 1428,64 (oltre la
casa canonica che si può valutare in L. 150). Tale rendita è costituita da: fondi che,
affittati, danno L. 342,45; terzi e decime (commutati) L. 950,75; livelli L. 118,95;
legati L. 16,49. Gli oneri riguardavano tasse pubbliche pagate nel 1898 di L. 395,84;
sulla canonica L. 20 per una ufficiatura funebre; sui fondi L. 7 per singole messe; sui
legati L. 14,49 per singole messe; più la spesa della ceriola, vino, ostie ed il pranzo del
giorno del titolare, per un totale di circa L. 60”. L’entrata annua delle questue ed
elemosine è di circa L. 70.
I fabbricieri erano: Cichellero Stefano, Marangon Domenico e Miglioranza
Edoardo. “Questa fabbriceria – precisa il parroco – non ha altra rendita che le
6 G. Mantese, E. Reato (a cura di), La visita pastorale di Giuseppe Maria Peruzzi nella diocesi di Vicenza (18191825), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1972, pag. 199-200
7 G. A Cisotto, La visita pastorale di Giovanni Antonio Farina nella diocesi di Vicenza (1864-1871) Edizioni di
storia e letteratura, Roma 1977, pagg. 396-397
8 G. Nardello, La visita pastorale di Antonio Feruglio, nella diocesi di Vicenza (1895-1909), Roma, 1985, pagg.
373-374
149
CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
spontanee offerte dei fedeli, che oscillano tra le 300 e le 500 lire, con cui si provvede
ai bisogni correnti”.
Per quanto concerne la vita religiosa, il parroco si sofferma sulla predicazione
e istruzione religiosa degli adulti a cui si propone la spiegazione del Vangelo;
poi sulla dottrina cristiana rivolta ai fanciulli che è tenuta dallo stesso parroco
nel pomeriggio delle domeniche.
Il vescovo, dopo aver visitato le chiese, dispone che nella parrocchiale sia sostituita la pietra sacra dell’altare della Beata Vergine del Rosario, mentre nell’oratorio di Belvedere ordina di rinnovare un muro laterale, porre il pavimento,
togliere la cornice dell’altare, collocare la croce sulla facciata.
mezzana fonduta da Franco Sandri di Lonigo.” 9
In seguito, nel 1861, “poiché il campanile era cadente, si venne perciò alla decisione, essendo parroco don Antonio Pagani, di costruire una nuova torre. Il disegno e il progetto sono dell’ing. Zimello per la somma di lire autriache 2165,73.
Le fondazioni furono eseguite su palafitta. L'altezza complessiva è di metri 27”.10
Verso la fine dell’800 vennero attuati altri lavori nella chiesa. Il parroco don
Agostino Ancetti scrive che “fin dal 1899, dovendosi procedere al ristauro del soffitto di questa chiesa nella occasione della S.Visita pastorale, alcune pie persone della
parrocchia vollero che nel medaglione del medesimo fosse a loro spese dipinta l’immagine del SS.mo Redentore”. 11
La chiesa venne poi decorata nel 1933 da un certo Evaristo di Sossano per una
spesa di L. 2230; furono anche collocate nuove vetrate e lampade all’interno
del tempio sacro per un’ulteriore spesa di L. 1717.
4. LA NUOVA CHIESA
Agli inizi del Settecento, sotto il rettorato di don Giobatta Pilani, venne eretta
la nuova chiesa sulle rovine della precedente di origine medioevale. La facciata reca la data del 1720. Fu restaurata poi nel 1821 da don Pietro Castelli che
aveva già fatto
innalzare anche un
piccolo campanile
addossato
alla
chiesa. “Nell’anno
1811 – annota don
Castelli – si spezzò la
campana
grande;
allora si fece fondere
tutte le campane dal
sig. Colbachini di
Angarano; il giorno
25 aprile 1812 ha
suonato la campana
nuova”. Più tardi,
“nell’anno 1823 si
spezzò la campana
piccola. L’anno 1824,
30 maggio, - precisa
don Castelli - hanno
fatto rifare di cotto la
guglia sopra l’ottangolo del campanile;
poi il 20 ottobre ha
incominciato
a
suonare la campana
Facciata della Chiesa Parrocchiale.
150
5. IL BENEFICIO PARROCCHIALE
La chiesa e il Beneficio nel 1664 e nel 1747
Il 4 aprile 1664 il parroco don Gaspare Bassadelli annotava le seguenti entrate
del beneficio:
“formento della decima: stara 50; delli campi della chiesa che tengono a livello di
parte li signori Barbarani da Toara e pagano delle cinque parti due alla chiesa, comprese le decime di questi: stara 40; fava e altri legumi: stara 15; minuti: stara 50;
vino botte: 4; fieno: casse 2; affitti e legati con obbligo di messe: troni 95; polli para
(paia) 5; galline para 1”.12
Il parroco don Gio. Battista Pilani riportava in data 31 agosto 1747 che“la chiesa
non è consacrata, ha due altari, uno del SS.mo Sacramento dedicato a S. Giorgio, l’altro a Maria Santissima del Rosario. A questo altare v’è istituita la Scuola (confraternita) del Santissimo Rosario”.
Possiede i seguenti legati:
- da Bortolamio De Grandi lire 75 e 16 soldi con obbligo di messe 21;
- da Dominico Vaneto legato una quarta e mezza di formento con obbligo di
messe due;
- da don Gio. Battista Pilani legato di Anna Bertuzzo troni 20 con obbligo di
messe 20;
- da eredi di Michele Pomaro mezza staia di formento con obbligo di messe 3;
- da Bortolamio Trivisan legato di Rosa De Grandi lire 3 con obbligo di messe 2;
9 Arch. Parr. Toara, Libro dei nati, dei matrimoni e dei morti (1798-1831)
10 Arch. Parr. Toara, Libro cronistorico
11 Arch. Parr. Toara, Registro nati anno 1901
12 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, b. 307, due fogli sparsi
151
CAPITOLO SETTIMO
- da Batta Bertuzzo mezza quarta di formento;
- da eredi Polati troni 5 con obbligo di celebrare messe 5.
Aggiungeva poi che “ il beneficio ha d’entrata ducati duecento circa , consiste in
campi trentotto e decime come nel catastico 1544; due legati, l’uno di staia 1 e
mezzo frumento sopra la casa della Fontana, paga l’ill.ma Contessa Elisabetta
Bissari Barbaran; l’altro della signora Contessa Giulia Barbarana successa a
Benedetto Salamon.
Il beneficio ha d’aggravio: tinazze ad uso di caneva settantacinque e soldi
diciotto; di Clero troni ventiquattro più o meno all’anno, e poi il lavoro di detti
campi trentotto con colte di lavoranza, troni quaranta circa nella riscossione
delle decime”. 13
La relazione del parroco Tommaselli
Il 18 aprile 1770 l’allora parroco don Matteo Tommaselli stendeva queste
note sullo stato della chiesa: “questa chiesa parrocchiale è stata eretta sotto
l’invocazione di San Giorgio martire: è stata benedetta e si fa l’officio alli 23
aprile.
Altari n° 3: il primo è quello del SS.mo Sacramento… non ha obblighi nè altri
legati pii, è privilegiato ogni giorno per li morti. Il secondo altare è intitolato alla
Santa Croce, neppure questo ha scuola nè legati pii. Il terzo è sotto l’invocazione
del SS.mo Rosario e in questo v’è Scuola del SS.mo Rosario ed ha obbligo di
messe n° 28.
Non vi sono altre indulgenze se non quelle che si trovano nel libretto con il quale
si recita le litanie chiamato del S. mo Rosario, e queste sono nel tempo della
Quaresima.
In questa chiesa vi sono due reliquie, una della S. Croce e l’altra di S. Giorgio
Martire, tutte e due con le sue autentiche.
In questa chiesa sono io d. Matteo Tommaselli e fui provvisto per concorso il
giorno settimo del mese d’ottobre 1759, come appare dalle mie bolle.
In questa mia parrocchia vi è solamente il sig. don Girolamo Danieli sacerdote
confessore che assiste alla parrocchia e celebra la Santa Messa nella chiesa delli
Nobili Barbarani (a Belvedere).
Vi sono li seguenti oratorii, ne quali si celebra la Santa Messa, cioè l’oratorio del
Conte Pietro Conti, nominato S. Giuseppe; l’altro oratorio del Conte Marco
Barbarano, nominato S. Antonio abate; altro del Conte Francesco Barbarano,
nominato il Crocefisso.
Circa la Dottrina Cristiana non vi è Scuola per mancanza di operai, viene insegnata da maestri e maestre nel miglior modo possibile; vi sono alcune classi: gli
operai sono tra uomini e femmine circa n: 20, li filioli n° 100 e le figliole n° 90.
In questa parrocchia non vi si trova altri abusi, se non quello di non santificare
le feste nel tempo dell’estate.
LA PARROCCHIA DI TOARA
In questa cura vi sono Anime da communione n° 288, in tutte 395”.14
Il parroco passa poi in un altro foglio ad elencare i beni della chiesa:
“Campi n° 7 arativi e piantati in Contrà di Fuoco Morto;
campi n° 1 e un quarto arativo e piantà in Contrà di Campagnola per la qual
terra il parroco è tenuto celebrare annualmente messe n° 6;
campi n° 2 montuosi vegri”.
Poi è la volta del livelli:
“Dal nob. Conte Marco Barbarano, del castello di Belvedere riscuoto troni otto e
un paro de polli;
dal medesimo Conte Marco riscuoto formento stara due e un paro polli;
da Maria relitta (vedova) del quondam (fu) Domenico Donin riscuoto troni 10 e
un pollo;
da Cattarina relitta(vedova) del quondam Domenico Bertuzzo troni 1 e 4 marchetti;
dal Conte Pietro Barbarano troni 7, formento 6 stare e due para di polli;
dalla Fraglia del SS.mo Rosario troni 2 e una gallina.
Tra stabili, decime e livelli la soprascritta chiesa ha d’entrata un anno con l’altro
ducati 180, aggravati però dalli qui infrascritti aggavii:
per farmi condurre a casa l’entrata, cioè le decime: lire 26
Al Serenissimo Principe di decime annuali pago: lire 117
Et anco parte de resti vecchi della chiesa: lire 20
Al Reverendissimo Clero decime annuali: lire 32
Per l’affitto di casa all’ill.mo Pietro Conti Barbaran: lire 104
Per la Ceriolla spendo ogni anno: lire 31
Mantengo una serva e sfamo persone quattro”.15
Don Tommaselli stila poi l’Inventario dei beni mobili della chiesa:
- un calice d’ottone con coppa d’argento
- un ostensorio inargentato
- una pisside d’argento
- una pisside d’argento e il pedestale d’ottone per gli infermi
- un turibolo con navicella d’argento
- un turibolo d’ottone con sua navicella
- una reliquia della S. Croce con reliquiario inargentato
- una reliquia di S. Giorgio con reliquiario in legno dorato
- sette camisi
- tre cingoli
- cinque corporali
14 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, b. 307 Toara
15 Ibidem
13 Arch. Parr. Toara, Beneficio, due fogli volanti
152
153
CAPITOLO SETTIMO
- una cotta
- un piviale di seta a fiori con sua continenza
- una continenza a fiori per portare la S.ma Comunione agli infermi
- una pianeta nera
- una pianeta verde
- una pianeta viola
- due pianete rosse
- cinque pianete bianche
- due berrette a croce
- una scatola da ostia
- due rituali
- un tamizetto da particole
- un secchiello con il suo aspersorio d’ottone
- una sottocoppa di stagno
- sei tabelle per altari
- tre campanelli
- due chiavi per serare il tabernacolo
- tre vasetti per il Battistero d’argento
- una coppetta di rame per battezzare inargentata
- un vasetto d’argento per gli infermi
- tre vasi da olii santi con sua cassetta di stagno
- un ferro da particole
- un libro dei matrimoni, battezzati e defunti
- un libro da cresimati
- due messali da vivo
- tre messali da morto
- quattro lampade d’ottone
- trentotto purificatori
- quattro coperte per gli altari
- quattordici candelieri d’ottone
- sei candelieri di legno inargentati
- sei cuscini d’altare
- sei crocefissi d’ottone
- un crocefisso inargentato e un altro di stagno per il S.mo Sacramento
- nove tovaglie
- due penelli, uno di S. Giorgio e l’altro del SS. Rosario
- una ombrella per portare la S. Comunione agli infermi
- un espositorio per l’esposizione del Venerabile
- un baldacchino di seta con quattro aste inargentate
- quattro patene all’altare della S. Croce
- quattro patene all’altare del S. Rosario
- nove tovaglie all’altare del S. Rosario.16
16 Ibidem
154
LA PARROCCHIA DI TOARA
Le relazioni di don Pietro Castelli
Dal 1798 reggeva la parrocchia don Pietro Castelli, il quale, il 26 settembre
1804, in risposta ai quesiti vescovili scriveva che: “Lo stato materiale della chiesa
è sufficientemente in buon essere ma abbisogna della facciata; la casa parrocchiale è
molto ristretta, non essendo questa sufficiente al bisogno del parroco”. Segnala la
presenza di un religioso, don Gio. Batta Danieli “il quale presentemente è occupato in una cappellania nella parrocchia di Sossano e ha 32 anni”. Poi aggiunge che
“nella parrocchia v’è una sola cappellania del nobile conte Francesco Barbarano (oratorio di S. Antonio abate a Belvedere), e il sacerdote che la cura è don Pellegrin
Breganzato della parrocchia di Villaga; il suo dovere è di celebrare la santa messa
quattro giorni alla settimana”.17
In un’altra relazione dell’anno 1818, 18 riportava: “Io, Pietro Castelli, di anni 64,
da 20 anni dimoro in Toara come parroco. Il cappellano è don Giovanni Cichellero,
nativo delle valli dei Signori in età d’anni 32; da un anno e mezzo dimora in questa
parrocchia ed è maestro pubblico; vi è poi don Bortolo Bettarini di anni 55 presente
in parrocchia da cinque mesi con l’impiego di predicatore quaresimale. Vi sono poi
don Giobatta Danieli, nativo di Toara, di anni 46, che dimora a Sossano con l’impiego
di maestro di scuola pubblica, poi il rev. Don Giovanni Faccio, nativo di Toara, di
anni 41, dimora nella città di Vicenza in S. Marco dove celebra la S. Messa.
Gli uomini ammessi alla comunione sono 134, i figlioli inferiori non atti alla comunione sono 72, le donne ammesse alla comunione sono 149, le figliole inferiori 60, per
un totale di 415 anime”.
Per quanto concerne il beneficio parrocchiale, don Pietro Castelli stilava nel
1808 lo stato attivo e passivo del beneficio della chiesa: 19
Attivo
Prodotto dei beni lavorati a mezzadria
1- Formento stara quindici
valutato allo staro lire tre centesimi otto imposta
2- Sorgo stara tredici quarte tre a troni due centesimi quattro
3- Mosto mastelli sette valutato lire dieci centesimi venticinque
4- Canapo da lavorare lire sessanta valutato
centesimi venticinque alla lira
5- Vezza (vino) stara tre valutata lire due centesimi quattro
6- Legna valutata
7- Legati in soldo
17 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, b. 307
18 Ibidem
19 Arch. Parr. Toara, Beneficio, due fogli sparsi
155
lire 46.20
lire 28.6
lire 71.75
lire 15
lire 6.12
lire 7.66
lire 28.65
CAPITOLO SETTIMO
Prodotto in decime
1- Formento a misura vicentina stara 90
valutato come sopra
2- Sorgo stara quaranta valutato come sopra
3- Mosto mastelli diciassette valutato come sopra
4- Vena (avena) stara quindici
valutata lire una centesimi ventisette
5- Fava stara tre valutata lire due centesimi quattro
6- Canapo da lavorare lire venti valutato come sopra
7- Vezza (vino) stara due valutata come sopra
8- Fieno carri due valutato
lire venticinque centesimi cinquantaquattro al carro
9- Cesaroni (ciliege) stara uno
valutati lire due centesimi quattro
10- Olive stara sette valutate lire quattro
Proventi di stola
Totale delle vendite
Passivo
1- Carichi prediali e sovrimposte locali
2- Affitto di casa ad uso canonica
3- Per Consorzio Liona
4- Per gravezze al Clero di Vicenza
5- Per raccoglier le Decime
6- Per legati di messe n.12
Totale dei controscritti pesi e spese
Rimane la vendita liquida
LA PARROCCHIA DI TOARA
lire 276.30
lire 81.86
lire 173.96
lire 19.1
lire 6.14
lire 5.11
lire 4.9
lire 51.16
lire 2.4
lire 20.46
lire 11.15
lire 854.72
quasi infruttuosa, in Toara contrada di Capovilla, affittasi come sopra verbalmente coll’annua corrispondenza di lire italiane 11;
- Dal Rev. Sig. D. Giovanni Cichellero, affittuario di campi due montuosi, e
quasi infruttuosi, affittati verbalmente come sopra, coll’annua corrispondenza di lire 7.25;
- Dal nob. Sig. conte Barnardino Conti Barbarano, affittuario della metà del
fieno di campi quattro, quarti tre, posti in Toara, in contrada delli Casamenti,
che deve pagare annualmente a questa chiesa la metà del fieno; affittato verbalmente come sopra, coll’annua corrispondenza di lire 74.50”.
Il Padre Maccà , agli inizi dell’800 così descriveva la chiesa: “è posta in piano a
piedi del monte, e dedicata a S. Giorgio martire. E’ filiale della pieve di Barbarano,
ove nel sabato santo il rettore di Toara si porta a benedire il cero. Ha tre altari. Il maggiore ha un bel tabernacolo di marmo carrarese ornato di alcune picciole statue del
marmo stesso. La tavola (pala) di questo altare e quella dell’altare della Croce sono
di Giacomo Ciesa vicentino.Viene uficiata da un rettore eletto dal vescovo di Vicenza,
e da un cappellano”.20
Le note di don Pietro Costalunga
lire 236.78
lire 53.20
lire 10.23
lire 6.14
lire 35.81
lire 12.28
lire 354.44
lire 500.28
Il 28 agosto 1839, il parroco don Pietro Costalunga annotava che “la chiesa parrocchiale riscuote annue austriache lire 264.73 dalla cassa Comunale, delle quali
217.14 vengono erogate in sussidio al curato. Col tenue rimanente e colla carità dei
fedeli unicamente viene mantenuta la chiesa”. E aggiungeva che le rendite del
beneficio ammontavano a lire austriache 1444.96, mentre le passività risultavano essere di lire 531.13.21
I legati della parrocchia
Pertanto don Pietro Castelli certificava con suo giuramento che il prodotto
annuo del beneficio, depurato in un quinquennio, risultava di annue lire italiane cinquecento e centesimi ventotto; il tutto controfirmato dai tre fabbricieri
Grandi, Veronese e Faccio.
In un registro delle attività e passività del beneficio datato 1823, conservato
nell’archivio parrocchiale, don Castelli elenca anche i beni (terreni) dati in affitto con la relativa rendita:
- “Da Francesco Marcato affittuario di campi sette posti in contrada di
Fogomorto, e campi uno in contrada di Campagnola, verbalmente, senza
scrittura, per anni tre, che avranno il suo termine il giorno 11 novembre
1825, coll’annua corrispondenza di lire italiane 218, pagabili ogni anno a S.
Martino;
- Da Giovanni Maria Gaino affittuario di campi due, quarti uno, montuosa e
156
I legati presenti in parrocchia erano i seguenti:
1) Legato Conti Barbaran (anno 1846) che consisteva nel dono da parte della
nobile famiglia della casa canonica in cambio di una solenne officiatura il 3
giugno di ogni anno, in ricordo di Bernardin Conti.
2) Legato Zanulardi Girolamo: nel più antico registro dei legati della parrocchia, a pag. 51 e seguenti, compilato da don Pietro Castelli, si trova che già
dal 1798 per campi uno e un quarto in contrà Campagnola venivano celebrate ogni anno numero sei messe per il sig. Girolamo Zalunardi e moglie.
“Da questo fondo affittato - ha dichiarato don Giuseppe Zarantoniello nel
1946 – ho riscosso nel 1945 lire 2200.22
20 G. Maccà, Storia del territorio vicentino, Caldogno 1813, tomo IV, pag.334
21 Arch. Parr. Toara, Beneficio, foglio sparso
22 Arch. Parr. Toara, Beneficio, foglio sparso
157
LA PARROCCHIA DI TOARA
3) Legato Cracco Carlo: in origine era di frumento staia due e un pollo per l’utilizzo di un po’ di terra alla Fratta (vicino a Belvedere), poi commutato in
denaro nel 1880 come i livelli.
4) Legato Girolamo Guarato paga ogni anno lire tre per le quali si deve celebrare tre messe.
5) Legato Bernardino Danieli e fratelli: pagano annue lire 12 per le quali ogni
anno si devono celebrare 12 messe.
6) Legato Domenico Trevisan paga tre lire annue per tre messe.23
6. IL RECENTE RESTAURO DELLA CHIESA
Interno della Chiesa Parrocchiale di San Giorgio:il presbiterio con gli altari (il maggiore al centro, la deposizione della
Santa Croce a destra, della Madonna del Rosario a sinistra).
Nel 2004, sotto la supervisione dell’arch. Emilio Alberti, progettista e direttore
dei lavori, si è provveduto a un primo stralcio di opere che hanno riguardato
innanzitutto il rifacimento del coperto del sacro edificio che stava rischiando il
crollo.
Con la sostituzione della struttura lignea, in particolare nelle travature e delle
capriate, si è quindi sistemato il tetto. Le parti architettoniche modanate nella
facciata sono state restaurate, mentre le parti ad intonaco hanno subito un’accurata revisione. Le pareti laterali hanno riacquistato salubrità e nitidezza nel
colore.
Il campanile è stato interessato da un necessario “maquillage”con la pulitura e
il consolidamento delle murature, il recupero delle parti architettoniche e del
coperto. Si è poi passati al secondo stralcio di lavori riferiti all’interno dell’edificio, che appariva in pessimo stato di conservazione: l’umidità, la mancanza
di interventi manutentivi, il degrado determinato da cattive condizioni d’uso,
le infiltrazioni d’acqua e le coloriture improprie avevano danneggiato gravemente la struttura.
Sono stati eseguiti interventi di restauro conservativo delle superfici interne, in
particolare del soffitto, con il consolidamento delle parti sane attraverso l’uso
di resine, fili d’acciaio, stoppa e gesso per unire le crepe.
Le pareti sono state interessate dalla rimozione delle parti incompatibili e dal
recupero delle superfici originarie. Si è proceduto alla raschiatura delle coloriture improprie, al consolidamento degli intonaci, al loro rifacimento in luogo
delle lastre marmoree che sono state rimosse. La pavimentazione, in pietra di
Chiampo risalente al 1883, è stata oggetto di un intervento di restauro conservativo; anche gli elementi lapidei sono stati curati secondo una sequenza di
interventi che hanno previsto azioni di consolidamento, di rimozione dei
depositi incompatibili, stuccatura e protezione superficiale. Le vetrate artistiche, in vetro antico legato a piombo, sono state sapientemente ripulite;
inoltre, per garantire la stabilità dei vetri, si è provveduto alla sostituzione dei
telai. Ma il lavoro più impegnativo ha riguardato il recupero dei tre altari barocchi, in mediocre stato di conservazione. Per oltre un mese un gruppo di studen-
L’altare maggiore con la pala di San Giorgio.
23 Ibidem
158
159
CAPITOLO SETTIMO
ti della scuola di restauro Engim Leone XIII si è dedicato al restauro dello
splendido altare maggiore dedicato a S. Giorgio, titolare della chiesa, in cui
spicca un elegante tabernacolo in marmo carrarese, ornato di piccole statue. Il
lavoro è stato completato con il ripristino dei due artistici stucchi laterali e di
alcuni decori variegati che da tempo erano scomparsi sotto strati di colore e che
ora impreziosiscono il presbiterio. Pure i due altari laterali, dedicati alla Beata
Vergine del Rosario e alla Deposizione dalla Santa Croce, hanno riacquistato
nitidezza di forme e di colori.
Non sono state trascurate poi le opere pittoriche contenute nella chiesa: due di
esse, L’Ascensione di Gesù e Dio Padre incoronato da angeli, di datazione ottocentesca, sono state restaurate da Raffaello Peotta; altre due tele del pittore
vicentino Giacomo Ciesa fanno bella mostra di sé, una sull’altare maggiore (S.
Giorgio che uccide i drago) e l’altra sull’altare della Santa Croce.
Il sacro edificio è stato messo in sicurezza e reso più funzionale con la sostituzione degli infissi (nuovo portale, restauro dei vecchi confessionali) e il rifacimento degli impianti di riscaldamento, elettrico, di illuminazione e di diffusione sonora.
È stato pertanto condotto un intervento radicale, che ha comunque mantenuto ed esaltato le caratteristiche di questa pregevole chiesa risalente ai primi
anni del Settecento, ricostruita su una precedente cappella sorta nel contesto
dell’antica pieve di Barbarano.
7. LA CANONICA DI TOARA
Anche la canonica di Toara ha una lunga storia alle spalle, che merita di essere
conosciuta.
Da un documento conservato in Curia vescovile, denominato “Supplicationes
Rev. Francesco Danieles Rector Thovara”24 dell’anno 1636 veniamo a sapere che il
parroco don Francesco Danieli denunciava la situazione precaria in cui si
trovava al canonica: “Essendo io Francesco Danieli stato destinato dall’ill.mo R.
Mons. Arcivescovo Stella, vescovo di Vicenza, al governo della chiesa di S. Giorgio di
Toara… ho trovato una casa che dai miei antecessori è stata abitata, ma con grandissima incuria… una caminata (canonica) tanto angusta che è necessaria
un’abitazione per il rettore”. Pertanto supplica che venga costruita una nuova
fabbrica e di ciò ha discusso con il conte Giulio Barbarano, “qual essendo ha stabilito di concedermi subito e ai miei successori una sua casa murata, cupata, solarata, con ara, forno, teza. Essa si trova attaccata presso quella della chiesa in contrà
della Fontana”.
Il parroco si confronta con Giacomo Montan e Zuane Prizaro, massari della
confraternita del SS. Sacramento, unita a quella del S. Rosario, perché “con dei
publici denari si vorebbe provedere a tale emergenza impegnando 250 ducati nell’acquisto della casa di accrescimento della caminata”.
LA PARROCCHIA DI TOARA
Nel libro cronistorico di Toara don Giovanni Zarantoniello riporta che la
canonica esistente venne rifatta dal conte Giulio Barbarano proprio nel 1636
e consegnata al rettore pro tempore di Toara.
Un secolo più tardi, nel 1769, il parroco Matteo Tommaselli scrive che
“essendo la cannonica tutta quasi inabitabile perché quasi cadente…senza cuccina, senza forno, senza orto, senza ara, senza teza, e senza sottoterra…m’è convenuto prendere d’affitto una casa dalli N. Sig. Pietro e Girolamo fratelli Conti
Barbaran,con l’esborso annuale di lire 104”. 25
Passiamo all’800, quando scoppia il conflitto tra il parroco (don Antonio
Costalunga) e la famiglia Conti Barbaran per la proprietà della canonica. Ma
andiamo con ordine nel raccontare i fatti, a partire dal 1839, quando don
Costalunga scrive al vescovo informandolo della necessità di provvedere al
restauro urgente della canonica; sollecita il Consiglio comunale perché si
faccia carico dei lavori, convinto che la canonica non sia di proprietà dei
Conti-Barbarano. I suoi sforzi per ottenere il restauro della canonica cadono
però nel vuoto, poiché il Consiglio comunale non prende provvedimenti in
merito.
Successivamente, in una lettera inviata alla Curia vescovile l’8 luglio 1844 26
afferma perentorio: “Questa casa non è di assoluta proprietà dei nob. Conti. In
epoca trascorsa (saran circa 100 anni) si dovette ampliare la chiesa: lo si fece col
togliere al parroco la massima parte della canonica. La nob. Famiglia Conti di
allora imprese di fornire ai parrochi pro tempore quanto era necessario; ed
aggiunse al piccolo avanzo di casa vecchia niente più di quanto mancava dopo la
praticata demolizione; e il lavoro fu praticato in buona parte sopra fondo comunale, e usato il muro della casa vecchia per la costruzione della nuova aggiunta,
di modo che ne risultò una casa sola, e indivisibile: anzi non è ben chiaro e deciso
qual porzione sia stata costruita di aggiunta. Viene affermato che il Comune
cedette alcuni diritti suoi comunali al nob. Conti. Certamente parecchi grandi gelsi
ei possede piantati sopra fondo comunale. Fin d’allora fu istituito un canone di
venete L. 104 sopra questa casa a carico dei parrochi, il quale però appena pareggia la terza parte del merito, se tutto, quanto esso pretende, è di assoluta sua proprietà. Nessun parroco questa casa la prese in affitto: fu abitata costantemente dai
parrochi succedentisi: non fu mai un giorno solo, dacchè sussiste, in possesso
Conti, nemmeno in tempo di vacanza: e senza questa casa è tolta affatto
l’abitazione anche per un parroco, il quale in canonica fosse solo. Da tutto ciò
apparisce e la giustizia della causa e l’urgenza d’un esame sopra luogo verificato
da un’apposita imparzial Commissione, e l’intervento del Comune, di chè il sottoscritto supplica istantemente in mezzo alle continue molestie, che gl’impediscono
pur anche il tranquillo esercizio del suo ministero”.
La vicenda finisce nelle aule dei tribunali e alla fine soccombe il parroco, il
25 T. Cevese-R. Pellizzaro, Toara, La Serenissima, 1999, pag. 86
26 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, b. 307
24 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, b. 307
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CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
quale riceve addirittura l’ingiunzione di sfratto da parte del conte Marzio.
Il parroco, in data 18 ottobre 1845, scrive una lettera accorata alla Curia
vesco-vile 27 denunciando che “senza preavviso nè uffiziale nè privato, giovedì
16 corrente capitò in casa il Cursor pretoriale per effettuare lo sgombero della
canonica, ed eran pronti gli artefici per murare, per asportare ecc. Mi furono
esibiti gli atti relativi. Nella descrizione dei locali da sgombrare trovai non precisate le stanze costituenti la casa che il nob. Conti pretende sua, a differenza
delle stanze costituenti la porzione di casa di ragione del Beneficio; ma espresso semplicemente una casa.
Io opposi che sono pronto a sgombrare e rassegnare quanto mi apparisce chiaro
non ledere la proprietà comunale e del Beneficio; ma ho sostenuto che in punto
della canonica propriamente detta, che è una casa unica ed indivisibile, io non
isgombro locale alcuno, perché alcuno non ne è precisato. Il nob. Conti comparso personalmente non volle eccezioni di sorte alcuna: ordinò che di presente si
desse mano all’esecuzione. Le stanze le precisava esso verbalmente. Io insistetti sulla negativa. Chiamò indicatori, da cui nulla fu rilevato di certo. Volea pure
l’esecuzione immediata. Si addussero ragioni, si interposero mediazioni di tutte
le persone presenti, ch’erano più di dieci. Tutto fu nulla. Io arbitrai finalmente
colla massima umiliazione, di cui mi saran testimoni tutti gli astanti, di un
convegno con riconoscimento del suo diritto e contribuzione al suo beneplacito
(inteso per me, senza pregiudizio) purchè mi venga assicurata l’abitazione…”.
Il dissidio si risolse l’anno dopo, nel 1846, quando il parroco don
Costalunga se ne andò dalla parrocchia e il conte Marzio Conti Barbaran,
il 24 settembre,“con carta privata” donò la canonica al nuovo rettore, don
Antonio Pagani. Più tardi, nel 1851, i nipoti Pietro e Ascanio confermarono legalmente la donazione dello zio Marzio al parroco locale pro
tempore nel modo e nelle condizioni indicate nel contratto fatto presso la
Pretura di Barbarano il 12 settembre di quell’anno. In tale documento 28 “i
nobili Pietro e Ascanio Conti Barbaran donano, cedono e perpetuamente alienano al parroco pro tempore della chiesa di S. Giorgio di Toara d. Antonio
Pagani che per se e i suoi successori in perpetuo accetta ed acquista: una casa
con orto ed adiacenze in Toara in contrada della Piazza…
I nobili Conti si riservano però l’uso e godimento dei gelsi fino a che vivranno,
esistenti nella corte annessa a detta casa. La detta donazione viene fatta sotto
condizione e non altrimenti che il parroco pro tempore di Toara debba ogni anno
in perpetuo a tutte sue spese far celebrare nella chiesa parrocchiale di Toara nel
giorno 3 giugno anniversario della morte del nob. Bernardino Conti (padre di
Marzio) in suffragio dei defunti della nobile famiglia Conti Barbarano un ufficio di requiem con messa solenne cantata coll’intervento di 8 sacerdoti”.
Quasi cento anni dopo, don Giovanni Zarantoniello, precisa che 29 “nel 1920 il
parroco di allora (don Pietro Vigolo) chiedeva che, data l’impossibilità, fosse ridotto
il numero dei sacerdoti e la Curia concedeva la riduzione a soli 3 sacerdoti, parroco
compreso, ad quinquennium; in questo senso si regolarono poi i parroci. Nel 1928
questa annuale ufficiatura venne trasportata al 29 gennaio”.
8. LA CHIESA DI S. ANTONIO ABATE DI BELVEDERE
La chiesa di S. Antonio abate in Belvedere venne eretta nel 1444 dal nobile
Montano II Barbarano, proprietario del vicino castello, come testimonia una
lapide murata nella sacrestia, dietro l’altare.
La cappella gentilizia venne visitata nel 1583 dal vescovo Michele Priuli:
Dalla relazione pastorale è emerso che “ha un altare di marmo consunto; il
vescovo ordina di far dipingere una pala e di rinnovate le finestre; la chiesa
dispone di due calici, patena e messale romano riformato, poi due candelabri e tre
pianete con finimenti: Ha altri due altari marmorei ai lati dell’aula, non consacrati, che ordinò fossero tolti. Fuori della chiesa vi è il cimitero nel quale è presente un altare che il vescovo ordinò di togliere, poi diede disposizioni perché fosse
riparato il muro di cinta”.30
L’oratorio fu riedificato pochi anni dopo, nel 1588, da un altro Montano
(quarto) che, appena iniziati i lavori, venne colpito da una febbre perniciosa
e morì nel giugno di quell’anno. Ma egli, qualche giorno prima di spirare,
dettò le sue ultime volontà; fece quindi testamento e tra le sue disposizioni
vi era anche che la chiesa fosse terminata e poi mantenuta.
Egli ordinò infatti “che la chiesa e casa per esso magnifico testador principiate
nella villa di Belvedere secondo il modello del Groppino siano continuate e finite
in modo che nella prima domenica del mese di settembre prossimo futuro possi (la
Lapidi con iscrizioni che ricordano la riedificazione della Chiesa nel 1588 e la visita pastorale del 1736 del Vescovo
Suarez.
29 Arch. Parr. Toara, foglio volante
30 Arch. Curia Vicenza, Visitationes, b. 4/0556
27 Ibidem
28 Arch. Parr. Toara
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LA PARROCCHIA DI TOARA
chiesa) esser consacrata et in quella dire la prima messa, spendendoli tutto quello che
farà bisogno et serà necessario giusta l’ordine et modo per esso magnifico signor testadore dato et principiato. Et questo sia fatto senza alcuna dillatione et che ancho
imediate consecrata che serà essa chiesa si debba trovar un capellano di bona vita al
quale sia assignato per salario ducati 50 all’anno…con obbligo al detto capellano che
ogni giorno debba dire messa per l’anima di esso testador”.31
Nel testamento si fa riferimento a Domenico Groppino, capomastro-architetto di scuola palladiana, chiamato dai Barbarano per l’esecuzione di alcuni
lavori, tra cui la chiesa che venne effettivamente completata nel 1588. Ne è testimonianza l’iscrizione lapidea conservata in sacrestia in cui si legge:
“TEMPLUM HOC AEDIFICATUM ANNO MCCCCXLIIII MONTANUS BARBARANUS IOANNIS FILIUS REAEDIFICANDUM CURAVIT ET IACTIS
FUNDAMENTIS INCIDIT IN FEBRI PERFICI LEGAVIT ET OBIIT ANNO
1588”.
(Questo tempio venne edificato nell’anno 1444.
Montano Barbarano figlio di Giovanni curò la sua riedificazione e gettate le
fondamenta, si ammalò di febbre, ordinò che fosse compiuto e morì nell’anno
1588).
Più tardi, nel 1613, l’interno della chiesa fu pavimentato ad opera di Camillo
Barbarano, come asserisce un’iscrizione posta sul pavimento, appena entrati in
chiesa.
Il 21 maggio 1645 il vicario generale Giuseppe Zaghio visitò la chiesa 32 affidata alla cura della parrocchiale di Toara. Ha un unico altare, un campanile e il
cimitero.Visitò l’altare che ha la pala della Beata Vergine e altri santi, senza altra
immagine di S. Antonio, e un portatile33 antico consacrato. Il vicario ordinò di
provvederlo di una nuova pietra sacra da inserire nella mensa in modo che non
si stacchi e che risulti un po’più elevata; ciò doveva essere fatto in breve tempo,
pena la sospensione dell’altare. Ordinò anche di far dipingere una immagine
del santo titolare della chiesa (S. Antonio) e che la mensa fosse coperta con una
tela cerata e fornita di tabella.
Vide poi il pavimento divelto a causa delle sepolture; ordinò che fosse sistemato.
Visitò la sacrestia e ordinò che il calice fosse dorato, che si provvedesse ad una
patena d’argento e ad un nuovo messale; inoltre ordinò di tenere dei corporali
e di fare una pianeta nera, un’altra violacea e un’altra ancora bianca da custodire in due armadi.
Vide il campanile, sulla cui punta ordinò fosse apposta la croce. Visitò il
cimitero nel quale comandò che fosse apposta una croce e che fossero tagliate
le piante.
La Chiesa di S. Antonio Abate di Belvedere vista dal portale del Castello.
31 G. Mantese, Lo storico vicentino P. Francesco da Barbarano, in Odeo Olimpico, IX-X, 1970-71, pag. 42
32 Arch. Curia Vicenza, Visitationes, b. 8/0560, Toara
33 Il portatile è la parte centrale dell’altare, la mensa o pietra sacra.
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CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
La predetta chiesa è dotata di un cappellano e vi è una casa per l’abitazione di
lui con due campi vicini e due altri fuori, che il volgo dice in campagna.
Nel 1664, il parroco di Toara Gasparo Bassadelli, annotava che “la chiesa di S.
Antonio abate è juspatronato dei conti Barbarano del Castello di Belvedere, i quali
pagano il sacerdote et lo elegono ad libitu, secolare; come secolare ne ha giurisdizione
di cura d’anime”. 34
Nel secolo successivo, precisamente nel 1736, avvenne un nuovo e radicale
restauro della chiesa documentato da un’iscizione lapidea murata sulla facciata che dice: “COLLABENS TEMPLUM…AERE SUO REPARAVIT AUXIT
ORNAVIT FRANCISCUS BARBARANUS PATRICIUS VENETUS CAMILLI
FILIUS A.D. MDCCXXXVI". Poiché si trovava in pessime condizioni, il patrizio
veneto Francesco Barbarano di Camillo, l’anno 1736, riparò, aumentò e ornò la
chiesa dotandola di paramenti, vasi sacri e dipinti.
Sulla facciata un’altra lapide ricorda che, con il permesso del vescovo di
Vicenza Sebastiano Venier, il vescovo di Feltre Pietro Mario Trevisan dei marchesi Suarez celebrò i divini misteri e cresimò nei giorni 10-11 e 14 ottobre
1736. Agli inizi dell’800 il padre Maccà scriveva che “ha una mansionaria uficia-
ta da un cappellano con debito di messe nella domenica, e in tre giorni per settimana.” 35
Nel 1854 viene collocata nella chiesa la nuova Via Crucis composta da 14
oleografie su cartone, di bottega veneta. Il parroco don Antonio Pagani delegava un padre del convento di S. Pancrazio per la santa visitazione.36
Una nota del 20 aprile 1861, scritta da don Antonio Pagani, ci informa che
l’oratorio di S. Antonio abate “ è di pertinenza del sig. Federico Frigo di Vicenza.
Eravi un tempo l’onere di S. Messa quotidiana, poi fu ridotto a due messe alla settimana; ma fin dal 1836 fu venduto con tutte le proprietà immobili dal conte
Barbarano, ora famiglia estinta, al nominato Frigo senza neppur nominare il legato messe e quindi da quell’epoca fu totalmente abbandonato il legato messe, né si
rinvennero documenti per l’attivazione. Esso è in pessimo stato”.37
Alla fine dell’800 il parroco don Agostino Ancetti riporta che “l’oratorio è in
grave deperimento, anche se è provveduto sufficientemente per la celebrazione
della S. Messa”. 38 Ricorda poi che gode il privilegio di due annue indulgenze plenarie, concesse dal SS. Pio VI con Breve dell’11 gennaio 1780, una fissata nel giorno 17 gennaio, l’altra “ad libitum episcopi”. “Tale Breve – precisa
don Ancetti – assicurano i vecchi, esisteva un tempo in quell’oratorio, ma andò
consunto dall’umidità del muro a cui era appeso; i vescovi di Vicenza, per applicare la seconda indulgenza, si basarono volta per volta sul decreto del vescovo
antecessore”.39
Nell’anno 1900 il parroco don Agostino Ancetti, col concorso di tutta la
popolazione di Belvedere e Quargente procedette al restauro generale dell’oratorio “oramai quasi diroccato perché abbandonato dagli antichi proprietari.
