1 LA CAPITANATA Rivista semestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia Direttore: Franco Mercurio Redazione e amministrazione: «la Capitanata», viale Michelangelo 1, 71121 Foggia tel. 0881-791621; fax 0881-636881; e-mail: [email protected] «la Capitanata» è distribuita direttamente dalla Biblioteca Provinciale di Foggia. Per informazioni e per iscriversi alla lista delle persone e degli enti interessati rivolgersi a «la Capitanata», viale Michelangelo 1 71121 Foggia, tel. 0881-791621; fax 0881-636881; e-mail: [email protected] “LA MAGNA CAPITANA” BIBLIOTECA PROVINCIALE DI FOGGIA è un servizio della Provincia di Foggia Presidente: Antonio Pepe Assessore alla cultura: Maria Elvira Consiglio Direttore: Franco Mercurio, [email protected] Authority catalografica e Reference: Gabriella Berardi, [email protected] Authority editoriale: Elena Infantini, [email protected] Authority logistica: Paolo Digianvittorio, [email protected] Consultazione, Emeroteca e ilDock: Enrica Fatigato, [email protected] Divulgazione e Narrativa: Annalisa Scillitani, scillitani @bibliotecaprovinciale.foggia.it Fondi antichi e speciali: Massimo Mazza, [email protected] Immagini e suoni: Franco Corbo, [email protected] Biblioteca dei Ragazzi: Milena Tancredi, [email protected] Erba curvata dal vento (… grano, canneti della costa o delle zone paludose…) e il terso cielo stellato sono elementi simbolicamente connotativi del nostro territorio. La dicitura A.D. 2000, insieme alla scritta ex-libris mutuata da Michele Vocino, rappresentano la volontà di tenere sempre presente il collegamento tra passato, presente e futuro senza soluzione di continuità. Questo ex-libris che d’ora in poi caratterizzerà i documenti posseduti dalla Biblioteca Provinciale, è stato per noi elaborato da “Red Hot - laboratorio di idee e comunicazione d’impresa” e da loro gentilmente donato. Red Hot: Gianluca Fiano, Saverio Mazzone, Andrea Pacilli e Lorenzo Trigiani. Manfredonia, a.d. 2000. _______________ LA CAPITANATA RASSEGNA DI VITA E DI STUDI DELLA PROVINCIA DI FOGGIA _______________ 27 _______________ Giugno 2012 4 Indice Saggi p. 11 Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata di Pasquale di Cicco 25 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 di Vittorio Russi 51 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno di Michele Galante 73 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) di Federica Elisabetta Triggiani 99 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità al Medioevo (II parte) di Giacomo Cirsone 143 Un corporativismo sfocato. Sguardo dalla periferia a “Il corporativismo fascista di Alessio Gagliardi” di Francesco Altamura 151 Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata nella transizione svevo–angioina di Alessandro de Troia 159 Per una breve riflessione disincantata sull’Unità d’Italia di Leonardo Aucello 165 La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente da Giambattista d’Amelj? di Dionisio Morlacco 5 p. 171 Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento. di Gaetano Schiraldi 187 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) di Federica Albano In memoria dei nostri 231 Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro di Damiano Nocilla 241 Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi di Francesco Giuliani 249 Gennaro Arbore (1931-2012) di Guido Pensato e Saverio Russo 245 In ricordo di Gaetano Matrella di Gaetano Cristino 247 L’eredità morale di Gaetano Matrella di Geppe Inserra 261 Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella di Franco Galasso 267 Gaetano Spirito tra passione civile e tensione morale di Maurizio De Tullio 271 Gaetano Spirito, la storia nella fotografia di Michele dell’Anno 273 All’amico Gaetano Spirito di Pasquale di Cicco 275 Per ricordare Gaetano Spirito di Michele Ferri 6 p. 281 Il mio ricordo di Gaetano Spirito di Loris Castriota Skanderbegh Recensioni 285 Michele de Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica di Michele Ferri 293 Lévi-Strauss C. Lezioni giapponesi. Tre riflessioni su antropologia e modernità di Paolo Iagulli Gli autori 7 8 Saggi 10 Pasquale di Cicco Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata di Pasquale di Cicco Diversamente dai protocolli dei notai degli ultimi secoli, i quali contengono solo gli atti rogati durante l’attività professionale degli stessi, quelli dei notai dei secoli precedenti (XVI-XVIII, in particolare) spesso destinano qualche loro pagina bianca ai contenuti più eterogenei1. Per non dire delle invocazioni verbali o simboliche alla divinità che spessissimo compaiono sui frontespizi delle raccolte di atti2 e dei motti e massime ora ripetuti ora mutati in essi nel tempo.3 Molti anni fa potei pubblicare su questa stessa rivista un’interessante cronaca di Bovino degli anni 1600-1638 dovuta al notaio del luogo Cesare Faratro e registrata sulle carte di parecchi suoi protocolli, una cronaca pregevole non solo per le tante note riferite ad avvenimenti e personaggi, ma anche per i frequenti ragguagli sull’andamento delle stagioni, le manifestazioni atmosferiche ed i loro effetti sulle campagne, i prezzi dei generi alimentari, le carestie4. E, da segnalare, il Faratro scriveva queste cose non per sua memoria, ma destinandole dichiaratamente ad un futuro lettore. Assieme ai protocolli anche qualche formulario notarile, con il suo contenu- 1 Le raccolte più antiche degli atti notarili redatti in Capitanata si conservano nell’Archivio di Stato di Foggia, Sezione di Lucera. Si dividono in due serie: la prima include i protocolli formati anteriormente al 1 gennaio 1800, la seconda quelli antecedenti al 1 gennaio 1853. A Lucera sono conservati anche i repertori notarili ed i libretti dei giudici a contratti. Nel presente lavoro, eccettuate le note in cui si fa espresso richiamo alla serie II dei protocolli o ai repertori, tutte le altre rinviano alla serie I. 2 Ad es., Domine in nomine tuo salvum me fac et in virtute tua libera me ( Nicola Cavallucci e Donato Taliento di Foggia); Adsit principiis Virgo Beata meis (Francesco Mitola di Candela); Signatum est supra nos lumen vultus tui, Domine (Nicola Specchio di Cerignola); Sit nomen Domini benedictum ex nunc et usque in seculum (Giuseppe de Angelis di Foggia); O sine principio Princeps qui solis ab ortu solis ad occasum diceris omnipotens accipe principium medium finem libelli, concedas deprecor et miserere mei (Antonio de Ianinis di Savignano e Francesco dello Russo di Foggia); Hoc schediasma, favente Deo, feliciter egi / Plurima conficiam, te Deus, oro, sivas (Giuseppe Montanaro di Bovino); Chrismon istoriato (Pietrantonio Rosso di Troia). 3 Ad es., Primus amor celi nostre spes prime salutis, prime dabis faciles ad mea plectra modos (Michele e Pietro Taliento di Foggia); Sermone eo debemus uti, qui magis notus est nobis (Pietro Taliento); Iusti sunt omnes sermones mei, non est in eis pravum quid, neque perversum (Giuseppe Antonio Fucci di Foggia ); Veritas de terra orta est et iustitia de celo prospexit; Quid iuvat homini maiora sequerere; Iucundus homo qui ambulat in lege Domini et disponit sermones suos in iudicio; Qui altam facit domum suam querit ruinam, et qui evitat discere incidit in mala (Sebastiano Andreana di Foggia). 4 Cfr. Una cronaca bovinese del Seicento, in «La Capitanata, Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia», anno XXIII, gennaio-giugno ’85-’86, parte I, pp. 53-91. 11 Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata to rigorosamente tecnico fatto di minute di atti e di istruzioni e consigli per coloro che intendevano esercitare il notariato, offre pagine che tramandano, ad es., qualche verso bucolico, o l’elenco dei “tuoni” musicali, o un consiglio “per quando una persona le esce sangue dal naso”, o le prescrizioni mediche per il notaio e la moglie, o altre curiosità, come quella riguardante l’imeneo fra “la cane” Fontana ed il cane Sbafanto “di pelo negro cirrato” celebratosi a Foggia il 19 dicembre 16885. Negli anni 70 del Novecento, in vista della redazione e pubblicazione di un atlante documentario e dell’organizzazione di una Mostra nazionale sul Notariato, mi fu chiesto di ricercare e reperire “atti significativi sulla storia e l’evoluzione attraverso i secoli del Notariato”. Fu quella l’occasione per un diligente spoglio dei protocolli e dei repertori notarili conservati a Lucera, e su un totale di 11000 pezzi ne furono controllati quasi 7000. Da essi si evinsero dati che consentirono fra l’altro di risolvere definitivamente alcuni punti sino ad allora controversi fra gli studiosi6. Ma l’indagine fu utile anche per stabilire che il notaio cronista, quale il Faratro, non era una figura unica o insolita nel panorama notarile dauno. Se ne individuarono infatti diverse altre nei secoli XVI-XVIII. La prima è quella di Annibale de Stranges di Troia che dà notizia del governo cittadino del 15447. Seguono quella di Dilettoso Ascolese di Lucera, il quale annota che nel giorno della beata Caterina vergine, il 25 novembre della XIII indizione, il marchese del Vasto Aimone prese possesso della città di Napoli in nome di re Filippo8, e quella di Giancamillo Pugilli di Bovino, dal quale si viene informati della scomunica comminata ad alcuni sacerdoti di Orsara per essersi rifiutati di confessare certi fedeli9. Anche Eusebio Pucci di Troia elenca i nomi del governatore, degli eletti cittadini, nonché di alcune altre autorità all’inizio del suo protocollo del 1606, ma quello che scrive subito dopo induce a ritenere che il suo intento non fosse solo quello di tramandare ai posteri la composizione degli amministratori civici troiani10. 5 Cfr. il mio I formulari notarili conservati nell’Archivio di Stato di Foggia (secc. XVII- XVIII), in «Archivi per la storia», a. 1993, n. 1-2, pp. 111-148. 6 I protocolli del 1582 di Pietrantonio Rosso (n. 40) e di Giovanni Cesarani di Lucera (n.133) chiarirono che la riforma gregoriana del calendario venne subito attuata in Capitanata; e moltissimi altri protocolli portarono ad escludere che in questa terra fosse stata mai usato un sistema di computo del tempo diverso da quello detto stile bizantino, per il quale l’anno iniziava l’1 settembre. 7 Protocollo 6 (anni 1543-1570). 8 Prot. 48 (1544). 9 Prot. 191 (1585). 10 Dopo l’elenco delle varie autorità si legge: «Et ego predictus Notarius multa passus sum in hoc anno a dictis de Regimine in materia administrationis, contra omne iuris debitum per quatraginta dies fui carceratus in civitate Troiae, et ipsi etiam carcerati, habilitati sub fideiussione ducatorum quinque mille ad omnem ordinem Sacri Consilii vel Regiae Audientiae, sed postea omnes liberi evasimus et ego tamquam inocens facti prout dominus Deus docuit dicens ‘Da mihi vindictam et ego retribuam’, sic feci et non amplius processit inquisitio contra ipsos de Regimine». In altro suo protocollo accenna alla nascita e morte del figlio Giacomo Antonio (n. 259, anni 1596-1598). 12 Pasquale di Cicco A Giulio Capuano, anch’egli di Troia, si deve la notizia di un “Prodigio memorando” durato più giorni, qui parzialmente riportato, stante la lunghezza: «Hoggi martedì 16 dicembre 1631 dopo il Vespro ha fioccato cenere asciutta per dentro questa Città di Troia, e per la campagnia, la notte poi ha seguitato in grande abundanza piovendosi acqua e cenere in lota, et al suono di campane le genti sono state tutte in piedi, retirati nelle chiese a fare orationi e sono stati lampi, e tuoni di gran spavento, e la notte oscurissima, e l’oscurità è durata insino alle 16 hore a che s’è visto dì, venendo la luce da mezzo giorno, dico un poco d’aria lucente, e dentro le case si sono tenuti li lumi per vedere, e con le luci a tavola s’è mangiato… e venendo il venerdì è fatto giorno ad hora solita, e s’è fatta processione sollennissima con cacciarsi fuora il Santissimo Sacramento… si son fatte più processioni, prediche et altri orationi… che credevamo soffondere e morire di paura, per l’aria non si sono visti nissuna sorte d’ucelli, ne anco li cani caminare per la città… Dette cenere sono state sopra la terra di tre dita e più, li tetti e muraglie negri, e nel caminare teniva sotto li piedi e come un astrico… Per detta cenere sono morti infiniti animali baccine, havendo brugiato l’herbe, e coperta la terra, che non è uscita sino al corrente mese di marzo, e tuttavia ne vanno morendo. De più ha caggionato male aria, e tutti ferite per minima che sia stata, e che sia, è stata, et è mortale cqui in Troia11». Altro notaio con aspirazioni di cronista è Angelo Giannini di Torremaggiore, che dedica un foglio del suo unico protocollo pervenutoci ad una breve informazione sulla rivolta scoppiata nella sua città nel 1647, «come anche per tutto il Regno la quale durò pochissimo atteso che la maestà del Re nostro signore oppremì l’orgoglio di capi popoli malidetti”, sulla carestia dell’anno successivo “che il grano valse a carlini trenta, trenta cinque et quaranta il tomolo”, sulla peste del 1656 “incominciata a Torremaggiore a dì 20 ottobre di detto anno et la causa è stato Cesare Madalena di Vultorino marito d’Ipolita Lanciano … detto Cesare se ne stava in detta terra di Vultorino dove era la peste … et portò molte robbe rapinate da quella delli poveri defonti … et la peste s’è attaccata qui che altrimenti stavamo bene»12. Nel Settecento il notaio che più di ogni altro collega utilizzò i suoi protocolli per registrarvi fatti di cronaca locale e non del suo tempo fu Giuseppe Montanaro, che rogò a Bovino dal 1692 al 1715. Così si servì di quello dell’anno 1700, nel quale alcune pagine in forbito latino ragguagliano sugli onori funebri resi al vicario generale della diocesi bovinese, Francesco Montanaro, morto all’età di 72 anni, suo parente13, e di quello del 1703, 11 Prot. 387 (1606-1637). Il drammatico avvenimento, dovuto all’eruzione del Vesuvio, é diffusamente ricordato da due storici locali, quali Vincenzo Stefanelli (Memorie storiche della città di Troia, Napoli [1878]) e Nicola Beccia (Cronistoria di Troja, dal 1584 al 1900, Lucera, 1917). 12 Prot. 829 (1651-1652). 13 Prot. 1279. 13 Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata per informare della morte del proprio suocero («Octavo idus octobris duodecimae inditionis, die mavortis hora vero nona, dum Aurora ab Oriente Solis ortum suis indicabat fere calcaribus, Atropos vitae stamen amputavit uxoris meae patris magnifici Iosephi Montanarii optimi medici vulnerarii huius civitatis Bibini, quo in loco multos variis languoribus affectos, sua cum laude summa, Deo tamen annuente, pristinae tradidit saluti, pleuritis eum aggressae, febrisque maligna, decurrentem annum septimum et sexagesimum, quinque dierum spatio, veram ad patriam in Domino evolavit. M.DCC.III»)14. Diverse pagine del suo protocollo del 1706 – allora il Montanaro era a capo del governo cittadino – sono dedicate ad una dettagliata narrazione della “fiera contesa” fra i sacerdoti semplici e chierici del luogo e la collegiata di Deliceto per ragioni di precedenza in occasione della processione di S. Marco africano, poco prima della riunione del sinodo («M’è parso ad futuram rei memoriam del sortito lasciarne un ricordo, quale ho stimato profittevole e geniale, e servirà a successori di guida a non far fare per l’avvenire pregiudizio alcuno a questi nostri reverendi sacerdoti semplici e chierici da detta collegiata, mentre vi sono più decreti a pretendere questo, col quale confirma i passati nel presente sinodo, e li mantiene nel loro principio possesso, et ho scritto la pura verirà del fatto senza diminuire, aggiungere, o adulterare cosa ver’una, essendovi intervenuto personalmente a principio usque ad ultimum in detto sinodo, invitato da Monsignor Vescovo con l’altri de Regimine ecc. Vale amice lector»)15. Altre pagine dello stesso volume, dopo una breve premessa in cui il notaio chiarisce che, preso da molti affari, «non mai m’è avanzato qualche tempo, e poco mi son dilettato di notare alcuni successi occorsi ne i nostri tempi”, riguardano il “successo più notabile”, quello dell’incombente carestia, causa la prolungata siccità, con ulivi ed erba seccati e morte di animali. Partono “asprissime processioni di penitenza” da Bovino, Troia, Orsara “al soccorso della nostra Padrona Maria di Valverde”. Nel paese prediche ogni sera, e più confessioni e comunioni generali, “ infine per i luoghi di Puglia il sangue de penitenti andava a lavina; si sono serrate tutte le fosse, e granai in ogni luogo, e non si sapeva dove ricorrere per grano et orzo, benché il prezzo del pane si manteneva, e non molto s’era alterato». Ma, finalmente spedita «la grazia dalla Camara del Supremo Tribunale a tanti nostri preghieri, per mezzo della Madre di Dio, e signori Avvocati”, si ebbe una pioggia continua per due giorni e due notti e “le piante in un subbito per ubbidire al volere del loro Creatore ferno pompa del loro essere, et in pochi giorni vennero a perfettione, e si fe’ in quest’anno miracolosamente una racccolta abbondante di grano con piena fuor del solito …». Per concludere: «Pensi continuamente, o lettore e curioso, che il Signore ne i 14 15 Prot. 1282. Prot. 1284. 14 Pasquale di Cicco precipiti più vicini ci porge la sua santissima mano in nostro aggiuto; vivi felice». Ed altre notizie si rinvengono in altre tre raccolte di atti di questo notaio. In quella del 1707 si legge «Giunse finalmente per la gratia di Dio quello universalmente sospirato giorno di ritornare la nostra capitale di Napoli sotto il felicissimo dominio della venerata augustissima Casa d’Austria a cui sempre havea consegnato l’intimo del suo cuore, seguendo il suo antico e nobile genio. Il giovedì dunque delli sette di luglio di questo corrente anno 1707 ad hore dodeci principiorno ad entrare i valorosi tedeschi in Napoli, i quali in nome di Carlo III d’Austria nostro legitimo signore e padrone ne pigliorno il possesso con ogni pace e quiete, e senza niuno disturbo, et il popolo di Napoli con giubilo, et allegrezza universale uscì all’incontro alle gloriose armi, con rami verdegianti nelle mani, a dare il benvenuto, con gridare ad alta voce “viva viva l’invittissimo e sempre glorioso Carlo III nostro tanto aspettato monarca dell’ augustissima e potentissima Casa d’Austria”, le grida e strilla del quale popolo assorbivano l’aria, con manifestare quanto mal volentieri soffriva il giogo de Francesi; con le quali invittissime armi tra li molti commandanti cavalieri tedesci e generali, vi venne il generalissimo conte di Daun con il conte Giorgio Adamo di Martinitz cavaliere dell’ordine del Toson d’oro, e ministro del Conseglio di Stato imperiale come plenipotentiario con facoltà di viceré del serenissimo re Carlo. Tutte le castella di Napoli tra due in tre giorni si arresero, Gaeta però si difese alla gagliarda per molti giorni, mentre ivi s’era andato a salvare il viceré antecedente del fu Filippo quinto, hoggi duca d’Anciò, nominato il marchese di Vigliena Ascalone, con molti ministri togati, e cavalieri. Numero dei viceré di Napoli dal possesso di Carlo III. Primo viceré. Il conte Giorgio Adamo di Martinitz Secondo viceré. Il conte Daun generalissimo, per interim Terzo viceré. L’eccellentissimo cardinal Grimani, morto in Napoli con dolori di fianco a 27 settembre 1710 Quarto viceré. Il conte Carlo Borromeo a Milano Quinto viceré. Il principe conte Daun (ritornato)”16 In quella del 1710-1711 appare la “Descrittione lagrimevole del danno generale patito alle vigne, non meno di questa città, che della Puglia, Montagne e luoghi marittimi convicini, dall’abbattaria di grandini scaricati in quest’anno 1711 nel dì primo settembre, giorno di martedì, verso l’hore diecinove, non meno di peso ciasched’uno d’essi, che di 4 e mezza libra, non mai ricordevoli da più vecchi del nostro secolo … l’imbrici tutti sopra delle case e chiese ridussero in minutissimi 16 Prot. 1285. Anche Nicola Clemente di Foggia (1706-1725) dedica all’avvenimento una succinta nota marginale nel suo volume del 1707 (n. 1664), scrivendo: «Notatur qualiter ex die septimo mensis iulii introscripti anni millesimi septingentesimi septimi incipit regnatio serenissimi domini nostri domini Caroli III de Austria Dei gratia regis Hispanarum, Neapolis etc». 15 Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata pezzi, flagellarono tutti i vetri delle vitriate, e diedero la morte a buona parte de volatili … tutte quelle genti, che fuora dell’abitato stavano gustorono con le ferite in testa duri colpi di morte, ubique luctus, ubique pavor, in modo che quel giorno parve assomigliante al giorno dell’universal Giudizio …17». Nel protocollo del 1712-1713 il notaio riserva ben tre pagine alla narrazione della moria di animali grossi, durata nove mesi, «con farne in ogni paese abitato sterminio grande, havendo dato il primo assalto nella gran città di Milano non restandono quasi memoria d’essi colà, da dove passò per tutte le parti del Regno col sbarco d’alcune cuoia infette … si calcula le perdite per tutto il Regno ascendono a più milioni, el magior crepacuore, che non vi si ritrovava medicina in terra, che al lor male havesse giovato, quandunque i più periti e versati miniscalchi del Regno, e dottori fisici si fosser ingegnati a ponere in campo le cure più peregrine …». Ed anche questa narrazione si conclude con l’indicazione del motivo per cui essa appare nel protocollo: «Io termino il mio discorso c’ho inteso ponere in carta per sodisfare a curiosi leggitori, et a quelli, che hanno a cuore le notizie de passati avvenimenti. Vivi felice18». Nello stesso protocollo, nella parte interna della prima copertina, si vede poi registrata quest’altra notizia: «A 27 febraro 1712 ad hore 18 2/4 in Orsara s’appiccò Gioacchino Calabrese di questa terra, per haver nel suo ultimo delitto rubbato ducati 30 a Giuseppe Patruno di Corato garzone di Domenico Falcione, che teneva bottega legata in Orsara di pizzicarolo, e poi ammazzarlo con colpi d’accetta, e cortella al passo di pescorognone seu l’accortatora. Condannato a morte dalla Corte d’Orsara e dalla Corte Auditorale di 2e istanze del stato di Bovino, concesso il mastro di Giustizia dal Tribunale della Regia Udienza di Lucera, et Monsignor Cavaliere Vescovo di Troia fu uno dei convertenti, che al tal effetto si portò di persona in Orsara». In un volume contenente gli atti rogati nell’anno 1691 dal notaio Giovanni Iavarani di Ascoli Satriano (1610-1690) si rinviene un’annotazione riguardante il “fierissimo tremuoto” che il 20 marzo 1731 squassò in particolare la città di Foggia e «durò un anno continuo con fierissime scosse, talmente che li luoghi si rendevano dissabitati; tutto ciò si fa noto a nostri posteri per futura memoria, acciò imparino a viver bene. Amen19». Angelo Bonassisa di Deliceto (1724-1762) annota che “nell’anno 1733 giorno di sabato ad ore 14 a 29 novembre fu un pessimo terremoto che rovinò molte terre in alcuni luoghi di S. Nicola della Baronia”, e che “nell’anno 1743 è uscito alla 17 Prot. 1288. Prot. 1289. Anche il notaio Giuseppe Antonio Palumbo di S. Severo (1681-1736) segna un ricordo della mortalità di animali avvenuta nel 1712 (prot. 1212). 19 Prot. 447. Autore di questa annotazione fu però il notaio Giovanni Berardino de Rusitia la cui scheda non si conserva a Lucera. 18 16 Pasquale di Cicco luce il Figliuolo della nostra Regal Regina in Napoli a 13 giugno giorno di martedì ad ore tre della notte, e si chiama Filippo, Antonio, Francesco Saverio Nepomuceno e Aniello”.20 Crisanto de Iuliis, originario di Castiglione d’Abruzzo (1733-1763), informa che il 19 aprile 1734 si portò in Bovino il Viceré con tutto il Collaterale e vi tenne riunioni, che il 25 successivo giunse al ponte di Bovino l’esercito spagnolo il quale poi a Bitonto si scontrò vittoriosamente con le truppe tedesche “con la perdita di molta gente dell’una e dell’altra parte”. Aggiunge che il 6 gennaio 1735 il Re venne a Torre Guevara, vi si trattenne per cinque giorni con il suo seguito di 2000 persone, tutti a spese di don Innico Guevara e poi partì per la Sicilia. Durante la sua permanenza a Bovino nominò aiutante reale il figlio di don Innico, don Carlo, di anni 19; e successivamente con speciale cedola dell’8 giugno don Innico Guevara fu fatto duca di Bovino e Giovanni Guevara conte di Savignano. Conclude informando che il 6 giugno la contessa diede alla luce un bambino, tenuto al battesimo dal duca suo avo.21 In un protocollo seicentesco del notaio Francesco Antonio Riccio di S. Agata si trova una drammatica descrizione delle conseguenze della terribile carestia che afflisse il regno fra il 1763 e il 1764 e che conviene qui riportare per intero: «L’anno 1763, per tutto il mese di giugno 1764 fu una penuria generale per tutto il Regno di Napoli d’ogni sorte di vivere, che principiò dal mese di settembre ad avanzare li prezzi si del grano, come dell’orzo, fave ed altro legume, come di oglio, di salame, di formaggio, ed ogni altra cosa, come anche del vino e li grani arrivarono a docati vent’uno il sacco, e nemmeno se ne potea avere, l’orgio a docati nove il sacco, anche le fave a docati quindici il sacco, il grano d’india a docati dodici il sacco, l’oglio a carlini cinque l’ambola, il formaggio a carlini due il rotolo, il salame a carlini tre il rotolo, il vino a grana quattro la carrafa, la povera gente era atterrita, e gridando pane, mangiano code di cipolle per satularsi, erbe grude, e cotte senza sale, e senza oglio, aveano fatto il colorato a color verde, e puzzavano vive, di poi ci fu una mortalità generale, e morivano, e poveri e ricchi, a tal segno che si trovavano in mezzo alle strade, e campagne, il fomite libidinoso si era perduto affatto, li mariti cacciavano le moglie, le moglie alli mariti, i figli alli patri, e le madri una contro l’altro, furti pubblici, furti domestici, levate onore zitelle per una quarta di pane onde resta a a voi il considerare».22 Come il Riccio, anche Domenico Antonio Mallone di S. Giovanni Rotondo (1718-1774) si cura di farci sapere (Discant et sciant futura secula) che «nella passata raccolta d’ogni genere dei viveri poca quantità se ne raccolse, e perciò i popoli, 20 Prot. 2387 e 2395 (1733 e 1743). Prot. 2721. 22 Prot. 543 bis. Poiché il Riccio rogò dal 1620 al 1675, questa notizia leggibile nel suo protocollo è presumibilmente dovuta a qualche notaio che ereditò la sua scheda. 21 17 Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata dal tempo di essa, principiarono a patire della fame. Nell’Apruzzo, Calabria, Leccia, Martina, Terra di Lavoro spopularono i Casali, parte delle città e terre per la morte degli abitanti, e quelli rimasti, tutti fuggiti a migliara nelle città della Puglia. Il principio della nuova raccolta si peggiorò a Gennaro 1764 a segno tale che a Marzo, Aprile e Maggio li grani si vendevano fin a ducati dodeci il tomolo, senza poterne avere, ed in questa nostra padria appena si poteva avere il pane di mala qualità a grana diece il rotolo, ma loto ed acqua. Nelle città della Puglia si vendeva il pane per cancello, e si partiva ad oncia. In Napoli si sentì vendere una palata d’oncia 24, carlini dodeci, e tenendo ivi un mio nepote allo studio comprava una palata d’oncie 18, carlini cinque sei e sette l’una dalli Lazzari e vi era scarsezza d’ogni vevere, una testa di cipolla grana tre e quattro, dove l’abitanti ne morirono a migliara senza numero; li confessori assolvevano da lontano li moribondi per essere la febbre attaccaticcia né gli amici visitavano, ciascheduno pensava al proprio individuo. Il popolo di questa terra riversò da me, cercando aggiuto per la fame con urli e stridi. Io, spirato da Dio, mandai il Dottore Emanuele mio figlio in Foggia e da Freda e Foschino ebbe de carra cinque dei grani a docati sei il tomolo, questi venduti dai Governanti si riparò quanto si poté. Dio libera gli altri abitanti del Mondo di simile castigo, il quale né con la bocca, né con la penna si puote descrivere e narrare. Amen. Morirono ottantaquattromila persone».23 E nel protocollo del 1766 scrive: «In quest’anno vi è stato buona raccolta di vettovaglie e di tutto, ma li grani sono andati a carlini quattordici e quindici il tomolo, a causa che li Governanti sono stati giovani idioti ed ignoranti, cui è stato un Governatore del Rotello di Casa Finis, uomo senza anima ed iniquo, ed iniquissimi sono stati li suoi compagni, nonostante che erano cittadini di S. Giovanni Rotondo».24 Fabio Olivella, che stipulò a Celenza negli anni 1766-1791, registra sul foglio di guardia di un suo protocollo, “per futura memoria”, la notizia del passaggio per il paese di Pasquale di Tato, omocidiario e ladro di strada, arrestato e diretto sotto buona scorta all’estremo supplizio nel luogo natale di Limosani.25 Leonardo Giuliani senior di San Severo (1753-1806) fornisce alcune informazioni sulla chiesa parrocchiale di S. Severino, anticamente chiesa matrice, derivandole dal libro degli statuti di essa, formati nel 1716 per ordine del cardinale fra Vincenzo Maria Orsini arcivescovo di Benevento.26 Possono essere visti come una sorta di cronisti, sia pure sui generis, i tanti 23 Prot. 2201-2202 (1764-1765). Prot. 2203-2205 (1766-1768). 25 Prot. 4659 (1791). 26 Prot. 43 della serie II. 24 18 Pasquale di Cicco notai che con le raccolte di atti ci consegnano anche dati tutti privati, quali quelli relativi alla propria salute, ai loro matrimoni, alle nascite che li hanno felicitati, ai battesimi (con nomi dei padrini, dei parroci, delle “vammane”), alle malattie e morti dei figli, delle proprie mogli, ecc. Si ricordano per il Cinquecento i notai Ascanio Nigro,27 Giovanni Donato Giarnera28 e Stefano Buccino di Ascoli,29 per il Seicento Giulio Capuano di Troia30 e Francesco Antonio Zoilo di Candela,31 per il Settecento Giuliano Villani32 e Tommaso Vincitorio33 di S. Marco in Lamis, Angelo Bonassisa di Deliceto,34 Carlo Ricci di Torremaggiore,35 Cataldo Longhi di Monte S. Angelo,36 Nicola Sanna di Foggia.37 Le migliaia di protocolli conservati nella Sezione lucerina non fanno fare la conoscenza del solo notaio intento a tramandare ai posteri, assieme agli atti stipulati, anche informazioni di vario genere che, come si è visto, possono andare da quelle che rivestono un interesse generale a quelle che presentano un semplice interesse locale, o a quelle addirittura di tipo privato, familiare. Ma è possibile incontrarvi spesso notai con aspirazioni e tendenze artistiche, che vengono manifestate dalla presenza nei volumi di grandi lettere iniziali fiorite, arricchite per di più con figure umane, con immagini di animali anche fantastici, talvolta a colori. L’iniziale che di solito il notaio si diletta di abbellire con disegni vari è la lettera H con cui si avvia il testo, presente sul frontespizio del protocollo “Hic est liber seu prothocollus mei notarii …” o anche la L di liber, ma qualcuno va oltre ed illeggiadrisce tutte le lettere iniziali dell’indice onomastico che correda il volume, qualche altro persino tutte le iniziali presenti sul frontespizio, e non si limita ad esse. Belle iniziali con arabeschi schizzate a penna possono ammirarsi nei volumi di Angelo Cicella senior (rogò negli anni 1729-1741), Michele Taliento senior 27 Prot. 226-229: nascite, morti, matrimoni di componenti della famiglia Venini e per notizie sulla famiglia Nigro. 28 Prot. 147-149 (1588-1595): figli avuti con la moglie Sigismina Buccato. 29 Prot. 1443 (1729-1730): malattia del figlio Francesco. 30 Prot. 388 e 389 (1608 e 1611): figli avuti con la moglie Cornelia Lembo, uno dei quali diverrà sacerdote nel 1635 e l’anno seguente sarà nominato economo in S. Pietro. 31 Prot. 477 (1613): figli avuti con la moglie Margarita Tasca (la chiusa di quasi tutte le molte registrazioni, ben 12, è costituita da una formula beneaugurante del tipo “Prego Dio li dia lunga vita, timoroso de Dio, et che sia homo da bene, et habia bona fortuna accompagnato dalla scientia”) e per morte di alcuni di essi. 32 Prot. 3775 (1773): decesso della moglie Teresa d’Augello, figlia del dr. fisico Michele, “assistita in punto di morte dal sacerdote don Arcangelo Sassano, con l’infermità sofferta di 28 giorni di febbre continua maligna”. 33 Prot. 4097 (1733): doti matrimoniali assegnate alle figlie Veneranda e Arcangela. 34 Prot. 2385 (1730): suo matrimonio con Maddalena Botticelli e i tre figli. 35 Prot. 3939 e 3941 (1767 e 1775): figli avuti con la moglie Gaetana Zampitto. 36 Prot. 145 (1785): sua nascita e battesimo. 37 Prot. 224 e 225 (1784 e 1785): suo stato di salute. 19 Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata (1730-1772), Domenicantonio Grieci (1731-1753), Carlantonio Ricca (1731-1774), Gervasio Pacileo (1749-1779), Saverio della Martora (1755-1808), tutti di Foggia, Donato Augello di S. Marco in Lamis (1743-1794), Domenico Teodoro Prencipe (1717-1765) e Pasquale Gonzales (1752-1773) di Manfredonia, Nicola Bernarducci (1752-1787) e Pasquale Liguori (1789-1843) di Troia. Esse consistono per lo più in fregi, volute, ghirigori, festoni, mascheroni, accompagnati da volti maschili, barbuti o glabri, da puttini, cornucopie, soli umanizzati, da raffigurazioni di animali, di solito uccelli o qualche cagnolino, da fiori e rami fronzuti. Le immagini dei disegni, pur varie nei diversi protocolli di uno stesso notaio, riproducono ripetitivamente analoghi schemi tipologici ed ideativi. Tutte le H del notaio Taliento presentano, ad es., a sinistra, un volto di uomo, mentre le L si diversificano per il fatto che quelle di data più remota risultano sormontate dal disegno di un uccello, quelle di data più recente mostrano il volto di un fumatore di pipa, immagine che verrà adottata anche dal notaio Grieci. Sicuramente le H più interessanti sono quelle del menzionato notaio Montanaro, dalla grande struttura tutta figurativa, riproducente ora due animali immaginari dalla folta criniera che si fronteggiano,38 ora una signorile coppia, dai volti ben delineati, riccamente vestita, in cui la donna esibisce seni scoperti e l’uomo indossa un cappello piumato, si appoggia ad un bastone e con la sinistra regge una spada,39 ora due pellegrini che “ Vanno in Roma” per il giubileo, come recita una sottostante scritta,40 ora due leoni incoronati che sorreggono uno stemma con più partizioni, al di sopra del quale si scorge una corona regale,41 ora ancora due selvaggi seminudi, ampiamente barbuti e capelluti, tenenti due torrioni dalla cupola orientaleggiante, e tra i quali è uno scudo sannitico con un leone rampante sul campo, sormontato da un angelo,42 ed ora infine l’immagine di un’aquila bicipite, simbolo della casa d’Austria.43 E nel variegato panorama curiale dauno ci si imbatte anche qualche volta in notai che amano utilizzare le proprie raccolte di atti per registrarvi delle vere e proprie curiosità, come una ricetta per fare un certo tipo di pane o una diagnosi medica, oppure sonetti, canzoni ed altro. Così Cesare Spatari di S. Severo (1589-1614) trascrive negli anni 1589-91 due lettere di Francesco della Stalla a Virgilio Romano (la prima da Serra, la seconda da S. Severo, ambedue datate 1584) ed una terza fra tali Silverio e Mar- 38 Prot. 1277 (1698). Prot. 1278 (1699). A colori. 40 Prot. 1279 (1700). A colori. 41 Prot. 1281 (1702). A colori. 42 Prot. 1282 (1703). 43 Prot. 1285 (1707). 39 20 Pasquale di Cicco cello, anch’essa da S. Severo e datata 1584, tutte in versione latina e volgare.44 E Giovanni Donato Giarnera di Ascoli Satriano (1578-1610) riporta un Sonetto in thealogo alla morte («Morte che fai? Nol vedi, mieto, et che/ l’humana gente, et non risguardi ad chi?/ no ch’è colui che mi ha mandato, e qui/ volse che perdonasse manco ad sse/…”) nonché le parole utili “quando vole la donna partorire (“Infans, veni foras quia Christus te vocat, sicut vocavit Laczarum de monumento, ita te voco”) e “per secundare” (“Qui dicunt exnascite exnascite usque ad fundamentum in ea»).45 In altri due protocolli appaiono una seicentesca curiosa Tabula Salamonis arcana scientiae habentis per conoscere “quando serrà buona annata” ed un sonetto coevo, ugualmente curioso ed ugualmente interessante, i cui versi sono frammezzati dall’immagine di una croce che riempie l’intera pagina e nel cui corpo disegni vari concorrono a dare nesso e significato ai versi medesimi.46 Potito Nicola Bascianello di Candela (1707-1713) ci tramanda una sua accorata esclamazione (“Mors quam amara est memoria tua”), accompagnandola con il disegno di un drappo recante un teschio.47 Al notaio Montanaro si va debitori per averci fatto pervenire un lunga e gustosa «Canzonetta di buono augurio per lo triunfo de Carlo III re di Spagna, che Dio guarda” (“Diasilla, diasilla / pe cetate, e p’ogne villa/ d’allegrezza ogn’uno strilla/ Già lo tiempo non s’è perzo/ trionfato ha Carlo Terzo/ si addavero, e no pe scherzo/…»).48 Francesco Antonio Rucido di Lucera (1726-1786) ritiene necessario trascrivere gli Atti di fede, speranza e carità.49 Michele Ferrandina di Vieste (1743-1788) ci fa leggere in un suo repertorio sia una minuziosa “ricetta per fare il pane schiavonesco all’uso di Corato”, sia il seguente sonetto, intitolato Il demonio agli ex Gesuiti: «Morto Clemente all’empia Società/ il diavolo prese tosto a dir così/ Teneri figli miei vedete già/ quanto per voi mi adopro e notte e dì/ Or sappiate che in man vi tornerà/ tutto ciò ch’il destin a voi rapì/ che la Compagnia risorgerà/ ad onta di colui che l’abbolì/ Non, cari figli, non temete più./ Seguite pure ad uccidere Papi e Re/ ch’io sempre vi darò forza, e virtù/ Ed al vostro sudor, ampia mercé/ sarà il venir voi tutti qua giù/ eternamente ad abitar con me».50 44 Prot. 248 (1589-1591). Prot. 147-149 (1588-1595). 46 Purtroppo di ambedue le “curiosità” è andata smarrita la segnatura archivistica e per ora, rimanendo esse adespote, è giocoforza contentarsi delle loro fotocopie. 47 Prot. 1672 (1707). 48 Prot. 1285 (1707). 49 Prot. 2453 ( 1726-1728). 50 Repertorio n. 89. 45 21 Non solo rogiti. Curiosità notarili in Capitanata Giuliano Villani di S. Marco in Lamis (1750-1782) trascrive in un suo volume alcuni sonetti, dai titoli Clemente XIV, morto avvelenato, parla all’ingrata Roma. 1774; Della felice memoria di Clemente XI; In isdegno del Potente di Prussia, e Sovrano nelle sanguinolenti guerre per la perdita del suo generale Sceverin Conte.51 In un volume del notaio Michele Tommaso Gonzales di Manfredonia (17161745) si rinviene un piccolo schizzo a penna con il prospetto dell’antica basilica di S. Maria di Siponto.52 Michele Ritella di Biccari (1758-1808) fornisce informazioni sulla morte di papa Pio VI e riporta un “Epitaphium/ a Josepho Marotto Secretario Sanctissimi/ in arca mortalitatis eius inscriptum”.53 Angelo Margiotta di Foggia (1763-64) ci fa conoscere un’ultima diagnosi e cura medica del male che affligge Domenico Maria Margiotta e che è stato sino ad allora variamente interpretato dai dottori («Multiplices morborum affectiones que in te observantur manifestant te affectu hypocondriaco cum subversione ventriculo laborare, nam vitiata prima coctione et chyli distributione et enervato tono et tensione fibrarum viscerum cibaria diuturniorem moram in primis viis trahunt et quasi arescunt, unde ortum habent particulae nitrosae et acidae quae ventriculi membranas dilacerant, qua propter oportet iuvare prima coctionem firmare viscera et depurare sanguinem ne fiant fixationes et irritationes; pro his assequendis tibi sis usus longo tempore succorum depuratorum acetosae, boraginis cichorei melissae plantaginis et absynti, mutatio aeris tibi adiutorium erit … balnea laudo, sed infirmitas tua est plus mentis quam corporis quia turbat te timor mortis. Esto alacri animo. Vale»),54 mentre Giuseppe Sarcina di Casaltrinità (1787-1822) ci offre il disegno a colori di un fanciullo.55 E pongo termine a questa carrellata di “sconfinamenti notarili extracuriali”, per così dire, riportando integralmente quanto si legge sul primo foglio del protocollo del 1778 del notaio Giuliani senior di S. Severo. Ritratto di Gesù Cristo Vi è nella libraria del Re di Francia una descrizione in lingua araba della persona di Gesù Cristo nostro signore, che E. Lentolo governatore della Giudea inviò al Senato Romano, allorché il nome di Gesù Cristo cominciò a spandersi nel mondo, di cui la traduzione parola per parola è la seguente. E. Lentolo al Senato. Egli è qualche tempo, che vi è nella Giudea un uomo di una virtù singolare, il quale si chiama Gesù Cristo; i barbari lo credono 51 Prot. 3777 (1765-1768). Prot. 1982-1983 (1730-1731). 53 Serie II, prot. 315 (1799). Lo stesso notaio, nel prot. 302 del 1786, dà alcune notizie sul convento dei Minori Osservanti di Biccari. 54 Repertorio n. 92 bis. 55 Serie II, prot. 2493 (1811). 52 22 Pasquale di Cicco profeta, ma i suoi seguaci l’adorano come disceso da dei immortali. Egli risuscita i morti, e guarisce tutte le sorta di malattia colla sua parola oppure col toccamento. Egli è d’una statura grande e ben formata. Egli ha l’aria, ossia la presenza dolce e venerabile. I suoi capelli sono d’un colore che non si saprebbe a’ quali appuntino compararli, o rassomigliarli cadendo fin sotto gli orecchi, e spandendosi sopra le sue spalle con molta grazia, e leggiadria, divisi sopra la sommità della testa alla maniera che li portano i Nazzareni. La sua fronte è unita, ed ampia, i suoi occhi sono brillanti, vivi, chiari, e sereni. Le sue narici, e la sua bocca sono formate con una ammirabile semitria, e le sue guance sono segnate d’un amabile rossore e verecondia. La sua barba è folta, e d’un colore che corrisponde a quello dei suoi capelli, scendendo un poco sotto al mento, e dividendosi nel mezzo, forma presso a poco la figura d’una forchetta. Egli riprende con maestà. Esorta con dolcezza, o che egli parla, o che egli operi, il tutto fa con gentilezza, e con gravità. Niuno l’ha veduto mai ridere, ma è stato veduto piangere spesso. Egli è assai moderato, assai modesto, assai savio; egli è finalmente un uomo, che per la sua eccellente beltà, e per le sue divine perfezioni soprapassa tutti i figliuoli delli uomini. Certifico io qui sottoscritto che la presente è stata estratta da un’altra consimile esibitami da un personaggio troppo rispettabile e venerando, che have avuta la sorta di averla in Roma, e per la memoria, ed intelligenza de posteri l’ho voluta qui annotare, affinché abbiano vieppiù mottivo di amare, e servir Gesù Cristo sia lodato. Ed in fede col proprio segno ho segnato. (Tabellionato) Giuliani.56 56 Serie II, prot. 47 (1778). 23 24 Vittorio Russi L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 di Vittorio Russi Capitolo I I primordi Recenti scoperte archeologiche ci dimostrano quanto sia antica la produzione di vino nella Daunia e le fotografie aeree evidenziano tracce di vigneti di età romana anche nei dintorni di San Severo, come presso la masseria Scoppa, dove le viti risultano impiantate col sistema ad alberello, in file di buche scavate nella ‘crusta’, metodo ancora usato da noi fino ai primi decenni del ‘900. Per l’epoca medioevale abbiamo scarse notizie sull’esistenza di vigneti. Nell’aprile del 1116 l’abate Adenolfo di S. Pietro di Terra Maggiore (odierna Torremaggiore) promulga gli statuti rurali che regolano i rapporti con gli abitanti del nostro territorio, dipendenti da quel monastero benedettino. Tra l’altro, vi è stabilito che non si paga la ‘piazza’ per esportare il vino fuori dai confini, ma chiunque possiede una vigna deve dare ai monaci sei quartare di vino per ogni pezza.1 Particolarmente interessante è anche un documento redatto in San Severo nell’aprile del 1301, nel quale il giudice Roberto de Barrachia e il notaio Guglielmo Fasanellus riportano un lungo elenco di nostri concittadini, i quali, insieme ad alcuni abitanti dei vicini casali di Torremaggiore e Plantiliano, rivendicano dei crediti verso il figlio di Carlo II d’Angiò, Filippo principe di Taranto, per la fornitura di varie derrate in occasione di un suo soggiorno nella zona.2 Nella descrizione dei prodotti ceduti e del loro costo, si possono distinguere tre diversi tipi di vino; oltre a quello più comune, denominato pro tinello, c’è una qualità definita de miliori, mentre più costoso appare il vino pro militibus, evidentemente destinato ai soldati di scorta. Esaminando questo elenco di quasi duecento nominativi, si nota che la maggior parte dei fornitori fa parte di un ceto medio, con numerosi artigiani, due 1 2 Francesco DE AMBROSIO, Memorie storiche della città di Sansevero in Capitanata, Napoli, 1875, p. 31. Pietro EGIDI, Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera, Napoli, 1917, pp. 236-241. 25 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 mercanti, uno speziario, quattro giudici, un notaio, tre diaconi e un arciprete. Le quantità vendute si aggirano in media sulle tre-quattro salme, divise in quartare, ma troviamo anche un magister Franciscus che ha fornito de miliori vino salm. 14 et quart. 14.3 È evidente che in questo periodo, come nei quattro secoli successivi, i vigneti sono pochi e il vino venduto rappresenta, con qualche eccezione, un surplus di quello prodotto per uso familiare. Nell’elenco figura in due casi accanto al nome l’appellativo di mercator, ma non sappiamo se si tratta specificatamente di commercianti di vino. In un documento riguardante le decime spettanti nel 1535 alla parrocchia di S. Severino troviamo elencati 76 vigneti, situati per la maggior parte nelle località Carrobba e Belvedere; si tratta di piccoli appezzamenti, per i quali vengono pagate somme esigue, in genere uno o due tarì, ma si distingue un Salvatore De Maio tassato per tre ducati.4 Inoltre, nello stesso elenco compaiono ventinove parrocchiani, diversi dai primi, che debbono dare in totale alla chiesa 217 ‘cannate’ di vino.5 Non abbiamo i dati riguardanti le altre tre parrocchie, S. Nicola, S. Maria e S. Giovanni, ma la situazione non doveva essere molto diversa. Quando, verso la fine del XVI secolo, San Severo diviene feudo della famiglia Di Sangro, molte famiglie ragguardevoli preferiscono abbandonare la città per altri centri della Capitanata liberi da vincoli feudali, come Foggia, Manfredonia e particolarmente Lucera, dove vengono trasferiti i tribunali della Regia Udienza Provinciale. Ciò determina anche una drastica diminuzione di quel ceto di professionisti e medi proprietari terrieri che avrebbe potuto maggiormente dedicarsi a colture alternative a quella cerealicola, prerogativa dei latifondi nobiliari ed ecclesiastici. Le usurpazioni riducono poi gradualmente l’estensione del demanio comu6 nale , mentre buona parte del nostro territorio è da tempo assoggettata alla Regia Dogana delle Pecore e adibita quasi esclusivamente al pascolo delle greggi dei pastori transumanti; rimane, così, ben poco spazio per i vigneti. Inoltre, il disastroso terremoto del 30 luglio 1627 e l’epidemia di peste del 1656 decimano la popolazione e rendono ancora più precaria l’economia della nostra città. Solo dopo la compilazione del Catasto onciario, voluto da Carlo III di Borbone verso la metà del XVIII secolo, conosciamo qualcosa in più sulla coltivazione della vite in agro di San Severo. In questo registro fiscale, ora in corso di pubblicazione, sono menzionati circa duecento vigneti suddivisi su una superficie di poco più di cento ettari, ma solo due fondi superano le 25 pezze.7 3 Non sappiamo a quanti litri corrisponde una salma di quest’epoca; successivamente in Capitanata equivale a circa 175 litri, ma fino all’unità d’Italia le misure differiscono da un luogo all’altro, anche nella stessa regione. 4 Nella monetazione dell’epoca, un ducato equivaleva a cinque tarì. 5 Roberto PASQUANDREA, Chiesa di San Severino Abate e sue grance in San Severo,Foggia, 2009, pp. 94-99. 6 Michele TESTA, La liquidazione dei demani civici della città di Sansevero, S. Severo, 1901. 7 In Capitanata l’unità di misura della superficie agraria era la versura, equivalente ad ettari 1,2345. Una versura di vigneto era suddivisa in 16 pezze ed ogni pezza comprendeva circa 900 viti. 26 Vittorio Russi Non conosciamo i vitigni dell’epoca e i sanseveresi non sono ancora i provetti viticoltori di oggi, così noti anche fuori della Capitanata, ma i sistemi di vinificazione e conservazione del vino rimangono a lungo rudimentali e ciò determina una scarsa qualità del prodotto, come si apprende da una pubblicazione del canonico Gaetano De Lucretiis.8 Le premesse ci sono, ma manca l’esperienza e dobbiamo attendere più di un secolo perché l’attività enologica a San Severo possa migliorare ed espandersi. L’800 è il secolo dei grandi cambiamenti, a partire dall’occupazione francese del Regno di Napoli (1806-1815), durante la quale vengono emanate leggi importantissime, come l’eversione della feudalità e l’istituzione dei Comuni, come oggi li conosciamo, che ci liberano dai tanti vincoli che ostacolavano lo sviluppo dell’economia locale. Dopo l’abolizione della Dogana delle Pecore, che soprintendeva a tutto il sistema di tratturi, di ‘locazioni’ e di ‘poste’, si rendono disponibili le grandi estensioni di terre del Tavoliere. Nella concessione di questi fondi usufruiscono del diritto di prelazione i proprietari di greggi che da tempo inviano dal Molise e dall’Abruzzo i loro animali a svernare nei pascoli di Capitanata e per tale motivo non assistiamo a sostanziali cambiamenti fino alla seconda metà del XIX secolo. Con il declino della pastorizia transumante, molte ‘poste’ vengono trasformate in masserie e i terreni messi a coltura. Ricordiamo, inoltre, la soppressione di una buona parte dei ricchi ordini monastici, detentori di vasti possedimenti terrieri che vengono ceduti per lo più alle poche famiglie agiate che dispongono dei capitali necessari; ma, anche se alcuni di questi tenimenti vengono successivamente suddivisi e rivenduti, permane la difficoltà a reperire appezzamenti da trasformare in vigneti. Una maggiore disponibilità di terre, in lotti più piccoli, si ha dopo il 1866 per la vendita dei fondi degli ultimi enti ecclesiastici e ne usufruiscono in particolare gli stessi contadini che da tempo li tengono in fitto. Tutto ciò determina una lenta ma costante diffusione di colture alternative a quella del grano, particolarmente nei dintorni della città, perchè l’inconsistenza della viabilità rurale rende quasi impossibile raggiungere le campagne per lunghi periodi dell’anno. Solo con la sistemazione della rete stradale9 e la costruzione della ferrovia adriatica, si aprono nuove prospettive per l’esportazione dei nostri prodotti verso le regioni settentrionali. 8 Gaetano DE LUCRETIIS, Trattato della piantagione delle viti e delle cause della disposizione dè vini a corrompersi e inacidirsi nella Puglia daunia, Napoli, 1791. 9 Vittorio RUSSI, Il sistema stradale del territorio di San Severo fino agli anni ’50 del XX secolo, Quaderni Storici di Capitanata, 2, San Severo, 2010, pp. 91-108. 27 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 Ingressi di vecchie cantine del centro storico 28 Vittorio Russi Capitolo II L’espansione dei vigneti a S. Severo nell’800. L’avventura del vino sanseverese inizia in conseguenza di un avvenimento drammatico che colpisce l’economia della Francia, la nazione che già nell’ottocento detiene il primato nella produzione e commercializzazione dei vini. L’importazione di viti selvatiche dall’America determina, purtroppo, anche l’introduzione in Europa di parassiti che causano nuove malattie delle piante, come l’oidio, che viene poi curata con lo zolfo; ma è la fillossera, che si diffonde agli inizi degli anni ’60, a devastare i vigneti francesi. Per molti anni non si trova un rimedio efficace e i commercianti francesi, per non perdere la loro clientela, sono costretti ad importare vini da altre nazioni, come la Spagna, la Grecia e l’Italia. Già con il trattato commerciale italofrancese del 1863 aumentano le nostre esportazioni vinicole, ma solo dopo qualche anno si assiste ad un notevole incremento di vigne a San Severo. Il passaggio dal pascolo e dalle colture cerealicole ai vigneti inizia invece in grande stile a Cerignola già nel 1864, quando la famiglia Pavoncelli realizza per esperimento sessanta ettari di vigneti ‘alla latina’; poi concede in miglioria circa 2500 ettari a contadini del barese, detti versuriesi, con contratti della durata massima di trent’anni. Nel 1893, sempre a Cerignola, il duca de La Rochefoucauld impianta 3000 ettari di vigneti. Questi grandi tenimenti giungono fino a Posta S. Cassiano, determinando lo sviluppo del nuovo centro di S. Ferdinando di Puglia, mentre le uve vengono lavorate in stabilimenti vinicoli situati direttamente nelle aziende agricole, come Torre Giulia e Torre Quarto, che producono in prevalenza vini rossi e rosati.10 A San Severo la situazione è completamente diversa, perchè i grandi proprietari terrieri dimostrano uno scarso spirito imprenditoriale e preferiscono continuare a piantare grano, un’attività molto meno impegnativa; i piccoli agricoltori mancano invece di mezzi economici per la realizzazione di nuovi vigneti, che diventano produttivi solo dopo circa tre anni, e spesso sono costretti ad indebitarsi. La nostra viticoltura non raggiungerà mai aspetti estensivi come a Cerignola, ma col tempo si forma a San Severo una classe di piccoli e medi proprietari terrieri che dispongono di una propria cantina, che diviene così numerosa da non avere raffronti in tutta la Capitanata. Dal Gervasio11 apprendiamo che verso il 1871 i nostri vigneti raggiungono una estensione di 1234 ettari, con una produzione che si aggira sui 45.000 ettolitri di vino, dei quali 17.000 sono destinati al consumo interno e il rimanente da commercializzare nei centri vicini.12 Anche il De Ambrosio, qualche anno dopo, ripor- 10 D. ANTONACCI, I vitigni dei vini di Puglia, Bari, 2004, p. 79. Vincenzo GERVASIO, Appunti cronologici da servire per una storia della città di Sansevero, Firenze, 1871, pp. 51-53. 12 Da notare la bassa resa, che in media supera di poco i 36 ettolitri di vino per ettaro. 11 29 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 ta all’incirca gli stessi dati 13, ma la qualità del prodotto continua ad essere scadente, sia per qualità che per gradazione. I vigneti si estendono sempre più, per la prospettiva di grossi guadagni, e dopo una decina di anni superano già i 1700 ettari, ma i nuovi e spesso improvvisati viticoltori-vinificatori sono scarsamente istruiti e per lo più privi anche delle nozioni tecniche di base, così a spese del Comune vengono fatte pubblicare dal sindaco Filippo d’Alfonso le lezioni di enologia tenute nella nostra città nell’agosto del 1881 dal prof. Giuseppe Frojo.14 In queste conferenze il relatore fa presente innanzitutto come sia errato il nostro sistema di impiantare tante varietà di uve in uno stesso vigneto, il che rende difficile la commercializzazione di vini che per ogni annata presentano caratteristiche diverse; inoltre, fa notare di aver trovato in San Severo cantine inadeguate e botti mal costruite. Suggerisce poi i metodi corretti di vinificazione e di conservazione del vino e trova lodevole l’iniziativa del municipio di promuovere l’impianto di una Cantina Sperimentale, che verrà realizzata l’anno successivo a spese della Provincia. Al comune di San Severo viene concesso anche un aiuto finanziario per quattro anni, a condizione che detta Cantina si presti alla confezione di vini con uve provenienti da località diverse della Capitanata, adottando metodi scientifici di vinificazione, e che pubblichi in un bollettino i risultati ottenuti.15 La nostra Cantina Sperimentale, derivata da quella già esistente a Barletta, è diretta da Domenico Frojo e viene istallata nei locali del soppresso convento dei Cappuccini, dove dal 1884 il vino prodotto si vende al pubblico sia sfuso che imbottigliato.16 In questi anni sono presenti a San Severo varie associazioni di agricoltori, sorte per lo più ad iniziativa di personaggi che le utilizzano per le loro lotte politiche, spesso con contrapposizioni fra gli interessi dei grandi proprietari terrieri e quelli dei piccoli viticoltori. Nel frattempo i francesi trovano il sistema di ovviare alla fillossera, innestando i vitigni locali su nuovi ceppi di viti americane resistenti al parassita, anche se in questo modo importano un’altra malattia delle piante, la peronospora. Nel 1888 viene ricusato l’accordo commerciale tra la Francia e l’Italia e i francesi introducono disposizioni protezionistiche a sostegno della loro politica economica. La nostra viticoltura subisce così una prima forte crisi; il prezzo del vino ribassa fortemente e nel 1889 si svolgono nella nostra città manifestazioni di braccianti e piccoli agricoltori ridotti alla miseria. Si cercano nuovi mercati esteri e si arriva ai trattati commerciali del 1892 con 13 F. DE AMBROSIO, cit., p. 174. Conferenze enologiche dettate in Sansevero per incarico del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio dal prof. Giuseppe Frojo. Raccolte dall’avv. Domenico De Girolamo, Napoli, 1881. 15 Verbale del Consiglio Comunale di San Severo del 27/6/1882. D. Frojo, Relazione sui lavori della Cantina Sperimentale di Sansevero dal settembre 1882 all’agosto 1883, Barletta, 1884. 16 Verbale del Consiglio Comunale di San Severo del 23/6/1884. 