Tale ristauro fu pure dedicato al SS Redentore”.40
Belvedere cominciò a muovere i suoi primi passi indipendentemente dalla
matrice Toara quando, nel 1943, divenne curazia per decreto del vescovo
appena giunto a Vicenza, mons. Carlo Zinato. Ma è da ricordare che già nel
1914 il vescovo Rodolfi aveva concesso la celebrazione della messa domenicale nella chiesa di Belvedere, per alleviare in tal modo le scomodità di quei
cristiani, lontani dalla parrocchiale di Toara.
Poi, con decreto del 25 novembre 1953, il vescovo Zinato elevava a parrocchia la curazia di Belvedere e, nel successivo gennaio 1954, ne nominava il
parroco nella persona di don Giosuè Billo, che dal 1945 era curato della stessa comunità.
La Chiesa e il Campanile visti dalla strada che sale al Castello.
35 G. Maccà, Storia del territorio vicentino, tomo IV, pag. 336
36 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, b. 307
37 Ibidem
38 Ibidem
39 Ibidem
40 Arch. Parr. Toara, Registro nati Toara, all’anno 1901
34 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, b. 307
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CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
GLI ULTIMI INTERVENTI
nuovi arredi liturgici: altare, sede,
ambone e fonte, in questa sede previsti
con linee stilistiche essenziali realizzati
in pietra di Vicenza e legno. Tutti gli elementi hanno carattere austero e in particolare l’altare che assume la configurazione di “tavolo” (70x170x95), così da
consentire la visibilità del prezioso
paliotto seicentesco”.
Completano gli interventi, l’illuminazione interna, che meritava di essere
migliorata proprio dal punto di vista
della qualità della luce artificiale, e
l’impianto di diffusione sonora. Infine,
per quanto concerne le finiture
interne, le pareti sono state ridipinte Una formella della Via Crucis: crocifissione di Cristo.
con pittura a calce nelle tonalità che si
armonizzino con le preesistenze
architettoniche e artistiche di antica e
nuova collocazione (via Crucis).
La pavimentazione esistente (realizzata sopra quella originaria elevando
tutta l’aula di un gradino) necessitava
di un intervento di manutenzione
straordinaria che ha previsto la pulitura in profondità delle superfici, la stuccatura dell’intera aula e la successiva
lucidatura finale.
Negli anni scorsi sono stati compiuti importanti interventi migliorativi della
struttura. “Sono lavori - ha osservato l’allora parroco don Giancarlo
Pianezzola - che ci permettono di esaltare le bellezze artistiche della chiesa, di
recuperare spazi, attualmente molto ristretti, e di rendere maggiormente significative le celebrazioni della comunità. Pertanto sono stati realizzati lavori di
manutenzione straordinaria degli interni e di adeguamento liturgico; in particolare hanno riguardato gli impianti di illuminazione e di diffusione sonora, la
tinteggiatura, la risistemazione del presbiterio, degli arredi sacri e del portale”.
Il tutto è stato illustrato da Virginio Sanson - dell’Ufficio beni culturali
della diocesi - e dall’architetto Barbara Zattra - progettista e direttore dei
lavori - nel corso di una conferenza, ed inaugurato domenica 8 agosto
2004 con una S. Messa serale.
“La chiesa – puntualizza l’arch. Zattra - presentava soffitto piano con quattro
travi lignee a ricordo delle antiche catene delle capriate, fronti interni dipinti di
bianco (ad eccezione di un affresco-sinopia rimasto lungo il fronte meridionale),
area presbiteriale elevata rispetto all’aula in seguito alla realizzazione della
pedana con moquette rossa che produceva un gradino artificioso in corrispondenza delle porte di accesso all’antica sacrestia.
La soluzione progettuale proposta ha previsto la rimozione dell’attuale
“pedana” che individua l’area presbiteriale, il successivo recupero dei gradini
dell’altare cinquecentesco in modo da ripristinarne la configurazione originaria.
Giustapposta al gradino inferiore, verso l’assemblea, è stata collocata una predella che sarà la base del nuovo altare.
A destra dell’altare, in prossimità dell’assemblea è collocato l’ambone, elevato
rispetto all’aula, così da porsi come “stabile ed elevata tribuna” da cui proclamare la parola di Dio. A sinistra dell’altare è posta la nuova sede del celebrante
(non più frapposta e in asse fra altare e custodia eucaristica).
A completamento del riordino dell’attuale area presbiteriale è stata spostata la
consolle dell’organo lungo il fronte meridionale della chiesa eliminando così
l’attuale barriera fisica fra aula e presbiterio e permettendo al coro di porsi sia
nelle prime file dell’assemblea sia intorno all’ambone. E’ stata poi ridotta la
profondità della bussola d’ingresso, che dà una maggiore ariosità alla chiesa.
Lungo il percorso principale, laddove già esiste un decoro del pavimento, viene
collocato il fonte battesimale, “che deve essere posto al di fuori del presbiterio”.
Tale collocazione è frutto di una serie di valutazioni e prove che hanno dimostrato non esserci altre alternative, funzionali e liturgicamente corrette, per la sistemazione del fonte, considerate le piccole dimensioni di questa cappella –
chiesa, particolarmente compromessa da interventi che hanno stravolto la configurazione artistica e architettonica dell’ambiente stesso .
L’intervento di adeguamento acquista maggiore significato con l’inserimento dei
168
LA NUOVA VIA CRUCIS
Grazie all’abilità artistica dello scultore Luciano De Marchi e al dono
fatto alla comunità da Maria Zorzan
Una formella della Via Crucis: flagellazione di Cristo.
(una parrocchiana di Belvedere familiarmente conosciuta come “Mari”), la quattrocentesca chiesetta di
Sant’Antonio abate, antico e grazioso oratorio dei conti Barbarano, da
qualche anno dispone di una notevole opera che si compone di 15 formelle
in pietra bianca di Vicenza che raccontano altrettanti momenti della vita di
Gesù, dalla nascita alla resurrezione.
169
CAPITOLO SETTIMO
“Il salire alla chiesetta per pregare e celebrare – ha scritto il parroco don Giancarlo
Pianezzola nel libretto di presentazione dell’opera 41 – diventa ora anche un invito a
contemplare la bellezza di Dio riflessa nella nuova Via Crucis. Una Via Crucis che ci aiuta,
guidati dalla Spirito, ad entrare non solo nel Tempio, ma nel cuore di Dio, nell’intimità del
suo amore rivelato nel Figlio Gesù, il Cristo. E non unicamente nel momento tragico della
sua Passione, ma sin dalla sua nascita sino alla Risurrezione”.
Nelle 15 stazioni dell’opera, l’orizzonte della sofferenza, che contraddistingue la passione, si distende per tutta la vita del Signore, dalla nascita alla vittoria sulla morte,
stemperandosi dapprima nella semplicità e umiltà della nascita a Betlemme e nella
guarigione del cieco, intensificandosi poi, progressivamente, negli episodi della
lavanda dei piedi, la preghiera nell’orto, il disconoscimento di Pietro, l’atteggiamento indifferente di Pilato, la flagellazione, fino ai momenti tradizionali, dolorosissimi,
del cammino verso il Golgota: l’incontro con le pie donne, l’aiuto del Cireneo, la crocifissione. Poi, prima che si compia l’estremo sacrificio, ecco due scene che illuminano la figura di Gesù e di Maria: il perdono del ladrone buono e il dolore per la
sorte del figlio. Quindi la morte e la successiva deposizione del corpo di Gesù nel
sepolcro, con l’episodio conclusivo della gloria del Cristo risorto.
“Il tutto con le figure ridotte all’essenziale - ha osservato mons. Nonis nel libretto -, con
una soavità solo spirituale che addolcisce la greve mole dei corpi. Fa parlante il silenzio
(come nella scena del processo, in cui Gesù appare già caricato del patibolo), senza attenuare la violenza della scena in cui il Cristo viene inchiodato, e raggiunge anzi grande
dolorosa dolcezza nel colloquio del condannato con le donne incontrate sulla via, o nella
Deposizione che prelude alla sepoltura. Se dovessi ridurre a due parole questa commovente
opera del nostro artista (Luciano de Marchi) – osserva mons. Nonis – direi “spiritualità”,“umanità”: che sono poi non solo le caratteristiche essenziali dell’Uomo-Dio, ma anche
le connotazioni inconfondibili dell’arte popolare e nobile di Luciano De Marchi”.
La caratteristica Via Crucis di Belvedere merita una visita attenta per la sua intrinseca bellezza; è un itinerario di arte e di fede dove l’animazione degli sguardi e degli
atteggiamenti scolpiti racconta, con un linguaggio universale, i momenti più significativi della storia più grande, che è anche intimamente la nostra, del Dio che si fa
uomo, muore e risorge per dare un senso alla nostra vita.
L’antico altare della Chiesa di Belvedere con la pala di S. Antonio Abate e in primo piano il nuovo altare e l’ambone.
9. DESCRIZIONE DELLA CHIESA ATTUALE
La chiesa di S. Antonio abate, con pianta disposta ad oriente, presenta una facciata
dalle linee molto semplici: due paraste angolari, con base e capitelli tuscanici in
pietra, sorreggono il frontone triangolare sormontato da una croce. Al centro vi è l’elegante portale con un bel timpano arcuato, in pietra tenera di S. Germano.
Sulla parete sinistra, di fianco all’abside è inglobato il bel campanile a quattro monofore, di cui una accecata, terminante con cuspide a pigna, in cotto. Nella cella cam-
41 Comunità cristiana di Sant’Antonio Abate in Belvedere, “Via Crucis”, edito dalla Parrocchia di Belvedere,
anno 2004
170
Interno della Chiesa.
171
CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
panaria sono sistemate sei campane.
La più antica venne fusa nel 1455,
poi, due secoli dopo, nel 1656, poiché
si era lesionata, fu fatta rifondere da
Camillo Barbarano. Una seconda
campana, con la scritta: “Venite adoremus: Venite fili audite me: A peste fame
et bello libera nos Domine”, di proprietà
di Angelo Chemin Palma, ed opera di
Pietro Colbachini di Bassano, venne
donata alla chiesa nel 1871. Altre due
Il vecchio Tabernacolo custodito nell’antica Sacrestia.
campane vennero acquistate nel
1924 dalla ditta Luigi Corradini di Verona. Una campana ha la seguente dedicazione:
“Laudo Deum plebem – voco – congrego clerum”, mentre l’altra riporta:“A fulgore et tempestate libera nos Domine 1924”. Le ultime due campane, della ditta Fagan Adone di
Vicenza, furono fatte collocare nel campanile da don Giuseppe Giacomello nel
1983. Una è dedicata a Maria Immacolata, mentre l’altra ricorda l’Anno Santo della
riconciliazione.
All’interno della chiesa, ad un’unica navata, spicca l’elegante altare in pietra gialla,
addossato alla parete, che così descrive il cultore d’arte Antonio Verlato:42 “quattro
colonne corinzie scanalate, poggianti su alti
piedistalli, sostengono una armoniosa trabeazione, con leggero timpano nel comparto
centrale. Gli scomparti di risulta sono tutti
affrescati.
L’Annunciazione appare sul primo registro:
a sinistra l’Angelo annunziante con il giglio
in mano, in vesti rinascimentali; a destra la
Vergine in atto orante, a braccia aperte.
Molto sciolti e luminosi sono i paesaggi che
appaiono nei due riquadri (l’ambiente è
quello dei Berici).
Affresco presente sul soffitto ligneo dell’antica Sacrestia.
Nel secondo registro, entro cartigli, sono raffigurate in monocromo due scene dell’Antico Testamento. Sulla fascia che collega i capitelli
sono dipinti alcuni festoni di foglie e frutta, secondo la moda rinascimentale. Al centro del
timpano sta il Padre Eterno. Due vittorie alate incorniciano la pala nell’intercolunnio centrale. Convince l’attribuzione dello studioso Zorzi al pittore Anselmo Canera di Verona, che
negli anni precedenti aveva operato nel palazzo palladiano di città di Montano IV.
Al centro sta una pala centinata (olio su tela cm 173 X 324), degli inizi del Seicento, rappresentante S. Antonio abate, dal volto corrucciato, in piedi con un libro tra le mani; a destra
S. Antonio da Padova in ginocchio, con il bianco giglio posato a terra, con la mano destra
al petto e l’altra appoggiata al sacro legno, volge lo sguardo al Cristo posto sull’alta croce.
Stupendo è il Cristo morto, disposto obliquamente, con perizoma bianco svolazzante, così
pure l’angelo ad ali spiegate, che occupa la parte superiore della composizione, mentre
sostiene amorevolmente la croce in un pietoso abbraccio. In alto, tra nuvolaglie, scende un
raggio di fredda luce. L’impostazione e la resa pittorica hanno forti richiami maffeiani,
anche se non si esclude l’intervento di qualche artista della bottega dei Maganza. La pala è
stato restaurata negli anni Novanta da Raffaello Peotta”.
Ai lati dell’altare vi sono due eleganti porte laterali a due battenti (con dipinti putti
alati) che immettono nella retrostante sacrestia. In questo piccolo vano è conservato
il tabernacolo in pietra bianca scolpita risalente alla prima metà del Settecento. Sul
soffitto della sacrestia sono presenti tre dipinti ad olio raffiguranti due angeli e la
Trinità. Sulla parete destra della chiesa è dipinta una sinopia raffigurante una
Madonna in trono tra i santi Rocco e Sebastiano, entro un’elegante cornice della fine
del ‘500, racchiusa in una edicola ad elaborate volute. L’affresco, secondo Verlato,43
richiama i modi di Giovan Battista Maganza, detto il Magagnò (1513-1586), grande
amico di Montano IV. Decorati con affreschi e con tele di pregio erano pure gli altri
fronti interni, purtroppo distrutti o perduti dapprima in seguito all’abbandono e
all’incuria, poi ad interventi di abbellimento e ristrutturazione effettuati negli anni
’40 e ’60 del secolo scorso. Tali interventi hanno comportato la sostituzione della
copertura lignea a capriate a vista con una nuova struttura in laterocemento con soffitto piano e copertura a due falde, la demolizione della decorazione ad affresco
posta lungo lo sviluppo della copertura, la rimozione delle balaustre, il rifacimento
completo delle superfici interne e del pavimento (realizzato con una palladiana collocata sopra l’antica pavimentazione e la tomba dei conti Barbarano).
42 A. Verlato, S. Antonio Abate di Belvedere, in mensile Il Basso Vicentino, giugno 1996, pagg. 68-69
43 A. Verlato, S. Antonio Abate di Belvedere, pag. 69
172
La parrocchia di Belvedere, eretta nel 1953; lo stato d’anime del ‘54
Con decreto del 25 novembre 1953, il vescovo Zinato elevava a parrocchia la curazia
di Belvedere, e nel successivo gennaio 1954 ne nominava il parroco nella persona di
don Giosuè Billo, che da oltre otto anni era curato della stessa comunità.
Riportiamo lo stato d’anime della parrocchia di Belvedere redatto nell’anno 1954 da
don Billo, indicante i 156 capifamiglia, il numero dei componenti dei nuclei familiari
e il luogo di residenza.
Aldegheri Vittorio (5), Quargente; Barbaro Giuseppe (4) Alture; Cocco Primo (4)
Belvedere; Cocco Federico (7) Belvedere; Campedel Remo (4) Belvedere; De Mani
Romano (2) Belvedere; De Mani Augusta (3) Belvedere; De Mani Bonfiglio (2)
Belvedere; Faccio Isidoro (3) Quargente; Fracasso Ettore (8) Belvedere; Fracasso Lino
(3) Belvedere; Ghirardello Eugenio (1) Quargente; Menegon Cirillo (2) Belvedere;
Bicciato Alessandro (3) Belvedere; De Mani Albino (4) Belvedere; De Mani Antonio
(7) Belvedere; De Mani Tullio (11) Belvedere; De Marchi Angelo (6) Belvedere;
Manzin Alessandro (2) Belvedere; Zorzan Giuseppe (6) Belvedere; Zorzan
Beniamino (2) Belvedere; Toniolo Valentino (3) Belvedere; Priante Giuseppe (3)
173
CAPITOLO SETTIMO
LA PARROCCHIA DI TOARA
Belvedere; Omenetto Emilio (5) Belvedere; Muraro Igino (1) Belvedere; Pozza
Ernesto (4) Belvedere; Bellin Baldassarre (6) Quargente; Bellin Giovanni (3)
Quargente; Spinello Antonio (7) Quargente; Mercante Giovanni (8) Quargente;
Guarato Luigi (2) Quargente; Ranzolin Mario (5) Alture; Ranzolin Pietro (7) Alture;
Mazzucco Girolamo (10) Alture; Pieropan Valentino (4) Quargente; Cichellero
Giuseppe (7) Quargente; Danieli Felice (8) Quargente; Zanconi Pietro (6)
Quargente; De Grandi Luigi (5) Quargente; Mazzaron Angelo (8) Belvedere; De
Marchi Marsilio (6) Belvedere; Marchioro Giuseppe (4) Belvedere; Fornasioero
Angela (3) Belvedere; Miatton Nicodemo (5) Belvedere; De Mani Virginio (5)
Quargente; Bulla Angelo (2) Belvedere; Bellini Cesare (2) Belvedere; De Marchi
Giuseppe (3) Belvedere; Pozza Domenico (13) Quargente; Ghirardello Attilio (7)
Quargente; Rovea Adolfo (7) Quargente; Pieropan Augusto (3) Quargente; Danieli
Giovanni (3) Quargente; Aldegheri Arcangelo (7) Quargente; Dal Cero Luigi (2)
Quargente; Fontana Domenico (6) Alture; Fontana Giovanni (3) Alture; Faccio
Giovanni (4) Quargente; Faccio Lino (4) Quargente; Fontana Primo (2) Alture;
Ferrari Maria (8) Quargente; Ferrari Giuseppe (2) Quargente; Ferrari Clorindo (4)
Quargente; Guglielmi Giovanni (2) Belvedere; Guarato Erminio (5) Quargente;
Groppo Giulio (7) Belvedere; Gianesini Domenico (8) Quargente; Guarato Giorgio
(14) Quargente; Guarato Ederio (3) Quargente; Guarato Antonio (10) Quargente;
Groppo Luigi (12) Belvedere; Groppo Armando (3) Belvedere; Gambin Pietro (4)
Belvedere, Munari Nicolò (4) Belvedere; Manzin Vittorio (6) Quargente; Manzin
Renato (4) Belvedere; Montesello Ortensio (6) Crocefisso; Montesello Cirillo (3)
Crocefisso; Melato Sante (5) Crocefisso; Melato Antonio (5) Crocefisso; Mazzaron
Silvio (4) Belvedere; Mazzaron Pietro (5) Belvedere; Marangon Matteo (5)
Quargente; Marangon Mario (3) Quargente; Menegon Lorenzo (6) Belvedere;
Miglioranza Giulio (5) Belvedere; Maistrello Egidio (6) Quargente; Mazzaron Giulio
(6) Belvedere; Mazzaron Agostino (3) Belvedere; Mazzucco Giovanni (6) Quargente;
Miglioranza Pasquale (6) Belvedere; Miglioranza Sergio (3) Belvedere; Miglioranza
Pietro (5) Belvedere; Modenese Lodovico (5) Belvedere; Miglioranza Giulio (7)
Belvedere; Mazzaron Andrea (9) Belvedere; Manzin Sante (5) Belvedere; Oliviero
Caterino (5) Belvedere; Savoia Valentino (5) Belvedere; Schiarante Antonio (3)
Belvedere; Sartori Vetusto (7) Alture; Sartori Girmo (5) Alture; Sartori Danilo (3)
Alture; Schiavon Gastone (4) Belvedere; Soldà Giuseppe (5) Belvedere; Venturini
Attilio (5) Fogomorto; Venturini Benvenuto (5) Fogomorto; Venturini Arrigo (4)
Fogomorto; Visentin Guido (4) Belvedere; Visentin Adolfo (6) Belvedere; Varotto
Angelo (3) Belvedere; Zen Davide (7) Quargente; Zanconi Antonio (5) Quargente,
Zorzetto Silvio (2) Quargente; Cortivo Anselmo (7) Belvedere; Dal Toso Guido (6)
Belvedere; Danieli Antonio (5) Quargente; Danieli Luigi (8) Quargente; Danieli
Innocente (4) Quargente; Danieli Pacifico (5) Quargente; De Marchi Sabino (4)
Belvedere; De Mani Emilio (4) Belvedere; De Mani Massimiliano (6) Belvedere; De
Mani Giuseppe (2) Belvedere; De Mani Augusto (2) Belvedere; Bastianello Lucia
vedova Canella (13) Belvedere; Canella Bortolo (3) Belvedere; Canella Tullio (3)
Belvedere; Canella Antonio (2) Belvedere; Peretti Annibale (6) Belvedere; Cichellero
Antonio (5) Ponte Seonega; Cichellero Giorgio (7) Belvedere; Cichellero Amedeo (3)
Belvedere; Crivellaro Virginio (8) Belvedere; Canella Alfonso (4) Belvedere; Crivellaro
Adelchi (5) Belvedere; Trevisan Domenico (2) Belvedere; Carlan Ermenegildo (4)
Quargente; Bigardi Arturo (5) Crocefisso; Bigardi Oscar (3) Crocefisso; Toniolo Tullio
(9) Belvedere; Lavezzo Pasquale (3) Quargente; Lavezzo Augusto (5) Quargente;
Cappa Giobatta (5) Belvedere; Cappa Silvio (2) Belvedere; Cappa Giuseppe (6)
Belvedere; De Mani Pietro (9) Belvedere; Paina Augusto (4) Belvedere; Gaspari
Ferruccio (5) Fogomorto; Munari Domenico (5) Fogomorto; Manzin Angelo (2)
Belvedere; Zandonà Antonio (3) Ponte Seonega; Zandonà Gaetano (2) Ponte
Seonega; Zambonin Pietro (4) Quargente; Valdesolo Luigi (2) Belvedere; Venturini
Valentino (6) Belvedere.
174
10. ELENCO DEI PARROCI DELLA PARROCCHIA DI TOARA
Anno 1297
Anno 1427
Anno 1444
Anno 1583
Anno 1607
Anno 1632
Anno 1635
Anno 1657
Anno 1668
Anno 1700
Anno 1759
Anno 1798
Anno 1836
Anno 1837
Anno 1846
Anno 1880
Anno 1916
Anno 1919
Anno 1938
Anno 1942
Anno 1947
Anno 1960
Anno 1993
Ubertus Clericus (Uberto chierico)
Giacomo Giovanni di Monteviale
Ruggero di Napoli
Camillo De Grandi
Benedetto Salamoni
Giovanni Vezari
Francesco Danieli
Gasparo Bassadelli
Giovanni Zanini
Gio. Battista Pilani
Matteo Tommaselli
Pietro Castelli
Giovanni Sammartin
Pietro Costalunga
Antonio Pagani
Agostino Ancetti
Luciano Gregori
Pietro Vigolo
Giacomo Golo
Giovanni Zarantoniello
Ernesto Bicego
Attilio Lupatin
Antonio Dovigo
e Giulio Perini
Prima Comunione a Belvedere.
Anno 1997 Giuseppe Negretto
175
CAPITOLO SETTIMO
I PARROCI DELLA PARROCCHIA DI BELVEDERE
Anno 1953
Anno 1982
Anno 1997
Anno 2006
Giosuè Billo
Giuseppe Giacomello
Giancarlo Pianezzola
Valerio Vestrini
Anno 1940: bambini dell’asilo di Belvedere con il parroco Don Giacomo Golo e la maestra Maria Mazzaron.
Anni ‘60: Don Giosuè Billo benedice i trattori.
176
CAPITOLO OTTAVO
LE CONFRATERNITE E LE PIE UNIONI
Un’attenzione particolare nella storia delle nostre comunità cristiane meritano
le confraternite religiose che furono attive a Villaga e a Toara già nella seconda
metà del Cinquecento e nei primi decenni del 1600.
Nate come associazioni riformistiche della vita cristiana, in forte decadimento
nel secolo XV, esse divennero un aspetto importante della religiosità popolare
post-tridentina. I loro aderenti si riunivano in associazioni per vivere più intensamente la vita cristiana, curando la devozione verso il Cristo, la Vergine o
qualche santo.
Chiamate anche “Società”o “Scuole”o “Fraglie”, avevano una propria organizzazione, regolata da uno statuto, con finalità di culto, pietà e di carità.
Possedevano inoltre beni mobili e immobili provenienti da donazioni o lasciti
testamentari di qualche devoto o benefattore. Detti beni erano amministrati
dal “massaro”della confraternita che veniva eletto ogni anno dai soci e ai quali
doveva rendere conto del suo “maneggio” (operato). Il massaro doveva poi
riscuotere dai soci del proprio sodalizio una quota associativa annuale che,
assieme ai soldi raccolti nelle cassette per l’elemosina poste in chiesa, costituiva il patrimonio dei beni mobili che la confraternita in genere usava soprattutto per mantenere un proprio altare. 1
Pertanto, uno degli scopi principali dei confratelli era quello di rendere il più
decoroso possibile l’altare a cui la confraternita era legata. Le offerte raccolte
servivano per i bisogni dell’altare, per la celebrazione di messe e per compiere
opere di carità: ciò specialmente nel tardo Seicento e nel Settecento, quando le
entrate delle varie confraternite aumentarono notevolmente in seguito ad
offerte libere e lasciti testamentari, a cui venivano legati particolari obblighi di
celebrazioni in suffragio dell’anima dell’offerente. Ecco allora le fraglie
riscuotere sempre più numerosi affitti e livelli e possedere talvolta anche ter-
1 M. Nicoletta Simeone, Le confraternite religiose, in “Nanto S. Maria Annunziata, una chiesa tra ieri e oggi”,
edito dalla parrocchia di Nanto e dalla Pro loco, anno 1997, pag. 63.
177
CAPITOLO OTTAVO
LE CONFRATERNITE E LE PIE UNIONI
reni, case e altri beni di vario genere, ricevuti in dono, col trascorrere del tempo,
da persone devote.2
Queste associazioni, quindi, assunsero una notevole importanza anche nella vita
sociale poiché regolavano la vita dei soci e chi vi aderiva godeva di vantaggi, non
solo spirituali, ma anche materiali come prestiti in denaro, assistenza e beneficenza, cura degli ammalati, ed altro ancora.
Le confraternite furono poi soppresse in epoca napoleonica con la confisca dei relativi beni che confluirono nell’erario pubblico. Ripresero a vivere durante il periodo della restaurazione e continuarono ad operare fino alla metà del secolo scorso.
del quondam Agnolo da Velo, a sera li benni della Commenda di San Silvestro di
Villaga, a tramontana la via Comune, et altri fossi salvo.
… Il qual fitto dovrà esser riscosso dalli Massari di detta Confraternita il Santo
Martino subito seguita la morte di detta Madona Sabina, e poi così successive d’anno in anno, con obligo alli Massari, che pro tempore sarano al Governo di detta
Confraternita di far celebrare ogni anno sei messe di requiem (in suffragio di
Madona Sabina) dopo il giorno di Santa Lucia del mese di dicembre di quel
tempo”.3
Più tardi, in una scrittura del 1685, Orazio Chierego da Villaga è costretto a cedere
a Mattio dei Signori una pezza di terra posta in Contrà della Commenda in modo
da poter far fronte a una serie di debitori, tra cui la veneranda fraglia del
Santissimo Sacramento alla quale doveva versare centouno troni.4
Nel 1897 il parroco don Giuseppe Faccin fa erigere nuovamente la confraternita
del Santo Rosario il cui statuto viene approvato il 26 settembre. Articolato in
cinque norme, il documento disciplina l’organizzazione del sodalizio religioso
precisando quanto segue: 5
1° Ogni ascritto deve recitare almeno una volta la settimana l’intiero Rosario, e non
sotto pena di peccato, ma sotto pena di perdere le sante indulgenze quando non
lo recita. Questa recita però può esser fatta anche in tre volte, recitando in tre
giorni diversi la terza parte del Santo Rosario, cioè meditando la prima volta i
cinque misteri gaudiosi, la seconda i cinque dolorosi e la terza i cinque gloriosi
per compiere così ogni settimana l’intiero Rosario.
2° Ogni ascritto che paga cinque centesimi al mese, ossia 60 centesimi all’anno, oltre
il merito della elemosina, che verrà impiegata per l’abbigliamento dell’altare privilegiato della Madonna del Santo Rosario, avrà il vantaggio che alla sua morte
gli verranno celebrate gratuitamente allo stesso altare privilegiato due sante
messe in suffragio dell’anima sua. Se poi coloro che pagano i 60 centesimi all’anno rimanessero in debito alla loro morte, le due sante messe non verranno lor
celebrate se prima dalla famiglia non viene estinto per intiero il lor debito.
3° Ogni confratello avrà la sua corona benedetta dal Direttore della congregazione
e procurerà di portarla sempre con sè per guadagnare anche con questo tante
indulgenze.
4° Sarà bene inoltre che ogni ascritto formi l’intenzione ogni mattina di acquistare
tutte le indulgenze che può in quel giorno e quando muore un qualche confratello e consorella cerchi di accompagnarlo alla sua ultima dimora e di applicare il primo Rosario che recita in suffragio dell’anima sua.
5° Finalmente ogni ascritto cerchi di mostrare la sua devozione a Maria coll’accostarsi almeno nelle feste principali della Madonna ai santi Sacramenti, e per
non privarsi di tanti tesori d’indulgenze e per aver così un pegno sicuro della sua
eterna salute: Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt, ecc”.
1. LE CONFRATERNITE DI VILLAGA
Il riferimento più antico attestante la presenza delle confraternite a Villaga è contenuto nella relazione della visita pastorale del vescovo Michele Priuli avvenuta
nel 1583 (Visitationes, b. 4/0556). In essa si legge che “extat societas S.mi Sacramenti
que nullus habet introitus et confratres sunt centum et vigintiquinque” (E’ presente la
confraternita del Santissimo Sacramento che non ha alcuna entrata e i confratelli sono centoventicinque).
Proprio in quell’anno il vescovo Priuli, nel sinodo della Chiesa vicentina, si era
occupato delle confraternite laicali, rivendicando il diritto di approvazione degli
statuti per ogni nuova istituzione e di convalida per gli istituti preesistenti, condannando ogni forma di abuso riguardante la spartizione di beni e raccomandando che, quando sopravanzavano, venissero distribuiti di preferenza tra i soci più
poveri della confraternita o fossero destinati ad opere di beneficenza. Chiedeva
inoltre che venissero allontanati tutti gli indegni e che l’ammissione di nuovi soci
non avvenisse senza un sufficiente periodo di prova. Inoltre tale ammissione
doveva essere fatta in presenza dei responsabili (i massari) e del parroco della
chiesa locale (E. Reato, La vita religiosa dei fedeli, in “Una terra, un fiume, una
comunità”, Tezze sul Brenta, pag. 165).
In una successiva visita del Vicario generale Giuseppe Zaghio, avvenuta nell’anno 1645, è riportato che a quel tempo erano già attive a Villaga le fraglie del
Santissimo Sacramento e del Santo Rosario (Visitationes, b. 8 / 0560).
Merita attenzione poi un altro documento che risale al 1657 ed è la donazione di
un livello alla fraglia del Santissimo Sacramento da parte di una certa Madona
Sabina. Essa “fa libera donazione alla Confraternita del Santissimo Sacramento
eretta nella chiesa di San Michiel di Villaga con affitto de troni dieci, marchesi
dieci all’anno; che il suo capitale è di troni cento e settanta quattro marchesi otto
che pagava da San Martin il quondam Domenego quondam Horatio Chierego, et
al presente li suoi eredi fondati sopra una caseta murata cupata e solarata con
forno, et campo uno e mezo de terra contigua alla detta casa, piantà de vide, et
arbori posta nelle pertinenze di Villaga in contrà della Mason apresso li benni
delle Reverende Madri d’Ognisanti di Vicenza a mattina, a mezzodì li beni erano
2 G. Pendin, Castegnero, dalle origini ai nostri giorni, a cura dell’Amministrazione comunale di Castegnero,
1985, pagg. 97-98.
178
3 Arch. Parr. Villaga, copia documento notarile, pag. 3
4 Arch. Parr. Villaga, documento notarile, pag. 3
5 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, Villaga, b. 330
179
CAPITOLO OTTAVO
2. LE CONFRATERNITE DI TOARA
La notizia più antica dell’esistenza di confraternite a Toara è contenuta nella
relazione della visita pastorale compiuta dal vescovo Michele Priuli nel 1583.
In essa viene riportato che esiste la società (confraternita) del Santissimo
Sacramento che comprende oltre cinquanta confratelli i quali versano un marchetto ciascuno mensilmente per il mantenimento dell’altare maggiore.
In uno scritto del parroco don Matteo Tommaselli, dell’anno1747 veniamo a
sapere che la Scuola del Santissimo Rosario “ è stata canonicamente eretta per
facoltà del Padre Priore di Santa Corona di Vicenza, come appare da istrumento rogato nell’anno 1607 primo ottobre dal rev.do Domenico Nogarola, Rettore della parrocchiale di S. Nicolò di Zovencedo, nodaro di autorità riconosciuto”.6
Nell’anno 1636 vengono citate le confraternita del SS. Sacramento e del S.
Rosario, governate dai massari Giacomo Montan e Zuanne Prizaro, nel documento “Supplicationes Rev. Dom. Francesco Danielli Rectoris Thovaria”. 7
Nell’anno 1643 Madona Maria di Pietro Pedrina, moglie di Giacomo Montan,
all’età di 60 anni, fa testamento e lascia alla Confraternita della Beata Vergine
del SS. Rosario due ducati con l’obbligo per i governatori della fraglia di far celebrare sei messe dopo la sua morte, tanto per lei che per il marito Giacomo. 8
Nel 1721 i massari Bernardin Danieli e Mattio Di Grandi, rappresentanti la
fraglia del SS. Sacramento, in seguito a votazione dei confratelli (33 voti a
favore e 10 contrari), investono Francesco Bedon di un livello perpetuo
riguardante una “casa murà, cupà, solarà, con ara, orto e forno, canevaro e circa
mezzo campo di terra arativa piantà de vide, arbori e morari, in Toara, in contrà de
Caovilla… per lire 36 e soldi 13 in due rate, metà da S. Cristoforo e metà da S.
Martin, e in più, al reverendo parroco lire due e una gallina, ai suoi debiti tempi, e
questi liberi da ogni gravezza”. 9
In un altro documento del 1728, Antonio De Grandi lascia per testamento
alcuni suoi beni (un casone e quattro campi e un quarto) alla fraglia del SS.
Rosario che li mette poi all’asta (ballotazzione) e li assegna a livello (in affitto)
a Bortolamio De Grandi. Molto interessante risulta la lettura di questo atto.10
“In nomine Iesu divini, amen. Li 20 del mese di genaro dell’anno 1728 in Toara
distretto di Vicenza. La patrona veneranda Fraglia del S.S. Sacramento e del
S.S. Rosario eretta nella chiesa parrocchiale di S. Giorgio di Toara, in vigor del
testamento fatto dal quondam domino Antonio de Grandi quondam Zuanne li
25 genaro 1725 nodaro Domino Zuanne Padovan all’hora abitante in questa
parocchia e presentemente nella villa dell’Agugliaro, di un casone e campi
quattro quarti uno tavole settantadue, a mezo infrascritti ed inerendo essa
6 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, Toara, b. 307
7 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, Toara, b. 307
8 Arch. Stato Vicenza, Fondo notarile, Fabri Girolamo, b. 1915, ff. 5-6
9 Arch. Stato Vicenza, Fondo notarile, Angelo Gottardo, b. 3005
10 Arch. Stato Vicenza, Corporazioni religiose soppresse, S. Rosario Toara, b. 809
180
Altare della Madonna del Rosario mantenuto dalla confraternita del SS.
Rosario di Toara.
L’antico gonfalone di San Giorgio della parrocchia di Toara.
181
CAPITOLO OTTAVO
LE CONFRATERNITE E LE PIE UNIONI
fraglia a venerabili decreti dell’eccellentissimo senato, perciò li domini
Gio.Battista Mazaron e Antonio Giacomuzzo onorandi massari di detta
veneranda, faceva chiamar in due giorni festivi alla messa parochiale dal reverendo parocho tutti li confratelli per deliberar di esso casone e terra, come chiunque volesse mettersi alla ballotazzione per averli a livello laonde vaticinato
il venerando capitolo de confratelli preso parte di livellar detto casone, e terra
con il pro’ de cinque per cento e di dar facoltà a sopradetti massari di far scritture, stime, perticazioni et ogn’altra cosa si ricerca per far un livello di quatro
concorrenti a detto livello: cioè Bortolamio De Grandi quondam Lodovico,
Domenico Trevisan quondam Antonio, Antonio Giacomuzzo quondam Zuanne,
Silvestro De Grandi quondam Silvestro con pluvalidità di voti han prescelto il
detto Bortolamio De Grandi, come appare da anottazione di scrittura registrata 29 decembre 1726 con la presenza del reverendo signor don Domenico
Bellini, e signor Zuanne Selatto testimoni rogatti da esso capitolo; per detta
ballotazzione e sottoscritti in detta scrittura custodita tra gli altri registri di
detta veneranda fraglia, e della quale apporre tutte le cose infrascritte.
Pertando non essendo hora mai seguitto alcuna scrittura né pubblica né privata di detto livello tra li oltrascritti massari, e detto Bortolamio De Grandi, ora
con la presente scrittura… si dichiara come li domini Gio. Battista Mazaron et
Antonio Giacomuzzo onorandi massari della veneranda Fraglia del S.S.
Sacramento e Santissimo Rosario, eretta nella chiesa parochiale di Toara in
virtù della facoltà impartitali dal radunato capitolo de fratelli, e ballotazzione
come appare da scrittura sopradetta 29 decembre 1726 custodita ne registri
d’essa Fraglia, hano solennemente concesso a livello al predetto Bortolamio De
Grandi quondam Lodovico che parimente per lui stesso, et eredi stipula et essi
beni a livello accetta trasferendoli detti locatori nel coautore il giorno presente
tutte le ragioni, azioni, onori, servitù, ingressi, et egressi à quelli spettanti e con
obligo di dovuta diffesa e manutenzione in caso di contesa da tutti e contro
tutti in qualunque istanza à tutte spese d’essa veneranda Fraglia, e specialmente sollevarlo da ogni molestia a causa di gravezza o campatici per il tempo
passato, dando a livello a migliorare e non peggiorare a detto conduttore essi
beni, quelli sempre riconoscere debba da detta veneranda fraglia come padrona
e proprietaria col patto sempre di prelazione in ogni caso, segna li beni campi
due quarti tre e mezzo, tavole quarantadue in villa di Toara in contrà di
Campagnola confinano a mattina con beni di S. Giorgio di Toara, a mezzogiorno eredi d’Alessio di Grande et anco gli illustrissimi signori Conti Porti
Barbarani, a tramontana il Ghebo chiamato Gordone, e forse a. (altro), et un
cason e forno sopra detta terra…Item campi uno, quarti uno e mezo e tavole
venti e mezzo in pertinenze di Sossano in contrà di Campagnola detti
Moregette… stimato il tutto dalli messer Domenico Di Grandi e Francesco
Orlandi detto Carletto eletti da sopradetti massari, e da Grandi conduttore,
come appare da stima posta in atti del sopradetto Stefano Zenatto nodaro, il
valor della quale terra essendo a lire millecentosessantasei, soldi otto, denari
undici, et il cason lire trecento e cinquanta, che unito fanno lire 1516.8.11.
Per affitto a livello per recognicion de frutti annuali prende obligo esso
Bortolamio de Grandi pagare annualmente troni sessantacinque soldi sedici
denari cinque, a raggion de cinque per cento, così pattuito in due eguali rate,
la prima da San Cristofaro, e la seconda da San Martin, liberi da qualunque
spesa, e gravezza posta, e da improventi pubblica o privata etiam de mandato
domini…”.
182
Nel 1747 il parroco Matteo Tommaselli scrive che la fraglia del SS.mo Rosario,
retta dal massaro Domenico Mazzaron, non ha la bolla di indulgenza perpetua
e non ha i capitoli per il buon governo (cioè non è regolata da uno statuto). I confratelli sono circa cento e pagano 13 soldi all’anno nel giorno del 2 febbraio,
solennità della Seriola. Ogni confratello che muore ha diritto alla celebrazione di
quattro messe di suffragio. La confraternita si mantiene anche con le elemosine
che si raccolgono in chiesa nella prima domenica di ogni mese e nelle solennità
della Madonna; inoltre beneficia di tre stare di frumento come offerta dei campi.
Inoltre possiede i seguenti legati: da Bartolomio De Grandi lire 75 e 16 soldi con
l’obbligo di messe 21; da Domenico Vanetto legato di una quarta e mezza di frumento con obbligo di messe due; da don Giobatta Pilani, legato di Anna
Bertuzzo, troni venti con obbligo di messe due; da eredi di Michele Pomaro
mezzo staio di frumento con obbligo di messe tre; da Bartolomio Trevisan legato di Rosa De Grandi lire tre con obbligo di messe due; da Batta Bertuzzo mezza
quarta di frumento; da eredi Polati troni cinque con obbligo di celebrare messe
cinque.11
Più tardi, nel 1760, riporta in una nota l’elenco delle messe dei legati delle due
confraternite esistenti:12
Messe dei legati del SS.mo Sacramento
Per il legato spettante ad Angelo Guarato messe n. 3; per il legato degli eredi De
Grandi messe 3;
per il legato di Domenico Trevisan messe 3; per il legato di Girolamo Danieli
messe 12; per il legato di Girolamo Zalunardi e sua moglie messe 6; per il legato di Zuanne Facchin messe 6.
Messe dei legati del SS.mo Rosario
Per il legato di Antonio de Grandi messe 21; per Gio. e Maria Zago messe 2; per
eredi Pomarolo messe 3; per Rosa De Grandi messe 2.
Dal Libro “Scossi e spese anni 1776-1806”13 veniamo a conoscere il nome dei massari che si succedettero alla guida della confraternita del S. Rosario tra il 1776 e il
1797:
11 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, Toara, b. 307
12 Ibidem
13 Arch. Stato Vicenza, Corporazioni religiose soppresse, Fraglia S. Rosario di Toara, Libro scossi e spesi anni
1776/1806, b. 809
183
CAPITOLO OTTAVO
anno 1776:
anno 1777:
anno 1778:
anni 1779-1780-1781:
anno 1782:
anno 1783:
anno 1784:
anni 1785-1786:
anni 1787-1791:
anni 1792-1793:
anni 1794-1795:
anni 1796-1797:
Paolo Faccio
Francesco Trivisan
Paolo Faccio
Francesco Trivisan
Carlo Di Grandi
Francesco Trivisan
Paolo Faccio
Francesco Trivisan
Giuseppe Trivisan
Angelo Guerrato (Guarato)
Mattio Guerrato (Guarato)
Giobatta Faccio.
In questo fascicolo14 troviamo anche il resoconto economico del sodalizio nel
periodo dal 1780 al 1797.
- Carlo Faccio fu massaro per l’anno 1780 ed ha riscosso lire 272.3 soldi, mentre ha speso lire 255.8; pertanto ha consegnato in cassa lire 16.15;
- Franco Trevisan successe come massaro per l’anno 1781 ed ha incassato lire
275.19, mentre ha speso lire 207.16; quindi ha consegnato in saldo lire 68.3;
- Carlo Di Grandi fu massaro per l’anno 1782 ed ha riscosso lire 374.3, a fronte
di spese per 298.10; pertanto ha avanzato lire 75.13;
- Francesco Trevisan è subentrato come massaro nell’anno 1783 ed ha riscosso
lire 230.6, mentre ha pagato lire 150.12; pertanto il saldo positivo è di lire
79.14;
- Paolo Faccio fu eletto massaro per l’anno 1784; ha incassato lire 423.4 ed ha
speso lire 359.5; pertanto ha consegnato in cassa lire 63.19;
- Francesco Trevisan successe come massaro per l’anno 1785 ed ha riscosso lire
307.11, mentre ha speso lire 300.10; quindi ha avanzato lire 7.1;
- lo stesso fu confermato anche per l’anno 1786: ha riscosso lire 416.4 ed ha
speso lire 397.1; quindi ha consegnato lire 19.3;
- Giuseppe Trevisan gli subentrò per gli anni 1787-88-89-90: ha incassato lire
1.065.19 ed ha speso lire 1.082.4; pertanto ha speso più dell’incassato;
- Angelo Guerrato (Guarato) è succeduto come massaro negli anni 1792-93 ed
ha riscosso lire 512.10, mentre ha speso lire 388.4; pertanto ha consegnato in
cassa lire 124.6;
- Mattio Guerrato (Guarato) subentrò negli anni 1794 e 1795 (fino a giugno) ed
ha incassato lire 581.13, mentre ha speso lire 476.11; quindi ha consegnato lire
105.2;
- Giobatta Faccio fu eletto massaro dal giugno 1795 al giugno 1797: ha riscosso
lire 988.18, mentre ha speso lire 841.15 con una rimanenza in cassa di lire 97.3.
Stendardo della Confraternita del SS. Sacramento di Belvedere dell’anno 1946.
14 Ibidem
184
185
CAPITOLO OTTAVO
LE CONFRATERNITE E LE PIE UNIONI
Più tardi, nel 1820, quando il vescovo Peruzzi compì la sua visita pastorale a
Toara, - nel frattempo erano state soppresse da oltre un decennio tutte le corporazioni religiose, sia quelle di vita comune, sia quelle laicali, fuorché quella del
S.S. Sacramento - si trovò di fronte ad una sorpresa inaspettata: la confraternita
del S. Rosario era più viva e vegeta che mai; quindi, caso rarissimo in diocesi, era
sfuggita alla soppressione napoleonica e aveva continuato la sua attività in parrocchia. 15
LA RICOSTITUZIONE DELLA CONFRATERNITA
DEL SS. SACRAMENTO
Se la Confraternita del Rosario godeva di buona salute, quella del S.S.
Sacramento aveva conosciuto una crisi che l’aveva portata quasi a cessare il suo
impegno religioso. Pertanto occorreva rilanciarla per darle nuovo impulso religioso.
Così, il 20 ottobre 1840 la Deputazione comunale di Villaga approvava la regolare istituzione della Confraternita del SS. Sacramento,16 come richiesto dal
parroco, don Antonio Costalunga, il quale, qualche mese dopo, il 14 gennaio
1841, chiedeva al Vescovo mons. Giuseppe Cappellari l’approvazione di istituire la Confraternita.17 Il cancelliere vescovile rispondeva che “questa Curia
vescovile approvando in ogni sua parte il disciplinare propostogli dichiara dal lato
ecclesiastico regolare e legittima l’istituzione della Confraternita del SS.
Sacramento…permettendosi che da questo giorno in poi ne venga fatta a beneplacito
la solenne apertura”.18
Tale confraternita viene poi riformata nell’anno 1881 da don Agostino Ancetti.
Nella seduta dell’8 dicembre 1882 si procedette al rinnovo delle cariche. Dalla
votazione risultarono eletti: De Marchi Antonio come Priore; Crivellaro Angelo
e Marangon Antonio vicepriori; Toniolo Sante Cancelliere; il parroco don
Ancetti Cassiere; Giacometti Gianbattista e Mazzucco Pietro Reggenti; De
Marchi Giovanni e Danieli Bernardo Vice Reggenti; Cichellero Stefano Bidello;
Miglioranza Edoardo Bidello d’Onore; seguirono i nomi di otto Consiglieri, di
sei membri adibiti al trasporto del Baldacchino durante le processioni; infine
vennero eletti Zen Antonio, col compito di portare lo Stendardo, e Scavazza
Vittorio per il Crocefisso.19
Stendardo del Sacro Cuore di Toara.
Stendardo dei Terziari Francescani.
Stendardi delle Associazione di Azione Cattolica di Toara.
15 E. Reato, La visita pastorale di Giuseppe Maria Peruzzi nella diocesi di Vicenza (1819-1825), Roma, 1972,
Edizioni di storia e letteratura, pag. LXXXVIII
16 Arch. Curia Vicenza. Stato delle Chiese, Toara, b. 307
17 Ibidem
18 Ibidem
19 Arch. Parr. Toara, Busta Confraternite
186
187
CAPITOLO OTTAVO
3. LE PIE UNIONI
Nella seconda metà dell’Ottocento abbiamo l’inizio di nuove forme di
aggregazione di fedeli, cioè di pie unioni o congregazioni la cui esistenza,
ancora precaria sotto la dominazione austriaca, acquista crescente sviluppo nei
primi decenni dell’unità nazionale grazie all’affermazione del principio della
libertà di associazione.20
A Villaga sorsero tra il 1871 e il 1877 due congregazioni: dell’Immacolata di
Maria e del Carmine, che promuoveva il culto della Madonna; del Sacro Cuore
di Gesù, che si impegnava nell’organizzazione di riti e preghiere il primo venerdì del mese e curava la solenne celebrazione della festa liturgica del Sacro
Cuore.21
Più tardi, nel 1897, per impulso del parroco don Giuseppe Faccin, venne istituita anche la congregazione del Santo Rosario, mentre agli inizi del ‘900 nacquero due nuove aggregazioni religiose: la congregazione della Dottrina
Cristiana e quella del Terz’Ordine Francescano.22
A Toara, alla fine dell’Ottocento erano attive la Congregazione del Sacro
Cuore, con 108 aderenti, e la pia unione della Santa Famiglia con 43 iscritti,
mentre nei primi anni del ‘900 sorsero la congregazione di S. Luigi, per gli adolescenti (i giovanetti, col camice, la cappa celeste e il giglio in mano, accompagnavano le processioni davanti ai cappati del SS. Sacramento), la congregazione della Dottrina Cristiana, il sodalizio Madonna della Buona Morte
(eretto da papa Pio X nel 1908, si occupava in particolare di organizzare i riti
delle esequie), la congregazione delle Figlie di Maria (una quarantina di
ragazze e giovani iscritte) che si impegnavano in uno stile di vita riservato e
devoto.23
Nel 1912 venne canonicamente eretto il Terz’Ordine francescano, che già
esisteva nella parrocchia di Toara con dei terziari isolati. Ebbe, per opera di parroci Agostino Ancetti e Pietro Vigolo, grande sviluppo, tanto da annoverare
quasi un centinaio di iscritti. Il suo massimo splendore lo manifestò nel 1932
con 19 vestizioni fatte dal p. Francescantonio Zarantoniello, allora guardiano di
S. Pancrazio. La congregazione festeggiava con grande solennità la festa di S.
Francesco esponendo il proprio stendardo che veniva portato in processione.
Mensilmente, la seconda domenica del mese, teneva la sua conferenza, dopo
le funzioni. Tale congregazione ha avuto l’onore di dare una quindicina di religiosi al servizio del Signore.24
20 AA.VV, Una terra, un fiume, una comunità, a cura di E. Reato, Parrocchia di Tezze sul Brenta, 1990, p. 174
21 Arch. Curia Vicenza, Stato delle Chiese, Villaga, b. 330
22 Arch. Parr. Villaga, Fascicolo Visita pastorale Rodolfi, 1915, Notizie generali
23 Arch. Parr. Toara, Fascicolo Visita pastorale Rodolfi, 1915.
24 Arch. Parr. Toara. Busta Confraternite
188
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI
DI VILLAGA E TOARA
I parroci funzionari
Nelle parrocchie di campagna il parroco assommò durante il periodo
veneziano e poi sotto la dominazione austriaca, la duplice veste di pastore delle
anime e di rappresentante dello stato; era infatti ufficiale di anagrafe, con l’obbligo della tenuta dei registri parrocchiali, che fungevano anche da anagrafe
statale.
Era stato il Concilio tridentino a rendere obbligatoria l’istituzione dei cosiddetti registri canonici, cioè dei libri dei battezzati, dei matrimoni e dei morti, ai
quali, più tardi, si aggiunsero quelli dei cresimati e dello stato d’anime, vale a
dire la descrizione sistematica e aggiornata di tutti i nuclei familiari della parrocchia.
Un’altra funzione particolarmente importante del parroco era quella di farsi
portavoce delle leggi della Repubblica Veneta, le quali, oltre che venire promulgate dall’araldo sulla scala del palazzo Ducale e sul “gobbo” del Rialto, di
solito venivano lette nella “messa grande” dal parroco e la lettura ne veniva
spesso ripetuta a scadenze fisse, per imprimerla nella mente della gente (generalmente analfabeta); l’obbligo di lettura in chiesa era di volta in volta ribadito nella singola legge, la cui promulgazione (stampata sul foglio recante nel
frontespizio il leone “in moeca”) era detta volgarmente “moeca”. 1
Nel Veneto, tra i secoli XVII e XIX i parroci hanno quindi il compito di scrivere
e di custodire i dati e gli eventi essenziali dei singoli e dei loro familiari. Il diverso carattere dei registri utilizzati sino al 1815 e di quelli successivamente
introdotti dal governo asburgico – osserva Filiberto Agostini – appare dalla
qualità e quantità delle informazioni contenute. Nei primi, scritti in forma di
diario e cronaca, l’accento è posto sul conferimento di un sacramento a un parrocchiano, sul riconoscimento della personalità giuridica nella chiesa, sulla
finalità del governo pastorale. Negli altri, l’intento fondamentale è la registrazione di un evento demografico avente valore civile. Secondo le nuove
1 I. Cacciavillani, Corso di storia della Chiesa veneta, Signum 1990, pag. 98
189
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
norme statali, in campo amministrativo, introdotte dopo il 1815, i registri dell’anagrafe sono tabellari standardizzati, già suddivisi colonna per colonna. Al
parroco spetta solo di riempire gli spazi predisposti. In questa operazione non
è più il pastore d’anime che trascrive il compimento di un atto relativo al suo
ministero, ma un impiegato dello stato civile che soggiace alla legislazione
statale. 2
Solo a partire dal 1866, dopo l’annessione del Veneto, in base alla legge del
Regno d’Italia del 31 dicembre 1964, fu istituito in ogni comune l’ufficio delle
anagrafi, del tutto indipendente da quello parrocchiale. 3
1. I REGISTRI PARROCCHIALI
Una fonte importante per la storia moderna è costituita dai registri parrocchiali, cioè dai libri nei quali i parroci registravano in ordine cronologico, anno
per anno, le nascite, i battesimi, le cresime, i matrimoni dei loro parrocchiani.
In Italia questi registri si cominciarono a tenere con regolarità dopo il Concilio
di Trento (1563), perché la Chiesa cattolica voleva attuare un maggiore controllo sui fedeli. Tali registri parrocchiali permettono agli studiosi di raccogliere
preziose informazioni riguardanti la popolazione di una determinata zona
(rapporto natalità-mortalità, cause di mortalità, età media della popolazione,
mobilità, condizione professionale
delle persone, discendenza, ecc.) e
quindi costituiscono una significativa
risorsa per ricostruire la storia e le
condizioni di vita di una determinata
epoca.
La serie dei registri canonici della
parrocchia di Villaga si apre con il
Libro dei battezzati che comincia nell’anno 1564; viene poi il Libro dei
matrimoni che inizia nel 1567, mentre il libro dei morti prende avvio
soltanto nel 1646 (questi registri sono
conservati nell’archivio della Curia
Vescovile, nel Seminario di Vicenza,
nella busta 168/1334). Nell’archivio
della parrocchia di Villaga, i registri
iniziano dal 1678 (i battezzati), dal
1679 (i morti), dal 1698 (i matrimoni).
Libro dei morti della parrocchia di Villaga del 1679.
2 F. Agostini, Anagrafi parrocchiali e popolazione nel Veneto tra XVII e XIX secolo, Istituto per le ricerche di storia locale e religiosa, Vicenza, 1989, pagg. 8-9
3 A. Gambasin , Anagrafi parrocchiali: fonti per la storia della popolazione, in Anagrafi parrocchiali e popolazione nel Veneto tra XVII e XIX, pag. 16
190
Libro dei battezzati, dei matrimoni e dei morti della parrocchia di Toara dall’anno 1700.
Libro dei matrimoni e registro dei nati della parrocchia di Villaga.
191
Pagine interne del registro dei matrimoni della
parrocchia di Toara della prima metà del ‘700.
Manifesto della Repubblica Veneta emanato dal Podestà Antonio Soranzo nell’anno 1768 in cui si danno disposizioni ai
parroci sulla registrazione dei nati nelle parrocchie.
192
193
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
I registri della parrocchia di Toara prendono avvio dall’anno 1606: il Libro dei
morti dal 29 luglio 1606; il Libro dei battezzati dal 17 giugno 1607, mentre
quello dei matrimoni inizia il 29 gennaio 1657 (anche questi registri sono conservati nell’archivio della Curia). Nell’archivio parrocchiale di Toara, la serie dei
registri comincia dall’anno 1700, sia per i nati che per i morti.
Nel 1780, il parroco scrive: “ n. 400 persone formano la mia parrocchia, 270 da
comunione”, 6 Nell’anno 1790 don Broccardo riferisce di 394 anime presenti, di
cui 278 di comunione; nel 1804 le anime risultano essere 405, nel 1813 425,
mentre nell’anno 1816 ammontano a 423 unità. Nel 1839 il parroco don Vito
Canale riporta il dato di 500 anime, pertanto si coglie un incremento della
popolazione, confermato trent’anni dopo, nel 1871 con 557 anime , di cui 386
di comunione. Sono poi gli ultimi decenni dell’Ottocento a registrare un consistente aumento della popolazione che nel 1899 si attesta sulle 920 unità.7
2. LA POPOLAZIONE DI VILLAGA
Il dato più remoto che possediamo sulla popolazione del Comune di Villaga
risale al 1557 ed è ricavato dal più antico censimento di Vicenza e del territorio, denominato “Descrittione delle anime della città di Vicenza et borghi da fattione
et inutili fatta di ordine delli Clarissimi meser Gerolamo Minio e meser Giulio
Gabriel Rettore di Vicenza per esecuzione di lettere del Carissimo meser Thomaso
Contarini degnissimo Provveditor generale di Terraferma”.4
Secondo questa relazione, il territorio di Villaga nel 1557 aveva 1081 abitanti, di
cui 414 anime da fattione e 667 Inutili, un dato davvero allarmante che ci fa
capire la triste condizione in cui viveva gran parte della popolazione.
Del secolo successivo, il Seicento, possiamo citare una “Descrizione delle anime
del 1663”, relativa alla parrocchia di Villaga, dalla quale emergono i seguenti
dati: Uomini 87, Donne 79, Putti 67, Putte 71, per un totale di 304 persone.
I Capifamiglia di Villaga nell’anno 1700
Da una Vicinia convocata il giorno di mercoledì 8 dicembre 17005 veniamo a
conoscere il nome dei 52 capifamiglia di Villaga: Zuanne Guerrato, Marco
Vinante, Bernardo Muraro, Pelegrin Breganzato, Iseppo Donzello, Pietro
Bertuzzo, Anzolo Mambrin, Zamaria Marin, Mattio Gianello, Paolo Muraro,
Zuanne Favron, Paolo Zago, Antonio Rosa, Paolo Veronese, Camillo Martinello,
Zamaria Frezerin, Francesco da Soghe, Battista Rappo, Zuanne Donaello, Zuan
Giacomo q. Gabriele, Zuanne Rappo, Battista Rappo q. Paolo, Francesco
Donaello, Zuanne Giacomuzzo q. Antonio, Mattio Roveratto, Agostin
Guerrato, Francesco Lavarda, Girolamo Andrean, Domenico Maran, Gasparo
Trevisan, Giacinto Todesco, Giulio Muraro, Domenico Piovan, Battista
Bertuzzo, Antonio Evangelista, Niccolò Bertuzzo, Gasparo Di Grandi,
Domenico Di Grandi, Bortolamio Muraro, Zuanne Galvan, Stefano Di Grande,
Pietro Pollo, Marc’Antonio Di Berti, Mattio Martarello, Nicolò Contin,
Bortolamio Festa, Zuanne Roetto, Giulio Trivisan, Vicenzo Roetto, Bastian
Tagliaferro, Domenico Rizzo, Pietro Sandro, Francesco Veronese.
4 Tale documento, conservato in Biblioteca Bertoliana, n. 3472 Fondo Gonzati, è stato riprodotto da Giovanni
Mantese nelle Memorie storiche della Chiesa Vicentina, vol. III, parte seconda, pagg. 1076-1083; i dati riferiti a
Villaga si trovano a pag. 1083
5 Arch. Stato Vicenza, Estimo, b. 1384, 3 v, 3 r.
194
Stato d’anime della parrocchia di S. Michele di Villaga per l’anno 1828
Nel 1828 il parroco don Antonio Brocardo, alla bella età di 84 anni, stilò il
seguente Stato d’anime 8 che comprendeva 105 famiglie suddivise per contrade
di appartenenza.
Contrada della Chiesa parrocchiale:
Brocardo don Antonio, Roetta Giovanni, Rossetto Domenico, Veronese Pietro,
Veronese Paolo, Brunello Andrea, Brunello Bartolomeo, Sigolla Antonio,
Martarello Lucia vedova Godi, Sartori Antonio, Sbettego Gio.Battista, Polo
Gio.Battista, Crivellaro Felicita vedova Volpe, Polo Bortolo, De Santi Attanasio,
Zorzan Gaspare, Ballestrin Michele, Agostani Giacomo, Rossetto Antonio,
Dalla Rosa Angelo.
Contrà del Prà Lungo:
Dalla Bontà Gio.Battista, Mainenti Antonio, Giara Domenico, Borotto Marco.
Contrà del Paradiso:
Pomperle Domenica vedova Marini, Lovato Sante.
Contrà del Castello:
Dalla Libera Antonio, Tagliaferro Sante, Rossi Cristiano, Simionati Angelo,
Tagliaferro Giovanni, Troncon Angelo, Gotardo Matteo, De Rossi Bernardino,
Tommasi Lodovico.
Contrà di Noseo:
Bellin Giovanni, Beggio Giacomo, Mambrin Michele, Mambrin Gio.Battista,
Da Soghe Giacoma vedova Damian, Bonato Gio.Battista, Capa Domenico.
Contrà di S. Donato:
Gaspari Giacomo, Crivellaro Sante, Montagna Antonio.
Contrà della Commenda:
Bellotto Domenico,Veronese Giuseppe, Toniollo Francesco, Pironato Sante, De
Signori Matteo, Garbuglio Domenico, Rossetto Giovanni.
Contrà della Ca’ Rossa:
Dalla Rosa Marco, Conti Natale, Muraro Lorenzo, Passuello Maria, Maran
Gio.Battista, Polo Pietro, Chiumenti don Clemente, Naletto Francesco,
Rossetto Natale, Gastaldello Giovanni.
6 Archivio Curia Vescovile Vicenza, Stato delle Chiese, Villaga. B. 330, foglio sparso
7 I dati demografici riportati sono ricavati da fogli sparsi in b. 330 Villaga
8 Arch. Parr. Villaga, Stato d’anime anno 1828
195
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
Contrà di Ca’ Scorzona:
Boari del sig. Tassi: Trova Pietro; Tognetto Giuseppe; Boari del sig. Giara al
bagno: Massaro Antonio.
Contrà del Poigo:
Boari di Pozza: Peruzzi Angelo; boari del sig. Lovo: Barbiero Gio.Battista.
Contrà della Colombara:
Gastaldo di Balestrin. Pasqualin Angelo; boari di Balestrin: Trova Antonio,
Costantini Antonio.
Contrà del Barco e del Siron:
Boari del sig. Liara: Barison Giuseppe, Mazaron Giovanni; boari del sig.
Mazzaron: Tamburin Tommaso; altri boari di Mazzaron: Miola Giovanni,
Bettini Giovanni, Leonardi Luigi; vedelari di Mazzaron: Polo Angelo.
Contrà di Roncasso e Fornasette:
boari del sig. Breganzato: Pavan Domenico, Cracco Angelo, Garbuglio
Giacomo, Silvani Innocente.
Contrà delle Oche:
Coradin Angelo, Trulla Francesco, boari del sig. Trulla: Diello Bortolo,
Zanconaro Giuseppe; boari del sig. Loro: Rizzi Giovanni, Rossetto Antonio,
Zeggiato Giovanni, Salvadore Bortolo, Maran Natale, Maran Antonio.
Contrà di Ronca e Pilla:
Piccolo Giovanni, boari del sig. Chiumenti: Montan Marco; Dinello Rosa vedova Framarin, Falda Angelo, Contiero Paolo, Petenon Angelo, Baretta
Domenico, Gastaldello Giammaria, Possia Giuseppe, Rappo Angela vedova
Donatello, Donatello Antonio, Montecchio Francesco; vedelaro del sig. Trulla:
Soldin Luigi; Rasia Dani Antonio.
Camini Leopoldo villico, Cantarello Sante villico, Crivellaro Luigi villico,
Crivellaro Angelo villico, Cracco Sebastiano villico, Crivellaro Bellino villico,
Battarotto Pietro villico, Cacciavillani Giacomo villico, Dianin Luigi possidente,
De Rossi Giovanni possidente, De Santi Antonio villico, Dresseno Giuseppe
villico, Dal Toso Sante villico, Dalcetto Giobatta villico, Dalla Pozza Sante villico, Dalla Rosa Mario villico, Danieli Giacomo villico, Dalla Rosa Maria villica,
Bizzo Bortolo villico, Badin Ambrogio villico, Crivellaro Antonio villico, Fattore
Giuseppe villico, Faccin Luigi villico, Falda Giovanni pillotto, Fioraso Lorenzo
affittuario, Faggionato Giuseppe villico, Falda Anselmo villico, Fattore Maria
villica, Falda Luigi crivellatore, Faggion Pietro barbiere, Fabris Antonio villico,
Gottardo Giovanni villico, Garbuggio Gio.Antonio villico, Garbuglio Pietro villico, Girardi Luigi villico, Gatto Angelo villico, Giacobini Giuseppe villico,
Gomiero Antonio villico, Giacchin Girolamo villico, Lunardi Antonio possidente, Mazzucco Giosuè villico, Mambrin Luigi Michele villico, Menegatti
Leonardo villico, Muraro Eliseo villico, Muraro Luigi villico, Marzari Luigi villico, Massaro Giovanni bovaio, Montecchio Domenico villico, Merlo Gaspare
possidente, Muraro Pietro possidente, Montagna Angelo villico, Mazzaron
Gio. Clemente possidente, Minchi Giuseppe mezzadro, Mottin Giobatta segretario comunale, Mazzaron Antonio villico, Mambrin Luigi villico, Mambrin
Fiore donna di casa, Montagna Angelo villico, Marzari Giuseppe bifolco,
Maccà Gaetano villico, Marchesin Giobatta villico, Magro Giobatta villico,
Longo Santo gastaldo, Ogniben Ognibeni villico, Maraffon Luigi bifolco,
Beccaro Vicenzo affittuario, Beccaro Giuseppe (non indicato), Bruzzo Angelo
affittuario, Crestan Luigi villico bifolco, Valente Giacomo parroco, Veronese
Giobatta possidente, Veronese Bortolo possidente, Veronese Pietro possidente,
Veronese Angelo villico,Volpe Giobatta villico,Visentin Luigi villico, Camparin
Giovanni villico, Fabbris Cristiano fittanziere, Rasia Dani Bortolo possidente,
Ronco Luigi villico, Righetto Giovanni pizzicagnolo, Rossetto Francesco villico,
Tognetti Stefano villico, Rossetto Matteo villico, Rossetto Simeone villico,
Pirocca Giovanni villico, Sigolla Pantaleone villico, Sigolla Francesco calzolaio,
Spagnolo Domenico villico, Siviero Valentino agente di campagna, Maggiorato
Angelo bifolco, Segala Giacinto villico, Simionati Prospero villico, Sbettego
Lodovico barbiere, Possia Vicenzo villico, Cozza Giovanni affittuale, Gasparin
Dionisio villico, Cangin Angelo villico, Padrin Franco villico, Panzarotto
Antonio bifolco, Ficagna Luigi villico, Munari Domenico possidente, Bellin
Pietro affittuario, Canton Valentino villico, Anzolin Tommaso barbiere, Tognolo
Pietro bovaio, Zanetti Ferdinando villico, Zordan Francesco villico, Zanetti
Vicenzo villico, Zanolo Antonio villico, Zanetti Giuseppe villico, Gomiero
Caterina villica, Scuccato Amedeo bovaio, Rodolfi Giovanni villico, Tonello
Angelo villico, Tognetti Luigi villico, Tognetti Luigia villica, Tognetti Giuseppe
falegname, Tagliaferro Luigi villico, Dresseno Girardi Angela villica, Toninello
Bernardo bovaio, Tuzza Giuseppe villico, Magliaro Pietro pastore, Trevisan
Stato d’anime dell’anno 1875
In questo Stato d’anime, 9 redatto dal parroco Giacomo Valente, sono annotati
164 capifamiglia con le relative condizioni (professioni):
Andriolo Domenico villico (contadino), Ambrosi Girolamo fittanziere, Borotto
Francesco industriale, Bulla Antonio villico, Bottazzi Luigi fabbro, Bottazzi
Giuseppe gastaldo, Bonamigo Pietro bovaio, Benatello Giuseppe bovaio,
Bressan Giovanni fittanziere, Brun Sante villico, Brunello Andrea villico,
Brunello Francesco villico, Brunello Bortolo villico, Bellin Dante, possidente,
Bellin Giobatta possidente, Bellin Giovanni (non indicato), Bellin Antonio villico, Brunello Massimiliano villico, Borinato Giovanni possidente, Grassello
Giacomo (non indicato), Battagello Pietro mezzadro, Callido Lorenzo muratore, Carampin Sante sensale, Cappa Giobatta villico, Cracco Francesco villico,
Conti Francesco possidente, Costiero Angelo bovaio, Canale Vito calzolaio,
Costantini Giacomo villico, Casarin Giacomo villico, Corradin Giovanni villico,
9 Arch. Parr. Villaga, Stato d’anime anno 1875
196
197
CAPITOLO NONO
Giuseppe villico, Tagliaferro Giovanni villico, Trivellin Giobatta falegname,
Battarello Paolo villico, Anoardi Antonio villico, Borin Sante villico, Pozza
Napoleone villico, Rizzo Gaetano (non indicato), Vigolo Eugenio affittuale,
Grandi Pietro villico, Bulla Antonio villico.
Le famiglie più antiche
Riportiamo l’elenco delle famiglie più antiche, presenti ancor oggi a Villaga, ricavato dalla consultazione dei registri parrocchiali:
Metà Seicento: Dal Toso, Giacomuzzo, Guarato, Lunardi, Mambrin, Mazzaron;
La famiglia di Faggionato Andrea Natale fotografata nell’anno 1916.
foto di gruppo degli abitanti di via Fogomorto.
Anni ‘50: uomini di Villaga fotografati sulla scalinata di ingresso alle Scuole Elementari.
198
Famiglia di Faggionato Giuseppe fotografata nell’anno 1944.
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LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
Settecento: Bellin, Bonamigo, Crivellaro, Gambin, Gianesin, Lavezzo, Loro,
Mattiello, Miglioranza, Paina, Sigolla, Sinigaglia, Tognetti, Visentin, Zorzan
(Franoi).
Ottocento: Barbieri, Battagello, Biasiolo, Cracco, De Santi, Ferrari, Ghiotto,
Maccà, Munari, Padrin, Pozza, Toninello, Vigolo.
3. LA POPOLAZIONE DI TOARA
La prima registrazione della popolazione della parrocchia di Toara risale alla
”Descrizione delle anime del 1663” che riporta quanto segue: Uomini 98, Donne
105, Putti 79, Putte 64, per un totale di 346 persone.
Più di un secolo dopo, nel 1770, il parroco don Matteo Tommaselli riporta che
le anime da comunione sono 288, quelle di non comunione 107, per un totale
di 395 anime; nel 1780 le anime da comunione risultano 285, di non comunione 141, per un totale di 426 persone (in dieci anni, quindi, gli abitanti erano
aumentati di una trentina di unità); nel 1790 le anime da comunione sono 297,
di non comunione 128, in tutto 425 (in quei dieci anni, invece, la popolazione
era diminuita di una unità).
Nel 1806 il parroco don Pietro Castelli in una nota scrive che le anime in parrocchia sono 375, di cui 285 da comunione e 90 da non comunione. Colpisce
questo dato, poiché, rispetto al 1790, registriamo un calo evidente della popolazione (- 60 unità); sette anni dopo, nel 1813, si passa a 395 abitanti; pertanto la popolazione riprende a crescere di una ventina di unità. Il trend positivo
viene confermato cinque anni dopo, quando nel 1818 la popolazione sale a 415
unità (134 uomini ammessi alla comunione, 72 i figlioli inferiori; 149 le donne
ammesse alla comunione, 60 le figliole inferiori). 10
Dalla metà dell’Ottocento in avanti si assiste ad un deciso incremento della
popolazione. Nel 1871 il parroco don Antonio Pagani annota che le famiglie
sono 124, le anime 644, di cui 439 di comunione. In poco più di 50 anni, quindi, la popolazione di Toara era aumentata di circa 230 unità. Alla fine del secolo, nel 1899, la popolazione era arrivata a 828 unità, con un altro aumento consistente, tanto che, rispetto agli inizi dell’Ottocento, il numero degli abitanti era
raddoppiato. 11
Massaro Virginia in Bottazzi con i cinque figli.
Stato d’anime della parrocchia di Toara dell’anno 1842
Lo Stato d’anime più antico conservato nell’archivio storico della parrocchia di
Toara risale al 1842 e venne compilato dal parroco don Antonio Costalunga.
Riportiamo l’elenco dei capifamiglia di allora: Alberti Alberto, Brunello
Pasquale, Bracesco Giobatta, Begio Francesco, Bresciani Giobatta, Busato
La famiglia di Mattiello Silvio con la moglie, a destra, e gli otto figli,
fotografata nel 1956.
200
10 Arch. Curia Vescovile Vicenza, Stato delle Chiese, Toara, b. 307: i dati demografici riportati sono ricavati da
fogli sparsi.
11 Ibidem
201
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
Lorenzo, Baratto Lucia, Bozza Giacomo, Bubola Teresa vedova, Bellucco
Angelo, Bellucco Girolamo, Battistella Giovanni, Battistella Alessandro, Busato
Sante, Badin Girolamo, Carogaro Angelo, Costiero Antonio, Casaro Giuseppe,
Crivellaro Pietro, Conti nob. Marzio, Cichellero don Giovanni, Cichellero
Francesco, Costalunga don Antonio, Cracco Paolo, Corà Giovanni, Cestaio
Francesco, Cremonese Giovanni, Danieli Michelangelo, De Grandis Giovanni,
Dalla Libera Ambrogio, De Grandi Angela, Di Mani Antonio, Di Mani
Domenico, De Marchi Bortolo, De Marchi Giovanni, De Marchi Angelo, De
Marchi Antonio, De Nato Antonio, De Lunghi Domenico, Dovigo Giacomo,
Faccio Paolo, Faccio Giorgio, Folletto Antonio, Faccin Francesco, Ferrari
Giovanni, Furlan Giovanni, Ferrari Lorenzo, Giara Domenico, Gallo
Domenico, Giacometti Giovanni, Giacometti Matteo, Gaino Gio Maria, Lovato
Vincenzo, Lovato Osvaldo, Marcato Francesco, Mancin Bortolo, Mancin
Antonio, Marangoni Antonio, Muraro Girolamo, Marangon Bortola vedova,
Miglioranza Cipriano, Miglioranza Giuseppe, Maran Domenico, Miola
Giovanni, Mazzaron Giovanni, Mastavello Nicola, Mazzucco Angelo,
Mazzucco Luca, Mazzucco Francesco, Montan Angelo, Marin Giuseppe,
Novello Giovanni, Rovea Bernardo, Mattiello Giacomo, Mercurio Sante,
Manfrin Giobatta, Priante Giuseppe, Piran Giovanni, Pirocco Angelo, Ponzin
Pietro, Prevato Angelo, Pilani Antonio, , Priante Antonio, Paliotto Francesco,
Pozza Antonio, Piran Antonio, Rezzadore Angelo, Ramazzotto Angelo,
Rossetto Catterina, Rigon Andrea, Rigon Giacomo, Salomon Angelo, Salomon
Antonio, Sbetego Giobatta, Svizzero Antonio, Spagnolo Angelo, Scavazza
Giovanni, Scarmelotto Angelo, Santinello Bortolo, Scarato Giuseppe, Tognetti
Giovanni, Toffanin Tommaso, Toniollo Elena vedova, Trevisan Antonio,
Tremendo Giuseppe, Trevisan Pietro vedovo, Trevisan Sante, Trevisan Teresa
vedova, Volpe Gaetano, Veronese Giacinto, Volpe Giobatta, Vezzù Antonio,
Zorzi Domenico, Zanolli Antonio, Zanin Antonio, Zaia Pietro.
e Scalzotto Cirillo con 11; Cichellero Stefano, Cingano Marco, De Marchi
Sabina, Marangon Domenico, Pravato Angelo e Battaglia Domenico con 10;
Brigo Agostino, Carlotto Antonio, Cusin Luigi, De Marchi Angelo, Ferrari
Giovanni, Furlan Giuseppe, Girardi Telesforo e Guarato Domenico con 9 membri.
Stato d’anime del 1899
Facciamo un salto di oltre 50 anni e andiamo a vedere la situazione anagrafica
della parrocchia alla fine dell’Ottocento. In occasione della visita pastorale del
vescovo Antonio Feruglio, il parroco don Agostino Ancetti elaborò il seguente
Stato d’anime 12 che comprendeva 137 famiglie per un totale di 828 persone,
di cui 614 di comunione. Le famiglie più numerose risultavano essere quelle di:
Giacometti Gaetano con ben 20 componenti, poi Bruschetto Giovanni e
Scavazza Bortolo con 15, Pagliarusco Giuseppe con 13; Conti Barbarano Giulio,
Ferrari Luigi fu Luigi, Ghirardello Luigi, Guarato Giuseppe, Mazzucco Pietro fu
Bortolo con 12; De Marchi Antonio, Ferrari Giovanni fu Bortolo, Pasquale Carlo
Ancetti d. Agostino, Albarello (manca il nome), Alvezzola Attilio, Ba Sante,
Bellin Antonio, Bellucco Antonio, Dongiovanni Giovanni, Bellin Giuseppe,
Bracesco Ignazio, Brigo Agostino, Brugnolo Antonio, Bressan Girolamo,
Bressan Luigi, Bruschetto Giovanni, Bulla Angelo, Botegal Domenico, Carlotto
Antonio, Cengiarotti Cesare, Cichellero Prisco, Cichellero Giovanni, Cichellero
Stefano, Cingano Marco, Conti Barbaran Giulio, Cracco Carlo fu Luigi, Cracco
Carlo fu Francesco, Cocco Federico, Crivellaro Pietro, Crivellaro Luigi, Cusin
Luigi, Danieli Luigi fu Michelangelo, Danieli Luigi fu Bernardino, Danieli
Pietro, De Mani Antonio, De Mani Pietro, De Marchi Angelo, De Marchi
Antonio, De Marchi Giovanni, De Marchi Sabino, Faccio Paolino, Faccio
Angelo, Faccio Luigi, Faccio Paolo, Faedo Bortolo, Ferrari Giovanni, Ferrari
Luigi fu Luigi, Ferrari Luigi fu Giovanni, Ferrari Giovanni fu.., Furlan Giuseppe,
Fortolan Teodosio, Forasi Germano, Falda Probo, Gaino Luigi, Gaino Giovanni,
Garbuglio Francesco, Ghirardello Eugenio, Ghirardello Luigi, Giacometti
Gaetano, Giacomuzzo Carolina, Giacomuzzo Pellegrino, Gianesini Bortolo,
Girardi Giacinto, Girardi Telesforo, Groppo Giobattista, Guarato Giuseppe,
Guarato Eugenio, Guarato Pietro, Guarato Fiorindo, Guarato Giovanni,
Guarato Domenico, Guarato Leonzio, Gaspari Antonio, Ghirardello Maria,
Giarolo Francesco, Girullo Leonzio, Gozzo Antonio, Manzin Angelo, Maran
Leonzio, Marangon Domenico, Marangon Pietro, Marcolungo Fedele,
Marodin Francesco, Mazzaron Giuseppe, Mazzaron Angelo, Mazzucco
Giovanni, Mazzucco Pietro fu Bortolo, Mazzucco Pietro fu Giovanni, Mazzucco
Giuseppe, Miglioranza Edoardo, Miglioranza Giulio, Mizzon Pietro, Montorio
Angelo, Montorio Giovanni, Montecchio Antonio, Montecchio Francesco,
Montecchio Luigi, Merlugo Antonio, Nanti Orsola, Pasquale Carlo, Pasquale
Antonio, Pellizzari Ferdinando, Pravato Angelo, Pravato Eustachio, Priante
Antonio, Priante Domenico, Priante Luigi, Pagliarusco Giuseppe, Portinari
Giacinto, Ranzolin Antonio, Rinaldini Gio. Battista, Rancan Angelo, Salomon
Luigi, Scalzotto Cirillo, Scalzotto Gervasio, Scavazza Agostino, Scavazza
Bortolo, Segala Serafino, Spagnolo Giorgio, Signorata Natale, Salomon Maria,
Maggiorato Federico, Tosetto Giuseppe, Toniolo Pietro, Toffanin Giuseppe,
Toffanin Natalina, Trevisan Luigi, Trevisan Giuseppe, Tubaldo Antonio, Vanini
Valentino, Visentin Antonio, Visentin Pietro, Valdesolo Anna, Zen Angelo, Zen
Antonio, Battaglia Domenico, Pieropan Valentino, Ognibene Ogniben, Manzin
Luigi.