14 30 Vittorio Russi Cantina tradizionale la Svizzera e la Germania, oltre a quello decennale e ben più importante con l’Austria-Ungheria, dettato anche da ragioni politiche in contrapposizione alla Francia. Segue poi, nel 1895, un accordo tra il governo italiano e quello austro-ungarico con nuove disposizioni che regolano il commercio del vino con dazi ridotti, ma non mancano polemiche, particolarmente da parte ungherese, per le qualità piuttosto scadenti dei vini italiani, mentre i nostri esportatori si lamentano per la meticolosità dei doganieri austriaci alla frontiera.17 A San Severo le esportazioni aumentano anche per le tariffe agevolate del trasporto ferroviario concesse dal governo e riguardano sia i vini rossi, detti di ‘mezzo taglio’, che i bianchi di gradazione non molto elevata, che diventano ben presto prevalenti. Si produce anche un vino bianco più pregiato, ottenuto dal Bombino insieme a Malvasia o Mostosa, che alcuni grossi commercianti pubblicizzano nei loro listini internazionali come ‘Wein weiss von Sansevero’ e che in parte viene utilizzato in Piemonte come base per la produzione di vermouth.18 Si esporta an17 18 La Sicilia Vinicola e il Corriere Vinicolo, 27 luglio 1895. Umberto PILLA-Vittorio RUSSI, San Severo nei secoli, S. Severo, 1984, p. 205. 31 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 che un’uva bianca da tavola, spedita per ferrovia in contenitori di vimini verso la Germania e l’Austria, dove è chiamata Gold traube (Grappolo d’oro). Da noi c’è, però, anche il problema della forte produzione di vinaccia e di sottoprodotti della vinificazione, che vengono ceduti a bassissimo prezzo a piccoli distillatori in buona parte originari del napoletano. Ricordiamo che già in una carta topografica del 1883 è indicato un C. Lambicco su via S. Bernardino, forse quello di Amodio, e che nel 1890 Luigi Colio ha una distilleria nell’attuale via L. Mucci. Per ovviare a tale situazione, nel 1891 viene costituita la Società Cooperativa dei Viticoltori, ad opera di Michele Colio, Filippo La Cecilia e Giuseppe De Lucretiis, e con i finanziamenti della Banca di San Severo si arriva all’istallazione di una moderna distilleria lungo via Principe di Piemonte, l’attuale via Don Minzoni. È una iniziativa che ottiene ben presto ampi consensi per i numerosi ed ottimi prodotti, come un cognac invecchiato per lunghi anni in botti di rovere e il Casteldrione, un liquore aromatico che vince numerosi premi in Italia e all’estero.19 Già dagli ultimi decenni del XIX secolo i nuovi palazzi dei ricchi agricoltori presentano invariabilmente uno scantinato vasto come l’intero stabile, anche se non sempre viene destinato prevalentemente all’attività enologica. Un esempio interessante di adattamento di una struttura preesistente è quello del palazzo settecentesco Del Pozzo, sul corso Vittorio Emanuele II, acquisito nell’800 dalla famiglia Cavalieri; qui, per utilizzare in maniera più razionale la profonda cantina che si sviluppa su due livelli, viene predisposto nel 1897 un ingresso all’angolo di via M. Fraccacreta. Non mancano in quest’epoca grosse strutture adibite espressamente ad uso enologico. Un esempio lo troviamo nel periodico sanseverese Alba del gennaio del 189920, dove compare una offerta di vendita o affitto di una cantina di proprietà di Prospero Fania, situata alla periferia di San Severo, dalla parte di Torremaggiore. Questa cantina è formata da sei vani a pianterreno e nove sotterranei ed è provvista di sette pigiatoi, quattro torchi ‘nuovo sistema’ e 42 botti per complessive 10.000 cannate, equivalenti ad oltre 1100 ettolitri, una notevole capacità per quest’epoca. Non sappiamo come e quando lo stabile viene ceduto, ma il Fania continua nella sua attività vitivinicola e lo ritroviamo tra i protagonisti delle vicende che sconvolgono l’economia cittadina agli inizi del nuovo secolo. Probabilmente la sua cantina è la stessa nota successivamente come Damiani, sita lungo l’attuale via Checchia Rispoli, ad angolo con via Carmicelli, e recentemente demolita. 19 Vittorio RUSSI, La società Cooperativa Viticoltori San Severo, in «La Capitanata 24», Foggia, 20l0, pp. 127-142.. 20 ‘Alba’, anno 3°, San Severo, 22 luglio 1900. 32 Vittorio Russi Capitolo III La crisi del 1904. Nel luglio del 1900 il sindaco di Foggia comunica al collega di San Severo che nel suo territorio non vi sono stati casi di fillossera, contrariamente alle voci diffuse in quei giorni. In realtà, già da qualche anno questa infezione è presente in Capitanata, anche se in zone ancora limitate, e dovrebbe preoccupare i nostri viticoltori, i quali, fidando nelle rigide misure di prevenzione attuate dalle autorità, rimandano ancora il reimpianto dei vigneti col sistema francese. Per il momento si pensa piuttosto all’aumento del prezzo del vino, determinato dai danni causati in molte zone dalla peronospora. Intanto, mentre in alcune nazioni, come la Svizzera e la Germania, ai nostri vini vengono preferiti quelli provenienti dalla Spagna, dalla Grecia e dalla Turchia, perché di più alta gradazione, nel 1902 decade il trattato commerciale con l’Austria-Ungheria. Secondo la tesi austriaca, avendo l’Italia firmato un altro accordo provvisorio, nel quale non sono considerate le clausole di favore precedentemente concesse, deve accettare le nuove disposizioni, che contemplano per le importazioni dei vini bianchi italiani un minimo di 13 gradi alcolici e il 23 per mille di estratto secco. Gli accordi scadono il 31 dicembre 1903, ma le diminuite esportazioni determinano forti giacenze di vino invenduto e da noi si teme per la prossima vendemmia, non essendoci in città sufficienti cantine per immagazzinare anche la nuova produzione. Si arriva così alla crisi del 1904, che diviene subito argomento di lotta politica in previsione delle elezioni nazionali per la XXII Legislatura, che si terranno in novembre. Tra i candidati del Collegio di San Severo c’è Raffaele Fraccacreta, il quale imposta la sua propaganda particolarmente in favore dei piccoli proprietari, i quali non dispongono di attrezzature e di risorse finanziarie per superare questa congiuntura negativa. Il 13 gennaio viene convocato in sessione straordinaria il consiglio comunale di San Severo, per deliberare su un ‘Voto al governo per la rinnovazione del Trattato di Commercio con l’Austria Ungheria’. Qualche giorno dopo il Fraccacreta tiene un acceso discorso in una affollatissima piazza Castello; le autorità temono disordini e inviano un forte contingente di forza pubblica, ma la popolazione rimane calma. L’oratore espone la difficile situazione che si prospetta, data l’impossibilità per i nostri vini di rispettare i parametri richiesti dall’Austria, e si chiede dove finiranno i 100.000 ettolitri del nostro vino bianco che venivano esportati ogni anno nei soli mesi fra ottobre e dicembre. La soluzione proposta è quella di indurre il governo austriaco, come quelli della Germania e della Svizzera, ad inserire nei nuovi trattati commerciali con l’Italia un trattamento speciale per i nostri vini.21 21 Raffaele FRACCACRETA, Discorso pronunciato al gran comizio pugliese, per un trattamento di favore dei nostri vini nel trattato di commercio con l’Austria-Ungheria, tenuto in Sansevero il giorno 17 gennaio 1904, Sansevero, Tipi De Girolamo. 33 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 I socialisti sanseveresi si dissociano dalle dichiarazioni di Raffaele Fraccacreta e, in un loro comizio del 24 gennaio, Ernesto Mandes e Leone Mucci esprimono l’opinione che l’unica soluzione realistica è quella di sviluppare il commercio del vino con l’abolizione dei dazi interni e di quelli alle frontiere e con altre agevolazioni governative sul costo dei trasporti ferroviari. Già dall’inizio dell’anno, per iniziativa della Società dei Viticoltori di San Severo, si è formato un comitato permanente per risolvere la crisi; vi fanno parte oltre cinquanta eminenti cittadini, che troviamo elencati nel primo numero di saggio del giornale «Pro-Sansevero-Organo degli interessi vinicoli pugliesi».22 Il ministro dell’agricoltura, Luigi Rava, e quello delle finanze, Luigi Luzzatti, in attesa di altri provvedimenti, propongono di predisporre a San Severo un grande deposito comunale per immagazzinare il surplus di 120.000 ettolitri di vino che si prevede per la prossima vendemmia e per la cui realizzazione lo stato contribuirà per metà della spesa. La crisi investe anche altre zone vinicole e il ministro Luttazzi presenta al parlamento delle proposte a favore del settore enologico italiano; si giunge così 22 Ringraziamo la dott.ssa Maria Rosaria Tritto, dell’Archivio di Stato di Foggia, per aver messo a nostra disposizione i documenti utilizzati per la sua relazione su La crisi vinicola di San Severo del 1904, pubblicata negli Atti del 24° Convegno Nazionale sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia, San Severo, 2004, pp. 305-314. 34 Vittorio Russi all’approvazione della legge n. 377 dell’11 luglio 1904, con la quale viene stanziata la somma di 300.000 lire per aiutare i piccoli produttori nell’acquisto delle botti indispensabili per la conservazione del prodotto e altre 700.000 lire per promuovere la costituzione di cantine sociali, coma già è stato fatto in Francia. Il 24 settembre viene finalmente approvato un nuovo accordo con l’AustriaUngheria, che si impegna ad importare 450.000 ettolitri di vino bianco italiano, abbassando il limite della gradazione alcolica a undici e mezzo e quello dell’estratto secco al ventuno per mille, ma quest’ultimo parametro è ancora troppo alto per noi, poiché i vini sanseveresi raramente superano il diciannove per mille. In attesa di trovare una soluzione si ritarda l’inizio della vendemmia, ma la situazione diviene drammatica e la giunta comunale sembra impotente davanti a questa crisi. Si sollecita il governo perché invii con urgenza 1400 botti e un buon numero di carri ferroviari provvisti di serbatoi per il trasporto, ma queste richieste vengono esaudite solo parzialmente23 e con ritardo, per cui molta uva rimane sulle piante. La maggior parte dei nostri piccoli viticoltori è abituata a vendere direttamente il prodotto grezzo appena fermentato, perciò manca di recipienti per conservare il vino e per non perdere il prodotto è costretta a cederlo a basso prezzo agli speculatori. Il prefetto di Foggia, allarmato dalla situazione, ordina al sindaco di San Severo, Gaetano Croce, di provvedere a reperire locali e attrezzature, per cui vengono acquistate a spese del comune 150 botti, probabilmente a Barletta, e si mettono a disposizione i locali dell’ex convento di S. Bernardino; ma, le iniziative intraprese non sono sufficienti e la maggior parte del vino si guasta. Il problema non è solo nostro e non rimane altra soluzione per il governo che concedere la distillazione agevolata del prodotto invenduto; purtroppo, questo tipo di provvedimento è solo il primo di una lunga serie che caratterizzerà le crisi future. A San Severo il deposito vinicolo comunale non viene più attuato e la delusione per le mancate promesse governative provoca un diffuso malcontento, che si riflette in una fotografia del gennaio 1905 che ci mostra un busto del ministro Luigi Luttazzi modellato con la neve e accompagnato da un cartello satirico.24 23 Il modulo predisposto dal governo per la concessione delle botti è firmato dal ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, Rava, e vi sono indicate le norme per ottenere in concessione i vasi vinari per un periodo di dieci mesi. Le botti vuote vengono depositate nel cosidetto ‘orto di Luigione’, nell’area di proprietà comunale dove ora sorge l’ edificio scolastico E. De Amicis. 24 Il ‘monumento’, di buona fattura, appare situato su un piedistallo nell’ex chiostro del palazzo Celestini. Il testo è il seguente: A Gigione Luzzatti - patrigno affettuoso - questo monumento niveo - fugace come le sue promesse - Sansevero riconoscente - pone - III. I. a.d. MCMV. 35 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 Monumento di neve al ministro Luigi Luzzatti Capitolo IV Il vino a S. Severo fino alla seconda guerra mondiale. Dopo la crisi del 1904 la situazione non migliora, così Antonio Faralla, presidente della Federazione dei Piccoli Viticoltori, nel gennaio del 1908 invita le rappresentanze delle varie associazioni cittadine ad una riunione presso la sede dell’associazione, in largo S. Antonio Abate, per chiedere, tra l’altro, che il governo conceda un impianto di distillazione e che venga attuata una cantina sociale. Ma anche queste richieste rimangono senza esito. Nei convulsi avvenimenti di questi primi anni del secolo, troviamo qualche notizia sull’esistenza di cantine di una certa entità, come quella di Checchia verso porta Foggia, e dell’attività di commercianti del nord, come i fratelli Corvi, di Lodi, i quali hanno un deposito presso la stazione ferroviaria. Ma il primo stabilimento vinicolo di cui abbiamo notizia diretta è quello di Raffaele Fraccacreta, che compare in alcune fotografie scattate in periodo di vendemmia e che mostrano i carretti che trasportano l’uva nei tipici tinelli, mentre lungo la strada è depositato un gran numero di botti con il marchio R. F. Questa azienda è situata lungo l’attuale via Checchia Rispoli, nel sito del successivo mulino Casillo. 36 Vittorio Russi Stabilimento di Raffaele Fraccacreta In questo periodo la fillossera dilaga nel nostro tenimento e costringe gli agricoltori a sostituire i vigneti tradizionali con quelli innestati col sistema francese. Da un punto di vista tecnico non ci sono difficoltà, in quanto dagli inizi del ‘900 sono stati costituiti dei consorzi per la difesa della viticoltura, che hanno promosso studi per sperimentare i vari tipi di vitigni; il vero problema sono i costi notevoli, che non tutti possono affrontare, e in alcuni casi intervengono in aiuto i due istituti di credito locali, anche se le loro possibilità sono ormai al limite. Si diffondono così da noi i vigneti a filari e mentre per le uve bianche la preferenza va al Bombino, quelle rosse tradizionali vengono gradatamente sostituite dal Montepulciano, spesso associato al Sangiovese perché di maggiore produttività, anche se la qualità dei suoi vini da noi è meno pregiata. La Società dei Viticoltori, che ormai conta un centinaio di soci ed è la terza per importanza in Capitanata, nel 1910 distilla 25.550 ettolitri di vino, proveniente dalle eccedenze per le abbondanti vendemmie degli anni precedenti, e oltre 5.300 quintali di vinacce.25 Purtroppo, una nuova legge impone alle distillerie di depo25 Angelo FRACCACRETA, Le forme del progresso economico in Capitanata, Napoli, 1912, nota a p. 81. 37 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 sitare in banca notevoli somme come cauzione per la tassa sui distillati e la nostra cooperativa, già a corto di liquidità per la grande quantità di prodotto immagazzinato, è costretta a ricorrere ad altri fidi presso la locale Banca Popolare. Nel 1911 i dirigenti della Società fanno redigere un inventario completo dei beni dell’azienda, per dimostrare agli azionisti e ai creditori la reale situazione finanziaria; in questo elenco troviamo più di cinquecento fusti, di cui la metà sono botti di rovere destinate all’invecchiamento dei liquori. Per la costruzione e la manutenzione di questi recipienti è stato fatto venire appositamente da Pomigliano D’Arco il bottaio Antonio Terracciano, il quale poi continua l’attività artigianale nella nostra città con i figli Giovanni e Felice.26 Malgrado le crisi ricorrenti, verso il 1910 la superficie coltivata a vigneti supera i 9000 ettari e il basso prezzo dei nostri vini attira i commercianti forestieri, i quali predispongono magazzini nei pressi della stazione ferroviaria o allestiscono delle proprie cantine per vinificare le uve acquistate sul posto. Già dalla fine dell’800 sono presenti a San Severo commercianti barlettani, come Emanuele De Feo, i quali dispongono di buoni vini neri ma scarseggiano di bianchi. I nostri prodotti vengono inviati per ferrovia a Barletta, un importante e antico centro vinicolo favorito dalla presenza del porto, dal quale partono i battelli diretti particolarmente a Trieste, che in quest’epoca è il più importante scalo marittimo dell’impero austriaco. Da Barletta arrivano anche i costruttori di botti, come i Sernia, Galante, Soricaro, Iacobazzi; sono abili artigiani che svolgono spesso anche un ruolo di mediatori e alcuni finiscono per intraprendere una propria attività vinicola. È interessante notare come questa categoria continui ad adottare per anni le norme e le tariffe stabilite dalla Lega tra Bottai Barlettani. Della stessa città è anche Giuseppe Sguera, il quale ritira da noi vino bianco per conto della ditta Tauber di Praga; poi si trasferisce a San Severo agli inizi del secolo e lavora in collaborazione con il De Feo, aprendo successivamente uno stabilimento vicino alla stazione. Nel frattempo, Raffaele Fraccacreta, divenuto nel 1909 deputato al Parlamento, riesce ad ottenere molte facilitazioni per lo scalo ferroviario e per treni merci straordinari che trasportano i nostri prodotti verso il nord; si giunge così a spedire fino a 900 ettolitri di vino al giorno. I trasferimenti dalle cantine verso la ferrovia avvengono a mezzo carretti, che possono trasportare al massimo tre botti alla volta, ed è evidente che la vicinanza degli stabilimenti alla stazione diventa molto importante; per tale motivo si sviluppa in questa zona un vero e proprio quartiere industriale. Lo stesso Fraccacreta costruisce verso il 1912 un grosso stabilimento in via Principe di Piemonte 26 Vittorio RUSSI, La Società Cooperativa cit. 38 Vittorio Russi (odierna via Don Minzoni), mentre la ditta Folonari di Brescia si è già insediata sulla strada vicinale Principato, subito al di là della ferrovia, con un binario di raccordo per i propri vagoni cisterna.27 Non tutti trasferiscono la propria attività presso la stazione e ricordiamo, tra gli altri, Alfonso La Cecilia, il quale ha esposto vini e spumanti alla mostra campionaria di Roma del 1909 e continua a lavorare in via S. Bernardino, accanto alla distilleria di Giuseppe Amodio. Ormai, anche i piccoli viticoltori comprendono che non possono continuare a svendere le uve agli stabilimenti e ai commercianti, così provvedono ad allestire delle proprie cantine, situate per lo più sotto casa. Le attrezzature sono ridotte all’essenziale e consistono in un pigiatoio di legno (palmento) montato su cavalletti, un torchio a mano, botti di modeste dimensioni, qualche tino e pochi altri accessori; ciò rende possibile immagazzinare il vino ed attendere il momento più propizio per la vendita.28 Questi locali, caratterizzati da un vano a pianterreno e da uno scantinato sottostante, spesso ricavato ex novo sotto edifici ottocenteschi, si diffondono a centinaia in tutta la città e rappresentano una peculiarità che distingue San Severo dagli altri centri vinicoli pugliesi.29 Ma, anche le cantine più grandi non dispongono ancora di energia elettrica e la lavorazione rimane quella tradizionale. Questo particolare momento dell’enologia sanseverese subisce una drastica contrazione a partire dal 1914, per lo scoppio della prima guerra mondiale. Non sono solamente gli avvenimenti bellici a determinare una nuova crisi nella nostra economia, ma è la disfatta di quelle nazioni che hanno rappresentato per lungo tempo la nostra migliore clientela a far precipitare le esportazioni di vino. Le conseguenze non tardano a farsi sentire e già agli inizi della guerra chiude la distilleria della società Santolini-Compagnone, sulla strada per S. Marco in Lamis, di fianco all’odierno campo sportivo. Numerose notizie sul dopoguerra le ricaviamo dall’Annuario Vinicolo Italiano edito nel 192230, nel quale è riportata per San Severo una lista di 81 nominativi riguardanti attività varie nel campo vinicolo. Inoltre, vi troviamo un elenco 27 Folonari arriva a disporre in Puglia di stabilimenti anche a Barletta, Locorotondo, Squinzano e Galati- na. 28 Dino ORSI, C’era una volta…la cantina, S. Severo 1992. Id., C’era una volta…San Severo, Foggia, 2004, pp. 21-56. 29 Lo scrivente ha in corso un lavoro di schedatura di queste attività enologiche e una prima raccolta sintetica di dati, riguardante quaranta stabilimenti ed oltre quattrocento cantine private, è a disposizione di quanti desiderano approfondire l’argomento. 30 Primo Annuario Generale Vinicolo Italiano Illustrato, Torino, anno II, 1921-1922, pagg. 626, 631, 808. Abbiamo potuto consultare questo volume per la cortesia dell’amico Gino Biccari, al quale siamo anche grati per le notizie e le fotografie d’epoca sulle attività enologiche a San Severo. 39 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 specifico di produttori-esportatori di vino31 ed un altro di mediatori.32 Dai dati esposti non si può dedurre l’effettivo peso in questo periodo del comparto enologico sull’economia sanseverese, ma gli inserti pubblicitari inseriti nel volume indicano come diversi commercianti esportano sia il vino che l’olio d’oliva. Una specialità locale sono i ‘filtrati dolci bianchi’, pubblicizzati da Orazio Gentile; Alfonso Mancini (con stabilimento in via Torremaggiore); Giovanni Pennacchia e, particolarmente, da Luigi Checola, il quale li produce in un ‘Grande stabilimento moderno elettrico’. Dopo il 1922, chiude il deposito al n. 35 del viale della Stazione di Sebastiano Visaggio, commerciante in ‘uva, mosto, vini, olive fresche e prodotti del suolo. Specialità vini bianchi verdolini e color carta. Rosso, tipo Montepulciano e Sansevero’. Cessa anche l’attività dello stabilimento della ditta svizzera Eggiman & C., sito nei pressi dello scalo merci della ferrovia; mentre non disponiamo di dati su altri commercianti forestieri, come Pietro Longo (di Milano?), il quale aveva un magazzino nella zona del palazzo Giancola, accanto alla stazione. Intanto, Raffaele Fraccacreta si trasferisce a Roma e vende il suo stabilimento ai Fratelli Fossati, della provincia di Verona, ma anche questa ditta cessa ben presto la sua attività. In questo periodo burrascoso ricordiamo un cambio di gestione per una cantina già di Gervasio e poi di Carlo Russo, sita all’angolo di via Galvani con via Pacinotti, che passa verso il 1924 a Gioacchino Aquilano, il quale riesce a superare i momenti più critici. Abbiamo, però, anche notizia di vini di qualità, come quelli imbottigliati dai fratelli Alfredo e Luigi D’Alfonso e offerti al principe Umberto di Savoia in occasione della sua venuta a San Severo nel 1923, per l’inaugurazione dell’edificio scolastico presso la villa comunale. Successivamente, il mutato clima politico favorisce le nostre esportazioni verso la Germania e la situazione generale tende un po’ a migliorare. Così vediamo come Michele Florio, il quale già nel 1922 risulta produttore, nel 1927 imbottiglia vino Montepulciano e filtrato dolce nella sua cantina di via Calabria. A sua volta, Michele Rizzi, che spediva uva da tavola verso il nord e aveva lavorato con Eggiman, incrementa la sua attività ampliando nel 1928 lo stabilimento sull’attuale via Don Minzoni. Per conto di Rizzi, il bottaio Alessandro Sernia costruisce poi dieci grandi botti, della capacità di centinaia di ettolitri, ricavate sul posto da tronchi di rovere fatti venire appositamente dalla Slovenia e imbarcate al porto di Pola. 31 Cassano Matteo, Castelli dott. Giovanni, Checola Luigi, Di Troia Luigi, Di Troia Vincenzo e Figli, Florio Michele fu Antonio, Fraccacreta Raffaele, Irmici Michele,La Cecilia Alfonso, La Cecilia Filippo, Mollica Leonardo e Figlio, Mucci Leonardo, Nardella Raffaele, Petruzzellis Luigi, Russi Ernesto, Visaggio Sebastiano. Castelli e Petruzzellis compaiono due volte, non sappiamo se per errore di stampa o per omonimia. 32 Checola Luigi, Garofalo Nicola, Iacobacci Luigi, La Cecilia Alfonso, La Cecilia Michele, Mancini Alfonso, Pagliafora Raffaele, Pennacchia Giovanni, Rizzi Michele, Sguera Giuseppe. 40 Vittorio Russi Etichette del 1927 Per rilanciare i nostri vini sui mercati italiani e stranieri, viene riaperta nel 1930 a San Severo la Cantina Sperimentale, come sezione staccata di quella di Barletta. Questo ente, diretto dall’enotecnico Ugo Stramezza, è aperto al pubblico ed è provvisto di un laboratorio di analisi abilitato al rilascio di certificazioni valide per le transazioni commerciali. La nostra cantina sperimentale arriva a produrre in un anno fino a cento ettolitri di ottimo vino, che ottiene attestati e premi in mostre e concorsi anche all’estero, e persegue una attività scientifica e promozionale che porta nel 1932 al riconoscimento del vino tipico ‘San Severo bianco’, ai sensi della Legge 10/7/1930 n. 1164.33 In questo periodo chiude, purtroppo, la gloriosa Società dei Viticoltori e la città non solo perde una rilevante attività economica, ma soprattutto una distilleria che tanta parte ha avuto nella salvaguardia del nostro settore vinicolo. Rimangono tanti piccoli distillatori, in gran parte originari di S. Antimo, nel napoletano, coadiuvati da raccoglitori di vinaccia, feccia e altri sottoprodotti della vinificazione. Una importante iniziativa è invece la costituzione, nel settembre del 1932, della ‘Società Civile per Azioni Anonima tra Viticoltori Produttori Vini di San Severo’, diretta da Antonio La Monaca e con sede presso la Federazione Agricoltori, in corso Umberto I. Il proposito è quello di aprire uno stabilimento vinicolo in 33 Vittorio RUSSI, La cantina sperimentale di San Severo, in «La Gazzetta di San Severo», 27 ottobre 2001. 41 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 concorrenza con quelli dei commercianti, che tendono a tenere bassi i prezzi delle uve e dei vini; ma gli inizi non sono facili e per la prima vendemmia si è costretti a prendere in fitto varie cantine, con una produzione di 7000 ettolitri di vino, parzialmente venduti l’anno successivo a Giovanni Zitoli. Nel 1934 aumenta il numero dei soci e cambia la denominazione in ‘Cantina Sociale Cooperativa di San Severo’, la prima nel suo genere in Capitanata. L’enologo è Michele Irmici e si vinifica nello stabilimento di Alfonso La Cecilia, su via S. Bernardino, che poi viene acquistato; si utilizzano pigiatrici elettriche e presse idrauliche, che permettono di lavorare circa 300 quintali di uva al giorno.34 In questi anni, Camillo Scaler, di Gressoney Saint Jean (Aosta), il quale teneva in fitto la cantina Damiani, alla periferia della città verso Torremaggiore, acquista l’ex stabilimento di Raffaele Fraccacreta, in via Principe di Piemonte (ora via Don Minzoni), che viene poi ampliato dal figlio Stefano e diviene un punto di riferimento per i nostri viticoltori per la serietà e la puntualità ‘svizzera’ dimostrata nei rapporti commerciali. Altre grossa cantina di quest’epoca è quella del barlettano Giovanni Iacobazzi, che si insedia nei locali dell’ex Società Ing. Vallecchi-Autolinee del Gargano, in via Galvani, e lavora per conto della ditta Bolla di Verona. Non sappiamo, invece, quando abbia cessato l’attività la cantina e distilleria di Vito Pappalepore, sita all’angolo di via Don Minzoni col viale della Stazione, demolita per far posto alla clinica del dott. Troiano.35 Quasi di fronte a Pappalepore c’è Raffaele Nardella, già attivo nel 1922 e del quale conosciamo la pubblicità riguardante i suoi vini bianchi; questa cantina viene acquisita poi da Ernesto Meola, già dipendente di Michele Florio. Anche Raffaele Orlando, originario del beneventano e agente dei Fratelli Pasqua di Verona, nel 1937 apre un suo stabilimento in fondo a via Marsala, da dove è possibile utilizzare la tramvia San Severo- Torremaggiore come collegamento ferroviario con la stazione. Un’altra attività in fase di espansione è quella di Giuseppe Sguera e del figlio Oronzo; il loro stabilimento si trova in via Pacinotti e confina con una vecchia distilleria che nel 1939 viene modernizzata dalla Società Italiana Spiriti (S.I.S.), anche questa collegata con la ferrovia. Tra i tanti commercianti e mediatori ricordiamo Gaetano Sebastiani, agente della ditta Vedova Bini di Castelfranco Emilia, il quale nel 1933 prende in fitto la cantina di Carlo De Lucretiis, sita su via Fortore. Una figura caratteristica di questo periodo è Stefano Stien, un mediatore divenuto anche rappresentante della ditta svizzera Blenk, specializzata nel noleggio di carri ferroviari per il trasporto di vino; Stien si dedica poi anche alla produzione di gassose, sponsorizzate con gare ciclistiche. 34 Per i dati riguardanti la Cantina Sociale ringraziamo il rag. Mario Cota, già direttore amministrativo della cooperativa. 35 La clinica è la stessa poi gestita dal dott. Giulio Cerulli, direttore dell’ospedale Teresa Masselli. 42 Vittorio Russi Il vino si vende per lo più sfuso ed uno degli spacci più noti è quello di Gioacchino Maghernino coadiuvato dai figli Alfredo e Antonio; quest’ultimo nel 1938 ottiene in una mostra il primo premio per un vino bianco di 15 gradi! Molte di queste attività rallentano e poi si bloccano dopo il 1940; così chiude l’azienda di Felice Sonoro, con uno stabilimento vinicolo abbinato ad un oleificio (Vinolio) in via Sicilia. Durante il periodo bellico, la Cantina Sociale si dota di un grosso motore a scoppio per azionare parte dei nuovi macchinari; continua invece normalmente la produzione nelle piccole cantine con le attrezzature tradizionali, per le quali non è necessaria l’energia elettrica. Gli eventi della seconda guerra mondiale toccano marginalmente il nostro territorio, ma per lungo tempo cessa ogni rapporto con le ditte del nord. Verso la fine del 1943 il nostro vino subisce un aumento di prezzo inaspettato, determinato dalla vicinanza del fronte di guerra e dalla interruzione dei trasporti a lunga distanza, che impediscono ai commercianti dei centri vicini di rifornirsi adeguatamente. Molti nostri viticoltori tendono a conservare il loro prodotto nella prospettiva di futuri grossi guadagni e alcuni speculatori ne approfittano per introdurre in città vini di scarsa qualità; l’illusione però dura poco e i prezzi crollano.36 Gli stabilimenti vinicoli stentano a riprendere il lavoro per la scarsità di energia elettrica ed Ernesto Meola si ingegna a collegare una pigiatrice ad una locomobile a vapore del tipo usato per la trebbiatura; per pressare la vinaccia ci sono invece i torchi idraulici azionati a mano. Lo stesso sistema viene adottato in altri stabilimenti, come quello di Scaler, dove la locomobile viene successivamente utilizzata per produrre il vapore necessario alla manutenzione delle botti. Capitolo V Il secondo dopoguerra Nel 1945 la guerra è finita, ma siamo ancora lontani da un ritorno alla normalità e alcuni commercianti più intraprendenti, come il giovane Michele Meola, tentano di riprendere i contatti commerciali con la Campania. In attesa del ripristino della linea ferroviaria si cominciano ad inviare verso Napoli le botti di vino con i carretti; si costituiscono così delle vere e proprie carovane, sia per utilizzare i cavalli in gruppo per superare le salite più ripide, come quella di Ariano Irpino, che per scoraggiare i malviventi che impongono pedaggi ai commercianti di passaggio. 36 Relazione presentata a S. E. il generale Cotronei Prefetto della Provincia di Foggia dal Commissario Prefettizio Arduino Fraccacreta sull’opera svolta dall’Amministrazione Comunale dal 1° ottobre 1943 al 30 settembre 1944, San Severo, 1944, p. 2. 43 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 Intanto a San Severo si riorganizza la Cantina Sperimentale, diretta dal 1947 dal dott. Ennio Gervasio, e opera per qualche anno una società fra produttori e commercianti di prodotti locali denominata O. C. I. (Organizzazione Commerciale e Industriale), che ha sede nello stabilimento di Oronzo Sguera e della quale fanno parte per il settore vinicolo anche Adelchi Cicerale, Domenico Laudadio, Giovanni Iacobazzi e Vincenzo Zitoli. In questo periodo è attiva anche la distilleria di Matteo e Pasquale Colio, in via Solferino, che però ha una vita piuttosto breve. Nel 1947, il tenimento dell’Istituto Agrario Michele Di Sangro, che si estende verso la contrada Zamarra, viene suddiviso in 1223 quote assegnate a braccianti agricoli; questi piccoli appezzamenti vengono poi trasformati prevalentemente in vigneti, utilizzando portainnesti selezionati per quel particolare tipo di terreno. Intanto la Cantina Sociale, che i sanseveresi chiamano ‘il Cantinone’, aumenta la propria ricettività affittando parte dell’adiacente ex stabilimento di Francesco Presutto, che poi viene incorporato; si progetta anche una distilleria cooperativa, che non viene però attuata, mentre nel 1949 si stabilisce di acquistare un moderno impianto di imbottigliamento. Fra le tante iniziative che si sviluppano tra gli anni ’40 e ’50, ricordiamo lo stabilimento di Roberto Mottola, napoletano, il quale per vinificare l’uva di oltre duecento ettari di vigneti che la famiglia possiede in contrada Falciglia, si insedia nei pressi del viale della Stazione, non lontano dalle cantine dei fratelli Pennacchia e di Giuseppe Soricaro. Altro caso è quello di Vincenzo Di Troia, il quale dopo aver tenuto in fitto l’ex Vinolio, entra nella società I.V.O. (Industria Vinicola Olearia); la sede, che si trovava sull’attuale viale Matteotti, viene ceduta nel 1954 ai fratelli Fabrizi, commercianti originari di Pratola Peligna. Ancora per qualche decennio gli impianti di lavorazione rimangono piuttosto sommari, consistendo per lo più in uno o due torchi continui e qualche pressa idraulica; per le uve nere si istallano anche pigiodiraspatrici e sgrondatori, ma la qualità del prodotto non è eccelsa e, con qualche eccezione, i nostri rimangono pur sempre vini da taglio. Spesso i proprietari di questi stabilimenti, al pari dei numerosi commercianti paesani e forestieri, acquistano il prodotto dei piccoli viticoltori, i quali però non dispongono di pompe e per travasare il vino dalla loro cantina ai grandi serbatoi dei compratori intervengono i ‘brentatori’, operai specializzati che prendono il nome dal barile da 50 litri utilizzato per questo lavoro, la brenta (in dialetto mantegna). Questi brentatori si sono costituiti già prima della guerra in una specie di cooperativa, che poi si è divisa in tre ‘compagnie’, aderenti ad altrettanti sindacati di diversa connotazione politica.37 37 Vittorio RUSSI, I ‘Carrea-mantegne’ a San Severo, in «Quaderni dell’Orsa», S. Severo, dicembre 2008, pp. 38-40. 44 Vittorio Russi Agli inizi degli gli anni ’50 il bum economico è ancora lontano e intere famiglie emigrano verso le zone industriali del nord, particolarmente a Milano e Torino. Comincia a scarseggiare la mano d’opera stagionale e nel periodo della vendemmia si spostano a San Severo operai dei paesi vicini, particolarmente del Gargano, che spesso si trasferiscono qui definitivamente. A questo problema si sopperisce meccanizzando anche le cantine private e si inizia con semplici pigiatrici a rulli o con un tipo di pigiatrice-pressatrice della locale officina Vernola; per spremere le vinacce rimangono i tradizionali grandi torchi a mano, qualche volta sostituiti da presse idrauliche costruite anche da nostri artigiani. Le botti, di difficile e costosa manutenzione, vengono gradatamente sostituite dalle vasche in cemento, raramente in uso prima della guerra e munite dapprima di portelle in legno e poi di quelle metalliche. Questa opera di rinnovamento inizia con i viticoltori più importanti, i quali dispongono di grandi cantine private affidate ad esperti del mestiere, come i Vezzano, cantinieri di professione; ma, a parte la Cantina Sociale, nessuno stabilimento dispone di un enologo fisso. Nel frattempo altri imprenditori forestieri si insediano in San Severo, come Giuseppe Gavioli di Bomporto (Modena), il quale nel 1953 acquista l’azienda di Aquilano in via Galvani, e Valente Petternella, di Legnago (Verona), che qualche anno dopo apre uno stabilimento in via Aspromonte. Di Verona è anche la ditta Bolla, che si insedia in un vecchio deposito già appartenuto a Michele Rizzi, su via S. Bernardino, costituendo la società V.I.S., della quale fanno parte anche i fratelli Fabrizi. Il molisano Andrea Berardo inizia la sua attività nei pressi dell’azienda di Raffaele Orlando in via Marsala, mentre i Di Capua trasferiscono la loro attività di commercianti da Torremaggiore a San Severo, dove costituiscono vari depositi e poi cominciano a vinificare in proprio. Alcune cantine lavorano per conto di forestieri, come quella di Antonio Florio, affittata a Tommaso Alberti di Imola, mentre Antonio Bottino produce vino per Pietro Masucco di Chiavari (Genova), il quale poi lo imbottiglia con la denominazione ‘San Severo’. In questa fase di grande espansione del settore enologico, vediamo nascere due nuove importanti entità. La prima è l’Enopolio del Consorzio Agrario, sorto verso il 1955 su via G. Fortunato e diretto dall’enotecnico Leonardo Villotta; l’altra è la Cooperativa Agricola della Riforma Fondiaria, che si avvia nel 1957 prendendo in fitto varie cantine. Intanto la Cantina Sociale si espande ulteriormente, acquistando dapprima una parte del deposito di Bolla e poi, nel 1958, la cantina di Vincenzo Di Troia, sul lato verso via Garigliano, raggiungendo ben presto una capacità ricettiva di 80.000 quintali di uva. In questi anni vediamo anche sorgere un’azienda che ottiene ben presto vasti consensi per la qualità dei suoi prodotti. È quella di Ludovico D’Alfonso De Sordo, che inizia verso il 1957 la sua attività nei locali di un’ex fabbrica di liquirizia, su 45 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 corso L. Mucci, imbottigliando quattro diversi tipi di vini che vengono invecchiati in un antico scantinato situato sotto il municipio; una novità per San Severo è la produzione di spumante col metodo Charmat. Nel 1955 la Cantina Sociale rinnova l’impianto di imbottigliamento, ma in questi anni sono presenti in San Severo anche piccoli imbottigliatori di vini comuni da pasto. Tra i tanti ricordiamo Vincenzo Cassano, Luigi La Cecilia, Ciro Mezzina, Attilio Olivieri, Vincenzo Prattichizzo, Giandomenico Tata, preceduti da una società fra Giovanni Ciannilli, Giovanni Stampanone e Alfredo Tata. In questa sintetica carrellata sul dopoguerra non possiamo tralasciare alcune attività collaterali a quella enologica, come la raccolta di sottoprodotti della vinificazione ( vinaccia, feccia, tartaro, vini guasti e torchiati). Questo lavoro, per il quale si distinguono particolarmente i fratelli Colio, viene svolto per conto di varie piccole distillerie, come quelle di Gabriele, Ceparano, De Blasio e Pedata, che in questo periodo producono solo alcool grezzo, che inviano a Barletta per la raffinazione. La vecchia distilleria Fusco, su via Checchia Rispoli, passa al napoletano Abele Palma ed è la prima a San Severo ad essere corredata da un impianto di rettificazione. 46 Vittorio Russi Capitolo VI Luci ed ombre Agli inizi degli anni ‘60 le prospettive nel settore vinicolo non appaiono favorevoli, per una stasi del mercato a livello nazionale che determina una notevole giacenza di prodotto invenduto; per agevolare il settore, il governo emana nell’agosto del 1960 un provvedimento per una parziale distillazione agevolata, disposizione che verrà rinnovata successivamente. Per superare questa emergenza, alcune nostre aziende tendono ad ampliare la loro capienza, come fa la Cantina Sociale, che nel 1962 raggiunge i 250 associati e ritira oltre 200.000 quintali di uva. Anche molti piccoli viticoltori cercano di aumentare la capacità delle loro cantine, ma nel contempo tendono a semplificare il lavoro di vinificazione utilizzando dei veloci torchi continui, che però peggiorano la qualità dei vini. Una iniziativa particolare è la sperimentazione di un sistema di trasporto su rimorchio di interi carri cisterna tra le cantine e la stazione ferroviaria, appaltato dalla ditta Grassi; ma l’esperimento viene interrotto per il notevole peso ed ingombro dei vagoni. Verso il 1968 si riesce ad ottenere un notevole finanziamento statale per la costruzione sulla strada per Torremaggiore di una centrale di accantonamento, destinata a stoccare le eccedenze di vino delle cooperative di Puglia, Lucania e Molise, particolarmente per quello destinato alla distillazione agevolata38; ciò allevia in qualche modo la difficile situazione, ma i veri problemi rimangono in buona parte irrisolti. Si cerca anche di promuovere una modernizzazione del settore con i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, che non sempre, però, vengono utilizzati correttamente e portano ad una proliferazione di iniziative destinate spesso a durare ben poco. Un esempio è l’Enopolio dell’Istituto Michele Di Sangro, sorto nel 1963 alla periferia meridionale della città e già in crisi dopo pochi anni. La costituzione di questa nuova cantina non ha altro effetto che quello di costringere i quotisti che hanno in concessione i terreni della Zamarra a pagare in natura il canone, dirottando così l’uva che prima veniva conferita alla Cantina Sociale e alla cooperativa della Riforma Fondiaria. Quest’ultima, che teneva in fitto la cantina Pisante in via Perseo, edifica nel 1964 nel piazzale di S. Bernardino un proprio stabilimento, con una capacità iniziale di quasi 30.000 ettolitri. L’anno successivo, le strutture della Riforma Fondiaria di Puglia, Lucania e Molise, e quelle dei Consorzi Agrari provinciali, con Decreto ministeriale dell’8 giugno 1965 vengono autorizzate ad attuare l’ammasso volontario di vini non superiori a 10° alcolici e idonei alla 38 La centrale aveva una capacità di 99.000 hl, con 256 vasche in cemento disposte su tre livelli, di cui uno interrato. Successivamente, il complesso è stato anche dato in fitto a stabilimenti privati. 47 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 distillazione agevolata. Il provvedimento tende a togliere dal mercato i prodotti più scadenti, ma non è con questi decreti-tampone che si inducono i viticoltori a produrre meno uva e di migliore qualità. In questi anni non mancano nuove iniziative, come quella di Aldo Pugliese, il quale prende in fitto la cantina dei fratelli Pennacchia, sul viale della Stazione, ed imbottiglia con l’etichetta ‘Fattoria Pira’. I vini prodotti nella cantina di Salvatore Gagliardi vengono commercializzati sotto la denominazione di ‘Cinelli Irma’, mentre i fratelli Giuseppe ed Italo Sguera provano ad imbottigliare anche vini bianchi frizzanti. Alcuni stabilimenti vengono ampliati, come quello di Vincenzo Zitoli, in via Marconi, mentre Vincenzo Di Troia si trasferisce dietro il campo sportivo, nei locali dove Vittorio Farolfi lavorava i sottoprodotti vinicoli, e trasforma i vecchi capannoni in uno stabilimento vinicolo, istallando tra l’altro sei contenitori metallici da 3500 ettolitri l’uno, una novità per San Severo. Sorgono anche nuove cantine, come quelle di Giovanni Ciannilli, su corso G. Di Vittorio; Antonio Rotondo, su corso L. Mucci; Michele Meola, su via G. Marconi; Michele Laudaddio, in via Celenza, e tante altre. Intanto a Torremaggiore viene costituita la Cooperativa Agricola Fortore, che immagazzina ingenti quantitativi di uve che prima venivano portate a San Severo. Con tutte queste nuove attività, il problema delle giacenze di vino si inverte nelle annate di scarso raccolto, come per la gelata del 1969, e alcune aziende che imbottigliano, come la Cantina Sociale, si trovano in serie difficoltà. Gli anni ’60 si concludono con una tappa importante per la nostra economia: È il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata del vino ‘San Severo bianco, rosso o rosato’, ottenuto col decreto del Presidente della Repubblica del 19 aprile 1968. Tra i migliori vini D.O.C. prodotti nel nostro territorio ci sono quelli dell’azienda D’Alfonso Del Sordo, che in questo periodo passa in gestione da Ludovico al fratello Antonio. Durante il corso dei successivi anni ’70 le cooperative attirano sempre più i piccoli viticoltori, particolarmente per gli acconti che vengono versati ai soci al momento del conferimento delle uve, e ciò comporta l’abbandono di centinaia di cantine private. C’è anche da osservare che molti agricoltori hanno trasformato i vigneti a filari in tendoni per la produzione di uva Regina, vinificando solo occasionalmente l’uva da tavola invenduta. In questo periodo le aziende viticole del nostro territorio sono oltre 4.000.39 A cura del Comune di San Severo viene anche istituito un mercato settimanale del vino, con recapito presso l’Hotel Dauno, in via Carso, dove si incontrano commercianti, mediatori e produttori; è una buona iniziativa, ma non dura a lungo. 39 Per i dati statistici su i nostri vigneti e le produzioni degli anni ’70 vedi Michele DELL’AQUILA, La viticoltura ed il vino della zona San Severo, Foggia, 1978, pp. 30-36. 48 Vittorio Russi Mentre si riduce progressivamente il numero degli stabilimenti vinicoli, alcune aziende, come quella di Scaler, sostituiscono i vecchi macchinari con attrezzature più moderne, come i torchi orizzontali Vaslin; altre si dedicano quasi unicamente alla produzione di mosti muti, ottenuti anche da uve di basso contenuto zuccherino e da scarti di uva da tavola e che vengono venduti a basso prezzo ad aziende del nord Italia. Questa evoluzione del settore enologico si accentua dopo l’esperienza negativa della distillazione agevolata del surplus del 1974, quando sono stati prodotti oltre 800.000 ettolitri di vino, quasi il doppio della produzione media di questi anni. Ormai quasi tutte le aziende forestiere hanno abbandonato San Severo, come Folonari, il cui stabilimento viene dato in fitto ad Aldo Pugliese. Si incrementa invece la società di Emilio e Antonio Di Capua, che si istalla nel 1973 nei locali del fallito Enopolio dell’Istituto M. Di Sangro e poi acquista lo stabilimento di Vincenzo Di Troia, della capacità di 30.000 ettolitri. In questo periodo si trasferisce nella tenuta di Coppanetta, in contrada S. Antonino, la cantina di Antonio D’Alfonso Del Sordo; è il primo esempio per San Severo di una azienda vinicola sita nell’ambito dei suoi vigneti, che in questo caso si estendono per circa ottanta ettari. Altra iniziativa simile è quella di Nicola Antonacci, il quale fa edificare in contrada Giacchesio uno stabilimento per vinificare le uve prodotte dall’azienda Vitinova. Dopo l’annata negativa del 1977, alcuni soci dissidenti della Cantina Sociale fondano nell’anno successivo un’altra cooperativa, con sede nell’ex Enopolio dell’Istituto M. Di Sangro. Con la denominazione di Società Cooperativa Torretta Zamarra, la nuova azienda subito si espande, ma dopo qualche anno deve superare delle serie difficoltà finanziarie; poi si riprende e negli anni ’80 si dota di nuove attrezzature e triplica la sua capienza. La stessa politica viene seguita anche dalla Cantina Sociale e dalla Cooperativa Agricola della Riforma Fondiaria. È la conseguenza del vuoto determinato dalla scomparsa di tanti stabilimenti, come l’Enopolio del Consorzio Agrario, che cessa la sua attività nel 1980, mentre l’anno successivo chiude anche Scaler, la più nota delle grosse cantine di San Severo. La situazione rimane pressoché invariata per gli anni successivi, contraddistinti dai continui ampliamenti delle cooperative, che istallano grandi serbatoi metallici, anche refrigerati, che presentano il vantaggio di occupare uno spazio limitato. Ma, le spese per le attrezzature e le tecnologie sempre più sofisticate determinano forti indebitamenti che, aggiunti a vecchi problemi, causano verso il 1994 la chiusura della Cooperativa della Riforma Fondiaria; altri operatori del settore ne seguono la sorte o sono costretti a ridimensionare l’attività. Non è un caso, perciò, se proprio in questi anni la Cantina Sociale Cooperativa viene pubblicizzata come L’Antica Cantina; in effetti è la più vecchia azienda vinicola sanseverese ancora esistente. In questo ultimo scorcio del secolo arriva il più recente riconoscimento per 49 L’attività enologica a San Severo tra ‘800 e ‘900 i nostri vini di qualità; è l’attribuzione dell’Indicazione Geografica Tipica (I.G.T.) ‘Daunia’, con Decreto del Ministero delle Risorse Agricole del 20 luglio 1996. Siamo ormai alla fine di questo rapido excursus sull’enologia a San Severo tra l’800 e il ‘900 e non possiamo chiudere l’argomento senza esprimere alcune considerazioni sul futuro della più importante attività economica della nostra città. Se ancora oggi alcune ditte seguitano ad acquistare le nostre uve a basso prezzo e a produrre grandi quantità di vini da spedire al nord, il motivo è da ricercarsi anche in quelle aziende agricole dove si continuano a coltivare vitigni ad alta resa ma di scarsa qualità. I nostri agricoltori non vengono sufficientemente incentivati a cambiare metodo, ma dovrebbero anche ricordarsi dei sacrifici dei loro antenati, costretti agli inizi del secolo scorso a rinnovare i vigneti distrutti dalla fillossera. Negli ultimi anni qualcosa però è cambiata in meglio anche nelle stesse cooperative, che pur essendo costrette a ritirare uve di diverse provenienze, operano ora una maggiore selezione e utilizzando nuove tecniche enologiche riescono a produrre vini di sempre migliore qualità. Nel contempo, un rinnovato interesse a livello nazionale verso il buon vino, ha determinato anche da noi la formazione di associazioni, come la Daunia Enoica, che promuovono una maggiore conoscenza di questa bevanda, organizzando corsi di degustazione e concorsi per le produzioni amatoriali. Ciò ha portato molti consumatori ad affinare i gusti e a cercare prodotti di pregio; sono sorte di conseguenza nuove iniziative per ottenere vini e spumanti di qualità40, partendo da vigneti specializzati. È forse solo un inizio, ma fa ben sperare per il futuro. 40 Un notevole successo a livello nazionale hanno raggiunto gli ottimi spumanti D’Araprì, prodotti col metodo classico. 50 Michele Galante Il volto femminile del brigantaggio Per una lettura di genere del fenomeno di Michele Galante La ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia è stata l’occasione per una riconsiderazione del ruolo che le donne hanno avuto e del contributo che hanno apportato alla costruzione dello Stato nazionale italiano. E così, dopo le omissioni e il silenzio di decenni, sono stati pubblicati studi1 e organizzate mostre che hanno evidenziato la funzione che le donne di diversa estrazione sociale hanno ricoperto nel processo risorgimentale con le loro idee, i loro progetti, il loro impegno, talvolta diretto, nelle cospirazioni e, persino, nelle lotte vere e proprie, generalmente con funzioni di organizzatrici o di infermiere. Queste donne, spesso eroine invisibili, dopo l’unificazione, passarono a ruoli di impegno sociale a beneficio di altre donne e dell’infanzia, per il riscatto sociale delle classi disagiate, per l’organizzazione e la promozione dell’educazione. Così nella pubblicistica recente hanno potuto trovare collocazione più adeguata personaggi femminili come Anita Ribeiro Garibaldi, Cristina Trivulzio di Belgioioso, animatrice delle cinque giornate di Milano, Virginia Oldoini, conosciuta come la contessa di Castiglione, giornaliste straniere come Jessie White Mario, corrispondente del Daily News e Margaret Fuller, inviata del New York Tribune, poetesse come Giannina Milli o Giulia Molino Colombini. O ancora, per venire a territori a noi più vicini, la pugliese Antonietta De Pace, gallipolina, figlia di un grande banchiere che prese parte a Napoli sia ai moti del 1848 che a quelli del 1860, oppure la lucana Laura Battista, poetessa e scrittrice, a dimostrazione che il Mezzogiorno non fu estraneo al processo unitario e che non lo subì. Non diversamente fu per quel fenomeno di opposizione all’unificazione che toccò quasi esclusivamente il Mezzogiorno: il brigantaggio. La presenza femminile nelle vicende del brigantaggio fu di parecchio superiore a quella dell’intera vicenda risorgimentale. Negli eventi briganteschi le prota- 1 Tra gli altri è da menzionare il volume di Bruna BERTOLO, Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’Unità, Torino, Ananke, 2010. Utile è anche il volume 22 degli Annali Einaudi, dedicato al Risorgimento, uscito nel 2007. 51 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno goniste furono molto di più. Nelle guerre risorgimentali combattevano gli eserciti formati da soldati professionisti o dalle guardie nazionali, nel brigantaggio gli attori erano i popolani, le famiglie. Finora da parte degli studiosi è stato posto l’accento sulle donne protagoniste, che hanno partecipato direttamente o indirettamente alle ‘gesta’ dei briganti, sul loro aspetto mitico, romanzesco. Si è insistito nella trattazione delle donne combattenti, delle brigantesse o anche delle donne dei briganti con contributi anche interessanti e rilevanti.2 Si è invece trascurato un’altra faccia del rapporto donne e brigantaggio riguardante le donne che non sono state brigantesse né hanno avuto rapporti con i briganti: ci riferiamo sia alle vittime nelle diverse accezioni, sia a quelle donne che cooperarono con lo Stato alla sconfitta del fenomeno. Con queste brevi note vogliamo affrontare complessivamente il tema della presenza femminile all’interno della vicenda del brigantaggio. A seconda del ruolo avuto e della funzione svolta possiamo dividere schematicamente le donne in sette categorie: donne protagoniste del “grande brigantaggio”; brigantesse combattenti; donne dei briganti: complici, drude, manutengole, conniventi e conviventi. donne vittime: ammazzate, stuprate, violentate, sequestrate, estorte; donne nemiche o avversarie dei briganti; donne risarcite per la perdita del marito o del figlio; donne collaboratrici di giustizia; A) Donne protagoniste del “grande brigantaggio” Alle rivolte legittimiste, che si svilupparono in tutto il Mezzogiorno tra la seconda metà del 1860 e la fine del 1861, il periodo del cosiddetto “grande brigantaggio”, partecipò un numero relativamente alto di donne, oltre che contadini, braccianti, pastori e artigiani del Centro e del Sud. “Tante donne che trovarono il coraggio di alzare il pugno contro un esercito che avrebbe dovuto presentarsi come garante di una rivoluzione sociale e invece si mostrò garante di una rivoluzione borghese”.3 2 Le due ultime indagini che hanno notevolmente ampliato la conoscenza di questi aspetti sono quelle di Maurizio RESTIVO, Donne, drude, brigante. Mezzogiorno femminile rivoluzionario nel decennio postunitario. Prefazione di Turi Vasile; introduzione di Francesco D’Episcopo; nota critica di Stella Di Tullio D’Elisiis. Trapani, Di Girolamo, 2005, condotto però su un numero limitato di donne, e Valentino ROMANO, Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del Sud (1860-1870), Napoli, Controcorrente, 2007 che, partendo dalle carte possedute dagli Archivi di Stato, ha dato un quadro abbastanza ricco della presenza femminile nella vicenda del brigantaggio. 3 Raffaele NIGRO, Introduzione a Valentino ROMANO, Brigantesse, cit., p. 20. 52 Michele Galante C’è, però, differenza di ruolo e di comportamento tra le donne del “grande brigantaggio” e quelle della seconda fase. Nel primo caso erano tutte popolane che partecipavano direttamente agli assalti e alle depredazioni, pagando direttamente in prima persona; nel secondo caso erano per lo più delle subalterne, che avevano rotto ogni vincolo familiare e affrontavano il loro viaggio verso la libertà. Alla sollevazione di Bovino del 19-20 agosto 1860, con la quale si rivendicavano le terre di proprietà pubblica, parteciparono numerose donne. Due di esse, Maddalena Bucci e Carolina Trivisani, furono incriminate e condannate a sei anni.4 Per i fatti di Accadia del 21 ottobre 1860 furono condannate Concetta Russo, moglie di Giovanni Conversano, fratello di un esponente borbonico implicato nell’omicidio di due esponenti liberali, e Maria Botticella. A Cagnano Varano alla sommossa del 21 ottobre 1860 che impedì lo svolgimento del plebiscito presero parte numerose donne. Tra i rivoltosi che furono sottoposti a processo e condannati alla Gran Corte Criminale di Lucera, risultavano tra gli altri Giovanna di Maggio fu Michele, che subì una condanna pesantissima (trenta anni di ferri), e Anna Maria Petracca fu Nunzio, condannata insieme ad altri venti elementi «per reati di eccitamento a mano armata alla guerra civile fra gli abitanti di una stessa popolazione, armandoli e inducendoli ad armarsi gli uni contro gli altri nel fine di abbattere il governo, di devastazione, di incendio di casa abitata, di strage di saccheggio, di omicidio consumato, accompagnato da violenza politica».5 Nel corso dello stesso processo furono assolte altre cinque donne per insufficienza di prove, tra le quali Rosa Crosta fu Leonardo, Maria Donataccio fu Leonardo e Rosa Polignone di Cataldo. Nella stessa giornata della rivolta di Cagnano Varano, a San Giovanni Rotondo si verificarono acutissimi scontri che portarono ad una vera e propria strage con la morte di ventiquattro ‘galantuomini’. Tra gli arrestati e condannati figuravano Rosa Intorcia, moglie del custode del carcere, e Maria Giovanna Longo che, come recitava l’atto di accusa, «anziché donne in quelle nefande giornate come furie infernali comparvero ad eccitare al sangue, alle stragi, alle rapine e a godersi ferocemente di quel tremendo spettacolo (cioè l’assassinio dei galantuomini)».6 Nei moti di San Severo del 2 e 3 gennaio 1861 si segnalarono due donne che assolsero a ruoli e funzioni diverse e furono, ancorché schierate su sponde opposte, protagoniste di quella convulsa fase. La prima, Angela Maria Berardi, 4 Nemo Candido D’AMELIO, Quel lontano 1860. Foggia, Editrice Daunia Agricola, 1989, p. 115. ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA (d’ora in poi A.S.F.), Comune di Cagnano Varano, f. 339, anno 1860, vol. 3. 6 Sentenza ed atto di accusa per la causa a carico di Celestino Andini ed altri di San Giovanni Rotondo. Trani, 1865, p. 62. 5 53 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno inserviente del carcere, sebbene brutalmente picchiata dagli insorti, trovò il coraggio di fermare uno sconsiderato che, insieme al resto dei ribelli, era penetrato all’interno del carcere pronto per ammazzare una guardia carceraria. La seconda, Anna Lufino, fu Felice, soprannominata Mancino, contadina di anni 42, concorse ad uccidere il sergente della Guardia Nazionale Domenico Sparavilla, e fu poi assolta per non aver commesso il fatto dopo un processo che potremmo definire ‘aggiustato’.7 A Vieste tra i rivoltosi del 5 gennaio 1861 figurava la raccoglitrice (= ostetrica) Marianna Novelli, mentre fra i tre arrestati risultava una donna, Cesarea D’Onofrio, di 70 anni, un’età molto avanzata per l’epoca. Nella rivolta di San Marco in Lamis del 2 giugno 1861, scoppiata durante la prima festa dello Statuto, furono tante le donne, soprattutto parenti dei briganti, a lottare in prima fila e a rendersi protagoniste delle vicende delittuose, come annotò con un certo stupore lo stesso pubblico ministero.8 Donne che subirono anche gli arresti e furono liberate sotto la pressione popolare dopo alcune settimane. Un’analoga partecipazione di donne alle manifestazioni antiunitarie può essere riscontrata anche in altri comuni. A Casalnuovo Monterotaro il 12 luglio dello stesso anno numerosi briganti invasero il comune alla testa di una grande folla compiendo saccheggi e atti di violenza a danno di chiunque fosse segnalato come profittatore del nuovo regime contro i contadini. Delle ottantanove persone arrestate e processate numerose furono le donne.9 Non diversamente si svolsero gli avvenimenti di Vieste del 27 luglio, anche se il numero delle donne poste sotto processo fu poco rilevante. Tra le donne coinvolte figuravano Michelina Mafrolla, accusata di devastazione e involamento di cose mobili, denaro e granaglie; Maria Giuseppa Mandriola e Antonia Travasi, detta Torsetta, per delitti di complicità in alcuni omicidi, Rosa Medina e altre per complicità varie, Maria Michela Vescera per complicità e piccole razzie e Leonarda Armiento.10 Saltuariamente le forze di polizia segnalavano la partecipazione di donne 7 Giuseppe CLEMENTE- Matteo CASSA, La Capitanata nella crisi dell’unificazione e il processo per i fatti di San Severo del 2-3 gennaio 1861, in Atti dell’11° convegno nazionale sulla preistoria, protostoria e storia della Daunia, San Severo, Gerni, 1989, pp. 341 e ss. 8 Sentenza e atto di accusa per i fatti criminosi accaduti in San Marco in Lamis e Rignano Garganico nei primi giorni di giugno 1861, Trani, 1864. Tra le donne che si segnalarono per azioni delittuose figuravano Maria Teresa Sfirro, madre del brigante Polignone, che saliva per le case a fare bottino; Emanuela Del Sambro, sorella del brigante che cercava di scovare dove erano le guardie mobili; Teresa Pignatelli, che voleva ad ogni costo far fucilare la guardia mobile Selvaggi; Vittoria Cappelli, di Rignano, la quale seguì i briganti somministrando le munizioni e strepitando per avere un fucile, onde combattere anch’essa contro la truppa. Cfr. Antonio CAPPELLI, Rignano Garganico nelle vicende storiche della Daunia antica, s.l., 1998, p. 184. 9 ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA –SEZIONE di Lucera (d’ora in poi S.A.S.L.), Processi davanti la Corte d’Assise- fascio 13, incarto 68 (a.1862). 10 Marco DELLA MALVA, Vieste e la Daunia nel Risorgimento, Foggia, Leone, 1984. 54 Michele Galante semplici a iniziative antiunitarie di tipo individuale, anche se non strettamente brigantesche. A Motta Montecorvino il 9 novembre 1860 Beatrice Ciaburri, moglie di Matteo Petitti, al passaggio dei militi fece partire da un archibugio dei colpi, ferendo il cavallo su cui si trovava il comandante della Guardia Nazionale, capitano Gaetano de Peppo di Lucera.11 Sempre a San Marco in Lamis il 26 marzo 1861 verso le ore due di notte (corrispondenti alle 21) fu fermata, arrestata e consegnata al giudice regio Angela Maria Guerrieri che, alla testa di circa cinquanta ragazzi di ambo i sessi, pubblicamente nella piazza tentava una rivolta con delle grida sediziose di «viva Francesco II”, con l’idea di saccheggiare come si era estrinsecata nei giorni precedenti, soggiungendo a diversi popolani che vedeva aggruppati per propri affari di massacrare i galantuomini e spogliandoli come venne praticato a San Giovanni Rotondo….Da più mesi la stessa pubblicamente insinuava il basso popolo alla rivoluzione e ieri sera si sarebbe dato effetto se una forte partita di guardie nazionali non fosse accorso e dissipato il popolaccio. Si è passata l’arrestata al potere giudiziario con i lumi necessari per istruirsi un regolare processo».12 Non ci è dato sapere quale condanna abbia subìto la Guerrieri per mancanza del relativo fascicolo processuale. L’opposizione politica al nuovo regime si manifestò non soltanto con le armi o con la rivolta, ma anche in modo pacifico. A Roseto Valfortore una maestra, Teodora Lanza, si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al nuovo regime di Vittorio Emanuele II.13 Ma si trattò di un caso assolutamente sporadico. A fronte di donne che impugnarono la bandiera antiunitaria, non mancarono altre che si schierarono a favore del nuovo regime o che combatterono contro i rivoltosi e i briganti. A Sava, nel tarantino, due giovani donne, Maria Concetta Spagnolo e Rosa Provenzano, entrambe di estrazione certamente non contadina, manifestarono tutto il loro entusiasmo per l’arrivo dei piemontesi.14 Durante gli avvenimenti di Ischitella dell’8 settembre 1861, nel corso dei quali i briganti tentarono di assaltare la cittadina garganica, si distinse tra gli altri Marianna Ventrella, sorella della Guardia Nazionale Giuseppe.15 11 Michele MARCANTONIO, Le reazioni in Capitanata: 1860, San Bartolomeo in Galdo, Grafica Passaro & Spallone, 1979, p. 52. 12 Pasquale SOCCIO, Unità e brigantaggio in una città della Puglia. Napoli, ESI, 1969, p. 126. 13 Michele MARCANTONIO, Sangue e unità: 1860…Lucera, Catapano, 1972, p. 52. 14 Gaetano PICHIERRI, Resistenza antiunitaria nel Tarantino, Manduria, Lacaita, 1988, p.25. 15 Marco DELLA MALVA, Vieste e la Daunia nel Risorgimento, cit., p. 146. 55 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno B) Brigantesse – Donne combattenti Allorché verso la fine del 1861 la repressione delle autorità governative si fece feroce e spietata costringendo le bande di briganti ad abbandonare i comuni e a mettere da parte la tattica dell’invasione dei paesi, qualcosa mutò anche nel comportamento delle donne. Le bande dei briganti si andarono strutturando su un terreno eminentemente militare, con un’organizzazione agile, pronta a sfidare le truppe piemontesi attraverso la tecnica della guerriglia e non dello scontro frontale. In questo mutamento all’interno delle bande ci fu sempre meno posto per le donne, anche per ragioni culturali, e per gesti individuali. Il brigantaggio non solo in Capitanata, ma anche in altre zone del Mezzogiorno, si presentava come un’organizzazione tipicamente maschile. Le donne non vi erano o vi avevano un ruolo di supporto, certe volte di sostegno, ma sempre subalterno, giacché esse non giunsero quasi mai a responsabilità di un qualche livello all’interno delle diverse bande organizzate. La connotazione maschile delle bande armate era del tutto prevalente dal momento che, come avviene all’interno delle altre organizzazioni criminali anche recenti come la mafia o la ‘ndrangheta, non veniva accettata a livello operativo e dirigenziale la presenza delle donne in quanto incompatibile con il loro codice culturale. Un codice fondato sul primato della forza, della violenza fisica e morale, sulla salvaguardia dell’onore, non poteva tollerare che a livelli di responsabilità potessero accedere esseri considerati naturalmente inferiori e inaffidabili nel mestiere di depredare e uccidere.16 Nel mondo dei briganti l’uomo aveva un diritto esclusivo di vita e di morte, sulla donna: sia essa moglie, figlia, sorella, madre, amante. La donna, per diritto naturale, era considerata dominio dell’uomo, esclusiva proprietà privata. «In una società contadina, nella quale l’uomo nasceva – in profonda miseria e abiezione – senza diritti e senza proprietà, l’unico diritto che poteva esercitare e l’unica proprietà che poteva rivendicare erano quelli ricadenti sulle proprie donne».17 Questo codice tipico di organizzazioni a spiccato carattere criminale e a forte impronta contadina o rurale è ben diverso da quello di altre organizzazioni criminali a prevalente carattere urbano e a forte connotazione politica quali le Brigate 16 17 Giovanni FALCONE, La mafia tra criminalità e cultura, in «Meridiana», 1989, n. 5, p. 206. Enzo CICONTE, ‘Ndrangheta dall’Unità ad oggi. Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 17. 56 Michele Galante Rosse degli anni Settanta del Novecento, che al contrario accettavano ai massimi livelli l’apporto delle donne. Tornando al brigantaggio, si può dire sulla scorta di alcuni elementi di analisi e di documenti di archivio che la presenza femminile sia stata abbastanza minoritaria. Questa peculiarità emerge con evidenza da alcuni dati. Da un elenco di briganti redatti dalle autorità di Terra d’Otranto composto di 84 nominativi non figura nessuna donna, ma questo non esclude che vi siano state manutengole o drude attive.18 In Capitanata il numero delle donne schedate come attrici del brigantaggio risulta essere di 35 su un totale di 1459 briganti o presunti tali, pari al 2,5%.19 Di queste 13 appartenevano al distretto brigantesco del Subappennino Meridionale, 13 a quello del Subappennino Settentrionale e 9 a quello garganico. In questa parte della Puglia la presenza e l’apporto delle donne erano più marcati nelle bande che scorazzavano nel Subappennino Meridionale al confine con la Basilicata e con l’Irpinia. Donne schedate e condannate si trovavano ad Anzano di Puglia, Rocchetta Sant’Antonio (all’epoca appartenenti alla provincia di Avellino), a Bisaccia, ma anche a Sant’Agata di Puglia e Candela. Sempre in questo territorio l’elenco delle persone dedite al brigantaggio stilato dalla prefettura di Foggia nel 1863 annoverava su 509 nominativi appena otto donne (pari all’1,6%), provenienti quasi tutte dall’area del Subappennino Dauno. Soltanto una donna – tale Maria Vaira – aveva origini garganiche, risiedendo a Monte Sant’ Angelo.20 Le province pugliesi in generale fecero registrare una presenza inferiore di donne rispetto alla Calabria e alla Basilicata, alla Campania o al Basso Lazio. Nell’elenco dei briganti stilato dal prefetto Guicciardi nella provincia di Cosenza figuravano soltanto tre donne (Serafina Zappa di Falconara Albanese, Anna Maria Madeo e Filomena Gagliardi, entrambe di Longobucco). La percentuale delle donne che per quelle dedite al brigantaggio rappresentava lo 0,41% del totale, tendeva a salire per le complici fino a toccare il 12,66%. Sulla scorta di questi elementi si è parlato con qualche forzatura di dimorfismo sessuale del brigantaggio.21 18 Gaetano PICHIERRI, Resistenza antiunitaria nel Tarantino, cit, pp. 164-166. Nel Tarantino erano parte organica di bande Filomena Cianciarulo, druda di Nicola Masini e Maria Rosa Marinelli, druda del brigante Casalnuovo (ivi, p. 94). 19 Giuseppe CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata. Fonti documentarie e anagrafe, Presentazione di Raffaele Colapietra, Roma, Archivio Guido Izzi, 1999. 20 A.S.F., Prefettura di Foggia. Elenco delle persone dedite al brigantaggio.1863. Le altre sette donne erano Ciccone Maria Giuseppa, di Biccari, Cornelia Anna Maria, lavoratrice di Larino, Di Chiella Maria Vincenza, contadina di Serracapriola, Giuliani Rosa, meretrice di Candela, Montella Michaella, detta Faccenda, di Candela, Panivisci Teresa, la Porcara, di Bovino, Recchia Anna, domestica di Tufara. 21 Francesco GAUDIOSO, Indagine sul brigantaggio nella Calabria cosentina (1860-1863), in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XXII, n. CI, 1983, pp. 174-175. 57 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno A San Marco in Lamis, definita dalle autorità provinciali di Capitanata, “culla” e “fucina” di briganti, nell’Archivio comunale, fino all’aprile 1863 risultava un numero complessivo di 109 briganti, dei quali cinque erano donne.22 All’interno della banda di Giuseppe Schiavone, noto brigante nativo di Sant’Agata di Puglia, che operò prevalentemente nelle zone del Subappennino Dauno confinanti con la Basilicata, vi erano appena cinque donne, che possono essere considerate brigantesse, combattenti a tutti gli effetti. Una presenza non disprezzabile per quei tempi, in cui la funzione della donna era relegata esclusivamente all’interno della famiglia. Alcuni studiosi hanno voluto vedere in queste donne le antesignane di un femminismo contadino, quasi che esse avessero voluto sottrarsi alla loro dura condizione subalterna23. Certamente qualche ragazza insofferente e coraggiosa vide nella vita con le bande un’occasione per sfuggire ad un destino segnato dalla miseria e dalla subordinazione, ma la stragrande maggioranza di esse spariva nei boschi per sfuggire all’arresto e sottrarsi alle rappresaglie delle autorità militari. Infatti tra le misure che tendevano a fare il vuoto attorno ai briganti era previsto l’arresto dei familiari, e le donne – le madri, le mogli, le figlie, le sorelle e le amanti – non sfuggivano a questa regola. Anzi, la parentela con i briganti costituiva di per sé, in un sistema parentale fitto, cementato da solidi legami materiali e morali (una morale diversa e primitiva, ma non per questo meno sentita), un indizio di reato. Il generale Pallavicini nelle sue Istruzioni invitava i subalterni a “far pesare su di loro (i parenti dei briganti) tutto il rigore dell’autorità militare, arrestandoli tutti sollecitamente senza distinzione di sesso”.24 In questo modo molte madri furono condannate perché colpevoli di avere portato un po’ di cibo ai figli latitanti in campagna e quasi tutte le donne componenti della famiglia dei briganti conobbero il carcere soltanto perché considerate naturali alleati dei briganti in quanto dividevano con loro il frutto delle rapine, dei ricatti, degli assassini. Così le donne sotto l’incalzare della brutale e cieca repressione finivano per ingrossare le file del brigantaggio, preferendo alla reclusione in un umido e puzzolente carcere, la vita libera e rischiosa delle bande, accanto ai propri uomini, e se c’era da fare a schioppettate, non si tiravano indietro. Queste donne passionali e fedeli non volevano essere semplici mogli di briganti, ma delle vere e proprie brigantesse, in grado di sparare, accoltellare, uccide- 22 ARCHIVIO COMUNALE DI SAN MARCO IN LAMIS, Brigantaggio, fasc.2. Cfr. il saggio di Franca Maria TRAPANI, Le Brigantesse, Roma, Canesi, 1968 e il romanzo di Maria Rosa CUTRUFELLI, La briganta, Milano, Frassinelli, 2005. . 24 Roberto MARTUCCI, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna, il Mulino, 1980, p. 196. 23 58 Michele Galante re. Donne impegnate in rapine, sequestri di persone, furti di animali e in scontri a fuoco con l’esercito dei piemontesi e con la Guardia Nazionale. Avevano armi e spesso vestivano abiti maschili. «Non volevano insomma, essere inferiori all’uomo neanche nella violenza e nella brutalità. Non volevano essere considerate soltanto ‘concubine’ e mantenute dei briganti, ovvero ‘drude’, perché condividevano gli stessi disagi e le stesse difficoltà dei maschi, vivevano anch’esse da disperate i trapazzi di una vita disperata e offrivano il loro contributo e il loro sostegno nelle scorrerie delle bande».25 Antesignana di queste donne fu Francesca La Gamba, nativa di Palmi (Rc), filandiera, molto attiva nel decennio francese degli inizi dell’Ottocento. Altro precedente illustre di donna combattente dello stesso periodo è quello di Niccolina Licciardi, calabrese, compagna del brigante Francesco Moscato, detto il Bizzarro, a cui decapitò la testa, dopo che questi le aveva ucciso il figlio piccolissimo sbattendolo sulle rocce. La Licciardi ottenne dal governatore di Catanzaro la taglia di mille ducati.26 Soltanto poche donne divennero eroine o combattenti famose o capibanda. In questa sede segnaliamo le vicende di alcune donne che sono un po’ il paradigma di un percorso spesso tragico. Il caso più noto e conosciuto è quello di Marianna Olivierio, detta Ciccilla o Maria, forse la più celebre fuorilegge di tutto il Mezzogiorno, della quale scrisse anche Alessandro Dumas. Ciccilla era la moglie del famoso brigante della Sila Pietro Monaco. Ben fatta, con i capelli chiari che annodava in lunghe trecce sulla nuca, aveva lineamenti gentili. Quando Pietro diventò un fuorilegge non lo seguì, rimase a casa dove di tanto in tanto l’uomo tornava per pochi giorni o soltanto ore. Talvolta invece era la moglie che andava a raggiungerlo in qualche pagliaio tra i boschi. Datasi al brigantaggio per necessità in quanto ricercata per avere ucciso la sorella che pare avesse avuto una relazione amorosa con il marito, Ciccilla cominciò a battere le campagne, divenendo capobanda a seguito della morte del marito avvenuta in un conflitto a fuoco. In qualità di capobanda scorazzò per diversi mesi la parte centrosettentrionale della Calabria, fino a quando l’11 febbraio 1864 non fu arrestata nei pressi di Caccuri, nel Crotonese. Non ci sono notizie univoche e certe sulla sua sorte: secondo alcuni fu condannata a morte, pena tramutata poi in ergastolo, secondo altri a quindici anni di reclusione. 25 Salvatore SCARPINO, Indietro, Savoia! Briganti del Sud, Milano, Camunia, 1988, p. 68. Giordano Bruno GUERRI, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del Brigantaggio, Milano, Mondadori, 2010, pp. 166-167. 26 59 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno Un’altra donna che si distinse per ardimento e coraggio fu Filomena Pennacchio, nata a San Sossio Baronia, circondario di Sant’Angelo dei Lombardi (e non a Casalvecchio di Puglia come si è sempre detto). «Donna di carnagione olivastra, gli occhi scintillanti, la chioma nera e crespata, le ciglia folte, il naso aquilino, le labbra prominenti, il profilo greco» (De Witt), sposata a un cancelliere di Foggia, oltremodo geloso, dopo un ennesimo litigio col marito estrasse dai capelli un lungo spillone e lo conficcò in gola, uccidendolo. Dopo l’omicidio si diede alla macchia e incontrò il brigante Michele Caruso del quale si innamorò. La sua vicenda è emblematica del percorso tortuoso intrapreso da alcune donne. Protagonista sia di rocambolesche vicende brigantesche che di intense passioni amorose, fu amante dei due famosi banditi Carmine Crocco e Giuseppe Caruso, tanto da guastare i rapporti tra i due e da inserire elementi di rivalità e di contrasto nella vita delle bande. Di lei si invaghì successivamente Giuseppe Schiavone, che l’associò nelle sue numerosissime azioni criminali e che per lei lasciò Rosa Giuliani. Lo stesso Schiavone, prima di morire fucilato, per vedere per l’ultima volta la sua bella Filomena, fu costretto a svelarne il nascondiglio, rendendo così possibile l’arresto. Interessanti sono i casi di altre tre donne. Michelina Di Cesare, nata a Caspoli, frazione di Mignano, in provincia di Caserta, il 28 ottobre 1841, sposata con Rocco Tanga, a venti anni restò vedova. Diventata l’amante del brigante Francesco Guerra si aggregò alla sua banda combattendo insieme alle altre bande di Giacomo Ciccone, Alessandro Pace e Michele Marino che imperversavano tra i due Principati citra (Salerno) e ultra (Avellino e gran parte della provincia di Benevento, ad eccezione della città, che apparteneva allo Stato pontificio). Di Cesare fu una brigantessa a tutti gli effetti, in quanto vestita di abiti maschili girava armata come gli altri briganti. Fu uccisa nel mese di agosto del 1868 dalle truppe del generale Pallavicini grazie ad una delazione del fratello. Il suo corpo, dopo la morte, fu denudato e oltraggiato. Generosa Cardamone, calabrese, nata nel 1845, fu amante del brigante Pietro Bianchi, che agiva nel catanzarese e sulla Sila. Partecipò direttamente ad azioni brigantesche “vestita da uomo e armata di fucile”. Catturata insieme al suo uomo nel marzo 1867, fu condannata a quattro anni di reclusione e tre di sorveglianza speciale. Serafina Ciminelli, di Francavilla in Sinni (Potenza), fu compagna d’amore, di ideali e di avventure del capo-brigante Antonio Franco, che seminò terrore nel territorio lagonegrese. Quest’ultimo fu arrestato e fucilato in seguito ad una delazione nel dicembre 1865, mentre Serafina, condannata a quindici anni di carcere, morì per setticemia nel carcere di Potenza. Il fenomeno delle brigantesse combattenti fu più diffuso e sviluppato in Calabria e in Campania, mentre in Puglia e in Capitanata si ebbe una partecipazio60 Michele Galante ne minore, certamente non consistente. Le uniche due donne che parteciparono a pieno titolo ad azioni brigantesche furono Filomena Pennacchio, che agiva con la banda di Agostino Sacchitiello e di Giuseppe Schiavone nel Subappennino meridionale, e di Anna Felicia Recchia, nativa di Tufara (Av), impegnata in attività delittuose (sequestri di persona, uccisioni di animali, incendi e furti, estorsioni, saccheggi) con la banda di Pasquale Recchia, detto Pasqualillo, nella zona di Volturara Appula – San Bartolomeo in Galdo - San Marco La Catola - Celenza Valfortore . Di essa tuttavia ignoriamo il percorso finale. Sempre in Puglia vi furono altre ragazze che si distinsero per le loro gesta brigantesche, anche se non lasciarono tracce significative. Una di queste fu Rosa Martinelli, nativa di Ceglie Messapica, che ebbe una breve esperienza come brigantessa e amante al seguito del brigante Francesco Monaco, ma che ben presto si consegnò ai carabinieri. I responsabili dell’ordine pubblico e della lotta al brigantaggio, oltre che la pubblicistica, hanno fornito uno stereotipo delle donne coinvolte nel fenomeno, dipinte quasi sempre come donne sanguinarie, spietate, audaci, capaci di atti di estrema efferatezza, senza cuore e senza femminilità, assetate di sangue e di sesso, sfrenate e libidinose. Insieme alla ferocia, al disprezzo e al terrore convivevano, però, anche sentimenti teneri e nella loro scelta agivano anche seri motivi affettivi. Anzi, si poteva essere arrestate per favoreggiamento del brigantaggio semplicemente per amore, per un intenso legame affettivo, come capitò ad Addolorata Fumarola, una bella massaia di Martina Franca, che nutriva una predilezione per il brigante Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio.27 Un’altra storia di sincero amore fu quella di Maria Capitanio, figlia di un ricco proprietario di San Vittore, in provincia di Frosinone, che, appena quindicenne si innamorò del brigante Agostino Luongo, unendosi successivamente alla sua banda. Dopo la morte del suo uomo, fu catturata. Assolta attraverso un processo farsa, preferì morire, ingoiando frammenti di vetro, che sopravvivere all’amante. Le brigantesse partecipavano a pieno titolo alle azioni, agli assalti che le bande compivano, dai più semplici ai più audaci. Al furto di una valigia postale contenente documenti processuali avvenuto in territorio di San Paolo Civitate da parte di un gruppo di briganti, presero parte anche Maria De Biase, Maria Vincenza Di Chiello e Antonia Maria Ruberti. Caterina Turco con componenti della banda di Gravina rubò pecore e capre nel territorio di Serracapriola a danno di alcuni pastori abruzzesi. Spesso vi erano compiti non meno rischiosi e delicati di cui venivano investiti le donne. Sempre Maria Capitanio partecipò direttamente ad una azione spinosa 27 Gaetano PICHIERRI, Resistenza antiunitaria nel tarantino, cit., p. 124. 61 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno come la gestione di un sequestro di persona come vivandiera e carceriera di un ricco possidente preso in ostaggio. C) Donne complici: fiancheggiatrici, conviventi e conniventi Il ruolo delle donne era molto importante sotto il profilo logistico, giacché molte di loro concorrevano ad assicurare i collegamenti con i briganti, a rifornire di viveri i loro uomini, oppure venivano utilizzate, intente ai lavori campestri, come vedette e come informatrici negli incroci strategici o nei punti obbligati di passaggio per segnalare l’arrivo delle truppe e deviare le colonne mobili dai loro itinerari.28 Diverse donne agivano da spie in servizio permanente effettivo, pronte ad indicare i luoghi occupati dalle truppe e i loro movimenti. Nei momenti di più feroce repressione le donne portavano aiuto ai briganti, oppure prestavano ricovero o nascondevano in luoghi più o meno sicuri i loro uomini. In tal modo esse si facevano complici o manutengole, vale a dire fiancheggiatrici. Il manutengolismo, invero, era un atto di amore continuo verso i propri parenti datisi alla campagna da parte di madri, mogli, sorelle che si mettevano per strade di montagna e di collina con una notizia dentro la testa e con pane e vino sulle spalle. Vere e proprie fiancheggiatrici. Persone che trovavano il coraggio di uscire di casa, sfidare i rigori della legge, affrontare il buio, vincere la paura e sfidare la sorte. Donne che sapevano che i loro uomini prima o poi sarebbero incappati in una pallottola o nel tradimento di qualcuno. Ci furono donne che amarono i loro uomini al punto da imbracciare un fucile, cavalcare un cavallo e difenderli sulle montagne fino alla morte. Gran parte delle donne che furono vittime del brigantaggio in conflitti armati o subirono arresti per manutengolismo, erano o familiari dei briganti o loro ‘drude’. Queste ultime potevano essere fisse o temporanee, vivevano al seguito dei briganti e li seguivano nelle loro perigliose avventure condividendone la vita raminga, i disagi fisici e tutti i pericoli connessi alla figura e alla vita del brigante, trovando spesso la morte nei conflitti a fuoco che opponevano le forze della repressione statale alle bande brigantesche. Le ‘drude’ erano per lo più sempre fedeli ai loro uomini e pativano la loro stessa sorte e le loro stesse sofferenze. Così Filomena Devito, di Grassano, druda del fratello di Ninco Nanco, fu arrestata nel corso di un’operazione militare contro quella banda il 3 marzo 1863, mentre negli stessi giorni la Guardia Nazionale feriva e faceva prigioniera la druda 28 Luigi TUCCARI, Memoria sugli aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio dopo l’Unità, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XXII, Vn. CI, 1983, p. 338. 62 Michele Galante di Ninco Nanco, Maria Lucia Di Nella, che poi subì una condanna a dieci anni di carcere.29 Limitandoci al territorio della Capitanata, tra le donne di briganti diventate esse stesse famose, ci furono oltre a Filomena Pennacchio, Giuseppina Vitale, druda del Sacchitiello e Maria Giovanna Tito, moglie di Carmine Crocco. Filomena Ciccaglione, Mariannina Aligieri, Maria Luisa Ruscitti furono amanti di Michele Caruso, detto Occhioscarsciato, famoso cavallaro di Torremaggiore. Vittoria Cursio, detta Sempliciotti, druda del famoso Angelo Maria Del Sambro, detto lu Zambre, capo indiscusso della banda garganica, fu arrestata lo stesso giorno in cui trovò la morte il capo. Angela Maria Cusmai, fu per qualche tempo amante del brigante di Monte Sant’Angelo Luigi Palumbo, detto il Principe.30 I briganti avevano con loro più donne, poiché era un vanto e un pregio diventare la druda di un brigante. Un medico garganico, Pasquale La Porta, nei suoi Ricordi del brigantaggio garganico, annotò amaramente che la «prostituzione veniva fatta dagli stessi genitori, dai fratelli stessi che vendevano le impuberi figlie e sorelle e dai mariti che offrivano le mogli alla protezione e all’oro brigantesco.»31 Sulle donne spesso esercitavano un particolare richiamo, più che la vita avventurosa e le gesta dei briganti, la profusione di danaro e la mostra dei gioielli, fila d’oro, anelli e altri oggetti preziosi che i briganti saccheggiavano nel corso dei loro raid, passandoli alle drude, che potevano così farne sfoggio. Rosa Martinelli soggiacque alle avances del brigante Francesco Monaco non soltanto per le minacce ricevute, ma anche per la generosa offerta di 114 piastre e di diversi monili d’oro. Il brigante irpino Vincenzo Barone ricambiava l’amore della sua donna, Luisa Mollo, facendole dono in ogni occasione dei preziosi che depredava alle vittime delle sue scorrerie.32 Ma molto spesso le ‘drude’ erano soltanto delle miserabili e infelici prostitute di campagna, senza doni né protezioni, delle quali i briganti si disfacevano abbastanza facilmente senza pericolo e senza rimpianto. 29 Giuseppe BOURELLY, Il brigantaggio politico dal 1860 al 1865 nelle zone di Melfi e Lacedonia, Venosa, Osanna, 1987. 30 Gennaro SCARAMUZZO, Borbonici, liberali e briganti: Vico del Gargano all’alba dell’Unità, Lucera, Catapano, 1976, p. 109 31 Pasquale LA PORTA, Ricordi del brigantaggio garganico., San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1995, p. 44. 32 Valentino ROMANO, Brigantesse, cit., pp. 133-135. 63 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno D) Donne vittime della violenza dello Stato e dei briganti Le donne pagarono un doppio, pesante tributo nei tremendi mesi della lotta al brigantaggio. Lo pagarono allo Stato subendo la mannaia della repressione degli apparati militari o della Guardia Nazionale, sovente senza riguardo alcuno per la loro dignità di persone, per i princìpi di legalità e di garanzia della libertà personale. La rabbia dell’apparato repressivo del nuovo Stato dei Savoia si scaricava con insulti e offese sulle donne, colpevoli unicamente di simpatizzare per i manifestanti borbonici o ritenute l’anello debole della catena brigantesca, e perciò facilmente ricattabili. Così il maggiore Viglione, comandate dei “Cacciatori del Gargano”, oltraggiò con frasi ingiuriose, oltre i manifestanti, anche le loro mogli e le loro figlie, accusandole di essere delle meretrici borboniche, per essere scese in piazza a Poggio Imperiale in provincia di Foggia. 33 La repressione statale si abbatteva facilmente anche sulle donne, senza tanti scrupoli per lo stato di diritto. Le sorelle Eleonora e Teresa Pelosi, proprietarie di una trattoria a Torremaggiore, furono denunciate per aver svelato con ritardo fatti di loro conoscenza. Rosa De Cera e Teresa Resta, anch’esse di Torremaggiore, furono accusate senza alcuna prova di associazionismo alle bande del brigante Cerito, Matteo Bartoletta, alias Ponza, e altri. Arcangela Poppa di Biccari venne accusata di connivenza con i briganti, così come Angela Falcone, Leonarda Ionata, Angela Maria Falcone, ree di connivenza con i briganti di Monte Sant’ Angelo34. E spesso alla denuncia seguiva anche la carcerazione. Le donne pagarono un prezzo salatissimo anche nei conflitti armati, pur essendo esse sostanzialmente estranee ai teatri di guerra. Secondo Carlo Alianello furono quaranta le donne che caddero in battaglia sotto il fuoco della repressione, che nel quinquennio 1860-1865 fu particolarmente brutale, facendo inorridire molti sostenitori della causa unitaria. 35 L’operato dei tribunali militari non conosceva pietà, e per le donne delle bande non c’era riguardo. Se in generale le pene erano più miti per le donne, tuttavia anche per loro scattava la pena di morte. In Capitanata Maria Antonia Altini, originaria di Castelbaronia, fu fucilata a Sant’Agata di Puglia il 7 agosto 1862. 33 Giovanni SAITTO, Fatti e briganti della nostra terra. Foggia, Bastogi, 1995, p. 21. S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 29, p. 211, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 78, scheda 169. 35 Carlo ALIANELLO, La conquista del Sud. Milano, Rusconi, 1979. 34 64 Michele Galante Giovanna Carozza fu uccisa nel carcere di Lucera nell’ottobre 1861. Andrea Cilla, di San Paolo Civitate, fu fucilata a Torremaggiore il 20 maggio 1862. Maria Maraffino, di San Fele di Lucania, fu fucilata quando aveva venti anni nel 1862, mentre Filomena Gabbamonte cadde all’età di ventuno anni.36 Maria Giuseppa Santoro di Peschici fu prima condannata a morte per attività antigovernativa e successivamente graziata per l’intercessione di influenti personalità del centro garganico.37 A Vieste, nei già ricordati moti del luglio 1861, la popolana Leonida Azzarone fu uccisa sul terrazzo dalla Guardia Nazionale durante uno scontro a fuoco. Stessa sorte toccò a Lucia Taronna di Mattinata e Mattea Prencipe di Monte Sant’ Angelo, che erano state attive protagoniste della rivolta.38 Donne ammazzate Ma le donne pagarono un altro tributo anche alla violenza dei briganti, che non era meno barbara e disumana di quella dei militari piemontesi o della Guardia Nazionale. Il 19 settembre 1862 furono derubati e assassinati da trenta briganti a cavallo gli sposi Luigi Stanislao Fusco di Frasso (Bn) e Carolina Cinelli di Morrone, che in carrozza viaggiavano per recarsi a Frasso. Il truce reato fu consumato sul ponte del Tammaro nel piano di Sepino. Il giorno successivo le spoglie di quei miseri barbaramente dilaniati vennero raccolte in bare e tumulate nel locale cimitero.39 Carolina Pontonio, meretrice di San Marco in Lamis, venne ammazzata in contrada Vado dell’Occhio il 7 agosto 1862 da Luigi Vigilante. Frequenti erano anche i casi di violenza gratuita, che avevano il solo scopo di intimidire per poi asservire. La banda di Michele Caruso il 18 ottobre 1863 trucidò una donna inoffensiva presso la masseria Reggente vicino Lucera. Sovente le donne trovavano la morte non in combattimento, ma a causa delle rivalità interne alle stesse bande dei briganti che si nutrivano di una subcultura 36 Pietro VARUOLO, Il volto del brigante. Avvenimenti briganteschi in Basilicata. 1860-1877, Galatina, Congedo, 1985. 37 Tommaso NARDELLA, Una pagina inedita di storia garganica. Peschici e Cagnano nella crisi dell’unificazione nazionale, in III Convegno Storico-IV convegno storico demologico, Tradizione, Arti e Società nella montagna garganica, Rodi, Centro rodiano di cultura Uriatinon, 1985, p. 160. 38 Luigi GATTA, Mattinata tra ‘800 e ‘900: frazione di Monte Sant’Angelo. Vol. I. L’Ottocento, Foggia, Claudio Grenzi, 1996, pp.134-135. 39 www.brigantaggio.net 65 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno piena di pregiudizi verso le donne, considerate inaffidabili e, come tali, pericolose per loro. A San Marco in Lamis il 19 giugno 1862 furono uccise dai briganti quattro drude, mentre altre sette furono ammazzate il 28 giugno, giorno in cui fu arrestato il capobanda Del Sambro, detto Lu Zambre, perché ritenevano la compagnia di tali donne l’origine della loro rovina.40 Sempre in quello stesso giorno furono arrestate Vittoria Cursio, detta Sempliciotti, druda di Del Sambro; Annantonia Ciavarella e Maria Michela Stoduto, mogli dei cugini Vincitorio, componenti della banda Del Sambro. 41 Con l’uccisione del capobanda garganico, si sviluppò una lotta senza quartiere all’interno dei diversi clan, che portò ad un regolamento di conti di inaudita ferocia che non risparmiava la vita dei loro sodali. La vedova del brigante Cosimello, da San Giovanni Rotondo, che si accompagnava al fratello di Recchiomozzo, fu buttata viva dagli stessi componenti della banda Del Sambro nella ‘grava‘ di Zazzano l’8 agosto 1862.42 Donne stuprate e violentate Come in tutte le guerre, e ancor più in quelle civili, le violenze e gli stupri non venivano risparmiati dai rappresentanti dello Stato. A Pontelandolfo numerose donne furono violentate dai soldati piemontesi. Una ragazza di sedici anni, legata a un palo in una stalla, venne oltraggiata da dieci bersaglieri davanti agli occhi del padre e poi uccisa.43 Oltre che della repressione e della violenza dello Stato, le donne furono vittime della violenza fisica, della brutalità e del terrore dei briganti. A Venosa, ritornando dal luogo dove si svolgeva la fiera, i briganti si portarono dietro la moglie di una Guardia Nazionale, certa Cristina Ferranda, e la violentarono. Non meno orribile fu il destino di una ragazza sedicenne – Maddalena Marchetti – del comune di Rapolla (Potenza), sulla quale la banda Sacchetto consumò uno stupro violento e collettivo. Il 17 febbraio 1864 briganti della banda Tasca sorpresero la contadina Maria Friego mentre attendeva ai lavori dei campi, la stuprarono e la uccisero barbaramente. Una sorte pressoché analoga subì il 10 agosto 1864 Angela Maria Leopardi di Ripacandida, la quale fu aggredita dal bandito Tortora mentre era intenta al lavoro nella fornace di Michele Leopardi in contrada Concenaro di quel comune. 40 Pasquale LA PORTA, Ricordi del brigantaggio garganico, cit., p. 44. Pasquale SOCCIO, Unità e brigantaggio, cit., p. 225. 42 Ibidem, p. 218 e p. 222. 43 Giordano Bruno GUERRI, Il sangue del Sud, cit., p. 147. 41 66 Michele Galante Con due colpi di fucile la uccise barbaramente, dopo averle chiesto dove si trovava suo marito.44 A Casalvecchio di Puglia Angela Marchionne il 20 giugno 1862 fu stuprata e derubata di 60 piastre da Celestino Orsogna e altri cinque briganti. Rosaria Conca, Benedetta Ritucci e Pasqualina Tanzitti di Carlantino furono oggetto di “stupri violenti” da parte della banda Scaglione. Uno stupro in danno di Luisa Morisco e Arcangela Sarno fu tentato in territorio di Ordona da appartenenti alle bande di Giuseppe Caruso e Giuseppe Schiavone. A Trepuzzi, nel Salento, Angela Greco fu violentata alla presenza del marito. Talvolta un barlume di umanità finiva per prevalere sulla ferocia del brigante. In Lucania una donna quindicenne – Antonietta Laratro – che trasportava il proprio cavallo in una masseria, fu rapita violentemente dal bandito Donato Tortora che, fortunatamente per lei, le risparmiò altre forme di violenza ed anzi la vestì con un gonnellino di seta nera e pantaloni e la ornò di gioielli. 45 Donne estorte e danneggiate Lo scopo dei briganti era di accumulare ricchezze in modo da accrescere la loro potenza economica e militare, ma anche di provvedere al pieno sostentamento di tutti i componenti delle bande e delle loro famiglie per rafforzare il legame associativo sancito col giuramento prestato, evitando defezioni, fughe e tradimenti in caso di difficoltà economiche. Oltre alle azioni criminose vere e proprie che consistevano in assalti alle masserie e agli armenti, la via meno rischiosa era quella delle estorsioni al fine di ottenere danaro, vestiti, generi alimentari e animali (pecore, asini e cavalli) assolutamente importanti nell’economia agricola o necessarie alla loro guerriglia contro l’esercito piemontese in modo da avere animali sempre riposati e freschi. Queste azioni venivano messe in atto prevalentemente contro i signori, senza grande pericolo, attraverso ‘messaggeri’ fidati. Una pratica che non risparmiava nemmeno le donne. Nel luglio 1862 fu consumata un’azione delittuosa estorsiva a danno di Angela Caputo e Lucia Cipollone di Casalnuovo Monterotaro46. Nel territorio di Sant’Agata di Puglia furono uccisi da parte della banda Crocco-Sacchitiello quarantacinque montoni e quindici pecore che appartenevano a Lucia Cataldo di Vallata. 44 Giuseppe BOURELLY, Il brigantaggio politico dal 1860 al 1865, cit., p. 259. Ibidem, p. 258. 46 S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 27, fs. 185/3, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 90, scheda 216. 45 67 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno A Vieste il 3 agosto 1863 il brigante montanaro Luigi Palumbo compì un furto di 149 pecore ed anche un’estorsione a danno di Mariantonia Medina47. Ad Anna Maria, Giuseppa Filomena e Maria Luigia Ripalta Ranozzi vennero ammazzati animali e incendiati attrezzi agricoli per un danno complessivo di 2.247 ducati nella masseria Canestrello Grande del tenimento di Candela da parte di Carmine Crocco e della sua banda. Donne sequestrate a scopo di estorsione Le estorsioni più brutali, ma anche le più redditizie per le bande dei briganti, erano quelle fatte attraverso i sequestri di persona. Una pratica che nel territorio della Capitanata era esercitata soprattutto nelle zone del Subappennino meridionale e settentrionale, mentre era scarsamente presente nelle balze del Gargano. Le vittime non erano soltanto i figli di grandi proprietari o i galantuomini, ma anche le donne. Teresa Stanisci di Ascoli Satriano, moglie del fattore Francesco D’Andrea, fu sequestrata da elementi della banda Schiavone - Petrozzi48. Antonia Forca fu sequestrata per due giorni il 13 giugno 1863 in contrada Canestrelle del comune di Candela da elementi della banda di Antonio Tasca. Maria Donata Cornacchia venne sequestrata insieme a Raffaele Bonvino di Pietramontecorvino49. Chiara Ferrecchia subì il sequestro col figlio Pietro Perna nel luglio 1862 a Casalnuovo Monterotaro con estorsione di danaro, vino, dieci anelli d’oro, formaggi e camicie da parte della banda di Benedetto Celenza. E) Donne nemiche o avversarie che denunciano Tra le tante vittime delle violenze brigantesche ci fu anche chi si rifiutò di accettare uno stato di sopraffazione e trovò il coraggio di denunciare gli atti di violenza, come fece Angela Casalino, vedova di Francesco Ciccone, di Monte Sant’Angelo, nei confronti della famiglia dei banditi Ciuffreda, accusati di delinquere contro le persone e la proprietà50. 47 S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 38, fs. 299, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 126, scheda 357. 48 S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 11, fs. 54/21, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 62, scheda 109. 49 S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 31, fs. 224, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 91, scheda 220. 50 S.A.S.L., Processi davanti la Corte d’Assise, B 38, fs. 288, citato in G. CLEMENTE (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata, cit., p. 127, scheda 360. 68 Michele Galante F) Donne vittime, risarcite dalla Commissione provinciale per la repressione del brigantaggio Nella difficilissima e ostica campagna promossa dal nuovo stato unitario per debellare il brigantaggio, a partire dal 1863 furono poste in atto una serie di misure e di provvedimenti volti a rendere meno iniqua e pesante la condizione delle famiglie dei caduti per mano dei briganti e a guadagnare consenso alla causa unitaria attraverso la concessione di sussidi, vitalizi e pensioni a favore delle famiglie dei caduti o il conferimento di ricompense a quanti (familiari e non) si adoperavano per convincere i briganti a costituirsi presso le autorità. A questo compito vennero preposte le Commissioni provinciali per la repressione del brigantaggio, che sulla base dell’istruttoria svolta da apposite commissioni comunali, provvedevano ad erogare questi benefici, la cui consistenza variava in ragione del danno subito o della collaborazione data. In Capitanata fu concesso un sussidio di 700 lire a Raffaela Trazza di Lucera, vedova del guardiano Luigi Nigro di Ariano Irpino, barbaramente trucidato dai briganti nel luglio 1862 per essersi rifiutato di portare biglietti di ricatto scritti dal capobanda Gabriele Galardi.51 Un sussidio di mille lire fu dato a Isabella Iuso, il cui marito, Giovanni De Finis, luogotenente della Guardia nazionale di Alberona, era stato ucciso in combattimento dagli uomini di Michele Caruso. La Commissione provinciale per la repressione del brigantaggio di Foggia nella seduta del 14 luglio 1863 deliberò di concedere una pensione a Lucia Nardella, madre di Antonio Schiena, agrimensore di San Marco in Lamis, ammazzato il 7 maggio 1862 in contrada Puzzella, agro di Rignano Garganico, dalla banda Del Sambro.52 L’analoga Commissione di Benevento accordò un sussidio di 250 lire e una pensione annua di 360 lire a Gabriella Marcarelli di Paduli, il cui marito Antonio d’Alessandro, sottotenente della Guardia Nazionale, cadde nel giorno 20 febbraio 1863 sotto i colpi della banda Schiavone, lasciandola in uno stato miserabile, gravida e con nove figli quasi tutti di tenera età.53 Il 16 settembre 1863 Mariantonia Orlando, madre di cinque figlie e seconda moglie di Angelo Calvitto, sarto liberale, ammazzato con un pugnale da Antonio Tamburro e Silvestro Ciavarella l’8 ottobre 1860, ottenne un indennizzo di 350 lire per le vittime dei briganti. Una proposta di vitalizio fu avanzata anche per la madre del Calvitto, Maria Vincenza Giuliani. 51 ASF, Intendenza, Governo e Prefettura, b. 47. Verbali redatti dalla Commissione per la mercede dovuta a diversi cittadini di San Marco in Lamis / a cura di Tommaso Nardella, San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 2003, p. 18. 53 Luisa SANGIUOLO, Il brigantaggio nella provincia di Benevento. Benevento, De Martini, 1995, p. 154. 52 69 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno Maria Felicia Rendina, madre di cinque figli e vedova di Tommaso Ciavarella, ucciso dal brigante Alessandro Cursio, si vide accogliere la domanda di indennizzo da parte della Commissione per la mercede di San Marco in Lamis nella seduta tenutasi 12 novembre 1864.54 Nella stessa seduta la Commissione Comunale, dopo averla in un primo tempo rigettata, accolse la richiesta di Angela Giuliani e del marito Angelo De Filippis, tendente ad ottenere l’ indennizzo per la morte del fratello Angelo Maria, ammazzato dalle truppe perché ritenuto erroneamente brigante. Maria Teresa Tolfa, madre di Francesco Nardella ucciso il 2 giugno 1861, vide respinta la sua richiesta di sussidio, che invece fu accordata alla di lui moglie Angela Marucchelli. Altre donne parteciparono dalla parte dello Stato alla lotta contro il brigantaggio, senza essere né pentite né drude. Tra di esse va segnalata Gaetana D’Apolito, da San Marco in Lamis, la quale ebbe in premio 300 lire da parte della Commissione provinciale per la repressione del brigantaggio per aver indicato, insieme ad altri due elementi della squadriglia di Carlo De Carolis attraverso un’imboscata, il luogo (contrada Lavorelli) dove si annidava con la sua banda il famoso e temuto brigante Angelo Raffaele Villani, detto Recchiomozzo, che in quella circostanza trovò la morte, insieme ai briganti Andreone e Lanzone,55 dopo un durissimo scontro a fuoco. G) Donne collaboratrici di giustizia o pentite Spesso furono le donne ad essere oggetto di pressione da parte degli apparati repressivi dello Stato che le inducevano a dissociarsi dalle bande brigantesche con l’obiettivo di scompaginarle e a collaborare attraverso sconti di pena o promesse di danaro. Questa collaborazione tendeva a rompere il muro dell’omertà per avere notizie dei nascondigli dei briganti e per indurre i propri familiari a costituirsi. Filomena Ciccaglione, che era stata amante di Michele Caruso, uno dei più temuti e feroci briganti meridionali, che agì nelle zone al confine tra la Capitanata Nord, il Molise e il Sannio, concorse con altri soggetti a preparare il tranello che condusse all’arresto del capobanda nel comune di Molinara, nei pressi di Benevento.56 Come ricompensa ebbe una pensione di quaranta ducati all’anno. Pellegrina Caputo, druda di Peschici, gobba, dietro promessa di una grossa somma, concorse con un tranello a far uccidere un brigante della banda di Giuseppe Patetta, detto il Generale.57 54 Verbali redatti dalla Commissione per la mercede dovuta a diversi cittadini di San Marco in Lamis, a cura di Tommaso Nardella, cit., p. 30. 55 Pasquale SOCCIO, Unità e brigantaggio, cit., p. 272. 56 Luisa SANGIUOLO, Il brigantaggio nella provincia di Benevento, cit., p. 198-202. 57 Tommaso NARDELLA, Una pagina inedita di storia garganica, cit., pp. 162-163. 70 Michele Galante Maria Rachele Cursio e Maria Teresa Palumbieri, rispettivamente moglie e madre del brigante Giovanni Tarolla, ottennero un premio di 300 lire per avere entrambe cooperato alla presentazione dello stesso. Un sussidio di 100 lire fu assegnato a una persona che volle rimanere incognita per essersi adoperata per la presentazione di Celestino Antini, avvenuta in San Marco in Lamis il 23 giugno 1863. Mezzi diversi venivano usati per favorire e alimentare il fenomeno della dissociazione e del pentitismo. Nei confronti di chi prendeva le distanze e abbandonava il campo era applicata senza risparmio la legislazione premiale. Ma non era solo la promessa di danaro o di sconti di pena a far scattare la voglia di collaborare con lo Stato. A queste motivazioni se ne accompagnavano anche altre, come la gelosia o la voglia di vendetta per torti subiti o il ricatto delle forze dell’ordine. Il capobanda Giuseppe Schiavone fu catturato in località Porta Vassallo, presso Candela, grazie alla complicità di Rosa Giuliani, una giovane e bella donna che era stata per qualche tempo la sua druda favorita. La Giuliani, forse per gelosia, in quanto si vedeva posposta ad altre donne, o per la speranza di lucrare un po’ di soldi, si decise a collaborare con il generale Pallavicini, permettendo la riuscita dell’operazione. La stessa Filomena Pennacchio, una delle donne dedite al brigantaggio che maggiormente si era distinta per coraggio e determinazione e che per tanto tempo era stata una fedele compagna dello stesso Schiavone, dopo che questi venne fucilato, consapevole forse dell’imminente fine del brigantaggio, tradì la causa per cui aveva combattuto per tanto tempo in modo dignitoso e collaborò con le truppe piemontesi, rendendo possibile l’arresto di un altro capobrigante che agiva al confine tra la Capitanata e l’Irpinia: Agostino Sacchitiello. Insieme a lui furono catturati a Lacedonia nel palazzo dei signori Rago, che avevano fama di essere liberalissimi, ma che in realtà erano complici dei briganti, il bandito Pasquale Gentile nonché Giuseppina Vitale, druda del Sacchitiello e Maria Giovanna Tito, moglie di Carmine Crocco.58 La Pennacchio, dopo essere stata arrestata, fu processata per numerose azioni delittuose e condannata il 30 giugno 1865 a soli venti anni. La pena fu ridotta negli anni successivi prima a nove e poi a sette anni.59 Dopo aver scontato per intero la pena, nel 1872 uscì dal carcere tornando ad una vita anonima. La storia delle donne durante la “sporca guerra”60 del brigantaggio è stata essenzialmente storia di abusi e di violenze quotidiane, che venivano esercitati a 58 Giuseppe BOURELLY, Il brigantaggio politico dal 1860 al 1865, cit., p. 263. Valentino ROMANO, Brigantesse, cit., p. 161. 60 Del brigantaggio come “sporca guerra” si trovano tracce in modo particolare in Salvatore SCARPINO, Indietro, Savoia! Briganti del Sud, cit., p. 67. 59 71 Il volto femminile del brigantaggio. Per una lettura di genere del fenomeno diverso titolo e in diverse forme. È stata storia fatta per lo più di silenziose sofferenze sopportate con forza di dignità, di desideri di rivolta repressi, di tante vittime innocenti, solo raramente di attrici, di tentativi di affrancamento dalla subalternità familiare, di prime prove di emancipazione e di rifiuto di un ruolo di rassegnazione e di sudditanza. Sarebbe una forzatura parlare delle donne del brigantaggio come una sorta di antesignane del femminismo. Si dovette attendere ancora diverso tempo perché maturasse la consapevolezza del proprio ruolo e si affermasse un protagonismo femminile diretto nelle vicende politiche, sociali e di costume. E tuttavia anche in questa contingenza storica venne gettato un seme prezioso destinato a germogliare. 72 Federica Elisabetta Triggiani Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) di Federica Elisabetta Triggiani Premessa Lo studio delle fonti documentarie costituisce un momento imprescindibile per l’impostazione di qualsiasi tipo di indagine storica metodologicamente ineccepibile. Uno dei punti di riferimento fondamentali per la ricerca è senz’altro rappresentato dall’Archivio di stato. In esso si trovano, tra altri documenti, anche gli inventari dei beni, mobili e immobili, veri e propri atti notarili privati che rivestono un ruolo di primo piano nella ricerca storica perché redatti da un pubblico ufficiale, il notaio, che essendo depositario della publica fides, era considerato da tutti il garante della veridicità di ogni sorta di contratto. Il suo compito era quello di redigere atti di cui curava la trascrizione nei propri registri, garantendone la conservazione e la certezza dell’autenticità. Gli inventari di patrimonio sono stati ‘scoperti’ come fonte documentaria, in Italia, da una generazione di storici vissuti tra la fine dell ‘800 e i primi del Novecento. Essi ben presto rappresentarono uno strumento insolito per un modo nuovo di fare storia, che non fosse più soltanto storia delle vicende politiche e diplomatiche di un popolo. Sono proprio questi i documenti di cui mi sono avvalsa nel mio lavoro di tesi. Esaminando decine di protocolli ingialliti dal tempo e decifrando con fatica grafie corsive e abbreviazioni in uso in quell’epoca, ho provato a tracciare un quadro della vita di Foggia nel XVIII secolo, non per raccontare storie di re, imperatori, papi o eroi, ma solo per scoprire una ‘piccola storia’, di persone comuni, una storia intessuta di cose ed eventi quotidiani; una storia raccontata direttamente dagli oggetti che a volte sembrano volerci narrare la vita passata più e meglio di tante parole. Attraverso l’analisi dei beni mobili rinvenuti nelle documentazioni notarili, cercherò di mettere in evidenza gli stili di vita, i gusti prevalenti e le abitudini di consumo della società foggiana del ‘700, prendendo in considerazione tutti gli atti notarili consultati, qualunque sia la classe sociale del soggetto stipulante. 73 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) Gli inventari da me presi a campione sono una quindicina. Essi appartengono a famiglie più o meno agiate vissute a Foggia in quel periodo e che rappresentano uno spaccato della storia cittadina dell’epoca. Tra essi vi è il barone Potito Saggese, l’ allora Governatore della Dogana Antonio Belli, il ricco commerciante Leonardo Mazza e poi il capitano Felice Tortorelli, l’avvocato Nicola Tortorelli, il dottor Francesco Barone ed ancora mastri, bottegai e un ortolano. Informazioni generali sulle famiglie esaminate Il primo notaio preso in esame è Carlantonio Ricca di Foggia e gli anni in cui roga comprendono il periodo tra il 1751 e il 1764. Tra le sue carte si ritrova l’inventario dei beni ereditari di Giuseppe Mastrogiacomo, richiesto dai figli e datato 22 novembre 1752. L’atto non fornisce indicazioni riguardo il tipo di mestiere svolto, ma l’inventario di una vigna fa pensare che si occupasse del proprio terreno. Il 10 giugno 1754 viene redatto l’inventario dei beni ereditari di Angelo Ramundi, ortolano, deceduto tre giorni prima all’età di sessantatrè anni. L’11 agosto 1756 viene compilato l’inventario del barone di Roseto Potito Saggese, deceduto il 2 agosto 1755 all’età di cinquantatrè anni. Fornirò in seguito notizie più approfondite su questa famiglia. Il 15 aprile 1760 viene stilato l’inventario di Francesco Del Prete, su richiesta di un pubblico negoziante tutore e curatore pro tempore dei figli. L’8 gennaio 1761 viene compilato l’inventario del Presidente della Dogana Antonio Belli, deceduto il quattro dello stesso mese. Esso viene effettuato nella camera al quarto piano del Palazzo Doganale. Il 10 ottobre 1764 viene steso l’inventario di Nicola Andrea di Peppo,. Un inventario di bottega fa pensare che il signor di Peppo si occupasse della vendita di tessuti e capi d’abbigliamento. Il secondo notaio esaminato è Gervasio Pacileo di Foggia. L’11 marzo 1756 viene redatto l’inventario di patrimonio di Giuseppe de Benedictis su richiesta dei due figli, istituiti entrambi eredi. Il 28 novembre 1756 viene richiesto l’inventario dei beni appartenuti al commerciante Leonardo Mazza, deceduto il 2 gennaio 1755 all’età di sessantasei anni. Quest’ultimo è l’unico inventario che per l’ingente quantità di beni, viene redatto in più giorni. Per quanto concerne la sua occupazione sappiamo che il signor Mazza fondò una società mercantile con il socio Francesco Filiasi;1 1 Saverio RUSSO, Alla volta del Tavoliere. Mobilità di uomini e fortune nella «Puglia piana» di età moderna, Foggia, Claudio Grenzi Editore, 2007, p. 89. 74 Federica Elisabetta Triggiani venne inoltre effettuato anche l’inventario del «fondaco di negozio».2 Il 30 aprile 1764 viene redatto l’inventario di patrimonio del mastro Michele Mucella su richiesta della moglie Raffaela Zirillo. Il 18 luglio 1764 viene stilato l’inventario di patrimonio del signor Filippo Totta, deceduto il quattordici giugno dello stesso anno. Dal notaio Saverio Ciccone di Foggia, abbiamo esaminato l’unico inventario patrimoniale esistente in quegli anni. Il 23 febbraio 1763 si scrive l’inventario di patrimonio di Pasquale Cognetti, sarto, deceduto all’età di quarantuno anni. L’ultimo notaio preso in esame è Domenico Greci di Foggia. Il 2 maggio 1750 viene steso l’inventario di patrimonio di don Ignazio Conte, originario di Napoli. Il 31 luglio 1750, su richiesta fatta dagli eredi universali, ossia i fratelli Bonaventura e Pietro Antonio Barone, si ritrova l’inventario dei beni di Francesco Barone. Alcune fonti ci informano che egli è «[…] nato nel 1698. Agli inizi degli anni ’20 del ‘700 si trasferisce a Foggia dove, in qualità di dottore fisico, esercita la professione medica – alcuni documenti notarili lo descrivono in questa veste – e da subito inizia la costruzione di una notevole proprietà immobiliare».3 L’inventario dei beni immobili è ricco di case, fondaci, stalle e forni, la maggior parte dati in affitto. Il 1 dicembre 1751 viene compilato l’inventario di patrimonio del capitano Felice Tortorelli su richiesta della moglie Anna Scafati e del fratello Nicola Tortorelli. Della sua carriera sappiamo che egli fu fra i reggimentari cittadini e «2° eletto dal 1720 al 1722».4 Il 30 giugno 1752, infine, viene redatto l’inventario del dottor Nicola Tortorelli, letterato e giureconsulto.5 Viene reso noto che il dottor Tortorelli muore senza lasciare testamento. Della sua famiglia si parlerà ampiamente nel capitolo 1.3. Introduzione. Gli inventari patrimoniali «Indagatori della vita privata, dei costumi e del costume».6 Così Pietro Egidi definiva la moltitudine di studiosi che per primi scoprirono l’importanza di avva- 2 Archivio di Stato di Foggia. Sezione di Lucera [d’ora in poi S.A.S.L.], Atti dei notai, serie I, notaio G.Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 3 Stefano D’ATRI, Tra Salerno e Foggia: la famiglia Barone nel primo Settecento, in Saverio Russo (a cura di), La Capitanata in età moderna, Foggia, Grenzi, 2004, p. 124. 4 Carmine DE LEO, Palazzi e famiglie dell’antica Foggia, Foggia, Consorzio costruttori, 1995, p. 183. 5 Per ulteriori approfondimenti si consultino i due manoscritti di Nicola Tortorelli presenti ne I Manoscritti della Biblioteca Provinciale di Foggia, Pasquale Di Cicco (a cura di), Foggia, Provincia di Foggia, 1977, nn. 68-69. 6 Pietro EGIDI, La storia Medievale, Roma, Fondazione Leonardo per la cultura italiana, 1922, p. 67. 75 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) lersi degli inventari dei beni come strumento insolito di fare storia, perché «anche le cose piccole hanno sempre la loro importanza, ma nella storia, dove i grandi fatti sono il risultato di piccoli elementi, le cose minute sono talora il tutto».7 È proprio grazie a questi inventari che è possibile conoscere ciò che le famiglie possedevano nelle loro abitazioni. Si tratta principalmente di inventari post mortem, di testamenti, doti e donazioni. In Italia le prime ricerche storiche collegate alla consultazione degli atti notarili si diffondono con l’emergere dell’interesse per la storia sociale e la vita materiale verso la fine dell’Ottocento. Nel Napoletano si occupò di queste ricerche Riccardo Bevere, che pubblicò inventari di immediato interesse antiquario, utilizzandoli, in seguito, per importanti saggi dedicati alle province napoletane a partire dal dodicesimo secolo.8 Un singolo inventario non costituisce in sé un elemento tipico. Risulta tale solo quando viene messo a confronto con altri inventari, divenendo quindi elemento di una serie, documento rappresentativo di una realtà sociale. Fu nel secondo dopoguerra che lo studio di atti notarili si diffuse in tutta Europa. Molti studiosi, come i francesi Braudel e Braudillard, effettuarono una serie di studi sulla cultura materiale, concetto strettamente collegato al tema dei consumi e quindi inevitabilmente al rapporto che si viene a creare tra l’uomo e gli oggetti che lo circondano. Braudel, in particolar modo, lega tale cultura «ai gesti ripetitivi, alle storie silenziose e quasi obliate degli uomini, a realtà di lunga durata, il cui peso fu immenso e il rumore appena percettibile».9 Gli inventari post mortem costituiscono dunque una risorsa fondamentale se si vuole approfondire fin nel dettaglio la diffusione di nuovi beni di consumo. Essi, tra i vari tipi di elenchi di beni, sono ritenuti i più ricchi di informazioni. Lo scopo principale di questi inventari, palesemente rivelato nelle pagine introduttive di ognuno di essi, era quello di tutelare l’erede da eventuali richieste di creditori intenzionati a rivalersi sul patrimonio ed evitare quindi che l’eredità stessa fosse «piuttosto dannosa che utile»,10 precisazione presente all’interno di ogni documento analizzato. Le famiglie più facoltose hanno lasciato spesso archivi privati, mentre appartenenti al ceto medio hanno sentito il bisogno di rivolgersi ad un notaio. Si è autoesclusa da questa pratica tutta quella parte di popolazione più povera, anche se «talvolta vi entrano di riflesso, magari rivelandosi in maniera più o meno chiara ad 7 Ettore GALLI, La casa di abitazione a Pavia e nelle campagne nei secoli XIV e XV, in «Bollettino della Società pavese di storia e patria», I (1901 giugno, volume 1, fascicolo 2), pp. 155-156. 8 Cfr. Maria Serena MAZZI, Gli inventari dei beni. Storia di oggetti e storia di uomini, in «Società e storia», III (1980), n°7, pp. 203-204. 9 Fernand BRAUDEL, Capitalismo e civiltà materiale: secoli XVI e XVIII, Torino, Einaudi, 1977, p. XXI. 10 S.A.S.L, Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 76 Federica Elisabetta Triggiani una lettura contro-luce del documento».11 Ciò dimostra che «l’inventario è un atto da ricchi o perlomeno da benestanti».12 Si deve considerare inoltre che l’atto notarile aveva un suo prezzo: a Parigi ad esempio intorno al 1780 esso si aggirava intorno alle 30-40 lire, «equivalente […] a più di 20 giornate di lavoro».13 In definitiva un inventario censisce una proprietà dando un’idea statica del patrimonio, in quanto non lascia filtrare nulla che abbia a che fare con il rapporto affettivo tra proprietario e proprietà. Per entrare in contatto con gli usi e costumi delle famiglie interessate, l’inventario risulta essere il documento più completo perché ci offre un dettagliato elenco non solo di oggetti di valore, ma di tutto ciò che si possedeva, anche di suppellettili ritenute a volte non degne di essere citate in altri documenti. Esso ci introduce nella vita di persone sconosciute, senza descriverci la loro condizione sociale, ma anche senza alcuna notizia su come quegli oggetti siano entrati in loro possesso e quali trasformazioni abbiano subito. Ci porta direttamente nelle loro camere da letto e saloni, permettendo di giudicare lo stato di conservazione ed il valore di beni materiali spesso presenti nella famiglia da generazioni. Alcuni notai rendono descrizioni piuttosto dettagliate della collocazione dei beni mobili all’interno delle varie stanze, dei particolari materiali, tessuti e colori. Altri, invece, risultano più vaghi; tutti, comunque, enumerano con precisione tali beni specificando se si tratti di robbe vecchie o nuove: questa è una delle prime caratteristiche che differenzia un inventario post mortem da un inventario dotale. Gli oggetti di vita quotidiana hanno da sempre interessato e affascinato molte correnti artistiche. Le raccolte museografiche italiane mettono in luce gli atteggiamenti e le ragioni che determinano la nascita dell’interesse per gli oggetti della vita quotidiana dei popoli italiani, cioè per la ‘cultura materiale’, che oggi è al centro di grandi e piccoli musei della civiltà e del mondo contadino diffusi in tutte le regioni d’Italia. La pittura, ad esempio, è ricca di soggetti di interni e di vita domestica. Un esempio concreto ci viene offerto dall’iconografia olandese del diciassettesimo secolo. Il repertorio pittorico di Vermeer è un incessante ricorrere ad oggetti a lui molto familiari, gli stessi che si ritroveranno nel suo inventario post mortem. Dipingere la vita borghese nella sua semplicità e quotidianità era intimamente realistico. Anche la letteratura è ricca di ‘poetica degli oggetti’ che si oppone ad una 11 Pasquale CORSI, Arredi domestici e vita quotidiana, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno svevo, Atti delle settime giornate normanno-sveve (Bari, 15-17 ottobre 1985), Bari, Edizioni Dedalo, 1985, p. 84 . 12 Daniel ROCHE, Il popolo di Parigi. Cultura popolare e civiltà materiale alla vigilia della Rivoluzione, Bologna, Il Mulino, 2000, p.79. 13 Ivi, p. 80. 77 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) ‘poetica della parola’. Si pensi al correlativo oggettivo di Eugenio Montale, in cui l’oggetto diventa simbolo di una condizione interiore o esistenziale, che verrà poi ripreso in parte da Vittorio Sereni, caposcuola della ‘linea lombarda’, poeta la cui lirica si nutre della quotidianità e degli oggetti della casa. Il crepuscolarismo aveva però già avvertito con le poesie di Guido Gozzano la paura di non poter più scrivere versi in una società come quella moderna, borghese, sentita come estranea ad ogni sorta di discorso poetico, concentrata com’è sull’utile, sul guadagno, sull’artificialità. Il fare poesia, infatti, andava contro le ‘buone cose di pessimo gusto’ della normale vita borghese. Per conformarsi con l’ordine borghese bisognava scegliere linguaggi e oggetti quotidiani, che diventano l’unico modo di sopravvivenza di una poesia, in netto contrasto con il suo contesto. Gli oggetti sono quindi presenti nella nostra vita da secoli e hanno assunto significati variegati, essendo stati utilizzati di volta in volta con scopi e finalità diversi, ora per legare delle persone, ora per innalzare barriere. Studiare gli oggetti e i beni di consumo attraverso la loro presenza nelle famiglie è uno dei modi per evitare un approccio prettamente materialistico. Sorge quindi una domanda: gli oggetti hanno un’anima? La letteratura, la storiografia e l’archeologia confermano il fatto che essi sembrano raccontare la vita passata più di tante parole. Forse proprio quest’ ‘anima’ ha spinto molti storici ed antropologi ad interessarsi allo studio di fenomeni sociali attraverso l’osservazione dei beni materiali, definiti da Mary Douglas accessori rituali il cui compito è di fissare significati altrimenti instabili e sfuggenti. Studiare la storia significa spesso operare una scelta: scegliere cioè se interessarsi alla storia degli imperatori, delle grandi guerre e degli uomini illustri, oppure dedicarsi alla microstoria, ossia alla storia delle piccole cose. Sono due alternative altrettanto valide di fare storia e non bisogna cadere nell’errore di credere che la seconda non fornisca dati importanti: al contrario, essa dà spessore e veridicità al modus vivendi privato. Indubbia è l’alta qualità di queste ricerche, che si dividono tra scelte qualitative o statistico-quantitative, le quali, comunque, costituiscono una nuova proposta di accesso al passato, un diverso tentativo di scavare nell’abisso della storia. Trovarsi di fronte a faldoni di documenti ingialliti, a volte ormai logori ed illeggibili, ha lo stesso effetto di quando ci si ritrova in una camera oscura: bisogna riportare alla luce e sviluppare vecchie foto di famiglia nelle quali qualche zona resta inevitabilmente in ombra. «Talvolta, tuttavia, contro tutte le attese, nelle maglie delle fonti sono rimasti per così dire impigliati, per secoli, minimi particolari di gesti quotidiani asso- 78 Federica Elisabetta Triggiani lutamente banali, di norma destinati ad essere rapidamente dimenticati anche da coloro che li compirono [...]».14 La storia di famiglie, dei consumi, dell’arredamento e dell’abbigliamento servirà a tracciare alcune linee sulle quali si reggeva la struttura economica urbana del diciottesimo secolo, indagata direttamente dall’interno delle abitazioni. I Capitolo Foggia nella seconda metà del Settecento 1.1. Situazione storica Il 1700 si apre con la guerra di successione spagnola e si chiude con la rivoluzione francese. Nei primi anni l’Italia è in balia di potenze straniere che ne ambiscono il dominio, ma dopo la guerra di successione polacca, Il Regno di Napoli torna ad avere una sua dinastia indipendente con don Carlos di Borbone. Soprattutto a Napoli la nuova famiglia reale incentiva realizzazioni innovative nell’edilizia pubblica, con il restauro di storici palazzi, teatri e porti. Foggia costituiva un’importante periferia di Napoli, tanto da aver assimilato la stessa cultura e lo stesso decoro. Nel 1468, ancora sotto il dominio degli aragonesi, divenne sede della Dogana che regolamentava la transumanza. Nasceva, così, una istituzione che condizionerà per ben quattro secoli gran parte della Capitanata e non solo. La pratica della transumanza consentì alla città di Foggia di diventare crocevia di mercati e di fiere legate principalmente alla pastorizia. L’economia locale resta nelle mani di «nobili napoletani e grandi feudatari, allevatori e ricchi concessionari abruzzesi»,15 della classe media, formata da artigiani, mercanti, ma soprattutto professionisti come avvocati, medici o funzionari pubblici. Non bisogna però dimenticare che cresceva a dismisura anche il ceto povero, il quale non riusciva a trovare spazio né nelle campagne, né nel nuovo assetto cittadino. Per quanto riguarda l’architettura di Foggia prima del ‘700, purtroppo oggi non restano molte testimonianze. Il 20 marzo 1731 un violento sisma scosse la Campania, l’Irpinia e la Puglia. Non rimase in piedi alcuna chiesa, crollarono forni e mulini e dai pozzi risalì talmente tanta acqua da allagare tutti i terreni circostanti: crollò quasi un terzo delle costruzioni di Foggia e si contarono mille morti. 14 Raffaella SARTI, Vita di casa: abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 8. 15 Ugo JARUSSI, Foggia. Genesi urbanistica, vicende storiche e carattere della città, Bari, Adda, 1975, p. 17. 79 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) Negli anni che seguirono il disastroso evento tellurico, la città cercò di risollevarsi e nacquero diverse tipologie di abitazioni. 1.2. Le strade e i palazzi Foggia antica ha il suo cuore nell’attuale via Arpi, caratterizzata dall’intreccio di varie vie e vicoli che ospitavano al loro interno sia la popolazione dedita alle arti e ai mestieri, che alcune famiglie gentilizie. Le famiglie erano solite abitare dove potevano professare la propria arte e quindi il centro della città si caratterizza per la presenza di abitanti di un certo ceto sociale.16 Le famiglie che abitavano nelle case palaziate, terminologia utilizzata spesso nell’elenco di beni immobili, si fregiavano a volte di un titolo nobiliare acquisito per censo o per meriti speciali, soppiantando gli antichi casati. Un’antica piantina di Foggia del 1748 ci mostra come la città si sia lentamente allargata anche ‘fuori le mura’ con la costruzione di chiese, formando nuovi quartieri che prendono il nome di Capo la Terra, Capo la Città, Piano della Croce.17 Le case palazzate erano quelle dei gran signori, tutte le altre non superavano il primo piano o consistevano nel solo terraneo. Ad esempio la casa del mastro Michele Mucella viene definita «una baracca sita per la strada de Cappuccini di rimpetto al palazzo della signora D. Anna Tanni giusti li confini».18 Le baracche erano infatti abitazioni a pian terreno, spesso consistenti in grotte, e che già per la denominazione fa immaginare l’umiltà e la semplicità. 1.3. Palazzi ancora esistenti Fortunatamente alcuni di questi palazzi si possono ancora ammirare, come per esempio quelli del barone Potito Saggese e della famiglia Tortorelli. La famiglia Saggese era originaria di Ravello e si era trasferita a Foggia alla fine del XVI secolo con il notaio Giovanni Andrea. Palazzo Saggese situato «avanti questa Madre Chiesa» diede il nome anche alla piazzetta antistante detta appunto ‘Largo del Barone Saggese’; attualmente il palazzo ha perduto l’assetto originario in quanto è stato più volte modificato, anche se fortunatamente se ne conservano disegni e piantine. L’edificio si estendeva con un solo piano superiore e vi si accedeva attraverso quattro portoni, due più piccoli ai lati e due più grandi centrali e sopra di essi si aprivano quattro balconi. 16 Cfr. Saverio RUSSO, L’articolazione socio-professionale tra Sette e Ottocento, in S. Russo (a cura di), Storia di Foggia in età moderna, Bari, Edipuglia, 1992, p.170. 17 Vincenzo SALVATO, Foggia. Città, territorio e genti, Foggia, Claudio Grenzi, 2005, cartina XXXII. 18 Ivi, Pacileo , prot. 3722, ff. 102-104. 80 Federica Elisabetta Triggiani «Il palazzo si componeva di camere, saletta, cucina, grotta, dispensa, stalla, rimessa, portone e due fondaci […]».19 Attualmente il palazzo risulta diviso a metà: alla prima parte è stato aggiunto un secondo piano e la grandezza dei quattro portoni risulta identica. Palazzo Tortorelli, passato come proprietà al dottor Nicola Tortorelli, come si apprende dal Catasto onciario del 1741, è situato nell’attuale via Le Maestre, ossia una delle zone più antiche di Foggia. Il suddetto documento ci parla di più camere, grotte, stalle e rimesse ma l’inventario fornisce notizie più precise. L’abitazione viene divisa in undici camere, tra cui una galleria ed una cucina e si parla di un solo piano superiore. Ancora oggi si possono osservare quattro ingressi, con un portone più grande degli altri e tre balconi, quello centrale più lungo degli altri in quanto comprende due aperture. All’interno del portone maggiore vi è un cortile su cui si affacciano quattro finestre e attraverso una scalinata in pietra si sale al piano superiore. II Capitolo Gli interni 2.1. Il significato degli oggetti Dagli inventari post mortem, che saranno oggetto di un’analisi approfondita, emerge chiaramente come ogni possessore di beni intesseva con i propri oggetti un rapporto diversificato e speciale, a seconda delle proprie esigenze. Il rapporto cambia anche in base al tipo di oggetti e alle rispettive funzioni: essi possono appartenere alla sfera dell’utile oppure possono assumere un significato speciale per chi li possiede, trasformandosi «da cose – oggetti dotati appunto di utilità – in semiofori – oggetti dotati di significato».20 Secondo Pomian i semiofori sono «oggetti ritenuti portatori di particolari significati da una determinata società e pertanto creati o esposti in modo da rivolgersi allo sguardo o in modo esclusivo o anche conservando una funzione pratica».21 Il significato degli oggetti può cambiare a seconda del gusto e delle usanze di una certa epoca, per poi tornare a far parte della sfera dell’uso e dell’utile. Gli oggetti più adatti per natura a caricarsi di un significato sono da sempre quelli più preziosi: gioielli, argenti, collezioni di libri, di quadri, ma anche vestiti e stoffe preziose. Essi costituiscono un «insieme di cose tendenzialmente inalienabili e una riserva di ricchezza da mobilitare in casi extra-ordinari».22 19 DE LEO, Palazzi e Famiglie dell’antica Foggia, cit., p. 175. AGO, Il gusto delle cose, cit., pp. XVI-XVII. 21 Krzysztof POMIAN, Che cos’è la storia, Milano, Mondadori, 2001, p. 113. 22 AGO, Il gusto delle cose, cit., p. 225. 20 81 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) Le abitazioni foggiane si rivelano ricche di biblioteche, di gioielli sia da uomo che da donna, tessuti pregiati, argenti e molti soprammobili, statuette e un numero esorbitante di quadri. L’importanza che questi beni hanno per i proprietari si chiarifica maggiormente quando si incontrano, all’interno degli inventari, delle annotazioni che aiutano lo studioso a comprendere il rapporto con i loro oggetti. Per esempio, nell’elenco dei quadri appartenuti a Leonardo Mazza, il notaio ci tiene a specificare che alcuni «sono pegni della casa dei figli del quondam Leonardo Miani»,23 mentre altri sei «sono di Giambattista Marena dati in pegno per ventotto ducati».24 Di diversa natura sono i pegni che si riscontrano nell’inventario di Nicola Tortorelli, cioè «una cantuscia di drappo ricco involto in una tovaglia bianca, pegno di Giuseppe Granieri; un guardapiede d’amuerro ricamato d’oro e fiori al naturale, quali sono pegni datoci da Felice Mancino».25 I vestiti, la biancheria e i gioielli sono quindi «tesori […] da conservare per tutta la vita e da lasciare poi ai propri eredi».26 Se nel momento del bisogno essi vengono ‘sbloccati’ dall’essere oggetti inalienabili e ceduti temporaneamente al posto di somme di denaro, non è detto che, una volta ritornati in loro possesso, i rispettivi proprietari non decidano di tenerli di nuovo sotto ‘protezione’. Il mastro Michele Mucella dimostra di non tenere particolarmente all’arredamento della casa, ma si circonda di oggetti di valore economico importante, da cui non si è separato proprio perché considerati ‘significativamente’ preziosi. Come infatti sostiene Renata Ago, «c’è differenza tra i candelabri d’argento che illuminano i salotti delle élites nobili, e gli oggetti preziosi che vengono tenuti ben chiusi nell’angolo più sicuro della casa, e chi infine ne utilizza il valore di mercato in periodi di strettezze familiari».27 2.2. Le stanze Dopo aver analizzato il tessuto urbano di Foggia nella prima metà del ‘700, e aver individuato le tipologie abitative più diffuse in essa, cercheremo di scoprire come sono suddivisi gli ambienti nel loro interno28 grazie allo studio degli inventari. Infatti se alcuni di essi offrono scarse informazioni sia per quanto riguarda gli oggetti che per quanto riguarda la descrizione degli interni, altri riportano nel dettaglio la divisione delle stanze, il mobilio presente in ognuna di esse, a volte con relativa spiegazione della funzione; a volte ci si addentra in scanzie, armadi e 23 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. Ibidem. 25 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 26 AGO, Il gusto delle cose, cit., p. XVIII. 27 Paolo MACRY, Ottocento. Famiglia, elites e patrimoni a Napoli, Torino, Einaudi, 1988, p. 115. 28 Ivi, p. XIII: «[…] la formazione di una società civile passa anche e forse soprattutto per le stanze della vita domestica». 24 82 Federica Elisabetta Triggiani scrivanie per elencare il contenuto di beni conservati gelosamente nei tiratoj con tanto di mascatura e chiave. Per quanto riguarda gli inventari da me presi in considerazione (una quindicina) ho notato una lacuna che non sempre è presente in altri inventari italiani o stranieri: in nessuno di questi documenti è stato possibile riscontrare il prezzo di valutazione di ogni oggetto, se si eccettua qualche accenno ad alcuni pezzi d’argento. Questa carenza di informazione di certo non aiuta a determinare il valore dei beni e quindi lo stato socio-economico della famiglia; per cercare di sopperire a questo vuoto sarà necessario non sottovalutare le accezioni attribuite ai vari oggetti sul relativo stato di conservazione, ossia se essi siano usati o novegni, laceri o integri, e soprattutto valutare la variegata gamma di tessuti e materiali. A questo riguardo Paolo Macry afferma: «tracce della cultura della famiglia trapelano dagli arredi, la quantità e la qualità degli oggetti, la loro distribuzione tra i locali di casa».29 Entrando direttamente nelle abitazioni ci si accorge subito delle differenze tra le case palazzate e le semplici abitazioni costituite da uno, massimo due vani. Nelle case più modeste si è costretti a svolgere funzioni diverse nella stessa stanza, ossia si è costretti a ricevere ospiti nella stanza in cui è collocato il letto, come ad esempio risulta dall’inventario di Francesco del Prete. Non è fornita la locazione della casa, ma vi è descritta la divisione interna che consiste in due sole camere: nella prima sono presenti lettiere, canterani, materassi e cuscini pieni di lana, lenzuola e coperte imbottite. La presenza di tornaletto, cortine di pizzo con frange, denota la volontà di rendere la zona notte più raffinata e accogliente, forse perché quella stessa stanza dovrà necessariamente accogliere anche gli ospiti. La seconda camera con tramezzo di legno, anche se non specificato, risulta essere la zona adibita a cucina con tutti i suoi utensili, ma non può passare inosservata la presenza di due materassi ed una coperta. Nei casi in cui invece l’abitazione risulta divisa in più camere, il documento si arricchisce di termini quali sala, studio, anticamera, camerino, cammera da dormire, gallaria, cucina. Nulla di diverso dalle nostre abitazioni moderne ed è quindi facile intuire l’importanza che già all’epoca si attribuiva alla divisione degli ambienti: i locali di servizio, come appunto le cucine e le dispense, erano separate dalla zona giorno grazie alla gallaria, ossia il corridoio su cui si affacciavano le diverse porte, tra cui quelle dei locali adibiti all’accoglienza di persone estranee alla famiglia, particolarmente ricchi di accorgimenti estetici, di oggetti inusuali e particolari. In queste stanze in cui avvenivano probabilmente incontri sociali, risulta evidente l’intenzione di mostrare lusso e decoro. 29 Ivi, p. 109. 83 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) Vedremo in seguito che è proprio in queste camere che è possibile ammirare la maggior parte degli strumenti scientifici, collezioni e soprattutto libri. La seguente tabella mostra i diversi ambienti presenti nelle case. Tab.1 Tipi di stanze presenti negli inventari LOCALI QUANTITÀ Alcova Anticamera Camera Camera da letto Camerino Cucina Galleria Retrocamera Sala Studio 6 7 30 8 2 9 1 1 6 2 Risulta molto comune la definizione generica di camera e in quel caso cercare di capire di che tipo di ambiente si tratti bisogna attentamente analizzare gli oggetti e i mobili contenuti in esso. I beni mobili rinvenuti all’interno delle sale descritte sono quasi sempre gli stessi: quadri, sedie e cassapanche. Risulta molto più completo l’arredamento presente nelle anticamere, come quello che troviamo in casa del capitano Felice Tortorelli: tre buffettini30 indorati, uno di pietra, un canapè, undici sedie, tre specchi, quattro lumieri e vari quadri. Nella sua seconda anticamera è presente anche un braciere ed un bureau veneziano. Questa disposizione risulta essere la più comune, tanto da far pensare che questa zona fosse adibita all’intrattenimento di ospiti o degli stessi familiari. Segue all’anticamera il cuore di ogni abitazione: la camera da letto. Oltre a rappresentare il luogo più intimo, lontano dagli ambienti di rappresentanza, esso svolgeva anche la funzione di «stanza dei segreti».31 Se si guarda oltre l’elenco dei mobili che caratterizzano un po’ tutte le cammere da dormire, sia quelle più modeste che le più sfarzose, molti notai ci 30 31 Buffetta: credenza per riporre argento o stoviglie; in altri casi è intesa come tavolo. MACRY, Ottocento, cit., p. 119. 84 Federica Elisabetta Triggiani permettono di aprire i cassetti di bureau, canterani e scrivanie e di svelarci oggetti che i proprietari tenevano gelosamente custoditi. Don Ignazio Conte, ad esempio, ci mostra in uno dei «tiratoi segreti» di uno dei due «burò»32 diverse fedi di credito, oncie d’oro e in un cassettino diversi gioielli. Renata Ago, per quanto riguarda la presenza della cucina negli inventari di Roma del ‘600, nota che «è solo nelle abitazioni più grandi, per esempio, che compare con una certa regolarità la cucina, nominata un’unica volta nel caso di quelle più piccole».33 Nonostante sia diverso il periodo ed il luogo, la situazione riscontrata è la stessa. L’ambiente denominato cucina è infatti rinvenibile esclusivamente in abitazioni che superano le tre stanze. Al suo interno, oltre ai più disparati utensili che si avrà modo di analizzare in seguito, l’arredamento comune consiste in brascieri,34 boffettole, boffettoni, stipi, e, nel caso del dottor Nicola Tortorelli, anche in un letto per la serva. Inoltre la presenza di capofuochi35 nella cucina del commerciante Leonardo Mazza e di un porta fuoco in quella di Felice Tortorelli fanno pensare all’esistenza di un caminetto. Nelle altre cucine esistenti sono citati solo bracieri e quindi forse essi erano, per cucinare, l’alternativa al camino. Ancora, nella cucina di Felice Tortorelli, è interessante trovare elencata tra i vari utensili una lopa, ossia l’arnese per recuperare il secchio caduto nel pozzo. Che esso fosse presente all’interno della casa palazzata ce lo conferma l’inventario stesso quando ne descrive le varie zone: «una rimessa, pozzo d’acqua sorgente e picciolo giardinetto per uso di casa».36 Possedere l’acqua nel proprio stabile sopperiva alla mancanza di acqua corrente, favorendo l’igiene della famiglie ed apportando un comfort che non era sicuramente alla portata di tutti. Dopo questa descrizione dei diversi locali presenti nelle abitazioni settecentesche foggiane e di alcuni mobili che ne specificano la differenziazione funzionale, è opportuno indagare fino in fondo quali erano le loro fatture e come essi si presentavano nelle diverse case. 2.3. Il mobilio Qual è lo stile e il gusto preponderante nella scelta dei mobili in Italia, soprattutto nel regno di Napoli, all’inizio del Settecento? Non è semplice inquadrare le influenze che giungono nel nostro Paese in quegli anni, ma di sicuro un ruolo importante è giocato dalle guerre di successione e dall’interesse che suscitano nazioni come la Francia e l’Inghilterra. 32 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193. AGO, Il gusto delle cose, cit., p. 60. 34 Braciere: recipiente di rame o altro metallo, da tenervi le braci per riscaldarsi. 35 Capofuochi: alari. 36 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, notaio Greci, prot. 2609, ff. 258t-262. 33 85 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) In particolar modo saranno il Barocchetto e il Rococò ad essere assimilati dall’arte italiana, anche se questa influenza sarà percepita in modo non omogeneo dalle diverse zone della penisola, con un netto assorbiment o dell’influsso delle potenze straniere da parte di regioni settentrionali, mentre nelle regioni meridionali «le voci inglesi e francesi vengono maggiormente imbrigliate e sfumate sia dall’ascendente Barocco sia dal Barocchetto […]».37 I mobili napoletani risultano infatti un vero e proprio mix di materiali barocchi come l’avorio, la madreperla e la tartaruga, ed una predilezione per la decorazione d orata. Attraverso gli inventari possiamo verificare puntualmente questi dati e desumere il gusto delle nostre famiglie, le differenze di stile e la qualità dei mobili presenti nelle varie tipologie di abitazioni. Tab.2 Numero di mobili presenti negli inventari TIPO DI MOBILE Bauli Buffetti Bureau Canterani Cassabanchi Casse Cassoni Culle Inginocchiatoi Lavamani Letti Lettiere Placche QUANTITÀ 26 62 11 11 24 30 5 1 2 1 35 7 18 TIPO DI MOBILE Sedie e sedini Sofà Stipi e stipetti Studioli Tavoli Tavoli da gioco Tavolini Scrittoi QUANTITÀ 291 7 6 15 2 1 2 1 Al primo posto il mobilio più comune nelle varie case risulta essere la sedia: la ritroviamo in quasi tutti i tipi di stanze e in quasi tutte le abitazioni. Il loro numero supera spesso quello degli appartenenti alla stessa famiglia e ciò sta ad indicare la loro funzione, non solo estetica, ma di accoglienza di eventuali ospiti. La sedia è uno dei mobili più antichi e nel susseguirsi dei secoli ha subìto diverse modifiche. Solo dalla metà del Cinquecento si iniziò a realizzare 37 Guido WENNENES, Mobili italiani nel 1700, Milano, Leonardo, 1991, p. 9. 86 Federica Elisabetta Triggiani sgabelli imbottiti e seggioloni decorati con indorature e intagli. Nel Settecento, secolo per eccellenza di scambi sociali, compaiono le prime poltrone ed i primi divani e i sedili appaiono come «la vivente testimonianza dei virtuosismi scultorei dell’intagliatore».38 Le sedute si differenziavano non solo per le decorazioni ma anche per l’uso a cui erano adibite. I cassabanchi, o cassapanche, potevano essere con appoggiatoio, come quelli posseduti da Nicola Tortorelli, o senza, ed il legno utilizzato per la loro composizione varia dall’abete al faggio. Come risulta dall’esame degli inventari in nessuna abitazione è fatta menzione di poltrone, mentre in rari casi si parla di sofà o canapè. Questo tipo di seduta nasce nel Seicento come evoluzione delle cassapanche, ma è nel Settecento che viene rifinito ed assume svariate forme e dimensioni. È documentata la presenza di canapè nell’anticamera del capitano Felice Tortorelli, nella galleria del dottor Nicola Tortorelli, nella camera da letto di Don Ignazio Conte, nello studio di Don Filippo Totta e nell’anticamera del presidente della Dogana Antonio Belli (in quest’ultimo caso unitamente ad un sofà di pelle presente nella camera da letto). L’unico inventario a fornirci indicazioni precise sulla fattura di questi divani è quello del signor Conte: «canapè d’oro pelle rossa con finimento a torno indorato misturato» e «un canapè d’oro pelle rosso con braccie ed altri finimenti indorati misturati».39 La collocazione di questi divani è varia, a seconda delle proprie abitudini o necessità, ma risultano presenti sempre in ambienti di una certa rilevanza. L’abbondante elencazione delle sedie richiede invece un maggiore approfondimento, perché esse si differenziano a seconda della lavorazione a cui sono sottoposte. Questa è solo una delle possibili Tab.3 Tipologie di sedie distinzioni tra le sedie descritte dei MATERIALI QUANTITÀ documenti. Le 173 sedie di paglia si differenziano a loro volta in base alla Paglia 173 lavorazione subita e per la grandezza. Noce 38 La maggior parte di esse sono descritte Vacchetta 4 come indorate e nel caso di Ignazio Conte come «dieci sedie di paglia, Tessuto 22 quattro incarnate con oro misturato Pelle 7 e sei alla chinese» e, ancora, «tre Generico 47 sedini vecchi di noce con sopraveste 38 39 Ivi, p. 27. S.A.S.L., Atti dei notai , serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193. 87 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) di felba40 torchina»;41 mentre in casa di Francesco Barone sono dislocate «sedie senza appoggio di damasco cremisi con loro telai di noce numero dodici».42 Questa descrizione introduce un’ulteriore differenziazione delle sedute, in quanto a volte viene specificato se si tratta di sedie d’appoggio, senza appoggio o da sedere. Un’ultima caratteristica di questi ‘mobili sostenitori’ è costituita dalla loro dimensione, che in linea di massima non viene specificata, ma in alcuni casi esse sono definite come grandi o mezzane. I colori che le caratterizzano sono il bianco, il verde ed il rosso. Nella camera da letto del presidente Antonio Belli viene ritrovata una «sedia di commodo coperta di pelle con suo vaso di rame»,43 caso unico negli inventari analizzati, probabilmente utilizzata a causa dell’infermità che lo costrinse a lungo a letto (come ci viene reso noto dall’inventario stesso). Quando si passa alla descrizione delle camere da letto, alcova o camere in genere, «il notaio comincia di solito il suo inventario con la descrizione del mobile prezioso fra tutti, il letto […]. Il lusso è nell’uso della seta preziosa per la sua decorazione, non negli elementi costitutivi […]».44 Il riscontro di questa affermazione negli inventari esaminati risulta positivo. Daniel Roche afferma che «il letto è importante per il suo valore non meno che per la sua funzione e i suoi significati»,45 in quanto esso risulta funzionale per la protezione dal freddo e per il riposo ed è inoltre «[…] simbolo del rifugio coniugale, l’estrema trincea dell’intimità, il solo luogo in cui […] si possa parlare di vita privata».46 Non è possibile risalire al valore monetario di questo mobile perché mancano, come già detto, negli inventari esaminati, le stime e quindi risulta difficoltoso accertare fino in fondo le eventuali differenze di qualità nei diversi strati sociali. Esso strutturalmente viene descritto alla stessa maniera in ogni inventario: nelle stanze del commerciante Leonardo Mazza sono presenti quattro letti tra cui «un letto grande con due materassi di lana, lenzuoli, quattro cuscini e scanni di ferro» e «un letto più piccolo con scanni di legno».47 Ugualmente la descrizione del letto di Francesco Barone consiste in «scanni 40 Felba (felpa): stoffa o drappo, e propriamente di seta, simile al velluto, ma con i peli più lunghi e meno fitti. 41 S.A.S.L., Atti dei notai , serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193. Ivi, ff. 349-352. 43 Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23. 44 Henri e Geneviève BRESC, La casa del « borgese». Materiali per una etnografia storica della Sicilia, in «Quaderni storici», XI (1976), n. 31, p. 112. 45 ROCHE, Il popolo di Parigi, cit., p. 176. 46 Ivi, p. 174. 47 S.A.S.L, Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 42 88 Federica Elisabetta Triggiani di ferro para due; tavole per lettiere numero tredici; piedistalli di legno numero quattro».48 Il mastro Michele Mucella possiede invece due letti di cui «un letto intiero con piedistalli di ferro con matarazzo e saccone; una lettiera con piedistalli di legno».49 Il saccone qui ritrovato è l’unico esemplare presente negli inventari ed esso poteva servire per diversi scopi: «si metteva forse sotto il materasso per isolarlo meglio o era un materasso di rinforzo per una lettiera improvvisata?».50 Da questi tre casi concreti si può evincere che la struttura portante del letto fosse simile in ogni abitazione e cioè si trattava di cavalletti di legno o di ferro su cui si appoggiavano diverse tavole affiancate l’una alle altre. La lettiera si differenzia dal letto semplice in quanto è provvista di un’alta testiera con una cornice massiccia sporgente, tanto da dominare tutta la stanza. Ma la sua presenza all’interno di questi inventari fa pensare che sia «[…] il termine tecnicamente e semanticamente pertinente con cui nell’inventario è designata l’intelaiatura o armatura del letto […]».51 Ma il valore di questo mobile sostenitore è nell’uso di tende e coperte per la sua decorazione. Nel secolo precedente si era diffuso in Francia un tipo di letto da parata costituito da un baldacchino non più sostenuto da colonne, ma fissato al muro, con lunghi e preziosi drappi che ne coprivano la struttura. Nelle camere del Presidente Belli si ritrovano infatti trabacche, trabacchini52 e cortinaggi53 di tela di persia o damascati con coperte simili ed ormeggi di ferro e nella camera di Leonardo Mazza il letto appare dotato di «tornaletto54 di portanova giallo vecchio e cortina bianca di tela e pizzilli; un lettino con padiglioncino di portanova giallo con ossatura di ferro».55 Dall’analisi effettuata sui vari inventari non risulta in nessuno di essi la presenza di armadi: al giorno d’oggi non si potrebbe fare a meno di questo contenitore per tutti i nostri indumenti che è al tempo stesso un importante arredo per le camere da letto. Sorge spontanea una domanda: famiglie agiate e meno agiate dove conservavano i loro abiti e le loro biancherie? L’armadio ha origini antichissime ed ha subìto negli anni numerose evoluzioni ma, essendo abbastanza ingombrante, nel Settecento viene sostituito con mobili più contenuti ed aggraziati come il canterano, le casse, i cassoni e i bauli, tutti adatti a preservare abiti e biancheria dalla polvere e da sguardi indiscreti. La 48 Ivi, Greci, prot. n°2608, ff. 190-193. Ivi, Pacileo, prot. n°3722, ff. 102-104. 50 BRESC, La casa del « borgese », cit., p. 113. 51 GALASSO, L’altra Europa, cit., p. 297. 52 Trabacca: cortina da letto per baldacchino. 53 Cortinaggio: l’insieme delle tende del letto. 54 Tornaletto: striscia di tessuto destinata ad essere fissata ai letti a scopo decorativo. 55 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3722, ff. 102-104. 49 89 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) cassa dotale, ad esempio, costituiva il fulcro del corredo che per anni le giovani donne avevano confezionato: con essa si accedeva alla casa del marito. Casse, cassette e cassoni si differenziano tra loro principalmente per la dimensione e forma e per le decorazioni, che variavano a seconda della funzione da svolgere e dello stato sociale del possessore. Il baule è «il mobile ‘mobile’ per natura e fa prevalere l’ammucchiamento sulla logica delle cose disposte l’una sull’altra e in ordine».56 Essi, dove è specificato, appaiono foderati di velluto rosso o verde o di vacchetta.57 Il loro largo utilizzo è dovuto certamente alla necessità di trasportare vestiario, fungendo quasi da odierne valigie. Sono spesso dotati di serratura con chiave in quanto in esse spesso erano custodite anche gioielli ed argenteria. A volte si ritrovano anche casse piene di grano, di ceri votivi o tavolette di cioccolata. Ma analizziamo la loro presenza all’interno delle nostre famiglie. L’ortolano Angelo Ramundo possiede cinque casse di noce, definite usate, in cui si possono ritrovare «un cappello novegno, una tovaglia di seta usata, un paro di schiavette d’oro senza perle».58 Molto più ordinata e differenziata è invece la descrizione di questi mobili contenitori nelle famiglie aristocratiche. In casa del dottor Nicola Tortorelli ogni componente della famiglia dispone del proprio baule per conservarvi tutti gli oggetti personali; sono poi elencati anche due bauli da viaggio, uno vuoto e l’altro più grande contenente abiti di tutti i fratelli Tortorelli. Non mancano però anche nella nobile famiglia cassette per riporre tabacchiere, vari oggettini d’argento e casse d’abete per vari utilizzi. Il dottor Francesco Barone utilizza «un baullo serrato con chiave in cui si sono ritrovate le argenterie e gioje»,59 un baule per conservare la biancheria e un cassone per gli indumenti. Gli esempi potrebbero proseguire numerosi, ma tutti confermerebbero che le famiglie settecentesche preferivano disporre di questi contenitori per custodire i propri oggetti personali, carte e ricordi di famiglia probabilmente perché, in caso d’emergenza, era più semplice lo spostamento. L’unica alternativa all’armadio è rappresentata dal canterano, ossia l’antico cassettone formato da più cassetti sovrapposti. Si diffonde nell’Italia settentrionale già a partire dal XVI secolo, ma conosce larga diffusione nei due secoli successivi. La tabella 2 riporta la presenza di soli undici canterani, di cui non conosciamo con esattezza il materiale e la forma, benché a volte siano elencati i numeri dei 56 ROCHE, Il popolo di Parigi, cit., p. 199. Vacchetta: cuoio vaccino. 58 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2635, ff. 310-311. 59 Ivi, Greci, prot. 2608, ff. 190-193. 57 90 Federica Elisabetta Triggiani cassetti e la loro grandezza. Il notaio A. Ricca ci descrive così quelli di Francesco del Prete: «un paio di cantarani con tre tiraturi grandi per ognuno e uno piccolo al di sopra, nei laterali stipi con robbe, ambedue lavorati e guarniti con le maniche di metallo».60 Lo stato di conservazione, spesso specificato, dei mobili presenti in questi atti notarili, rende l’idea di quanto gli uomini siano legati affettivamente agli oggetti. Nell’80% dei casi alla descrizione del mobile segue l’aggettivo vecchio o usato, presente non solo nelle abitazioni meno fastose, ma anche in quelle di una certa importanza. Ecco alcuni esempi: «una boffettola d’abete vecchia, due stipi di abete vecchi, uno grande e uno piccolo»,61 «un cantarano di noce usato con cornici negre».62 L’arredo definito nuovo è meno frequente, ma nel caso di Leonardo Mazza si apprende anche il periodo di acquisto di «due cantarani nuovi (comprati da pochi giorni)».63 2.4. Mobili speciali Tutte le case esaminate risultano arredate con mobili standard che differiscono solo nella qualità e nel disegno, a seconda dei gusti e delle possibilità economiche. In alcune famiglie, però, si trovano alcuni mobili più ricercati che, come ci mostra la tabella 2, sono appannaggio di una cerchia molto ristretta. Nell’abitazione del capitano Felice Tortorelli sono presenti mobili poco diffusi negli altri inventari. Ad esempio, in due camere da letto compaiono «un inginocchiatoio e dentro i tiraturi robe per ripezzare e un appennituro di vestiti»,64 mentre il presidente Antonio Belli è l’unico a vantare «due tavolini che si aprono da gioco».65 L’infanzia, nella società foggiana di quell’epoca, non sembra essere tenuta particolarmente in considerazione, sia per quanto riguarda i mobili, che per i giocattoli. Questa lacuna è stata notata anche da Renata Ago nella Roma del Seicento, dove non si era «ancora elaborato una cultura materiale che assegni un posto particolare all’infanzia».66 Le culle elencate sono solo due: una presente nella camera da letto di Filippo Totta, e «una naca ingessata con estremità indorate per i figlioli dentro la 60 Ivi, Ricca, prot. 2641, ff. 199t-205. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 62 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 63 Ibidem. 64 Ivi, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262. 65 Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23. 66 AGO, Il gusto delle cose, cit., pp. 66-67. 61 91 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) quale c’è un matarazzetto ed un coscino pieni di lana usata, una cultra piccola»67 appartenuta a Nicola Andrea di Peppo. Anche il capitano Felice Tortorelli al momento della sua morte lasciava bambini piccoli, ma l’inventario ci nomina solo un «tamburino per creatura»,68 così come l’unico esempio di giochi per bambine sono «varie caraffine vuote e casette da gioco per ragazze»69 utilizzate dalle figlie di Leonardo Mazza. Attraverso il mobilio è possibile analizzare anche il tipo di vita familiare che si conduceva, ossia se si svolgevano lavori casalinghi particolari. Unico esempio di mobile non prettamente domestico ci è fornito dai documenti relativi ai beni di Giuseppe Mastrogiacomo, il quale, alla sua morte, possedeva in casa «un bancone con bilancia»70 che egli utilizzava probabilmente per vendere ciò che produceva la sua vigna. 2.5. La cucina ed i suoi utensili Come si è già detto nel paragrafo 2.2, nella realtà foggiana del XVIII secolo, la cucina risultava essere un ambiente presente esclusivamente nelle abitazioni più grandi. La tabella 1 ci conferma che essa è menzionata in nove inventari su quindici; ma anche laddove non è specificata una stanza apposita per cucinare i cibi, tutti gli inventari studiati riportano utensili da cucina. Tutti sono, quindi, in grado di cucinare in casa: solo nel caso di Giuseppe Mastrogiacomo si deduce che egli cucini non nella sua abitazione in città, ma nella casa posseduta nel «quadrone delle vigne di questa città».71 Ciò che differisce è il modo di cucinare le pietanze: conoscere il materiale degli utensili e il tipo di pentole e padelle è fondamentale per poter ipotizzare in che modo si cucinava a quei tempi. 67 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262. 69 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 70 Ivi, Ricca, prot. 2633, ff. 791-793. 71 Ibidem. 68 92 Federica Elisabetta Triggiani Tab. 4 . Utensili da cucina presenti negli inventari esaminati UTENSILI Caldare Barchiglie Cacciacarne Capofuochi Colatoio Cioccolatiere Conche e bacili Coperchi Fornello Frizzole Graticole Grattacacio Mortai Polsonetti Schiumarole Spiedi Stufarole e pignatte Tielle Treppiedi Trombone QUANTITÀ MATERIALE 25 10 2 3 1 7 16 26 1 25 8 8 9 12 3 12 6 35 26 4 rame — ferro ferro rame rame rame rame ferro rame/ferro ferro rame bronzo/pietra rame ferro ferro — rame ferro stagno/rame Le caldare sono lo strumento da cucina più diffuso, utilizzato per bollire l’acqua o preparare il brodo e «[…] che, quando sono grandi, possono servire anche per fare il bucato o lavare i piatti […]».72 Anche lì dove non è specificata la presenza di un camino, l’esistenza di attrezzi come spiedi e graticole ne suggerisce l’esistenza, così come il supporto del treppiedi per poggiarvi le stoviglie. I restanti tegami, padelle e mortai, testimoniano un modo di cucinare abbastanza vario: si cuoceva, si friggeva e si bolliva. L’unico troccolo d’ottone, ritrovato nell’inventario di N. Andrea di Peppo, testimonia l’usanza di lavorare la pasta in casa, così come il fazzatore e il tavoliere l’arte di preparare il pane. Nicola Tortorelli è l’unico a possedere un «fornello di ferro»,73 mentre il 72 73 AGO, Il gusto delle cose, cit., p. 88. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 93 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) capitano Tortorelli ci offre un’approfondita analisi del tipo di cibo cucinato grazie alle «quattro tielle, una per pizza, una grandetta e l’altra più piccola; una frezzola grande e due più piccole per le uova».74 La più completa attrezzatura da cucina si trova nell’inventario di N. Andrea di Peppo, il quale, oltre a utensili più comuni, possiede «una stufarola di rame usata; un ruoto grande di rame usato; una cocchiara di rame usata per maccaroni; una cocchiara grande di ferro usata; una cioccolatera di rame usata; un mortale di marmo con suo pistello di legno usato; un cacciacarne di ferro usata; due grattacascio di ramiera usate».75 La cioccolatiera, utilizzata solo da poche famiglie di cui si sono analizzati gli inventari, è uno degli elementi che ci porta a distinguere tra utensili per cibo atto a soddisfare il fabbisogno giornaliero e quelli per uso di semplice piacere. Il materiale utilizzato per le stoviglie e i vari attrezzi doveva essere importante se in almeno due casi si è eseguito il calcolo del peso dell’intero rame da cucina: «caldare, pradelle, marmitte, stufarole, cioccolatiere, polso netti, braciere, conche, lambicchetto, coperchi, scaldaletto, il tutto al peso di 120 libbre con ferri annessi»;76 «rame di buona condizione lavorata per uso cucina, 163 libre e altro rame di inferiore condizione di 94,5 libre».77 Ma passiamo ad analizzare il vasellame in cui le pietanze dovevano essere servite, escludendo tutti gli utensili d’argento che saranno esaminati in seguito. Tabella 5. Vasellame da cucina OGGETTO QUANTITÀ MATERIALE 12 11 8 2 119 6 1 cristallo vetro porcellana Cristallo/porcellana Porcellana/faenza/stagno ottone stagno Bicchieri Caraffe Chicchere Giare Piatti Vasi da scaldare Zuppiera La numerosa presenza di piatti non deve tranne in inganno: solo poche famiglie possiedono un elevato numero di pezzi di porcellana o faenza in cui servire le pietanze, mentre la maggior parte ne sono prive. Ad esempio, conservati 74 Ivi, prot. 2609, ff. 258t-262. Ivi, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474. 76 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 77 Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23. 75 94 Federica Elisabetta Triggiani in un apposito stipo, di Peppo possiede «due bicchieri di cristallo senza piedi, due detti mezzani con piedi, due detti di cristallo senza piedi, due detti di cristallo senza piedi per uso d’acquavita»,78 così come sono sue dodici caraffe e ben 58 piatti tra grandi e piccoli. Antonio Belli non sembra utilizzare piatti se non tre tazze da brodo e un elevato numero di tazzine da caffè e da thé. Così anche le posate, escluse quelle d’argento, sembrano inesistenti. Questa carenza era già stata notata anche a Roma nel corso del ‘600: «solo 7 donne su 30 possiedono piatti, scodelle o altro vasellame in cui disporre le vivande e solo 20 persone in tutto, su più di 70, possiedono coltelli e cucchiai da cucina».79 Un’altra similitudine con il mondo romano di quegli anni è la presenza negli inventari foggiani di un elevatissimo numero di posate d’argento, possedute da quasi tutti gli intestatari degli inventari: se ne contano circa 344 tra forchette, cucchiai, coltelli e cucchiaini da caffè e sorbetto. Inoltre ci si chiede come si faceva a bere, data la mancanza di bicchieri: forse nelle tazze o direttamente dalle caraffe? È difficile pensare che si tratti di una semplice svista dei notai o che essi non abbiano ritenuto quegli oggetti degni di essere citati. Eppure queste lacune esistono come testimoniato in Sicilia: la ceramica d’uso comune viene sacrificata: non sempre sono citate le cannate de terra che l’archeologia mostra e sa di universale diffusione. I notai fermano la loro attenzione sui piatti, scodelle, salsiere o rinfrescatoi di mursia, cioè di ceramica pregiata. Non si sa neanche se si usano i poveri bicchieri di corna, frequenti nell’800, e raramente si citano le tafarie, grandi piatti di legno, eccezionalmente di rame, o i taglieri di legno, grandi e piccoli, o i vernicata, specie di catini di legno.80 78 Ivi, prot. 2645, ff. 471t-474. AGO, Il gusto delle cose, cit., p. 91. 80 BRESC, La casa del «borgese», cit., pp. 118-119. 79 95 Inventari familiari foggiani del Settecento (I parte) (da Salvato, Foggia, cit., cartina XXX) 96 Federica Elisabetta Triggiani Palazzo Saggese alla fine dell’Ottocento Pianta del palazzo Saggese. Sezione Archivio di Stato – Lucera. Corte d’Assise, F 79, n. 3, anno 1888. 97 98 Giacomo Cirsone La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) di Giacomo Cirsone La fase prenormanna (metà X - XI secolo) Dal Chronicon Cavense, si apprende la notizia, riferita all’anno 942, di Gisulfo, principe di Salerno, il quale su richiesta del proprio congiunto Indulfo, fece costruire un monastero, presso la chiesa della SS. Trinità di Venosa.1 Sebbene la testimonianza del Chronicon sia di dubbia attendibilità,2 in quanto potrebbe avere alla base dei documenti autentici utilizzati nella falsificazione di F. M. Pratilli, essa sembra però trovare un qualche riscontro a livello archeologico3 [Fig. 1]. Un elemento a supporto di tale fondazione a metà del X secolo, o perlomeno dell’esistenza di un monastero in tale data, è il rinvenimento all’interno della Trinità di una serie di setti murari, i quali poggiano direttamente sulla pavimentazione musiva di VI secolo, o sulla preparazione di questa; i muri, eretti in pietre e ciottoli legati da una malta di colore biancastro, delimitavano una serie di ambienti, con probabile funzione abitativa, collegati tra loro da passaggi; in alcuni punti i paramenti erano rivestiti con un intonaco recante tracce di decorazione.4 In uno dei 1 Nel Chronicon Cavense si legge: Gisulfus princeps cepit estruere monasterium Sanctae Trinitatis in Venusiu ad preces Indulfi comitis, consanguinei sui, qui postea factus est ibi monachus (cfr. Hubert HOUBEN, Il monachesimo in Basilicata dalle origini al secolo XX, in Giovanni LUNARDI, Hubert HOUBEN, Giovanni SPINELLI (a cura di), Monasticon Italiae. III. Puglia e Basilicata, Cesena, Abbazia di Santa Maria del Monte, 1986a, p. 202). La critica definisce il passo come una falsificazione settecentesca operata dal Pratilli (cfr. anche Louis Robert MÉNAGER, Les fondations monastiques de Robert Guiscard, Duc de Pouille et de Calabre, in «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken», XXXIX, 1959, p. 36; Geremia Dario MEZZINA, Radiografia di un monumento: la chiesa della SS. Trinità in Venosa, Bari, Simone, 1977, p. 33). 2 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 36; HOUBEN 1986a, p. 202. 3 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 36; Hubert HOUBEN, Il ‘libro del capitolo’ del monastero della SS. Trinità di Venosa (Cod. Casin. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, Galatina, Congedo, 1984, p. 22. 4 Cfr. Mariarosaria SALVATORE, Il restauro architettonico e l’archeologia: Venosa, SS. Trinità, in Luigi BUBBICO, Francesco CAPUTO, Attilio MAURANO (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, Matera, La Tipografica, 1996, I, p. 46; Mariarosaria SALVATORE, Appendice. Il complesso episcopale della SS. Trinità: un esempio di stratificazione urbana tra tardoantico e altomedioevo, in Maria Luisa MARCHI, Mariarosaria SALVATORE, Venosa. Forma e Urbanistica (Le città antiche in Italia, 5), Roma, L’Erma di Bretschneider, 1997b, p. 151. 99 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 1. SS. Trinità. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in blu invece le strutture pertinenti alla fase prenormanna (metà X - XI secolo), con gli ambienti ricavati nella navata centrale, il cantiere per la fusione per campana, e la torre di facciata (campanile?), nell’angolo SE della chiesa (elaborazione Cad G. CIRSONE). muri è stato reimpiegato un frammento di capitello angolare marmoreo, scolpito con una testina umana tra volute ed elementi vegetali, datato tra il X e l’XI secolo.5 Questi ambienti potrebbero essere interpretati come cellae, destinate ad alloggiare un numero limitato di monaci6 [Fig. 4]. Sul mosaico paleocristiano si riscontrano fasi di occupazione e di frequentazione caratterizzate da lenti di cenere, e lacune nella pavimentazione parzialmente restaurate con laterizi interi o frammentari, resti organici e sassi.7 La schola canto- 5 Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, pp. 151-152. Forse il numero di monaci che è possibile immaginare risiedessero in questi ambienti, è quello di venti, pari al numero di religiosi presenti nel cenobio all’arrivo dell’abate Berengario alla fine dell’XI secolo (cfr. HOUBEN 1986b, p. 27; Hubert HOUBEN, Le istituzioni monastiche italo-greche e benedettine, in Cosimo Damiano FONSECA, Gioia BERTELLI (a cura di), 2. Il Medioevo, Roma 2006, in Storia della Basilicata [= Gabriele DE ROSA, Antonio CESTARO (a cura di), Storia della Basilicata, 4 voll., Roma-Bari, Laterza, 1999-2006], p. 367). Sulla relazione degli ambienti con il monastero, cfr. Mariarosaria SALVATORE, Venosa, SS. Trinità-Incompiuta, in Itinerari del Sacro in Terra Lucana, in «Basilicata Regione Notizie», Anno 1999 (n. 2), XXIV, 92, Potenza, Regione Basilicata, 1999b, p. 132; Corrado BOZZONI, Edilizia religiosa e civile dall’Alto Medioevo ai Normanni, in Cosimo Damiano FONSECA, Gioia BERTELLI (a cura di), 2. Il Medioevo, Roma 2006, in Storia della Basilicata (vedi), pp. 567-568. 7 Cfr. SALVATORE 1996, p. 46; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, pp. 151-152; SALVATORE 1999b, p. 132. 6 100 Giacomo Cirsone rum viene dismessa, non essendo più funzionale per la liturgia, e la parte anteriore del recinto viene tagliata dai muri degli ambienti dei quali si è accennato; rimangono però in uso e praticabili la cripta a corridoio, una parte limitata del settore W della navata centrale e le navate laterali (in queste ultime è ancora in situ la pavimentazione in opus spicatum).8 Nell’angolo SE della chiesa, in appoggio alla facciata paleocristiana, viene edificata una torre, forse un campanile, in asse con la porta della navata laterale destra; questa struttura, poi rasata fino alla quota del successivo piano pavimentale medievale del prolungamento della navata destra, si appoggia al nucleo longobardo della Figura 2. SS. Trinità. Strutture della torre di Foresteria9 [Figg. 1, 2]. facciata dell’angolo SE della chiesa: si notano le Connesso con l’edificazione murature rasate alla medesima quota ed oblidella torre di facciata è l’impianto di terate dalle strutture del prolungamento delle una serie di strutture per la lavora- navate destra e centrale (foto G. CIRSONE). zione del metallo; tra queste, la più importante è un cantiere per la fusione di una campana, realizzato tagliando i piani di calpestio degli ambienti sopra descritti; nella navata centrale sono state individuate due grandi fosse, databili entrambe all’XI secolo,10 in una delle qua- 8 In questo stato di cose, l’ordinaria attività liturgica doveva essere notevolmente ridimensionata, tanto più se si considera che gli ambienti costruiti sulla pavimentazione musiva tardoantica dovevano rappresentare un ingombro a livello visivo, che impediva di vedere l’abside e la zona dell’altare. 