12 Arch. Parr. Toara, Stato d’anime anno 1899
202
203
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
Stato d’anime della parrocchia nell’anno 1938, distribuito per contrade
Nell’anno 1938, pochi mesi prima di morire, don Pietro Vigolo predisponeva lo
Stato d’anime elencando tutte le famiglie (ben 226), i numeri civici e le contrade di residenza. 13
Toniolo Tullio, Toniolo Valentino,Varotto Angelo,Veronese Angelo,Visentin Teresa
vedova De Mani, Zorzan Beniamino, Zorzan Giuseppe, Zorzetto Giustina vedova Miglioranza.
Quargente:
Albanese Ernesto, Aldegheri Arcangelo, Aldegheri Federico, Aldegheri Vittorio,
Bellin Baldassare, Bellin Giuseppe, Bellin Silvio fu Angelo, Bellin Silvio fu Carlo,
Bisson Giuseppe, Bonamigo Luigia vedova Cichellero, Brognoligo Elisa vedova
Guarato, Caon Caterino, Capovilla Rachele vedova Zorzetto, Cichellero
Giuseppe, Dalla Libera Lucia, Danieli Agostino, Danieli Luigi, Ferrari Antonio,
Ferrari Giuseppe, Ferrari Maria vedova Danieli, Fontana Martino, Fortunato
Eugenia vedova Ghirardello, Ghirardello Anna vedova Spaliviero, Ghirardello
Maria, Gianesini Bortolo, Gianesini Domenico, Guarato Erminio, Guarato Felice,
Guarato Giorgio, Guarato Antonio, Guarato Luigi, Guglielmi Bortolo, Lavezzo
Augusto, Lavezzo Pasquale, Lincetto Guerrino, Manzin Angelo, Manzin Vittorio,
Marangon Matteo, Marcante Amalia vedova Faccio, Mazzucco Giovanni,
Montecchio Antonio, Pieropan Augusto, Pozza Domenico, Pozza Maria vedova
Mazzucco, Pozza Rodolfo, Zambonin Pietro, Zanconi Antonio, Zanconi Lorenzo,
Zanconi Pietro, Zen Antonio.
Alture:
Mazzucco Girolamo, Mazzucco Pietro, Ranzolin Gaetano, Ranzolin Antonio,
Sartori Vetusto.
Crocifisso:
Bellin Umberto, Melato Sante, Montesello Ortensio.
Ponte Alto:
Dal Toso Bernardo, Ferrian Antonio, Girardi Angelo, Pasquale Filippo, Pasquale
Giovanni, Silvestri Angelo.
Fogomorto:
Venturini Attilio, Venturini Benvenuto, Venturini Luigi, Venturini Valentino,
Zucchi Senofonte.
S. Ubaldo:
Cremonese Silvestro, Peruffo Tullio, Ramaro Antonio.
Ca’ Vajenta:
Cichellero Antonio, Orsato Ottaviano.
Frascà:
Cappa Giobattista, Cappa Giuseppe, Cappa Silvio, Cichellero Michele
Montesello:
Carezzoli Emilio.
Longhe:
Bonato Angelo, Pieropan Valentino, Zen Anna vedova Trevisan.
Riveselle:
Bolcato Pietro, Bruschetta Angela, De Marchi Orsola, Ferrari Angelo, Ferraro
Giuseppe.
Toara:
Alvezzola Attilio, Alvezzola Cesare, Alvezzola Girolamo, Battaglia Adele,
Battaglia Marcello, Battaglia Tullio, Bolcato Olindo, Cichellero Antonio fu
Stefano, Cichellero Girolamo, Cichellero Matteo, Cichellero Michele,
Cichellero Prisco, Cichellero Stefano, De Marchi Agostino fu Antonio, De Marchi
Agostino fu Girolamo, De Marchi Angelo fu Felice, De Marchi Antonio, De
Marchi Felice, Falda Rosa vedova Cacciavillani, Ferrari Tiziano, Ferrari Valentino,
Fracasso Giovanni, Furlan Antonio, Gaino Luigi, Gaino Pietro Angelo, Gassa
Vittorio, Giacometti Monica vedova Pagliarusco, Giacomuzzo Gino,
Giacomuzzo Giuseppina, Manzin Silvio, Marcolongo Achille, Marcolongo
Davide, Marcolongo Ernesto, Mazzucco Antonia vedova Giacometti, Mazzucco
Beatrice, Mazzucco Matteo, Modenese Vittorio, Montecchio Felice, Moro Maria
vedova Circello, Negri Caterina vedova Modenese, Negrin Giuseppe,
Pagliarusco Augusto, Pagliarusco Giuseppe, Priante Agostino, Priante
Alessandro, Priante Luigi, Romano Mario, Scavazza Giovanni, Spagnolo
Giorgio, Tombolan Angelo, Toniolo Matilde vedova Giacometti, Trevisan
Antonio, Trevisan Teresa vedova De Marchi,Valisa Luigia vedova Ferrari.
Belvedere:
Baston Antonio, Baston Guerrino, Bellin Giuseppina vedova Cortivo, Bellini
Cesare, Bicciato Alessandro, Bressan Guerrino, Bressan Pasquale, Bressan Pietro,
Campedel Remo, Cengiarotti Giobatta, Coco Federico, Cortivo Anselmo,
Crivellaro Adelchi, Crivellaro Virginio, Dal Cero Luigi, Danieli Felice, Danieli
Giovanbattista, De Mani Antonio, De Mani Augusto, De Mani Massimiliano, De
Mani Ottaviano, De Mani Pietro, De Mani Tullio, De Mani Romano, De Mani
Virginio, De Marchi Angelo, De Marchi Anna, De Marchi Giuseppe, De Marchi
Marsilio, De Marchi Sabino, Forasi Germano, Fracasso Ettore, Groppo Giulio,
Groppo Luigi, Manzin Alessandro, Manzin Sante, Marangoni Guerrino,
Marangoni Luigi, Marcante Giuseppe, Marcante Giacomo, Marcante Giovanni,
Marcolongo Angela vedova De Marchi, Mazzaron Andrea, Mazzaron Giovanni,
Mazzaron Massimiliano, Mazzaron Silvio, Menegon Lorenzo, Merlugo Maria
vedova Valdesolo, Mietto Agostino, Miglioranza Giulio, Miglioranza Pasquale,
Miglioranza Virginia vedova Groppo, Modenese Lodovico, Montecchio Angela
vedova Toniolo, Montecchio Teresa, Montesin Gelinda vedova Scalco, Omenetto
Emilio, Pegoraro Eugenio, Pegoraro Giordano, Priante Amalia vedova De
Grandi, Razzini Antonia vedova Merlugo, Soldà Caterina, Soldà Elena vedova
Muraro, Soldà Giuseppe, Tognon Celestina vedova Varotto, Toniolo Sante,
13 Arch. Parr. Toara, Stato d’anime anno 1938
204
205
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
Salgan:
Gassa Luigi, Sinigaglia Antonio.
Sanpieri:
Trevisan Agostino, Trevisan Giuseppe, Trevisan Silvio.
Olivari:
Bolcato Domenico, Bolcato Giuseppe.
Pila:
Bolcato Giulio, Falda Probo.
Albaria:
Schiarante Alessandro, Schiarante Antonio, Schiavon Gastone.
4. COME ERAVAMO: LA VITA CHE NASCE
Donne di Toara negli anni ‘40.
Anno 1963: la maestra Emma Cichellero fotografata con il parroco Don Attilio, il sindaco Mario Munari e alcuni parrocchiani di Toara.
“La nascita di un bambino – scrive Serena Vivian, commentando gli interessanti
lavori prodotti dall’università adulti-anziani di Marostica di questo anno14 - era
avvolta da un’aura di mistero e la futura madre era spesso costretta a continuare
i consueti lavori nei campi fino al momento delle doglie.
Malgrado la grande povertà, le condizioni sanitarie precarie e l’alta mortalità, l’arrivo di un nuovo bimbo era vissuto un tempo come una benedizione, anche quando in famiglia c’erano già numerosi figli da sfamare (da sei a dieci era la norma).
Per tutta la gravidanza, la donna doveva attenersi a strani comportamenti dettati
da tabù e da vecchie credenze pagane: non poteva ad esempio passare sotto una
scala o un filo teso perché portava male, oppure non doveva indossare collane,
altrimenti il bambino alla nascita poteva soffocare. La futura madre non poteva
uscire di casa se pioveva e doveva sempre portare un fazzoletto in testa, non
doveva mai pesarsi o guardare immagini brutte o paurose e qualsiasi suo desiderio in fatto di cibi o di frutta fuori stagione doveva essere accontentato per non far
comparire delle “voje”al neonato.
Con metodi altrettanto poco empirici si tentava di indovinare il sesso del nascituro. Così, ad esempio, se la pancia della mamma era “a punta” si trattava di un
maschio, se arrotondata di una femmina, se la madre aveva cambiato i lineamenti del viso in peggio si pronosticava un maschio, se in meglio una femmina, da qui
il detto “mamma bea na putea”.
Anche la nascita, che un tempo avveniva per lo più in casa, era immersa nel mistero: si allontanavano i bambini raccontando che sarebbe arrivata la cicogna con
un fratellino, ma anche i maschi e soprattutto i mariti venivano tenuti a debita
distanza. La gestante era assistita dall’ostetrica e da tante altre donne e solo
quando il parto presentava delle difficoltà si chiamava il medico condotto. Verso
il 1960 il taglio cesareo era considerato ancora come un intervento di alta chirurgia e veniva eseguito in pochissimi ospedali, mentre vi erano ancora donne che
morivano di parto.
Carro allegorico dei coscritti della classe 1922 di Belvedere.
14 S. Vivian, Nascere e morire ieri e oggi, da “Il Giornale di Vicenza”, 9 gennaio 2007, pag. 29
206
207
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
A quel punto non c’erano nemmeno le incubatrici e per mantenere in vita i
bambini nati prematuri spesso li si metteva dentro una scatola da scarpe con
del cotone.
Al padre spettava invece il compito di scegliere il nome del figlio, scelta per
modo di dire, dato che al primogenito veniva dato il nome del nonno o di
qualche santo specialmente Antonio, Giovanni, Giuseppe e Maria. Anche per
questa ragione nell’anagrafe parrocchiale i nomi e cognomi erano poco diversificati e per far fronte ai frequenti casi di omonimia si aggiungevano dei
soprannomi.
Il battesimo doveva avvenire obbligatoriamente entro otto giorni dalla nascita
e la madre non partecipava alla cerimonia in chiesa perché era considerata
impura. Per quaranta giorni dal parto, la donna non poteva dormire col marito
nè prendere freddo, non poteva uscire di casa nè di sera nè di mattina presto
per non prendere “l’acquasso”ossia la rugiada, che era ritenuta pericolosa.
Per quanto riguarda i primi mesi di vita, i bambini venivano fasciati con un
panno di tessuto rigido per far crescere dritte le gambe fino a quasi un anno e
dovevano quindi rimanere fermi a letto per molto tempo, finché la madre non
finiva i suoi lavori nei campi”.
va immortalato con le foto, che sarebbero state inserite in un bellissimo e
costoso album ricordo. Il centro dell’attenzione era sempre la sposa, vestita
di lungo dagli anni Sessanta in poi, con un abito bianco dai tenui colori.
All’uscita si lanciava il riso in segno di abbondanza e le campane suonavano
a festa. Di quel giorno si ricorda inoltre il pranzo, preparato in casa con animali ingrassati e un cuoco che arrivava con tutto il necessario.
…Si arrivava infine ad un po’ di pace per gli sposi dopo una giornata convulsa. La donna spesso non sapeva nulla del rapporto fisico che l’aspettava, in quanto le era stato vietato anche di assistere al parto degli animali.
Qualche piccola informazione incompleta l’aveva ricevuta dalla madre il
giorno prima.
Avere una casa propria, oggi esigenza indispensabile per sposarsi, negli
anni Cinquanta per molti era un sogno. Un tempo bastava anche la propria
camera, mentre tutto il resto era in comune. Composta da rudi mobili, oltre
dai letti, dal lavandino con il catino in ceramica o in ferro smaltato, c’erano
l’“armaron” dei vestiti e il “comò” della donna. Non mancava mai l’oggetto
più prezioso, la dote, trasportata in un baule in modo solenne su un carro
trainato da un cavallo o da altri animali prima del matrimonio.
Non mancava però un tocco squisitamente femminile quale le tendine ricamate sulle finestre. I fiori coltivati sul davanzale e segni religiosi di un piccolo acquasantiere e di un quadro con una oleografia della Madonna.
Qualche coppia più fortunata poteva avere anche una cucina propria, con il
focolare e il paiolo per la polenta sistemato su un treppiede; una piccola credenza con gli alimenti, della quale la donna teneva le chiavi nelle tasche del
grembiule; una vetrinetta con gli oggetti più belli e le cartoline infilate lungo
la cornice dei vetri; un acquaio di marmo con i secchi e la “cazza” per bere,
il tavolo, le sedie impagliate e gli oggetti di cucina (tagliapane, macinino per
il caffè, pesta sale, ecc.). il gabinetto era il più delle volte all’aperto e le possibilità per lavarsi erano gli stessi oggetti che servivano per il bucato. Persino
l’ombrello era un lusso da usare alla domenica. Per i giorni feriali bastava un
sacco di juta sulla testa. Il più delle volte la cucina era in comune e, quando
numerosi erano i membri della famiglia, le donne mangiavano in piedi o
sedute sul focolare. Inserirsi in questa nuova comunità era per la sposa
iniziare una nuova vita, che richiedeva grande sacrificio e disponibilità
totale, servizio non solo al marito ma a tutti i membri della famiglia.
Soprattutto era indispensabile l’ubbidienza alla suocera, che voleva essere
chiamata mamma, ma che era preoccupata solo di non “perdere il minestro”,
cioè il potere. Rimaneva come unico luogo di intimità la camera da letto, che
in breve tempo si era arricchita di una “cuna”.
Con l’aggiungersi dei figli aumentava in essa l’affollamento e non era raro il
caso di bambini piccoli messi a dormire nei cassetti del comò o nel granaio”.
Il matrimonio
“Le nozze – scrive mons. Giuseppe Dal Ferro15- sono un ricordo indelebile,
carico di emozioni anche dopo molti anni, momento di vero protagonismo,
anche per i poveri, in una società piatta e uniforme. Ad esprimere il momento magico erano i vestiti, l’affluenza popolare, il pranzo a sazietà. La giornata iniziava con la vestizione della sposa, in bianco solo dagli anni Sessanta
in poi. Ad essa erano presenti la mamma, le cugine giovani e le amiche del
cuore, le quali regalavano alla sposa qualcosa di vecchio da indossare perché portava fortuna. Le amiche erano onorate di infilarle le calze perché si
sarebbero sposate entro l’anno. Il vestito, dapprima cucito in casa e poi dalla
sarta , subiva in quel momento gli ultimi aggiustamenti. Era in alcuni casi
presente la parrucchiera per i ritocchi finali. Lo sposo non doveva conoscere
il vestito della sposa. Seguiva poi il corteo verso la chiesa, a piedi o in carrozza trainata da cavalli o in automobile prestata da amici prima e di lusso
noleggiata poi. Lungo il percorso non mancavano gli scherzi: sbarramenti di
pali reticolati, posti di blocco, pietre e cose simili. Il tutto era riservato
soprattutto al percorso dello sposo. A volte invece si creavano archi di rami
e fiori sotto cui gli sposi dovevano passare, magari con la richiesta di
pedaggio.
La cerimonia in chiesa era stata pensata ed organizzata come un “sogno”che
si realizzava: addobbi di fiori, corsia rossa, musica struggente. E tutto veni-
15 G. Dal Ferro, La metamorfosi del matrimonio, da “Il Giornale di Vicenza”, 22 marzo 2007, pag. 31
208
209
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
La morte
“Per quanto riguarda il momento della morte, - racconta Serena Vivian 16 - è
emerso che in passato avveniva quasi sempre in casa, nel proprio letto, assistiti dai famigliari e dal sacerdote. Allora il dolore era mitigato da un forte senso
di fatalità e sia la morte che la malattia venivano accettate come volontà divina. Il morto veniva vegliato giorno e notte da tutta la famiglia, assistito anche
da rituali semipagani, come l’accortezza di aprire le finestre perché l’anima
volasse via, oppure di coprire gli specchi perché non venisse riflessa l’immagine dei presenti.
In un’epoca in cui si era purtroppo abituati alle morti infantili e soprattutto
all’esperienza di guerre cariche di lutti e sofferenze, nemmeno i bambini venivano allontanati, dovevano anzi imparare fin da subito che la morte è l’ultima
naturale tappa della vita.
Quando moriva qualcuno, tutta la comunità veniva subito informata: il
sagrestano suonava infatti le “campane da morto”e in base ai rintocchi si capiva se era un uomo (due colpi) di una donna (tre) o di un bambino (quattro).
Udendo la campana, tutti si facevano il segno della croce e recitavano una
preghiera. Anche un tempo venivano esposte le epigrafi, ma queste erano di
dimensioni diverse a seconda della zona e dell’importanza del morto, spesso
scritte a mano e senza foto.
Dopo tre o quattro giorni si celebrava il funerale: a seconda della persona deceduta c’erano le celebrazioni di prima, di seconda e di terza classe.
I parenti esternavano il dolore per il caro estinto portando il lutto anche per
molto tempo: le donne in particolare si vestivano di nero per un anno e per
altri sei mesi il mezzo lutto, ossia con abiti di tinte scure; alcune vedove indossavano addirittura il lutto per tutta la vita.
Gli uomini portavano invece una fascia nera sulla manica sinistra o un bottone
nero sull’occhiello della giacca.
5. VILLAGA: NATI, MORTI E MATRIMONI
A PARTIRE DAL 1679 FINO AL 1900
Anno
1679
1680
1681
1682
1683
1684
1685
Nati
8
12
21
12
12
17
13
Morti
17
13
24
14
13
19
10
Saldo
-9
-1
-3
-2
-1
-2
+3
Matrimoni
1686
1687
1688
1689
1690
1691
1692
1693
1694
1695
1696
1697
1698
1699
1700
1701
1702
1703
1704
1705
1706
1707
1708
1709
1710
1711
1712
1713
1714
1715
1716
1717
1718
1719
1720
1721
1722
1723
1724
1725
1726
1727
20
23
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18
19
11
15
15
20
13
14
10
21
14
18
11
15
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18
10
20
18
24
12
19
27
25
14
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24
12
12
12
14
16
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14
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9
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31
32
14
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25
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9
19
12
6
7
5
17
10
10
13
19
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11
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5
+9
-8
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+5
-6
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-3
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+1
+2
+2
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0
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+7
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+ 13
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0
- 12
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+2
+2
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+2
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-9
+6
+4
16 S.Vivian, La morte? Solo l’ultima tappa naturale della vita”, da “Il Giornale di Vicenza, 9 gennaio 2007, pag. 29
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7
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5
3
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4
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“
“
27
“
“
manca la registrazione dei nati e dei morti
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LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
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CAPITOLO NONO
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+ 10
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7
9
Le nascite a Villaga
La prima nascita in assoluto riportata nei registri parrocchiali di Villaga (nel
Liber baptezatorum dell’anno 1564 conservato in Curia vescovile nella busta
168/1334) è quella di una bambina: il parroco don Bernardin Restello annota
che “il 28 setembre fu batizata Diamate, filiola di Scipion Godi, compare il sig.
Desideri Losco, comare la sig. Ceschina, nugier del sig. Andrea”. Purtroppo nascere
nei secoli scorsi era un’impresa: altissima infatti era la mortalità infantile
(soprattutto nel primo anno di vita) dovuta alle condizioni di miseria e di
povertà, alle pessime condizioni igieniche, alla carente e cattiva alimentazione,
all’insalubrità delle abitazioni, molto spesso veri e propri tuguri.
“La povertà di alimentazione e la gestazione incontrollata – spiega Paolo Pellegrino
- nel suo saggio contenuto nel volume di storia veneta: Anagrafi parrocchiali e
popolazione nel Veneto tra XVII e XIX secolo,a cura di Filiberto Agostini, edito
dall’Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa di Vicenza nell’anno
1989, pagg. 170-171 – debilitavano in partenza il nascituro che, se riusciva a
venire alla luce vivo, aveva moltissime probabilità di non superare la prima settimana di vita. Anche le condizioni in cui avveniva il parto erano precarie, se
spessissimo avveniva la morte per spasmo di origine traumatica. Né si possono
escludere le infezioni come quella tetanica, provocata da insufficiente igiene
della levatrice assistente il parto. Sia i medici che i parroci, trascrivendo le cause
di morte di questi piccoli esseri, davano diagnosi sbrigative, come appunto spasmo o morte naturale. Infatti era proprio una morte secondo natura – osserva
Pellegrino – cioè normale in una società abituata ad una elevata natalità infantile. Se il bambino riusciva a superare i primi 30-40 giorni di vita, altri pericoli
ostacolavano la sua esistenza. In primo luogo le affezioni intestinali, prodotte
spessissimo da vermi, decimavano per soffocamento un’altra parte di nati. Dopo
lo svezzamento, evidentemente abbandonati e incontrollati, nutriti con cibi e
bevande infette, indeboliti dalla sottoalimentazione, i fanciulli erano facilmente
esposti ad ogni tipo di pericolo. Durante l’adolescenza erano ancora soggetti a
infezioni intestinali, a malattie esantematiche, oppure capitava loro, durante il
gioco, di annegare nei fossati o nei canali. Potevano anche acquisire malattie
croniche che portavano con sè molti anni, fino a quando non subentrava una
complicazione o una ulteriore malattia che conduceva prematuramente alla
morte”.
216
Anno 1956: matrimonio Dani-Candiago a Villaga.
Anni ‘50: matrimonio Faccio Paolo e Faccio Norvelia a Toara.
I matrimoni
Il primo matrimonio documentato nei registri canonici risale al 7 ottobre 1567:
“Giandominico del sig. Giulio Godi fu sposato a Lucia figliola del mastro Gasparo la
Barbera per mano di me d. Bernardin Restello, presenti Gironimo Magoni e Mattio
Padoan”.
217
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
Le carestie e le epidemie cause di alta mortalità
Anni ‘50: matrimonio a Toara.
Un altro parroco, don Cornelio, riporta che “adì 28 zugno 1589 fu contratato matrimonio tra Iseppo figliolo di Troilo Zuliani da Villaga e Benvegnù
(Benvenuta), figliola di Cattarina Cumina da Villaga, fatte le presolite
denontie in giorni festivi e non essendo comparso alcuno impedimento, fu celebrato il matrimonio da me don Cornelio, curato di S. Michele, alla presenza
delli infrascritti testimoni Michiel Bassano e Silvestro Lionato”(Libro dei
matromoni 1567-1598 in Archivio della Curia, b. 168/1334).
Dall’osservazione dei matrimoni celebrati nei vari anni, si ricava che i
mesi in cui si celebravano più frequentemente le nozze erano febbraio
e novembre. Ciò era dovuto ad esigenze sociali, economiche e religiose.
“Sulla scelta della data del matrimonio influivano gli usi e le tradizioni –
osserva Chiara Cossetti nel testo “Anagrafi parrocchiali e popolazione
del Veneto tra XVII e XIX secolo”, a pag. 106 – alcuni giorni erano ritenuti infausti e c’era il divieto da parte della Chiesa di celebrare solennemente il
matrimonio durante l’Avvento e la Quaresima. Inoltre, i contadini
preferivano evitare le nozze nei mesi di più intensa attività agricola: giugno
e luglio per la mietitura e la trebbiatura e ottobre per la vendemmia e la raccolta del granoturco. Anche l’età media di matrimonio era condizionata da
fattori sociali ed economici”.
Analizzando i dati riportati nel prospetto, possiamo individuare i periodi e gli
anni in cui, a causa delle carestie e delle malattie, si riscontrava un’alta mortalità tra la popolazione.
Occorre premettere innanzitutto che la disponibilità alimentare è il fattore
determinante dello sviluppo della popolazione. All’interno di un’economia di
sussistenza, come quella della società rurale di un tempo, il cibo era il fattore
limitante della crescita demografica di un paese. Bastava infatti il fallimento di
un’annata agraria perché si presentasse lo spettro della fame e della carestia.
Spesso poi le carestie venivano accompagnate dalle epidemie che decimavano
una popolazione già indebolita dalla fame. A ridurre il numero della popolazione contribuivano anche le guerre che portavano carestia, fame, epidemie.17
I vuoti che si aprivano nella popolazione, dopo guerre ed epidemie, portavano
ad una maggiore disponibilità di terra e ad una maggiore offerta di lavoro.
Iniziava allora una fase positiva in cui miglioravano le condizioni economiche,
c’erano più soldi e sposarsi diventava più facile, e poi arrivavano i figli. Tuttavia,
possiamo affermare che il Seicento e il Settecento furono secoli di ristagno
demografico, in cui si alternavano gli anni con saldo negativo, agli anni con
saldo positivo della popolazione, ma sostanzialmente non si assisteva a un
cambiamento delle condizioni socio-economiche della nostra gente.
E veniamo ai periodi più difficili vissuti dalle popolazioni, ad iniziare dagli anni
sul finire del Seicento, quando dalla primavera del 1692 cominciò una serie di
stagioni straordinariamente cattive, con primavere ed estati molto fredde che
rovinarono i raccolti di cereali e ritardarono le vendemmie in tutta Europa. Ciò
provocò in tutto il Veneto una gravissima carestia che fece aumentare di molto
il prezzo dei cereali. 18
Il 1692 e il 1693 sono gli anni che registrano a Villaga, ma anche in tanti altri
Comuni, il più alto numero di decessi della seconda metà del Seicento (32 nel
1692, 40 nel 1693, su una popolazione di circa 300 unità). Di questi, più della
metà è costituito da bambini in tenerissima età. Purtroppo nei registri parrocchiali di quell’epoca non sono riportati i motivi delle morti, ma probabilmente
le ragioni sono riconducibili a un’epidemia di febbre petecchiale (tifo) o di
vaiolo oppure alla mancanza di latte delle madri a causa della denutrizione o
della cattiva alimentazione. 19
Il 1699 è un anno tristissimo per alcune famiglie di Villaga che avevano bambini piccoli: sui 19 decessi registrati, ben sedici riguardano bimbi sotto i cinque
anni: 20
17 B. Lorenzo, La popolazione di Tezze sul Brenta “, in AA.VV.“Una terra, un fiume, una comunità”, Parrocchia
di Tezze sul Brenta, 1990, pag. 61
18 B. Lorenzo, La popolazione…, pag. 63
19 Ibidem, pag. 64
20 Arch. Parr. Villaga, Liber mortuorum, 1679-1759
218
219
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
- Zorzetto Pasqua e Menega, di giorni 8, figlie di Mattio, muoiono il 10 gennaio 1699;
- Angiola, figlia di Franco Di Grandi, di giorni 2, muore il 2 marzo;
- Zuanne, figlio di Ghirardo Di Grandi, di un mese, muore il 20 aprile;
- Angiola, figlia di Zuanne Galvan, di anni 5, muore il 13 maggio dopo lunga
infermità;
- Giambatta, figlio di Francesco Veronese, nato questa mattina alle 5, muore
dopo un quarto d’ora (25 maggio);
- Cattarina, figlia di Pietro Polo, di mesi 18, dopo 20 giorni di infermità, volò
al cielo (5 giugno);
- Giobatta, figlio di Zuanne Zanè, di giorni 7 (28 luglio);
- Ottavia, figlia di Zuanne Trivisan, 5 anni (9 agosto);
- Cattarina, figliola di Domenico Volpato, di anni 3 (23 agosto);
- Francesco, figlio di Batta Vinante, di anni 3 e mezzo (11 settembre);
- Antonia, figlia di Bortolo Artuso, di anni due e mezzo (16 settembre);
- Lucia, figlia di Francesco Piovan, di 11 mesi (19 ottobre);
- Domenico, figlio di Francesco Muraro, di un anno (28 ottobre);
- Girolamo, figlio di Francesco Di Grandi, di giorni 2 (20 ottobre);
- Giovanni, figlio di Francesco Di Grandi, di giorni 3 (21 ottobre).
Le piogge continuarono a cadere sino alla tarda primavera dell’anno successivo, provocando raccolti disastrosi e un deciso aumento dei prezzi del frumento e del mais. Nel 1774 sono registrati a Villaga dal parroco don
Giacomo Marconi cinque casi di vaiolo che colpiscono bambini molto piccoli.
Intensa mortalità si registra poi a Villaga nel 1775 (24 morti), nel 1786 (27
morti, di cui parecchie dovute al vaiolo), nel triennio 1795-97 (74 decessi). Il
vaiolo imperversa anche negli altri centri, soprattutto in Barbarano, in cui,
nell’autunno del 1796, compie una vera e propria strage (55 morti da settembre a dicembre).23
I primi anni dell’800 vedono un movimento naturale quasi costantemente
caratterizzato da saldi positivi della popolazione. Tuttavia, la breve ripresa
demografica viene arrestata negli anni 1816-17 da una grave crisi di sussistenza. Le annotazioni del Tornieri, il cronista di quel periodo, ci segnalano
una situazione davvero allarmante: la miseria e la mancanza di cibo erano
tali che si verificarono parecchi casi di morti per fame.24 Inoltre si diffuse
una grave epidemia di tifo petecchiale che colpì anche a Villaga, dove i morti
nel 1817 furono 28. Il numero dei decessi a Villaga continuò ad essere elevato fino al 1821, quando perirono 31 persone, parecchie delle quali adulte e
anziane. Il Povolo spiega che erano soprattutto la denutrizione e la cattiva
alimentazione, che periodicamente comparivano in seguito soprattutto alla
scarsità di mais, ad innescare la terribile spirale della morte. 25 Ed il
Lampertico, altro studioso della società vicentina dell’Ottocento, scriveva, a
ragione, che era la miseria a generare le malattie. 26
I primi due decenni del Settecento vedono il ristabilirsi di condizioni abbastanza favorevoli che portano ad un leggero aumento della popolazione, anche se
l’anno 1717 viene ricordato a Villaga per la morte di ben 32 persone. Gli anni
1724 –25 registrano un forte aumento dei decessi dovuti ancora una volta al
vaiolo e al tifo. Un altro periodo molto duro per la popolazione è quello riferito agli anni dal 1758 al 1764, nei quali si verifica in tutto il Veneto un’alta mortalità. Le malattie che procurarono un gran numero di decessi anche a Villaga
furono polmoniti, pleutiri infettive e acute e pleuriti reumatiche, che i parroci
annotavano sotto il nome di male infiammatorio. Il clima – scrive lo studioso
Povolo 21 – fu uno dei fattori responsabili di un diffuso stato morboso che portò
nel Veneto ad una recrudescenza della morte. Il 1758, dopo un mese di intenso freddo, portò con sè piogge dirotte e straripamenti di fiumi.
Il Toaldo…osservava come il 1758 ebbe ben 145 giorni di pioggia. In tutta la
terraferma dovette diffondersi un diffuso stato influenzale, che nell’autunno
predisponeva le persone ad essere attaccate da forme virulente di pleuriti. A
Villaga le morti furono 31. Nel 1760 si assiste ad un altro lungo periodo di
piogge che provoca ancora un elevato numero di decessi (a Villaga 28).
Con gli anni ’70 del secolo il clima manifestò un deciso peggioramento. Il 1770
fu un anno piovosissimo al punto che il cronista Tornieri scriveva che “la semina, i sorghi, l’uve, tutta va male e si vede manifesto un castigo di Dio”. 22
21 C. Povolo, Tra epidemie e crisi di sussistenza, in Costozza, Cassa Rurale e Artigiana di Costozza e Tramonte
Praglia, anno 1983, pag. 589
22 C. Povolo, op. cit. pag. 597
220
Drammi familiari
Dal registro “Liber mortuorum” 1679/1759 conservato nell’archivio parrocchiale di Villaga, veniamo a conoscere varie tragedie familiari.
In casa Giorio, nel giro di tre anni, dal 1679 al 1682 muoiono i figli
Domenico, di 22 giorni, Lucia, di anni 14 e il padre, Angelo, di anni 44. Nel
1691, a distanza di qualche giorno, muoiono Battista Paganotto, di anni due,
e la madre, di anni 34. Nello stesso anno, nell’arco di tre mesi, muoiono i
coniugi Paolo e Lorenza Fattore, e la figlia Maria Maddalena, di anni 1, senza
l’indicazione dei motivi.
Il 23 giugno 1692 muore Giacomo Polo, di anni 3; il 5 giugno era deceduta
la madre Pasqua e l’anno precedente, il 28 settembre, era mancato il figlio
Domenico, di anni 5.
Paolo Fattore, di anni 36, e il fratello Domenico, di anni 24, muoiono di vaio-
23 Ibidem, pag. 603
24 A. Tornieri, Memorie, manoscritto, alla data 19 giugno 1817
25 C. Povolo, op. cit. pag. 607
26 D. Lampertico, Studi e notizie sull’economia agraria dei distretti di Vicenza, Lonigo e Barbarano, pag. 333
221
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
lo rispettivamente il 4 e il 5 marzo 1693. Bortolo Giacomuzzo muore nel
1693 alla bella età di 80 anni: è la persona che ha vissuto più a lungo negli
ultimi vent’anni del Seicento a Villaga.
Il 7 e l’8 marzo 1696 cessano di vivere le due gemelle Maria e Angela, di pochi
giorni, figlie di Antonio Gerino; il 14 febbraio era morto il fratellino Antonio, di
anni 2. Il 13 marzo 1694 muore di febbre maligna Domenica Guarato; otto
giorno dopo muore anche il marito Domenico, anch’egli colpito dalla febbre.
Il 17 settembre 1697, all’età di 56 anni, muore il parroco don Carlo Dionisi.
Nel 1699 scompaiono i seguenti bambini: Pasqua e Menega Zorzetto, di giorni
otto, figlie di Matteo, muoiono il 10 gennaio; Angiola, figlia di Franco Di
Grandi, di giorni due, muore il 2 marzo; Zuanne, figlio di Ghirardo Di Grandi,
di un mese, muore il 20 aprile; Angiola, figlia di Zuanne Galvan, di anni 5,
muore il 13 maggio dopo lunga infermità. Giambatta, figlio di Francesco
Veronese, nato questa mattina, 25 maggio, alle 5, muore dopo un quarto d’ora;
il 6 giugno “Caterina, figlia di Pietro Polo, di mesi 18, dopo 20 giorni di infermità
volò al cielo e fu sepolta in questo cemeterio con l’assistenza di me, don Antonio
Camin”; Giobatta, figlio di Zuanne Zamè, di giorni 7, muore il 28 luglio;
Ottavia, figlia di Zuanne Trevisan, di 5 anni, muore il 9 agosto; Caterina, figliola di Domenico Volpato, di anni 3, muore il 23 agosto; Francesco, figlio di
Giobatta Vinante, di anni 3 e mezzo, muore l’11 settembre; Antonia, figlia di
Bortolo Artuso, di anni 2 e mezzo, muore il 16 settembre; Lucia, figlia di
Francesco Piovan, di mesi 11 muore il 19 ottobre; Domenico, figlio di Francesco
Muraro, di un anno, muore il 18 ottobre; Girolamo, figlio di Francesco Di
Grandi, di giorni 2, è stato sepolto il 20 ottobre; Giovanni, figlio di Francesco
Di Grandi, all’età di giorni 3, muore il 21 ottobre.
Il 10 gennaio 1701, all’eta di 80 anni, scompare Zuanne Mambrin, degano del
Comune di Villaga per molti anni, che viene sepolto “in questa chiesa nell’ara dei
confratelli del Santissimo Sacramento”, annota don Antonio Camin.
Bortola, moglie di Francesco Di Grandi, muore di parto il 2 marzo 1701 dando
alla luce una bambina che viene chiamata Bortola, in memoria della madre;
purtroppo la neonata poi muore alcuni mesi dopo, il 13 ottobre.
Nel 1708, tra il 9 marzo e il 5 maggio, muoiono i figli Zuanne e Valentina
Frizzarin e la madre Lucia.
Il 2 maggio 1711 muore il parroco Antonio Maria Camin che viene sepolto in
chiesa, “davanti all’altare di S. Antonio”.
Nel 1713 avvengono 26 morti, di cui 11 prima del compimento di un anno di
vita e cinque sotto i dieci anni.
Nel 1716, al nobile Alfonso Godi muore la figlia Camilla, di giorni 8, che “viene
sepolta in chiesa sulla parte sinistra della porta maggiore, vicino al muro”.
Nel 1722, muore alla incredibile età, per quegli anni, di 93 anni Mattio De
Signori. Vent’anni dopo, nel 1742, nel breve periodo di due mesi, muoiono tre
figli della famiglia Buson: Domenica (8 anni), Pasquale (10 anni) e Antonia di
15 anni.
Nel 1745, in pochi giorni, tra settembre e ottobre, cessano di vivere i tre figli di
Liberale Giacomuzzo: Vincenzo e Andrea, gemelli, di giorni 8, e Michele, di
anni 3.
Nel 1750, tra febbraio e aprile, muoiono dapprima il figlio Francesco, di anni 4,
poi il padre Domenico Albero e la madre Caterina.
Nell’anno 1756 la sventura colpisce tre gemellini appena nati: Vincenzo,
Marcellino e Lorenzo, dopo aver ricevuto il sacramento del battesimo dal
nuovo parroco, il monaco olivetano don Cesare Finozzi, in poche ore muiono
di “marmelosi”.
Nel 1774, 27 anche la parrocchia deve piangere un suo sacerdote: il cappellano
don Pellegrino Breganzato, prete “d’esemplari e religiosi costumi, d’anni 30, muore
per un ristagno alla testa” (emorragia cerebrale).
Nel 1775 muoiono a distanza di poche ore i gemelli di Gaetano Mambrin:
Michele Angelo, di giorni 5, e Vittoria, di giorni 6. Cinque anni dopo muore
Fiora, moglie di Gaetano, all’età di 42 anni; nel 1787 muore il figlio maggiore
di Gaetano, Angelo, all’età di 19 anni.
Tra il 1791 e il 1793 muoiono 3 figli di Leopoldo Mambrin: Maria, di 9 giorni,
Maria (nata circa un anno dopo la prima Maria) di giorni 11, Elisabetta, di
giorni 3. Quattro anni dopo morirà anche Eugenio, di anni 2. Nell’anno 1800
cesserà di vivere la moglie di Leopoldo, Maria, di anni 40.
Nel 1795 è la famiglia di Domenico Mazzaron ad essere colpita da due lutti:
muoiono Maria, di 5 mesi, e Giobatta di un anno e mezzo.
Morti accidentali o violente
Non poche erano in passato le morti accidentali, dovute soprattutto alla
caduta dagli alberi, per annegamento, o per azioni incaute durante i lavori
nei campi o nelle case. Ma ci furono anche parecchie morti violente, per
mano assassina, procurate da armi da fuoco (l’archibugio). Nelle società
contadine a volte le risse e le rapine avevano un tragico epilogo. Inoltre la
penuria alimentare provocava un aumento di mendicanti e questuanti che
percorrevano le campagne alla ricerca di cibo. A volte tra costoro prendeva
il sopravvento la dispe-razione che li portava a compiere gesti inconsulti.
C’era poi il fenomeno del brigantaggio che si manifestava in furti e rapine.
Cominciamo da Isabetta Liotta, di anni 40, che muore il 10 febbraio 1650, in
seguito a caduta da lettiera. Il 16 novembre 1650, Carola, di anni 60, moglie
di Andrea Tabacco, viene uccisa con un’archibugiata (colpo di fucile). Stessa
sorte tocca a Francesco Fruscalzo, il quale, il 12 agosto 1652 viene ferito
mortalmente sopra d’un ballo (probabilmente durante una festa paesana). Il
27 maggio 1655 è la volta di Piero Muraro, d’anni 40, “sbiro de corte”, ucciso
da archibugiata.
27 Arch. Parr. Villaga, Liber Mortuorum 1760-1827
222
223
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
Il 16 luglio del 1656 è Cattarina, moglie di Batta di Bruni a essere ammazzata
con un’archibugiata.
Il 4 giugno 1668 muore Lorenzo Dal Negro, d’anni 50, in seguito alla caduta di
un masso, probabilmente mentre stava lavorando in collina. Altra disgrazia
accade il 12 giugno 1669, quando Andrea, di anni tre, figliolo del sig. Festa,
muore sotto le macerie della sua casa “cascata all’improvviso”. Nel 1671 è
Sebastiano Chiomin, di anni 24, ad essere ferito mortalmente da archibugiata.28
Nei registri canonici dei morti conservati nella parrocchia di Villaga abbiamo
riscontrato i seguenti casi. Nell’anno 1691 Giulio Montan, di mesi 4, fu incautamente soffocato nel letto.
Il 4 marzo 1692 Maria Marcone, di anni 5, perde la vita cadendo in un pozzo.
Giovanni Marcone, padre di Maria, di anni 48, muore due settimane dopo, il 19
marzo, per il dolore della perdita della figlia.
Bartolomeo Rossetti, di anni 36, muore di puntura il 22 gennaio 1693.
Zuanne Maccagnin, di anni 24, colpito da un pilone della pila del conte
Alessandro Barbarano, muore dissanguato il 3 aprile 1716.
Orazio Chierico, di anni 68, muore in seguito a caduta da una mandolara il 15
agosto 1717.
Francesco De Carli viene ucciso da schioppettata all’una di notte, il 5 giugno
1735, lungo la strada di Pagnaga.29
L’8 agosto 1769 Cristiano Zorzetti, di anni 44, è ferito mortalmente da una
archibugiata.
Il 25 aprile 1772 Domenico Mazaron di Belvedere viene ferito mortalmente da
archibugiata a Belvedere. Nello stesso anno avviene il suicidio di Gioachino
Velo che si taglia la gola.
Nel 1789, Angelo Mambrin, di anni 33, muore per una caduta da
“ceresara”(ciliegio).
Francesco Gastaldello, di anni 46, ferito da una coltellata al petto e da altre contusioni alla testa, nei confini tra Toara e Villaga, fu trovato morto il 17 aprile 1796.
Antonio Cusin, di anni 33, muore per ferita d’arma contundente al cranio nel
1799.
Il 13 luglio 1800, un soldato che andava questuando arrivò alla casa di Boaria,
in Roncasso, infermo da qualche giorno, si coricò sulla paglia e morì; aveva una
divisa francese.
Pochi giorni dopo, il 24 luglio, Nicola Stoiciche, d’anni 28, camparo di casa
Sangiantofetti (l’attuale villa Rigon a Ponte di Barbarano), alla casetta delle
Fornasette, sotto Villaga, muore per ferita da schioppo nel petto.
Nel 1804, Domenico, di Antonio Guarato, di anni 34, muore suicida “appiccato ad un oraro”.
Nel 1805, Bortolo, figlio di Domenico Veronese, di anni 34, muore affogato
nella contrà di Ronca.
Nel 1813, Domenico, figlio di Antonio Lunardi, di anni 2, annega in una fossa
davanti casa.
Nel 1816 Stefano Marcati, un bimbo di un anno, cade nel fuoco e finisce bruciato in casa propria.
Nel 1819, Carlo Roda, di anni 13, annega nello Scaranto di Barbarano e viene
ritrovato al Poigo in un fosso.
Due anni dopo, nel 1821, Teresa Farinon, di anni 20, muore annegata in un
fosso in contrà Oche.30
Passiamo all’anno 1861 31 quando viene trovato morto Sante Buretta, di anni
20, per una archibugiata in contrà Fogomorto.
Nell’anno 1882, un neonato, figlio di Domenica Fauro e Antonio Primolano,
pastori erranti del Comune di Lamon di Belluno, nasce il 13 novembre e muore
sulla terra ai Zocchi, di proprietà del sig. Conte Miari.
Nel 1885 muore Giuseppe Bellin, di anni 2, annegato accidentalmente in una
pozzanghera vicino a casa.
Nel luglio 1897, annota don Faccin32, accade “un caso orribile. Alla sera del sabato 3 luglio, Eugenio Simionati, di anni 38, era in cima alla scala per compiere il pagliaio, aveva calato l’angan da lui appuntato la mattina e poi appoggiato al pagliaio
colla punta in su… l’infelice perdette l’equilibrio e cadde proprio sulla punta” con le
conseguenze che possiamo immaginare.
Nel 1885 a Villaga successe un fatto che fece molto discutere. Il 25 agosto
Occofer Francesco, il dottore del paese, di anni 64, morì “rifiutando i conforti religiosi dopo sette giorni di insulto apoplettico (attacco cardiaco) – scrive il
parroco don Faccin. 33 Il parroco rifiutò di accompagnarlo alla chiesa e dargli
sepoltura ecclesiastica. L’autorità civile, adunata la Giunta municipale, si oppose,
chiamò il parroco il quale espose non esser questo un suo arbitrio ma una legge
della Chiesa che punisce della privazione di sepoltura ecclesiastica tutti coloro
che muoiono senza dare (potendo) alcun segno di ravvedimento e questo era il
caso perché quantunque assalito di apoplessia, pure sapeva quel che si faceva e
borbottava e rifiutò a chiare parole il prete assistente e il crocifisso con orrore.
Era della setta massonica – rivela don Faccin – lo avea manifestato al parroco
quando era sano.
Allora il medico Adelchi Carampin, alla presenza della Giunta municipale,
attestò che dal momento in cui fu colto dall’insulto apoplettico perdette le sue
28 Tutti questi casi di morti accidentali e violente sono trascritti nel registro dei Battesimi, dei Matrimoni e dei
Morti, dall’anno 1646 all’anno 1678, redatto dal parroco don Vincenzo Commi, e conservato nell’archivio della
Curia Vescovile, b. 168/1334
29 Arch. Parr. Villaga, Libro dei morti, 1678/1759
30 Arch. Parr. Villaga, Libro dei morti, 1760/1827
31 Arch. Parr. Villaga, Libro dei morti, 1828/1879
32 Arch. Parr. Villaga, Libro dei morti, 1880/1908
33 Ibidem
224
Una sepoltura contestata
225
CAPITOLO NONO
facoltà intellettuali, così da non poter più ritenerlo responsabile di qualsiasi sua
azione.
Allora il parroco rispose che quantunque egli sia di opinione diversa, tuttavia
la sua testimonianza (secondo il mondo) non è superiore a quella del medico
in fatto di malattia, e che però, se il medico curante facesse in iscritto una tal
testimonianza, egli con questa avrebbe fatto ricorso al suo superiore, il Vescovo,
e starebbe alla sua decisione, lasciando però loro tutta la responsabilità. Il parroco telegrafò al Vescovo di Vicenza che rispose: “Se il medico dichiara aberrazione mentale sì; se no, no!”.
E perciò fu seppellito come gli altri, accompagnato dal parroco solo, banda di
Barbarano, autorità del municipio e persone civili colle torce di Barbarano.
TOARA
6. NATI, MORTI E MATRIMONI
Periodo dal 1700 al 1725
Anno
1700
1701
1702
1703
1704
1705
1706
1707
1708
1709
1710
1711
1712
1713
1714
1715
1716
1717
1718
1719
1720
1721
1722
Nati
9
14
11
13
19
13
11
15
24
15
15
14
17
17
13
19
11
14
10
15
21
13
15
Morti
11
10
25
10
19
10
8
13
14
17
19
25
15
16
17
12
16
25
20
9
11
17
7
Saldo
-2
+4
- 14
+3
0
+3
+3
+2
+ 10
-2
-4
- 11
+2
+1
-4
+7
-5
- 11
- 10
+6
+ 10
-4
+8
226
Matrimoni
1
3
8
6
0
0
1
1
2
5
3
1
3
4
3
4
3
3
5
5
5
5
2
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
1723
1724
1725
18
21
19
11
12
20
+7
+9
-1
5
5
1
- 15
+8
-3
+1
+5
-1
-4
-1
+1
+1
-9
+8
+ 12
-3
+1
-2
+2
+7
+6
+3
-8
-9
-5
+4
+ 15
-2
- 10
+3
-2
+2
-3
-3
+8
+1
-5
-8
3
8
5
4
2
2
3
3
4
5
5
3
5
4
3
9
5
4
5
3
2
3
5
3
5
6
0
3
2
2
3
6
4
4
2
7
Periodo dal 1760 al 1800
1760
1761
1762
1763
1764
1765
1766
1767
1768
1769
1770
1771
1772
1773
1774
1775
1776
1777
1778
1779
1780
1781
1782
1783
1784
1785
1786
1787
1788
1789
1790
1791
1792
1793
1794
1795
20
20
13
18
23
16
17
18
22
20
14
28
29
16
28
26
21
26
21
25
17
23
21
19
26
22
21
15
12
15
17
11
21
17
14
15
35
12
16
17
18
17
21
19
21
19
23
20
17
19
27
28
19
19
15
22
25
32
26
15
11
24
31
12
14
13
20
14
13
16
19
23
227
CAPITOLO NONO
1796
1797
1798
1799
1800
11
16
6
14
13
22
20
14
13
17
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
- 11
-4
-8
+1
-4
5
2
1
3
3
-2
+1
- 10
+2
-1
+2
+7
+7
-2
+5
+3
+5
+2
0
+ 12
0
+ 10
+6
+2
-4
-2
+4
0
+9
+6
- 36
+1
+8
+1
+8
+1
3
4
6
5
5
3
1
5
1
3
2
3
8
8
6
3
2
4
2
6
3
11
4
1
5
6
5
7
4
6
3
Periodo dal 1830 al 1860
1830
1831
1832
1833
1834
1835
1836
1837
1838
1839
1840
1841
1842
1843
1844
1845
1846
1847
1848
1849
1850
1851
1852
1853
1854
1855
1856
1857
1858
1859
1860
11
18
12
17
15
16
26
19
16
22
20
26
19
15
28
21
24
20
25
20
23
20
22
22
20
17
16
16
23
21
12
13
17
22
15
16
14
19
12
18
17
17
21
17
15
16
21
14
14
23
24
25
16
22
13
14
53
15
8
22
13
11
Le nascite a Toara
Nel libro più antico dei battezzati, che documenta le nascite a partire dal 1607
(tale registro è conservato nell’archivio della Curia di Vicenza nella busta 159),
i primi due neonati registrati sono: “17 giugno: Geronimo, figliolo di Bastian Di
Mani e di Agnese sua legitima moglie, fu batezato da me, Benedetto Salamoni, rettore di questa chiesa parochiale; il compadre (compare, padrino) fu Batta Di Grandi,
la comadre (comare, madrina) Lucretia figlia di Zuane Di Mani, tutti habitanti sotto
Thoara”.
“6 luglio: Camillo Mironi, figliolo del nobile sig. Conte Giulio Cesare Barbarano e
della nobile signora Isabetta Barbarana sua legitima moglie, fu batezato da me sudetto; il compadre fu il nob. Sig. Conte Horatio Capra, la comadre la sig.ra Leonora
moglie del sig. Alvise Loschi”.
Purtroppo la percentuale dei neonati che morivano nei primi giorni di vita era
altissima, così come le morti per parto delle madri.
Vediamone qualche esempio. Il parroco don Pietro Costalunga annota nell’anno 1841:34
“Un feto femminile figlio di Ambrogio Dalla Libera e della fu Maria Casella nacque
oggi 20 ottobre alle ore sette antimeridiane, due ore circa dopo la morte della madre.
Al momento del battesimo il bambino non era ancora nato e si giudicò poter essere
vivo. Non fu imposto nome perché all’istante del battesimo non si conosceva il sesso.
Estratto dal seno della madre morta, fu trovato pur morto. Fu battezzato dalla levatrice Anna Bozza”.
“Un feto femminile di Valentino Zorzi e Antonia Marangon nacque ieri 2 dicembre
alle ore 8. Fu battezzato dalla levatrice privatamente, appena nato, stante pericolo di
morte che poco appresso seguì, senza nome nè padrini”.
Un cenno meritano anche i figli illegittimi o non riconosciuti che, seppur rappresentavano casi limitati, erano presenti anche nel nostro Comune. Nei registri vengono annotati come “figli di incogniti”. Tra questi, però, occorre distinguere gli esposti, cioè i bambini di cui si ignoravano entrambi i genitori,
dagli illegittimi, cioè i neonati di cui veniva registrato solo il nome della madre.
Purtroppo molti di essi finivano quasi sempre alla casa degli esposti di Vicenza
(orfanatrofio). Pochi erano coloro che venivano accolti in una nuova famiglia.
Nel 1658, ad esempio, il parroco Gasparo Bassadelli scrive che “il 14 luglio
Marco, di padre e madre incogniti, fu battezzato da me Gasparo Bassadelli, rettore di
Toara. Compadre fu Paulo Palmino da Toara, comadre Mattia, moglie di Giroto
Guarato”. 35
Ciò accadeva perché nel XVII secolo una madre nubile, assieme alla fama (cioè la
reputazione) perdeva anche la possibilità di sposarsi successivamente. Per questo
motivo e per le difficoltà cui andava incontro la donna nell’allevare un figlio da
34 Arch. Parr. Toara, Registro dei nati, morti e matrimoni dal 1834 al 1908
35 Arch. Curia Vescovile Vicenza, Libro Battesimi Toara 1607/1661, b. 159
228
229
CAPITOLO NONO
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
sola - spiega Povolo nel saggio: Dal versante dell’illegittimità. Per una ricerca sulla
storia della famiglia: infanticidio ed esposizione d’infante nel Veneto nell’età
moderna, in Crimini, giustizia e società veneta in età moderna, a cura di L.
Berlinguer e F. Colao, Milano 1989, pag. 112 – sceglieva di abbandonarlo. Il timore della vergogna era più forte del vincolo di sangue e di affetto e se non era tale
da condurre all’infanticidio, esso spingeva però a nascondere il frutto del peccato.
Anche la miseria però poteva avere un peso importante nella decisione di abbandonare un figlio.
Analizzando le nascite avvenute a Toara nel Seicento si può affermare che la
natalità, nella sua distribuzione mensile, registrava una impennata nei mesi primaverili; pertanto i mesi di aprile e maggio sembrano essere stati preferiti dalla
popolazione per dare alla luce le proprie creature, mentre nei mesi invernali
(soprattutto novembre e dicembre), il numero delle nascite diminuisce sensibilmente. Ciò è spiegabile, tenendo conto che in un’economia di sussistenza, l’apporto che la donna dava all’uomo, nella maggior parte delle famiglie, era indispensabile e il rallentamento che il lavoro dei campi subiva nei mesi invernali e di
inizio primavera permetteva alla donna di condurre in porto la gravidanza senza
che ciò incidesse, se non in misura lieve, sul bilancio familiare. 36 Mentre nel periodo della raccolta, che cadeva, per la maggior parte dei prodotti della campagna
veneta, nei mesi tardo estivi e autunnali, la donna era impegnata nei lavori dei
campi accanto al marito e ciò la sconsigliava di affrontare tale periodo dell’anno
in uno stato di gravidanza avanzata.37
Analizzando il grafico delle nascite si colgono i seguenti dati: dal periodo che va
dal 1700 al 1725, i nati (396) superano i morti (389) di appena sette unità. Nel periodo dal 1760 al 1800 invece prevalgono i morti (798) sui nati (767) con un saldo
negativo di 31 unità. Nel periodo che va dal 1830 al 1860, torna a prevalere il saldo
positivo (+ 54) con 602 nati e 557 morti.
Domenego Padoan di anni 1 e mesi 6; Margareta Spigarolo di mesi 8; Bono da
Nanto, di anni 80, Zuane Spiandan di anni 12; Giustina Montan di giorni 15;
Lorenzo Zago di mesi 10; Maria Madalena Bellini di giorni 8; Santo Mazaron di
anni 56.
Dall’elenco dei decessi di quegli anni possiamo ricostruire i nomi delle famiglie
presenti a Toara e a Belvedere agli inizi del Seicento.
Famiglia Manzin Alessandro e Pasquale Antonia di Belvedere.
Le morti
Il registro dei morti si apre nel giorno 29 luglio 1606 con la seguente annotazione
del parroco don Salamoni: “Giacoma, figlia di Batta Dal Lago, è passata a meglior
vita, confessata et sepulta nel cemeterio di S. Georgio di Thoara de ani quatordeci incirca”; 38 il 31 luglio è Agustin, figlio di Isepo Di Mani, a passar a miglior vita e ad
essere sepolto nel cimitero di Belvedere, all’età di mesi dieci; in quell’anno moriranno altre quindici persone: Domenico Di Grande, di anni 47; Nicolò Pollato, di
anni 40; Marieta Oceato di anni 1; Margareta Zangrande di mesi 9; Zuane Zanini
di anni 1; Cattarina Spiandan, di mesi 11; Domenego Spiandan di anni 24;
36 C. Povolo, Tra epidemie e crisi di sussistenza, in Costozza, a cura di E. Reato, edito da Cassa Rurale e
Artigiana di Costozza e Tramonte-Praglia, 1983, pag. 623
37 L. Brunello, La stagionalità delle componenti naturali dell’evoluzione demografica, in “Una terra, un fiume,
una comunità”, Parrocchia di Tezze sul Brenta, 1990, pag. 84
38 Arch. Curia Vescovile, Registro dei morti, 1607/1670
230
Anno 1925: la famiglia De Mani di Belvedere fotografata in un giornale locale.
231
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
Toara: Borinato, Zago, Bertuzo, Dal Lago, Da Soghe, Fachino, Pollato, Marchioro,
Spiandan, Di Grandi, Zenato, Salamon, Dalla Fontana, Garbin, Montan, Cogato,
Salamoni, Grillo, Zangrande, Bondinato, Gropello, Zorzetto, Capelato, Catuzo,
Capelaro, Grumolo, D’Agustin, Mazzaggio, Barugola, Risaro, Bragion, Bigolo,
Volpato, Chiemento, Di Marchi (De Marchi), Cestaro, Palmin, Padoan, Rufin,
Marangoni, Scarenzi, Guglielmo, Reppele, Zannini.
Belvedere: Vaccaro, Di Mani (De Mani), Di Grandi, Pollato, Zen, Pomaro,
Carraciero, De Caliari, Cararo, Bugarin, Tonin, Pomarolo, Vaneto, Scarienti,
Oceato, Piton, Zago, Guerato (Guarato), Malloffo, Falco, Fabro, Fachin, Segala,
Rigato, Casaro, Crivellaro, Calzolaro, Mazaron, Frizoto, Camin, Palmino,Veronese,
Muraro, Marteloso, Albanese, Putin, Bertolaso.
Le famiglie più antiche
Famiglia di Venturini Luigi con le spose dei figli e i nipoti.
Venturini Luigi nella sua casa
di Fogomorto.
Pertanto i nuclei familiari più antichi, ancora oggi presenti nel territorio, sono: a
Toara i De Marchi (Domenego Di Marchi e la moglie Madona Giacoma, morti
rispettivamente nel 1640 e nel 1660; Martin Di Marchi, morto nel 1665) e poi i
Priante (Giacomo Priante, nato nel 1663 e morto nel 1713, poi i figli Francesco e
Giovanni), i Faccio (Pietro, il primo nominato nel 1660, poi il figlio Paolo che nell’anno 1700 sposa Santa Muraro) i Giacomuzzo (Benedetto Gabriele, nato nel
1648 e morto nel 1726, e il fratello Antonio); a Belvedere i De Mani (vi erano ben
cinque famiglie: Bastian, Isepo, Bortolamio, Giacomo e Zuane Di Mani), i
Mazzaron (Santo Mazaron, morto nel 1606 all’età di 56 anni), i Guarato
(Germano Guarato muore nel 1618 all’età di 60 anni; poi Zuane Guarato e la
moglie Cattarina, morti rispettivamente nel 1635 e nel 1638, poi Giroto e Mattia
Guarato), gli Zen (Gasparo Zen), mentre i Danieli di Quargente li troviamo nominati per la prima volta nel 1658 (Vicenzo Danieli è padrino del neonato Marco,
di padre e madre incogniti, battezzato il 14 luglio da Gasparo Bassadelli; poi nel
1671 compare Zuane Danieli, morto all’età di 44 anni).
Nel Settecento appaiono le famiglie Ferrari (Domenico, figlio di Zuane, nel 1778
sposa Ballestrin Angela); Mazzucco ( Giacomo e Mattio), Miglioranza (Antonio
sposa nel 1761 Tognato Viviana, poi i fratelli Francesco, che nel 1774 sposa Da
Soghe Maria Maddalena, e Stefano, che nel 1780 sposa Grezo Maria), Manzin
(Domenico muore nel 1783 all’età di 62 anni, poi il figlio Biagio).
Nell’Ottocento sono presenti le famiglie: Marangon (i coniugi Angelo e Bisello
Angela, ai quali nel 1816 muore il figlio Santo, di 40 giorni); Pagliarusco (Pietro),
Cichellero (Matteo e Maria, provenienti da Valli del Pasubio, che ebbero nove figli:
Francesco, Maria, Angelo, Luigi, Carlo, Lucia, Giorgio, Stefano, Giovanni),
Crivellaro (Valentino), Faedo (i fratelli Michele e Pietro), Falda (Anselmo), Ferron
(Guerrino), Groppo (Gio. Battista), Gianesin (famiglia di pastori presenti a Villaga
già del Seicento, poi trasferiti a Grancona e stabilitisi successivamente a
Quargente),Visentin (Pietro), Muraro (Girolamo e Angela).
Ritratto di famiglia di Venturini Benvenuto con la moglie Maria e i figli.
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Cichellero Giuseppe, a destra, con il padre Giuseppe.
I coniugi Cichellero fotografati nel 1966 di fronte al
capitello di Quargente che fecero costruire nel 1945.
I fratelli Gianesini Mario e Claudio nel cortile della loro casa in via Quargente.
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Famiglia di Pagliarusco Augusto ed Erica.
Anno 1912: Pagliarusco Augusto in divisa militare.
Faccio Alcide fotografato nel 1926 in divisa militare.
Demetrio Guarato
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Miglioranza Edoardo e la moglie Augusta.
Famiglia De Marchi Felice e Ghirardello Carolina con i figli.
Bambini delle famiglie Mattiello e Munari in vacanza al mare.
La grande famiglia di Mazzucco Bortolo e Ghirardello Maria; si notano anche Padre Ippolito e tre Suore.
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237
LE ANAGRAFI PARROCCHIALI DI VILLAGA E TOARA
Drammi familiari
E iniziamo dalla famiglia di Paolo Faccio, che nel giro di due anni, dal 1703 al
1705 vede morire ben tre figli: Marco, di anni sei, Maria di anni 7 e Domenica
di mesi sette. Ancora più tragica la storia della famiglia Zanini che nell’arco di
12 anni scompare: il padre Ghirardo deve assistere alla morte nel 1701 di
Paolina, di anni 5 e Antonio di anni 2; poi nel 1703 è la volta di Maria, di pochi
mesi, e della moglie Francesca, di 25 anni; nel 1710 morirà l’ultima figlia Maria,
di anni 9, e nel 1713 si spegne lo stesso Ghirardo, all’età di 40 anni.
Anche la famiglia di Bernardino Danieli, tra il 1722 e il 1726 viene colpita duramente nei suoi affetti: il 21 marzo 1722 muore Francesco, all’età di 3 anni,
annegato accidentalmente; nell’agosto 1725 muoiono Cattarina di anni 10,
Anzola di mesi 15 e Francesco di mesi 2; l’anno dopo è la volta di Francesco
Antonio di mesi 7.
Più tardi, tra il 1759 e il 1760, è Mattio Giacomuzzo a dover sopportare la perdita della moglie Lucia, di anni 27, e dei figli Marco, di 6 ore, e Giacomo di 4 anni.
Nel 1763 a Girolamo Muraro vengono a mancare tre figli: Cattarina, di 5 anni,
Lucia di 8 e Angelo di 11; poi nel 1767 muore la figlia Giustina, di 11 anni, e
nel 1770 la moglie Domenica, di 42 anni.
Passiamo a due famiglie dei De Marchi. Tra il 1767 e il 1768 i coniugi Giobatta e
Paola De Marchi perdono tre figli: Cattarina, di mesi 11, Giuseppe di anni 8, e
Lucia di mesi 5. Lutti anche in casa di Zuane e Santa De Marchi, i quali devono
rassegnarsi alla perdita di tre figli, tra il 1769 e il 1770: Francesco, di due anni,
Domenico, di un anno, Francesco di 15 giorni. In quegli anni anche la famiglia
di Angelo Guarato è duramente provata dalla perdita di tre figli: nel 1767
Domenica, di giorni 9, nel 1768 Domenica, di giorni 15, nel 1772 Maria, di anni
8. Due anni dopo, nel 1774, muore anche la moglie di Angelo, Stella, di anni 40.
Ancora lutti in casa Faccio: a Pietro vengono a mancare nel 1782 i gemelli
Bortolo e Bortola, nati da 8 giorni; due anni dopo un altro maschio, Bortolo, di
pochi giorni, poi nel 1791 la moglie Cattarina di anni 40. Nel 1791 è Biasio
Manzin a piangere la morte del figlio Domenico, di mesi 5, poi nel 1793 la
scomparsa di un neonato, nato morto, e del figlio Valentino di anni 12.
Tra il 1826 e il 1839 muoiono quattro figli di Angelo Mazzucco e Lucia Trivelin:
Maria, di giorni 20, Domenico di giorni 2, Maria Luigia, di mesi 5, Rosa, di anni
15. Nel 1836, il 2 luglio, accade una tragedia in casa di Faccio Paolo e Bacchin
Teresa: il figlioletto Angelo, di due anni, è accidentalmente annegato nel
Gordon, vicino a casa.
Tra il 1850 e il 1857 Antonio Marangon e la moglie Anna Maria Guarato
devono piangere la morte di quattro figli: Domenico Santo, di 3 mesi, Gaetano,
di anni 2, Pietro, di mesi 7, Giovanni, di anni 8. Tra il 1865 e il 1869 muoiono
prematuramente tre figli di Luigi Guarato e Scalzotto Santa: Agostino, appena
nato, Ferdinando, di giorni 4, Luigi di giorni 8.
Matrimonio di Danieli Luigi con Frison Franca.
Enrica e Dario De Mani fotografati all’interno del
Castello di Belvedere.
Padre Fortunato Danieli.
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239
CAPITOLO NONO
Una neonata abbandonata
Dal registro dei battezzati dal 1816 al 1851, apprendiamo dell’abbandono di
una neonata lasciata sui gradini della chiesa di Toara. Il 19 gennaio 1828 il parroco don Pietro Castelli riporta che “la mattina si è presentato a me Domenico
Baratto, domiciliato in Toara, portando una bambina appena nata. Il Baratto ha detto
che sortendo di casa in questo mattino alle ore 6 per andare alla chiesa a suonare
l’Ave Maria del giorno, essendo esso il campanaro, ha trovato sopra l’ultimo scalino
della scalinata della chiesa la sopraddetta bambina, involta in due stracci di tela
bianche tutti lordi, legati con una cordella bianca, senza alcun biglietto scritto. Io sottoscritto parroco ho battezzato la bambina e vi ho posto il nome di Maria, poi l’ho
fatta consegnare a Maria, moglie di Matteo, domiciliata in Toara, onde la riscaldi e
la nutrisca; nella notte poi del giorno medesimo la bambina Maria morì”.
Nei registri troviamo annotate anche due fatti tragici. Nel 1858 nella tenuta dei
Cengiarotti, a Belvedere, muore Angela, di 2 anni, annegata nel fosso vicino
alla risaia Palucci. Più tardi, nel 1890, Luigi Groppo, di anni 56, si suicida con il
revolver nella propria stanza.
240
CAPITOLO DECIMO
L’OTTOCENTO
1. LE DESCRIZIONI DI VILLAGA E TOARA DEL MACCA’
A introdurci nella storia dell’Ottocento e a presentarci la situazione del territorio di Villaga agli inizi di quel secolo è il padre Gaetano Maccà che scrive:
“Villaga è distante da Vicenza tredici miglia, e solo un miglio da Barbarano.
Forma comune con Toara e Pozzolo. Anticamente era unita con Barbarano
insieme con Mossano come dissi parlando di Mossano stesso. Il suo distretto consiste in monte, colli, colline, e piano. Il piano però supera il monte. Le
fanno corona i seguenti villaggi, co’ quali confina: Barbarano, Toara, Pozzolo
e Albeton. L’aria è sana, eccettuati i siti contigui alle risaie, delle quali vi
sono cento campi nel luogo chiamato Roncasso. Il territorio è assai fertile, e
quivi pure distinguesi il formento per la sua bianchezza. Tra le sue uve sono
pregiate le Moscate, e Marzemine, colle quali si fanno ottimi vini. Vi sono
pure frutti di ogni spezie. Nella contrada della Pila evvi una cava di pietra
tenera che trà al cenerin, la quale in durezza supera le altre di tal genere.
Scorre per questa villa (località) un piccolo rivo detto volgarmente lo
Scaranto, che formasi sopra i monti, e si scarica nel Sinan (Siron), altro picciolo fiume che passa per quivi. Questo comincia in Barbarano, e da Villaga
passa a Campiglia. Un altro picciolo rivo v’è, ch’esce di sotto il monte di
questa villa e gira una pila di riso situata ivi vicino.
Le famiglie di Villaga, secondo l’ultimo computo veneto, sono 96, le anime in
tutte 388”.1
“Toara forma un solo comune con Villaga e Pozzolo. E’ lontana da Vicenza
miglia quindici, e da Barbarano tre circa. Questa villa, considerata come
parrocchia separata dalle altre due di Villaga e Pozzolo, è posta parte in
monte, e parte in piano, il piano però è assai più esteso del monte.
All’intorno confina con Villaga, Pozzolo e Sossano. Gode il vantaggio di
alcune sorgenti di acqua perfetta. La sua aria non è molto salubre per causa
1 G. Maccà, Storia del territorio vicentino, Caldogno 1813, tomo IV, pp. 339-340
241
CAPITOLO DECIMO
L’OTTOCENTO
delle risaie, delle quali in questa villa vi sono campi 57 ma sono impiegati
soltanto campi 40 all’anno per mancanza d’acqua, ed appartengono alla
nobile famiglia Conti Vicentina. Il suo territorio è fertilissimo, e specialmente
distinguesi per la bianchezza de formenti, così pure per la bontà delle uve,
colle quali si fanno ottimi vini. Tra le sue contrade è notabile quella chiamata Belvedere distante dalla parrocchiale circa un miglio. Qui v’è nella sommità d’una collina un palazzo della nob. Famiglia Barbarani patrizia veneta compreso dentro un circuito di una estesa muraglia che abbraccia tra collina e terreno piano campi cento e cinquanta. (…) Le famiglie di questa villa
secondo l’ultimo computo veneto sono 94, le anime in tutte 373”.2
Quel periodo viene ricordato per alcuni aspetti negativi: la forte imposizione fiscale, in particolare la tassa sul macinato che colpiva soprattutto i contadini,
stremati da anni di requisizioni, distruzioni, violenze dei vari eserciti; la coscrizione
obbligatoria dei giovani nei singoli comuni. Si manifestò pertanto – osserva Gianni
Cisotto – una reazione antifrancese dovuta sia alle forti tasse che all’obbligo di
leva. 4 Tale profondo malcontento sfociò in una serie di agitazioni che interessarono
varie località del Vicentino, ma che furono stroncate dai francesi in modo spietato
con molte fucilazioni. Nel novembre 1813, in seguito alla sconfitta di Napoleone
a Lipsia, gli Austriaci ripresero il controllo della nostra regione e imposero una seconda dominazione, sancita dal congresso di Vienna del 1815.
2. LA CADUTA DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA
E IL PERIODO NAPOLEONICO
3. NEL 1848 FAMIGLIE E COMUNITA’ DEPREDATE
Il Settecento si chiuse con la scomparsa della Repubblica Serenissima di
Venezia, sconfitta e occupata dall’esercito napoleonico. Nel 1797, infatti,
verso la fine di aprile, i francesi, conquistate le città di Bergamo e Brescia, poi
sconfitti gli austriaci ad Arcole, assediarono la città di Verona che insorse e
resistette coraggiosamente all’avanzare delle truppe napoleoniche. Un’eroica
resistenza che si concluse tragicamente, con l’occupazione della città e con
un bagno di sangue ricordato come le “Pasque veronesi”. Anche le altre città
venete capitolarono una dopo l’altra (Vicenza cade il 26 aprile). Venezia è
l’ultima e si consegna a Napoleone il 13 maggio, in seguito alla decisione del
Maggior Consiglio.
Per sancire l’occupazione, i francesi fanno abbattere i leoni di S. Marco e al
loro posto innalzano gli alberi della libertà. Anche a Lonigo (sede di podesteria, ad Orgiano e a Barbarano (sede di Vicariato) - puntualizza Antonio
Verlato – 3 viene abbattuto il leone marciano ed al suo posto innalzato l’albero della libertà. A Barbarano, verso la sera del 1° maggio, avviene lo scempio dell’atterramento del leone dalla colonna e la sua distruzione. Presso tale
colonna venivano lette le sentenze pubbliche del vicario nei giorni di mercato (mercoledì), dopo aver suonato la trombetta e alla presenza della guardia
schiavona. Il 23 maggio, poi, l’arciprete don Bortolo Rasia Dani, alla presenza della Municipalità provvisoria, cantò il Te Deum in chiesa e benedì il
nuovo vessillo repubblicano bianco, rosso e blu. Anche a Villaga venne
piantato nella piazza antistante la chiesa l’albero della libertà, simbolo della
dominazione francese che durò pochi mesi, fino al gennaio 1798, quando, in
seguito al Trattato di Campoformio, l’Austria entrò in possesso del regno
Lombardo-Veneto. I francesi poi ritorneranno padroni delle nostre terre nel
1806 e vi rimarranno fino al 1815.
2 Ibidem, pagg .331-332-333
3 A. Verlato, Gli ultimi giorni della Serenissima, dal mensile “Il Basso Vicentino”.
242
Il 1848 viene ricordato come l’anno delle rivoluzioni in Europa e della prima guerra d’indipendenza che purtroppo ebbe un esito negativo per l’esercito piemontese
e per le sorti della nostra regione.
Il 10 giugno la città di Vicenza si arrese di fronte alla superiorità delle forze austriache. A partire da quel momento, cominciarono gli spostamenti e il ritiro delle
truppe: “tra i più colpiti in quella infelice esperienza – racconta Emilio Garon – fu il
territorio di Barbarano, che in pochi giorni venne invaso e devastato da soldati dell’una e dell’altra fazione, tanto da ridurre in miseria gente già povera. Il flagello cominciò l’8 giugno, quando il capitano Devent delle truppe austriache passò alla requisizione; nella relazione manoscritta della Deputazione comunale di Barbarano sugli
avvenimenti di quei giorni si legge: “Il comando ordinò di far approntare senza fallo
quanto occorreva al bisogno di 4500 uomini e rispettiva cavalleria in pane, vino, carni,
legna e biade che passavano al Ponte di Barbarano. Ma invece di giungere 4500 uomini, cominciarono le truppe ad arrivare fino ad invadere questo Comune e i Comuni di
Villaga, Sossano, Nanto e Castegnero e il numero oltrepassava quello di 30mila soldati
con cavalli e relativo materiale di guerra. Essi occuparono le abitazioni servendosi di
quello che trovavano”.
Possiamo immaginare in un territorio che contava allora qualche migliaio di abitanti quale devastazione provocò un’invasione di oltre 30mila soldati. “Ma la
tragedia per gli abitanti continuò anche nei giorni successivi – osserva Garon –
Firmata la pace, infatti, arrivarono le truppe pontificie in ritirata per raggiungere
il Po e portarsi quindi nello Stato della Chiesa. La cronaca ci descrive la situazione: Le truppe pontificie, sprovvedute di tutto, dopo l’ultima battaglia di
Vicenza, capitarono improvvisamente presso quegli abitanti per passare la notte e
dianzi proseguire per il loro destino”. 5 Il territorio e la gente di Barbarano e dei
dintorni uscirono distrutti da questi episodi.
4 A. Cisotto, Il Governo vicentino in età napoleonica, in Il Vicentino tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica, Vicenza 1989, pag. 111
5 E. Garon, Il Risorgimento a Barbarano: Austriaci e Pontifici, i soldati invasori lasciavano il segno, in Comune
e Comunità, Periodico del Comune di Barbarano Vicentino, Dicembre 1995, pag. 2.
243
CAPITOLO DECIMO
L’OTTOCENTO
Gli anni dal 1859 al 1866
Essa dà frumento e vino al proprietario; mais al conduttore; legna all’uno e all’altro; e pochissimo foraggio al bestiame, che pur dovrebbe arare e concimare quel
terreno tanto depauperato”. 9
Villaga, comune prettamente agricolo, soffriva per un’agricoltura che
rimaneva arretrata nei mezzi e nei metodi, legata alla manualità e completamente mancante di meccanizzazione.
Si preparavano le terre a mano, si seminava a mano, si raccoglieva a mano;
tutto si faceva a mano. Gli animali dovevano essere rispettati per la produzione del latte e per la carne. L’aratura, con l’uso di rudimentali aratri di
legno trainati da buoi o cavalli, era insoddisfacente poiché la terra veniva
rimossa soltanto in superficie e non dava che 5-6 quintali di frumento al
campo e 12-13 di mais in stagioni favorevoli. Quanto all’alimentazione, la
polenta era sempre il piatto base sulla povera tavola dell’800, costava poco
e riempiva lo stomaco.10
In questa situazione, il peso delle malattie endemiche, come abbiamo visto,
fu rilevantissimo. Indubbiamente – osserva Povolo – il rapporto tra condizioni ambientali sfavorevoli ed epidemie era assai stretto e fu forse tale da
impedire alla popolazione della zona (il discorso era riferito al distretto di
Barbarano, di cui Villaga faceva parte) di progredire e di svilupparsi nonché di
innescare quei meccanismi atti ad avviare un nuovo processo economico.11
Purtroppo tale situazione precaria perdurò per tutto l’800 e soltanto dopo la
seconda guerra mondiale le cose cominciarono a cambiare nel nostro territorio.
Nell’anno 1859 si combattè la seconda guerra d’indipendenza che vide la vittoria dell’esercito franco-piemontese su quello austriaco. Tuttavia l’armistizio
di Villafranca provocò in tutto il Veneto una grande delusione, poiché la nostra
regione rimaneva ancora sotto il dominio degli Asburgo.
Il controllo degli austriaci sul nostro territorio si fece ancor più pressante. Il disagio economico già notevole aumentò per i nuovi tributi a cui città e paesi
furono sottoposti dall’onere di provvedere al totale mantenimento delle truppe
austriache che, anziché diminuire dopo la fine della guerra, continuarono a
crescere di numero con l’arrivo di una grande armata di occupazione, ripartita
in tutto il territorio.6
Fu necessario attendere l’anno 1866 (in cui ebbe luogo la terza guerra
d’indipendenza che vide la vittoria prussiana sugli austriaci) per l’annessione
del Veneto al nuovo regno d’Italia. Il 12 e il 13 luglio di quell’anno, infatti, le
autorità politiche e amministrative austriache abbandonavano Vicenza;
qualche mese dopo, il 20 e 21 ottobre, un plebiscito sanciva la volontà dei
Veneti di far parte del Regno d’Italia. 7
Anche Villaga fu chiamata alle urne e i suoi abitanti accorsero a deporre la loro
scheda con il “sì” che in tutta la provincia furono 85.869, mentre i “no” risultarono soltanto 5.
4. L’ECONOMIA NELL’OTTOCENTO
Il difficile scolo delle acque nella nostra zona
La vita economica nella prima metà del secolo continuò ad essere difficile, non
solo per la repressione degli Austriaci, ma anche per le ristrettezze finanziarie,
per la limitata produzione, per mancanza di libertà a livello di iniziative individuali.
Durante quei decenni l’agricoltura ristagnava. Permanevano le antiche
vocazioni colturali: i terreni arativi e i vigneti prevalevano largamente su ogni
altra coltivazione, in uno schema di coltura mista, grano-vite, mais, che si
riproduceva praticamente in ogni appezzamento piccolo o grande; scarsa era
poi la presenza del foraggio.8
Il Berengo, in un suo studio, parla addirittura di declino dell’agricoltura veneta nella prima metà dell’800. Egli scrive che “Tutta o quasi tutta la campagna
veneta è tenuta a coltura mista; il campo, cioè, è segnato da filari di alberi, cui si
avvincono le viti, mentre gli spazi intermedi (larghi dai 25 ai 40 metri) sono arati e,
quasi sempre, coltivati a cereali. La campagna si modella così fedelmente, nel suo
stesso aspetto esterno, sul regime di produzione che le condizioni sociali del paese
impongono.
Il Lampertico rilevava poi i problemi di deflusso delle acque nel nostro territorio, sostenendo che nel distretto di Barbarano la parte pianeggiante della
campagna delle località di Barbarano, Villaga, Toara, Campolongo, Sossano
“chiusa a ponente e mezzogiorno dall’alveo elevato del fiume Liona, dai colli e dai
terreni alti agli altri lati, si trova male disposta per uno scolo pronto e naturale.
In particolare, la porzione di levante della campagna, cioè quella di Barbarano,
Toara e Villaga, esclusa dai benefici apportati dallo scolo Frassenella e dai suoi
confluenti e ricevendo per di più le acque dei monti in aggiunta alle proprie, è
paludosa e di difficile coltivazione. Le sue acque di scolo fluiscono negli alvei
Gorzone (Gordon), Seonega e nel Sirone, al quale si riuniscono i precedenti e che
termina nel fiume Liona, portando le acque dei terreni bassi nell’alveo di scolo dei
terreni alti, termine assurdo idraulico di fatali conseguenze. In aggiunta a tanto
danno, le acque di piena di Liona, non trovando un pronto efflusso in Bisatto per
la elevazione di questo, si scaricano copiosamente nel Sirone e quindi negli altri
alvei e nella campagna suddetta, dove inondando copiosamente e dove rendendo
6 E. Mazzadi, Lonigo nella storia, vol. III, Amm. Com. Lonigo, 1989, pag. 237
7 G. A. Cisotto, Barbarano Vicentino: società, politica, economia, in Barbarano Vicentino, vol. II, pag. 699
8 E. Mazzadi, op. cit., vol. III, pag. 133
9 M. Berengo, L’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all’Unità, Milano, 1963, pag. 230
10 R. Franchetto – C. Bressan, Villa del Ferro dentro la Val Liona, Giovani Editori, 2001, pag. 146
11 C. Povolo, Tra epidemie e crisi di sussistenza, in Costozza, a cura di E. Reato, 1983, pag. 627
244
245
CAPITOLO DECIMO
difficile ed incerta la coltivazione. Fino ad ora i tentativi di miglioramento dei terreni suddetti non diedero risultati riflessibili, ma giova sperare che le cure dei proprietari, più attive e intelligenti di quelle dei loro autori, valgano a rinvenire quei
reali vantaggi che possono essere ottenuti, modificando il sistema di scolo”. 12
Le attività lavorative
Dallo Stato d’anime della parrocchia di Villaga dell’anno 1875 veniamo a
conoscere le professioni degli abitanti di Villaga. 13
Dei 164 capifamiglia, ben 103 erano villici, cioè contadini; altri 7 erano bovai, 3
gastaldi, 2 mezzadri, un pastore, un pilotto (era addetto alla pilatura del riso),
un crivellatore (aveva il compito di selezionare le migliori sementi, quelle cioè
destinate alla semina), un sensale (era il mediatore e si occupava della vendita
di prodotti agricoli e di bestiame), 9 affittuari e 15 possidenti, cioè proprietari
di beni terrieri e case. Pertanto l’attività nettamente prevalente era rivolta all’agricoltura che impiegava quasi il 90 per cento della popolazione. Vi erano poi
alcuni artigiani: due falegnami, due calzolai, un fabbro, un muratore, tre barbieri: poi nel settore del commercio: un pizzicagnolo, mentre nell’industria si
contava un solo imprenditore. Rimanevano poi il segretario comunale, il parroco e quattro questuanti, che vivevano di elemosina.