9 Cfr. Mariarosaria SALVATORE, Trinità: il complesso paleocristiano, in Mariarosaria SALVATORE (a cura di), Venosa: un parco archeologico e un museo. Come e perché, Taranto, Scorpione, 1984b, p. 76; SALVATORE 1996, p. 46, nota 9; SALVATORE 1999b, p. 133; Rosa VILLANI, Età angioina. XIV secolo. La chiesa della SS. Trinità a Venosa, in Pittura murale in Basilicata. Dal Tardo Antico alla prima metà del ‘500, Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata, 1999, p. 50. 10 M. Salvatore menziona il rinvenimento di due follari bizantini di XI secolo, ma la sua ipotesi di datazione arriva fino al XII (cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 152, nota 11). In questa sede si ritiene più plausibile il primo termine cronologico, in quanto è proprio nell’XI secolo che si pone mano alla stesura di una nuova pavimentazione in tutta la chiesa, con la conseguente obliterazione sia del cantiere per la fusione di campana, sia dei setti murari (cfr. infra). Sulla forma per campana, cfr. anche Angelo BOTTINI, L’attività archeologica in Basilicata - 1989, in La Magna Grecia e il lontano Occidente, Atti del XXIX Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto, 6-11 ottobre 1989), Taranto, Istituto per la Storia e l’Archelogia della Magna Grecia, 1990, p. 569. 101 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) li è stato rinvenuto in situ il ‘maschio’, di forma troncoconica, ovvero l’anima in argilla refrattaria sulla quale viene poi effettuata la colatura del metallo fuso; questa struttura, che si allarga alla base con un anello in terra refrattaria, poggia al di sopra di una fornace in mattoni.11 Alla base di questa struttura sono stati rinvenuti i frammenti del mantello o ‘femmina’, la controforma esterna spaccata per estrarne la campana dopo la fusione12 [Fig. 3]. Figura 3. SS. Trinità. Cantiere per la fusione di una campana: sono visibili il ‘maschio’ in argilla refrattaria, che poggia su una fornace in mattoni, dotata di canale di alimentazione; il cantiere si impianta all’interno di una fossa che taglia le strutture d’età romana (foto G. CIRSONE). Sul fondo della fossa contenente il maschio, che taglia le preesistenti strutture romane, si trovano due fornaci realizzate sul terreno vergine, costituite da due muretti paralleli legati da argilla, utilizzate per la cottura della forma e del mantello13 [Fig. 4]. 11 Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153. Sulla superficie del ‘maschio’ sono visibili tracce di bronzo infiltratesi durante la colatura. 12 Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153. 13 Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153. I confronti si individuano ancora una volta in area daunia a Canosa di Puglia, dove nel Battistero di San Giovanni, all’interno e nell’area della vasca battesimale sono state indagate due fosse per la fusione di campane, databili la più antica al XII e la seconda tra la seconda metà del XII ed il XIII secolo, messe in relazione con l’attività di Rogerius Melfie Campanarum, operante nella città agli inizi del XII secolo (cfr. Enrico GIANNICHEDDA et alii, Attività fusoria medievale a Canosa (BA), in «Archeologia Medievale», XXXII, 2005, Firenze, CLUSF, 2005, pp. 159-163, 167-169). Altri confronti sono in citum, p. 157, nota 2, con bibliografia relativa. 102 Giacomo Cirsone Associate al cantiere per campana sono anche alcune strutture secondarie; intorno alla fossa contenente la forma per campana è stato indagato un focolare dalla forma allungata, realizzato con laterizi con tracce di esposizione ad elevate temperature, e residui di bronzo sulla superficie; l’area del focolare è stata poi obliterata da uno strato di argilla.14 Nei pressi del focolare si collocano due fossette Figura 4. SS. Trinità. Area interessata dall’impianto del emisferiche, del diametro cantiere per la fusione di una campana, nella navata cendi 45-50 cm, sul fondo delle trale della chiesa, al momento dello scavo. Sono visibili quali è stato rinvenuto uno anche i setti murari attribuibili a vani abitativi (cellae?), strato di metallo, forse piom- edificati alla quota del mosaico paleocristiano o sulla sua preparazione (da MARCHI, SALVATORE 1997). bo, obliterato da riempimenti di cenere, carbone e scorie di bronzo; queste due fosse sono interpretabili come crogiuoli per la fusione del bronzo, o comunque connesse con la lavorazione del metallo.15 Il rinvenimento della forma per campane e delle strutture del cantiere ci fornisce informazioni sul processo produttivo, e trova una conferma nel De campanis fundendis, un trattato scritto nel XII secolo da Teofilo.16 Il rinvenimento di due 14 Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 152 Impianti artigianali per la lavorazione del metallo, ferro in particolare, sono attestati anche nelle domus in rovina nell’area del Parco Archeologico, per le quali cfr. Mariarosaria SALVATORE, Venosa tra tardoantico e altomedioevo, tra destrutturazione e riorganizzazione urbana, in Mariarosaria SALVATORE (a cura di), Il Museo Archeologico Nazionale di Venosa, Matera, IEM, 1991a, p. 59. Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 152. Simili strutture sono state rinvenute nel sito di Faragola, dove tra VII e IX secolo si insedia sui resti della villa tardoantica, un villaggio altomedievale nel quale si installano impianti per la lavorazione del ferro e del bronzo (cfr. Giuliano VOLPE et alii, Faragola (Ascoli Satriano). Una residenza aristocratica tardoantica e un ‘villaggio’ altomedievale nella valle del Carapelle: primi dati, in «Insulae Diomedeae», IV, Foggia, Simone, 2005, p. 282). La presenza di grumi di ferro in un ambiente della domus tardoantica indagata nell’area del complesso di San Pietro a Canosa di Puglia, ha indotto a ipotizzare anche per questo sito la presenza di una fonderia tra VII ed VIII secolo (cfr. Giuliano VOLPE et alii, Il complesso sabiniano di San Pietro a Canosa, in Rosa Maria BONACASA, Emma VITALE (a cura di), La cristianizzazione in Italia fra Tardoantico e Altomedioevo, Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Agrigento, 20-25 novembre 2004), II, Palermo, C. Saladino Ed., 2007, p. 1130). 16 Cfr. SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153. 15 103 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) fosse per campana anche a Canosa di Puglia,17 e la presenza di un artigiano lucano, Rogerius Melfie Campanarum, che firma le porte bronzee della cattedrale canosina, lasciano ipotizzare anche per Venosa la presenza di maestranze itineranti specializzate nella produzione di questo tipo di manufatti, al servizio dei poteri locali.18 Tutte queste strutture, conclusa la fase di lavorazione, furono in seguito obliterate da un battuto in calce, che aveva la funzione di riportare i piani di calpestio alla quota della preparazione del mosaico paleocristiano.19 In questa fase continua anche l’uso funerario con l’impianto di una tomba a fossa, la tomba 24, che taglia il mosaico paleocristiano, databile su base stratigrafica tra il X e l’XI secolo; da questa sepoltura proviene una coppia di orecchini in bronzo.20 La fase normanna (seconda metà XI – fine XII secolo) L’arrivo dei Normanni nell’Italia meridionale ridisegna gli equilibri tra i vari Stati che si contendevano il controllo del territorio; da una parte i Longobardi di Salerno, Benevento e Capua, dall’altra i Bizantini che ancora detenevano il potere sul catapanato di Puglia; su entrambi incombeva inoltre l’incubo delle scorrerie saracene.21 Il conferimento a Guglielmo ‘Bracciodiferro’, nel 1043, della contea di Melfi, formalmente ancora longobarda, segna il definitivo insediamento dei Normanni nel Meridione, e l’inizio di una veloce espansione territoriale, fatta di un’accorta politica di alleanze sia con il Papato che con i Longobardi, e di prove di forza sui campi di battaglia.22 A Guglielmo successero in breve tempo Drogone nel 1046,23 ed Umfredo nel 1051;24 proprio questi ultimi due duchi normanni sono importanti ai fini di quanto trattato; è con essi infatti che si possono far iniziare i lavori di ampliamento e rifacimento della SS. Trinità, la quale, sotto Roberto il Guiscardo, nominato a Melfi duca di Puglia, Calabria e Sicilia nel 1059 da Niccolò II, divenne il mausoleo della prima generazione degli Altavilla.25 17 Cfr. supra, nota 13. Cfr. GIANNICHEDDA et alii 2005, p. 169. 19 Cfr. SALVATORE 1996, p. 46. 20 Cfr. Mariarosaria SALVATORE, Le sepolture, in Mariarosaria SALVATORE (a cura di), Il Museo Archeologico Nazionale di Venosa, Matera, IEM, 1991c, p. 292. 21 Cfr. Federico BOENZI, Raffaele GIURA LONGO, La Basilicata. I tempi, gli uomini, l’ambiente, Molfetta 1994, p. 97. 22 Cfr. BOENZI, GIURA LONGO 1994, p. 98. 23 Cfr. MÉNAGER 1959, pp. 36-40. 24 Cfr. MÉNAGER 1959, pp. 40-41. 25 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 37; SALVATORE 1984b, p. 78; BOENZI, GIURA LONGO 1994, pp. 98-99; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 154. Sulle tombe normanne nella SS. Trinità, cfr. HOUBEN 1984, pp. 3133; HOUBEN 1986b, pp. 25-27; sul Concilio di Melfi, cfr. Johannes Dominicus MANSI, Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio, tomo XIX, Graz 1960, coll. 919-920. 18 104 Giacomo Cirsone L’importanza assunta dalla SS. Trinità, che in un documento del 1053 risulta essere foras muros civitatis Venusie, ma comunque prope muros,26 si esplica con la trasformazione da cattedrale in abbaziale nel 1059, alla presenza di Niccolò II.27 L’abbazia della SS. Trinità conoscerà da ora in poi un periodo di grande prosperità, favorita dall’azione dei suoi abati e dal favore accordato dai Normanni, divenendo una delle abbazie più potenti e ricche di tutta l’Italia meridionale.28 Figura 5. SS. Trinità. Elaborazione eseguita in Autocad 2007 delle strutture della SS. Trinità: in verde la fase longobarda (VII-X secolo); in viola le strutture inedite pertinenti alla fase normanna (metà XI-XII secolo) (elaborazione Cad G. CIRSONE). Secondo i documenti,29 Drogone, avendo ottenuto Venosa nella spartizione delle terre meridionali nel 1042, promosse dei lavori di restauro della chiesa 26 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 37, nota 63, che riporta un frammento di un atto di Umfredo in cui si menziona il monasterium S. Trinitatis foris muros civitatis Venusine quod noster germanus, dominus Drogo comes comitum et dux ducum, constituere fecit; cfr. anche SALVATORE 1991a, p. 58. 27 Sullo spostamento della cattedrale al capo opposto della città di Venosa, cfr. supra. Riguardo la consacrazione si legge in un documento del 1059 che Nicolaus II sollemniter dedicat monasterium S. Trinitatis exstructum a Drogone comite, restaurari coeptum ab Ingilberto abbatem ad eiusdem et Morandi episcopi Venusini preces XVI Kal. Sept. (cfr. KEHR 1962, IX, p. 492). 28 Cfr. SALVATORE 1984b, p. 76; SALVATORE 1991a, p. 62; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, pp. 153-154. 29 In una bolla di Niccolò II del 1059, si legge infatti monasterium sancte Trinitatis de veteri civitate Venusia labore estructum a Dregone comite, restaurari ceptum; si deduce quindi la preesistenza del monastero, per il quale occorreva una fondazione ex novo o una rifondazione (cfr. Paulus Fridolinus KEHR, Samnium, Apulia, Lucania, in Italia Pontificia [=Paulus Fridolinus KEHR, Italia Pontificia, sive, Repertorium privilegiorum et litterarum a Romanis pontificibus ante annum MCLXXXXVIII Italiae ecclesiis monasteriis civitatibus singulisque personis concessorum, Berolini 1906-1975], Berolini, apud Weidmannos, 1962, IX, p. 492; cfr. SALVATORE 1996, p. 47). 105 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) e del monastero, condotti a termine alla sua morte nel 1051, dall’abate Ingilberto (1046/51-1066).30 È probabile che ai lavori commissionati da Drogone si possano attribuire buona parte delle strutture che si rinvengono in cresta ancor oggi sul piazzale antistante la chiesa31 [Fig. 5]. La facciata paleocristiana, mantenuta nella sua integrità strutturale per tutta l’età longobarda, viene parzialmente demolita in corrispondenza della navata centrale e di quella Figura 6. SS. Trinità. Restituzione grafica dei resti di destra, che vengono prolungapavimentazione in opus tessellatum, rinvenuti nella na- te per una lunghezza di due vata sinistra (da SALVATORE 1996b). campate; lo spazio così creatosi viene scandito dalla posa in opera di un nuovo pilastro in muratura, in asse con quelli dell’età paleocristiana.32 Il prolungamento delle navate comporta anche l’abbattimento e l’obliterazione della preesistente torre di facciata, evento databile quindi intorno alla metà dell’XI secolo. L’interno della chiesa viene modificato: i setti murari, attribuibili alla fase prenormanna, vengono rasati alla medesima quota ed obliterati da un battuto di calce, datato da una moneta di Enrico II (1046-1056).33 Il piano pavimentale viene rialzato di circa 60 cm rispetto alla quota paleocristiana, e si assiste alla posa in opera di un 30 Cfr. SALVATORE 1984b, p. 76. Ingilberto non è più attestato dopo il 1066, anno probabile della sua morte, per cui i lavori possono essere stati divisi in due tranches, tra il 1046 ed il 1051 per iniziativa di Drogone, e tra il 1051 ed il 1066 sotto il governo abaziale di Ingilberto (cfr. VILLANI 1999, p. 49, nota 1). Su Ingilberto, cfr. HOUBEN 1984, pp. 27-29; HOUBEN 1986b, pp. 24-27). 31 Cfr. infra; SALVATORE 1991a, p. 62. Le strutture riportate nella Fig. 5 non sembrano essere state sottoposte ad indagini archeologiche, tanto più che negli archivi del Centro Operativo Misto della Sovrintendenza Archeologica per la Basilicata, non si è trovata alcuna traccia di rilievi o piante di queste strutture, che pertanto risultano essere inedite e si presentano qui per la prima volta. I rilievi di tali strutture sono stati effettuati in collaborazione con i Dott. Raffaele Fanelli e Paolo Maulucci, specializzandi in archeologia presso l’Università di Foggia, che qui si ringraziano. 32 Cfr. SALVATORE 1984b, p. 76; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 153. In entrambe queste pubblicazioni si fa riferimento al prolungamento della sola navata centrale, ma dai sopralluoghi compiuti a seguito dei rilievi, risultano rapporti stratigrafici tra le murature ancora in elevato che smentiscono questa affermazione (cfr. infra). 33 Cfr. SALVATORE 1991a, p. 62. 106 Giacomo Cirsone Figura 7. SS. Trinità. Particolari della pavimentazione in opus tessellatum, rinvenuta nella navata sinistra, recanti motivi geometrici; in alto: motivo con elementi che formano cerchi crocesignati; motivo a quadrati disposti diagonalmente; in basso: motivo a quadrati con vertici tangenti divisi in quattro quadrati più piccoli a colori alternati; motivo a rombi con quadrati inscritti diagonalmente (foto G. CIRSONE). nuovo pavimento in opus tessellatum, che si compone di vari pannelli accostati, con motivi geometrici recanti quadrati collegati per i vertici (ciascuno all’interno diviso in quattro quadrati di colore diverso), rombi con quadrati inscritti diagonalmente, o quattro quadrati disposti a formare cerchi crocesignati.34 I colori utilizzati sono il bian34 Sul pavimento in opus tessellatum, cfr. SALVATORE 1984b, p. 76; SALVATORE 1996, p. 50, nota 28; Mariarosaria SALVATORE, I mosaici nell’area del complesso episcopale della SS. Trinità a Venosa, in Atti del IV Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico (Palermo, 9-13 dicembre 1996), Ravenna, Edizioni del Girasole, 1997, pp. 481-482. Per i confronti, tutti di ambito pugliese, databili tra il X-XI secolo ed il XII, cfr. Gioia BERTELLI, Rivestimenti pavimentali in Puglia nell’alto Medioevo, in Carolina GELAO (a cura di), Studi in onore di Michele D’Elia. Archeologia, Arte, Restauro e Tutela, Archivistica, Matera, IEM, 1996, pp. 75-84. Ad oggi l’esempio più antico di tessellatum con motivo recante quadrati che formano cerchi crocesignati, è quello che si trova nel cortile centrale dell’atrio sabiniano, nel complesso di San Giovanni a Canosa di Puglia (cfr. Roberta GIULIANI, Danilo LEONE, Indagini archeologiche nell’area di Piano San Giovanni a Canosa: il complesso paleocristiano e le trasformazioni altomedievali, in «Vetera Christianorum», XLII, 2005, Bari, Edipuglia, 2005, p. 158; Marisa CORRENTE et alii, Edilizia paleocristiana nell’area di Piano San Giovanni a Canosa di Puglia, in Rosa Maria BONACASA CARRA, Emma VITALE (a cura di), La cristianizzazione in Italia fra Tardoantico e Altomedioevo, Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Agrigento, 20-25 novembre 2004), II, Palermo, C. Saladino Ed., 2007, pp. 87-91). 107 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) co crema, il rosso, l’ocra, il verde oliva ed il grigio, per ottenere i quali sono stati utilizzati materiali lapidei naturali reperiti in loco35 [Figg. 6-7]. Il passaggio tra le navate laterali e quella centrale viene marcato con la posa in opera di Figura 8. SS. Trinità. Esterno della chiesa, con le strutture di basoli negli interassi dei fondazione della torre di facciata in asse con la navata sinistra pilastri.36 dell’edificio (foto G. CIRSONE). Passando a descrivere le strutture rinvenute nell’area esterna antistante la chiesa, si deve anzitutto porre in rilievo la presenza di una seconda torre di facciata, collocata perfettamente in asse con l’ingresso alla navata sinistra dell’edificio; questa torre, che è stata indagata archeologicamente, si individua in fondazione nell’angolo NW della chiesa [Fig. 8]. I sopralluoghi effettuati per i rilievi delle strutture hanno posto in evidenza un rapporto di appoggio delle murature della torre rispetto a quelle del prolungamento delle navate centrale e sinistra; questo particolare indica che la torre fu costruita rispettando il preesistente muro N del prolungamento, ma sempre nel corso dell’XI secolo come indicano cinque follari bizantini rinvenuti nel terreno di riempimento della torre37 [Fig. 9]. Figura 9. SS. Trinità. Fondazioni del muro E della torre di facciata in asse con la navata sinistra; nella fotografia si nota il rapporto di appoggio tra le murature della torre e quelle del prolungamento delle navate centrale e destra (foto G. CIRSONE). 35 Rispettivamente pietra calcarea per il bianco, selce per il verde oliva, carparo (lo strato più superficiale dei banchi di calcarenite, detta localmente ‘tufo’ o ‘cappellaccio’) per il grigio; per il rosso e l’ocra si utilizzano invece i mattoni in cotto, tanto abbondanti nella zona circostante la chiesa, oltre ai mattoncini che componevano il pavimento paleocristiano in spicatum delle navate laterali (cfr. SALVATORE 1997a, p. 482). 36 Cfr. SALVATORE 1984b, p. 78. M. Salvatore menziona anche la presenza di un pavimento in opus spicatum, in mattoncini di cotto, anch’esso delimitato da una cornice di basoli, e per il quale la studiosa pone un rapporto di contemporaneità con il tessellatum (cfr. citum, p. 78). 37 Cfr. SALVATORE 1996, p. 46, nota 9. 108 Giacomo Cirsone Lo spazio interno della torre è scandito da una serie di massicci pilastri angolari, che danno al vano una forma a croce greca; il lato E dell’ambiente presenta una particolarità costruttiva, con un contrafforte che originariamente doveva sostenere una scalinata (profferlo), ipotesi avvalorata dalla presenza di una porta con stipiti in blocchi di pietra squadrati Figura 10. SS. Trinità. Lato E della torre di facciata: si no[Fig. 10]. La presenza di una tano il contrafforte di sostegno per la scalinata (profferlo), e la porta con gli stipiti in pietra; sullo sfondo in secondo buca pontaia induce a pen- piano, il moderno portone di legno che chiude l’ingresso sare che l’ambiente fosse in alla navata sinistra della chiesa (foto G. CIRSONE). qualche modo praticabile, e coperto da un travatura associata ad un tavolato ligneo, che fungeva da pavimento per il livello superiore; un elemento a favore di questa ipotesi è la presenza di una soglia marmorea sul lato W della torre, quasi alla quota dell’attuale piano di campagna, e di una risega, che corre lungo tutto il perimetro interno dell’ambiente38 [Fig. 11]. Ad W della torre si individua una muratura di orientamento N-S, parallela ad un’altra muratura di pari orientamento ma di lunghezza magFigura 11. SS. Trinità. Lato W della torre di giore; queste due murature, che dai facciata: si notano la soglia marmorea dell’ingresso, posta quasi alla quota dell’attuale pia- rapporti stratigrafici murari si appogno di campagna, e la risega, particolarmente giano all’avancorpo che contiene la visibile sui pilastri angolari (foto G. CIRSONE). scala della Foresteria,39 costituiscono 38 Questa torre è l’unica delle strutture esterne ad essere edita in bibliografia, comparendo su un numero limitato di piante edite, per le quali cfr. SALVATORE 1996, p. 44, fig. B, dove viene attribuita alla fase altomedievale (X-XI secolo); SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 154, fig. 179B, in cui la torre è datata all’altomedioevo, tra X e XI secolo (per un errore di stampa l’immagine risulta rovesciata); BOZZONI 2006, p. 568, fig. 1B, dove si notano i rapporti di posteriorità della torre rispetto al prolungamento delle navate centrale e destra, ma non se ne indica la datazione. 39 Cfr. infra. 109 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 12. SS. Trinità. Strutture della cappella annessa all’edificio di culto: in primo piano il presbiterio, con il muro curvilineo ed il muro di divisione dell’aula liturgica (foto G. CIRSONE). al muro absidato, potrebbe essere interpretato come un vano di servizio, forse una sacrestia, o comunque un vano connesso con le funzioni liturgiche41 [Figg. 12-13]. La presenza di un blocco lapideo collocato a ridosso della parte centrale del muro W della cappella, potrebbe essere l’indizio di un probabile ingresso all’aula di culto. Tra la cappella e la parte longobarda della Foresteria, viene edificato una sorta di avancorpo monumentale, oggi definito atrio, che comprende anche una scala che conduce al piano superiore della Foresteria. Secondo un’ipotesi di I. Herklotz,42 questo avancorpo, la cui costruzione an- i due muri perimetrali di quella che sembrerebbe potersi ritenere una cappella a navata unica,40 delimitata sul lato N da una muratura ad andamento curvilineo, da interpretare come muro absidale; la zona presbiterale doveva essere separata dal resto dell’aula liturgica (quadratum populi) da un muro di orientamento E-W, all’estremità E del quale un’apertura dava accesso alla zona absidale e ad un piccolo vano quadrangolare. Quest’ultimo, i cui muri si appoggiano alla torre ed Figura 13. SS. Trinità. Angolo NW: 1. Cappella (quadratum populi); 2. Zona absidale; 3. Vano di servizio (sacrestia?); 4. Torre di facciata prenormanna (elaborazione Cad G. CIRSONE). 40 Sulla scorta di Richard KRAUTHEIMER, Architettura paleocristiana e bizantina, Torino, Einaudi, 1986, si potrebbe avanzare l’ipotesi che si tratti di un παρεκκλησιον, ovvero una ‘cappella addossata a un fianco di una chiesa, al nartece, o a entrambi’ (cfr. KRAUTHEIMER 1986, p. 497). 41 La presenza di una cappella presso edifici ecclesiastici di grandi dimensioni, non è insolita, essendo attestata in Capitanata, in un altro contesto d’età normanna, a Montecorvino (FG), dove ritroviamo una cappella costruita sul fianco della cattedrale (si ringrazia per la notizia il Dott. Marco Maruotti, specializzando in archeologia presso l’Università di Foggia); delle indagini condotte negli ultimi anni a Montecorvino dall’Università di Foggia, è stata data comunicazione nel V Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, tenutosi a Manfredonia (FG). 42 Cfr. Ingo HERKLOTZ, Die Sogennante Foresteria der Abteikirche zu Venosa, in Cosimo Damiano FONSECA (a cura di), Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno, Atti del Convegno di Studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del IX centenario della morte di Roberto il Guiscardo (Potenza, Melfi, Venosa, 19-23 ottobre 1985), Galatina, Congedo, 1990, pp. 257-258. 110 Giacomo Cirsone drebbe collocata sotto il regime abbaziale di Berengario (1066-1096), monaco proveniente dal monastero francese di Saint-Evroul-sur-Houche,43 avrebbe costituito per un certo periodo la facciata monumentale della chiesa, articolata su due livelli, con il piano terra in cui si aprivano tre archi, ed il piano superiore sistemato con un loggiato ad archetti ciechi; per la costruzione del loggiato furono reimpiegati alcuni pezzi scultorei d’età romana, insieme a due blocchi recanti figure antropomorfe, forse angeli44 [Figg. 14-15]. Figura 14. SS. Trinità. Particolare con il piano superiore sistemato con un loggiato ad archetti; si noti il reimpiego di pezzi scultorei d’età romana (foto G. CIRSONE). Figura 15. Schema ricostruttivo della facciata monumentale dell’avancorpo. Sono visibili i due livelli, con il piano terra ad archi, ed il piano superiore sistemato a loggiato con archetti ciechi; Herklotz ipotizza che la facciata non sia stata portata a termine, o che in alternativa sia stata tagliata in un secondo momento (da HERKLOTZ 1990). 43 Cfr. su Berengario, MÉNAGER 1959, pp. 44-47; KEHR 1962, IX, p. 493; Pier Paolo PAOLINI, Venosa: la SS. Trinità e il battistero, in Studi Lucani, Atti del II Convegno Nazionale di Storiografia Lucana (Montalbano Ionico, Matera, 10-14 settembre 1970), Galatina, Congedo, 1976, p. 325; Corrado BOZZONI, Saggi di architettura medievale. La Trinità di Venosa. Il Duomo di Atri, Roma, Istituto di Fondamenti dell’Architettura, 1979, pp. 16-17; HOUBEN 1984, pp. 29-31; HOUBEN 1986a, p. 202; Hubert HOUBEN, Una grande abbazia nel Mezzogiorno medioevale: la SS. Trinità di Venosa, in «Bollettino Storico della Basilicata», 2, 1986, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1986, p. 27; HOUBEN 2006, p. 367. 44 Cfr. Corrado BOZZONI, Considerazioni sulla costruzione della chiesa della SS. Trinità di Venosa, in «Bollettino del Centro Studi per la Storia dell’Architettura», Roma, Centro Studi per la Storia dell’Architettura, 1976, p. 98. Si segnalano in particolare una base votiva, reimpiegata per sostenere uno degli archetti, e la cornice marcapiano resa con triglifi e metope di spoglio. 111 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 16. SS. Trinità. Particolare della scala che conduce alla Foresteria; sulla sinistra si vede parte del loggiato ad archetti (foto G. CIRSONE). La facciata ad archi dell’avancorpo o atrio, viene in un secondo momento parzialmente obliterata dalla costruzione della scala che conduce al piano superiore della Foresteria, probabilmente nel decennio 1070-108045 [Fig. 16]. A NW della cappella, in prossimità dell’attuale muro di recinzione dell’area della chiesa,46 emerge in cresta una serie di strutture in allineamento, con orientamento E-W: si tratta di quattro pilastri quadrangolari e un muretto, costruiti in pietra e legati da malta; all’estremità orientale della serie, in prossimità della strada, si vede un altro brano di muratura con orientamento lievemente divergente da quello dei pilastri; a livello di ipotesi queste strutture si potrebbero interpretare come i resti di un portico, probabilmente con copertura lignea, ma solo ulteriori indagini archeologiche potranno fare luce in merito47 [Fig. 17]. Di fronte al muro W della cappella si vedono emergere dal terreno Figura 19. SS. Trinità. Serie di pilastri quadranaltre due strutture, rispettivamente golari individuati sul piazzale esterno della un altro pilastro quadrangolare, ed chiesa; sullo sfondo si vede il muro in pietre con un muretto dall’andamento curvi- orientamento lievemente divergente da quello dei pilastri (foto G. CIRSONE). lineo; se il pilastro potrebbe essere messo in relazione con la fila di pilastri precedentemente descritta, nulla si può dire invece del muretto curvo, che si individua solo per pochi centimetri; anche in questo caso sarebbero necessarie nuove 45 Cfr. VILLANI 1999, p. 49. Dal punto di vista giuridico, la chiesa della SS. Trinità non rientra nel Parco Archeologico, ed è separata da quest’ultimo da un muretto di recinzione; la custodia dell’edificio è affidata, già dal 1969, all’Ordine dei Padri Trinitari, che qui si ringraziano, nella persona di Padre Angelo Cipolloni, per la disponibilità mostrata durante i rilievi all’interno della chiesa e sul piazzale antistante. 47 Durante i sopralluoghi effettuati per il rilievo delle strutture del piazzale, sono state rinvenute, nei pressi di una sepoltura terragna non scavata, alcune tessere di pasta vitrea di colore azzurro e verde. 46 112 Giacomo Cirsone indagini archeologiche per chiarire meglio la sistemazione dell’area esterna alla chiesa in questa fase [Fig. 18]. Va osservato che la successione da N a S della cappella, dell’avancorpo e della Foresteria, formava un fronte monumentale unico per chiunque passasse lungo la strada antistante, il cui tracciato riprende quello della Via Appia; a ridosso di questo grande fronte unico, si stagliavano la mole Figura 18. SS. Trinità. Strutture del piazzale della torre e quella della chiesa, e l’im- antistante la basilica: nella parte N si nota la patto visivo doveva colpire non poco fila di pilastri E-W, insieme al lacerto murario di orientamento lievemente divergente; a S si l’osservatore. invece una struttura curva ed un altro La presenza di un portico po- vedono pilastro, forse pertinente ai precedenti (elabotrebbe essere correlata sia con la pre- razione Cad G. CIRSONE). senza di pellegrini, che utilizzavano le strutture ed i corpi di fabbrica annessi alla chiesa per la sosta, analogamente a quanto accade in altre chiese di pellegrinaggio europee48, sia con l’attività quotidiana dei monaci benedettini.49 La presenza di un braccio porticato dall’andamento così Figura 19. SS. Trinità. La foto mostra la facciata attuale della chiesa, ripresa da NW dal lato N della S. S. 168 (foto G. CIRSONE). 48 Sui confronti della Trinità con le grandi chiese di pellegrinaggio europee, in particolare con edifici di matrice normanna, cfr. BOZZONI 1979, p. 27; SALVATORE 1996, p. 52. Una relazione tra la SS. Trinità di Venosa e i grandi santuari e le chiese di pellegrinaggio europei viene posta anche da R. BORDENACHE, in riferimento però alla Foresteria, che lo studioso data tra il XII ed il XIII secolo (cfr. Riccardo BORDENACHE, La SS. Trinità di Venosa. Scambi ed influssi architettonici ai tempi dei Normanni in Italia, in «Ephemeris Dacoromana», VII, 1937, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1937, pp. 72-76). 49 Cfr. PAOLINI 1976, p. 325. 113 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) irregolare potrebbe essere messa in relazione con l’adattamento alle condizioni morfologiche dell’area del piazzale, che vede una accentuata pendenza verso NW in direzione della Strada Statale 168 [Fig. 19]. È utile ricordare che proprio nell’XI secolo, il monaco Geroldo di Montecassino scrive, traducendola da un originale in greco, una Passio SS. Senatoris, Viatoris, Cassiodori et Dominatae, indirizzandola al pontefice Vittore III,50 con l’intento di far approvare il culto di questi santi anche tra i Latini oltre che tra i Greci.51 Committenti di quest’opera dovevano essere coloro che detenevano le reliquie di quei martiri, ed in particolare Roberto il Guiscardo o Ruggero Borsa, per i quali si conoscono i rapporti con il monastero fondato da San Benedetto.52 Alla fine del secolo, tra il 1080 ed il 1096, nell’abbazia venosina fu depositata anche una reliquia di San Nicola, rubata a Bari dal monaco Stefano, cantore del monastero di San Nicola di Angers, il quale fu costretto, a causa di una malattia, a nascondersi a Venosa; la vicenda evidenzia i rapporti intercorrenti tra il Mezzogiorno normanno e la Francia, in entrambe le direzioni, da Nord a Sud e viceversa.53 50 Vittore III (1086-1087), al secolo Desiderio, abate di Montecassino, rispose al monaco con una lettera, citata da Jacopo Cenna, nella quale raccomandava la massima diffusione del culto dei santi Senatore, Viatore, Cassiodoro e della loro madre Dominata, in tutta la Puglia. Della lettera comunque non esistono prove documentali ed inoltre sussistono dubbi sulla validità delle fonti del Cenna (cfr. KEHR 1962, IX, p. 492; Hubert HOUBEN, La «Passio SS. Senatoris, Viatoris, Cassiodori et Dominatae»: un esempio per traduzioni dal greco in latino a Montecassino nel sec. XI, in Hubert HOUBEN (a cura di), Tra Roma e Palermo. Aspetti e momenti del Mezzogiorno Medioevale, Galatina, Congedo, 1989, p. 143, nota 30). Su Desiderio, cfr. Pietro DALENA, L’età dell’abate Desiderio, in «Bollettino Storico della Basilicata», Anno IV, 4, 1988, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1988, pp. 129-138; su Vittore III, cfr. anche Johannes Dominicus MANSI, Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio, tomo XX, Graz 1960, coll. 629-636. 51 Cfr. HOUBEN 1989, p. 142. 52 Cfr. HOUBEN 1989, pp. 142-144. 53 Cfr. Orderici Vitalis Historia Ecclesiastica, III, 218-220: Eodem tempore Stephanus cantor coenobii quod Fulco senior comes apud Andegaviam urbem in honore sancti Nicholai construxerat Apuliam abiit, et per licentia domni Natalis abbatis sui monachile scema ex industria dimisit. Deinde ut clericus Bari abitavit, magnamque familiaritatem ac postmodum potestatem inter edituos basilicae sancti pontificis optinuit. Tandem conspecta facultate brachium sancti Nicholai quod apte argento tectum erat, et extra mausoleum ad signandum populum servabatur furtim arripuit, et in Gallias aufugere patriamque suam cenobiumque suum tanto thesauro ditare sategit. Verum quia mox ut tale latrocinium sibi factum Barenses compererunt, longe lateque veredarios suos ad confines suos et amicos atque patronos miserunt, omnesque tramites quibus itur in Franciam sollicite tutari ne fur huiuscemodi elongaretur conati sunt. Stephanus Venusiam divertit, inique timidus latere volens hiemavit, et serenum ver expectans egrotare coepit. Deinde deficiente sibi censu necessario, captus est pro victu distrahere argentum de sancto brachio. Interea per totam Italiam et Siciliam fama volitavit, quod a Gallis surreptum esset brachium beati Nicholai. Denique dum de tali furto crebra locutio populos moveret, et a quibusdam Venusiensibus famulisque monachorum argentea tectura visa et cognita esset, et in conventu monastico rumor huiusmodi perstreperet, Erembertus impiger coenobita cum famulis monasterii ad exmonachum languentem accurrit, subitoque frendens impetu brachium sancti Nicholai ac si eidem commendasset atrociter exposcit. At ille deprehensum se videt, et in tanto turbine nescius quo se verteret, pallidus et tremens per urgenti monacho preciosum pignum exhibet. Quod ille cum ingenti gaudio recipit et mox ad cenobium sanctae Trinitatis monachi seu cunctis civibus Deum laudantibus devehit, inique sanctus Nicholaus usque hodie pignora sua fideliter poscentibus in multis necessitatibus mirifice succurrit. Prefatus autem Erembertus erat natione Normannus, ante conversionem miles strenuus, postmodum vero monachus in ordine fervidus. 114 Giacomo Cirsone Figura 20. Complesso della SS. Trinità. In rosso è rappresentata la ‘chiesa vecchia’, nella fase normanna (metà XI-XII secolo); in arancio sono riportate le strutture della cosiddetta Incompiuta, i cui lavori iniziarono alla fine dell’XI secolo, per poi essere sospesi; in giallo la seconda fase dei lavori che vide il posizionamento di cinque colonne e di un piliere polistilo nella navata S (da Basilicata e Calabria 2005; elaborazione grafica G. CIRSONE). Durante il regime abbaziale di Berengario, sotto il quale il numero dei monaci fu portato da venti a cento,54 furono iniziati i lavori per la costruzione della cosiddetta ‘Incompiuta’, un monumentale esempio della diffusione di idee e modelli di derivazione francese nel Meridione d’Italia55 [Fig 20]. All’età normanna risale una prima fase dei lavori, che prevedeva la costruzione del perimetro esterno, del transetto sporgente, e la sistemazione dell’area del coro con la posa in opera dei pilastri del deambulatorium;56 il coro, che trova stretti confronti con quelli delle cattedrali di Acerenza ed Aversa,57 è del tipo a deambula- Orderico Vitale menziona anche un altro episodio, analogo al precedente, avente per protagonista il nobile Cristoforo, che dopo aver rubato una costola del santo, si rifugia malato a Venosa, dove si fa monaco della SS. Trinità (Idem, 218). Cfr. anche HOUBEN 1984, pp. 35-36; Hubert HOUBEN, Melfi, Venosa, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle Decime Giornate Normanno-Sveve (Bari, 21-24 ottobre 1991), Bari, Edipuglia, 1993, pp. 322-323; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 147, nota 3. 54 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 46; HOUBEN 1986b, p. 27; HOUBEN 1993, p. 322. 55 Cfr. BORDENACHE 1937, pp. 41, 43-47; BOZZONI 1976, p. 98; BOZZONI 1979, pp. 32-36; PAOLINI 1976, pp. 325-326; Emile BERTAUX, I monumenti medievali della regione del Vulture, Venosa, Osanna, 19912 (prima edizione 1903), pp. 50, 54; Basilicata e Calabria (Collana ‘La Biblioteca di Repubblica’), Milano, Gruppo Editoriale Repubblica, 2005, p. 237. 56 Probabilmente da assegnare all’ultimo ventennio dell’XI secolo, secondo il BOZZONI (cfr. BOZZONI 1976, p. 100). BOZZONI ritiene anche di poter assegnare la SS. Trinità ad un progetto unitario elaborato nell’ultimo trentennio del XII secolo, tra il 1170 ed il 1180 (BOZZONI 1979, p. 50); contra, cfr. HOUBEN 1993, p. 322, nota 55. 57 Cfr. BORDENACHE 1937, pp. 55-61. 115 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) torio con cappelle radiali (carolle),58 derivato, attraverso la mediazione benedettina, dai modelli normanni e della Francia settentrionale, diffusisi poi nella regione della Loira e nelle aree collegate con la presenza normanna, quali l’Inghilterra e l’Italia meridionale.59 Allo stato attuale delle ricerche, si può dire che le mura perimetrali, il coro ed il transetto sporgente, possano essere datati, su base stilistica ed icnografica tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo60 [Fig. 21]. A questo momento può essere datato anche il fitto strato di scaglie di lavorazione, rinvenuto al di sotto dell’attuale piano di calpestio, e che va ad obliterare la serie di sepolture d’età tardoantica e altomedievale.61 Nel 1096, viene eletto abate Pietro I (1096-1108), già prepositus del monastero di Aquevelle, una piccola dipenFigura 21. Venosa, ‘Incompiuta’. Nella fotografia si nodenza dell’abbazia venosina, tano il coro con le tre cappelle radiali, ed i pilastri del situata presso l’omonimo cacapocroce (foto G. CIRSONE). stello donato da Roberto il Guiscardo nel 1063; sotto di lui, elogiato dalle fonti per il suo zelo e le qualità morali esercitate nell’amministrazione del monastero, continuarono le donazioni all’abbazia venosina da parte della nobiltà normanna; Pietro I è probabilmente l’ultimo abate di origine normanna.62 Alla sua morte avvenuta tra il 1108 ed il 1114, i monaci della SS. Trinità elessero Ugo o Ugone, che in precedenza aveva amministrato i possedimenti di Corletum, nel territorio di Ascoli Satriano (FG);63 le fonti danno di lui un giudizio 58 Il termine carolle, derivato dal francese medievale e riferito ai deambulatori absidali in uso nelle chiese d’età carolingia, si ritrova in BORDENACHE 1937, p. 44, nota 3. 59 Cfr. BOZZONI 1979, pp. 34-42; SALVATORE 1999b, p. 136. 60 Cfr. BOZZONI 1976, p. 100. 61 Cfr. Giuliana TOCCO, L’attività archeologica nella Basilicata settentrionale, in Metaponto, Atti del XIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto, 14-19 ottobre 1973), Napoli, L’arte tipografica, 1974, p. 472; la Tocco menziona anche il rinvenimento, in un saggio di scavo condotto nel transetto dell’Incompiuta, di parte di un piccolo ambiente con tracce di mosaico. 62 Per le fonti su Pietro I, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 48-49; BOZZONI 1979, p. 17; HOUBEN 1984, pp. 37-39; HOUBEN 1986b, pp. 28-29; HOUBEN 2006, p. 368. 63 Su Corleto, cfr. Paolo MAULUCCI, Materiali per una carta archeologica del territorio di Ascoli Satriano, Tesi di laurea di I livello in Archeologia dei Paesaggi discussa presso l’Università degli Studi di Foggia, A. A. 2004/2005, Lucera 2006, pp. 44-47, 93-94. 116 Giacomo Cirsone negativo, rimproverandogli la dissipazione dei beni del monastero; per far fronte alla situazione, i monaci si rivolsero al pontefice Innocenzo II (1130-1143), il quale, ordinata un’inchiesta per accertare le accuse, ordinò all’abate di recarsi a Roma per discolparsi. Ugo, contravvenendo agli ordini papali, si rifugiò in Calabria, e fu deposto e scomunicato dal pontefice che invitò i monaci ad eleggere un nuovo abate.64 Alla base della deposizione di Ugo, sotto il quale si avvia un processo di declino economico per l’abbazia,65 stavano anche ragioni di natura politica; innanzitutto l’anarchia feudale seguita alla morte del Guiscardo, durante il governo del figlio e successore Ruggero Borsa (1085-1111);66 è anche possibile pensare che la politica personale di Ruggero II in Calabria e Sicilia, abbia provocato una sorta di scissione tra la SS. Trinità di Venosa e le abbazie consorelle di Sant’Eufemia e Mileto,67 e il conseguente isolamento del cenobio venosino.68 Non è da escludere che l’esilio di Ugo e di altri monaci in Calabria, possa essere messo in relazione con la lotta allora in corso tra il pontefice legittimo Innocenzo II, sostenuto da alcuni baroni normanni e dal ribelle Tancredi di Conversano, e l’antipapa Anacleto II, sostenuto invece da Ruggero II;69 Ugo e i suoi avrebbero abbandonato la Trinità di Venosa verso il 1134, per tornarvi solo nel 1141, perché avevano riconosciuto la validità dell’elezione di Anacleto II.70 Dopo la destituzione e l’esilio di Ugo, i monaci del cenobio venosino elessero Graziano, sostenitore di Tancredi di Conversano e di Innocenzo II, attestato nel 1131 come abate noviter electus, ed in seguito nominato vescovo di Venosa dopo il 1137. Il nuovo abate non riuscì però a migliorare le condizioni economiche del monastero, caduto intorno al 1140 in uno stato di decadenza sia spirituale che economica.71 Dopo la Pace di Mignano del 1139, con la quale Ruggero II e Innocenzo II si riconciliarono,72 ha inizio un nuovo periodo di splendore per l’abbazia della SS. 64 Cfr. sull’abate Ugo, MÉNAGER 1959, pp. 49-51; BOZZONI 1979, pp. 17-18; HOUBEN 1984, pp. 39-42; HOU1986b, p. 29; HOUBEN 2006, p. 368. 65 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 50; HOUBEN 1993, p. 327; HOUBEN 2006, p. 368. 66 Cfr. BORDENACHE 1937, p. 17; MÉNAGER 1959, p. 50; BOZZONI 1979, p. 18. 67 Sulle abbazie calabresi di Sant’Eufemia e di Mileto, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 4-22, 58-59. 68 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 50; BOZZONI 1979, p. 18. 69 Cfr. HOUBEN 1986b, p. 30, nota 62; HOUBEN 1993, p. 327. Nel 1133, Ruggero II assedia e distrugge la città di Venosa, per punirla dell’appoggio dato a Tancredi di Conversano; non è chiaro se l’evento avesse avuto ripercussioni sull’abbazia della SS. Trinità (cfr. HOUBEN 1984, p. 42; SALVATORE 1991a, p. 63; BOENZI, GIURA LONGO 1994, p. 101; HOUBEN 1993, p. 324, nota 63; SALVATORE 1999b, p. 134; HOUBEN 2006, p. 368). 70 Cfr. BORDENACHE 1937, p. 17; BOZZONI 1976, p. 99; HOUBEN 1986b, p. 30, nota 62. 71 Cfr. sull’abate Graziano, BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 18; HOUBEN 1984, p. 41, nota 123; HOUBEN 1986b, pp. 29-30; HOUBEN 2006, p. 368. 72 Cfr. HOUBEN 1986b, p. 31. BEN 117 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 22. Venosa, Incompiuta. Sulla sinistra si nota il piliere polistilo privo del capitello, cui seguono le cinque colonne poste in opera nella sola navata meridionale (foto Raffaele FANELLI). Trinità di Venosa;73 il riconfermato Rex Siciliae ed il papa si accordarono al fine di dare un nuovo abate al cenobio venosino, nella persona di Pietro II Divinacello (1140-1156), proveniente dall’abbazia della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni, mandato a Venosa insieme ad altri dodici monaci cavensi;74 sotto il suo regime abbaziale, fu introdotta la regola benedettina in uso nel cenobio cavense (quest’ultimo facente parte della congregazione benedettina di Cluny),75 ed i possedimenti dell’abbazia aumentarono grazie a nuove donazioni.76 Il nuovo abate riformò la vita monastica e diede impulso all’attività culturale dello scriptorium del monastero; egli stesso fu autore delle Vitae quatuor priorum abbatum Cavensium Alferii, Leonis, Petri et Constabilis, per lungo tempo attribuite invece all’abate Ugo;77 recentemente la critica gli ha assegnato anche la stesura del Commentario al Libro dei Re, già attribuito a Gregorio Magno.78 73 Cfr. BOZZONI 1976, p. 99; HOUBEN 1986b, pp. 32-33; BERTAUX 19912, p. 49; HOUBEN 2006, p. 368. Su Pietro II Divinacello, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 51-52; BOZZONI 1979, p. 18; HOUBEN 1984, p. 43; HOUBEN 1993, p. 327; SALVATORE 1996, p. 47; HOUBEN 2006, pp. 368-369. 75 Cfr. HOUBEN 1993, p. 327. 76 Cfr. HOUBEN 1984, p. 43; SALVATORE 1999b, p. 134; HOUBEN 2006, p. 369. 77 Cfr. BOZZONI 1979, p. 17, e nota 18 a p. 69; HOUBEN 1986b, p. 29, nota 56, e p. 31; HOUBEN 2006, p. 369. 78 Cfr. HOUBEN 2006, p. 369. 74 118 Giacomo Cirsone Dallo scriptorium di Venosa uscì anche un nuovo Libro del Capitolo, contenente la regola benedettina, le omelie per l’ufficio dell’Ora Prima, un Martirologio ed un Necrologio, con la registrazione dei defunti da commemorare durante la liturgia;79 il Libro del Capitolo si è consevato in un codice (Cod. Casin. 334), conservato presso l’abbazia di Montecassino.80 È nell’ambito di questa temperie spirituale, culturale ed economica, che si può collocare la ripresa dei lavori nel cantiere dell’Incompiuta, con la posa in opera delle cinque colonne e del piliere polistilo nella navata meridionale della chiesa; della fila di colonne, eretta su un lungo muro di fondazione, una non presenta il capitello, così come per il piliere polistilo81 [Figg. 20, giallo]. Testimonianza della rinnovata ricchezza del monastero venosino è data dal Catalogus Baronum, scritto tra il 1150 ed il 1152, ed aggiornato fino al 1168, per registrare le forze militari a disposizione del re nel Ducato di Puglia e nel Principato di Capua; in esso si legge che in occasione di una magna expeditio, l’abbazia era in grado di fornire 30 cavalieri (milites), 230 soldati (servientes), più il consueto ma imprecisato numero di soldati (solitos servientes), forniti alla Curia Regis dalla città di Ascoli Satriano (FG), che per metà era in possesso della SS. Trinità di Venosa.82 Il periodo di rinnovata prosperità durò poco per l’abbazia; alla morte di Pietro II nel 1156, fu eletto Nicola I (1156-1157), il cui regime abbaziale durò appena un anno.83 Alla morte di Nicola I, la carica di abate della SS. Trinità venne conferita a personaggi influenti presso la corte di Palermo; il primo a ricoprire tale carica, su sollecitazione di Guglielmo I il Malo (1154-1166), fu il monaco cavense Costantino (1158-1167), fratello del potente vicecancelliere del regno Matteo d’Aiello; il nuovo abate portò il cenobio venosino sull’orlo di una grave crisi economica e spirituale, tanto che molti monaci abbandonarono l’abbazia.84 Per risollevare le sorti del cenobio occorreva riavviare la vita monastica riformandola; a tale scopo il re Guglielmo II il Buono (1166-1189), e il Papa Alessandro III (1159-1181), imposero ai monaci l’elezione del monaco Egidio (1168-1181), 79 Cfr. HOUBEN 1984; HOUBEN 1986a, p. 202; HOUBEN 1986b, p. 32, nota 71; HOUBEN 2006, p. 369. Uno studio approfondito sul Libro del Capitolo della SS. Trinità di Venosa è HOUBEN 1984, al quale si rimanda. 81 Cfr. BORDENACHE 1937, p. 40; BOZZONI 1976, p. 100; PAOLINI 1976, p. 326; BOZZONI 1979, pp. 42-44; HOUBEN 2006, p. 368. 82 Catalogus Baronum, 408, p. 73: Abbas predicte Sancte Trinitatis de Venusio obtulit pro tota terra et tenimento suo milites triginta et servientes ducentos triginta pro auxilio magne expeditionis et solitos servientes quos Curia solita est habere de medietate Asculi que est predicte ecclesie. Cfr. BOZZONI 1979, pp. 18-19; HOUBEN 1984, pp. 44, 163; HOUBEN 1986a, p. 202; HOUBEN 2006, pp. 368-369. 83 Cfr. su Nicola I, HOUBEN 1984, p. 63; HOUBEN 1986b, pp. 33, 121-122; HOUBEN 2006, p. 369. 84 Sull’abate Costantino, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 52-53; KEHR 1962, IX, p. 494; BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 18; HOUBEN 1984, p. 44; HOUBEN 1986b, pp. 33-34; HOUBEN 1993, p. 327; HOUBEN 2006, p. 369. 80 119 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) di origine spagnola, facente parte dell’entourage della regina madre Margherita di Navarra; Egidio era stato cellerario presso l’abbazia cistercense di Fossanova, da dove portò alcuni monaci; grazie alle sue conoscenze, divenne un personaggio importante presso la corte regia di Messina, dove è attestato nel 1168.85 In quello stesso anno Egidio sembra essere stato nominato anche abate di Montecassino, ma fu quasi subito deposto e rimandato a Venosa da Papa Alessandro III; una possibile spiegazione a questo evento, secondo H. Houben, andrebbe ricercata nella reazione pontificia alle pressioni esercitate dalla regina Margherita, reggente per conto del minorenne Guglielmo II il Buono, e dal cancelliere Stefano di Perche, nella nomina di Egidio prima ad abate di Venosa e poi di Montecassino, senza la preventiva autorizzazione papale; a queste manovre non dovevano essere estranei i baroni del regno che non vedevano di buon occhio l’eccessivo favoritismo di stranieri da parte della regina (spagnola) e del cancelliere (di origine francese).86 In ogni caso a Venosa, Egidio si prodigò per accrescere i beni del monastero, ordinando forse anche la redazione di un cartulario e di una cronaca, e si preoccupò del benessere dei monaci a lui affidati.87 Successore di Egidio, sarebbe stato Nicola II, menzionato solo nel Martyrologium Venusinum.88 È invece più probabile pensare che la sede abbaziale fosse rimasta vacante per alcuni anni, essendo attestato nelle fonti un Giovanni rector et cappellanus della SS. Trinità, cui era affidata l’amministrazione del cenobio in attesa dell’elezione di un nuovo abate.89 Durante un’assemblea di baroni e prelati del regno, convocata a Barletta nel 1182 da Guglielmo II, un legato pontificio di Alessandro III, chiese ed ottenne che fosse investito della carica di abate di Venosa, il rector Beneventanus Giovanni di Strumi; quest’ultimo era stato antipapa con il nome di Callisto III (1167-1178), e a seguito degli accordi raggiunti con la Pace di Venezia del 1177, aveva rinunciato alle sue pretese sul soglio di Pietro in cambio di un’abbazia, promessa mantenuta da Alessandro III con la concessione della SS. Trinità di Venosa. Giovanni non è più attestato dopo il 1183.90 Seguì un periodo di vacanza durante il quale l’abbazia fu rappresentata da un rector et cappellanus, anch’egli di nome Giovanni, attestato nel 1184.91 85 Sull’abate Egidio e sulla sua influenza a corte, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 53-54; KEHR 1962, IX, p. 494; BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, pp. 18-19; HOUBEN 1984, pp. 45-47; HOUBEN 1986b, pp. 35-37; HOUBEN 1993, p. 327; HOUBEN 2006, pp. 369-370. 86 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 54; BOZZONI 1979, p. 18 e nota 24 a p. 70; HOUBEN 1984, p. 45, nota 146; HOUBEN 1986b, pp. 35-36; HOUBEN 2006, p. 369. 87 Cfr. HOUBEN 1986b, p. 36; HOUBEN 2006, p. 370. 88 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 54; KEHR 1962, IX, p. 494; contra HOUBEN 1984, p. 47, nota 160, e pp. 121-122. 89 Cfr. KEHR 1962, IX, p. 494; HOUBEN 1984, p. 45, nota 149, e p. 47; HOUBEN 1986b, pp. 37-38. 90 Sull’abate Giovanni, cfr. HOUBEN 1986b, pp. 38-39; HOUBEN 1993, p. 327; HOUBEN 2006, p. 370. 91 Cfr. HOUBEN 1986b, p. 39; HOUBEN 2006, p. 370. 120 Giacomo Cirsone La scelta dei monaci ricadde su Pietro III (1187-1192?), che era stato priore della chiesa del S. Sepolcro di Brindisi, e che è menzionato in un diploma del re Tancredi di Lecce;92 sotto il suo regime abbaziale continuarono le donazioni a favore della SS. Trinità, ma l’abbazia si trovò coinvolta nelle vicende che seguirono la morte di Guglielmo II, morto senza eredi maschi; l’unica erede era Costanza d’Altavilla, moglie dell’imperatore Enrico VI di Svevia (1191-1197), il quale scese nel Sud della penisola nel 1191 e nel 1194, rivendicando per sé la corona di Sicilia; i baroni meridionali opposero all’imperatore il conte Tancredi di Lecce (1189-1194), nipote di Gugliemo II il Buono, ultimo re normanno, scelta che fu avvallata dal Papa Clemente III (1187-1191), ed ebbe l’appoggio anche dell’abate di Venosa.93 Il XII secolo, con il passaggio dalla dominazione normanna a quella sveva, si chiude così con uno stato di decadenza per l’abbazia della SS. Trinità, con i suoi abati interessati più alle entrate economiche derivanti dai possedimenti del monastero, che all’aspetto spirituale, e ciò doveva riflettersi anche sullo stato materiale del cenobio, con la definitiva sospensione del cantiere dell’Incompiuta e la rovina degli altri corpi di fabbrica annessi al complesso monastico.94 La fase svevo-angioina (fine XII – metà XV secolo) La discesa di Enrico VI di Svevia nel Mezzogiorno segna la fine del dominio normanno, in un clima di lotte tra il ‘partito nazionale’ normanno che sosteneva Tancredi di Lecce, ed i Tedeschi; sceso in Italia una prima volta nel 1191, l’imperatore nel tentativo di soffocare la rivolta dei nobili normanni, punì la SS. Trinità di Venosa per la sua fedeltà a Tancredi, distruggendone il ricco feudo di Corleto presso Ascoli Satriano (FG); tre anni più tardi, nel 1194, durante la seconda campagna militare che lo portò sul trono di Palermo, l’imperatore tolse l’autonomia 92 Sull’abate Pietro III, cfr. MÉNAGER 1959, pp. 54-56; KEHR 1962, IX, p. 494; BOZZONI 1979, p. 19; HOUBEN 1984, pp. 47-48; HOUBEN 1986b, pp. 39-40; HOUBEN 2006, pp. 370. 93 Il figlio di Tancredi, Guglielmo III, regnò, sotto la reggenza della madre Sibilla di Medania, dal febbraio al dicembre del 1194; imprigionato insieme alla madre, fu poi accecato ed evirato per ordine di Enrico VI. Cfr. MÉNAGER 1959, p. 55; BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 19; HOUBEN 1984, p. 48; HOUBEN 1986b, p. 41; HOUBEN 2006, p. 370. 94 In questa sede si propone una datazione generica alla fase normanna anche per una serie di strutture che si trovano sotto il piano pavimentale del cosiddetto ‘atrio’; si tratta di una sorta di cunicolo o corridoio, parzialmente ipogeo, al quale si accede passando al di sotto di un archetto a tutto sesto per mezzo di una scaletta ripida realizzata con materiale lapideo di recupero; il paramento murario dell’arco ricorda quello usato per la Foresteria, con una cortina di blocchetti lapidei; il cunicolo, della lunghezza di 2-2.5 m circa, risulta voltato a botte e termina contro una parete, nella quale sembra essere stata ricavata una nicchia rettangolare (forse l’accesso ancora interrato alla prosecuzione del corridoio?). Allo stato attuale delle conoscenze non è comunque possibile definire la funzione di tale dispositivo, il quale non figura in nessuna pianta edita e non viene menzionato nella vasta bibliografia sulla Trinità. 121 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) al cenobio venosino, affidato in procura al suo fedele alleato Atenulfo, decano di Montecassino.95 La perdita dell’autonomia, probabilmente limitata al breve regno di Enrico VI, segna l’ingresso della SS. Trinità nell’orbita cassinese, e l’inizio di un lento declino che si protrarrà per tutto il XIII secolo.96 Per i primi decenni del XIII secolo, coincidenti in buona parte con il regno di Federico II di Svevia (1198-1250), non si hanno notizie certe sulle sorti della SS. Trinità, a causa delle difficoltà interne e dei contrasti con la gerarchia episcopale; occorre attendere il 1236, quando Gregorio IX (1227-1241) depose l’abate venosino Gregorio, accusato dai suoi monaci di aver dissipato i beni dell’abbazia vivendo lussuriosamente fuori dal monastero, e portando il cenobio in uno stato di degrado economico e spirituale.97 Nello stesso anno il pontefice non diede il proprio assenso al nuovo priore, invitando i monaci ad una seconda elezione; nel 1237 fu eletto il monaco Leone, che però fu ucciso poco tempo dopo, probabilmente da alcuni confratelli, tra i quali un certo Jacobus de Alpharano;98 il pontefice, dopo un’inchiesta, ordinò una nuova elezione entro tre mesi, ma non si riuscì a trovare un monaco idoneo a ricoprire tale carica, ed è quindi probabile che si sia avuto un periodo di sede vacante, durato almeno fino al 1252.99 In questo anno viene finalmente eletto abate un monaco della SS. Trinità, Giovanni da Gaudiano, il quale, chiedendo la consacrazione al pontefice Innocenzo IV (1243-1254), si lamentava di non poter raggiungere Roma a causa della povertà del cenobio venosino.100 Gli anni dei regni di Corrado IV (1250-1254), Manfredi (1258-1266) e di Corradino V (1254-1268), non ci offrono notizie ulteriori che possano far luce sulle sorti della SS. Trinità, forse a causa delle condizioni politiche del Regno di Sicilia, che vedevano contrapporsi gli ultimi esponenti della Casa di Hoenstaufen, 95 Cfr. MÉNAGER 1959, pp. 55-56; KEHR 1962, IX, p. 490; BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 19; HOU1984, pp. 48-49; HOUBEN 1986a, p. 202; HOUBEN 1986b, p. 40; SALVATORE 1996, p. 47; SALVATORE 1999b, p. 134; BOZZONI 2006, p. 370. 96 Cfr. MÉNAGER 1959, p. 56; BOZZONI 1976, p. 99; BOZZONI 1979, p. 19; HOUBEN 1984, pp. 49-52, nota 195, nella quale è riportato il passo della bolla del 22 settembre 1297, con cui Bonifacio VIII concedeva l’abbazia della SS. Trinità di Venosa all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, adeo per incuriam et improvidam, ac inordinatam administrationem abbatum et monachorum ipsius; HOUBEN 1986a, p. 202; HOUBEN 1986b, pp. 41-42; BERTAUX 19912, p. 54; SALVATORE 1999b, p. 134; BOZZONI 2006, p. 370. 97 Cfr. KEHR 1962, IX, p. 491: Gregorius IX P.P. a. 1236 Gregorium tunc abbatem luxuriose viventem, qui bona monasterii dissipavit, deposuit […]; BOZZONI 1979, p. 19; HOUBEN 1984, p. 49; HOUBEN 1986b, p. 42; SALVATORE 1996, p. 47; SALVATORE 1999b, p. 134; BOZZONI 2006, p. 370. 98 Cfr. KEHR 1962, IX, p. 491: […] cuius successor, Leo prior a. 1237 a Jacobo de Alpharano occisus est; BOZZONI 1979, pp. 19-20; HOUBEN 1984, p. 50, nota 179; HOUBEN 1986b, p. 42. 99 Cfr. BOZZONI 1979, p. 20, nota 31 a p. 71; HOUBEN 1984, p. 50. 100 Cfr. KEHR 1962, IX, p. 491: Johannes de Gaudiano abbas a. 1252 electus propter paupertatem monasterii benedictionem a Rapullano episcopo recipere petiit; BOZZONI 1979, p. 20; HOUBEN 1984, pp. 50-52; HOUBEN 1986b, p. 42. BEN 122 Giacomo Cirsone Figura 23. SS. Trinità. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in viola invece le strutture inedite pertinenti alla fase normanna (metà XI - XII secolo); in giallo sono indicati gli interventi della fase svevo-angioina, databili tra la fine del XII e la metà del XIV secolo (elaborazione Cad G. CIRSONE). agli Angiò, chiamati in Italia dal Papa Urbano IV (1261-1264), e sostenuti dal suo successore Clemente IV (1265-1268).101 Durante l’epoca sveva, e a seguito dell’abbandono definitivo del cantiere dell’Incompiuta, le ristrettezze economiche in cui versava l’abbazia, spinsero gli abati a rimettere mano alla ‘Chiesa Vecchia’, con una serie di lavori di restauro e consolidamento riguardanti principalmente la sistemazione delle navate e della cripta102 [Fig. 23]. All’interno della chiesa, viene posto in opera un nuovo pavimento in mattoni di cotto, poggiato direttamente sull’opus tesselatum della fase normanna; il piano di calpestio della chiesa viene rialzato di ulteriori 20 cm rispetto alla quota paleocristiana.103 Sullo stesso tessellato normanno furono posti in opera tre grandi archi a sesto acuto trasversali nella navata centrale, insieme ai relativi archi di controspinta a tutto sesto nelle navate laterali; queste strutture si appoggiano dal punto di 101 Cfr. BOZZONI 1979, p. 20. HOUBEN 1984, p. 51. Sul passaggio dagli Svevi agli Angiò in Basilicata, cfr. BOENZI, GIURA LONGO 1994, pp. 103-109. 102 Cfr. BOZZONI 1976, p. 99; MEZZINA 1977, p. 46; BOZZONI 1979, p. 20; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 154; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 50; HOUBEN 2006, p. 370. 103 Cfr. SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 50. 123 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 24. SS. Trinità. Immagine della navata centrale con i tre grandi archi trasversali a sesto acuto, che si appoggiano ai pilastri della fase paleocristiana (foto G. CIRSONE). Figura 25. SS. Trinità. Immagini delle navate laterali con gli archi di controspinta a tutto sesto; a destra si notino i sepolcri di Alberada di Buonalbergo, prima moglie di Roberto il Guiscardo, ed in secondo piano il sepolcro quattrocentesco della famiglia Acciaiuoli nella navata N (foto G. CIRSONE). 124 Giacomo Cirsone Figura 26. SS. Trinità. Immagini della cripta medievale: si nota il pavimento in mattoni di cotto (foto G. CIRSONE). vista stratigrafico ai pilastri d’epoca paleocristiana, e ad essi si appoggia la nuova pavimentazione in mattoni di cotto, di modulo più grande rispetto a quelli del periodo paleocristiano.104 L’inserimento di questi archi modifica la spazialità interna dell’edificio, spezzando la prospettiva con il punto di fuga incentrato sull’abside, ereditato dalla fase tardoantica, dividendo la navata centrale e quelle laterali in quattro campate105 [Figg. 24-25]. È probabile che in questo periodo sia stata ampliata la cripta a corridoio paleocristiana, per tutta la lunghezza del transetto; le scale laterali furono rifatte in prossimità dei muri perimetrali della chiesa, ed il pavimento fu sistemato con una stesura di mattoni di cotto, analogamente a quanto fatto per le navate della chiesa; la copertura viene rifatta ponendo in opera delle volte sorrette da piedritti106 [Figg. 26-28]. Un termine cronologico per questi lavori viene fornito da un affresco re- 104 Sulla pavimentazione paleocristiana in opus spicatum, cfr. supra. Sugli archi nelle navate cfr. BORDENA1937, p. 26; MEZZINA 1977, pp. 74-75, in cui si riporta la definizione data dal Lenormant, che qualificava gli archi ‘di tipo moresco’; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 154; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 50; Basilicata e Calabria 2005, p. 236. Gli archi delle navatelle si appoggiano ai muri perimetrali N e S della chiesa. 105 Cfr. MEZZINA 1977, p. 75; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1997b, in MARCHI, SALVATORE 1997, p. 154; SALVATORE 1999b, p. 135. 106 Cfr. MEZZINA 1977, pp. 108-109; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 50; Basilicata e Calabria 2005, p. 236; BOZZONI 2006, p. 566. CHE 125 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 27. SS. Trinità. Cripta medievale: a sinistra, altare a blocco; in alto banchine in muratura lungo le pareti, funzionali alla sosta per la preghiera dei fedeli (foto G. CIRSONE). Figura 28. SS. Trinità. Scale di accesso N e S alla cripta medievale, collocate ai lati estremi del presbiterio, in prossimità dei muri perimetrali della chiesa (foto G. CIRSONE). 126 Giacomo Cirsone Figura 29. SS. Trinità. Cripta medievale: affresco raffigurante una Crocifissione, realizzato al di sopra dell’altare a blocco, datato al XIII secolo (foto G. CIRSONE). cante una Crocifissione, con al centro il Cristo sulla croce, a sinistra la Madonna e a destra la Maddalena; l’affresco è realizzato nella nicchia al di sopra dell’altare a blocco della cripta, ed è databile al XIII secolo107 [Fig. 29]. Ai lati di questo affresco, se ne trovano altri due, recanti San Pietro a sinistra, raffigurato con le chiavi,108 e San Giacomo il Maggiore a destra;109 entrambi sono coevi alla Crocifissione e sembrano formare con quest’ultima una sorta di trittico110 [Fig. 30]. 107 Cfr. SALVATORE 1984b, p. 78; Basilicata. Potenza, Matera, il Pollino, la Magna Grecia, il Vulture, le coste tirrenica e jonica (Guide d’Italia del Touring Club Italiano), Milano, Touring Club Italiano, 2004, p. 88; Basilicata e Calabria 2005, p. 236. 108 S. Pietro rappresenta il collegamento con il centro propulsore della cristianità, Roma, e potrebbe essere riferito alla rinnovata concordia tra il trono di Napoli, saldamente in mano angioina, ed il Papato. In Puglia si riscontrano molte chiese di centri minori nelle quali l’intitolazione a S. Pietro si accompagna al titolo di arcipretura nullius dioecesis del centro abitato, implicante la diretta soggezione alla Santa Sede: cfr. ad esempio la Chiesa Madre di Cerignola (FG). 109 È anche possibile che possa trattarsi di Giacomo il Minore, Apostolo e protovescovo di Gerusalemme, città capitale dell’omonimo regno, la cui corona era passata agli Angiò in quanto sovrani del Regno di Sicilia, e successori di Federico II; indizi potrebbero essere il pastorale portato nella mano sinistra e la mano destra benedicente ‘alla latina’, che più si addicono ad una figura vescovile. Meno probabile, ma non da escludere, è l’ipotesi che si tratti di Giacomo il Maggiore, santo che richiama gli interessi dell’Ordine di Malta in Oriente e nei grandi centri di pellegrinaggio come quello spagnolo di Santiago de Compostela, intitolato proprio a questo Apostolo; questa seconda ipotesi sposterebbe la cronologia relativa dell’affresco agli ultimissimi anni del XIII secolo, in concomitanza con l’arrivo degli Ospedalieri. 110 Cfr. Basilicata 2004, p. 88, dove si fornisce una datazione al XIV e XV secolo; Basilicata e Calabria 2005, dove invece la cronologia viene spostata al XV secolo; in questa sede si propende per una datazione al XIII secolo, o al più tardi all’inizio del XIV per gli affreschi più antichi, realizzati in concomitanza con i lavori di ristrutturazione della chiesa. 127 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 30. SS. Trinità. Cripta medievale: affreschi raffiguranti i SS. Pietro a sinistra, e Giacomo il Maggiore a destra (foto G. CIRSONE). Altri brani di affreschi degni di nota sono il gruppo con la Madonna con Bambino e santi, il S. Antonio Abate ed un’altra Crocifissione purtroppo mutila della parte superiore111 [Figg. 31-33]. Figura 31. SS. Trinità. Cripta medievale: affresco raffigurante la Madonna con il Bambino in grembo; a sinistra una figura femminile con un piccolo animale in braccio (Maria di Cleofa?); a destra invece, l’Arcangelo Michele, una figura femminile che porta una capsella (Maria Maddalena?), ed un vescovo. In basso, a destra della figura femminile con la capsella, si vede una figurina femminile di piccole dimensioni, da identificare con l’anonima committente dell’affresco (foto G. CIRSONE). 111 Cfr. Basilicata 2004, p. 88; Basilicata e Calabria 2005, p. 236. 128 Giacomo Cirsone Sembra interessante notare la presenza nell’affresco dell’anonima committente dell’opera, ritratta in proporzioni minori, in una posizione gerarchicamente inferiore, alla destra della figura femminile con i capelli biondi e la capsella; si potrebbe pensare che si tratti di una persona dalle considerevoli possibilità economiche, forse appartenente alla piccola nobiltà locale o al ceto dei notabili, o ancora alla piccola borghesia emergente; non sussistono comunque elementi utili a stabilirne l’identità [Fig. 32]. La figura femminile con i capelli biondi e la capsella è forse da identificare con la Maddalena (?); a livello di ipotesi di lavoro si potrebbe invece identificare la seconda figura femminile sulla sinistra della composizione con Maria di Cleofa, stabilendo così un ponte tematico con l’affresco della Crocifissione [Fig. 33]. Figura 32. Cripta medievale. Particolare dell’affresco della Madonna con Bambino e Santi: nella fotografia è visibile il ritratto della committente raffigurata in proporzioni minori ed in atteggiamento di preghiera (foto G. CIRSONE). Figura 33. Cripta medievale. Particolare dell’affresco della Madonna con Bambino e Santi: a sinistra una figura femminile da identificare con Maria di Cleofa (?), e a destra, una figura con i capelli biondi recante una capsella, da identificare con Maria Maddalena (?) (foto G. CIRSONE). 129 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Il fulcro della composizione sembra comunque essere l’Arcangelo Michele al centro, con la lancia nella mano destra, il libro nella sinistra ed il diavolo in forma di drago sotto i piedi112 [Fig. 34]. Un particolare interessante che caratterizza questo ed altri affreschi di questa fase è la fattura delle aureole, realizzate nell’intonaco fresco, con incavi atti ad accogliere decorazioni in smalti colorati o in tesserine di mosaico; questo particolare rivela un certo gusto per la ricercatezza da parte della committenza ed una certa maestria nell’esecuzione da parte delle maestranze. Dopo il silenzio delle fonti nei primi decenni del dominio svevo, le prime Figura 34. Particolare dell’affresco della Madonna con Bambino e Santi: è visibile l’Arcangelo Michele con la lancia ed il libro, che schiaccia sotto i piedi il diavolo in forma di drago (foto G. CIRSONE). Figura 35. SS. Trinità. Cripta medievale: affreschi raffiguranti S. Antonio Abate a destra, e il gruppo della Crocifissione a sinistra (foto G. CIRSONE). 112 La presenza di S. Michele tra i santi raffigurati nella cripta si spiega facilmente se si pensa agli interventi di abbellimento e restauro promossi dai sovrani angioini nel santuario micaelico di Monte Sant’Angelo (FG) sul Gargano, meta di pellegrinaggio sin dal V secolo. Il culto del santo in grotta viene imitato in scala minore a Venosa, con lo svolgimento delle pratiche devozionali in un vano semipogeo quale è la cripta, parzialmente scavata nella roccia. 130 Giacomo Cirsone Figura 36. SS. Trinità. Transetto: archi a sesto acuto d’età angioina (foto G. CIRSONE). notizie sulla SS. Trinità risalgono al 1267, quando Riccardo Paolino prior claustralis di Venosa, ottiene la trascrizione nella cancelleria regia di due diplomi emessi all’epoca di Ruggero Borsa; negli anni seguenti sono attestate, nei registri angioini, richieste da parte dei monaci per affermare i diritti dell’abbazia sui beni posseduti, in genere seguite dal riconoscimento dell’autorità regia che provvide alla loro tutela. Nel 1268, viene nominato abate il priore dell’abbazia di Montepeloso, il cui nome però non è noto.113 Nel 1270, è attestato in due diplomi regi di Carlo I d’Angiò (1266-1285), un electus et conventus monasterii sancte Trinitatis de Venusio, da identificare con il Ruggero, electus monasterii sancte Trinitatis de Venusio, attestato l’anno successivo. Successore di Ruggero fu Angelo, preposito del monastero di Banzi, eletto nel 1272 ed in carica fino a tutto l’anno successivo, dato che agli inizi del 1274 è attestato il priore claustrale Guglielmo alla guida del monastero.114 Una breve battuta di arresto alla decadenza del cenobio venosino si ha con la consacrazione, durante il Concilio di Lione del 1274, di Nicola III (1274-1279), abate di Montescaglioso, da parte di Papa Gregorio X (1271-1276); il nuovo abate 113 114 Cfr. BOZZONI 1979, p. 20; HOUBEN 1984, p. 50; HOUBEN 2006, p. 370. Cfr. HOUBEN 1984, p. 51. 131 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 37. SS. Trinità. ‘Atrio’: portale d’accesso alla chiesa, opera del Magister Palmerius, realizzato con elementi di riutilizzo e decorato con motivi arabeggianti, sotto il regime abbaziale di Barnaba nel 1287 (foto G. CIRSONE). si adoperò per migliorare la situazione economica del monastero, ottenendo numerosi documenti in favore dell’abbazia.115 Un secondo lotto di lavori sulla SS. Trinità, riguardanti anche la Foresteria, si potrebbero collocare in questo momento di temporanea rifioritura economica per l’abbazia; nella chiesa si procede alla sistemazione del transetto, con la costruzione di due grandi archi a sesto acuto, che scandiscono ora in tre campate questa parte della chiesa; gli archi si appoggiano ai pilastri paleocristiani all’estremità W, mentre ad E sfruttano due poderose paraste, appoggiate alla parete di fondo della chiesa, le quali vanno a tagliare la volta della cripta, rendendone difficile l’accesso dalle scale laterali116 [Fig. 36]. Figura 38. SS. Trinità. Affresco raffigurante Sant’Apollonia, dipinto nel corso del XIII secolo, sul secondo pilastro di destra della navata centrale; l’affresco è stato successivamente obliterato dalla costruzione di una muratura più tarda. Sull’altra faccia del pilastro si vede l’affresco dell’Angelo Gabriele o Angelo Annunciante, databile alla metà del ‘300 (foto G. CIRSONE). 115 Cfr. HOUBEN 1984, p. 51; SALVATORE 1996, p. 47, nota 19, dove però la consacrazione di Nicola III viene anticipata al 1268. 116 Cfr. BORDENACHE 1937, p. 26; MEZZINA 1977, pp. 98-99; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 50. 132 Giacomo Cirsone Figura 39. Venosa. Il palazzetto della Foresteria nella sua forma attuale d’età angioina; sono visibili le arcate del pianoterra, le due finestre bifore del lato W, e la trifora del lato N (foto G. CIRSONE). È probabile che a questo momento vada datata la parziale dismissione della cripta, rimasta in uso pressoché ininterrottamente dall’età paleocristiana, e restaurata appena qualche decennio prima.117 Nel 1287, viene costruito il portale d’ispirazione arabeggiante che da accesso alla chiesa dal cosiddetto ‘atrio’, opera firmata dal Magister Palmerius, realizzata sotto il regime abbaziale di Barnaba, secondo l’iscrizione dedicatoria, utilizzando frammenti scultorei di recupero118 [Fig. 37]. Al XIII secolo si data la realizzazione, sul secondo pilastro destro della navata centrale, dell’affresco raffigurante S. Apollonia;119 di poco successivo è invece l’affresco raffigurante S. Donato, dipinto sul secondo pilastro di sinistra, e datato tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo120 [Fig. 38]. 117 Cfr. supra; cfr. anche MEZZINA 1977, p. 99; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1999b, p. 135. Cfr. BORDENACHE 1937, p. 32, e figg. 15, 16; BOZZONI 1976, p. 99; MEZZINA 1977, pp. 65-68; BOZZONI 1979, p. 20, nota 35 alle pp. 71-72; HOUBEN 1984a, p. 52; SALVATORE 1984b, p. 78; BERTAUX 19912, pp. 51-52; SALVATORE 1996, p. 50; SALVATORE 1999b, p. 135; VILLANI 1999, p. 49; Basilicata 2004, p. 87; Basilicata e Calabria 2005, p. 236. 119 Cfr. Basilicata 2004, p. 88. In questa sede si fa menzione anche di un affresco in stile bizantino, forse raffigurante la Madre di Dio, se è giusta la lettura delle lettere greche poste a destra della figura, in cui si legge Μη[τηρ] θ[εο]υ; l’affresco non sembra essere menzionato nella vasta bibliografia sulla SS. Trinità, ed è stato obliterato successivamente dalla costruzione di uno degli archi della navata centrale, analogamente alla S. Apollonia. 120 Cfr. MEZZINA 1977, pp. 91-92; Basilicata 2004, p. 88. 118 133 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 40. Venosa. Foresteria: a sinistra il lato E dell’edificio; a destra l’arco del pianoterra e la finestra trifora del primo piano (foto G. CIRSONE). I lavori di maggiore entità ebbero ad oggetto la Foresteria, il cui nucleo longobardo, sostanzialmente ancora intatto, viene ampliato sul lato W; è in questo momento che il palazzetto assume la forma visibile ancora oggi; vengono aperte le finestre bifore e la trifora nei saloni al primo piano, e si prolunga il pianoterra porticato, con l’aggiunta di poderosi pilastri quadrangolari in muratura; nei muri del piano terra si aprono strette finestre ‘a bocca di lupo’, le quali lasciano passare poca luce, conferendo ai paramenti murari in cortina di blocchetti lapidei una maggiore plasticità121 [Figg. 39-41]. Sul lato meridionale, dei due archi della fase longobarda, viene tamponato quello di sinistra, mentre una parete continua, nella quale si apre solo una piccola porta a tutto sesto, contraddistingue l’ampliamento svevo-angioino della Foresteria; al piano superiore, si aprono una bifora (di restauro), accanto alla quale si trova una piccola monofora arcuata, ed una coppia di finestre monofore arcuate (anch’esse frutto dei restauri del 1932), di dimensioni maggiori della precedente122 [Fig. 42]. Nel 1291, dopo la morte di Barnaba, da una bolla di Papa Niccolò IV 121 Cfr. Edoardo GALLI, Danni e restauri a monumenti della zona del Vulture, in «Bollettino d’Arte del Ministero dell’Educazione Nazionale», XXVI, Roma, Ministero dell’Educazione Nazionale, 1933, p. 334; BORDENACHE 1937, p. 75; MEZZINA 1977, pp. 55-56; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, p. 48; SALVATORE 1999b, p. 134; Basilicata 2004, p. 87; Basilicata e Calabria 2005, p. 235; BOZZONI 2006, p. 570. 122 Cfr. GALLI 1933, pp. 333-334; BORDENACHE 1937, pp. 74-75; MEZZINA 1977, pp. 55-56, 70-71; SALVATORE 1984b, p. 78; SALVATORE 1996, pp. 48-49; SALVATORE 1999b, p. 134. 134 Giacomo Cirsone (1288-1292),apprendiamo dell’elezione di Francesco, abate di Sant’Eutizio, presso Norcia, il quale però morì prima di aver ottenuto la consacrazione ad abate di Venosa.123 L’atto finale della presenza benedettina a Venosa si compie con la bolla del 22/09/1297, con la quale Papa Bonifacio VIII (1294-1303) soppresse l’abbazia, consegnandola, insieme ai suoi ancora cospicui beni, all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Figura 41. Foresteria. Pianoterra porticato: sono visibili le cortine murarie in blocchetti lapidei dei piGerusalemme, a causa del forte lastri; sulla parete di fondo, corrispondente al lato N stato di degrado in cui era caduto dell’edificio, si apre la finestra ‘a bocca di lupo’; atil cenobio venosino; più che per la tualmente, il piano terra della Foresteria è stato adidecadenza economica, si trattò di bito a Lapidarium della chiesa, ed in esso sono esposti un atto volto ad assicurare nuo- elementi lapidei scolpiti provenienti dall’area della chiesa, o rinvenuti durante gli scavi e i restauri degli vi cespiti economici ad uno degli anni ’80 e ’90 del XX secolo (foto G. CIRSONE). Ordini Religioso-Militari più influenti della Cristianità, a seguito della perdita dei possedimenti in Terra Santa dopo la riconquista turca, al termine della IX Crociata (1269-1291).124 Il XIV e la prima metà del XV secolo, corrispondenti in larga parte al periodo della dominazione angioina sull’Italia Figura 42. Venosa. Foresteria: lato S dell’edificio; in basso al centro la porta arcuata, e sulla destra uno degli archi del pianoterra; in alto la bifora restaurata negli anni ’30, e le monofore aperte nella facciata dopo gli stessi restauri (foto G. CIRSONE). 123 Cfr. HOUBEN 1984, p. 52. Cfr. BORDENACHE 1937, p. 17; BOZZONI 1976, p. 99; PAOLINI 1976, p. 327; MEZZINA 1977, p. 46; BOZZONI 1979, pp. 20-21; HOUBEN 1984, p. 52, nota 195; SALVATORE 1984b, p. 78; HOUBEN 1986a, p. 202; HOUBEN 1986b, p. 42; BERTAUX 19912, pp. 49-50, dove però la bolla di Bonifacio VIII è datata erroneamente al 1292; SALVATORE 1996, p. 47; SALVATORE 1999b, p. 134; VILLANI 1999, p. 50; Basilicata e Calabria 2005, p. 235; HOUBEN 2006, p. 370. Sulla bolla di Bonifacio VIII, cfr. KEHR 1962, IX, p. 491, che dice Non immerito itaque Bonifatius VIII a. 1297 monasterium s. Trinitatis cum omnibus eius membris ac bonis magistro et fratribus hospitalis s. Johannis Hierosolimitani concessit et incorporavit, qui ibi baliatum instituerunt tempore Napoleonis I suppressum. 124 135 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 43. Incompiuta. Portale del lato meridionale della chiesa, realizzato o completato dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme nel XIV secolo (foto Raffaele FANELLI). meridionale, non vedono grossi interventi sulla chiesa della SS. Trinità; lungo il lato meridionale dell’Incompiuta fu realizzato o portato a compimento il portale sormontato da un arco semicircolare lunato, recante un bassorilievo della ‘mano di Dio’ entro il nimbo, ed un’iscrizione benaugurale; sulla chiave di volta dell’arco entro un tondo, l’immagine dell’Agnus Dei, simbolo dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme125 [Fig. 43]. La Foresteria non fu abbandonata, anzi per un certo periodo divenne la residenza dei dignitari e dei luogotenenti dell’Ordine, almeno fino a quando non venne costruito il Palazzo del Balì, all’interno del centro storico di Venosa.126 L’interno della chiesa è interessato dall’avvio di un programma decorativo, che vede la realizzazione di affreschi sui pilastri della chiesa, ed anche nella cripta, della quale segnano l’ultima fase d’uso. Al XIV secolo si data l’affresco raffigurante Santa Caterina d’Alessandria, realizzato sul terzo pilastro di destra della navata centrale; la santa è ritratta con i 125 Cfr. Riccardo BORDENACHE, Due monumenti dell’Italia meridionale. I. L’avanzo di una chiesetta a croce greca in Castro. II. La cappella romanica della Foresteria nell’Abbazia di Venosa, in «Bollettino d’Arte del Ministero dell’Educazione Nazionale», XXVII, Roma, Ministero dell’Educazione Nazionale, 1933, p. 39, fig. 29; MEZZINA 1977, p. 136; BOZZONI 1979, p. 63, note 161-162 a p. 99; SALVATORE 1996, p. 52; SALVATORE 1999b, p. 136; Basilicata 2004, p. 87; Basilicata e Calabria 2005, p. 236. 126 Cfr. BOZZONI 1979, pp. 20-21, nota 39 alle pp. 72-73; BOZZONI 2006, p. 570. 136 Giacomo Cirsone capelli biondi cinti da una corona, e con indosso un abito bianco recante una veletta sotto il mento ed un motivo esagonale sul petto, il tutto entro una cornice di composizione geometrica, che sembra richiamare motivi decorativi di origine cosmatesca; l’attribuzione e la datazione dell’affresco hanno diviso la critica a lungo: B. Berenson ne assegnò la paternità a Roberto d’Oderisio da Benevento, attivo alla metà del XIV secolo; F. Bologna, invece, attribuì l’affresco al cosiddetto ‘Maestro della Bible Moralisée di Parigi’, che lavorò alla cappella della famiglia Pipino in S. Pietro a Maiella a Napoli; concorde con questa ipotesi è A. Grelle Iusco, la quale associava ad un’unica mano l’affresco della santa e quelli della Figura 44. SS. Trinità. Affresco raffigurante Deposizione o Cristo di Pietà (col- Santa Caterina d’Alessandria, collocato sul prilocato immediatamente al di sotto) mo pilastro di sinistra della navata centrale, e databile alla metà del ‘300; immediatamente al e dell’Angelo Gabriele o Angelo An- di sotto della santa è visibile l’affresco della Denunciante127 [Fig. 44]. posizione o Cristo di Pietà, anch’esso del XIV Differente è la posizione di A. secolo (foto G. CIRSONE). Prandi, il quale sulla base di confronti stilistici, data la S. Caterina, la Deposizione e il Santo Vescovo o San Nicola, effigiato accanto ai primi due, alla prima metà del XV secolo.128 L’affresco dell’Angelo Gabriele, probabilmente parte di un’Annunciazione non conservatasi, si trova sul secondo pilastro di destra della navata centrale; l’angelo, con indosso un abito a riquadri scuri, è ritratto di profilo nell’atto di benedire, con l’incarnato delicato e le mani esili e raffinate129 [vedi Fig. 39]. L’affresco della Deposizione o Cristo di Pietà si trova immediatamente al di sotto della S. Caterina, e mostra, entro una cornice rettangolare a fasce di colore diverso, i busti del Cristo che emerge dal sepolcro aperto, della Madonna a sinistra con 127 Cfr. MEZZINA 1977, pp. 84-85; BERTAUX 19912, p. 53, che definì l’affresco ‘come un’apparizione inaspettata di grazia e di bellezza toscana’; VILLANI 1999, pp. 51-52; Basilicata 2004, p. 88; Basilicata e Calabria 2005, p. 236. 128 Cfr. VILLANI 1999, p. 52. 129 Cfr. MEZZINA 1977, p. 91; VILLANI 1999, p. 51; Basilicata 2004, p. 88. 137 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 45. SS. Trinità. A sinistra affresco del Santo Vescovo o San Nicola; a destra affresco della Madonna con Bambino (foto G. CIRSONE). il viso sofferente e le mani protese verso il Figlio, e S. Giovanni, ritratto con un abito verde ed un manto chiaro, nell’atto di strapparsi le vesti dal dolore130 [vedi Fig. 44]. Coevo ai precedenti è anche l’affresco del Santo Vescovo o S. Nicola, ritratto sullo stesso pilastro della S. Caterina; la figura è frontale e ieratica, con la mano destra che benedice ‘alla latina’, e la sinistra che regge il pastorale; il santo indossa i segni dell’ordine episcopale, la dalmatica, il pallium, la pianeta e la mitra.131 Un po’ più tarda è invece una Madonna con Bambino, effigiata sul primo pilastro di destra della navata centrale; Maria, dalla carnagione rosea e con gli occhi castani, indossa una veste ed un velo marroni bordati di bianco; il Bambino invece sta in piedi sulle ginocchia della Madre, con indosso un abito trapunto di stelle e lo sguardo rivolto verso il viso di Lei132 [Fig. 45]. Probabilmente al XIV secolo si può datare una Madonna in trono con Bambino e Santo Vescovo, fatta eseguire dal priore Felice Berardi, secondo quanto dice l’iscrizione soprastante; l’affresco è molto rovinato, ma si distinguono ancora la Madonna, seduta su un trono con il Bambino nudo e nimbato in piedi sulle ginoc130 Cfr. MEZZINA 1977, pp. 85-86; VILLANI 1999, p. 51; Basilicata 2004, p. 88; Basilicata e Calabria 2005, p. 236. 131 132 Cfr. MEZZINA 1977, p. 84; VILLANI 1999, p. 52. Cfr. MEZZINA 1977, p. 93; VILLANI 1999, p. 52. 138 Giacomo Cirsone Figura 47. SS. Trinità. ‘Atrio’ della chiesa vecchia: affresco raffigurante S. Cristoforo con Gesù Bambino (foto G. CIRSONE). Figura 46. SS. Trinità. Affresco raffigurante la Madonna in trono con Bambino e Santo Vescovo, fatta eseguire dal priore Felice Berardi (foto G. CIRSONE). chia della Vergine; a sinistra si nota un personaggio maschile nimbato con i paramenti episcopali, ed è probabile che anche sul lato destro ci fosse una figura simile a fare da pendent alla composizione; a causa del pessimo stato di conservazione, l’affresco è ridotto quasi allo stato di sinopia133 [Fig. 46]. Il programma decorativo della chiesa, intrapreso nel secolo precedente, continua anche nel XV secolo, con la realizzazione di nuovi affreschi negli spazi e sulle superfici ancora liberi.134 Nel cosiddetto ‘atrio’ della chiesa, alla sinistra del portale del Magister Palmerius, viene realizzato un affresco raffigurante S. Cristoforo con in braccio Gesù Bambino, che doveva avere funzione di buon augurio per il viaggio di ritorno dei pellegrini (pro reditu)135 [Fig. 47]. 133 Cfr. MEZZINA 1977, p. 93. Cfr. MEZZINA 1977, p. 82; BERTAUX 19912, p. 53. 135 Pellegrinaggi, seppure in forma minore, dovettero continuare ancora a lungo, soprattutto se si tiene presente che dal 1313, è attestata in una lettera di Roberto I d’Angiò (1309-1343) al balivo della SS. Trinità, una fiera che si svolgeva il giorno dell’Ottava di Pentecoste, giorno in cui ricorre la festa della SS. Trinità; la fiera si teneva ex antiqua consuetudine ante fores Ecclesie Sancte Trinitatis domus hospitalis, cioè davanti alla Foresteria, ancora fino a qualche decennio fa’, attirando pellegrini anche da aree lontane come Abruzzo e Calabria (cfr. BORDENACHE 1937, p. 72; MEZZINA 1977, p. 71); sul San Cristoforo, cfr. MEZZINA 1977, pp. 81-82; Basilicata e Calabria 2005, p. 87. 134 139 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (II parte) Figura 48. SS. Trinità. Cripta medievale: brano di affresco raffigurante San Giorgio che uccide il drago, databile al XV secolo (foto G. CIRSONE). L’uso, o almeno la praticabilità della cripta, devono essere continuati almeno per alcuni decenni ancora nel XV secolo, data la presenza di un brano di affresco frammentario raffigurante S. Giorgio che uccide il drago; il soggetto scelto, ritratto in armatura da cavaliere, si addice perfettamente ai nuovi detentori della chiesa, dato che il santo è patrono della cavalleria per antica tradizione. Non sembra possibile prolungare ulteriormente l’uso della cripta oltre la realizzazione di questo affresco, che quindi si deve considerare dismessa completamente [Fig. 48]. All’interno della chiesa è attribuibile al XV secolo una serie di affreschi, raffiguranti una Madonna con Bambino, sul primo pilastro di sinistra della navata centrale, ed il gruppo di affreschi raffiguranti S. Paolo, S. Stefano, S. Vito e S. Antuono, attribuiti per tangenze stilistiche dalla critica alla stessa mano136 [Fig. 49]. L’affresco di S. Vito, per la posa, la delicatezza del tratto ed il banco di colore giallo alla base della figura, richiama il fondo dorato visibile dietro le gambe del S. Giorgio effigiato all’interno della cripta, e ciò fa propendere per una realizzazione per lo meno coeva, se non attribuibile ad una stessa mano; un elemento ulteriore a favore di questa ipotesi è la somiglianza tra la decorazione ad arabesco sul drappo che fa da sfondo all’adiacente affresco di S. Antuono, e la decorazione a motivi vegetali che si trova sull’arco della cripta, adiacente al S. Giorgio [vedi Figg. 48-49]. 136 Sulla Madonna con Bambino, cfr. MEZZINA 1977, pp. 83-84. Sugli affreschi dei santi, cfr. MEZZINA 1977, pp. 82-83, 86-87, 93; VILLANI 1999, p. 51; Basilicata 2004, p. 88. 140 Giacomo Cirsone Figura 49. SS. Trinità. Affreschi di XV secolo: in alto a sinistra, San Paolo; a destra Santo Stefano; in basso, San Vito a sinistra e Sant’Antuono a destra; questi ultimi due affreschi hanno subito un distacco conservativo per esigenze di restauro (foto G. CIRSONE). 141 142 Francesco Altamura Un corporativismo sfocato. Sguardo dalla periferia a Il corporativismo fascista di Alessio Gagliardi di Francesco Altamura Avvicinarsi alla pubblicazione di Alessio Gagliardi per la collana Quadrante della Laterza1 attraverso la lente degli studi sulla dimensione locale del fascismo, eleggendo quale contesto atto a testare la tenuta della proposta interpretativa quello definito da categorie interne a una prospettiva analitica focalizzata sui rapporti dialettici che intercorrono tra centro e periferia e innervano le articolazioni dello Stato totalitario, prefigura la possibilità di scandagliare un vasto terreno concettuale in cui troviamo saldate le finalità dichiarate della ricerca, le premesse teoriche da cui questa muove, la preferenza accordata ad alcune fonti piuttosto che ad altre. Introducendo il lavoro, l’autore definisce la sua «una ricostruzione volutamente incentrata sul funzionamento generale del sistema più che sulle ricadute minute»2, ed è rimanendo all’interno di questo campo visuale, privilegiando l’osservazione di ingranaggi e meccanismi così da non perder di vista le evoluzioni e i mutamenti nella fisionomia istituzionale, che appare plausibile avviare una discussione in merito ai gangli dell’architettura corporativa considerati nevralgici dall’autore, ai passaggi da questi ritenuti periodizzanti nell’incessante processo di autoriforma di organi e apparati, ai soggetti i cui nuclei documentari sono parsi significativi ai fini dell’indagine condotta. Se nel primo capitolo Gagliardi provvede a collocare il dibattito italiano sul corporativismo nella temperie culturale di un’Europa postbellica in cui si consuma, guidata massimamente da giuristi, la riflessione sui limiti manifesti delle forme statuali dell’epoca liberale, uscite stravolte dalle tensioni prodotte nelle società nazionali dalla instaurazione delle economie di guerra, e nel secondo vengono ripercorse - assimilato l’impareggiabile apporto conoscitivo fornito da Alberto Aquarone - le tappe de L’organizzazione dello stato totalitario3 con riguardo alle forme associative di lavoratori e imprenditori, è soprattutto dal terzo capitolo che giungono al pettine 1 2 3 Alessio GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, Roma-Bari, Laterza, 2010. GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. IX. Alberto AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 2003³. 143 “Il corporativismo fascista di Alessio Gagliardi” i nodi dal cui scioglimento poter dipanare una riflessione su questioni quali la disponibilità delle fonti documentarie, l’esplicitazione dei presupposti interpretativi della ricerca, i problemi connessi alla periodizzazione delle vicende analizzate. Una prima serie di osservazioni è indotta dalla scelta dell’autore di limitarsi a liquidare in nota un contributo, quello di Domenico Preti4, rimasto ineguagliato nella sua capacità di restituire, con elevato grado di dettaglio, i caratteri dell’intelaiatura istituzionale delineatasi con la legge 3 aprile 1926 sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, e cassato da Gagliardi, con analisi lapidaria, come «lettura del sindacalismo fascista incentrata sulla sola dimensione repressiva»5. Diversamente, la sollecitazione di Preti a «penetrare più a fondo i problemi della struttura organizzativa» delle istituzioni corporative, soffermando l’attenzione su «criteri di selezione del personale, consistenza ed organigrammi, “rotazioni”, stipendi, bilanci delle singole organizzazioni»6 indicava una prospettiva di lavoro che potesse recuperare, sulla base di un esame delle risorse materiali (finanziarie, immobiliari) e immateriali (esperienza dei quadri dirigenti, preparazione di quelli periferici) a disposizione degli organismi sindacali, l’effettiva consistenza degli spazi di agibilità politica e di operatività di cui questi riuscivano a disporre nel confronto con la controparte padronale, tanto nel campo della contrattazione collettiva, quanto in quelli relativi al rispetto dei patti di lavoro, all’applicazione della legislazione sociale, alla gestione degli enti mutualistici. Elementi che Gagliardi trascura di indagare, restringendo il proprio campo di osservazione sulle dinamiche relazionali intercorrenti tra la dirigenza sindacale, il Consiglio nazionale delle corporazioni e, al suo interno, il Comitato corporativo centrale, per questa via scegliendo di testare l’incidenza del sindacato nel solo ambito dell’attività istituzionale condotta da soggetti dimostratisi marginali nello sviluppo dei processi decisionali, renitenti ad avvalersi delle attribuzioni normative loro affidate e scarsamente tenuti in considerazione quando anche si limitarono all’esercizio di funzioni consultive7. Una seconda serie di osservazioni, inerente il vaglio dei soggetti istituzionali rilevanti ai fini della ricerca, concerne l’individuazione dei nuclei documentari disponibili. Nel testo di Gagliardi tale connessione non viene approfondita8, sebbene la produzione storiografica sul corporativismo risulti pesantemente condizionata, 4 Domenico PRETI, Per una storia del sindacalismo fascista negli anni Trenta, in ID., Economia e istituzioni nello stato fascista, Roma, Editori Riuniti, 1980. 5 GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 168. 6 PRETI, Per una storia del sindacalismo fascista negli anni Trenta, cit., p. 263. 7 «Tutta la politica economica svolta in quegli anni cruciali dal fascismo venne predisposta ed attuata prescindendo completamente dalle discussioni e dal parere del consiglio nazionale delle corporazioni, che per esempio non fu neppure interpellato quando si trattò di creare organismi dell’importanza dell’IRI o dell’Istituto mobiliare italiano». AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., p. 193. 8 Le sole considerazioni riservate al tema si esauriscono nella constatazione della «lacunosità delle fonti a disposizione dello storico (sono infatti andati persi molti archivi degli organi corporativi, del ministero delle Corporazioni e dei sindacati fascisti)». GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. XII. 144 Francesco Altamura tanto nella traiettoria tracciata dai sentieri maggiormente battuti dagli storici quanto nei ritardi accumulati complessivamente negli studi, dalle vicende relative alla dispersione degli archivi del ministero delle Corporazioni avvenuta durante il secondo conflitto mondiale9. La preminenza accordata da Gagliardi prima alla dialettica interna al Consiglio nazionale delle corporazioni, poi alle discussioni condotte in seno ad alcune delle corporazioni varate nel 1934, non può che risentire di questi vuoti e rinviare alla difficoltà ampiamente riconosciuta di individuare complessi documentari che riescano a colmarli. Relegando però sullo sfondo questi nodi problematici, che restano ben ai margini della trattazione, l’effetto prodotto è di elevare a paradigmi interpretativi quelle che possono a ragione considerarsi opzioni di ricerca la cui incrinatura ineluttabilmente riflette le crepe archivistiche che si aprono sotto i piedi dello studioso che intenda inoltratosi nei territori della ricerca sul corporativismo. È in relazione a queste difficoltà oggettive che gli studi locali sul fascismo, in primo luogo capitalizzando la mole di documenti prodotta dagli apparati periferici dello Stato, che, nel caso degli studi sulle istituzioni corporative e sui sindacati fascisti, rimane scarsamente esplorata, possono concorrere a determinare un avanzamento significativo dello stato delle conoscenze. Su base provinciale, infatti, plurimi sono agli attori istituzionali la cui documentazione racchiude un potenziale conoscitivo tuttora poco scandagliato: per quanto concerne i fondi documentari delle prefetture, oltre le relazioni periodiche riflettenti la situazione sindacale e i fascicoli personali di dirigenti e quadri periferici delle unioni provinciali - tipologie, queste, conservate nei carteggi di gabinetto -, materiale riguardante la gestione finanziaria degli organismi sindacali sono presenti nelle serie amministrative. Ancora, la parte più propriamente politica del materiale conservato nei fondi delle federazioni provinciali del PNF illumina le relazioni che a livello locale si istaurano tra gerarchie del partito, gruppi padronali e burocrazie sindacali, mentre le serie archivistiche degli ispettorati corporativi, oltre a conservare copia dei contratti collettivi stipulati, costituiscono fonte preziosa per appurare la reale applicazione della legislazione sul lavoro in materia previdenziale e assistenziale. Infine, i complessi documentari prodotti dai consigli provinciali dell’economia corporativa, che raccolgono tipologie plurime di atti e carteggi riflettenti l’andamento complessivo dell’economia in provincia, rappresentano un punto d’osservazione privilegiato del processo con cui progressivamente le articolazioni statali si prestano a esercitare in periferia funzioni di controllo, coordinamento e mediazione in ambito produttivo, con un’accelerazione sostanziale coincidente con la svolta autarchica. 9 Per un quadro delle dispersioni riguardanti i corpi documentari prodotti dalle direzioni generali del ministero e dagli organi centrali delle confederazioni sindacali: Ferdinando CORDOVA, Le origini dei sindacati fascisti, Torino, Einaudi, 1974, p. 89; PRETI, Per una storia del sindacalismo fascista negli anni Trenta, cit., pp. 262-3; le considerazioni di Tranfaglia contenute in Louis R. FRANCK, Il corporativismo e l’economia dell’Italia fascista, a cura di Nicola TRANFAGLIA, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. X; Gianpasquale SANTOMASSIMO, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Roma, Carocci, 2006, p. 101. 145 “Il corporativismo fascista di Alessio Gagliardi” Chiaramente, le sollecitazioni a riservare la dovuta attenzione alla documentazione prodotta dagli enti periferici dello Stato non sono disgiunte dalla consapevolezza che la premessa per il conseguimento di reali progressi sul fronte delle acquisizioni conoscitive è che le ricerche locali non siano condotte in condizione di isolamento, ma possano avvalersi di strumenti di raccordo e di condivisione che, come già Marco Palla suggeriva in un saggio del 1991, contemplino anche «la possibilità di costituire vere e proprie banche dati, cronologie, apparati sinottici»10. La necessità di capitalizzare l’elevato grado di dettaglio che caratterizza gli studi locali sul fascismo risponde alla duplice convinzione che automatismi e meccanismi su cui si impernia il regime totalitario di massa sono proficuamente descrivibili dalla periferia, e che, proprio servendosi di un tale punto d’osservazione, è possibile approntare modelli di funzionamento che ambiscano ad avere validità euristica di carattere generale, anche, ovviamente, per quel che concerne gli studi sull’ordinamento corporativo. È facendo ritorno, su questi presupposti, al lavoro di Gagliardi, che ci sembra di poterne cogliere le sfocature che attengono alla formulazione di un paradigma interpretativo carente di elementi di riscontro che lo aggancino al funzionamento concreto degli istituti e degli organismi presi in esame. Venuto meno questo nesso, l’autore si ritrova a esprimere giudizi e valutazioni che al più paiono riflettere le aspirazioni espresse dalla burocrazia ministeriale. Accade, ad esempio, che agli ispettorati corporativi venga attribuita la capacità di «esercitare un pieno controllo sull’effettiva applicazione degli accordi [di lavoro] e sull’intera attività dei sindacati»11, piuttosto improbabile considerata l’assoluta inadeguatezza degli organici di fronte al proliferare degli adempimenti derivanti dall’espandersi della legislazione in materia previdenziale12. Ancora, con 10 Marco PALLA, La presenza del fascismo. Geografia e storia quantitativa, in «Italia contemporanea», 1991, n. 194, p. 399. 11 GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 51. 12 Per quanto riguarda la situazione in Puglia e Lucania con riferimento ai rapporti di lavoro in agricoltura, con soli tre ispettori incaricati di reprimere le infrazioni su di un territorio che ricade sotto la giurisdizione di ben sette unioni provinciali, non è da meravigliarsi che il Circolo dell’Ispettorato di Bari, dapprima, nel gennaio 1940, comunichi al ministero l’ineluttabile riduzione, nella conduzione dell’attività di vigilanza, delle ispezioni ordinarie (cui si cerca di sopperire incrementando gli accertamenti straordinari), e alcuni mesi dopo, in luglio, denunci la strutturale inadeguatezza dei propri organici nell’assolvimento della mole di lavoro connessa agli incarichi istituzionali attribuitigli: «le relazioni tra l’ufficio e le organizzazioni sindacali sono normali nella forma ma non nella sostanza. Infatti quelle tra l’ufficio e le Unioni dei Lavoratori non sono soddisfacenti: causa principale e forse unica di questa situazione è la insufficiente attrezzatura di questo ufficio per cui pratiche effettivamente urgenti o considerate tali dalle Unioni dei Lavoratori vengono trattate con grande ritardo e dopo ripetuti solleciti. […] Le Unioni - pressate dai lavoratori inquadrati - […] insistono per ottenere l’immediato intervento di questo Ispettorato in tutti i casi - purtroppo troppo frequenti - di infrazione alle leggi sul lavoro ed in modo speciale ai contratti collettivi. In effetti è avvenuto che in un momento in cui, per ovvie ragioni, sarebbe necessario intensificare la vigilanza sulla applicazione delle leggi sul lavoro e dei contratti collettivi, e mentre il numero delle disposizioni di legge e di contratto riguardo l’assistenza dei lavoratori e delle loro famiglie aumenta quasi giornalmente, il personale ispettivo è diminuito». Archivio di Stato di Bari, Ispettorato Provinciale del Lavoro, b. 23 «Relazioni mensili sulla situazione economica della regione (1937 - 1944)». 146 Francesco Altamura riguardo alla volontà di un ricambio della dirigenza sindacale, manifestata sul finire degli anni Venti dal ministro Bottai, la rilevanza attribuita dall’autore all’istituzione di scuole sindacali incardinate nelle facoltà giuridiche dei maggiori atenei13 non è suffragata da un accertamento dei dati relativi alle iscrizioni registrate presso tali corsi, che, ad esempio, per quanto riguarda l’Università di Bari - unica, con Napoli, nel Mezzogiorno peninsulare, ad aver istituito una Scuola di Perfezionamento in Studi Corporativi -, furono disertati dai fiduciari sindacali, destando l’insoddisfazione delle gerarchie locali del PNF. D’altra parte, da un esame dei quadri dirigenti provinciali espressi dalla Confederazione Agricoltura in Puglia e Lucania, facilmente si rileva come ancora nella seconda metà degli anni Trenta quelli tra i dirigenti che, con alle spalle un percorso di formazione universitario, non avevano, per ragioni anagrafiche, esperienze pregresse rispetto alla trafila condotta nella burocrazia sindacale fascista, erano vere mosche bianche14, rimanendo ancora affidata l’ossatura periferica della Confederazione a ‘diciannovisti’, ex legionari fiumani, sindacalisti di formazione corridoniana o con trascorsi socialisti, personale insomma il cui battesimo politico si era consumato a cavallo del primo conflitto mondiale. La difficoltà a proporre un’analisi delle riforme varate in campo sindacale che ne valuti la ricezione e l’effettiva applicazione da parte degli apparati ministeriali, emerge anche in relazione alle considerazioni espresse in merito alla riforma degli uffici di collocamento del 1934: Gagliardi, che focalizza l’attenzione sullo scontro tra PNF e dirigenza sindacale per il controllo di questi organismi15, trascura le ricadute concrete del nuovo ordinamento, che, con l’istituzione di un ufficio unico di collocamento per provincia, lavora a sottrarre autonomia operativa ai segretari delle unioni dei lavoratori, costretti a cedere prerogative di controllo sulla periferia dell’organizzazione ad una catena di comando che, passando per la figura del collocatore unico provinciale, risponde ora direttamente al prefetto16. Un’ultima serie di osservazioni va riservata a quello che sembra configurarsi quale fattore di deformazione prospettica non secondario nel determinare alcune sfasature di periodizzazione: la preminenza riservata da Gagliardi all’analisi delle relazioni industriali, tradotta in un’attenzione pressoché esclusiva per l’organizza13 GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 64. Si tratta di Mambrino Zaccaria, classe 1906, dottore in scienze agrarie, nel novembre 1935 designato segretario dell’Unione provinciale di Potenza; di Antonio Giannelli, classe 1904, dottore in scienze economiche e commerciali, cui nel 1940 è affidata la segreteria dell’Unione di Matera; di Daniele Prinzi, classe 1903, dottore in scienze agrarie, segretario dell’Unione di Taranto tra l’ottobre del 1938 e il giugno 1941, nel dopoguerra Direttore Generale della Sezione Speciale per la Riforma Fondiaria in Puglia, Lucania e Molise. 15 GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 102. 16 Indirettamente, a riprova dello spostamento di competenze concretatosi con la riforma del 1934, sta il giudizio unanimemente negativo, espresso dai prefetti di Puglia e Lucania nel 1938, in merito all’ipotesi, formulata dal ministero delle Corporazioni e poi condotta in porto, di affidare alle unioni provinciali dei lavoratori i servizi di collocamento della mano d’opera, sopprimendo gli uffici unici provinciali. 14 147 “Il corporativismo fascista di Alessio Gagliardi” zione degli interessi in tale settore, non lascia spazio ad un esame dei rapporti di lavoro in agricoltura. Ne risulta alterata la realtà dei rapporti di produzione tra le due guerre, con particolare effetto distorsivo per quel che attiene il Mezzogiorno: se nel paragrafo su Politiche sociali e legislazione de lavoro è collocata all’inizio degli anni Trenta la svolta per cui nel settore previdenziale e assistenziale «le rappresentanze dei lavoratori trovarono una nuova ragion d’essere nella costruzione di un sistema di tutele più avanzato»17, la realtà del comparto agricolo attesta che fu necessario attendere il 1936 per la costituzione delle casse mutua malattia provinciali e il 1937 per l’erogazione degli assegni famigliari di disoccupazione, con prestazioni che in entrambi i casi nelle regioni meridionali risultarono gravemente compromesse prima dalla strategia padronale di evasione contributiva, poi dall’ingresso del Paese in guerra. Fuorvianti anche alcune considerazioni espresse a margine dell’istituzione dell’Infail nel 1933: «l’ammissione alla tutela dei soli lavoratori dell’industria, privata e pubblica, e l’esclusione dei lavoratori agricoli o dei trasporti derivava - secondo l’autore - dal dato oggettivo che la quasi totalità degli infortuni si concentrava nell’industria»18. Semmai, per inverso, un indice della pesante condizione di subalternità in cui il regime sospingeva milioni di lavoratori della terra è dato dalla scelta dell’establishment corporativo di non opporsi, almeno fino alla metà degli anni Trenta, alla sistematica deregolamentazione dei rapporti di lavoro efficacemente perseguita dal padronato, cui era concesso di disporre liberamente della manodopera senza che la burocrazia ministeriale riuscisse a esercitare tipiche funzioni statuali di controllo della legalità riguardanti la tutela del lavoro e il rispetto della legislazione assistenziale e previdenziale. Di qui, anche, la mancanza di apparati idonei e di risorse adeguate ad esperire funzioni ispettive nelle campagne, abbandonate ad una individualizzazione feroce dei rapporti di lavoro. È da rilevare infine come la preminenza accordata, nell’economia complessiva del lavoro, al nodo delle politiche industriali, diventi ancor più marcata quando l’autore volge l’attenzione alla riconfigurazione degli assetti produttivi conseguenti alla svolta autarchica: ne restano del tutto espunte però le tensioni cui pure il comparto agricolo è sottoposto. Queste, ricomposte sul versante padronale con la costituzione dei consorzi agrari obbligatori nei quali è ribadita ed esasperata la subalternità di piccoli e medi coltivatori alla grande proprietà, precipitano in una crisi irreversibile col fallimento della politica degli ammassi. Attorno a questa infatti si aggrovigliano frizioni che, esacerbatesi negli anni del conflitto, sanciscono al contempo l’ineluttabilità di una fuoriuscita liberista, il riemergere prepotente della conflittualità sociale, il collasso degli istituti preposti a imbrigliare le economie locali in funzione dello sforzo bellico: sull’onda del rialzo dei salari dovuto alla carenza di braccia per le partenze al fronte, i produttori, se da un lato, con la pre17 18 GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 98 GAGLIARDI, Il corporativismo fascista, cit., p. 97 148 Francesco Altamura cettazione forzosa della manodopera, invocano la presenza dello Stato, dall’altro lo rifuggono, non trovando convenienti i conferimenti da effettuare agli ammassi a prezzi calmierati; le derrate, così imboscate, alimentano un mercato nero progressivamente più pervasivo, senza che gli apparati preposti riescano a reprimere infrazioni divenute norma. I contorni dell’eclissi di quello che Santomassimo ha definito il “mito del corporativismo” ricalcano dunque, nelle provincie del Mezzogiorno, quelli del manifesto fallimento dei piani autarchici in agricoltura, la cui storia si inscrive nell’inesorabile sgretolarsi, sotto i colpi delle contingenze belliche, dell’edificio corporativo. 149 150 Alessandro de Troia Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata nella transizione svevo-angioina di Alessandro De Troia Sono molti anni ormai che diversi studiosi del periodo medievale si occupano delle vicende susseguitesi in Capitanata e a Lucera, riportando alla luce frammenti di storia locale andati dimenticati offrendo al territorio una importante rivalutazione di tale epoca storica. Nello specifico, Lucera ha ricevuto particolari attenzioni dovute alla famosa colonia di Saraceni trasferiti nel Tavoliere da Federico II di Svevia dal 1223.1 Poco si è scritto, invece, sui personaggi e i fatti facenti parte della microstoria locale, probabilmente a causa delle numerose lacune documentarie del periodo federiciano. Proprio per tale motivo, si è creato un cono d’ombra anche su una serie di insediamenti limitrofi a Lucera di cui scarse sono state le notizie storiche raccolte per il periodo svevo.2 Fortunatamente, l’immensa mole documentaria costituita dai registri angioini3 permette di ricostruire, seppur in maniera frammentaria, non solo le vicende del primo periodo angioino, ma anche tutto il momento di transizione dall’ultimo svevo a Carlo I, consentendo, a chi fosse interessato, di riscoprire il quadro generale e particolare di tutta una serie di avvenimenti e notizie rimaste segnate nei diplomi. In questo scritto si vuole mostrare come, attraverso l’analisi della documen- 1 Tra i più completi e puntuali: PIETRO EGIDI, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, 1912 e JULIE TAYLOR, Muslims in medieval Italy. The Colony at Lucera, Lexington Books, 2005 2 È il caso, per citarne alcuni, di Castelnuovo della Daunia (vedi PASQUALE CORSI, Castelnuovo della Daunia nel Medioevo, Regione Puglia, 1999, da ora sigl. Castelnuovo), Pietramontecorvino, Montecorvino (vedi SALVATORE SAVASTIO, Notizie stanche sull’antico città di Montecorvino di Puglia e sul borgo di Serritella, Pozzuoli, 1940), Alberona (vedi GAETANO SCHIRALDI, Storia di Alberona, dalle origini al XIX secolo, 2008), San Marco la Catola (leggo addirittura sul sito del Comune che “molto incerte sono le vicende che caratterizzano il paese nell’epoca sveva, non si hanno documenti o altre testimonianze che provino il casato allora vigente”) e tanti altri luoghi (si rimanda a Capitanata Medievale, a cura di MARIA STELLA CALÓ MARIANI, Claudio Grenzi Editore, Foggia, 1998 e a GHISLAINE NOYÉ, JEAN MARIE MARTIN, La Capitanata nella storia del Mezzogiorno medievale, Società di Storia Patria Bari, 1991). 3 I registri della cancelleria angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri con la collaborazione degli Archivisti napoletani. Napoli, Accademia Pontaniana, 1950 - (da ora sigl. Registri della cancelleria). 