Nella seconda metà dell’800 anche nel territorio di Villaga prevaleva la conduzione diretta della terra: molti contadini possedevano pochi campi che coltivavano per ricavare i prodotti necessari all’autoconsumo. Vi erano poi i contadini livellari , che lavoravano terreni di proprietà di imprenditori latifondisti o
di enti religiosi in cambio del pagamento di un canone annuo. Altre due categorie di lavoratori della terra erano quelle dei salariati fissi e dei salariati avventizi, pagati a giornata e in base alle prestazioni fornite.
Il Lampertico si sofferma a descrivere tali categorie di operai agricoli che divide
in due classi: “quella degli addetti stabilmente ad un podere e quella dei lavoratori avventizi. La prima poi si suddivide in due sezioni che comprendono,
l’una gli operai salariati che sono quelli che hanno abitazione gratuita e mercede non soggetta a diminuzioni per causa di disgrazie elementari, di malattia
di chi la riceve o di altre eventualità; l’altra gli operai obbligati la cui retribuzione è proporzionata al lavoro fornito e non godono del beneficio dell’abitazione gratuita”. 14
I braccianti fissi non hanno un lavoro ben definito, ma devono soddisfare
tutti i bisogni delle coltivazioni “sicchè volta a volta li vediamo occupati nel
lavoro della terra propriamente detto, nella potatura, nella manipolazione dei
prodotti, ecc”.
La mietitura del frumento.
La trebbiatura in una contrada delle nostre campagne.
12 D. Lampertico, Studi e notizie sull’economia agraria di Vicenza, Lonigo e Barbarano, Roma 1882, p. 164.
13 Arch. Parr. Villaga, Stato d’anime anno 1875
14 D. Lampertico, Studi e notizie…, pag. 286
246
247
L’OTTOCENTO
Essi pagano l’affitto della casa e del terreno che vi è annesso e “si obbligano
a prestare la loro opera al padrone ogni qual volta questo ne li richieda a prezzi
fissati prima. D’onde i primi si dicono operai salariati, i secondi obbligati”. 15
Il bracciante riceve giornalmente 50 centesimi, mentre nei giorni della zappatura del formentone e della falciatura delle erbe, nei quali riceve centesimi
65, e nei giorni della mietitura che gli fruttano lire 1.25. Gli si concedono poi
da zappare al terzo da uno a tre campi di granturco a seconda del numero dei
membri della sua famiglia e le solite compartecipazioni nella produzione del
grano e nell’allevamento dei bachi.16
Per quanto riguarda gli operai avventizi, il loro numero “è commisurato ai bisogni dell’andamento ordinario dell’azienda, sicchè nei momenti di furia dei lavori,
l’imprenditore è costretto a ricercare degli aiuti in gente estranea. Ciò si verifica
generalmente per la zappatura del granturco e del grano (ove questo sia seminato
in linee), per la mondatura del riso, per lo sfalcio dei fieni, per la sfrondatura dei
gelsi, per la mietitura, come pure per i trafossamenti e gli sterri che si fanno nell’inverno. I lavoratori a cui in tali occasioni si ricorre, o si trovano in questo stesso territorio fra i coltivatori di piccole tenute, o vengono a frotte da altri paesi o
province”. 17
Un’altra categoria di lavoratori che merita attenzione è quella dei “bovai”, che
la nostra gente chiamava “boari”. Il Lampertico così li descrive: “Governano i
buoi, li guidano al pascolo e nei viaggi, fanno la pulizia delle stalle, ne esportano
il letame, seminano, conducono l’aratro, caricano tutti i generi pel trasporto,
adempiono a tutti gli uffici che hanno relazione col governo e col lavoro degli
animali. Quando non sieno occupati nella stalla, o quando siavi urgenza di
lavori, devono prestarsi a questi. Ciò avviene specialmente nella mietitura,
durante la quale ricevono però un aumento di paga. Dormono nella stalla, per
cui il padrone fornisce loro il letto coi relativi accessori. Le loro famiglie abitano
gratuitamente in una casa della fattoria e hanno a loro libera disposizione un
piccolo tratto di terreno ortivo”. Lo studioso precisa poi che nel distretto di
Barbarano “si dà al bovaio casa, orto, letto nella stalla, legna, 50 lire; più, 24
staia di granturco, 1 staio di fagiuoli e gli si concede la zappatura di un campo
di granturco e tutto il prodotto di un altro campo, a sua scelta della stessa
pianta…
Qualche volta i bovai allevano alla parte un maiale e un certo numero di pollami forniti dal padrone; più spesso però hanno in loro proprietà libera tanto il
maiale che i pollami”. 18
Donna con il “bigolo“ trasporta due secchi pieni d’acqua.
15 Ibidem, pag. 292
16 Ibidem, pag. 294
17 D. Lampertico, op. cit. pag. 295
18 Ibidem, pag. 290
Scena di vita contadina in una fattoria.
248
249
CAPITOLO DECIMO
L’OTTOCENTO
5. LA PROPRIETA’ FONDIARIA
Dal catastico generale di tutti i beni soggetti al pagamento della decima nel
Comune di Villaga, risalente all’anno 1884 conservato nell’archivio parrocchiale di
Barbarano, siamo in grado di ricavare preziose informazioni sulla distribuzione
della proprietà terriera nella seconda metà dell’800.
I grandi proprietari terrieri erano cinque: Angelo Chemin Palma, la contessa
Brasco Regina Chinotto, Negrelli Domenico, la famiglia Conti Barbarano, il conte
Ravignani Giobatta.
Angelo Chemin Palma poteva disporre di oltre trecento campi, sparsi in varie
zone del territorio: in contrà Ronca, alle Oche (qui aveva acquistato la campagna
del monastero di S. Caterina di Vicenza), a Fogomorto, in contrà Ronco Dugo,
Crocenera, Cà Scorzona.
La contessa Brasco Chinotto, che viveva nel Castello di Barbarano, possedeva più
di un centinaio di campi a Villaga (Fontana Calda, Poigo, Colombara, Costa
Brogia, del Barco, Paradiso).
Negrelli Domenico disponeva di una tenuta di 115 campi in contrà della
Colombara Quadra, nominata la campagna della Colombara Quadra (tra il Siron
e le Fornasette). La famiglia Conti Barbarano possedeva vaste proprietà soprattutto a Toara, documentate nell’estimo ottocentesco. Le proprietà dei conti
Barbarano a Belvedere, a partire dal 1836 erano passate in varie mani; nel catastico, alla data 1880, risultavano appartenenti al conte Giobatta Ravignani di Verona
che le aveva acquistate dalla famiglia Frigo di Vicenza.
Passiamo alle medie proprietà: Novello Luigi annoverava una ottantina di campi
che facevano parte della campagna Vajenta, situata a Belvedere, tra la Seonega e
il Crocefisso; in quest’ultimo luogo, Giovanni Battista Groppo e fratelli
detenevano dieci pezze di terra, per un totale di 48 campi, oltre alla proprietà della
chiesetta del Crocifisso; il nobile Felice Meggiari aveva 35 campi a Pagnaga e al
Roncasso; la famiglia Zorzi poteva contare su una quarantina di campi posti in
contrà Ronca, alle Oche e a Pagnaga; i Da Soghe a Villaga contavano su 45 campi;
i fratelli Mazzaron di Villaga 31 campi.
Vi erano poi tante piccole e piccolissime proprietà. A Villaga: Veronese Giobatta (7
campi), Carampin Giobatta (2 campi), Lunardi (12 campi), Ferretto (8 campi),
Loro (5 campi), Aldighieri Antonio (12 campi), Rasia Dani(13 campi), Franceschi
(6 campi), Conti Antonio (4 campi), Chiementi (8 campi), Rossi (1 campo), i fratelli Munari a Fogomorto (7 campi).
A Quargente la proprietà era frazionatissima: Lunardi (2 campi), Mazzucco (2
campi), Guarato Anna Maria (6 campi), Guarato Antonio (1 campo), Guarato
Fiorindo (1 campo e mezzo), Guarato Girolamo (4 campi), Mancin Bortolo (1
campo), Giacomuzzo Giovanni (1 campo e mezzo), Tonato (1 campo), Dal Ben
Gaspare (mezzo campo), Faccio Paolo (mezzo campo), Piron Antonio e Maria (3
campi e mezzo), Cichellero eredi di don Giovanni (5 campi), Azzolin Rosa, Angela
250
Un casone in aperta campagna tra Villaga e Barbarano.
e Domenica (1 campo), Bachin Teresa (3 campi), Degan fratelli (2 campi), Danieli
eredi di Michelangelo (12 campi), Zanon (12 campi).
A Belvedere: Miglioranza Cipriano (24 campi), Toffanin (2 campi) Trevisan detto
Fadiga (1 campo e mezzo), Mazzaron Maddalena, Anna, Angelo (3 campi),
Pravato (1 campo), Pizzi (12 campi).
Le case rurali
Lo stato delle abitazioni incideva in misura considerevole sulla salute: la maggior parte erano mal riscaldate e prive di servizi igienici; l’inchiesta agraria condotta attorno al 1880 da una commissione sulle condizioni della popolazione
rurale definiva lo stato delle abitazioni “miserabile”. 19
Le case erano anche sporche: la causa era dovuta al fatto che spesso i lavori
campestri occupavano la donna per lungo tempo e la tenevano lontana dalla
cura della casa. Per difendersi dal freddo nelle lunghe serate invernali, era diffusa l’abitudine del “filò” nelle stalle, riscaldate dal calore degli animali, per raccontare “fole”, chiacchierare, ricamare e rammendare abiti. Benchè fossero più
calde delle case, le stalle erano un permanente focolaio d’infezione, sia per la
promiscuità con le bestie, sia per l’affollamento di persone. 20
19 E. Morpurgo, Le condizioni dei contadini nel Veneto, in Atti della Giunta per l’inchiesta agraria, Roma 1882,
tomo I, pag. 146
20 C. Cossetti, Anagrafi parrocchiali e popolazione nel Veneto tra XVII e XIX secolo, a cura di F. Agostini, Istituto
per le ricerche di storia sociale e religiosa, Vicenza, 1989, pag. 105.
251
CAPITOLO DECIMO
L’OTTOCENTO
“Quelle dei braccianti – scriveva Lampertico - o constano di un solo piano oltre
il terreno, o del solo pianterreno. Nelle prime il piano terreno comprende una
cucina e una stanza, il superiore due stanze. Qualcheduna ha un piccolo portico: ma tale appendice riscontrasi più spesso nelle case di piccoli coltivatori che
non di veri braccianti, alle quali è unita anche una stalletta e un fienile.
In assai peggiore condizione sono le case che hanno solo il pianterreno: è assai
dubbio – precisa Lampertico – se a queste possasi applicare il nome di case:
sono miseri tuguri in cui una famiglia risolve il triste problema di dormire,
apprestare il cibo, conservare le sue masserizie in uno spazio di pochi metri quadrati, non sempre tramezzato e diviso da tavolati. Sovente di granaio si manca,
servendo di granaio una delle stanze ove dormono uno o più individui… il pavimento del pianterreno o manca affatto o è costituito da mattoni o dalle tavole
stesse dell’impalcatura. La scala, rarissime volte esterna, è o in pietra o di legno,
ma non a pioli”. 21 Di latrine (gabinetti) non si parla nemmeno in nessuna delle
nostre abitazioni rurali. 22
Don Giovanni Sammartin che morì l’8 agosto. Nel registro parrocchiale è
riportato: 24 …muore il rev. Don Giovanni Sammartin, parroco di Toara, all’età
di 68 anni per colera munito dei SS. Sacramenti della penitenza, eucarestia ed
estrema unzione, nonché della benedizione pontificia ed ultima assistenza; viene
seppellito sollecitamente nel cimitero comunale”.
La successiva epidemia del 1855 risultò molto più grave per il nostro territorio: i morti a Villaga furono quattro, a Toara ben 22. Riportiamo l’elenco delle vittime del morbo a Toara: 25 Trevisan Angela, anni 50; Cestaro
Pietro, anni 50; Faccio Piero, anni 48; Cestaro Francesco, anni 20; Mizzon
Benvenuto, anni 14; De Marchi Giovanni, anni 50; Valentini Santa anni 79;
Pagliarusco Piero, anni 32; Montan Rosa, anni 45; Pasqualotto Maddalena,
anni 50; De Marchi Santa, anni 65; Andriolo Giovanni, anni 31; Di Mani
Domenico, anni 70; Zonato Teobaldo, anni 70; Fochesato Maria, anni 42;
Svizzero Antonio, anni 60; Pozza Teresa, anni 64; Casarin Antonio, anni 63;
De Grandi Giovanni, anni 50; Tapparo Antonio, anni 33; Graziotto Marco,
anni 40; Mizzon Francesco, anni 48.
6. SALUTE E MALATTIE
La pellagra
Anche l’Ottocento è un secolo funesto per le gravi epidemie che colpirono
le popolazioni rurali: non è più la peste seicentesca a fare stragi, ma malattie come il tifo, il colera, la pellagra.
Tra le cause del diffondersi dei contagi relativi alle malattie mortali, incidevano soprattutto la scarsa igiene, le abitazioni malsane, la povera e modesta alimentazione. Sono state le condizioni sociali e ambientali – sottolinea Garon – che hanno favorito in passato lo sviluppo delle malattie
epidemiche. 23
Il colera
Nel secolo scorso furono quattro le grandi epidemie di colera che
colpirono il Veneto negli anni 1835-37, 1849, 1855,1886. Anche Villaga e
Toara furono contagiate dal morbo; a Toara, in particolare le vittime furono
numerose.
La malattia, causata da un bacillo chiamato Vibrio cholerae, si rendeva
manifesta con diarrea e vomito continui; ciò provocava disidratazione,
ispessimento del sangue, trombosi vascolari, collasso. Veicoli della malattia erano l’acqua inquinata, gli alimenti crudi non bolliti, le mosche.
Durante la prima epidemia del 1835-37, Villaga fu risparmiata dal morbo,
mentre a Toara si registrarono due casi mortali di colera, tra cui il parroco,
21 D. Lampertico, op. cit. pag. 335
22 Ibidem, pag. 336
23 E. Garon, la popolazione di Barbarano, in Barbarano Vicentino, vol. II, pag. 558
252
La malattia sociale per eccellenza era la pellagra che nell’800 colpì gli individui più
miseri che vivevano in campagna. La malattia, che fu per più di un secolo una
grande piaga sociale, cominciò ad affacciarsi timidamente alla metà del
Settecento, poi si manifestò in modo più evidente durante le guerre napoleoniche
che, causando miseria e carestia, indussero il contadino a preferire la coltivazione
del mais che rendeva più del frumento.
“Nel secolo successivo (l’Ottocento) – scrive lo studioso Luigi Piva - 26 gli affitti ai
proprietari dei fondi si potevano pagare solo con frumento e con varie regalie pregiate
come uova, polli, oche, che spesso, in valore venale, superavano l’importo di quanto si
doveva dare in grano. Il fittavolo, allora, che era capace di fare i suoi conti anche
senza penna, cominciò a coltivare tanta terra a frumento per poter dare la parte dovuta al padrone e il resto, se voleva vivere, lo destinava alla coltura del mais, che è alimento non completo in ordine alla sufficienza alimentare: “riempie ma non nutre”.
Così la pellagra diventa compagna inseparabile delle masse contadine. La buona resa
del mais soppiantò le altre “polente” che nei secoli precedenti costituivano la principale alimentazione del contadino: si produssero, così, sempre meno miglio, segala,
fave, ghiande, castagne, panico, ceci, lenticchie e fagioli. Un campo di granoturco, se
ben coltivato e assecondato da condizioni climatiche appena sufficienti, offriva una
resa cinque volte superiore a quella del frumento e ciò era per il contadino una gran
cosa, che lo illuse di aver risolto il problema della sua alimentazione per sempre.
Mais, dunque, e polenta!”.
24 Arch. Parr. Toara, Registro civile dei morti, 1816-1855
25 Ibidem
26 L. Piva, Voci e immagini dell’800, Ed Del Noce, 1995, pagg. 117-118
253
CAPITOLO DECIMO
L’OTTOCENTO
Per quanto riguarda gli sviluppi della malattia, i sintomi erano l’eritema cutaneo,
le turbe gastrointestinali, i disturbi nervosi e psichici; con l’andar del tempo, poi,
potevano insorgere crampi, tetania, depressione psichica e vere forme demenziali con delirio. Nei casi più gravi la malattia portava alla morte. Anche a
Villaga i malati di pellagra nel corso dell’800 furono molti, parecchi dei quali
ebbero un’esistenza travagliata che si concluse con la morte.
Nei registri parrocchiali di Villaga e di Toara sono riportati i decessi per pellagra; tuttavia ve n’erano certamente molti altri espressi in modi diversi, ma sempre riferibili a questa malattia: febbre gastrica, diarrea, infiammazione intestinale, mal di pelle, delirio.
Il parroco di Villaga, don Faccin, nel 1890, nel riportare un caso di pellagra,
preferì non indicare il nome del malato, e così descrisse il decesso: “persona
anziana morì di pelagra: da molto tempo aveva perduto il cervello, ricevette perciò
sub conditione gli ultimi conforti religiosi”. 27
Il fenomeno perdurò anche nei primi due decenni del Novecento, per
estinguersi dopo la prima guerra mondiale, grazie ad un’alimentazione più
variata.
Le varie patologie mortali
Le malattie polmonari
Molto diffuse erano le malattie respiratorie, in particolare quelle polmonari
come la tubercolosi, chiamata anche tisi. Agente causale della malattia era il
bacillo di Koch, dal nome del suo scopritore che nel marzo 1882, adottando un
particolare metodo di colorazione istologica, lo osservò al microscopio come
un bastoncello simile per caratteri morfologici a quello della lebbra con il quale
sarebbe filogeneticamente apparentato. 28
Contrariamente all’opinione popolare, la tubercolosi non è una malattia ereditaria ma acquisita. L’infezione avviene per via aerogena attraverso l’inalazione di goccioline di saliva o di muco cariche di bacilli emesse con la tosse
e gli starnuti, o di pulviscolo atmosferico inquinato da bacilli provenienti da
escreato (catarro).29
Nell’800 la tubercolosi è causa di molti decessi a Villaga. Nelle anagrafi parrocchiali di Villaga e di Toara il termine“tubercolosi”non è quasi mai citato. Nel SeiSettecento a volte è indicata col nome di “scrofola”. Nei registri dell’800 si
incontrano invece suoi sinonimi che denotano forme diverse o stadi più o
meno avanzati della malattia quali: tisi polmonare, miliare, consunzione,
malattia polmonare, mal di petto, infiammazione di petto.30
27 Arch. Parr. Villaga, Libro dei morti, 1870/1908
28 G. Cosmacini, Le spade di Damocle, paure e malattie nella storia, Editori Laterza, , pagg. 152-153
29 G. Badio, Cona, vicenda demografica dal 1780 al 1870, in Anagrafi parrocchiali e popolazione nel Veneto…
a cura di F. Agostini, pag. 61
30 Ibidem
254
Dai registri civili dei morti delle parrocchie di Villaga e di Toara abbiamo desunto
le seguenti patologie di morte negli anni 1816-1817:
Anno 1816: Villaga morti 20
sette neonati morti di spasmo nei primi giorni di vita; un neonato immaturo; un
neonato nato morto; due per colpo apoplettico; due per malattia putrida reumatica; due per male cronico; uno per polmonia; uno per idrotorace; due per febbre
continua; uno per morte accidentale nel fuoco; uno per congestione ai polmoni;
uno per malattia catarrale cronica;
Toara morti 27
Due per infiammazioni; sei per convulsioni; uno per discresia; 2 per vermi, uno per
protorace; due per tosse convulsiva; due per affezioni di stomaco; uno per morte
repentina; due per febbre continua; uno per paratonite; uno per malattia cronica;
uno per linfatica concrezione; uno per affezione da spasmo; quattro per pertosse.
Anno 1817: Villaga: 28 morti
Nove neonati per spasmo; due bambini per febbre verminosa; cinque bambini per
febbre continua; tra i giovani e gli adulti: uno per febbre reumatica; uno per stasi
alla testa; uno per tetano; uno per pellagra; uno per anasarca, uno per febbre perniciosa; due per convulsioni; uno per febbre nervosa; uno per affezione ipocondriaca; uno per malattia di flusso; uno per idrotorace.
Toara: morti 20
Uno per tifo; uno per scorbuto; uno per colpo apoplettico; due per diarrea; uno per
spasmo; due per febbre verminosa; sei per febbre continua; uno per febbre gastrica; due per pertosse; uno per asma; uno per malattia cronica; uno per febbre
reumatica.
Anno 1848: Villaga: 26 morti
Undici neonati per spasmo; quattro bambini sotto i cinque anni per febbre verminosa; quattro adulti per apoplessia; due per catarro polmonare; due per meningite; uno per marasmo senile; uno per encefalite.
L’influenza
Verso la fine dell’800 apparve una nuova malattia, per fortuna non mortale, che
così descrive il parroco don Agostino Ancetti: “Nel corrente anno 1890 tutte le parti
del mondo furono colpite dalla malattia detta dell’influenza. Era una febbre sui
generis; veniva curata con un purgante e chinino; la miglior medicina però era
ritenuta il sudore. I più in pochi giorni guarivano; altri (come lo scrivente) ne sentirono gli effetti per più mesi ed alcuni non sono ancora perfettamente risanati.
Vittime in questa parrocchia non ve n’ebbero. In altre ve n’ebbero alcune o di persone
già avanzate in età, o per complicazione di altre malattie, specie di petto, o per trascurata convalescenza. Moltissimi furono dovunque gli effetti, e si diede il caso di intiere
255
CAPITOLO DECIMO
L’OTTOCENTO
famiglie, anche numerose, che tenevano contemporaneamente il letto. Il Santo
Pontefice Leone XIII° attesa l’universalità del male, dispensò dal digiuno e dal
magro; questa dispensa nella nostra diocesi entrò in vigore il giorno delle ceneri, 19
febbraio, ed ebbe fine il giorno dell’ottava di Pasqua”. 31
nell’articolo “Un passo indietro: ricordo dei medici condotti”, da Realtà Vicentina,
luglio 2005- era sorta appunto per curare le persone prive di sostentamento. Più
tardi, con l’istituzione degli enti previdenziali, il Servizio sanitario si estese a tutte
le persone facenti parte della condotta, che di solito coincideva con il territorio
comunale”.
La vigilanza igienica e la profilassi delle malattie trasmissibili spettavano ai
Comuni e il sindaco era la massima autorità sanitaria. I medici condotti, così come
le ostetriche e i veterinari, dovevano superare un concorso pubblico, poi venivano
nominati e assunti come dipendenti dal Consiglio comunale. Ricevevano quindi lo
stipendio dai Comuni e una indennità, a titolo di rimborso spese, per l’uso del proprio mezzo di trasporto per le visite.
La figura del medico condotto è rimasta nella mente e nei cuori di tante persone
anziane anche a Villaga. Molti sono infatti coloro che non hanno dimenticato, in
particolare, il dott. Carlotto Antonio, che esercitò la professione per quarant’anni,
dal 1926 al 1966. Di lui si ricorda il suo prodigarsi ad alleviare le sofferenze di chi
aveva bisogno di cure, la sua passione, la sua dedizione, il suo essere sempre
disponibile ad accorrere al capezzale degli ammalati, la sua professionalità e competenza nell’affrontare e risolvere positivamente i malanni dei suoi pazienti, la sua
umanità e sensibilità che gli procurarono una generale riconoscenza.
L’Amministrazione comunale di Villaga, nel 2003, gli ha intitolato una via del paese
di Belvedere.
Le grandi malattie vinte col vaccino
Soltanto con la scoperta dei vaccini e degli antibiotici, si riuscì a debellare le terribili malattie del Settecento e dell’Ottocento.
L’introduzione dell’obbligo dei vaccini è legato alla diffusione in Europa della vaccinazione contro il vaiolo. Fin dall’inizio del ‘700 si era tentato, in diversi paesi
europei, di limitare il flagello del vaiolo inoculando nei bambini (quasi sempre
orfani, ospitati negli orfanatrofi) il pus derivante dalle pustole di altri bambini che
avevano contratto la malattia in modo benigno, secondo una modalità piuttosto
empirica. A Verona, nel 1769, avvenne il primo esperimento documentato di
questo tipo. Ma la procedura era particolarmente complicata e pericolosa, perciò
ebbe una modesta diffusione.
Questa situazione fu cambiata completamente da Jenner, che nel 1796 sperimentò per la prima volta la sua nuova tecnica di vaccinazione contro il vaiolo, che
colpiva soprattutto i bambini sotto i cinque anni e che era responsabile di circa un
terzo della mortalità totale infantile nel Settecento.
Si apriva così per la prima volta nella storia dell’umanità, la possibilità di trovare
un rimedio collettivo tecnicamente efficace per contrastare la terribile malattia.
L’introduzione della vaccinazione suscitò, però, anche forti resistenze nelle popolazioni soggette. Allora, lo stato italiano, per superare queste opposizioni, estese
l’obbligo della vaccinazione a tutta la popolazione, allo scopo di tutelare al salute
pubblica.
Poi, in Italia diventarono obbligatorie le vaccinazioni contro la difterite (1939), la
poliomielite (1966), il tetano (1968) e l’epatite B (1991), mentre l’obbligo di vaccinare contro il vaiolo tutti i nuovi nati (la malattia era stata debellata) venne
sospeso nel 1977 e abolito nel 1981.
I medici condotti
Verso la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900, erano i Comuni i responsabili della
sanità pubblica. Per assicurare in ogni Comune l’assistenza medica, ostetrica e veterinaria, fu introdotta una legge apposita nel 1907, modificata e sostituita in
seguito dal Testo unico sulle leggi sanitarie del 1934. Tale legge prevedeva l’obbligo da parte dei comuni di nominare un medico, un’ostetrica e un veterinario condotti. “Essi avevano l’obbligo di prestare la loro opera gratuitamente, in favore delle persone indigenti iscritte in un apposito elenco. La condotta – spiega Massimiliano Lago
31 Arch. Parr. Toara, Registro dei nati, dei morti, dei matrimoni, 1834-1908
256
7. LA SCUOLA NELL’OTTOCENTO
Durante l’età napoleonica, e precisamente a partire dal 1808, in seguito al
“Piano d’istruzione generale”, i Comuni ebbero l’obbligo di istituire le scuole
elementari. La frequenza non era ancora obbligatoria, ma i maestri dovevano
segnalare le assenze. Nelle classi fu introdotto l’uso della “tavola nera”, cioè la
lavagna. L’articolo uno dei programmi riportava che “nella prima s’insegna il
leggere, lo scrivere correttamente, le due prime operazioni dell’aritmetica ed il catechismo. Nella seconda s’insegnano la pronuncia, l’ortografia, la calligrafia più esattamente, la moltiplicazione, la divisione degli intieri e dei rotti, la regola del tre col
calcolo anche decimale, il ragguaglio delle vecchie colle nuove misure, il catechismo
e le regole della civiltà”. 32
Il governo austriaco, nel 1818, emanò il Regolamento organico per le scuole elementari, che prevedeva la divisione delle scuole in minori, maggiori e tecniche.
In ogni Comune ci doveva essere una scuola minore e là, dove i fanciulli di età
fra i sei e i dodici anni fossero stati meno di 50, il parroco li avrebbe dovuti riunire ed istruire.33
32 A. Morello, La scuola nel Vicentino tra Sette e Ottocento, in Il Governo vicentino in età napoleonica,Vicenza
1989, pag. 170
33 Ibidem, pag. 171
257
CAPITOLO DECIMO
Nei piccoli paesi la scuola minore era limitata alle prime sole due classi, con l’insegnamento dei primi rudimenti dell’aritmetica, del leggere e dello scrivere.
Le scuole minori poi dipendevano dalle Amministrazioni comunali, che dovevano
pertanto finanziarle, provvedendo anche al compenso dei maestri, che spettava
alle casse comunali. 34
Il primo maestro pubblico di cui abbiamo notizia è don Giuseppe Cavion, che nel
1816 insegnava nella scuola di Villaga. 35 Altro maestro pubblico, segnalato nel
1818, è don Giovanni Cichellero, nativo delle Valli dei Signori. 36
Nel 1871 a Toara vi era una scuola per i maschi retta dal maestro pubblico don
Pietro Marchesini, mentre a Villaga la scuola elementare era gestita dal cappellano,
don Luigi Simionati.
Nel 1878 le scuole elementari nel Comune erano tre: a Villaga, a Toara e a Pozzolo.
Nel frattempo, era stata promulgata la legge Casati del 1859, che era un vero e proprio atto costitutivo della scuola e che ne definì anche l’ossatura fino alla riforma
Gentile del 1923. 37 Nel 1877 poi venne introdotta la legge Coppino che intendeva
assicurare un’istruzione gratuita, obbligatoria e laica; inoltre prevedeva tre anni di
insegnamento gratuito per tutti i bambini dai sei ai nove anni. 38 In seguito, verso
la fine del secolo, nel 1894, furono promulgati i nuovi programmi del governo
Crispi che puntavano ad un ruolo più incisivo della scuola nell’educazione (a tal
proposito venne introdotto il lavoro manuale sotto forma di “esercitazione di
lavoro educativo”). Alla fine dei vari corsi, veniva rilasciato agli alunni, dopo aver
sostenuto gli esami, un certificato di idoneità che conteneva la valutazione
numerica delle prove d’esame.
Purtroppo la frequenza alle classi elementari era piuttosto bassa. Ciò era dovuto
soprattutto al fatto che i bambini venivano utilizzati nei vari lavori rurali, nelle faccende di casa e nella custodia dei numerosi fratellini, essendo spesso la madre
impegnata in attività agricole. Nelle famiglie molto povere poi, anche il costo dei
libri, del materiale scolastico e di un abbigliamento decoroso, potevano costituire
un freno nel mandare a scuola i figli.
Poi, un graduale miglioramento economico generale, la consapevolezza che un
minimo grado di istruzione era ormai indispensabile anche per la salvaguardia dei
propri diritti, fece aumentare anno dopo anno il numero degli alunni che frequentavano le scuole. E’ stata questa una delle principali conquiste del Novecento.
34 Ibidem
35 Arch. Curia Vescovile, Stato delle Chiese, Toara, b. 307
36 Ibidem
37 Storia illustrata della scuola italiana dall’unità d’Italia alla fine del ventesimo secolo, Direzione didattica di
Albignasego editrice, pag. 13
38 Ibidem, pag. 15
258
CAPITOLO UNDICESIMO
IL FASCISMO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE
RACCONTATI DALLE MAESTRE
In questo capitolo abbiamo voluto riportare i fatti piccoli e grandi che accaddero nell’epoca fascista e durante la seconda guerra mondiale, colti nelle annotazioni delle insegnanti delle scuole elementari del Comune di Villaga. Nel
Giornale della classe infatti le maestre trascrivevano non solo informazioni sull’andamento disciplinare e didattico della scolaresca, ma anche osservazioni su
tutto quello che caratterizzava la vita della scuola o che la influenzava dall’esterno, come la potente propaganda fascista, tesa a dare della scuola un’immagine di ordine e di efficienza, quasi di esempio per l’intera società civile.
Numerose furono infatti le disposizioni di ispirazione nazionalistica e quelle
legate alla volontà di celebrare e onorare i caduti per la patria e per il fascismo.
L’istituzione dei parchi e dei Viali della rimembranza ne è forse l’esempio più
significativo. Ogni scuola avrebbe dovuto essere protagonista della creazione di
detti parchi o viali i cui alberi, in seguito, furono dedicati alla memoria dei caduti nella prima guerra mondiale o delle vittime fasciste. Pertanto, periodicamente,
le scolaresche partecipavano agli incontri commemorativi più importanti 1 . Alle
tradizionali feste, ricorrenze, commemorazioni civili – festa degli alberi, festa
della doppia Croce, del 4 novembre… - a cui tutti gli alunni erano chiamati a
intervenire, si aggiunse l’appuntamento del sabato fascista. Nel 1926, con legge
n. 2247 del 3 aprile, venne infatti istituita l’Opera nazionale Balilla, un’organizzazione autonoma creata dal fascismo allo scopo di assistere ed educare i
ragazzi e i giovani. Gli obiettivi dell’organizzazione erano molteplici e, tra essi,
assunsero una posizione assai rilevante l’istruzione pre-militare e quella ginnico-sportiva, intesa a promuovere l’irrobustimento fisico della gioventù. 2 Gli
iscritti all’organizzazione erano maschi e femmine di età compresa tra i 6 e i 18
anni e, a seconda del sesso e dell’età, erano suddivisi in specifici corpi o reparti: Figli e Figlie della Lupa (dai 6 agli 8 anni), Balilla e Piccole Italiane (dagli 8 ai
14 anni), Avanguardisti e Giovani Italiane (dai 14 ai 18 anni).
1 Sull’argomento vedi “Storia illustrata della scuola italiana dall’unità d’Italia alla fine del XX secolo”, Direzione
didattica di Albignasego Editrice e Linea ags edizioni, pag. 42.
2 Op. cit., pag. 43.
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CAPITOLO UNDICESIMO
IL FASCISMO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE RACCONTATI DALLE MAESTRE
La scuola, volente o nolente, fu investita in pieno dalle iniziative dell’Opera
nazionale Balilla a tal punto che il tesseramento degli alunni avveniva tramite
la scuola stessa, non senza preoccupazioni da parte degli insegnanti. Costoro,
spesso per dimostrare la capacità di convincimento a far aderire i propri allievi
all’ONB, erano costretti a tirar fuori di tasca propria il denaro per acquistare le
tessere di coloro che non volevano iscriversi al fascismo 3.
Questo impegno da parte dei docenti derivava anche dal fatto che gli stessi
erano costretti a relazionare sulle tessere sottoscritte; pertanto venivano giudicati sul loro operato.
Gli insegnanti dovevano inoltre intrattenere le scolaresche sulle imprese del
fascismo, dedicando vari momenti durante la settimana al resoconto di quanto avveniva in Italia e all’estero e a celebrare i personaggi più in vista del fascismo.
Poi si arrivò agli anni Quaranta e anche la scuola si trovò direttamente coinvolta nel clima del secondo conflitto mondiale. Fin da subito, anche per espresso
invito del ministro dell’Educazione Nazionale, la scuola dovette sostenere
idealmente lo sforzo della nazione per il raggiungimento della vittoria finale.
Agli insegnanti veniva chiesto, tra l’altro, di informare gli alunni e le famiglie
sull’andamento delle vicende belliche, ma soprattutto di contribuire allo straordinario sforzo economico in atto nel Paese per sopperire alla mancanza di
manodopera in campo agricolo, nonchè di aiutare moralmente, ma anche in
modo concreto, i soldati al fronte. Iniziative come “la giornata del fiocco di lana”,
che aveva lo scopo di raccogliere lana con cui confezionare indumenti per i
combattenti, la coltivazione degli “orti di guerra” o la raccolta di ferro e altri
materiali, trovarono la piena adesione delle scuole e degli insegnanti. Questi
ultimi si fecero carico anche di aiutare le famiglie nella corrispondenza con i
familiari al fronte.4 Nelle scuole della provincia di Vicenza vennero preparate
dai docenti migliaia di lettere per conto delle famiglie, così come molte furono
quelle scritte e spedite dalle scolaresche ai combattenti.
Ma i giorni più difficili dovevano ancora arrivare. Dopo l’8 settembre 1943,
infatti, ebbero inizio le incursioni aeree degli alleati che furono molto intense
e devastanti. Il territorio di Villaga, posto in una situazione geografica importante, poiché vi transitavano due tratte ferroviarie (la linea LegnagoGrisignano di Zocco e quella che collegava Noventa a Vicenza) divenne
bersaglio dei raid di “Pippo”, l’aereo alleato che per mesi e mesi sorvolò i cieli
del Basso Vicentino sganciando bombe, scaricando raffiche di mitraglia o
inseguendo i convogli ferroviari per bloccarli.
Negli anni scolastici 1943/44 e 1944/45 le lezioni furono interrotte a più riprese
a causa dei bombardamenti e dell’occupazione degli edifici scolastici da parte
delle truppe tedesche in ritirata. Si fece lezione in luoghi improvvisati, ma solo
pochi alunni erano presenti, dati i rischi degli spostamenti in quel periodo.
La scuola di Villaga venne occupata dal comando tedesco e così le maestre
dovettero trovare un locale in contrà Oche dove poter continuare l’attività scolastica. Poi, nell’aprile del ’45 si giunse all’epilogo della guerra. Si chiudeva così,
anche per la scuola, un’epoca durata più di vent’anni, che ha lasciato un segno
profondo nella storia del secolo scorso.
1. Le annotazioni riportate di seguito dalle insegnanti sono tratte dai
Giornali della classe del periodo dal 1928 al 1945 conservati nell’archivio
storico del Comune di Villaga.
Anno 1928
“25 settembre: solenne inaugurazione dell’apertura delle scuole a Villaga.
Martedì 25 settembre ebbe luogo la cerimonia religiosa e civile d’apertura delle scuole
al capoluogo di Villaga. Partiti da Toara alle ore 7 con la bandiera e cantando inni
patriottici, si arrivò a Villaga, davanti alla chiesa parrocchiale. Vennero riuniti dal
capo i Balilla delle sei scuole e con le bandiere ed il gagliardetto entrarono in chiesa,
dove già avevano preso posto le autorità. Seguirono alunne ed alunni con le rispettive insegnanti. Al Vangelo il R.° parroco rivolse agli scolari delle parole d’occasione
ed alle insegnanti un consiglio da padre. Finita la S. Messa venne cantato il “Veni
Creator” e poi la S. Benedizione. Usciti di chiesa l’insegnante di Villaga (Dani
Matilde) rivolse il ringraziamento alle autorità ed ai pochi padri presenti e poi fece
un appropriato discorso; a lei tenne dietro un bambino di Belvedere con altre brevi
parole. Sfilarono prima i Balilla e poi tutti gli altri alunni e dopo avere salutato
romanamente, ciascuna insegnante ritornò alla propria sede”.
(Edelinda Campesato, maestra di Toara)
“22 ottobre: oggi a Toara successe una grave disgrazia. Un alunno restò sepolto sotto
la sabbia, nella cava e venne estratto cadavere.
24 ottobre: questa mattina grande impressione per i funerali del ragazzo vittima del
lavoro; al suo passaggio feci uscire gli alunni della scuola e uno abbassò la bandiera.
Ricordai la bontà e la diligenza del defunto”.
(Edelinda Campesato)
“4 novembre: oggi abbiamo fatto una bella festicciola. A Villaga sono venuti gli alunni delle frazioni di Belvedere e Toara. Siamo andati tutti in chiesa con le bandiere
delle scuole e con quella dei Balilla. I Balilla facevano bella figura perché avevano la
loro divisa. Abbiamo ascoltato la S. Messa, poi siamo andati al cimitero a mettere
fiori e ghirlande sulle tombe dei soldati morti in guerra. Ritornati, ci siamo tutti fermati in piazza ove il signor Podestà ha fatto un discorso”.
(Elisa Munari, maestra di Villaga)
3 Op. cit., pag. 51
4 Op. cit., pag. 64
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IL FASCISMO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE RACCONTATI DALLE MAESTRE
“13 dicembre: Festa degli alberi. Noi insegnanti del Comune, con tutti gli alunni, ci
siamo recati a Pozzolo. I Balilla avevano la loro divisa, tutte le scuole la loro bandiera.
Salendo i monti, i nostri alunni si sono divertiti cantando canzoni della patria.
Abbiamo fatto recitare quattro poesie e impiantato alloro, pesco e pero. Una insegnante ha fatto una lezione riguardante l’utilità delle piante. La fine fu rallegrata con
una buona colazione.