151 Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata tazione superstite del periodo svevo e primo angioino, si possa iniziare un serio percorso di studi volto alla messa in luce di aspetti finora poco considerati. In particolare si vogliono ripercorrere gli equilibri feudali della Capitanata durante il XIII Secolo e presentare un esempio dell’impiego della documentazione rimasta inesplorata, poiché intrecciata tra atti locali meno noti e testimonianze più approfondite. È il caso di Guglielmo de Parisio, di cui molti si sono occupati,4 senza mai però riuscire a delineare un quadro completo di questo personaggio protagonista della storia locale pugliese. Il contesto storico nel quale si inserisce è rappresentato dal periodo in cui Corradino di Svevia, sceso nel Regnum durante l’autunno del 1267, rivendica la corona di Re di Sicilia detenuta da Carlo I d’Angiò, incoronato a Roma nel giorno dell’Epifania del 1266 e vincitore su Manfredi di Svevia a seguito della Battaglia di Benevento avvenuta il 26 febbraio del 1266. Il primo documento, datato 5 aprile 1268, in cui Guglielmo è presente, è la bolla di scomunica diretta a Corradino e ai suoi fautores redatta da Papa Clemente IV,5 non ultimo tra i numerosi anatemi lanciati contro i filo svevi.6 Willhelm de Parisius è definito complice dello svevo, nonché alla testa della ribellione dei Saraceni di Lucera, così come è confermato in uno stralcio della cancelleria angioina.7 La rivolta prese piede in tutto il Regno di Sicilia mentre Carlo era in Toscana8 per tessere rapporti con la fazione guelfa. I Saraceni di Lucera, che in un primo momento avevano fatto buon viso a cattivo gioco nei confronti dell’angioino, consegnando dodici ostaggi e rimettendosi alla sua clemenza, decisero di rinnovare la loro fedeltà per la causa ghibellina, mettendo a ferro e fuoco il circondario costringendo il Re a precipitarsi nelle sue terre.9 Il 20 maggio 1268 Carlo iniziò l’assedio alla colonia musulmana, ponendovi fine il 12 giugno, quando deciderà di portarsi verso Corradino per la battaglia di Tagliacozzo, scontro che decreterà le sorti dell’odierna Italia meridionale il 26 agosto 1268.10 Alla notizia della sconfitta, nonché della cattura di Corradino, le forze ribelli, con alta proba4 Il primo ad occuparsene fu il Del Giudice nel suo Codice Diplomatico (GIUSEPPE DEL GIUDICE, Codice Diplomatico del Regno di Carlo I e II d’Angiò – Volume 2 parte 1, Napoli, 1869, da ora sigl. Codice Diplomatico) in una nota di un documento relativo alla cattura dei ribelli in terra d’Otranto (vedi pag. 315, nota (a) ). Di seguito si elencano altri studi che accennano a Guglielmo de Parisio: PIER FAUSTO PALUMBO, Terra d’Otranto tra gli Svevi e gli Angioini in« Archivio Storico Pugliese» XI 1958, pag. 79, nota 3 PIER FAUSTO PALUMBO, Manfredi Maletta gran camerario del Regno di Sicilia. Con regesto degli atti (1255-1310), Le Edizioni del Lavoro, 1980, pag. 139 EDUARDO GEMMINNI, La Luceria Saracenorum ed i luoghi della memoria: il “Castrum Sancti Iacobi” in Luceriae Historia, www.ilfrizzo.it, 2007 5 Monumenta Germaniae Historica. Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum (da ora sigl. MGH. Epistolae) 3, pag. 698 6 Idem, pag. 714 in cui compare nuovamente Guglielmo de Parisio 7 “Quondam Guillelmus de Parisio proditor cum Saracenis Luceriae”. G. Del Giudice, Codice Diplomatico 2.1, pag. 42 8 Codice Diplomatico 2.1, pag. 83 9 Codice Diplomatico 1, pag. 304 10 Codice Diplomatico 2.1, pag. 152 152 Alessandro de Troia bilità, subirono un duro colpo psicologico poiché videro svanire l’emblema della lotta contro il Papato e l’invasore angioino. A Lucera la ribellione continuò per i 12 mesi successivi, stremati dalla fame i saraceni e gli ultimi ghibellini rimasti si consegnarono al Re intorno al 27 agosto 1269.11 È ipotizzabile, però, che i capi della rivolta intrapresero la via del mare, forse verso Brindisi o Gallipoli, così come riporta il Liber Regiminum Padue,12 secondo cui il «dominus Gulielmus Paris13 aufugit, et apud Brundusium galeam est ingressus, cupiens ire in Greciam. Denique rediit, et captus fuit suspensus». La conferma della cattura e della successiva esecuzione capitale è inserita in diversi documenti della curia angioina. Nel resoconto di Gualterius de Summarosa,14 giustiziere di Terra d’Otranto, apprendiamo che dall’8 luglio 1268 fino al 15 ottobre 1269, si susseguirono la presa dei ribelli fuggiti e la caduta di Gallipoli - che avvenne l’8 maggio 1269 - con numerose notizie sui beni ricavati tra cui armi, vestiti, suppellettili e altro trovati in mano ai proditores. Tra questi, il primo ad essere segnalato è proprio Guglielmo de Parisio, di cui Carlo avrà notizia della morte non prima del gennaio 1269,15 in concomitanza alla sua confessione ritenuta dall’angioino tanto importante da comunicarne l’avvenuta ricezione al giustiziere di Terra d’Otranto.16 Presumibilmente il malcapitato, per sfuggire ai supplizi o in preda al dolore, riferì fatti interessanti circa la ribellione nel Regno. Intanto, Carlo inviava mandati a tutti i giustizieri, al fine di raccogliere e incamerare tutti i beni posseduti dai traditori. Secondo tali registri,17 Guglielmo deteneva territori in Capitanata e Basilicata che 11 Codice Diplomatico 3, pag. 124, nota 1. Sull’argomento chi scrive ha intenzione di esaudire il desiderio di Del Giudice di una monografia relativa ai due assedi della città di Lucera ad opera di Carlo I inserendo anche spunti di archeologia sperimentale coadiuvato da Michele Giardino, laureando in Archeologia presso l’università di Foggia. Allo stato dell’arte sono stati raccolti oltre 300 tra documenti, stralci di cronache e trascrizioni di regesti che saranno la base di partenza per un accurato studio sull’argomento. 12 Liber Regiminum Padue, in Rerum Italicarum Scriptores, VIII, Città di Castello, 1904, pag. 330 APPENDICE III 13 A mio avviso nella sua dissertazione Pier Fausto Palumbo individua a ragion veduta nel “Gulielmus Pacis” della cronaca il Guglielmo de Parisio pugliese. 14 Codice Diplomatico 2.1, pag. 311 15 Idem, pag. 315 su cui torneremo più avanti: «Karolus etc. Universis justitiariis. Secretis. Bajulis. Magistris Juratis. Juratis. Judicibus aliisque officialibus per Regnum Sicilie constitutes. Fidelibus suis etc. Cum nos Civitates Castra villas ac omnes terras quas quondam Guillelmus de Parisio proditor noster in Regno nostro tenuit et possedit, cum hominibus vassallis possessionibus ac omnibus juribus et pertinentiis suis Nobili viro Johanni Britando militia dilecto Consiliario familiari et fideli nostro suisque heredibus utriusque sexus de speciali gratia duximus concedendas fidelitati vestre firmiter precipiendo mandamus quatenus ad requisitionem Gerardi donemarie militis procuratoris ejusdem Johannis Britandi. Victualia animalia et alia hujusmodi bona mobilia se seque moventia predictarum terrarium que per privatas detinentur personas. Inquirere et capere et predicto Gerardo ipsius Johannis nomine cui Johanni ea concessimus assignare curetis. Proviso quod ad ea que de bonis hujusmodi massariis nostris applicata jam sunt aut nostris procuratoribus assignata manus ullatenus extendatis. Datum Fogie XXIX. Januarii XII Indictionis». 16 “Noveris preterea quod recepimus confessionem Guillelmi de Parisio, proditoris nostri, quam olim sub sigillo tuo nostre Curie destinasti […]”. Registri della cancelleria I, p. 313 17 Codice Diplomatico 2.1, pag. 322-323, Registri della cancelleria I, pag. 230 153 Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata furono tutti donati, alla sua morte, a Johanni Britando18 ‘familiare’ del Re. E proprio dall’analisi delle annotazioni contenute nei registri si evincono notizie molto interessanti. Del Britando sappiamo che discese in Italia con l’angioino e fu incaricato Vicario generali in Tuscia19 nonché Comestabulus del Regno,20 fino al 1270 quando fu chiamato da Carlo I a partire con lui verso Tunisi. Dei diversi documenti che ne descrivono le gesta, ci interessa riportare due concessioni ricevute dal Britaud: la prima riguarda pro terra Castelluci, casale Sancti Petri, Dragonara, Sancto Iuliano, Sancto Marco, Lapetra, Cantulana et Casalorda in Capitanata,21 mentre la seconda riguardante Dragonelle, Castellucii et aliarum terrarum.22 A questo punto possiamo ripercorrere il passaggio feudale della zona a nord-ovest di Capitanata idealmente identificata come un poligono aventi vertici individuati tra San Severo(FG) (escluso) a nord-est, Lucera(FG) (escluso) a sud-est, San Marco la Catola (CB) a sud-ovest San Giuliano di Puglia(CB) a nord-est. Si può affermare senza ombra di dubbio che Guglielmo de Parisio era feudatario di tutta la zona e lo conferma una lettera di Papa Alessandro IV indirizzata ad un Ruggero de Parisio,23 che ritengo essere il padre, o comunque, uno stretto familiare di Guglielmo. Riporto di seguito l’intero documento:24 Napoli, 8 Maggio 1255 Nobili viro Rogerio de Parisio, fideli nostro, salutem Matris ecclesie multa benignitas illum circa filios servat pietatis affectum, ut et hiis etc. usque: non repellat. Attendentes igitur quod ad devotionem ipsius ecclesie de tua salute sollicitus rediisti, dulci ac suavi eius dominio humiliter te summittens, ac propter hoc recipientes te in nostram et apostolice sedis gratiam tibique omnes iniurias et offensas, quas nobis et eidem sedi ac ecclesie intulisti, totaliter remittentes, quia volumus te in huiusmodi devotione congruis firmare favoribus et condignis gratiis confovere, tuis supplicationibus inclinati, castrum Castellutii de Scalvis et casale sancti Petri de Castellucio, que iure successionis te obtinere proponis, et concessiones de Dragonaria et casali Plantilliani et de castris sancti Iuliani et Petre 18 Così come stabilito nel documento riportato nella nota 15. Codice Diplomatico 2.2, pag. 34 20 CAMILLO MINIERI RICCIO, Cenni storici intorno i Grandi Uffizii del Regno di Sicilia duranti il regno di Carlo I d’Angiò, Napoli, 1872, pag. 6. Per la figura del Comestabulus si veda Idem, pagina 3. 21 Registri della cancelleria IV, pag. 54 22 Idem, pag. 68 23 Spero, in altra sede, di riuscire a presentare l’intera documentazione relativa a questo Barone di Capitanata al tempo di Federico II e Manfredi. Anche in questo caso, la documentazione permette di analizzarne la figura e i possedimenti inserendolo nel contesto storico della zona. Inoltre questo de Parisio non va confuso con il ramo siciliano della famiglia (vedi ad esempio J. L. A. Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica Friderici II, Tomo 2 parte 1, Parigi, 1852-61, pag. 466). 24 MGH, Epistolae, p. 355 19 154 Alessandro de Troia Montis Corvini a condam Fr. Olim Romanorum imperatore, venditionem quoque et concessionem de castro Clusanum a nobili muliere Gemma consanguinea tua, nec non et concessionem de castro sancti Marci de Catula a condam Conrado predicti Fr. Filio, et de casalibus Casalorde et Bisselleti a nobili viro Manfredo tunc principe Tarentino, tunc pro regni Sicilie balio se gerente, dudum tibi factas – non obstantibus quod dicti Fr. , Conradus et Manfredus erant tunc temporis vinculo excommunicationis astricti, quodque alias facultatem conferendi vel concedendi taliter non hababant – ad instar felicis recordationis I . pape predecessoris nostri [tibi et heredibus tuis] de fratrum nostrorum consilio auctoritate apostolica confirmamus etc. usque: communimus. Et ut tua devotio erga nos et eandem ecclesiam magis crescat, castra et casalia predicta tibi tuisque sub debitis et consuetis servitiis concedimus de gratia speciali, ita quod castra et casalia predicta cum hominibus infeudatis et non infeudatis, silvis, pascuis, terris cultis et incultis, quis aquarumque descursibus, et cum omnibus iuribus, iurisdictionibus et pertinentiis eorundem tu dictique heredes immediate a Romana ecclesia, nullum alium preter ipsam recognoscentes exinde superiorem vel dominum, perpetuo teneatis. Ut autem huiusmodi gratiam reputes gratiorem, scire te volumus, quod nos et eadem ecclesia te et heredes ipsos in possessione predictorum castrorum et casalium manutenebimus, et contra omnes, qui vos super premissis molestaverint, impetierint vel turbaverint, defensione vobis adesse curabimus oportuna, et si aliquem ius in prefatis castris et casalibus habere constiterit, sibi de convenienti concambio in regno Sicilie studebimus providere. Nulli etc. nostre confirmationis et concessionis etc. Dat. Neapoli per manum Guillelmi magistri scolarum Parmensium sancte Romane ecclesie vicecancellarii, VIII Kalendas Maii, indictione XIII, inearmationis Dominice MCCLV. Pontificatus vero domini Alexandri pape IV anno I. Il documento è datato al 1255 e, sebbene sia di circa quindici anni anteriore rispetto ai fatti descritti in precedenza, il riepilogo effettuato nei confronti di Ruggero diventa fondamentale per collegare il passaggio delle terre dalla famiglia de Parisio ai familiares di Carlo. È evidente, infatti, come tra i dieci luoghi elencati nella lettera papale otto di questi vengano assegnati a Johanni Britando, provisio delle terre possedute dal defunto Guglielmo de Parisio (vedi tabella). Con molta probabilità, le terre rimanenti furono donate ad altri provenzali, ma in questa sede si preferisce tralasciare questo aspetto.25 25 Registri della cancelleria III, p. 123 155 Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata De Parisio Britando Riepilogo di Alessandro IV26 Locazione Corrispondenza Petre Montis Corvini Pietramontecorvino (FG) X Castellutti de Sclavis Castelnuovo della Daunia (FG) X Sancti Petri de Castellucio Casalvecchio di Puglia (FG)27 X Casalorde Casalorda, a sud di San Severo (FG) X Dragonaria Dragonara, a ovest di San Severo (FG) X Casali Plantilliani Plantilliano, a nord ovest di Lucera (FG) Castris Sancti Iuliani San Giuliano di Puglia (CB) Castri Clusanum28 Chiusano, in località Gambatesa (CB) Bisselleti Visciglieto, a nord est di Lucera (FG) X Sancti Marci de Catul San Marco la Catola (FG) X X I feudi detenuti dai De Parisio vengono trasferiti a Iohanni Britando dopo la morte di Guglielmo 262728 26 Non vengono riportati tutti i castra, casalia e terre ricevute in donazione da entrambi ma solo quelli che ci permettono di analizzare il filo rosso della situazione feudale nella zona descritta. Ad esempio, il Britando ottiene anche le terre del “domino Gastine Aliani et Guardie”. 27 Castelnuovo, nel capitolo 3. Le testimonianze 28 MARIA TERESA LEMBO, I feudi di Clusanum e Vipera, in Archeomolise n.4, 2010, pag. 44 156 Alessandro de Troia La zona individuata nello studio con indicazione delle località citate Ruggero sembra inoltre feudatario anche per Fiorentino con una donazione attestata nei registri di Innocenzo IV, e datata 1254,29 probabilmente ricevuta a seguito dei suoi servigi durante le dispute tra il papato e Manfredi.30 Sulle terre di Castelluccio de’ Sclavis (oggi Castelnuovo della Daunia) e Pietramontecorvino possiamo risalire fino alla fine del XII secolo e agli inizi del XIII grazie al Catalogus Baronum,31 dove compaiono due Ruggero: il primo32 connestabile per il conte di Civitate delle terre, e il secondo,33 sempre con lo stesso onere, riferibile al barone della lettera di Alessandro IV e probabilmente figlio del primo. A Castelnuovo, in particolare, nel palazzo comunale è presente un’epigrafe,34 di cui ho trovato poche notizie, recante accenni alla famiglia de Parisio (vedi foto). 29 MGH, Epistolae, p. 303 Come tutti i baroni del Regno aveva molto più a cuore i suoi possedimenti piuttosto che le sorti delle sue genti. Le gesta di Federico II Imperatore e dei Suoi Figli Corrado e Manfredi, Nicolò Jamsilla, Ciolfi, 2007, p-194-195 31 ERRICO CUOZZO, Catalogus baronum. Commentario, Fonti per la storia d’Italia, 101**, Roma 1984 32 Idem, §391 33 Idem, §1414 34 Secondo lo studio di Corsi, Castelnuovo apparteneva ai de Parisio intorno al 1155 e il 1167 - anno in cui veniva redatta la prima parte del Catalogus Baronum n.d.a. - quindi si potrebbe risalire anche al periodo normanno indagando sui documenti riferiti a Castelnuovo. 30 157 Guglielmo de Parisio. Un esempio di successione feudale in Capitanata L’epigrafe presente all’interno del cortile del palazzo comunale di Castelnuovo della Daunia. Mutila e danneggiata si riferisce al figlio di Roberto de Parisio che fece erigere l’edificio. Possiamo concludere auspicando un approfondimento sulla zona delineata avendo mostrato come esista un substrato di documentazione, ancora da analizzare e da integrare con i regesti e le carte locali, favorendo la riscoperta degli insediamenti medievali di Capitanata rimasti in ombra. 158 Leonardo Aucello Per una breve riflessione disincantanta sull’Unità d’Italia di Leonardo P. Aucello Nel 1824, dopo il fallimento dei primi Moti carbonari del 1820-21, il poeta Giacomo Leopardi, nella solitudine del natio borgo selvaggio recanatese, completava l’opera Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. In essa, in maniera molto lucida, l’autore confermava l’amara riflessione sull’incapacità degli italiani a diventare una società coesa, una nazione unica e indipendente, ma, soprattutto, un popolo che, dalle Alpi alla Sicilia, riuscisse a formare una sola civiltà e un solo modo di vivere e di pensare. Circa mezzo secolo dopo, il decano dei critici letterari, Francesco De Sanctis, nella sua monumentale Storia della Letteratura Italiana, parlando della poetica di Leopardi, definì il grande recanatese come un “padre della patria”, proprio perché egli fu il primo in assoluto che riuscì a fornire un quadro chiaro e convincente sulla situazione politica di quel tempo attraverso l’analisi realistica sul sentimento nazionale degli italiani di allora che, puta caso, incarna molto quello del popolo italiano di oggi. Nel Discorso sopra ricordato, Leopardi sostiene che gli italiani della sua epoca sapevano vedere le cose anche con uno spirito quasi filosofico, ma, purtroppo, mancava in loro, e manca, forse, tuttora, l’idea di Stato, di Nazione, di popolo unito e compatto, di rispetto delle istituzioni e di chi ci rappresenta: egli notava, insomma, quasi una indifferenza, una diffidenza, un modo disincantato verso le norme statutarie governative; e a motivo di ciò, a suo modo di vedere, difficilmente, il popolo italiano avrebbe mai potuto addivenire a una concreta forma di coesistenza e pensiero unico. Non ci sono, a mio modesto parere, parole più profetiche di quelle leopardiane. Infatti, dopo le affermazioni calzanti e un tantino provocatorie del poeta di Recanati, diversi politici risorgimentali hanno ovunque nutrito una idea pessimistica, alla stregua di quella del Leopardi – ecco perché definito “padre della patria” da De Sanctis – poiché molti di loro non credevano che si sarebbe potuta avverare una identità nazionale sotto tutti i punti di vista, in virtù, soprattutto, della millenaria divisione politica, sociale, culturale ed economica delle varie zone del territorio italiano costituito da piccoli Stati autonomi, in cui la lingua ufficiale di ognuno di essi, non corrispondeva a quella dei grandi poeti, a cominciare dal vulgare toscano di Dante, cioè la lingua italiana colta di sempre, per continuare 159 Per una breve riflessione disincantata sull’Unità d’Italia con il Petrarca, l’Ariosto, l’Alfieri, per arrivare fino al Foscolo, bensì all’idioma popolare di una singola regione, e, quindi, di un singolo Stato. Se si pensa che i Re della dinastia borbonica, a partire da Ferdinando I, soprannominato dai napoletani come il Re Lazzarone, a motivo del suo goliardico carattere popolaresco, parlavano correttamente soltanto il dialetto napoletano. Stessa cosa si può ammettere per duchi e principi sparsi per l’Italia che parlavano e dialogavano nella sola lingua del proprio territorio di sovranità. Per una civiltà così frammentata era difficile allora concepire una italianità comune a tutti i popoli presenti nella Penisola. Tanto è vero che in uno dei capitoli dell’opera autobiografica di Massimo D’Azeglio, primo ministro prima di Cavour del Regno Sabaudo, e genero di Manzoni in quanto marito della figlia più grande, Giulia, intitolata I miei ricordi e pubblicata nel 1867, riportò la frase che sarebbe rimasta celebre nel tempo che diceva: «Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani». Non c’è stata affermazione che, per la sua valenza premonitrice, non abbia avuto tanto successo nei decenni successivi, fino ai giorni nostri, in quanto non solo viene spesso ricordata da studiosi, giornalisti e politici, ma anche perché, secondo tanti, in verità nessuno finora è riuscito “a fare gli italiani”, cioè a considerarli uniti, fiduciosi e credenti nei confronti dello Stato e delle sue prerogative. Ci aveva tentato persino Mussolini, durante il ventennio del Regime, dal 1922 al 1943, ma la sua italianità appariva prevalentemente come una forma propagandistica del suo governo, infarcita più di una pedanteria ritualistica da cerimonia di partito piuttosto che di una volontà possibile e concreta di unificare l’animo nazionale del popolo che lui guidava e su cui direttamente comandava, seppure non fossero ammessi pubblicamente, durante l’era fascista, termini stranieri; tanto è vero che il Duce italianizzò persino il nome di alcuni paesi in francese e in tedesco presenti nella Valle d’Aosta e nel Trentino Alto Adige. Lo stesso Cavour, pur essendo un unitarista convinto dal punto di vista politico-amministrativo, era, invece, molto perplesso che mai si sarebbe portata a compimento una civiltà nazionale dal punto di vista sociale e culturale: infatti, a motivo di questa sua perplessità, spinse e convinse, tuttavia, anche se all’inizio era piuttosto contrario, Garibaldi a preparare una Spedizione nel Mezzogiorno d’Italia, che è passata alla storia come la “Spedizione dei Mille”, per annettere allo Stato piemontese le popolazioni meridionali in cui più che una unità di vedute ci sarebbe stata una piemontesizzazione della politica e dello sviluppo economico e sociale del resto dell’Italia, specialmente del Mezzogiorno. Quindi molto impegno e fede nell’unità amministrativa, ma poca in quella di unione civile e culturale delle diverse estrazioni sociali e territoriali dell’Italia. Tanto è vero che i primi governi del Regno d’Italia, meglio conosciuti come i governi della destra cavouriana, imposero alle popolazioni centro-meridionali delle prospettive diverse da quelle attese, a partire dalla imposizione del pagamento delle tasse, fino allora sconosciuta, basti ricordare la tassa sul macinato, per conti160 Leonardo Aucello nuare con l’obbligo della leva militare, solo per citarne qualcuna delle iniziative del nascente assetto istituzionale. Molti ricorderanno, certamente, il passo del romanzo de I Malavoglia di Giovanni Verga quando Padron ‘Ntoni era molto rammaricato dal fatto che uno dei nipoti doveva partire per militare e che poi morirà nella battaglia navale di Lissa, nel 1866, durante la Terza guerra di Indipendenza. Questo suo rammarico il vecchio capofamiglia lo confidava al farmacista del paese, il quale, essendo di provata fede repubblicana più che monarchico-sabauda, in quanto seguace delle idee mazziniane, esclamò che se si fosse realizzato il disegno politico repubblicano sarebbe stato immediatamente eliminato l’obbligo della Leva. E Padron ‘Ntoni, di rimando, subito sbottò, nella vaga speranza che il nipote non partisse per la guerra, dicendo: «E facciamola subito questa repubblica!» I governi della destra storica che promulgarono quelle leggi molto restrittive per le popolazioni del Sud, tanto che, dopo appena qualche anno dall’Unità d’Italia, iniziò il secolare esodo migratorio verso paesi lontani, prima verso l’America del Sud, poi verso quella del Nord con le nascenti città metropolitane atlantiche, poi, durante il fascismo verso l’Australia, e, infine, verso l’Europa stessa, badarono esclusivamente a saldare il debito di guerra contratto dal Regno di Piemonte per organizzare le guerre e le battaglie per raggiungere l’Unità nazionale. Si racconta che un Deputano del Regno, proveniente da uno dei Collegi elettorali della Campania, un certo Liborio Romano, che era stato ministro sotto l’ultimo Re Borbone, Francesco II, popolarmente noto come Franceschiello, dichiarò che Torino, la prima capitale italiana, aveva estorto alla Cassa di Sconto di Napoli, conosciuta come Banco Partenopeo, presente nella città partenopea da più di due secoli, circa 80 milioni di lire di allora e nel bilancio preventivo nazionale aveva ridistribuito alle popolazioni del Sud solo 39 milioni, tenendo per sé i rimanenti 40 milioni di lire circa. Ciò vuol dire che il nuovo Stato incamerava molto dal Sud, ma restituendone in finanziamenti e strutture molto meno di ciò che incassava. E allora si potrebbe considerare questo atteggiamento dei primi governi del nuovo Regno unitario come una vera truffa ai danni della gente meridionale? C’erano esigenze non solo di finanziamento delle casse dello Stato, ma vi era ancora l’urgenza di completare lo Stato unitario con la liberazione dello Stato Pontificio, e, quindi, con Roma capitale, del Veneto nelle mani dell’Austria, come pure delle città di Trento e Trieste con le rispettive regioni, la cui opera di completamento è avvenuta solo con la vittoria nel 1918 della Prima guerra mondiale. Le province del Sud, nei primi decenni postunitari, sono state in un certo qual modo sfruttate e bistrattate rispetto al resto dell’Italia, per quanto ci siano state iniziative di recupero di queste terre e delle loro popolazioni dopo una quinquennale guerra civile, dal 1861 al 1866, tra “briganti” e fedeli del vecchio regno nel Sud, conosciuta come “Guerra al brigantaggio”. Importante, in tal senso, resta storicamente l’inchiesta commissionata dallo stesso Governo nazionale, meglio cono161 Per una breve riflessione disincantata sull’Unità d’Italia sciuta come l’Inchiesta in Sicilia, sulla conclamata questione meridionale, del 1877, effettuata da due professori universitari di scienze finanziarie e ministri del Regno, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, in cui si cercò di capire e conoscere meglio la condizione sociale, culturale, giuridica, economica e civile della gente del Sud e delle tradizioni e vicende storico-popolari, la quale veniva considerata, purtroppo, alla stregua di certe popolazioni indigene africane. Nelle pagine di un’ampia disamina dell’inchiesta si legge, tra l’altro: «Qui non è l’Italia ma sembra di essere in Africa!». Allo stesso modo aveva scritto nella citata autobiografia il piemontese D’Azeglio: «Unirsi con i napoletani è come andare a letto con i lebbrosi». L’Unità nazionale per i meridionali è stata dunque più una guerra di conquista che una scelta voluta e preparata. L’ha preparata e realizzata Cavour, con l’appoggio e l’egida del Re Sabaudo, Vittorio Emanuele II, che seppur titubante e contrastante verso tale iniziativa, in definitiva, l’ha poi organizzata direttamente con Garibaldi, come è stato ricordato. Ma, fatte salve tutte le valutazioni sia positive che negative possibili, ciò non vuol dire che l’Unità d’Italia non andava compiuta. Forse è stata, come si è detto, più una piemontesizzazione del Sud che un riscatto sociale e politico vero e proprio, attraverso la strategia di una annessione piuttosto sbrigativa, ma ciò non vuol dire che l’Italia non andava unita. E se oltre che a fare l’Italia andavano, giustamente, fatti anche gli italiani, per citare ancora D’Azeglio, per quanto si ritorni a parlare di grande differenza di civiltà, tradizione e organizzazione tra le Regioni settentrionali e meridionali, non significa che in centocinquant’anni di storia unitaria non si siano compiuti dei grossi passi in avanti. Tutt’altro! La scolarizzazione collettiva, l’uso e la scoperta delle televisione e dei massmedia in generale, lo spostamento per motivi di studio e di lavoro da un punto all’altro dello Stivale, lo sviluppo abbastanza avanzato del turismo artistico, balneare e religioso, hanno permesso che si potesse predisporre una fusione più organica delle diverse parti d’Italia. È anche vero che il Sud è colpito dalla secolare piaga delle mafie, fenomeno presente in Sicilia già dal 1500, ossia dal periodo dell’occupazione spagnola; la stessa data, più o meno, è confermata per la camorra napoletana e il caporalato in buona parte della struttura agricola del Sud, contro cui uno dei primi a combattere questo fenomeno ancestrale di strapotere sulle masse contadine, è stato proprio un pugliese che risponde al nome di Giuseppe Di Vittorio, originario di Cerignola, che, nelle terre di Capitanata, agli inizi del Novecento, incominciò a unire e sensibilizzare gruppi politico-sindacali di giornalieri e salariati nei latifondi meridionali. Oggi c’è un rigurgito antiunitario da parte di certi gruppi e schieramenti politici come i rappresentanti della Lega Nord. Proprio questi ultimi tendono, secondo molti, attraverso nuove forme di finanza pubblica come il Federalismo di tipo economico-fiscale, a una vera e propria divisione dello Stato unitario, con una eventuale, successiva secessione politico-amministrativa; tanto è vero che essi non 162 Leonardo Aucello si riconoscono nell’inno nazionale di Mameli e si definiscono non popolo nazionale italiano ma territoriale padano: per cui la loro patria vera non è l’Italia ma la Padania, la quale, da semplice dimensione locale del Nord, diventa per costoro emblema di un nascente, ipotetico nuovo Stato ed emblema, innanzitutto, di una diversità politico-culturale dal resto della Nazione, soprattutto dal Sud, secondo loro, arretrato e corrotto. Infatti, non riconoscendo la festa del 150esimo dell’Unità, del 17 marzo, non solo hanno istituito, per controbilanciarla a quella nazionale, la festa lombarda delle “Cinque giornate di Milano” antiaustriache, ma, nel contempo, hanno giustificato tendenze culturali e strategiche di pura invenzione, organizzando a Sentana, alle porte di Torino, paese natale del Conte Cavour, primo presidente del Consiglio del Regno d’Italia, un convegno su Cavour federalista, che è una pura bufala e invenzione in quanto Cavour federalista non lo fu mai, come è stato qui ricordato, ma ha rivestito a pieno i panni dell’unitarista convinto. Federalista, durante il Risorgimento, fu, prevalentemente, il milanese Carlo Cattaneo, che non credeva nella formula dell’Italia unita. Il pensiero del Cattaneo, attraverso lo studioso e fondatore della Lega Nord, Gianfranco Miglio, è stato preso a pretesto dai leghisti per testimoniare che l’unificazione nazionale è stata un grande sbaglio, dimenticando, però, che l’Unità d’Italia è stata imposta dal Nord e subìta dal Sud con successive forme di sfruttamento a vario livello: ed oggi si tenta in tutti i modi di imporre la concezione che il Sud sia solo una palla al piede per il resto dell’Italia. Finora le popolazioni meridionali sono servite solo per il funzionamento dell’organizzazione della macchina statale: basti osservare che la maggior parte di infermieri, postini, ferrovieri, professori, medici, dirigenti dei ministeri, forze dell’ordine, magistrati ecc, proveniva da gente istruita e non del Sud; ora che tali funzioni vengono ricoperte anche da persone residenti al Nord, l’opera meritoria dei meridionali non ha più una valenza importante. Allora, per chiudere, viene da porsi una sola domanda: se centocinquant’anni fa il Nord ha colonizzato il Meridione, ora perché lo stesso Settentrione se ne vuole disfare con il pretesto assurdo dell’inefficienza della gente del Sud? Fino a quando ha fatto comodo a costoro, essi hanno voluto e spinto il Sud verso certe scelte e certe politiche, ora che alcuni vantaggi non tornano più ci si vuol liberare per sempre del Mezzogiorno senza capire, che, storicamente, se l’Italia dovesse dividersi di nuovo avrebbe un effetto fallimentare per tutti, e, puta caso, prevalentemente per il Nord. L’ha ricordato di recente anche il Presidente della Repubblica, l’onorevole Giorgio Napolitano che ha affermato: «Uniti tutto si può, divisi è solo una sconfitta per tutti, nessuno escluso». 163 164 Dionisio Morlacco La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente da Giambattista d’Amelj? di Dionisio Morlacco I cultori delle patrie memorie, amanti di questa ‘gentile città del Tavoliere di Puglia’, hanno ripetutamente dimostrato, con un sentimento orgoglioso e forte, l’appassionato interesse che coltivano per il plurimillenario retaggio di civiltà, per la memoria dei suoi monumenti e delle sue tradizioni, esaltando in uno con gli antichi fasti e con gli splendori della Luceria romana i fermenti novatori della Lucera sveva, periodi ampiamente celebrati, di contro al quasi perdurante silenzio sulle vicende riguardanti gli altri secoli. Fu per questa constatazione, forse, che Pasquale Soccio, in una riunione dei soci della Sezione di Lucera, Troia e Subappennino Dauno della Società di Storia Patria per la Puglia, esprimeva l’idea che la storia di Lucera andrebbe riscritta, o rivisitata, dopo aver compulsato con maggiore acume i documenti già noti e ricercato più a fondo negli archivi in cerca di altri documenti, al fine di delineare un profilo più marcato dei momenti storici meno indagati. E ciò perché, al di là della pregevole e insostituibile Lucera del Gifuni - e degli altri suoi incomparabili scritti -, non si può dire che esista una storia di Lucera veramente completa, o doviziosamente aggiornata. La pur tanto nota e letta Storia della Città di Lucera di Giambattista d’Amelj, poiché si ferma al XVII sec., trascura i due grandi secoli del sette/ottocento, così determinanti per l’avvenire del Mezzogiorno e della stessa Lucera: il settecento col suo fervore di pensiero e di attività; l’ottocento con le sue varie tensioni, la lunga e appassionante vicenda patria. Scritta «non sempre con molto criterio» dall’autore o «da chi ebbe l’incarico di compilare il libro che va sotto il suo nome», la Storia dameljana si presta ad alcune considerazioni che riguardano, appunto, la sua genesi e la sua paternità. La citata affermazione del professore Pietro Revoire,1 cui fa il paio l’osservazione del Gifuni: vi fanno (nella Storia del d’Amelj) ‘difetto il procedimento metodologico e la critica’, si legano alle riflessioni nelle quali ci siamo spesso intrattenuti. Chi intraprende la narrazione storica di una città, di solito progetta di arrivare, col suo racconto, fino ai suoi giorni, o a un tempo a lui più vicino e, comunque, ra- 1 Pietro REVOIRE, Lucera sotto la dominazione angioina, Ed. V. Vecchi, Trani 1901. 165 La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente da Giambattista d’Amelj? ramente si ferma a secoli di distanza, trascurando periodi di notevole valore e significato. D’Amelj, invece, chiude la sua narrazione al 1692, con la sentenza definitiva - e per Lucera favorevole - sulla lunga controversia dell’infeudamento della città al conte Mattia Galasso: «Qui diamo fine al nostro dire su i fatti d’istoria risguardanti peculiarmente Lucera, dapoiché… non abbiamo cose a riferire che avessero per noi un interesse cittadino, perocché le grandi cose succedute in tal periodo di tempo in ordine alle istituzioni politiche, amministrative, e giudiziarie, appartengono alla storia generale di queste provincie meridionali d’Italia».2 Ebbene il Barone d’Amelj (Napoli 1817-Lucera 1891), che trascorse gran parte della sua vita a Lucera, della quale fu Sindaco (1846/50), ma fu anche Presidente della Deputazione Provinciale di Capitanata, avrebbe potuto quanto meno accennare ai momenti e agli aspetti più salienti e più significativi di quei due secoli, nei quali si ritrovano pure fatti e ‘cose’ non da poco, cioè argomenti non privi di interesse cittadino, che rientrano a pieno titolo nella storia di una città per connotarla. Pur riconoscendo il sostanziale e grande valore della Storia dameljana, vien fatto tuttavia di chiedersi: come mai uno scrittore, che nella sua opera si appalesa ben documentato e corredato di molte ed autorevoli fonti, non abbia dato altre prove ‘assaggi’ del suo interesse letterario e storico e non abbia fatto precedere il suo importante lavoro da altri scritti, come di solito avviene ma, invece, si sia limitato a stendere un’opera, che di per sé lascia ben supporre altri scritti preparatori, in veste di saggi e di articoli? Come mai d’Amelj non abbia partecipato più palesemente alla vita culturale della città, con scritti, ad esempio, sui giornali o in opuscoli, visto che era detentore di preziosi documenti, ricchi di notizie storiche ‘peregrine’ da portare a conoscenza? Interrogativi a cui non dà risposte neppure l’aspra polemica, ovvero l’acceso contrasto con Benvenuto Colasanto - altro storico di Lucera - che trascese in pubblica denunzia, riguardante alcuni capitoli (quattro) della storia dameljana, ciò che evidentemente è all’origine del citato pensiero del Rivoire; contrasto che costituisce l’humus di queste riflessioni e che stimola congetture e ipotesi, piuttosto che diradarle. D’Amelj, che aveva sposato Enrichetta Bonghi, discendente dei dotti Lombardi, alla cui morte sposò tal Vincenza Perna, e questa al decesso di lui sposò il cav. Mazza di Foggia, andò a risiedere nel loro vasto ed austero palazzo e vi ereditò, tra l’altro, anche la ricchissima biblioteca, nella quale rinvenne tanti e tali documenti e scritti, soprattutto inediti, cui pose mano, concependo ‘la cara idea’ di «compilare una storia di questa antica ed illustre città di Lucera, dal momento che dovizioso possessor si vide di molti e svariati documenti sì in istampa e sì manoscritti della illustre famiglia Lombardi, elementi ricchissimi di storia patria», ai quali, come egli scrive, aggiunse il sostegno di altri testi procurati presso distinti cittadini. «Aggravato assaissimo dal peso di compilar questa grande opera, dopo 2 Giambattista D’AMELJ, Storia della Città di Lucera, Tip. S. Scepi, Lucera 1861, p. 295. 166 Dionisio Morlacco che molto ebbi dì e notti sudato - sino a logorarne la salute - a formarne delle svariatissime materie il concetto integro e l’ordine successivo, rivolsi il pensiero ad un ajuto. In opere letterarie sempre si suole, pria che rendersi di ragion pubblica, richieder l’altrui esame e giudizio». E dietro consiglio si rivolse al Rev.do Benvenuto Colasanto (Lucera, 1824-1896), che accolse la proposta «con singolar compiacenza, come cosa che oltre ogni aspettazione il suo amor proprio lusingava». Ed ecco che, per assolvere l’incarico, Colasanto cominciò a frequentare la casa del d’Amelj, il quale gli squadernò tutto il materiale storico raccolto, a cui Colasanto doveva dare «semplicemente una forma di dire e un ordinamento, che dopo comune discussione faceva tornar migliore e più conveniente. E in legger egli le molteplici e varie notizie storiche, a lui del tutto sconosciute, ne faceva le grandi meraviglie, sempre curioso delle fonti, onde attinte le avessi». Per agevolare e rendere più celere il lavoro del Colasanto, gli fu concesso di portare a casa molti documenti della famiglia Lombardi e i «quattro articoli già nelle mie bozze insieme in gran parte discussi e ordinati, e ciò al fine ch’ei ne ingentilisse ancor più la elocuzione, e qualche lieve riforma ancora, ove fosse uopo, vi recasse». Insomma la ‘materia storica’, cioè la narrazione del d’Amelj, doveva acquistare miglior forma espressiva con l’intervento del Colasanto, il quale era già avvertito di non modificarne la ‘sostanza’. Ma avvenne che Colasanto cominciò a farsi vedere sempre più raramente nella casa del d’Amelj, giustificandosi con gli impegni del suo magistero. Al che il Barone chiese la restituzione dei ‘lavori fatti’ e dei ‘preziosi manoscritti di famiglia’. Epperò a ‘una cotale indifferenza del Signor Colasanto’ d’Amelj entrò in sospetto che volesse servirsi per proprio conto dell’opera sua e dei manoscritti, traendone notizie storiche non altrove reperibili, dato che «in Lucera niuno in tanta copia ne abbia e di quel pregio». Documenti a stampa e manoscritti «de’ vecchi Lombardi, i quali documenti gran lume gittano anche nella oscurità de’ tempi primi e favolosi dell’origine di Lucera, e dei medii». Dei più interessanti dei quali ‘libri, opere, manoscritti e documenti’, consultati per compilare la sua Storia, d’Amelj stese un elenco, che affidò al notaio Luigi Maria Nigro, Presidente della Camera Notarile di Capitanata, e rese pubblico, invitando Colasanto a fare la stessa cosa: «Voi dal vostro lato, procedendo da onesto uomo e scrittore, far dovete altrettanto de’ vostri»; in tal modo il pubblico si sarebbe reso conto che le notizie del d’Amelj e del Colasanto erano le stesse, attinte dalle opere dei Lombardi; e se anche Colasanto avesse prodotto «qualche carta, quale ch’essa fosse stata da lui scritta», si sarebbe notato che era ‘copia dei documenti’ del d’Amelj, ovvero dei suoi capitoli. Dei quattro ‘articoli’ che, secondo Colasanto, costituivano il 1°, 2°, 3° e 4° capitolo della Storia del d’Amelj, secondo questi, invece, costituivano il 1°, 2°, 5° e 6° capitolo, pertanto al Colasanto mancavano il 3° e il 4° capitolo, che «son contenuti in un grosso volume scritto dal dotto uomo D. Domenico Lombardi, e che pria anche è stato tra le vostre mani». In essi Lombardi narrava «appunto, gli avvenimenti di que’ tempi che fanno il gran vuoto della Storia Lucerina». 167 La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente da Giambattista d’Amelj? L’appello del d’Amelj, indirizzato al pubblico, terminava con la promessa di pubblicare la storia completa in ogni sua parte di Lucera, laddove quella del Colasanto sarebbe apparsa monca, appunto, per la mancanza dei due capitoli, «salvo se nel tempo che il sopraccennato volume del Signor Lombardi è stato in poter vostro, non abbiate usato il fino accorgimento di ricavarne le più interessanti e peregrine notizie in quel pregevolissimo lavoro racchiuse». In un secondo appello d’Amelj ripeteva che se Colasanto possedeva elementi storici, certamente li aveva copiati ed estratti dalle opere, dai manoscritti e dalle bozze sue. Quale fu la risposta del Colasanto all’accusa del d’Amelj? Disse che, in verità, era stato lui (Colasanto) che alla notizia della imminente pubblicazione della Storia dameljana - cosa che si apprestava a fare anche lui - aveva accusato di plagio il Barone: «Pertanto fo noto al pubblico, che Giambattista d’Amelj conserva i quattro articoli miei sulla Storia di Lucera, e protesto di adire il maestrato competente per difendere i diritti di letteraria proprietà, anche con testimoniali prove». Confortato da un ammonimento del Profeta Malachia: ‘per la legge della verità’ anche il sacerdote è chiamato a ‘sostenere e difendere la verità’, si era poi convinto alla pubblica denunzia. Orbene la verità, secondo lui, era che, «lungi dal ledere i meriti dei Lombardi, poteva ben affermare che nei loro scritti vi erano pochi documenti a tutti noti, gratuiti asserti, tradizioni, iscrizioni copiate da monche lapidi, nonché elezioni di Vicarii Capitolari, e di Sindaci, notizie di tremuoti, e di altri avvenimenti, che non potevano somministrare materiale ad una Storia». In Lucera, poi, non erano stati solo i Lombardi a possedere tali documenti, perché molti altri cittadini ne possedevano, dei quali egli si era servito, perché mai aveva deposto il pensiero di compilare la Patria Storia. In un successivo e più ampio appello rivolto al pubblico Colasanto, «con quella pacatezza d’animo che richiede il carattere di Sacerdote, e con quella gravità che accompagna maisempre la espressione della verità», precisava che, invitato dal d’Amelj a collaborare alla compilazione della Storia, dopo aver constatato lo scarso apporto dei documenti dei Lombardi, si ‘era determinato di non tenere l’invito’ ed aveva deciso di recedere dall’impegno, «e di riprendere lo storico lavoro patrio, a cui da gran pezza era intento: quando obbligato da lui con calde e ripetute istanze gl’indettai quattro Articoli della Storia Lucerina», riguardanti i primi popoli d’Italia, le notizie sull’Apulia, la ‘postura’ di Lucera, il mito di Diomede, l’origine del nome Lucera, l’età preromana e romana, fino ai primi vescovi lucerini. Contrariamente, poi, a quanto cercava di far credere il Barone d’Amelj, egli confermava l’ordine progressivo dei quattro capitoli e dichiarava di non essere «nella necessità di depositare presso un Notaio documenti manoscritti, mentre ogni uomo erudito possiede gl’indicati libri da cui ho attinto i documenti per compilare la Storia di Lucera, che metto a stampa». «L’ardente bramosia di dissuadere il pubblico dall’associarsi alla mia opera, continuava Colasanto, era evidente frutto dell’invidia». Infine, sulla insistente precisazione del d’Amelj che il suo compito era solo di dare 168 Dionisio Morlacco miglior forma alla sua Storia, con una punta polemica scriveva: «Tu affermi, Signor d’Amelj, nell’Appello al Pubblico, che io dava a’ quattro Articoli ‘la forma di dire’. Sì, io dava la forma. La quale a detta d’un moderno Filosofo ha in sé incarnato il concetto, ossia il giudizio, che si esplica nelle idee, che ne sono gli elementi; ondeché la forma non versa sulla espressione, ma sulle idee o sulla loro connessione. Un lavoro di forma sì, ma soprattutto di logica, per il quale io ricusava di frapporvi gli elementi da te porti, come stranii alla mia composizione, e di lieve momento. La Storia, non intendo parlare di me, è lavoro di chi ha lume di critica, filosofia per conghietture e giudizi, scienza politica per bene intendere e spiegare gli ordinamenti degli Stati, le leggi e le istituzioni, e soprattutto ha metodo e valor letterario per coordinare le parti e vestirle dello stile più conveniente». Compito, secondo il Colasanto, non secondario, né da poco. Come finì la vertenza non si sa; si può supporre che, sbolliti il risentimento e lo sdegno da entrambe le parti, tutto restò affidato al giudizio dei lettori delle due Storie, pubblicate nel 1861, cioè la Storia della Città di Lucera del d’Amelj dalla Tipografia Salvatore Scepi di Lucera, mentre della Storia di Lucera del Colasanto (che in aggiunta avrebbe portato un canto in ottava rima intitolato Lucera liberata dai Saraceni), non si sa fin dove essa giungeva con la narrazione, né se essa effettivamente fu pubblicata per intera, perché, affidata al tipografo Raffaello Migliaccio di Salerno, essa doveva apparire in fascicoli quindicinali, dei quali abbiamo avuto la ventura di rinvenire solo il primo fascicolo, di complessive 28 pagine, contenente due capitoli riguardanti la Fondazione di Lucera e il Nome di Lucera, preceduti da due citazioni - tratte dalla Storia Universale di Bredow e dal Discorso sulla Storia universale di Cesare Cantù - e da una Prefazione dell’autore, con qualche notizia biografica: Dottore in Sacra Teologia, Licenziato in Filosofia, già Professore di Filosofia e Matematica nel Seminario di Bovino, Socio dell’Accademia delle Scienze di Tolentino e fra gli Arcadi di Roma (col nome di) Teagene Colofonio. In 4a di copertina reca l’avviso che l’opera sarebbe risultata di un solo volume in 8°, grande di circa 60 fogli di stampa da 8 pagine cadauno, e sarebbe stata pubblicata, appunto, in fascicoli quindicinali del costo di 15 grana ciascuno. Oltre al Canto, sarebbe stata corredata da tre tavole riproducenti le antiche monete di Lucera, da una pianta della città e da una del Castello. Di quest’opera - di cui si ignora se nel 1861 apparve per intera, in fascicoli - Colasanto, nel 1894, affidò la pubblicazione allo stesso Salvatore Scepi, col significativo titolo di Storia dell’antica Lucera, la cui narrazione si estende dalle origini a Carlo II d’Angiò. Rispetto ai due capitoli apparsi nel 1861, va detto che l’autore apportò solo modifiche formali al testo. Dalla lettura di questi due capitoli - compresi tra i quattro contesi dai due scrittori -, non si rileva una stretta analogia descrittiva con la Storia del d’Amelj, mentre le notizie storiche riportate, oltreché nel d’Amelj, si ritrovano in altri lavori inediti, di studiosi lucerini, quali Rocco del Preite, Carlo Corrado, Vincenzo del Pozzo, Emmanuele Cavalli. Più chiara risul169 La “Storia della città di Lucera” fu scritta veramente da Giambattista d’Amelj? ta, invece, la diversa connotazione espressiva: più ampia e discorsiva nel d’Amelj, più fluida ed essenziale nel Colasanto, il cui libro, però, Pietro Egidi ritenne ‘assai mediocre’. Quale allora la conclusione di queste riflessioni? La Storia del d’Amelj in gran parte, se non tutta, è tratta dai manoscritti dei Lombardi: d’Amelj colse l’occasione di trovarsi tra le mani quegli scritti e volle approntare una storia di Lucera sotto il suo nome - del resto, nell’elenco delle opere consultate figurano non pochi manoscritti che illustrano i diversi periodi storici della città -; la narrazione si ferma al XVII sec. perché là, evidentemente, si arrestava la descrizione dei Lombardi salvo le aggiunte inserite qua e là nel testo, ma soprattutto nelle note, da parte del d’Amelj o del collaboratore (se ve ne fu un altro dopo l’abbandono del Colasanto); l’aggiornato elenco dei vescovi lucerini, fino al presule Jannuzzi, e le illustrazioni-; la necessità di un ajuto, che conferisse alla materia unità discorsiva, lascia supporre, appunto, che d’Amelj non avesse quella frequenza e quella dimestichezza con la scrittura storica, tale da rassicurarlo nell’esposizione precisa e cronologica dei fatti. Per quanto riguarda Colasanto, certamente anch’egli attinse dai documenti dei Lombardi, per arricchire la sua opera, ed è probabile anche che, dopo l’uscita della Storia del d’Amelj, decidesse di sospendere del tutto la pubblicazione della sua in fascicoli, ciò che conforterebbe, in qualche modo, l’accusa del d’Amelj. 170 Gaetano Schiraldi Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento. di Gaetano Schiraldi Il Quattrocento è un periodo quasi buio per quanto concerne l’approfondimento della storia della diocesi di Lucera.1 Le notizie a disposizione degli studiosi, infatti, sono pochissime, tanto frammentarie e difficilmente rintracciabili a causa della scarsità delle fonti. Siamo nel periodo in cui si va affermando l’Umanesimo2 e parlarne vuol dire far riferimento a un “risorgimento” degli studi classici, alla loro diffusione nella cultura e nella riflessione del nascente mondo moderno. È l’epoca delle humanae litterae, in cui ampio spazio ebbero gli studia humanitatis, di ciceroniana memoria. Pensiamo alla diffusione di opere classiche di poeti, storici, geografi, quali Cicerone, Livio, Strabone. Non è da tralasciare l’ampia diffusione degli scritti dei Padri della Chiesa e della pubblicazione della Bibbia: ora potevano essere alla portata di tutti grazie alla nascita della stampa, un mezzo che ha reso più facile l’accessibilità a questi scritti. È chiaro, però, che la lettura di queste opere risultava essere ancora privilegio di un èlites, poiché esse erano composte in lingua greca o latina. Largo spazio ebbero anche le varie traduzioni. A questo limite si aggiungeva un altro: acquistare un libro era un’operazione, a livello economico, molto costosa. Quindi la conoscenza di queste opere si ritrovava ad essere ancora una volta minata da questo ulteriore ostacolo. L’umanesimo diede inizio alla riconquista di conoscenze che si traducessero in una concreta attività dello spirito, tesa al raggiungimento della realizzazione dell’intera persona umana, mediante una coerenza di pensiero e la contemplazione della bellezza, con l’ausilio della moralità e della dottrina. Tale dottrina di rinascita umanistica si andava affermando e diffondendo, grazie anche al prezioso contributo di alcuni vescovi. È il tempo in cui la diocesi 1 Per approfondimenti particolari sulle origini della diocesi di Lucera cf. G. SCHIRALDI, La diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana, in «La Capitanata», 20 (2006), pp. 253-266; per uno sguardo alla stessa diocesi nel periodo medievale rimandiamo a G. SCHIRALDI, La comunità cristiana di Lucera nell’alto e basso Medioevo: primi appunti per una storia, in «La Capitanata», XLVII (2009), pp. 55-69. 2 Per ulteriori informazioni su questo argomento cf. G. VOIGHT, Il Risorgimento dell’antichità classica, Firenze, 1888-1889; J. BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, 1921. 171 Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento lucerina cominciava ad avere delle mutazioni geografiche; momento in cui si cominciano ad avvertire i sintomi della necessità di urgenti riforme della chiesa che videro protagonisti di grande portata umana, di profondo slancio di santità di vita e di ricchezza ed altezza d’ingegno. Giovanni Vici da Stronconio, O.F.M: un riformatore amante della Chiesa e il Convento del SS. Salvatore di Lucera. Nel primo decennio del XV secolo si staglia a Lucera la figura del beato Giovanni Vici da Stroncone (Terni), francescano minore.3 Entrò nell’Ordine francescano minoritico nel 1373, ricevuto dal beato Paoluccio Trinci (o Trincio; 1309-1391) da Foligno nel convento di San Francesco di Stroncone, e subito, dopo essersi formato alla sua scuola, ne condivise le idee e gli ideali per una riforma della Chiesa e dell’Ordine francescano, mediante l’osservanza rigida della regola senza mitigazioni o dispense. Sono note le condizioni della Chiesa e degli ordini religiosi in questo periodo, per cui la figura del beato Giovanni si colloca tra coloro che si adoperarono per la reformatio ad intra e ad extra della Chiesa. Quando il Trinci si ritirò nel romitorio di San Bartolomeo di Brogliano, sito sui monti di Foligno, il Vici lo seguì e lo coadiuvò nell’attualizzazione di questa nuova forma di vita. L’annalista francescano Luca Wadding così scrive del nostro Beato: «Uomo perfetto, dotto e fecondo oratore, ardente fautore della regolare osservanza […] per purezza di vita ed efficace eloquenza fu da tutti rispettato ed amato […] chiaro per virtù, miracoli e spirito di profezia».4 Marco da Lisbona scrive: «molto divoto, sufficiente, ornato di virtù e perfezione, zelantissimo della povertà e osservanza regolare, che egli aumentò molto nei frati col suo esempio e governo».5 Nel 1403 papa Bonifacio IX autorizzava Giovanni Vici ad accogliere nella nuova forma di vita due cenobi, uno in Umbria e l’altro in Toscana.6 Quattro anni dopo, il 13 settembre, in una bolla pontificia,7 Giovanni figura come Commissario Generale degli Osservanti, designato per la fondazione di cinque loci devoti, tra cui il convento del SS. Salvatore di Lucera, detta nella documento 3 Per ulteriori approfondimenti sul Beato si rimanda a D. FORTE, Testimonianze Francescane nella Puglia Dauna, San Severo, 1967, pp. 91-99; cf. anche D. FORTE, Lucera francescana, Lucera, 1981, pp. 23-43; Lucera terra di santi e di Beati, Lucera, 1984, pp. 12-13; La presenza francescana a Lucera, Lucera, 2008, pp. 24-52. Ulteriori ed interessanti notizie sono conservate in «Archivio Cancelleria Vescovile di Lucera» (=ACVL), Cartella Santi e Beati. 4 L. WADDING, Annales Minorum, IX, p. 108. 5 MARCO DA LISBONA, Croniche degli Ordini istituiti dal P. S. Francesco, Napoli, 1680, p. 11. 6 L. WADDING, Annales, IX, p. 598. 7 D. FORTE, Testimonianze francescane nella Puglia Dauna, San Severo, 1967, p. 93. 172 Gaetano Schiraldi pontificio Nocera dei Saraceni.8 A tal proposito, il cronista Marco da Lisbona riferisce che il primo luogo che il Beato accettò per l’attuazione della nuova regola di vita fu proprio quello del SS. Salvatore di Lucera nella provincia di Sant’Angelo.9 Le fonti di storia lucerina narrano che il beato Giovanni fondò nel 1407 la chiesa del SS. Salvatore, lavori che dovettero cominciare già qualche anno prima della data citata, in quanto lo stesso Vici nel 1406, secondo una tradizione locale, pare abbia portato a Lucera due lastre di pietra dalla vicina città di Castel Fiorentino, luogo della morte dell’imperatore Federico II (13.XII.1250): una prima lastra da adattare a mensa d’altare per la cattedrale e l’altra per la erigenda chiesa del SS. Salvatore.10 Accanto alla chiesetta, con un cospicuo contributo del popolo, Giovanni Vici cominciò la costruzione del convento del SS. Salvatore che fu portato a termine solo anni dopo, grazie ad un lascito di un nobil uomo lucerino e di fra Tommaso da Firenze, vicario provinciale dell’Ordine minoritico. A tal proposito, Marco da Lisbona riferisce che il nostro Beato, prima di morire ebbe a dire, circa il completamento dei lavori del convento e della chiesa del Salvatore: «Questo luogo non si compirà, se non per la morte d’un uomo molto nobile e ricco cittadino», riferendosi chiaramente al generoso lascito di quel nobile lucerino. Varie fonti storiche locali sostengono che la chiesa del SS. Salvatore fu edificata sulle fondamenta di una precedente chiesa avente lo stesso titolo e posta nel casale medievale del Santissimo Salvatore. Sono concordi le varie fonti di storia lucerina sul far sorgere la citata chiesa del Salvatore sui ruderi di un tempio dedicato alla dea Minerva. Nella cristianizzazione dei luoghi pagani il luogo sacro dedicato alla dea della guerra e della vittoria Minerva, fu dedicato al Santissimo Salvatore, il vittorioso per eccellenza nella guerra col peccato e con la morte. A conferma della presenza di un tempio dedicato alla dea Minerva, si porta il dato secondo cui in epoca romana in prossimità del convento vi era il foro, il comiziale e le terme. Del lavoro apostolico del Vici scrisse il Wadding: «Molti antichi cenobi ridusse prudentemente alla sua norma di vita, altri pacificamente, anche se stentatamente, costruì dalle fondamenta».11 Il beato Giovanni Vici morì a Lucera nel 1418 e fu sepolto nella chiesa del SS. Salvatore prima nel coro, poi sotto l’altare maggiore.12 8 D. CRESI, S. Francesco e i suoi Ordini, Firenze, 1955, p. 106. MARCO DA LISBONA, Croniche, p. 37. 10 L. WADDING, Annales, X, p. 6; XI, p. 157 sostiene che al suo tempo le due lastre erano ancora utilizzate come mense d’altare. 11 L. WADDING, Annales, IX, p. 108. 12 Marco da Lisbona scrive che il trasferimento delle reliquie del Beato dal coro all’altare maggiore della chiesa SS. Salvatore avvenne «dopo alcuni anni» dalla sua morte («Dopo alcuni anni volendo i frati cavare nel coro, per abbassarlo alquanto, ritrovarono l’ossa del Venerabile Fra Giovanni bellissime e con grande loro meraviglia videro fra le altre membra il cuore conservato dalla corruzione, il quale assieme con le altre ossa fu conservato sotto l’altare maggiore, come convenivasi per memoria di esso santo religioso»); mentre Arcangelo da Montesarchio riferisce che la traslazione ebbe luogo «un secolo dopo la morte del Servo di Dio» (p. 316), quindi orientativamente nel 1518. 