(Elisa Munari)
Anno 1929
“28 ottobre: Ieri ci siamo recati nella frazione di Belvedere per l’inaugurazione della
nuova scuola. I Balilla furono in divisa con la bandiera della scuola. Il Podestà ha
fatto un discorso ricordando tutte le opere fasciste; un fanciullo ha ringraziato tutte
le autorità per l’opera compiuta in quella frazione. L’edificio è veramente bello, con
vasto cortile, posto in luogo adattissimo perché non disturbato”.
(Elisa Munari)
Anni ‘20: scolaresca di Belvedere.
Anno 1930
“8 gennaio: abbiamo fatto una passeggiata con molti scolari: siamo andati a S.
Pancrazio a vedere il presepio. Era bellissimo! Gli alunni hanno ammirato le belle
montagne che, coperte di neve, sembravano lontane lontane, le belle statue e le tante
pecorine. Hanno cantato, recitato poesie e ricevuto la santa benedizione da un frate
francescano. Si sono divertiti a correre su e giù per il viale e hanno veduto lontani
paesi, il treno che sbuffando partiva dalla stazione; hanno gridato: evviva i passeggeri”.
(Elisa Munari)
Anno 1939: bambini dell’asilo infantile di Belvedere.
“25 gennaio: la neve, oh la neve, che novità per tutti! Che sorpresa! Intanto per due
giorni la scuola rimane chiusa perché è impossibile la venuta degli alunni. La neve
scende lenta e silenziosa; il freddo si fa intenso. Non si ricorda una così abbondante
nevicata. Intanto i nostri alunni si divertono a casa. Non badano al freddo, prendono
le passere, fanno palle di neve”.
(Elisa Munari)
“5 febbraio: quanta neve c’è ancora! Quanto ghiaccio per le strade. Vengono pochi
alunni alla scuola; ve ne sono molti che abitano lontano. Per quanto faccio, per quanto raccomando, vi sono molti posti vuoti nella scuola. I pochi alunni presenti si applicano poco perché hanno freddo, non potendo riscaldare bene l’aula”.
(Elisa Munari)
Anno 1931
“28 ottobre: Ieri parlai a lungo agli alunni di 3^ e di 4^ riuniti di S. E. Benito
Mussolini, della guerra, del dopoguerra, del periodo socialista e dei primi fasci di
Anno 1950: bambini dell’asilo di Belvedere con la maestra Maria Mazzaron.
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IL FASCISMO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE RACCONTATI DALLE MAESTRE
combattimento e della marcia su Roma. Feci notare agli alunni i grandi vantaggi
apportati dal Fascismo; gli alunni inneggiarono poi al Re e al Duce e cantarono gli
inni d’occasione. Questa mattina condussi tutti gli alunni a rendere omaggio al monumento ai caduti”.
(Matilde Dani maestra di Villaga)
Anno 1952: bambini dell’asilo infantile di Belvedere.
“14 novembre: Questa mattina in piazza c’erano molti disoccupati venuti a chiedere
lavoro o pane. Cogliendo questa occasione, parlai ai miei alunni della grande miseria, quindi del dovere che abbiamo di aiutare nel limite del possibile chi ne ha bisogno; parlai della società di previdenza, della necessità di assicurare il nostro avvenire,
di avere un aiuto nei momenti di bisogno”.
(Matilde Dani)
“26 novembre: in questi giorni ho iniziato il tesseramento degli alunni dei Balilla. Ho
fatto scrivere dagli alunni a tutti i genitori una lettera esortandoli a compiere questo
loro dovere. Alcuni dei più restii li ho avvicinati di persona. La maggioranza s’è
tesserata”.
(Matilde Dani)
“24 dicembre: con il concorso degli alunni abbiamo fatto il presepio nella scuola e
questa mattina abbiamo festeggiato il S. Natale. I fanciulli hanno assistito la S.
Messa e poi davanti al presepio hanno recitato le poesie ed eseguito dei canti pastorali”.
(Matilde Dani)
Anno 1954: bambini dell’asilo infatile di Belvedere.
Anno 1932
“10 gennaio: ieri vi fu la Befana Fascista. Intervennero le autorità del paese e molti
cittadini. Furono invitati i Balilla e gli alunni poveri coi loro genitori. Il signor
Segretario Comunale spiegò il significato di questa cerimonia. Una bambina, a nome
dei beneficati, ringraziò il signor Podestà e il Comitato per l’interessamento e per
l’opera prestata. Ai poveri venne dato un pacco vestiario, e degli aranci a tutti, anche
ai Balilla”.
(Matilde Dani)
“15 febbraio: da una settimana non si fa scuola causa la neve prima e il freddo di
questi giorni; alcuni alunni sono anche malati”.
(Matilde Dani)
“23 febbraio: ieri nel cortile delle scuole venne piantato l’albero in memoria di
Arnaldo Mussolini (fratello di Benito, morto nel 1931). Intervennero tutte le autorità,
le associazioni fasciste, la scolaresca con i Balilla e le Piccole Italiane in divisa”.
(Matilde Dani)
Anno 1960: bambini dell’asilo di Villaga.
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IL FASCISMO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE RACCONTATI DALLE MAESTRE
“23 marzo: si commemora nelle scuole l’annuale della fondazione dei fasci di combattimento. Feci risaltare l’opera e la figura del Duce e i vantaggi di questa nuova istituzione in tempi in cui regnava il comunismo”.
(Matilde Dani)
“3 maggio: abbiamo fatto la festa degli alberi. Nel cortile delle scuole di Belvedere,
alla presenza di tutti gli alunni del Comune, vennero piantati alcuni alberi da frutto
e da ornamento. Un’insegnante spiegò il significato della festa perché il governo vuole
che in tutte le scuole sia celebrata; fece conoscere agli alunni il dovere che hanno di
rispettare le piante e di rimboschire l’Italia. Furono recitate alcune poesie e cantati
inni patriottici”.
(Matilde Dani)
Bambini dell’asilo di Toara nel 1930 con la maestra Emma Cichellero.
“7 giugno: parlai agli alunni dell’attentato al Duce. Abbiamo con una preghiera
ringraziato Iddio per avergli anche questa volta salvato la vita; abbiamo cantato
Giovinezza ed esposto la bandiera in segno di giubilo. Ho poi fatto eseguire un compito scritto sulle impressioni che ha prodotto questo fatto. Hanno descritto l’episodio,
hanno espresso anche la gioia provata perché l’attentato venne sventato, ma nessuno
espresse l’impressione provata, come avevo sperato”.
(Matilde Dani)
Anno 1935: bambini dell’asilo infantile di Toara.
“5 dicembre: ieri venne celebrata la Giornata del Balilla, delle Piccole Italiane, degli
Avanguardisti, dei Giovani Fascisti e Fascisti. Dopo aver ascoltato la S. Messa, si
radunarono in un’aula delle scuole. I Balilla recitarono una poesia d’occasione ed
eseguirono dei canti patriottici; una Piccola Italiana offrì un mazzo di fiori al
Presidente. La maestra Arzenton, di Toara, pronunciò un vibrante discorso rievocando la nobile figura del Balilla genovese. In corteo ci recammo a deporre i fiori sul
monumento ai caduti”.
(Matilde Dani)
Anno 1933
“3 novembre: nel 15° anniversario della vittoria parlai agli alunni dell’ultima guerra, dei sacrifici sostenuti dai nostri soldati, del ricordo che dobbiamo avere dei caduti, del rispetto ai mutilati e combattenti. Dettai e spiegai la prima strofa del Piave.
Prima di uscire dall’aula fecero il saluto alla bandiera. In questo giorno gli alunni
parteciparono alla cerimonia che venne fatta in paese. Assistettero alla S. Messa ed
al Te Deum, indi si recarono a rendere omaggio e a portare fiori al monumento ai
caduti. Un combattente lesse il bollettino della vittoria e i fanciulli cantarono il
Piave”.
(Matilde Dani)
Anno 1949: bambini di Toara fotografati con la statua della Madonna Pellegrina.
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Anno 1934
“28 aprile: Oggi venne celebrata la festa del Fiore. Nell’aula delle scuole il dottor
Antonio Carlotto parlò della tubercolosi che fa strage tra i popoli; ci fece conoscere
come la scienza abbia sempre indagato e lottato con ottimi risultati. Ora il governo
dà il suo appoggio indicendo questa giornata in cui si chiama la carità a concorrere
in questa opera tanto benefica. Le Piccole Italiane, durante la giornata, vendettero il
materiale mandato dal Comitato provinciale; anche nella scuola fu ampiamente spiegato con apposite lezioni l’importanza della campagna antitubercolare, dei grandi
vantaggi avuti dopo l’istituzione dei tubercolosari”.
(Matilde Dani)
Anno 1952
“24 maggio: oggi, alla presenza delle autorità e di alcuni fascisti e degli avanguardisti, venne svolto il saggio ginnico. C’erano 60 Piccole Italiane e 42 Balilla. Gli
esercizi vennero eseguiti assai bene con precisione e simultaneità. Gli alunni cantarono poi alcuni inni patriottici”.
(Matilde Dani)
Anno 1935
“30 marzo: questa sera tutti gli iscritti al fascio sono invitati nella piazza di via Roma
per salutare i giovani nati nel 1911 che sono chiamati alle armi. Alle ore 7 si darà
l’addio ai buoni e bravi soldati che forse dovranno difendere energicamente la
patria”.
(Elisa Munari)
Anni ‘50: bambini dell’asilo di Toara con il parroco Don Ernesto Bicego.
“27 maggio: ancora pochi giorni e poi è finito anche l’anno scolastico 1935. Si trema
per la guerra, si prega per la pace; domani 28 si chiude l’anno di nostra S. Redenzione
a Lourdes. In quel luogo si prega per il miracolo della pace fra le nazioni”.
(Elisa Munari)
Anno 1936
“5 maggio: siamo in grande aspettativa per il segnale dell’adunata generale in cui
parlerà il Duce per annunciare l’occupazione di Addis Abeba da parte delle nostre
truppe”.
“6 maggio: Ieri sera ci siamo riuniti a Villaga con la maggior parte degli alunni per
la grandiosa adunata. Le parole del Duce sono state ascoltate in religioso silenzio
interrotto soltanto dalle entusiastiche ovazioni per l’annuncio della grande vittoria
delle armi italiane e della fine della guerra. Oggi ho ricordato agli alunni la memorabile occupazione di Addis Abeba; insieme abbiamo adornato la classe di bandierine tricolori ed abbiamo finito la lezione con i canti patriottici e col saluto al re, al
Duce e ai nostri vittoriosi soldati”.
(Lucinda Testa, maestra di Belvedere)
Bambini dell’asilo di Toara nel 1965.
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IL FASCISMO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE RACCONTATI DALLE MAESTRE
“5 giugno: questa mattina si è svolta la cerimonia di chiusura dell’anno scolastico. Dopo
aver assistito alla S. Messa e cantato il Te Deum, alunni e insegnanti si sono riuniti alle
scuole di Toara per cantare gli inni patriottici ed indirizzare con grande entusiasmo il
saluto al Re e al Duce. Sono stati letti i nomi dei promossi, poi si è chiusa la cerimonia
con canti patriottici”.
(Lucinda Testa)
“27 ottobre: nella scuola quest’anno c’è la Radio rurale offerta dal fascio locale”.
“28 ottobre: si assistette tutti in divisa alla cerimonia locale. Dalla Casa del fascio, dove
venne fatto l’appello dei caduti vicentini della rivoluzione fascista, si venne in corteo in
chiesa dove si assistette alla S. Messa”.
(Matilde Dani)
Anni ‘50: scolaresca di Villaga.
“11 novembre: la cerimonia per il genetliaco di sua Maestà fu tenuto per le scuole di
Toara e Belvedere nella chiesa parrocchiale di Toara. Le scolaresche, accompagnate dalle
insegnanti, assistettero alla S. Messa ed al Te Deum; fu pronunciato dal rev. Parroco un
discorso d’occasione in cui invitava tutti i presenti ad esprimere la loro riconoscenza al
sovrano comportandosi da degni cittadini d’Italia. Dinanzi alle scuole furono cantate la
Marcia reale e Giovinezza e poi si fece il saluto al Re”.
(Lucinda Testa)
I bambini Ferrari Alberto e Bruno.
Anno 1937
“23 marzo: il viaggio del Duce in Libia fu seguito ed ampiamente illustrato agli alunni. Si è udito anche per radio il discorso fatto a Tripoli. Seguendo il Duce nel suo viaggio si è con questa occasione studiato la Libia e le altre colonie italiane”.
“5 maggio: oggi anniversario dell’entrata delle nostre truppe ad Addis Abeba; abbiamo
udito il discorso che il Duce fece in quell’occasione”.
“9 maggio: assistemmo alla cerimonia dell’annuale della proclamazione dell’Impero”.
“24 maggio: nella scuola si parlò ampiamente dell’ultima guerra e dell’eroismo dei nostri soldati. Si cantarono inni patriottici”.
(Matilde Dani)
Anno 1938
“30 maggio: ieri vi è stata la cerimonia del battesimo del gagliardetto scolastico che si
è effettuata a Vicenza nel Piazzale della Vittoria alla presenza di S. E. il Vescovo e il
Ministro dell’esercito. Ho accompagnato il gagliardetto con il padrino, il sig. Scavazza
di Toara e l’alfiere Balilla Bruno Pagliarusco.
“7 giugno: oggi la lezione è stata sospesa a Toara. E’ morto quasi improvvisamente il
nostro parroco (don Pietro Vigolo) e stamane si sono celebrate le esequie. Tutta la scolaresca ha partecipato al funerale assieme a quelle di Villaga e Belvedere, con le rispettive maestre e i gagliardetti abbrunati. La mesta cerimonia è stata lunga e i partecipanti hanno reso con il cuore l’ultimo omaggio al sant’uomo che tutta la sua vita aveva
speso per il bene spirituale e materiale dei suoi fedeli”.
(Teresa Arzenton di Toara)
Anni ‘50: scolaresca di Villaga.
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CAPITOLO UNDICESIMO
IL FASCISMO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE RACCONTATI DALLE MAESTRE
“4 novembre: qui a Villaga venne celebrata una commovente festicciola. Ebbe luogo la
benedizione dell’altare nella cappella dei caduti posta sul cimitero. Là venne celebrata la
prima messa in onore dei caduti in guerra. Autorità, insegnanti, alunni con bandiere e in
divisa vi parteciparono. Furono cantati inni sacri e patriottici”.
(Elisa Munari)
Anno 1939
“11 febbraio: il giorno 10 febbraio si ebbe notizia della morte di Papa Pio XI°. Allora il mio
pensiero e quello dei miei alunni volò nella grande capitale con molta mestizia. Poi parlai
di lui, della sua grande bontà paterna e del suo grande amore per l’Italia e per il mondo
intero essendo egli padre buono di tutto il mondo”.
(Elisa Munari)
“13 gennaio: stamane la scolaresca ha partecipato ad una messa di suffragio per
l’alpino Bissol Luigi, caduto sul fronte greco-albanese. Gli alunni, col loro ordine ed il
loro silenzio, hanno dimostrato di comprendere l’austera solennità del momento ed
hanno partecipato con le autorità e col popolo intervenuto al commosso tributo di
affetto e di riconoscenza verso il glorioso caduto”.
(Teresa Arzenton)
“13 maggio: il generale Gambara, comandante delle truppe volontarie di Spagna, rispose
con affettuose e gentili espressioni ai nostri Balilla di quarta che in occasione della fine
della guerra in Spagna gli hanno mandato le loro più vive felicitazioni. La lettera del generale è stata pubblicata anche sul giornale “Vedetta fascista”.
“25 maggio: ieri, nel Comune di Villaga, dinanzi alle autorità locali, gli alunni hanno eseguito il saggio ginnico. Ciascuna insegnante presentò la sua squadra e l’esercizio obbligatorio o facoltativo. Sono stata molto contenta dell’esecuzione dei miei scolari: hanno marciato perfettamente inquadrati e hanno fatto l’esercizio con simultaneità. Il segretario del
fascio distribuì poi ai piccoli ginnasti i confetti”.
(Leonilde Fantinucci di Belvedere)
“20 gennaio: abbiamo spedito alla Direttrice una relazione di quanto si è fatto riguardo al momento attuale di guerra. Seguiamo giorno per giorno gli avvenimenti, leggendo dal giornale i fatti di eroismo più salienti e più commoventi, invitando gli alunni
a concorrere nel loro possibile alla vittoria”.
(Matilde Dani)
Anno 1940
“16 ottobre: gli scolari delle scuole di Belvedere e di Toara si sono riuniti con le insegnanti
nella chiesa di Toara per la cerimonia di apertura dell’anno scolastico 1940/41. Il rev. Parroco
ha tenuto un discorso d’occasione esortando gli alunni a far meglio degli anni scorsi per dare
tutta la loro giovane attività al servizio della patria che si trova in momenti eccezionali. I
fanciulli sono stati invitati poi alle scuole dove hanno cantato gli inni della patria”.
(Lucinda Testa)
“30 dicembre: giorni or sono due mie alunne espressero il desiderio di scrivere ai soldati
combattenti in Albania e, a nome di tutti i compagni, inviarono due letterine. Stamane mi
sono corse incontro mostrandomi una busta e, felici, mi dissero che i soldati avevano
risposto: la lettera dei nostri valorosi combattenti è piena di ardente patriottismo. Ora i
miei scolari hanno voluto riscrivere e il giorno di capodanno faranno tutti la S. Comunione
per essi”.
(Teresa Arzenton)
Anno 1941
“7 gennaio: anche quest’anno venne fatta la Befana Fascista.Vennero distribuiti 100 pacchi a figli di famiglie povere”.
(Matilde Dani)
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“13 gennaio: sono in classe con pochi alunni perché gli altri sono andati all’ufficiatura del primo caduto di Belvedere. Ai presenti faccio scrivere una letterina per la
mamma del caduto, scelgo la migliore e gliela spedisco”.
(Leonilde Fantinucci)
“13 marzo: stamane gli alunni di terza hanno scritto ai soldati combattenti sul fronte
greco-albanese: ognuno ha scritto la sua letterina, breve e semplice, ma traboccante di
affetto e di entusiasmo. Chissà che le parole di questi piccoli, e le loro fervide preghiere,
portino un po’ di gioia ai nostri valorosi soldati”.
(Teresa Arzenton)
“21 marzo: oggi abbiamo spedito quattro pacchi ai soldati combattenti in Grecia. Ogni
pacco conteneva fogli e buste da lettera, sigarette, caramelle e un fior di pesco. Gli alunni hanno risposto con entusiasmo ed amore a questa iniziativa”.
(Leonilde Fantinucci)
“25 marzo: abbiamo mandato al Battaglione Alpini Vicenza un pacco per Pasqua contenente dolci, sigarette ecc. Gli alunni si sono prestati con molto entusiasmo a portare
i loro piccoli doni. La scuola di Belvedere vuole ricordare continuamente questi generosi fratelli che combattono per dare grandezza e potenza alla patria”.
(Lucinda Testa)
“25 marzo: oggi il Segretario del fascio di Villaga ha mandato 2 chili di caramelle per
gli alunni che sono stati beneficiati con la refezione scolastica. Il dono è stato fatto agli
alunni di Toara per desiderio della contessa Virginia Maggioni che per la refezione ha
fatto generose offerte. Gli alunni scriveranno alla gentile signora una lettera di
ringraziamento”.
(Teresa Arzenton)
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CAPITOLO UNDICESIMO
IL FASCISMO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE RACCONTATI DALLE MAESTRE
“29 marzo: con gli alunni mi sono recata a Pozzolo, dove sono convenute tutte le scolaresche di Villaga, per la festa degli alberi. Gli scolari hanno cantato gli inni della
patria e recitato poesie; la festa si è svolta nella rievocazione di Arnaldo Mussolini,
dei nostri gloriosi caduti e col pensiero riconoscente ai prodi soldati”.
(Teresa Arzenton)
ta della lana; ho autorizzato due o tre Piccole Italiane a fare il giro per le varie contrade per raccogliere quanto verrà offerto; poi ogni insegnante terrà nota del peso
della lana e degli stracci raccolti”.
(Lucinda Testa)
“10 aprile: in occasione delle feste pasquali abbiamo spedito a tutti i soldati gli
auguri. Abbiamo raccolto delle offerte e spedito a nome degli alunni n. 15 pacchi ai
militari che si trovano in Albania”.
(Matilde Dani)
“11 aprile: gli alunni hanno confezionato bandierine tricolori per mandare a salutare
i soldati partenti per il fronte e che passano in treno nel vicino passaggio a livello di
Belvedere. I soldati sono stati molto contenti della dimostrazione di simpatia e di solidarietà ed hanno risposto con entusiasmo al nostro saluto”.
(Lucinda Testa)
“15 aprile: la riconquista della Cirenaica riempie di entusiasmo i miei scolari che
seguono col cuore le azioni di guerra dei nostri soldati”.
(Teresa Arzenton)
“6 maggio: spedisco oggi, a nome degli alunni, il terzo pacco ai soldati di Toara: contiene, come gli altri, caramelle, cioccolato, un piccolo dolce, carta da lettere e sigarette”.
(Teresa Arzenton)
“10 maggio: ieri, giornata dell’esercito e dell’Impero, ho rievocato agli scolari la vittoriosa conquista dell’Etiopia del 1935/36 e la difesa eroica che i nostri soldati
compiono oggi, combattendo col valore più grande contro l’Inghilterra”.
(Teresa
Arzenton)
“27 maggio: oggi ho spedito i due primi pacchi per i soldati. Ne abbiamo confezionati 5 ai 5 soldati combattenti che ancora non sono rientrati in patria dalla
partenza. Ognuno supera il peso di un chilo. Si sono potuti fare 5 pacchi perché
l’anno scorso i bachi da seta furono tenuti appositamente per i soldati e poi con le
offerte fatte durante l’anno dagli scolari. Abbiamo comperato per ognuno anche un
libro: un profilo di un soldato vicentino caduto sul fronte occidentale”.
(Gemma Pedrina di Toara)
“17 novembre: il giorno 18 novembre, giornata del Fiocco di Lana, si farà la raccolta della preziosa materia per trasformarla poi in caldi indumenti per i soldati.
Gli alunni si sono offerti con entusiasmo di andare per le famiglie a fare la raccol-
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“15 dicembre: gli alunni, tutti indistintamente, hanno voluto preparare una letterina
d’augurio per i soldati; ognuno ha cercato di esprimere la propria ammirazione ed il
fraterno affetto verso i nostri bravi soldati. Abbiamo scritto anche a nome del Fascio
di Villaga a tutti i richiamati o in servizio di leva del paese di Belvedere”.
(Lucinda Testa)
“18 dicembre: il Natale ci trova un’altra volta in armi, al nostro posto di dovere. Ho
fatto scrivere agli scolari parecchie lettere di augurio ai soldati lontani. Un augurio
vasto e commovente che abbraccia tutti i nostri combattenti”.
(Maria Oliviero di Villaga)
Anno 1942
“22 gennaio: arriva qualche lettera di risposta dei soldati che hanno ricevuto gli
auguri dagli alunni di Belvedere. Tutti si dimostrano molto riconoscenti per il gentile
pensiero e desiderosi di ricevere ancora notizie. Questi bravi giovani comunicano una
grande fede ed entusiasmo per la difficile impresa in cui sono impegnati. Gli alunni
si sono presi a cuore questa corrispondenza e spontaneamente rispondono con vero
sentimento”,
(Lucinda Testa)
“11 febbraio: la conciliazione fra lo Stato e la Chiesa avvenuta per volontà del Papa
Pio XI e di Benito Mussolini è un evento importante. Abbiamo fatto la celebrazione
in classe, ricordando il fatto storico sul quaderno della Patria”.
(Maria Oliviero)
“22 dicembre: prima delle vacanze gli alunni hanno scritto una lettera a tutti i soldati. Ai combattenti della Russia, a nome del Fascio e delle scuole, fu spedito anche
un pacco”.
(Matilde Dani)
Anno 1943
“3 aprile: anche nella scuola si respira l’atmosfera di ansia e di aspettazione che
anima le famiglie di questo paese. Di giorno in giorno arriveranno i reduci della
Russia; tra i bambini qualcuno attende qualche parente”.
(Libera Furlan di Villaga)
275
CAPITOLO UNDICESIMO
IL FASCISMO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE RACCONTATI DALLE MAESTRE
Anno 1944
“9 ottobre: inizio l’insegnamento nelle classi terza e quarta a me affidate con l’orario al
pomeriggio dalle ore 13 alle ore 17. Le lezioni vengono impartite in una stanza provvisoria poiché le scuole di Belvedere sono occupate dai soldati”.
(Giovanni Resina di Belvedere)
“1 aprile: l’azione dei bombardieri si è intensificata; rumore frequente, più nervosismo
ed assenteismo dalla scuola. Si prevede che tale situazione non possa continuare per
molto ancora. Quale sarà il prossimo avvenire? I fatti bellici dimostrano che gli eventi
precipiteranno”.
(Libera Furlan)
“10 novembre: il primo giorno di lezione fu il 6 novembre. Non fu possibile iniziare prima
per mancanza di locale. L’aula unica è una cucina e dista dal centro del paese Km 2. A
causa di tale distanza e per il timore di mitragliamenti aerei ci sono pochi frequentanti. Le
classi vengono alternate. Gli iscritti della Scuola del lavoro sono 43 e i frequentanti 12.
(Matilde Dani)
“2 aprile: si sono riprese le lezioni; la frequenza lascia sempre molto desiderare per la
paura dei mitragliamenti. Anche quelli che frequentano, quando passano gli aerei, si
agitano e sono presi da gran timore”.
(Matilde Dani)
“19 aprile: E’ impossibile continuare la scuola! Le truppe tedesche sono in ritirata; tutto
è sconvolgimento, tutto è disordine. Attendiamo”.
(Libera Furlan)
“13 novembre: da pochi giorni abbiamo iniziato le lezioni in Villaga. Il nostro edificio è
stato occupato dalle truppe tedesche ed ora ci troviamo in una stanza di una casa di campagna, in località Oche. Non è l’ambiente più adatto per la sua umidità e per la sua
posizione esposta ai colpi dei bombardieri che tentano di colpire la vicina linea ferroviaria”.
(Libera Furlan)
“25 aprile: nessun alunno si presenta a scuola; il fronte si avvicina. Alcuni sfollano perché temono che qui si faccia resistenza. C’è qualche preparativo e grande movimento di
truppe tedesche”.
(Matilde Dani)
“20 novembre: siamo sprovviste di tavola nera. Sono adoperate tutte dalle truppe tedesche
per la scuola degli allievi ufficiali. Più volte mi sono interessata personalmente per ottenerne una. Mi rispondevano che siamo in guerra, che ci sono cose che interessano più
della scuola di Villaga”.
(Matilde Dani)
“5 maggio: passata è la tempesta. La scuola non l’abbiamo ancora ricominciata. Gli
Americani sono giunti improvvisamente nei nostri paesi alle spalle dei tedeschi, i quali
furono nell’impossibilità di opporre qualunque resistenza. Dobbiamo ringraziare Iddio
con sconfinata riconoscenza e ciò vorrò farlo comprendere ai miei alunni appena potrò”.
(Libera Furlan)
“1 dicembre: siamo state invitate a raccogliere offerte per i profughi e i sinistrati della
Provincia, rivolgendoci anche presso le famiglie più facoltose. Tutti hanno risposto generosamente e questo mi ha fatto tanto piacere perché dimostra che, fra tanto odio di partito, il popolo ha il cuore buono e sente pietà per chi soffre”.
(Matilde Dani)
“10 maggio: torniamo a riprendere le lezioni dopo il passaggio della guerra che, grazie
a Dio in questa zona non ha avuto conseguenze dannose. Molto panico e nulla più”.
(Matilde Dani)
Anno 1945
“1 marzo: i bombardieri ci visitano continuamente; i bambini sono distratti e mentre seggono sui banchi corrono con la fantasia a ciò che potrà succedere non molto lontano.
Parecchie mamme non mandano più i loro figli a scuola e hanno ragione”.
(Libera Furlan)
“15 maggio: riprendiamo le lezioni dopo la risoluzione della guerra, e sembra quasi un
sogno di ritrovarci a scuola tutti sani, per grazia di Dio, dopo quelle giornate burrascose. I fanciulli hanno da raccontare le proprie esperienze e molto difficile riesce il richiamo della loro mente alla vita scolastica”.
(Matilde Dani)
“2 marzo: la frequenza è sempre oscillante ed il profitto, che anche da questa dipende, è
molto scarso. Il pericolo per le incursioni è abbastanza grave anche qui a Belvedere, perciò non posso insistere presso le famiglie perchè mandino i piccoli, specialmente quelli che
stanno nella borgata un po’ discosta denominata Quargente”.
(Lucinda Testa)
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277
Fine anni ‘50: le maestre Dani e Munari premiate in occasione del’addio alla professione di insegnanti.
Scolaresca di Villaga
Soldati di Villaga della Seconda Guerra Mondiale.
278
CAPITOLO DODICESIMO
TESTIMONIANZE
1. LE 98 PRIMAVERE DI UMBERTA DE MARCHI,
VEDOVA TOGNETTI
Umberta De Marchi, vedova Tognetti, classe 1909, con i suoi 98 anni portati
magnificamente, è la persona più longeva abitante nel nostro Comune.
E’ quindi la memoria storica del paese, grazie anche ad una lucidità ancora
intatta.
Nata a Toara il 16 maggio 1909 da
Giovanni e Anna, frequentò l’asilo
infantile assieme alla sorella Maria,
che poi in età adulta si fece suora.
Andò poi alla scuola elementare ed
ebbe come maestra la zia Edelinda
Campesato, figura carismatica che
insegnò per 35 anni a Toara.
A quel tempo, siamo negli anni
della grande guerra, era parroco
don Agostino Ancetti, oramai molto
anziano, che era coadiouvato da un
giovane cappellano di nome
Giuseppe Sgarbossa.
“Berta” ricorda che andava a lezione
di canto in chiesa; Toara infatti aveva
una grande tradizione nel canto
liturgico grazie anche all’attenzione
dei parroci che sostenevano tale
iniziativa.
Poi, subentrò alla guida della parroc- Umberta De Marchi fotografata vicino all’altare della
chia, a partire dal 1919, don Pietro Chiesa di Villaga.
279
CAPITOLO DODICESIMO
TESTIMONIANZE
Vigolo, di cui Berta ricorda il carattere allegro, scherzoso, gioviale. Allora i
ragazzi erano molto uniti tra loro, giocavano nella piazza, nelle piccole corti
delle case e amavano fare passeggiate sul monte sopra Toara e verso le
Riveselle. I punti di riferimento erano il bar di Giuseppe Pagliarusco, dove gli
adulti e gli anziani giocavano a bocce, e il lavatoio pubblico dove le donne lavavano la biancheria; c’era anche un piccolo lavatoio in cui i bambini si divertivano a giocare con l’acqua.
Berta rammenta con piacere le contessine Amalia e Antonietta a cui era molto
affezionata, il conte Giulio Conti Barbaran, molto generoso e disponibile verso
tutti. Allora la vita economica del paese di Toara gravitava sulla villa e quasi tutti
gli uomini erano al servizio del conte. Tra la gente si respirava il clima di una
grande famiglia e i conti hanno sempre operato con molto rispetto e benevolenza conquistandosi la stima dell’intero paese.
Il 29 dicembre 1934 Berta ha sposato Rino Tognetti, di professione falegname,
ed è andata ad abitare a Villaga, vicino alla Commenda di S. Silvestro. Sin da
giovanissima imparò l’arte della sarta: per lei cucire, ricamare, confezionare
abiti era una vera e propria passione; nella sua casa aveva attivato un laboratorio di sartoria in cui lavoravano varie giovani per luogo.
Poi, all’età di 47 anni ha conosciuto un momento molto difficile: una grave
malattia ai reni, durante il periodo della seconda guerra mondiale, rischiò di
portarla alla morte. Operata d’urgenza, le fu asportato un rene e fu la sua
salvezza. Consapevole di aver ricevuto una grazia, pensò di far voto alla
Madonna delle Neve che l’avrebbe sempre servita. Da allora si occupa dell’oratorio posto nei pressi della chiesa e prega ogni giorno la Madonna recitando
il Rosario.
Attualmente trascorre serenamente le sue giornate lavorando a ferri, a uncinetto e con la macchina da cucire; inoltre dedica le sue attenzioni al giardino e ai
fiori che rendono bella la sua casa, nella quale vive con il figlio Gianni e la
nuora Gabriella.
Gervasio Bruttomesso, nato a Villaga il 25 dicembre 1920, è attualmente l’ultimo testimone nel Comune di Villaga della tragica epopea della guerra sul Don
e della ritirata dalla Russia.
Nel novembre 1940, Gervasio venne arruolato nel Battaglione Val Leogra, della
Divisione Julia, 9° reggimento, e mandato a combattere in Albania. Passato
come rinforzo al 14° Battaglione Val Sella, venne inserito in una squadra di
pronto intervento che aveva il compito di resistere al ripiegamento del fronte
greco. Colpito da una affezione epatica, nel giugno 1941 fece ritorno temporaneamente in Italia dove fu curato nell’ospedale di Riccione Qui ricevette la
visita del duce, Benito Mussolini, che
passò a salutare i soldati convalescenti che vi erano ospitati.
Dopo essere rientrato al Corpo, a
Gorizia, aggregato al 9° Reggimento
Alpini, nell’agosto del ’42 partì per il
fronte russo. Arrivò in Russia con un
interminabile viaggio in tradotta,
compiuto
attraverso
l’Austria,
l’Ungheria, la Polonia, per giungere a
Kiev e a Jsjum. Poi altri 250 chilomentri di marcia, a piedi, fino al Don
dove arriva alla metà di settembre.
Qui il Corpo d’armata alpino aveva
ricevuto il compito di presidiare la
fascia compresa tra Nowopo Kalitwa
e Pawlowsk, nella parte sinistra dello
schieramento dell’Armir. Il 6 ottobre i
Gervasio Bruttomesso all’eta di vent’anni.
Sovietici sferrarono un violento
attacco ma vennero respinti. Le penne nere si accinsero quindi a rafforzare il
loro schieramento realizzando una fitta rete di trincee, caposaldi, camminamenti, posti di osservazione e baracche, anche in vista di passare l’inverno sulle
rive del Don.
In seguito, l’11 dicembre iniziò il grande attacco delel truppe russe. Quattro
giorni dopo, il 15 dicembre, l’83^ compagnia cannoni, di cui fa parte Gervasio
Bruttomesso, venne trasferita come gruppo di pronto intervento a Selenij Jar,
vicino a Rossosch. Qui, ricorda Gervasio, ingaggiammo una durissima battaglia
campale con attacchi e contrattacchi, incursioni e attraversamenti del fiume
Don ghiacciato, che durò più di un mese. Fu uno scontro terribile, con l’uso
anche dei cannoni, che provocò migliaia di morti, tra cui i due fratelli Maccà di
Ponte di Mossano. Uno di questi, con la slitta lo portammo fuori dal campo,
orribilmente schiacciato dai carri russi.
A seguito dello sfondamento del fronte a nord e a sud, nel gennaio 1943 le
truppe italiane cominciarono a ritirarsi dalla sacca del Don. Per lo sbandamento provocato dagli incessanti attacchi dei Russi, Gervasio perse contatto con la
sua compagnia. Dopo alcuni giorni, vagando qua e là, riuscì a inserirsi nel
Battaglione Vicenza.
Gervasio ha ancora impresso nella memoria quel terribile inverno trascorso tra
i combattimenti, gli stenti per la fame e i rigori del freddo. Egli racconta che
“una sera mi sono tolto gli scarponi; avevo i piedi congelati che si erano gonfiati
e così non sono più riuscito a calzarli. Ho dovuto fasciarmi i piedi con pezzi di
coperta e così ho camminato per una quarantina di giorni. Un mio commilitone
280
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2. GERVASIO BRUTTOMESSO,
L’ULTIMO REDUCE DELLA CAMPAGNA DI RUSSIA
CAPITOLO DODICESIMO
TESTIMONIANZE
e compaesano, Luigi Tognetti, un giorno mi ha portato sulle spalle per qualche
chilometro perché, per il dolore ai piedi, non riuscivo più a camminare. Una
sera, stanchi morti, abbiamo sfondato la porta di un’isba; dentro abbiamo trovato una quarantina di donne e bambini. Ci hanno cucinato un pollo che avevamo
preso in un villaggio vicino. Tutti i villaggi erano occupati solo da donne e bambini e vi regnava un’enorme povertà; da mangiare c’erano solo patate e semi di
girasole”.
Un giorno del gennaio 1943, durante uno scontro a fuoco con i sovietivi,
Gervasio e alcuni suoi compagni, rifugiatisi in un’isba, vengono attaccati a
colpi di mitragliatrice: “una pallottola mi colpisce al ventre, ma si tratta di una
strisciata superficiale, senza neppure il bisogno di essere disinfettata. Avevo in
tasca una forchetta che ha deviato il colpo, il rebbio di mezzo si è rotto ma mi ha
salvato la vita. Quella forchetta ora si trova conservata in un quadretto “per
grazia ricevuta”, all’interno della chiesetta della Madonna della Neve a Villaga, a
cui sono molto devoto”.
Bruttomesso ricorda poi la lunga marcia di trecento chilometri per uscire dall’accerchiamento di Nicolajewka e dalla sacca del Don; l’estenuante cammino
verso Karlov e la strada del ritorno con la tradotta.
dei corrieri, la ferratura anche più solida doveva essere sostituita per
l’inevitabile usura e per“incidenti di percorso”, quali il distacco di qualche ferro
o qualche danno allo zoccolo o all’”ongia”dell’animale. 1
Il Lavoro di maniscalco venne proseguito dal figlio Oreste il quale, col fratello,
aprì verso la fine degli anni ’50 una bottega artigianale nei pressi di Belvedere
dove, oltre al tradizionale lavoro di ferrare gli animali, si mise a forgiare il ferro
e a produrre attrezzi di vario genere. Divenne quindi “favaro”, ritenuto in passato un mestiere indispensabile e molto considerato in una società dove tutto
si faceva a mano. Oreste si distinse nel suo lavoro per ingegnosità, al punto da
brevettare un sarchiatore a carriola da utilizzare per il frumento, le barbabietole, le carote, e per altre coltivazioni, che riscosse molto successo. Nel
brevetto si legge che “si realizza un attrezzo agricolo atto a ripulire dalle erbe dannose la terra intermedia e a rigettare la terra a ridosso delle piantine stesse”.
Oggi Oreste è un tranquillo pensionato, il quale conserva ancora, al pianoterra della sua abitazione, gli attrezzi del mestiere: l’incudine sul quale forgiava il
ferro, una lunga serie di tenaglie che servivano a tenere il pezzo di ferro da
lavorare, i martelli, le mazze, la fucina dove veniva riscaldato il ferro, le forbici,
fino alle saldatrici e ai motori elettrici che, col progresso tecnologico hanno
compensato lo sforzo muscolare del fabbro, un lavoro nobile e antico quanto
l’uomo.
3. I FERRARI, UNA FAMIGLIA DI MANISCALCHI E DI FABBRI
I Ferrari di Toara, di professione maniscalchi, erano conosciuti in tutto il
Comune di Villaga. Fu Tiziano (classe 1895) a imparare l’arte del “feracavai” e a
lavorare nell’azienda di Pasquale Piovan e poi del figlio Gino, che a quel tempo
utilizzavano gli animali da tiro per il trasporto del materiale indispensabile per
fare la calce. Tiziano, all’età di vent’anni, venne chiamato alle armi e combattè
nella prima guerra mondiale sul
Carso, nella provincia di Gorizia.
Negli anni Venti trovò impiego
nella ditta Piovan, alla fornace,
dove aveva bottega e si occupava di ferrare il bestiame.
I maniscalchi, si può dire, a quel
tempo svolgevano la stessa funzione dei “meccanici” attuali,
solo che al posto del motore
delle macchine e dei camion, si
trovavano a lavorare sugli animali “da tiro” o “da trasporto”: I fratelli Ferrari Oreste e Giuseppe.
cavalli di varie razze, dai muli ai
“musi”, dai bò (buoi) alle vacche. E con le strade di campagna, che si dovevano
percorrere tra buche, sassi e polvere, dopo qualche mese, per le bestie da tiro o
4. ELETTRA MIGLIORANZA: MEMORIA STORICA DI BELVEDERE
Elettra Miglioranza, classe 1921, da sempre vive a Belvedere, perciò ha assistito ai fatti più significativi che hanno contraddistinto la vita della comunità a
partire dagli anni venti.
Il suo ricordo più lontano nel tempo è legato alla venuta delle nuove campane,
che ebbe luogo il 20 dicembre 1924. Le campane, volute da don Pietro Vigolo,
giunsero dalla stazione di Sossano portate su un carro trainato da alcuni buoi
e da un asinello, tutto bardato a festa, di Sante De Marchi.
I bronzi, provenienti da Verona, nel giro di pochi giorni vennero collocati nella
cella campanaria e cominciarono a suonare a distesa il 4 gennaio 1925, quando furono benedette nel corso di una solenne e molto partecipata celebrazione.
Altro ricordo impresso nella sua lucida memoria è l’inaugurazione della nuova
scuola elementare, avvenuto nell’ottobre 1929. Fu un fatto davvero importante
per la piccola comunità di Belvedere che, finalmente poteva contare su un edificio in grado di accogliere i tanti fanciulli che a quel tempo frequentavano la
scuola pubblica. Centri della vita economica a quel tempo era la tenuta del
Castello e la grande fattoria della famiglia Cengiarotti, dove lavoravano parecchi braccianti del paese.
1 E. Borsatto, La lavorazione dei metalli (I maniscalchi), in Mestieri e saperi fra città e territorio, Banca Popolare
Vicentina, Neri Pozza editore, 1999, pag. 372
282
283
Primi anni del ‘900: la strada che porta alla chiesa e all’interno delle mura del Castello di Belvedere.
CAPITOLO DODICESIMO
I riferimenti della vita sociale erano
invece rappresentati dalle osterie:
Elettra ne ricorda due: quella di
Campedel Remo, poi rilevata da
Graziosa Corrà che la trasformò in trattoria; quella di Crivellaro Adelchi.
Erano poi presenti in paese tre negozi
di generi alimentari i cui titolari erano:
Menegon Emma, Brognara Augusta e
Miglioranza Giulio.
Elettra, sin da giovanissima, profuse le
sue migliori energie al servizio della
parrocchia e della chiesa di Belvedere.
Si dedicò infatti all’insegnamento della
dottrina cristiana, alla divulgazione
della “buona stampa”, all’animazione
dei gruppi di Azione Cattolica che
negli anni Quaranta avevano cominciato a muovere i primi passi.
Assistette poi all’erezione della curazia
Anni ‘40: le sorelle Elettra e Vanda.
nel 1943 e alla venuta del primo curato, don Ciro Ellero, poi alla fine del ’45 giunse don Giosuè Billo che profuse le
sue energie nell’abbellimento della chiesa e nella creazione di nuove strutture
quali la canonica e l’asilo infantile.
Elettra ricorda anche la gioia dei parrocchiani di Belvedere all’annuncio del
decreto di costituzione della nuova parrocchia ad opera del vescovo Zinato, nel
novembre 1953. Don Giosuè guidò la parrocchia di Belvedere per 35 anni, fino
al 1980, ed ebbe sempre al suo fianco Elettra che lo sostenne in tante iniziative,
assieme al sagrestano Gino“Ciavin”(Muraro) e a tanti altri che concorsero a far
crescere
moralmente e spiritualmente la comunità.
Ancor oggi Elettra è
sulla breccia, più
attiva che mai,
ancora desiderosa
di rendersi utile per
il bene della parrocchia e dei suoi
fedeli.
Anni ‘40: veduta della piazza di Belvedere con al centro il vecchio olmo sotto il quale
vi era una panchina in pietra.
286
CAPITOLO TREDICESIMO
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
1. CAPPELLA MADONNA DELLA NEVE
Nei pressi di Villaga sorge un piccolo sacello dedicato alla Madonna della Neve,
che secondo il Maccà rappresentata un’antica cappella del Monastero di
Ognissanti delle monache Umiliate. Lo storico, parlando di Villaga scrive:
“Trovasi pure in questa villa un piccolo oratorio dedicato alla Madonna della Neve
delle monache di Ognissanti di Vicenza, posto poco distante dalla medesima parrocchiale”1. Probabilmente alla cappella era collegata una costruzione assai nobile,
che costituiva il centro amministrativo delle proprietà del convento di Ognissanti
che a Villaga possedeva terreni e case. L’origine non è nota: il titolo è comunque
abbastanza antico e frequente in cappelle o chiese edificate nel corso del XV-XVI
secolo.
La notizia più antica riferita alla chiesetta è la visita pastorale del vescovo
Michele Priuli (Archivio della Curia di Vicenza,Visitationes, b. 4 / 0556), il quale,
il 1° ottobre 1583, dopo aver visitato la chiesa parrocchiale, si recò anche al sacello dedicato alla Madonna della Neve che aveva un unico altare marmoreo non
consacrato. Ordinò di fornirlo di candelabri decenti da collocare nell’altare che
conservava l’antica immagine della Madonna; poi prescrisse di fornire la chiesetta di una stola, un calice, una pianeta e un messale riformato.
Più tardi, nel 1645, il Vicario generale Giuseppe Zaghio visitò la chiesetta
(Visitationes, b. 8 / 0560) intitolata alla Beata Vergine Maria e ordinò che la mensa
dell’altare fosse coperta con una tela cerata e nella parte superiore fosse posto un
piedistallo. Ordinò pure di apporre sopra il frontespizio del sacello una croce e
nell’oculo e nelle finestre delle grate di protezione.
In una successiva visita del 1790, il vescovo Marco Zaguri sospese l’altare, ordinando che fosse provvisto di una nuova pietra sacra (Visitationes, b. 20/0572).
La chiesetta, agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso, si trovava in precario
stato di conservazione.
1 G. Maccà, Storia del territorio vicentino, tomo IV, pag. 345
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CAPITOLO TREDICESIMO
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
Il nuovo parroco don Tito Meneguzzo si prese a cuore le sorti del cadente oratorio
e lo fece restaurare nel 1935 con l’aggiunta del pronao.
Da allora, ogni anno, il 5 agosto la comunità cristiana di Villaga si raccoglie attorno
alla chiesetta per rinnovare i voti fatti nel 1935 ( per invocare la pioggia ) e nel 1944
( per chiedere la protezione dei soldati villaghesi e della popolazione dagli orrori
della guerra).
In tempi più recenti, nel 1987, l’oratorio è stato restaurato grazie all’intervento di
numerosi parrocchiani e degli alpini, e al contributo dell’Amministrazione comunale che ha permesso anche la sistemazione del vicino piazzale.
Oggi il piccolo sacello presenta un vano rettangolare con tetto a capanna preceduto da un grazioso portico, caratterizzato da quattro colonne che sostengono un
ben proporzionato frontone triangolare nel quale è collocata una lapide che reca
la dedicazione alla “B. Mariae V. ad Nives”.2
A occuparsi amorevolmente della chiesetta è “ Berta”Tognetti, una arzilla ultranovantenne molto legata alla Madonna della Neve a cui è riconoscente per le grazie ricevute
coloso che, secondo la tradizione, precedette la fondazione della grande basilica
di Santa Maria Maggiore di Roma. Narra infatti una leggenda popolare che,
durante il pontificato di Papa Liberio, un nobile senza prole e molto ricco, un certo
Giovanni, pregò la Madonna di indicargli il modo di onorarla. La notte precedente il 5 agosto 352, mentre il caldo estivo opprimeva Roma, Maria apparve al
devoto patrizio e gli disse di far erigere un santuario sul luogo ove al mattino
seguente sarebbe caduta la neve. Anche il papa Liberio ebbe la medesima visione.
E quando al mattino si vide biancheggiare di neve l’Esquilino, il papa, insieme con
il clero e il popolo, si recò in processione sul luogo del miracolo e vi tracciò le linee
di quella basilica che dapprima fu chiamata Liberiana, poi S. Maria al Presepio, a
motivo della mangiatoia, culla di Gesù, che vi conserva, ed infine S. Maria
Maggiore, la più grande e più importante delle basiliche dedicate alla Madonna.
Grazie alla divulgazione orale del fatto, la devozione alla Madonna della Neve si
diffuse in ogni angolo del mondo cristiano raggiungendo sia le grandi città che le
località più sperdute. E, in forza della venerazione del culto della Madonna,
sorsero cappelle, chiese, santuari che richiamano il miracoloso avvenimento.
IL CULTO DELLA MADONNA DELLA NEVE
2. VILLA BARBARAN, CONTI, PIOVENE PORTO GODI
L’oratorio di Villaga è dedicato alla Madonna della Neve, una titolazione presente
in altri centri del nostro territorio (a Campiglia dei Berici, a Lumignano, a Villa di
Fimon, ad Altavilla, a Spessa di Cologna Veneta) e collegata a un evento mira-
Situata nel cuore di Toara, piccolo borgo di 250 anime, villa Barbaran Conti
Piovene Porto Godi è uno splendido complesso architettonico che ha mantenuto nel tempo la sua vocazione originaria di villa di campagna, perfetta-
Chiesetta della Madonna della Neve.
Villa Piovene Porto Godi a Toara.
2 G. - N. Garzaro, Santa Maria ad Nives del Pavarano in Campiglia dei Berici, Parrocchia di Campiglia, 2004,
pag. 27
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CAPITOLO TREDICESIMO
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
mente inserita nel territorio e funzionale al lavoro dei campi.
Il Cevese scrive che “la sua posizione, lontana dalle strade di traffico,
l’ha preservata fino ad oggi dagli insulti dell’uomo moderno e anche le
lunghe praterie – che corrono tra l’altura del castello di Belvedere e il
colle che si spinge fino ad Orgiano – hanno la bellezza che è della natura ancora intatta”.3
“La villa – osserva Verlato - , assieme alla semplice chiesa e al compatto borgo
di Toara, costituisce un quadro di invidiabile bellezza, tipica dell’ambiente dei
Berici, anche se sconsiderati interventi (una cervellotica piazza e recenti alterazioni edilizie) hanno portato un tocco di presunta modernità”.4
Il complesso fu edificato verso la fine del Cinquecento da Flavio Barbarano
che trasformò il vecchio edificio rurale in palazzo, circondò di mura il brolo e
costruì nel 1602 il maestoso portale bugnato che ancora oggi accoglie chi arriva in paese dallo stradone dell’Albaria. Posta nel lato a nord della corte, la
villa si eleva su tre livelli e presenta una facciata impreziosita da un’ampia
scalinata e da una porta di accesso con profili a bugna, sopra la quale spicca
lo stemma nobiliare dei conti Barbarano. Ai lati del portale si aprono simmetricamente le sei finestre del piano nobile, rettangolari, trabeate e con fregio
pulvinato. In corrispondenza con le finestre del primo piano si trovano al secondo e nel sottotetto altrettante finestre rettangolari, con cornice modanata,
e quadrate, con cornice piatta”.5
Purtroppo la villa ha subito gravi manomissioni nell’Ottocento, segnalate dal
Cevese; pertanto è stata in parte alterata la primitiva fisionomia cinquecentesca, di cui comunque rimangono elementi architettonici significativi.
All’interno, sono degni di nota l’originale pavimento del salone d’entrata, la
sala centrale e l’ultimo vano a sinistra, altissimo e coperto da volta, che, secondo il Cevese, faceva parte di una torre, poi inclusa nella costruzione
cinquecentesca.6 Ciò è avvalorato dall’analisi delle mappe rinvenute
nell’Archivio di Stato di Venezia che documentano la situazione della villa
prima e dopo la ristrutturazione e l’ampliamento del nucleo primitivo.
Il complesso di fabbricati, disposto a “U”, oltre alla villa, si articola in due
barchesse, quella di destra più elaborata, con travature in legno, probabilmente del Seicento, collegata a rustici che delimitano la corte; quella di sinistra con un lungo portico a colonne tuscaniche che si affaccia sulla strada
ed è affiancato dalla cappella gentilizia di cui parleremo in seguito.
Degno di nota è poi il giardino, un tempo famoso per la presenza di una ricca
cedraia (ora non più esistente), posta sul lato sinistro e protetta da un’alta
mura.
Attualmente la villa è sede dell’azienda agricola “Piovene Porto Godi
Alessandro”, di proprietà dei fratelli Tommaso e Marioantonio Piovene.
3 R. Cevese, Ville della provincia di Vicenza, Milano 1971, pag. 546
4 A. Verlato, Villa Piovene Porto Godi in località Toara di Villaga, in Villaga: in cerca del tempo perduto, Gruppo
culturale Villaga, 1990, pag. 6
5 AA.VV, Ville venete: la provincia di Vicenza, Istituto regionale ville venete, Marsilio, 2005, pag. 586
6 R. Cevese, Ville della provincia di Vicenza, pag. 546
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3. ORATORIO DI SAN GIORGIO
L’oratorio dedicato a San Giorgio, patrono della parrocchia di Toara, è un piccolo sacello che appartiene al complesso di villa Piovene Porto Godi a Toara .
Nel 1701 venne eretta la cappella gentilizia intitolata a San Giuseppe, come
segnala lo storico Gaetano Maccà 7. Più tardi, nel 1839, il parroco don Antonio
Oratorio di San Giorgio di Toara.
Costalunga scriveva in una nota8 che l’oratorio di S. Giuseppe, di proprietà del
nob. Marzio Conti Barbarano, è dal medesimo decentemente provveduto. Tale
giudizio veniva confermato nel 1861 dal parroco don Antonio Pagani, il quale
osservava che tale oratorio è sufficientemente provveduto.9
Alla fine dell’Ottocento, e precisamente nel 1899, un altro parroco, don
Agostino Ancetti, nella relazione per l’imminente visita pastorale del vescovo
Feruglio, scriveva che l’oratorio di S. Giuseppe, di proprietà del conte Giulio
Conti Barbarano, è in buono stato e bene provveduto di arredi sacri per la S.
Messa.10
7 G. Maccà, Storia del territorio vicentino, tomo IV, pag. 335
8 Arch, Curia Vicenza, Stato delle Chiese, Toara b. 307
9 Ibidem
10 Ibidem
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CAPITOLO TREDICESIMO
Poi , agli inizi del Novecento, la chiesetta venne intitolata a San Giorgio, ( il
santo che, secondo la leggenda, nel terzo secolo dopo Cristo uccise il drago che
terrorizzava la Libia e si lasciava placare solo da sacrifici umani) e officiata dal
parroco di Toara che celebrava la messa almeno una volta alla settimana .
Nella facciata, prospiciente alla strada, si apre il semplice portale inquadrato da
una cornice in pietra e sormontato da una finestra ottagonale e da un timpano.
Sulla cornice della porta d’ingresso è impressa l’epigrafe: A .DNI M DCCI XXV
OCTBIS ( “Anno del Signore 1701 25 ottobre”, riferito alla data di erezione
della cappella ).
Nell’interno, ad un’unica navata, si osserva un altare in pietra sul quale è posto
un vetusto tabernacolo di legno che regge un bel crocefisso e due oggetti contenenti piccole reliquie. Sulla parete sinistra è appesa una tela piuttosto deteriorata raffigurante il martirio di San Sebastiano. Altri due dipinti, fino a
qualche tempo fa, ornavano le pareti, ma sono stati portati all’interno della villa
per il timore di eventuali furti. Completano l’arredo dell’oratorio due file di
banchi che permettono ai fedeli di seguire in modo più comodo le celebrazioni
(ora piuttosto rare). Sulla sinistra, da una porta si accede alla piccola sacrestia
in cui è conservato un mobile utilizzato per contenere gli abiti talari.
All’esterno, sul tetto, spicca il campaniletto a vela, con due piccole campane,
collocato sulla parte sinistra dell’edificio. Infine, sul retro dell’oratorio appare
un fregio, che un tempo riportava lo stemma della famiglia Barbarano, ora non
più visibile. La chiesetta è stata restaurata di recente nella parte esterna e ritinteggiata.
4. VILLA PALMA BEDESCHI
Sopra l’abitato di Villaga sorge una nobile costruzione risalente alla fine del
Settecento: si tratta di villa Palma Bedeschi, più nota come la Commenda
di S. Silvestro, di cui abbiamo parlato diffusamente a proposito degli ordini religioso-cavallereschi presenti nella nostra zona nel Medioevo
(Templari e Cavalieri di Malta in particolare).
L’artistico edificio, risalente al 1790, a cui si sono aggiunti interventi ottocenteschi, insiste su strutture più antiche, della fine del XIII secolo, utilizzate come ospizio per l’accoglienza e la cura di pellegrini, infermi e persone povere. Attualmente è di proprietà del dott. Guido Bedeschi che,
assieme alla compianta signora Eugenia Palma, riscattò la Commenda da
un degrado che sembrava irreversibile, tanto da costituire uno degli esempi di restauro più ragguardevoli dell’Area Berica – ha osservato Verlato in
un suo scritto.11
Il complesso si sviluppa in due corpi adiacenti che racchiudono una piccola corte su cui si affaccia, sul lato nord, un portico, mentre nel lato a sud è
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
Villa Palma Bedeschi.
presente un piccolo edificio oggi adibito a deposito.12 Il prospetto orientale
della villa è caratterizzato da un’ampia terrazza balaustrata rivolta verso la
strada, da una porta al piano terra, da un balcone balaustrato al piano
superiore, sopra il quale si eleva un piccolo frontone triangolare. Nel lato
nord si osserva una torretta cilindrica coronata da una merlatura, alla cui
destra si apre un portale sormontato dallo stemma rovesciato dei
Templari.13 All’interno è degno di nota il portico con due colonne tuscaniche che sostengono un lungo architrave ligneo, che un tempo era
adibito a sala da ospizio.
Sulla facciata meridionale dell’edificio, che guarda verso il giardino, è dipinto lo stemma dei Cavalieri di Malta raffigurato da una croce di pace ad
otto punte.
Un antico acquedotto in cotto, proveniente dalle sorgenti di S. Donato,
riforniva di acqua l’antica mansione, mentre ora è utilizzato per le fontane
del giardino.14
Davanti alla villa, dall’altro lato della strada, si erge un edificio rustico
costruito attorno alla metà dell’Ottocento. Il complesso era poi collegato
alla chiesa di S. Silvestro, che si trovava discosta circa duecento metri dal
complesso di edifici che un tempo rappresentavano la “Domus hospitalis”.
11 Villa Palma Tedeschi, detta la Commenda a Villaga, in Villaga: in cerca del tempo perduto, Gruppo culturale
Villaga, 1990, pag. 4
12 Villa Commenda dei Templari, dei Gerosolimitani, dei Cavalieri di Malta, Chemin, Palma Bedeschi, in Ville
venete, la provincia di Vicenza, Istituto regionale delle ville venete- Marsilio, 2005, pag. 629
13 Ibidem
14 A. Verlato, Villa Palma Bedeschi…, pag. 5
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CAPITOLO TREDICESIMO
5. VILLA BARBARANO DETTA IL CASTELLO
La villa cinquecentesca, un tempo dei conti Barbarano, detta il
Castello15, si trova sulla sommità di una modesta altura alle pendici
meridionali dei Colli Berici, nel paesino di Belvedere. L’antico edificio è
al centro di una vasta proprietà costituita da 59 ettari di terreno, di cui
oramai più della metà coltivati a vigneto, circondati da antiche mura in
pietra. Il complesso architettonico si sviluppa attorno ad una corte con
aia ed ha una forma ad elle. E’ costituito dalla villa padronale e da
annessi rustici.16
Villa Barbarano detta il Castello di Belvedere.
Purtroppo il Castello subì nell’aprile 1945 gravi danni in seguito ad un
incendio appiccato dai tedeschi in fuga. La sua ricostruzione, intrapresa negli anni successivi, ha profondamente alterato l’assetto degli edifici, come denunciato a suo tempo dal Cevese17, il quale ha precisato che
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
nè la facciata verso la valle, nè i due lati sul cortile hanno mantenuto la
loro fisionomia originaria.
Il prospetto principale della villa è rivolto verso l’esterno della corte: vi
si accede da una scalinata a doppia rampa, con balaustre in pietra, che
porta alla loggia di ingresso chiusa da vetrate e sostenuta da pilastri
dorici scanalati, frutto della ricostruzione della fine degli anni Quaranta
del secolo scorso, che ha alterato la facciata.18
Fra la nobile dimora e il rustico ad est, si eleva una torre merlata, sorta
per scopi militari, ma che poi probabilmente è stata trasformata in torre
colombara.19
All’interno, il salone ad oriente del cortile risulta molto basso; il Cevese
lo spiega col fatto che esso fu ridotto in altezza per creare maggior
spazio al granaio.20 In fondo al salone, poi si raggiungono due sale che
non sono state danneggiate dalle fiamme: questi vani conservano ancora dei fastosi stucchi, attribuiti dallo Zorzi a Lorenzo Rubini.
Completano i fabbricati gli annessi rustici che si compongono di
un’abitazione rurale e di due grandi corpi di fabbrica a forma di elle,
uno dei quali con grande barchessa, e che sono serviti, nel corso degli
anni, come ricovero per gli animali, come cantine e depositi per le
attrezzature agricole.21
La costruzione della villa risale alla seconda metà del Cinquecento,
probabilmente a partire dal 1569, data incisa nel maestoso portale di
ingresso al viale che porta al Castello. Sconosciuto è invece l’architetto
della villa. Cevese ipotizza un collaboratore del Palladio, vale a dire
Domenico Groppino che ebbe un ruolo importante anche nella vicina
chiesa di S. Antonio abate, un tempo oratorio del Castello; oppure non
esclude possa trattarsi di un intervento di Giandomenico Scamozzi. 22
Ora il Castello racchiude i retaggi di storia minore, cioè vissuta dalla
gente del luogo, dedita ancora oggi all’agricoltura. I muri del corpo
principale e della barchessa sono ricoperti quasi del tutto da foglie di
viti americane, che pare vogliano suggellare col verde persino il fulcro
del sito, avvolto – nelle belle stagioni – dal verde dei vigneti e degli
ippocastani che fiancheggiano il viale. 23
Sino agli anni ’60 del secolo scorso, il Castello era dimora di famiglie,
invece ora è adibito esclusivamente ad azienda vitivinicola (ne è proprietaria la “Tenuta Castello di Belvedere”).
15 Tale denominazione viene attribuita al fatto che la villa è posta sulle fondamenta di un antico castello o torre
fortificata, risalente al XIII secolo; per saperne di più consigliamo il saggio di Giorgio Cichellero,Villa Barbarano
Castello di Belvedere, contenuto nell’opuscolo “Villaga: in cerca del tempo perduto”, edito dal Gruppo culturale Villaga; altra opera molto documentata è il volume di Maria Grazia Bulla Borga, I nobili Barbarano Mironi
a Colloredo, Toara e Belvedere nel Cinquecento”, F.lli Corradin editori.
16 Tesi di laurea: “Villa Barbarano detta Il Castello, a Villaga”, di Luca Favaretto e Laura Tescaro, 1998, pag. 2
17 R. Cevese, Ville della provincia di Vicenza, pag. 545
18 Villa Barbarano, Vianello, Siva, Tenuta Castello di Belvedere, in Ville venete: la provincia di Vicenza, pag. 628
19 Ibidem
20 R. Cevese, Ville della provincia di Vicenza, pag. 545
21 Tesi di laurea: Villa Barbarano detta Il Castello a Villaga, pag. 105
22 R. Cevese, Ville della provincia di Vicenza, pag. 546
23 G. A Bertoli, Il Castello di Belvedere, in rivista “Veneto ieri, oggi, domani”n. 39.
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CAPITOLO TREDICESIMO
6. CASA BARBIERI
Percorrendo la strada da Villaga verso Toara per via Salgan, duecento metri
dopo casa Gasparini, il tracciato compie una curva ad angolo retto. Sulla destra
si imbocca una carrareccia che, in leggera pendenza, raggiunge l’abitazione
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
stemma di contea, scolpito in pietra, della nobile famiglia di Toara.
Nel 1920 l’edificio venne venduto a Luigi Brognara, fittavolo del tempo, e da
questi è poi passato alla nipote Lina.
La costruzione non ha subito alcuna ristrutturazione; possiede ancora un
impianto elettrico in cavi di cotone; l’impianto idraulico serve solamente la
stalla. La casa è dotata di un grande camino, attualmente usato per tutte le
necessità della famiglia. Vi è poi il cucinone, come una volta, il secchiaio, la
vetusta madia, le sedie impagliate e il tavolone in noce. A fianco dell’abitazione
si erge la stalla con un ampio portico sulla soglia del quale sta un cane nero,
come quelli che un tempo custodivano le greggi. Fuori, il cortile, affollato di
animali domestici che razzolano qua e là, e contraddistinto dalla presenza di
gelsi secolari.
Questo incontaminato “paradiso agreste”, poggiato sull’unghia del colle,
incute rispetto al visitatore ma al tempo stesso lo affascina e mantiene le
dovute distanze dalla civiltà, continuando l’antica funzione di sorvegliare la
pianura sottostante.24
7. FATTORIA ZONIN
Casa Barbieri, detta la Casa Rossa.
rurale di Mario Barbieri, denominata la “casa rossa”. Secondo alcuni riferimenti storici, nel XII secolo, nel luogo qui indicato, sorgeva una torre di avvistamento in quanto, nelle giornate serene e limpide, si domina gran parte della
pianura berico-euganea. Sui resti di tale
costruzione sorse in un secondo tempo una
casa colonica che ospitava braccianti agricoli.
Alcuni anni or sono, durante lavori di sistemazione di una parete è stato rinvenuto
un documento di sequestro, datato 1814: ciò
fa pensare che il fabbricato sia passato attraverso varie proprietà. E’ quasi certo che l’edificio e le terre circostanti, dal 1814, siano
entrate in possesso dei signori del luogo, i
conti Piovene (a quel tempo BarbaranoConti) e ciò è confermato dal fatto che sulla
della famiglia Conti Barbarano posto
facciata della casa è collocato proprio lo Stemma
sulla facciata di Casa Barbieri.
Lungo lo stradone che conduce a Toara, si osserva, alla
sommità di una modesta
altura
denominata
“il
Montesello”, un grande edificio ristrutturato, un tempo
appartenuto
ai
nobili
Barbarano.
Sulla facciata dell’antica fattoria è collocata un’iscrizione
che chiarisce la sua origine:
“Franciscus et Drusus fratres de
Barbaranis ob comoditatem Antica fattoria dei Conti Barbarano, ora Zonin.
agricola
a
fundamentis
erexerunt MDCLXXVII” (anno 1677). La casa colonica sorse quindi per far
fronte alle esigenze agricole della “possessione”, cioè di una proprietà con oltre
140 campi attorno.
La tradizione popolare racconta che anticamente questa costruzione abbia
ospitato un convento, che poi andò in rovina, e venne in seguito ricostruita dai
Barbarano. Sulla parete est dell’edificio è posto lo stemma nobiliare della
famiglia Conti-Barbarano, risalente alla metà del Settecento.
24 Le notizie storiche su questa costruzione sono tratte da un dattiloscritto del prof. Antonio Pozza, appassionato di storia locale
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CAPITOLO TREDICESIMO
Stemma della famiglia Conti Barbarano posto sulla parete
est del fabbricato.
Antico pozzo della fattoria Zonin.
Nel secolo scorso vivevano in questa ampia casa-fattoria quattro famiglie che
lavoravano i terreni per conto dei proprietari. L’edificio è stato completamente
ristrutturato ed oggi è di proprietà della famiglia Zonin.
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
risultato infatti che i muri furono eretti agli inizi del Quattrocento, mentre il portico in legno e la loggia vennero edificati un secolo più tardi. Più precisamente, analisi dendrocronologiche delle travi portanti del solaio inferiore hanno dato una
datazione del legno al 1506, per cui lo studioso Kubelik ha dedotto che la carpenteria fu montata fra il 1506 e il 1509.25
La casa, a pianta rettangolare, si eleva su tre livelli e presenta muri perimetrali molto
spessi. La facciata è contraddistinta, al piano terra, da un portico diviso da una
colonna con capitello a ovuli, scalpellato. Nella parte superiore si aprono due logge
sovrapposte con un piedritto in legno. Il prof. Cevese osserva che il profilo di questa villa non si articola, come nei contemporanei edifici gotici, in una torre a fianco
di un corpo orizzontale, ma si caratterizza in una cubatura altissima e stretta che
richiama le torri colombare del Quattrocento.26
Purtroppo negli anni ’40 del secolo scorso l’edificio venne spogliato dei suoi elementi scultorei più significativi; la mancata manutenzione ha poi portato ad un
progressivo degrado che sta mettendo a rischio la sopravvivenza di questo splendido esempio di architettura minore che merita la più attenta considerazione.
8. VILLA RASIA DANI
9. LA COLOMBARA DEL PARADISO
La casa più antica nel Comune di Villaga è certamente villa Rasia Dani, ora Lunardi,
che sorge nei pressi del sacello della Madonna della Neve, a un centinaio di metri
dalla chiesa parrocchiale.
E’ considerata una delle strutture architettoniche più singolari e antiche del
Vicentino: dallo studio condotto sulla muratura della parte destra dell’edificio è
Lungo via Paradiso, ai piedi del Monte Murlone, più comunemente chiamato
Castellaro, si eleva un’antica torre colombara di cui però manca una documentazione storica.
La tipologia di questa costruzione, chiamata la colombara del Paradiso, dal
toponimo del luogo, deriva dalle antiche torri di difesa che le famiglie nobili nel
La colombara Paradiso.
La quattrocentesca Villa Rasia Dani.
25 Villa Rasia Dani, Lunardi, in Ville venete: la provincia di Vicenza, Istituto regionale ville venete-Marsilio, pag. 589
26 R. Cevese, Ville della provincia di Vicenza, pag. 545
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CAPITOLO TREDICESIMO
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
Medioevo innalzavano a protezione della propria dimora e del territorio circostante. Essa è stata ben descritta dal compianto Antonio Verlato il quale
osservava che “le sue fondamenta strombate, insistenti su una base affiorante di
scaglia cretacica, chiaramente risalenti al periodo gotico, sostengono le alte pareti,
come nell’analogo esempio di casa Rasia Dani. Alcune finestre disimmetriche scandiscono i tre piani dell’alta torre, evidente riuso ad abitazione, probabilmente
avvenuto verso la fine del ‘600. A tale periodo infatti – sostiene Verlato – potrebbe
essere datato l’edificio contiguo, costruito appunto di servizio alla torre. Sormonta il
tetto un singolare pinnacolo in pietra, con croce in ferro. A lato si trova una barchessa con stalla, tipica del periodo ottocentesco.
Come altre simili costruzioni, un tempo alquanto numerose nella nostra zona, ancor
oggi testimonia la sua antica matrice di torre di difesa. Non è da escludere infatti che
sia stata luogo di avvistamento, a difesa del sovrastante castello vescovile, soprattutto per la sua posizione dominante verso la strada di accesso a Villaga, che proviene
dalla località Oche. Già della famiglia Baldisserotto, attualmente è di proprietà di
Renzo Faggionato”.27
Verlato concludeva auspicando uno studio più particolareggiato dell’intero
complesso che potrebbe riservare interessanti scoperte per una datazione più
sicura.
10. IL PORTICO DI CASA BRUTTOMESSO
I portici di Casa Bruttomesso Gervasio.
Tra gli edifici architettonici di maggior pregio nel nostro Comune si segnala il porticato di casa Bruttomesso , situato all’ingresso del paese di
Villaga. Due pilastri finemente sagomati e risalenti alla seconda metà del
secolo XV sono posti all’entrata del vialetto di accesso all’edificio di ascendenza quattrocentesca, già di proprietà dei Cavalieri di Malta (presenti a
Villaga a partire dal Duecento), in seguito della famiglia Porto Godi e ora
di Bruttomesso Gervasio.
Nel cortile è pure conservato un profilo in pietra con scolpito lo stemma,
oramai irriconoscibile, dei cavalieri Templari raffigurato da una croce.
Secondo un’antica credenza, riportata anche in uno scritto di don Tito
Meneguzzo e conservato nell’archivio parrocchiale di Villaga, l’edificio fu
anche sede di un monastero femminile appartenente alle monache di
Araceli di Vicenza. Tale notizia però non trova conferma nei documenti
sinora consultati.
11. VILLA BRUTTOMESSO
I pilastri quattrocenteschi del portico di Casa Bruttomesso Gervasio.
Villa Bruttomesso è un’antica abitazione signorile dei 1500, situata in via
Fornace, un tempo località Oche, nei pressi dello stabilimento “Villaga
Calce”.
Acquistata agli inizi del Novecento dalla famiglia Zorzi, attualmente è di
proprietà dei fratelli Armando e Mario Bruttomesso che la utilizzano come
azienda agricola.
27 A. Verlato, La Torre colombara del Paradiso a Villaga, in “Villaga: in cerca del tempo perduto”, pagg. 5-6
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CAPITOLO TREDICESIMO
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
12. VILLA CASTAGNA
La villa fattoria della famiglia Castagna si trova a Belvedere, lungo la
via che dalla chiesa conduce alla strada provinciale Berico-Euganea, un
tempo chiamata Strada Regia.
L’edificio, orientato a sud, a pianta rettangolare, si articola su due piani;
il prospetto principale (la facciata) rivolto verso la corte, presenta una
parte centrale caratterizzata da un portale rettangolare al piano terra,
sormontato da una porta finestra con poggiolo, retto da mensole in
pietra.
Al di sopra si eleva un frontone triangolare con al centro un foro a
losanga, elemento architettonico insolito nella nostra provincia, poiché
si riscontra soltanto nella villa Caldogno-Nordera di Caldogno,
attribuita al Palladio.
Villa Bruttomesso in ristrutturazione.
L’edificio, a pianta quadrata, si articola su due piani più un sottotetto, con
il prospetto principale rivolto verso la campagna. La facciata è caratterizzata da un portale centinato al piano terra, sopra il quale è posto un balcone balaustrato in pietra con una porta centinata. Affianca la
costruzione un annesso rustico che, verso la strada, evidenzia un arco,
ora tamponato, con piedritti in pietra di Nanto e archivolto in mattoni,
e, addossato a nord, un corpo più corto con portico ad arcate a tutto
sesto.28
Interessanti poi le cantine, costruite a volto, dove è presente un pilastro in cui sono incise una data: 1568, e due lettere: A. B.
Purtroppo la villa, nel 1993, ha subito seri danni, a causa di un incendio; pertanto è stata oggetto di un accurato intervento di restauro ben
riuscito, che le ha restituito parte della sua originaria bellezza.
Villa Castagna fotografata nel 1991 prima dell’ampliamento del fabbricato.
Le due ali della facciata hanno ognuna due assi di finestre rettangolari
disposte simmetricamente, sopra le quali, per tutta la lunghezza dell’edificio, appare in rilievo una cornice a dentelli, che orna anche il timpano.
28 Villa Bruttomesso, in Ville venete: la provincia di Vicenza, pag. 670
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CAPITOLO TREDICESIMO
EDIFICI RELIGIOSI E ARTISTICI
13. STATUE ARTISTICHE: LE MADONNE DI VIA SALGAN
NICCHIA DELLA MADONNA CON BAMBINO
Sulla parete di un vecchio fabbricato rurale, appartenente alla famiglia
Piovene, agli inzi di via Salgan a Toara, si apre una elaborata nicchia
che accoglie l’artistica immagine della Madonna col Bambino.
Non si sa quando la nicchia fu realizzata. I più vecchi della contrada
dicono di averla sempre vista. Certamente fu la nobile famiglia Conti
Barbarano a farla edificare. Molto bella, anche se bisognosa di restauro, appare la scultura in pietra che vi è contenuta. Si tratta di un’antica
Madonna con Bambino, ritenuta di indubbio valore artistico; colpiscono infatti l’espressione dei volti e l’andamento delle vesti, molto
curato, opera di un valente scultore, forse del Cinquecento.
A quel tempo, infatti, erano attivi nel Basso Vicentino e, in particolare
nella zona di Barbarano, noti lapicidi (artisti della pietra) che hanno
lasciato varie testimonianze artistiche.
Sotto la nicchia si trova una lapide che riporta la seguente invocazione: “O Maria concepita senza peccato, pregate per noi che a Voi ricorriamo”.
Ingresso di Villa Castagna.
All’interno, sono degni di nota una scala in pietra, che porta al piano
superiore, e uno splendido pavimento a palladiana in una sala al piano
terra.
La villa, sino a pochi anni fa, come si nota nella foto, era affiancata a
sinistra da un rustico, ora trasformato in abitazione.
Staccati dalla casa padronale vi sono poi un lungo portico con stalla e
fienile, di epoca settecentesca, e l’antica torre colombara, di origini
tardo medioevali.
La villa, probabilmente costruita anch’essa nel Settecento su una
precedente casa fattoria, era uno dei vari beni posseduti dai nobili
Barbarano, proprietari del Castello. In una carta topografica del catasto
austriaco, datata 1835, conservata nell’Archivio di Stato di Vicenza, la
villa viene denominata “Il Palazzino dei Barbarano”.
Essa venne acquistata nella seconda metà dell’Ottocento da Lorenzo
Cengiarotti e dal figlio Cesare, poi dal 1958 è divenuta proprietà di
Achille Castagna.
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CAPITOLO TREDICESIMO
LA VERGINE IMMACOLATA DI CASA FALDA
Poco dopo il capitello della famiglia Priante, in via Salgan, si scorge
sulla parete di casa Falda, rivolta verso la strada, una nicchia che custodisce la statua dell’Immacolata Concezione. La Vergine viene raffigurata secondo l’immagine della Genesi (primo libro della Bibbia),
come la Donna, Regina del mondo, che schiaccia la testa del serpente
ingannatore posto ai suoi piedi.
Anche se la statua non è ancora stata oggetto di studi specifici, sembra
essere di pregevole fattura e risalire probabilmente al Sei-Settecento.
L’immagine di casa Falda denota raffinate particolarità artistiche e si
caratterizza per la soavità del viso della Vergine, sul cui capo è presente
una corona di stelle, e per il portamento molto elegante delle vesti.
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FONTI D’ARCHIVIO
Archivio Curia Vescovile Vicenza
Stato delle Chiese, Villaga, b. 330
Stato delle Chiese, Toara, b. 307
Stato delle Chiese, Barbarano, b. 19/A
Visitationes:
Michele Priuli 4/0556
Bragadino 8/0560
Rubini 11/0563
Zaguri 20/0572
Libri Canonici S. Michele Arcangelo Villaga, b. 168:
Liber baptezatorum 1564-1584
Libro dei battezzati, dei morti e dei matrimoni 1646-1678
Libri Canonici S. Giorgio Toara, b. 159:
Registro dei battesimi 1607-1661
Registro dei morti 1607-1670
Registro dei battesimi e dei morti 1661-1686
Registro dei matrimoni 1657-1686
Archivio di Stato di Vicenza
Arch. Notarile, notaio Domenico Nogarola b. 10031
Arch. Notarile, notaio Girolamo Fabri, b. 1915
Arch. Notarile, notaio Angelo Gottardo, b. 3005
Arch. Notarile, notaio Marco Donaello, b. 13012
Estimi, Balanzon del Vicariato di Barbarano, anni 1544-1564, b. 16
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FONTI D’ARCHIVIO
Estimi, Barbarano e le ville del Vicariato 1665, Polizze, b. 329
Estimi, Comune di Villaga, anno 1703, b. 1384
Corporazioni Religiose Soppresse, Commenda di S. Giovanni di Longara e S.
Silvestro di Villaga, b. 3072 Cartografia; b. 3079 e b. 3094
Corporazioni Religiose Soppresse, Scuola del S. Rosario Toara, b. 809
Archivio Parrocchiale di Barbarano Vicentino
Prebenda, Decima, Documenti e liti, b. 5, fascicoli B, C, D
Catastico generale Decime, anno 1884
Archivio Biblioteca Civica Bertoliana
Statuti delle Ville di Belvedere, Pozzolo,Villaga e Toara (24 agosto 1545), nozze
Marzotto-Conti Barbarano, Vicenza, Reale Stamperia G. Burato, 1886
Catastico IV, Acque Legge 44 n.1
Archivio Parrocchiale di Villaga
Registri Canonici dal 1678 al 1910
Inventario dei beni mobili e immobili della chiesa del 1492
Beneficio parrocchiale
Registro Livelli Villaga
Inventario e registro dello stato patrimoniale della chiesa di S. Michele
Arcangelo dal 31 dicembre 1929 al 15 maggio 1937
Fascicolo: Per il Reverendo paroco di S. Michiel di Villaga, anno 1790
Catastico delle Decime anno 1817
Catastico anno 1828
Archivio Parrocchiale di Toara
Registri Canonici dall’anno 1700 al 1901
Inventario dei beni mobili e immobili della chiesa dell’anno 1444
Beneficio parrocchiale
Busta Confraternite
Libro Cronistorico
Archivio Comune di Villaga
Registri scuole elementari anni scolastici dal 1928 al 1945
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309
RINGRAZIAMENTI
Stampato con il patrocinio del Comune di Villaga
RINGRAZIAMENTI PER LA CONCESSIONE DELLE FOTOGRAFIE:
Biasiolo Giovanni
Biasiolo Maurizio
Biblioteca comunale Barbarano Vicentino
Biblioteca comunale Mossano
Boscardin Pietro.
Bottazzi Silvana
Famiglia Bruschetta
Bruttomesso Gervasio
Cichellero Giuseppe
Dani Pierina
Danieli Pacifico
De Mani Enrica
De Marchi Dario
Faccin Sandro
Faccio Bonifacio
Faggionato Gianni
Ferrari Bruno
Ferrari Gianni
Giacomuzzo Luigi
Groppo Virginia
Lunardi Agostino
Lunardi Lorenzo - Bezzolato Annamaria
Marchioro Roberto
Mattiello Francesco
Melato Pierina
Miglioranza Elettra
Miglioranza Vanda
Modenese Gianna
Munari Marilisa
Omenetto Pietro
Pagliarusco Mario
Panarotto Mariano
Piovene Porto Godi Tommaso
Venturini Fabio
Vigolo Leriano
Si ringraziano per il contributo le aziende:
Piovene Porto Godi - via Villa, Toara
Agriturismo Belvedere - via Crocenera, Villaga
310
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storia delle comunita` di villaga, toara e belvedere