9 173 Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento Il Gonzaga13 nel 1603, e il Mattielli14 nel 1683, riferiscono che il corpo del Beato era ancora conservato sotto l’altare maggiore della chiesa. Il Borezzi riferisce che al suo tempo nella chiesa del SS. Salvatore erano visibili al sepolcro del beato Giovanni «doni e tavole votive per i frequenti miracoli che opera».15 Nel 1710, sotto l’episcopato lucerino di Domenico Morelli (1688-1716), si procedette all’inspectio sepulcri del Beato; nella cassa furono trovati integri il cuore e le ossa. Lo stesso annalista Wadding narra che al momento dell’inspectio un’anziana donna posò il suo rosario sulle ossa del Beato e in un secondo tempo, dopo aver toccato con la corona gli occhi di un cieco, questi rimase immediatamente risanato, riacquistando totalmente la vista.16 Molti altri furono i miracoli operati a favore di coloro che furono presenti all’atto dell’inspectio. Le reliquie, poi, furono sistemate in un’urna di pietra e collocate nella stessa chiesa in cornu Evangelii.17 Nel 1830, mentre era provinciale Giuseppe Antonio da S. Nicandro, le reliquie furono murate in un pilastro a sinistra, nella navata laterale e fu murata la seguente epigrafe: LAPIS QVEM ASPICIS LECTOR HUC TRANSLATA CONTINET OSSA B. JOANNIS A STRONCONIO SANCTITATE VITÆ CONDITA OLIM IN CORNV EVANGELII REFORMATAM GUBERNANTE PROVINCIAM F. JOSEPHO ANTONIO A S. NICANDRO AD. MDCCCXXX Nel 1970, invece, Dionisio Rendina, O.F.M., fece traslare le reliquie nel pilastro opposto della stessa navata laterale. L’evento è ricordato dalla seguente epigrafe:18 13 F. GONZAGA, De origine Seraphicae Religionis Franciscanae, Venetiis, 1603, p. 488. T. NARDELLA, La Capitanata in una relazione di visita canonica di fine Seicento, in «Rassegna di Studi Dauni», III (1976), n. 1, p. 90. 15 ACVL, Cartella Santi e Beati. 16 L. WADDING, Annales, X, p. 6; XI, p. 157. 17 ARCANGELO DA MONTESARCHIO, Cronistoria della riformata Provincia di S. Angelo in Puglia, Napoli, 1732, p. 258. 18 L’epigrafe è riportata anche in D. MORLACCO, Itinerari epigrafici nelle chiese di Lucera. San Pasquale, in «Il Centro», 31.I.2003, p. 10. 14 174 Gaetano Schiraldi Qui riposano i resti venerati del beato Giovanni Vici Fondatore di questa chiesa e convento + 1418 O beato Giovanni, su questa sponda fiorita, al cospetto di degradanti colli e dell’immane maniero di Federico, tu volesti questo umile convento che fosse asilo di preghiera e pace; e qui, dove solo rimane eco di potenza e di gloria ormai finite, tu dormi nella pace di Dio raccogliendo non ammirazioni caduche e vane ma benedizioni e preci. Intercedi per noi, o grande figlio del poverello, onde in questa illustre città, tua di elezione, arda sempre la fiamma per i figli di S. Francesco, il dolce stigmatizzato. P. Dionisio Rendina 1.7.1970 I primi passi del convento lucerino non furono affatto rosei, anzi il vicario provinciale Giacomo da Sessa Aurunca ne ordinò la chiusura, provvedimento revocato nel 1441 da fra Giovanni da Capestrano (1386-1456), futuro Santo. Nel corso del XV secolo vissero nel convento del SS. Salvatore altri fraticelli che si distinsero per santità di vita. Verso il 1460, nello stesso convento morì fra Angeluccio da Pesche d’Isernia e ivi riposano i suoi resti mortali. Il Pacichelli lo definisce: «hortolano, e fortunato compagno di S. Bernardin da Siena».19 Una pia leggenda lo dipinge come un uomo di intensa vita di preghiera, di vera semplicità francescana. Si racconta di lui che sovente, mentre si trovava a zappare nell’orto, immerso in un profondo clima di orazione, la zappa rimaneva in alto sospesa, come fosse appesa ad un ramo. Quando risiedette nel convento di Vasto un uomo gli andò a chiedere di pregare per la moglie che stava morendo in atto di partorire. Il fraticello si raccolse un attimo in preghiera e disse all’uomo: «Ritornate, figlio, a vostra casa, chè vostra moglie ha partorito un bambino». L’uomo tornando a casa trovò il neonato e sua moglie che godevano di buona salute. Dello stesso fraticello si racconta che andò a far visita, per ordine del superiore, alla contessa d’Ariano, devotissima di san Francesco. Fra Angeluccio, entrando nella stanza udì suonare una bella melodia e, pensando alle armonie celesti, laddove continuamente si portava con la mente ed il cuore, cadde in estasi: il suo corpo si elevò in alto, tanto che con la testa toccava il soffitto della camera.20 Visse pure in questo convento fra Rufino da Ferrazzano, uomo e frate di grande pietà. Si narra che tanto era forte il suo spirito di orazione che dal suo cuore 19 Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci Provincie. Opera postuma divisa in tre parti dell’Abate Giovanni Battista Pacichelli, in «Puglia Dauna», I (1993), p. 94. 20 MARCO DA LISBONA, Croniche, parte III, pp. 492-493. 175 Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento si sprigionavano vere e proprie fiamme di fuoco. Un giorno si videro sul tetto della chiesa delle fiamme. Alcuni vicini, pensando ad un incendio corsero ad avvertire i frati. Questi, giunti in fretta e preoccupati in chiesa videro il Servo di Dio, fra Rufino rapito in estasi ed una fiamma che usciva dal suo cuore, illuminando di intensa luce l’intera chiesa.21 Nello stesso periodo morirono nel convento del SS. Salvatore altri fraticelli di santa vita: fra Roberto da Rodi, fra Gregorio e fra Bernardo da Faenza,22 «tutti uomini santi, degni di memoria»; padre Bernardino da Lucera, vicario provinciale, morto nel 1496, che «fu uomo di gran santità, a cui Dio rivelò il giorno e l’ora di sua morte»; fra Francesco da Lucera.23 La Diocesi di Tertiveri annessa alla diocesi lucerina (a. 1410) I Bizantini avevano ormai conquistato la Capitanata e detto dominio segnava un’ulteriore estensione della supremazia greca nell’Italia Meridionale. Ciò suscitava preoccupazione nell’animo del pontefice, che assisteva alla crescente sottomissione delle chiese latine a quelle greche, dipendenti da Costantinopoli. Uno degli autori di questa opera di annessione alla chiesa greca fu proprio il catapano Bogiano, il quale seguì, incrementandone l’opera, le orme dell’imperatore Niceforo Foca. Nacquero molte nuove comunità cristiane col titolo di diocesi e altrettanto numerose furono le elargizioni di titoli arcivescovili. Si diffuse molto velocemente il rito greco, a volte anche in modo corrotto. Nella Capitanata numerosi furono i vescovi che officiavano in rito greco,24 tra cui quello di Tertiveri. Nel 1018 troviamo Tortibuli come sede vescovile, assieme a Fiorentino, Montecorvino, Dragonara, Civitate e Lesina.25 Il 22 gennaio 1055, papa Vittore II, da Montecassino, emana una bolla con la quale procede all’annessione dei vescovi di Troia, Dragonara, Civitate, Montecorvino, Turtiboli, Viccari, Fiorentino, Tocco, Montemarano, Monte di Vico alla metropolia di Benevento.26 Tre anni dopo, nell’anno 1058 Tertiveri figura tra le suffraganee dell’arcidiocesi di Benevento.27 21 L. WADDING, Annales, XIII, pp. 189-190. Idem. 23 B. CIMARELLI, Delle Croniche dell’Ordine dei Frati Minori, Venezia, 1621, p. 506. 24 «Omnes Episcopi, greco pallio amicti, graecoque ritu benedicentes hi sunt…(segue l’enumerazione, nella quale sono compresi i vescovo di Civitate, Lesina, Fiorentino, Dragonara, Montecorvino, Tertiveri, ecc.)» (Beneventana Pinacoteca, lib. I, cap. ultimo, citata in S. SAVASTIO, Notizie storiche sull’antica città di Montecorvino di Puglia e sul borgo di Serritella (= SAVASTIO Notizie), Pozzuoli, 1940). 25 Beneventana Pinacoteca, lib. I, cap. ultimo, citata in SAVASTIO Notizie, p. 33. 26 DE VITA, Thesaurus, II, dissert. V, cap. 3. 27 P. CORSI, L’episcopato pugliese nel medioevo. Problemi e prospettive, in Cronotassi, iconografia ed araldica dell’episcopato pugliese, Bari, 1984, p. 31. 22 176 Gaetano Schiraldi La serie dei vescovi della diocesi di Tertiveri risulta ancora scarsa e lacunosa. Il primo vescovo di cui conosciamo il nome è Landolfo, un ex monaco che nel 1067 sarà deposto per simonia.28 Negli anni 1103-1104 è documentato un altro vescovo di cui non si conosce il nome. Nel 1105, un anonimo vescovo di Tertiveri prende parte alle feste di accoglienza delle reliquie dei santi patroni della città di Troia, assieme al vescovo di Bovino.29 Dall’aprile del 1142 all’anno 1147 è vescovo di Tertiveri un certo Stefano. Segue un altro vescovo anonimo che ricoprì tale incarico dal 26 marzo 1194 al 12 maggio dello stesso anno. Questo stesso vescovo fu sospeso per aver ordinato dei chierici nella vicina Foggia, mentre era in corso una scomunica.30 Un altro presule anonimo lo ritroviamo dal 24 maggio 1215 all’8 maggio 1216. Segue un altro ignoto attestato il 28 gennaio 1219, di cui ignoriamo il termine del mandato episcopale. L’esistenza di questo vescovo ci è fornita dalla consultazione delle pergamene della cattedrale di Troia, in cui si legge che papa Onorio III ordinò ai vescovi di Lucera e Tertiveri di prendere provvedimenti circa gli abitanti di Foggia, i quali continuavano a disobbedire al vescovo di Troia, all’arcivescovo di Capua e al vescovo di Catania, cancelliere del Regno.31 Un altro vescovo anonimo è attestato il 2 ottobre 1227; un altro terminò il suo mandato il 16 ottobre 1236, anno in cui venne traslato alla sede di Fiorentino.32 Il trasferimento di questo vescovo tertibulense è documentato dal Vendola: «Lecte tue fraternitatis littere ac dilectorum filiorum… arcidiacono et capituli Florentinensis ecclesie petitio nobis exhibitacontinebant quod cum ipsa ecclesia pastoris solatio destituita ipsi convenientes in unum sicut moris est Spiritus Sancti gratia invocata venerabilem fratrem nostrum Tortibulensem episcopum in pastorem et patrem unanimiter et concorditer postulant nobis per nuntios suo set litteras humiliter supplicantes ut postulationem tandem admittere de benignitate sedis apostolice curaremus. Ipsorum igitur supplicationibus, studiis postulantium et postulati meritis veritate sollecite inquisita, si postulationem ipsam inveneris de persona idonea ca28 P. F. KEHR, Italia pontificia sive repertorium privilegiorum et litterarum a Romanis Pontificibus – IX, Samnium. Apulia, Lucania, a cura di W. HOLTZMANN, IX, Berlino, 1962, p. 148, n. 1; cf. anche J. M. MARTIN, Troia e il suo territorio nell’XI secolo, trad. a cura di E. AQUILINO, Foggia, 1990, p. 26. 29 A. MARINO, I protagonisti ed i luoghi della “Santa Gesta”, in M. R. DONNINI, I Principi di Troia. La luce di cinque santi sul cammino di un popolo, Troia, 2005, p. 70. 30 «Celestino III annuncia al Capitolo di Troia che ha confermato la scomunica dei Foggiani, i quali hanno molestato il vescovo di Bovino venuto a ricevere la loro obbedienza alla cattedrale di Troia, e che egli ha sospeso il vescovo di Tertiveri che ha ordinato dei chierici a Foggia» (J. M. MARTIN, Le carte di Troia, trad. a cura di E. AQUILINO, Troia 1996, p. 119). La bolla fu emanata il 26 marzo 1194 dal Laterano; l’Aceto (Troia sagra, XVIII sec., ms. dell’Archivio Capitolare di Troia) attribuisce erroneamente tale bolla a papa Clemente. 31 «Onorio III incarica i vescovi di Lucera e di Tertiveri di occuparsi dei Foggiano, poiché il vescovo di Troia si è lamentato che essi non rispettano le decisioni dell’arcivescovo di Capua e del vescovo di Catania, Cancelliere del Regno» (J. M. MARTIN, Le carte, p.127). La bolla è stata emanata il 28 gennaio 1219 dal Laterano. 32 D. VENDOLA, Documenti tratti dai registri vaticani (da Innocenzo III a Nicola IV), I, Trani, 1940, pp. 178-179, doc. 205. L’approvazione della traslazione fu confermata il 16 ottobre 1236 da Rieti, da papa Gregorio IX. 177 Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento nonice celebratam, auctoritate nostra tandem admittens ei, absoluto a vinculo quo ecclesie Tortibulensi tenetur, transeunti ad dictam Florentinensis ecclesie obedentiam et reverentiam debitam exhibiri. Alloquia ea rite repulsa facies iamdicte ecclesie electionem canonicam de persona idonea provideri, contradictores etc. Datum Reate XVII Kal. Novembris, anno decimo».33 Il 16 novembre 1254 il monaco cistercense Stefano, di Fiorentino, divenne vescovo di Tertiveri. La sua nomina fu confermata da Innocenzo IV il 16 novembre 1254, da Napoli.34 La bolla, riportata dal Vendola, così recita: «Fratri Stephano de Fermentino electo Turtibulensi. Porrecta nobis ex parte tua petitio continebat quod cum olim Turtibulensis ecclesia tanto tempore vacavisset quod ad dilectum filium [Capuferrum] Beneventanum electum loci metropolitanum erat ipsius ecclesie provisio devoluta, idem electus volens de persona idonea ipsi ecclesie providere te, tunc monachum monasterii Fosse Nove, cisterciensis ordinis, ecclesie smemorate prefecit auctoritate metropolitica in episcopum et pastorem mandans tibi a tuis subditis obedientiam et reverentiam debitam exhiberi prout in patentibus litteris eiusdem electi confectis exinde plenius continetur. Tuis igitur precibus inclinati quod ab eodem electo super hoc factum est ratum habentes et gratum illud auctoritate apostolica confirmamus. Nulli etc. Datum Neapoli XVI Kal. decembris, anno decimo secondo».35 Segue il vescovo Bartolomeo attestato nell’anno 1282; Egidio, monaco di Fossanova, nel 1286; Marcellino nel 1289; il frate minore, Nicola, nel 1290, il quale terminò il suo mandato nel 1317. Nel 1310 il vescovo di Tertiveri, assieme al capitolo e al clero, pagava la decima alla Camera Apostolica.36 La somma consisteva in 4 once d’oro e 12 tarì. Il 1 febbraio 1331 un anonimo vescovo di Tertiveri partecipa con i vescovi di Fiorentino, Montecorvino, Dragonara e Volturara al Concilium Beneventanum, indetto dall’arcivescovo di Benevento Monaldo Monaldeschi.37 33 Idem, pp. 178-179, doc. 205. Idem, p. 236, doc. 308. 35 Idem. 36 D. VENDOLA, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia, Lucania, Calabria, Città del Vaticano, 1939, p. 24. «Episcopus capitulum et clerus turtibulensis quorum redditus et proventus valent in universo unc. IV solverunt tar. XII». 37 Idem, pp. 366-367. In questo Concilio furono stilati ed approvati ben 72 capitoli, di cui 12 sono andati perduti. In questa sede, inoltre, si discusse della collazione dei benefici ecclesiastici, dell’obbligo della residenza dei parroci nelle parrocchie, del divieto di alienare i beni della chiesa, delle norme circa il versamento delle decime, della disciplina e dell’abito degli ecclesiastici, della regolamentazione del precetto pasquale e dell’obbligo di soddisfare il precetto pasquale nella propria parrocchia. Si codificò, inoltre, la regolamentazione delle formalità prematrimoniali. In sede di Concilio si proclamò la scomunica per le operazioni simoniache; l’invalidamento del conferimento di benefici da parte di un’autorità competente sotto minaccia dei signori laici; la scomunica per chi avesse intralciato la legittima e libera collazione dei benefici; entro un mese, infatti, i notai avrebbero dovuto comunicare ai vescovi, o ai loro vicari, i nomi dei testatori, degli eredi o degli esecutori testamentari. Inoltre, si decise la scomunica per i detentori di beni ecclesiastici della chiesa metropolitana di S. Bartolomeo o che li avessero destinati ad altre mense vescovili della provincia ecclesiastica (A. LAURO, Concilio di Benevento (1331), «Dizionario dei Concili», I, Tivoli, 1963, p. 160). 34 178 Gaetano Schiraldi Il vescovo Giovanni, commorante in Avignone, è attestato nella sede di Tertiveri nell’anno 1350. Segue un certo vescovo Pietro. Il 2 marzo 1366 viene eletto il vescovo Giordano, il quale era stato traslato da Symbolien. Morirà nel 1367. Il 15 maggio 1367 veniva eletto vescovo di Tertiveri il domenicano beneventano, Bartolomeo. L’antipapa Clemente VII (+1394)38 eleggeva, in data a noi non pervenuta, il vescovo Zenobio. Terminerà il suo mandato nell’anno 1383, anno in cui fu traslato alla sede di Cesena. L’11 marzo 1383 alla sede di Tertiveri viene eletto, dal suddetto antipapa, il frate minore, Giovanni Dardelli; terminerà il suo mandato nell’anno 1403. Nello stesso anno viene traslato da Bovino a Tertiveri il vescovo Antonio, frate minore. Il 20 giugno 1409 viene nominato vescovo di Tertiveri, il vescovo Bartolomeo de Sperella, dei frati minori, traslato dalla sede di Lesina. Terminerà il suo mandato il 31 agosto 1425. In questo stesso anno la chiesa di Tertiveri, ormai di modeste dimensioni sia territorialmente che demograficamente, fu soppressa e annessa alla vicina diocesi di Lucera.39 Il vescovo di Lucera d’ora in poi sarà titolare della sede di Tertiveri. Questo titolo fu mantenuto fino al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II. L’ultimo vescovo che ne portò il titolo fu mons. Domenico Vendola (1941-1963). Annessione temporanea della diocesi di Civitate a Lucera (aa. 1439-1473) Nel 1439 fu annessa alla diocesi di Lucera la vicina diocesi di Civitate. Sede episcopale dal secolo XI fu coinvolta nello stesso vortice che stabilì la sorte delle altre cittadine di fondazione bizantina come Tertiveri, Montecorvino, Dragonara e Fiorentino. Il vescovo di Civitate estendeva la sua giurisdizione anche su San Severo e Torremaggiore. La sede vescovile di Civitate il 9 marzo 1580, per bolla di Gregorio XIII, fu soppressa e trasferita nella città di San Severo.40 38 L’antipapa Clemente VII (Roberto di Ginevra) fu eletto ad Anagni nel 1378 da un gruppo di cardinali francesi, nemici del papa Urbani VI. Ebbe la sua sede in Avignone, provocando lo scisma d’occidente (Clemente, «Nuovissima Enciclopedia Generale De Agostini», III, Novara, 1991, p. 322). 39 Mons. Savastio (Notizie, p. 20), sulla scia dell’Ughelli (Italia sacra, VIII, p. 357) e di Eubel (Hierarchia catholica, p. 504) sostiene che la cattedra vescovile di Tertiveri fu annessa a quella di Lucera nel 1403. 40 Sulla diocesi di Civitate cf. Sancti Severi et Civitatis origines ecclesiasticae eorumque Episcoporum census et ordo, in G.C. ROSSI, Synodus Severopolitanata a Joanne Camillo Rossi episcopo an 1826 celebrata, Napoli, 1826. Per uno sguardo alla cronotassi episcoporum della diocesi di Civitate cf. Cronotassi, iconografia ed araldica dell’episcopato pugliese, Bari, 1984, pp. 161-162. 179 Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento Cronotassi episcoporum Luceriae Agli inizi del XV secolo per la sede episcopale di Lucera, come abbiamo già accennato nel precedente studio sulla diocesi nel periodo dell’alto e basso medioevo, si ritrovano nominati ben due vescovi: Bassistachio de Formica, inviato dal papa alla sede di Lucera l’8 novembre 1396, nato a Termoli e morto verso il 1422, e Nicola Antonio, eletto vescovo di Lucera dall’antipapa il 04 luglio 1394, nato a San Pietro de Ahla, dell’Ordine dei Predicatori, traslato alla sede di Salpi il 22 aprile 1422. Vincenzo Di Sabato sostiene che dal 1414 al 1422 fu vescovo di Lucera un certo Francesco che al termine del suo episcopato fu trasferito in altra sede.41 Il 22 aprile 1422 fu nominato vescovo di Lucera Bassistachio de Formica, probabilmente nipote del precedente. Dottore in utroque jure, durante il suo episcopato caldeggiò l’edificazione della cappella di Santa Maddalena con strumento del 4 marzo 1422, sotto il regno di Ladislao.42 Morì a Roma nel 1450. Alla sua morte fu scelto per Lucera il napoletano Antonio Angelo, eletto il 5 maggio 1450, la cui nomina fu revocata il 1 luglio dello stesso anno, quando fu trasferito alla sede episcopale di Potenza. Lo stesso Di Sabato asserisce che dal 18 giugno 1440 fu vescovo di Lucera Giacomo, il quale resse la cattedra fino al 3 settembre 1443, data della sua traslazione alla sede di Orvieto.43 Sempre dalla stessa fonte pare che il suo successore fu un certo Bartolomeo, domenicano morto nel 1450.44 Segue nella lista Ladislao Dentice: domenicano per Cronotassi,45cisterciense per D’Amely.46 Cavaliere napoletano appartenente al sedile Capuano, ebbe la sede di Lucera prima in commenda, poi come titolo. Nel 1477, grazie al suo zelo e a quello di un gruppo di nobili lucerini, previo regio assenso, assegnò alle monache benedettine il locale della vecchia Dogana, restaurato, modificato ed unito alla preesistente sede.47 Morì nel 1478 e fu sepolto nell’abbazia di Santa Maria de Ferraria, nella diocesi di Chieti. 41 V. DI SABATO, Storia ed arte nelle chiese e conventi di Lucera, Foggia, 1971, p. 632. Idem. 43 Idem. 44 Idem. 45 Cronotassi, p. 212. 46 G. D’AMELY, Storia, p. 301. Il D’Amely sostiene che il Dentice sia stato Primo Abate Commendatario dell’Ordine dei Cistercensi. 47 F. DI IORIO, La cittadella dello spirito. La chiesa e il monastero di Santa caterina nella storia di Lucera, Foggia, 2007, p. 25. 42 180 Gaetano Schiraldi Pietro Ranzano: umanista e vescovo di Lucera Nella seconda metà del XV secolo, nella storia della città di Lucera, emerge in maniera forte e in tutta la sua portata una figura di vescovo che ha offerto un valente contributo e alla chiesa, e alla cultura del tempo. Il personaggio cui si fa riferimento è l’umanista Pietro Ranzano.48 Nacque a Palermo nel 1428 da nobile famiglia ed iniziò giovanissimo, sotto la spinta del padre, gli studi presso le Università toscane dove ebbe come maestro Antonio Cassarino di Noto. Nel 1444 entrò nell’Ordine dei Domenicani presso il convento san Domenico di Palermo.49 Nel registro delle professioni del convento di san Domenico di Palermo di lui si legge: «Fr. Petrus de Ranzano est filius conventus et fuit magister in theologia, factus est Episcopus Lucerinus». Proseguì gli studi a Firenze e Perugia, mentre a Pistoia ebbe la fortuna di conoscere il beato Lorenzo Ripafratta da Pisa, a quel tempo ormai in età avanzata. Per sette anni fu suo maestro, come egli stesso dice, fr. Battista da Fabriano, uno dei più dotti filosofi e teologi del suo tempo. Alla sua scuola si formò nella dialettica, nella filosofia morale e nella teologia. Nello studio teologico a Firenze ebbe come maestro fr. Leonardo da Perugia, che diverrà in seguito maestro generale dell’Ordine dei Predicatori. Nel 1449 il Ranzano aveva conseguito il grado di Baccelliere, per cui era già stato ordinato sacerdote nonostante la sua giovane età, infatti, nel mese di maggio dello stesso anno, nel convento di S. Domenico a Palermo occupava il posto dopo i maestri di teologia. Pare che il Ranzano abbia insegnato a Roma negli anni 1449-1451 e a Napoli negli anni 1452-1453. Eletto, l’8 aprile 1455, papa Callisto III, il Ranzano ebbe da subito un ruolo fondamentale nella politica riformatrice di questo papa. Molto s’impegnò per la 48 Per altri approfondimenti sul Ranzano cf. F.A. TERMINI, Pietro Ranzano umanista palermitano del secolo XV, Palermo, 1915; cf. anche M.A. CONIGLIONE, O.P., La Provinia Domenicana di Sicilia. Notizie storiche documentate, Catania, 1937. 49 Il Coniglione ritiene che il Ranzano abbia fatto ingresso nell’Ordine in un tempo precedente al 1444, addirittura in un’età non ancora canonicamente consentita (CONIGLIONE, La provincia Domenicana, p. 29n.). A tal proposito il Coniglione afferma che: «L’essere stato compagno di studi di fr. Mariano da Bitonto a Perugia nel 1442-1443(Perusii adolescens una cum eo liberalibus disciplinis operam dedi studio pertinacissimo, ita ut brevi cunctos in eo conturbernio iuvenes superavissemus-Annales, III, fol. 382); l’essere stato affezionato più che un figliolo al celebre P. Enrico Lugardi, Palermitano, suo maestro (Annales, III, fol. 10), il quale nel 1440 insegnava a Firenze col grado di maestro degli studi; il trovarsi in Firenze nel tempo che Eugenio IV abitava in S. Maria Novella e tante altre circostanze favorevoli m’inducono a credere che il Ranzano abbia preso l’abito Domenicano in S. Marco di Firenze per il Convento di S. Domenico di Palermo, come era avvenuto per il B. Pietro Geremia. Il trovarsi poi nel 1444 in Catania ed essere presente a vedere coi propri occhi quanto accadde nella eruzione dell’Etna, come si è accennato altrove, e raccontarne a vivi colori l’episodio del B. Pietro Geremia, che arresta la lava nel suo corso per mezzo del velo di S. Agata; il trovarvisi anche nel 1445 per incontrarsi con Giovanni Filingieri, che gli dette a leggere un suo lavoro su “La guerra del Sultano a Cipro”, sono argomento insieme ad altre circostanze, che il Ranzano era allora religioso domenicano da qualche anno». 181 Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento canonizzazione del domenicano Vincenzo Ferreri. Lo stesso papa lo scelse come collaboratore di Marziale Auribelli, maestro generale dell’Ordine domenicano, nella formazione del processo e nella stesura della vita del Servo di Dio. Eletto Provinciale ed inviato in Sicilia, si impegnò per la diffusione del culto a san Vincenzo Ferreri. La vita di questi composta dal Ranzano fu approvata nel 1456, durante una delle sessioni del Capitolo Generale di Mompellier. Durante il suo governo da Ministro Provinciale, svolto per ben due quadrienni (1455-1459; 1463-1467), dimostrò fattivamente quanto sia stata proficua la sua amicizia con il beato Pietro Geremia e con altri riformatori dell’osservanza in terra italiana. Volle la realizzazione di un centro studi nel convento di Palermo per la formazione dei futuri religiosi dell’Ordine; aprì un altro convento a Messina per creare e favorire in maniera più piena l’osservanza. Favorì ed incoraggiò il Vicario degli osservanti a conformare il loro progetto per l’osservanza su quello del convento di san Domenico di Palermo. Tra il primo quadriennio di provincialato e il secondo (1459-1463), il Ranzano cominciò a comporre gli Annales omnium temporum, che giunsero a ben otto volumi. Il Ranzano svolse, pure, le mansioni di nunzio e di commissario per la crociata contro i turchi, il che gli permise di viaggiare per la Sicilia, accompagnato dal salvacondotto del Vicerè. Il suo incarico consisteva nel predicare e diffondere le motivazioni da sostenere contro i turchi e nel raccogliere il denaro per l’impresa. In molti luoghi poterono sperimentare l’autorevolezza della sua persona. Tra le tante caratteristiche che risplendevano in Pietro Ranzano figurava quella dell’eloquenza. Da molti testi appare la sua passione per la predicazione. La sua parola fu vibrante in occasione delle esequie del cardinale Domenico Capranica (1458), di Maffeo Veggio nello stesso anno, del vescovo Francesco Toletano (1479), del re d’Ungheria Mattia Corvino (Budapest 1490). Alla fine del 1469 fu convocato da Ferdinando d’Aragona, re di Napoli, il quale gli affidò l’educazione religiosa e culturale del figlio Giovanni50, che diverrà cardinale. Di fatto fu proprio il cardinale Giovanni d’Aragona che presentò il nome del Ranzano a papa Sisto IV e a caldeggiare la sua nomina. Era, infatti, il mese di settembre del 1476, quando Pietro Ranzano fu eletto vescovo di Lucera.51 Durante l’episcopato lucerino fu coadiuvato dal suo omonimo nipote che ricopriva la carica di vicario.52 50 P. RANZANO, Annales, III, fol. 416. Lo Schifaldo scriveva nel 1486: «Hic enim theologiae professor clarus oratoriae facultati atque poeticae ita insudavit ut in oratorem et poetam celebrem evaserit, cuius eloquentiae fama impulsus Ferdinandus…» (Coniglione, La Provincia Domenicana, p. 176). 51 Cronotassi, iconografia ed araldica dell’episcopato Pugliese (Bari, 1984, p. 212) pone la nomina del Ranzano al 5 ottobre 1476. 52 Nell’Archivio dell’Ordine domenicano (IV, 9, fol. 130) così si legge: «Fr. Petrus de Ranciano conventus panormitani potest esse Vicarius Episcopi Lucerini». 182 Gaetano Schiraldi Poche righe per rendersi conto in maniera tangibile dell’essere di Pietro ranzano: uno scrittore, uno storico, un poeta, un annalista, in parole povere: un umanista! Lo Schifaldo scrisse di lui: «Scripsit enim, sed ad hunc usque diem non dum ediderit Annales memorabilium rerum quae tempestate sua ad hunc diem et tandem ad extermum suae vitae memoratu digna acciderint, romano profecto atque emendatissimo stilo et qualem talis historia exigit».53 Abbiamo già accennato che tra le opere del Ranzano figurano anche gli Annales omnium temporum, un’opera divisa in otto volumi, mancante del quarto, e in cinquanta libri. Stando alla testimonianza di Leandro Alberti, che ebbe la possibilità di consultarli per le notizie geografiche e topografiche, gli scritti erano divisi in quattro grossi volumi. Infatti, egli così scrive: «Volumina IV grandiora de omnibus scientiis tam pratici quam speculativis, de Geographia etiam Historia stylo suavi et compto».54 Negli Annales del Ranzano sono raccolte le seguenti opere:55 Epitome rerum Hungaricarum cum appendice edita a Joanne Sambuco, la Vita S. Vincentii Ferrerii, il De auctore primordiis et progressu felicis urbis Panormi, l’Epistola quae est veluti praefatio quaedam ad ea, quae scripta ab ipso (Ranzano) sunt de vita beati Vincentii confessoris, In beatae Barbarae virginis et martiris vitam et martirium ad Philippum Perdicarium clasissimum iure consultum praefatio, l’Officium S. Vincentii Ferrerii confessoris, il Martirium beati Antonii (da Rivoli) lombardi ord. Praed.; ricordiamo anora l’Hymnus ad laudem crucis Iesu Christi, il De nova geografia, il De poenitentia, le Orazioni ed epistole. Stralci di scritti del Ranzano sono riportati nell’Appendice del volume pubblicato dal Termini.56 Per la storia della città di Lucera il Ranzano compose il De laudibus Lucerina civitatis, un’opera lodata anche dal Pacciuchelli.57 Nel suo episcopato lucerino si adoperò instancabilmente per la riforma del clero, del capitolo e nell’abbellimento della chiesa cattedrale. L’unica testimonianza diretta del suo episcopato ci è data da una bolla da lui sottoscritta il 30 gennaio 1486, in cui si appresta a nominare il canonico Coluccio da San Martino rettore della Cappella di San Giovanni Battista, sita nella cattedrale di Lucera.58 Sull’antico coro dei canonici, «ex lapidibus constructus»,59 fece incidere que53 Idem, p. 176. L. ALBERTI, Descrittione di tutta l’Italia, Venezia, 1551, p. 207. 55 Per le relative edizioni a stampa degli scritti del Ranzano cf. CONIGLIONE, pp. 183-184. 56 TERMINI, pp. 151-190. 57 G. PACICHELLI, Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, III, Napoli, 1703, p. 106. 58 A. PETRUCCI, I più antichi documenti originali del Comune di Lucera (1232-1496) [Codice Diplomatico Pugliese XXXIII], Castellana Grotte, 1994, pp. 230-231, doc. 63. 59 G. GIFUNI, Origini del ferragosto lucerino, Lucera, 1933, p. 83n. 54 183 Rinascimento cristiano in prospettiva umanistica. La diocesi di Lucera nel Quattrocento ste parole: «Quae data prima mihi sponsa es. Luceria, salve: non potero vivens immemor esse tui».60 Inoltre, «a un lato del corridoio di quello che termina all’entrata di alto verso l’antico altare di S. Maria, pose il noto epitaffio: Petrus Ranzanus-Jesu Christi servus panormitanus theologus-hoc opus beati Maria Virgini-dicavit anno salutis MCCCCXCI».61 Per la cattedrale fece realizzare un nuovo organo da usare nelle liturgie vescovili. Il del Preite asserisce che al suo tempo nella sacrestia della cattedrale vi era una immagine del vescovo Ranzano, «figurata ginocchioni, che tiene l’organo fra le mani».62 Lo stesso scrittore seicentesco riferisce un racconto allegorico per descrivere la nobiltà della figura del Ranzano. Egli, riferendosi al salmo 50, esposto da Cassiodoro, scrive: «Organus itaque est quasi turris quidam diversis fistulis fabbricata quibus flatum follium vox copiosissima destinet, et ut eum modulato decora componat linguis quibusdam ligneis ab interiori onte costruit suas disciplinabiter magistrorum digiti reprimentes grandifonum efficiant e suavissimam cantilenam. Nel nostro lodatissimo Ranzano i mantici erano i sensi canori, le canne denotavano l’intellettive e volitive potenze, i tasti dimostravano gli effetti dell’animo, dagli accidenti mondani, e diversi per mezzo dei sensi, che suppliscono invece di mantici all’intelletto, ed alla volontà si elevano spiriti flautosi di umano risentimento, ma rivolgendosi la maestra ragione sopra i tasti dei designati affetti, con la mano destra della contemplazione delle cose eterne e con la man sinistra del giudice delle transitorie, e variamente movendo le speditissime dita che sono i puri discorsi, viene così leggiadramente a reprimere ed a disporre quel veemente suono delle passioni nascenti, che ne cava fuori una sì dolce armonia, che avanza di gran lunga quella degli organi, che veggiamo, anzi di qualsivoglia altro più sonoro e più soave istrumento, tanto più eccellente quanto è superiore lo spirituale al temporale al corruttibile, il sempiterno, ed il celeste al terreno; Oh! santo organo di virtù, la tua sì rara e continua melodia era ascoltata dagl’Angeli, temuta dai Demoni, ammirata dagli uomini, ed era gratificata da Dio, e goduta pienamente da tutto il Paradiso».63 Alla sua morte, avvenuta nel 1492, fu sepolto avanti all’altare maggiore della cappella dell’Episcopio di Lucera.64 60 Idem. DEL PREITE, p. 133. 62 Idem. 63 Idem, pp. 134-135. 64 Idem, p. 134. 61 184 Gaetano Schiraldi Continuazione della Cronotassi dei vescovi di Lucera. In seguito alla morte di Pietro Ranzano, il 2 dicembre 1493, fu traslato a Lucera dalla diocesi di Minori, il vescovo Giambattista Contestabile, nato a Benevento. Morto nel 1496. Gli successe lo spagnolo Antonio Torres (o de Torres), dell’Ordine di San Girolamo, eletto a Lucera il 07 novembre 1496. Nella lettera di nomina del Torres, sottoscritta da papa Alessandro VI, si invitava il novello vescovo a recarsi a Roma per allietare il papa con il suono del violino.65 Resse la diocesi fino al 17 maggio 1497, data del suo trasferimento alla sede di Sutri. Nella stessa data fu eletto vescovo di Lucera Raffaele Rocca, canonico di Gerona in Spagna. Ricoprì l’incarico fino alla sua traslazione alla sede di Capri, avvenuta il 21 ottobre 1500. 65 ARCHIVIO CAPITOLARE LUCERA, Indice delle Carte e dei privilegi, fol. 97; cf. anche DI SABATO, Storia ed arte, pp. 632-633. 185 186 Federica Albano Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) di Federica Albano 1. Il contesto normativo Questo studio si propone di approfondire la storia del Real Collegio di Lucera dalla sua fondazione nel decennio francese fino al successivo periodo della restaurazione borbonica. Prima, però, per meglio comprendere questa istituzione e le finalità che si proponeva, è opportuno approfondire il contesto normativo in materia di pubblica istruzione che caratterizzò il Regno di Napoli nei primi dell’Ottocento. Infatti, durante il Decennio francese si registrarono i rilevanti cambiamenti sul piano legislativo, tra i quali si inserirono anche gli interventi in tema di istruzione. Inizialmente il governo francese ne affidò la piena responsabilità al Ministero dell’Interno, sottraendola così alla confusione di poteri a cui era soggetta nell’antico regime. Da una indagine condotta dal governo per valutare il quadro generale delle scuole del regno, risultò che le Scuole Normali,1 rarissime, dipendevano dalla beneficenza pubblica e l’istruzione superiore era affidata agli ordini religiosi. L’attività di governo si concentrò sull’istruzione primaria che appariva più debole.2 Nell’agosto del 1806 fu emanato un decreto nel quale si obbligavano ‹‹tutte le città, terre e luoghi del regno a mantenere un maestro che insegnasse i primi 1 Le Scuole Normali furono istituite per volontà dei Borboni nel 1784, quando si manifestò l’intenzione di aprire queste scuole sull’esempio di quanto era avvenuto in altri contesti italiani. L’insegnamento era impostato secondo i dettami del cosiddetto metodo normale. Questo, ideato da Johann Felbiger, era una tecnica di insegnamento basata su norme predefinite ed uguali per tutti. Nel 1789 due ordinanze formalizzarono l’apertura di Scuole Normali pubbliche prima nella capitale e poi nel resto del paese. La fondazione di queste scuole si prefisse di alfabetizzare il grosso della popolazione. La didattica era suddivisa in quattro classi: in prima e seconda, oltre al catechismo, si imparava a leggere, scrivere e far di conto; in terza si familiarizzava con applicazioni pratiche quali la compilazione di lettere e ricevute; la quarta era riservata all’istruzione tecnico-professionale poiché comprendeva, secondo le vocazioni territoriali, lo studio dell’agricoltura, della nautica oppure del commercio. Cfr. M. Lupo, Tra le provvide cure di sua Maestà. Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 37-39. 2 LUPO, Tra le provvide cure di sua Maestà, pp. 61-62. 187 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) rudimenti e la dottrina cristiana ai fanciulli››,3 ossia ad aprire una scuola primaria maschile ed una femminile dove si insegnassero l’alfabeto e la dottrina cristiana. Le spese per il mantenimento degli insegnanti andavano a carico della finanza comunale. Con questo provvedimento si superava la vecchia logica perdente di affidare l’istruzione primaria ai monasteri. Vennero individuati gli edifici che avrebbero ospitato le scuole primarie e furono individuate anche le modalità di nomina dei maestri, ossia per atto regio su proposta del Decurionato. L’istruzione superiore venne regolamentata nel maggio 1807. Fu stabilito di aprire due collegi pubblici a Napoli ed uno in ciascuna provincia. Ad ogni istituto spettava una dotazione finanziaria governativa a cui si assommavano le rette. A capo di ogni istituto venne posto un rettore coadiuvato da un vicerettore e da un economo. L’ordinamento didattico comprendeva quattordici discipline di cui nove obbligatorie (italiano, latino, greco, retorica, matematica, filosofia, storia, geografia e fisica) e cinque facoltative (francese, calligrafia, disegno, scherma e ballo). Gli alunni, infine, furono suddivisi in esterni e convittori: i primi frequentavano semplicemente le lezioni, i secondi vivevano negli istituti per tutta la durata del corso di studi. Nel comparto dell’istruzione tecnico-professionale, mentre si riformavano le scuole esistenti (Scuole Nautiche di Sorrento e Convitto di San Giuseppe a Chiaia), fu decretata l’apertura, a Nola, di una Scuola di Arti e Mestieri. I provvedimenti per l’Università non apportarono variazioni di rilievo al precedente assetto. Le facoltà rimasero quelle stabilite nella vecchia riforma: Giurisprudenza, Medicina, Filosofia, Teologia, Lettere e Scienze Naturali. Anche la sede rimase immutata a Napoli. Il governo, infine, utilizzando le risorse ricavate dalla vendita dei beni dei monasteri soppressi, aveva promosso una serie di iniziative culturali: la ristrutturazione del Museo Mineralogico e dell’Osservatorio Astronomico, l’aumento delle disponibilità finanziarie per l’Orto Botanico, la fondazione della Società d’Incoraggiamento e la ripresa degli scavi di Pompei.4 Nel maggio 1808 Giuseppe Bonaparte lasciava Napoli per il trono di Spagna. Il suo successore, Gioacchino Murat, ereditava uno stato ed un’amministrazione profondamente riformati, anche se alcune riforme stentavano a tradursi in pratica. Sul piano dell’istruzione il governo cercò di attuare un piano di intervento complessivo. Per questo obiettivo fu istituita una Commissione, cui presero parte anche uomini strettamente legati al governo come Vincenzo Cuoco, con l’incarico di formulare un progetto di riforma della scuola pubblica che guardasse sia agli ordinamenti francesi, sia alle specifiche necessità del paese. Il primo atto della Commissione fu quello di avviare un’indagine per verificare gli effetti del decreto, emanato nel 1806, sull’istruzione primaria. 3 A. M. RAO (a cura di), Cultura e lavoro intellettuale: istituzioni, saperi e professioni nel Decennio francese. Atti del primo seminario di studi sul Decennio francese (1806-1815), Napoli, Giannini Editore, 2009, p. 206. 4 LUPO, Tra le provvide cure di sua Maestà, pp. 61-67. 188 Federica Albano Il quadro generale che emerse sembrava confortante: infatti nella città di Napoli le scuole primarie aperte durante il biennio giuseppino funzionavano, sebbene si rilevassero delle disfunzioni. La cosa si complicava, invece, nelle province del regno. I problemi che pregiudicavano l’applicazione della normativa e l’effettivo funzionamento delle scuole erano individuati nella scarsità dei mezzi finanziari, dal momento che i comuni disponevano unicamente delle risorse, assai variabili, provenienti dalla tassazione. L’altra motivazione, addotta dalla maggioranza degli amministratori, era la necessità, da parte delle famiglie, di impiegare i bambini nelle attività lavorative a causa della precarietà dei bilanci familiari. La stessa normativa, in alcuni casi, rischiava di trasformarsi in un impedimento alla diffusione delle scuole primarie. La scelta di far ricadere sui comuni l’onere dei finanziamenti generava degli equivoci: infatti molte amministrazioni ritennero di poter liberamente decidere se aprire o meno le scuole. Nel settembre del 1810 venne emanato un nuovo decreto per l’istruzione primaria che conteneva diverse innovazioni rispetto alla normativa del 1806. La novità più significativa fu che l’istruzione primaria diventò esplicitamente obbligatoria: tutti i bambini dovevano frequentare la scuola, i comuni erano tenuti a compilare una lista dei potenziali alunni, ai maestri, infine, spettava la verifica delle presenze. I comuni vennero obbligati a fornire locali e materiali scolastici. Per alleggerire la finanza locale, inoltre, i costi dell’istruzione primaria vennero in parte trasferiti sulle famiglie con l’istituzione di una tassa mensile. Alcune tra queste norme provocarono delle polemiche: infatti i commissari, e specialmente Cuoco, ritenevano che la tassa scolastica avrebbe ulteriormente depresso la frequenza. Ogni controversia fu sciolta dall’emanazione del fondamentale atto del Decennio in ambito scolastico: il Decreto Organico per la Pubblica Istruzione del 1811. Per la prima volta nella storia del Regno, la materia veniva trattata nel suo complesso. Riguardo all’istruzione primaria, il Decreto, pur confermando quanto stabilito nel 1810, disponeva il ritorno alla gratuità. Un’attenzione particolare venne dedicata all’istruzione superiore. Questa, interamente riorganizzata, fu suddivisa in tre gradi. Il primo comprendeva le cosiddette scuole secondarie, che i comuni potevano facoltativamente aprire a proprie spese, ed i seminari diocesani, posti alle dipendenze dei vescovi. Il secondo grado era formato dai collegi. Il terzo da licei dotati di convitto. Per i collegi e i licei venne dettagliato l’ordinamento didattico. Nei collegi dovevano istituirsi cattedre di grammatica, retorica, filosofia e matematica. Per i licei, diciassette in totale, oltre alle cattedre presenti nei collegi, si prevedevano anche insegnamenti universitari; difatti ciascun liceo doveva specializzarsi in una delle facoltà universitarie in modo che gli alunni potessero raggiungere Napoli solo per sostenere l’esame finale. Anche l’Università venne riformata. La facoltà di Scienze Naturali, grazie alla creazione di un corso di laurea in matematica, fu trasformata in facoltà di Scienze 189 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) Fisico-Matematiche. Furono stabiliti tre gradi dottorali: approvazione, licenza e laurea. Il provvedimento più significativo fu quello che pose fine alle ingerenze dei Collegi dei Dottori e riconobbe all’Università l’esclusivo diritto di rilasciare gli attestati di laurea e, soprattutto, quello di riscuotere i relativi proventi. Il Decreto Organico creò anche una struttura amministrativa e di controllo che doveva garantire il buon funzionamento del sistema scolastico pubblico: al vertice di tale struttura vi era la Direzione Generale di Pubblica Istruzione, il cui direttore rispondeva al ministro dell’Interno, e in ciascuna provincia operava un Giurì d’esame, incaricato di informare la Direzione sulla situazione locale.5 I Borbone, al loro ritorno nel 1815, accolsero varie riforme economicoamministrative attuate durante il periodo francese. La vicenda degli ordinamenti scolastici fu solo in parte differente da quella delle altre innovazioni introdotte dal Decennio: le incertezze iniziali, infatti, furono assai meno accentuate e si manifestarono unicamente nel comparto dell’istruzione primaria. Tutti i fondamentali provvedimenti di carattere generale vennero da subito confermati, sia pure con qualche modifica. Il sistema scolastico pubblico continuò a dipendere esclusivamente dal Ministero dell’Interno, nel cui seno si conservò anche l’organismo amministrativo preposto. Tale organismo venne costituito da una Commissione di Istruzione Pubblica, presieduta da Ludovico Loffredo principe di Cardito (agosto 1815). Sei mesi dopo (febbraio 1816) si riconobbe la necessità di una struttura di controllo a carattere centralizzato, la quale, aboliti i Giurì, venne formata da un gruppo di dodici funzionari governativi, nucleo originario del futuro corpo degli Ispettori Generali della Pubblica Istruzione.6 Anche la fisionomia dell’istruzione superiore ed universitaria rimase identica a quella delineata nel Decreto del 1811. L’amministrazione borbonica, inoltre, attuò una serie di interventi che miravano a colmare alcune lacune della normativa francese. Le scuole secondarie, il cui ordinamento era rimasto alquanto vago durante il Decennio, diventarono spesso dei luoghi specializzati nell’insegnamento dell’agronomia, come accade, per esempio, alle scuole aperte nel 1817 ad Acerra (Terra di Lavoro), Chieti (Abruzzo citra), Riccia, Morcone, Trivento, Agnone, Larino, Campobasso, Isernia, Guglionesi, Frosolone, Civitacampomarano (Molise), Putignano (Terra di Bari), Cosenza (Calabria citra), Catanzaro (Calabria ultra II), Avellino (Principato ultra), Lucera e Foggia (Capitanata).7 Collegi e licei beneficiarono di interventi che razionalizzarono la gestione finanziaria, aumentarono il numero delle cattedre, crearono nuove 5 Ivi, pp. 69-79. Ivi, pp.87-88. 7 Ivi, p. 88. Si veda, a questo riguardo, R. De Lorenzo, Società economiche e istruzione agraria nell’Ottocento meridionale, Milano, 1998. 6 190 Federica Albano sedi e ne riarticolarono la distribuzione territoriale. Durante il periodo francese diversi istituti tra quelli previsti non erano entrati in funzione poiché i progetti eccedevano le possibilità organizzative, ma soprattutto finanziarie, del governo. L’amministrazione borbonica, preso atto di ciò, sospese anzitutto la concessione di piazze franche sino alla compilazione degli Stati Discussi, il documento contabile che certificava il pareggio tra entrate ed uscite (ottobre 1815). Qualche mese dopo (febbraio 1816) venne emanata una serie di norme tanto dettagliate quanto innovative. Gli Statuti per i Reali Licei del Regno di Napoli stabilirono che ciascun liceo, al pari dell’Università, potesse rilasciare, previo esame, i primi due gradi dottorali: approvazione e licenza. L’ordinamento didattico venne ampliato, per conseguenza, sino a trentadue discipline: catechismo; grammatica, lingua e letteratura italiana; grammatica, lingua e letteratura latina; grammatica, lingua e letteratura greca; filosofia; storia sacra e verità della religione cattolica; storia profana; mitologia; storia naturale; geografia; aritmetica pratica; matematica sintetica; matematica analitica; fisica matematica; chimica; farmacia; diritto di natura; diritto del Regno; procedura civile; diritto criminale; procedura criminale; anatomia; fisiologia; chirurgia teoretica e pratica; ostetricia; medicina dogmatica; medicina pratica; francese; calligrafia; disegno; ballo; scherma. Queste disposizioni, inserendosi nel solco tracciato durante il Decennio, favorivano la trasformazione dei licei in altrettante università di provincia. Sempre negli Statuti, poi, si precisarono i testi da adottare, gli orari delle lezioni, la durata del corso e le modalità per lo svolgimento degli esami di profitto. A capo di ciascun liceo rimase il rettore, affiancato da un vicerettore, un economo, un contabile ed un prefetto d’ordine. La responsabilità amministrativa andò ad un Consiglio di Amministrazione composto dall’intendente della provincia, dal rettore, dal contabile e da due proprietari locali. Ad ogni liceo, infine, rimase annesso un convitto cui, come in precedenza, si poteva accedere sia pagando una retta, sia beneficiando degli usuali aiuti governativi: mezze o intere piazze franche.8 I collegi, oggetto di disposizioni altrettanto minuziose, potevano dotarsi o meno di convitto. Nel primo caso la normativa ricalcava quella dei licei. Le cattedre, tuttavia, rimasero in numero minore: catechismo; grammatica, lingua e letteratura latina; grammatica, lingua e letteratura italiana; grammatica, lingua e letteratura greca; filosofia; diritto di natura; verità della religione cattolica; matematica; fisica; francese; calligrafia; disegno. Nei collegi senza convitto, dove si applicavano per quanto possibile le disposizioni sinora elencate, erano previste soltanto cattedre di catechismo, italiano, latino e greco. Nei mesi successivi il quadro fu completato da provvedimenti che stabilirono l’apertura di nuovo collegio a Campobasso (marzo 1816), il trasferimento 8 Ivi, pp. 89-90. 191 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) dei collegi di Sulmona ed Avigliano rispettivamente a L’Aquila (marzo 1816) e Potenza (maggio 1816) e la trasformazione in licei dei collegi di Bari ed Aquila, che si aggiungevano così a quelli di Napoli, Salerno e Catanzaro (gennaio 1817).9 Le riforme del Decennio furono accolte, con qualche integrazione, anche riguardo all’Università. Il diritto di rilasciare i gradi dottorali venne confermato. La stessa cosa accadde per la presenza, accanto alla laurea, dell’approvazione e della licenza. Nel marzo 1816 la normativa venne perfezionata dall’emanazione degli Statuti per la Regia Università degli Studi del Regno di Napoli. Le facoltà rimasero le medesime stabilite nel Decreto Organico, mentre il numero delle cattedre fu aumentato a cinquantatré. Un anno dopo, infine, vennero fissate le norme concorsuali per l’assegnazione delle cattedre.10 Nel comparto dell’istruzione primaria l’accettazione delle riforme fu meno lineare. A pochi giorni dall’insediamento, Cardito trasmetteva al ministro dell’Interno, Tommasi, una dichiarazione programmatica che invitava a recepire le riforme scolastiche messe in atto durante il Decennio: l’istruzione, ed in particolare quella primaria, doveva rimanere sotto il controllo del governo. Ma qualche mese dopo sosteneva una tesi diversa: la scuola primaria andava affidata ai parroci perché, data la capillarità delle parrocchie, non esisteva altro modo per assicurare un’istruzione fondata sui precetti della religione ed accessibile ad ogni comunità. Facendo dei parroci altrettanti maestri, inoltre, si sarebbe risolto il problema del personale. Nel maggio 1816 fu emanato un Regolamento per le scuole primarie che accoglieva le tesi di Cardito. L’istruzione primaria, il cui finanziamento rimaneva a carico dei comuni, fu posta alla dipendenza delle curie; tutti i maestri laici andavano licenziati; le scuole dovevano aprirsi nelle parrocchie; ai vescovi spettava il compito di indicare, scegliendoli tra i parroci di ciascuna diocesi, i nuovi dipendenti. Si trattava di norme in palese contrasto con lo spirito che aveva animato il periodo francese. Il Regolamento del 1816 rafforzava anzitutto l’obbligatorietà dell’istruzione primaria e rappresentava un atto di transizione, concepito quando ancora dominavano i contrasti tra murattiani e legittimisti. Il suo destino, del resto, era quello di venire progressivamente sconfessato. I poteri pubblici non intendevano rinunciare alle proprie funzioni di sorveglianza, tanto è vero che, nel giugno 1816, vennero nominati dei delegati provvisori alla pubblica istruzione primaria, con l’incarico di informare le Intendenze circa l’operato dei parroci-maestri. Sul finire dello stesso anno 1816, inoltre, fu varata una struttura di sorveglianza che faceva capo alla Commissione. Si trattava del Corpo degli Ispettori Scolastici, i quali erano suddivisi in distrettuali e circondariali. Questi funzionari, cui vennero riconosciuti ampi poteri, rivestivano un ruolo delicato: garantire, raccordando centro e periferia, l’applicazione della normativa in un comparto, la scuola primaria, dove 9 Ivi, p. 90. Ivi, pp. 90-91. 10 192 Federica Albano la diffusione territoriale implicava spesso una perdita di controllo da parte delle autorità centrali.11 Nell’anno 1819 i tempi erano maturi per un intervento radicale. Nel dicembre dello stesso anno, infatti, venne emanato un Rescritto nel quale, oltre a sancire l’introduzione delle scuole lancasteriane,12 si stabilì che l’istruzione primaria tornasse sotto il pieno controllo dei poteri pubblici. Il Rescritto, infatti, era esplicito su un punto: la scelta dei maestri, e per conseguenza la responsabilità sulle scuole primarie, spettava alla Commissione Cardito.13 2. La fondazione del Collegio Il Real Collegio di Lucera (come si è visto) trae la sua origine dalla legge del 30 maggio 1807 per la fondazione dei collegi nella capitale e nelle province del Regno, emanata da Giuseppe Napoleone. Era scritto nell’art. I: Saranno stabiliti due collegi reali per la provincia di Napoli, ed uno per ognuna delle province del nostro Regno nelle città, che destineremo, diretti alla educazione ed istruzione della gioventù nelle scienze ed arti liberali.14 Già prima che la legge fosse emanata, era stato deciso che sede del Real Collegio per la provincia di Capitanata sarebbe stata Lucera. Precedente a questo provvedimento, e in qualche modo connesso, fu la legge sulla soppressione degli ordini religiosi delle regole di S. Bernardo e di S. Benedetto e le loro diverse famiglie, emanata il 13 febbraio 1807 da Giuseppe Napoleone. Anche l’ordine dei Celestini di Lucera fu abolito e i loro beni, come quelli delle altre corporazioni soppresse, riuniti al Demanio della Corona.15 Con il successivo decreto del 29 marzo dello stesso anno firmato a Trani, 11 Ivi, pp. 91-95. Le scuole lancasteriane sembrarono essere il modo più efficace per aumentare l’offerta di istruzione primaria. Sviluppato in Inghilterra da Samuel Bell e Joseph Lancaster, il metodo lancasteriano (o monitorale) comprimeva i costi della scolarizzazione: le classi, infatti, venivano suddivise in gruppi di lavoro, ciascuno affidato ad un alunno tra i più preparati (monitore) e ciò consentiva, impiegando un solo maestro, di istruire un centinaio di bambini per classe. L’introduzione a Napoli del metodo lancasteriano fu dovuta all’abate Antonio Scoppa, il quale, dopo averlo appreso in Francia, chiese di poterlo sperimentare nel Regno. La richiesta venne accolta e la Commissione autorizzò l’apertura di una scuola affidata allo stesso Scoppa (agosto 1817). Poiché i risultati erano incoraggianti, la Commissione decise di favorire ulteriormente l’iniziativa. Nel febbraio 1819, infatti, il già ricordato Rescritto ufficializzava l’adozione del metodo. Cfr. Ivi, pp. 107-108. 13 Ivi, pp. 96-97. 14 A. SALANDRA, Il Convitto Nazionale di Lucera. Discorso pronunciato il 30 maggio 1907 in occasione del primo centenario della fondazione dell’Istituto da Antonio Salandra, in Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, Lucera, Editrice Catapano, 1975, p. 30. 15 Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 13. 12 193 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) Giuseppe Napoleone destinava a uso di un collegio da istituirsi il monastero dei Celestini, il che proverebbe che il collegio di Lucera fu uno dei primi a sorgere nel Regno: ‹‹Il Convento soppresso dei Celestini di Lucera è destinato a collegio che sarà stabilito in quella città››.16 Per ogni collegio fu stabilita una dotazione di ducati 6000 proveniente dalle rendite dei beni delle corporazioni religiose soppresse e da altre fonti. La dotazione per il collegio di Lucera fu stabilita con decreto firmato a Napoli da Giuseppe Napoleone il 26 novembre 1807 in ducati 6009,22.17 Visto il rapporto del Ministro di Finanza; Visto l’art. 5 della nostra legge de’ 30 maggio corrente anno; Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue: Art. 1. Le seguenti rendite e frutti capitali di nostra pertinenza esistenti nella Provincia di Capitanata, sono addetti alla dotazione del Collegio di Lucera.18 Seguiva una elencazione in cui si precisavano le ‹‹rendite››, i ‹‹frutti››, i ‹‹capitali›› che formavano la dotazione e che si trovavano a Sant’Agata, a Trevico, a Troia, a San Bartolomeo in Galdo, a Monte Sant’Angelo, a Manfredonia, a San Severo, a Varano, a Biccari e a Lucera.19 Tab. 1 - Casa di S. Agata Censi in S. Agata da diversi ducati 39,32 Capitali in detto luogo da diversi 45,49 Censi in Accadia 0,85 Capitali in Trevico 1,80 Censi in S. Agata in grano tom. 82, che a duc. 2 sono In orzo tom. 20, che a gr. 90 sono 164,00 18,00 In Troia per censo sopra territorio della grancia di S. Bartolomeo 145,00 Totale 414,46 16 V. ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, Foggia, Stab. Tipo-litografico Pollice, 1884, p. 14. 17 Ibidem. 18 Ivi, p. 41. 19 Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 13. 194 Federica Albano Tab. 2 - Casa di Monte Sant’Angelo Censo del marchese Celentani per la masseria in Ramatola Censo dell’Annunciata di Sulmona per una simile in annue tomola 108 di grano, che a d. 2 sono In orzo tomola 48, che a gr. 90 sono Censi in Monte da diversi Totale ducati 1.340,00 216,00 43,20 108,95 1.708,15 Tab. 3 - Casa di Manfredonia Censo per l’osteria di Manfredonia Censo per la mezzana da pascolo in Bolzano Censi in Manfredonia enfiteutici, e redimibili da diversi Totale ducati 78,00 90,00 150,00 318,00 Tab. 4 - Casa di San Severo Censo per la mezzana detta Claves in San Severo Censo per la mezzana detta S. Giusto la Padula Censo del Marchese Cimaglia per lo territorio detto Quatrone S. Nazzaro in San Severo Censo per la masseria grande detta S. Giovanni in Pane, annui Censi in San Severo enfiteutici, redimibili da diversi Totale ducati 270,00 40,00 20,00 1.892,00 358,71 2.580,71 Tab. 5 - Casa di Ripalta Censi in Varano da diversi ducati 51,00 Tab. 6 - Casa di Lucera Censi enfiteutici, e redimibili in Lucera da diversi ducati 86,90 Tab. 7 - Allodiali in Biccari Rendite in capitali annui ducati 150,00 Tab. 8 - Ex Monte Borbonico Dal sig. Benedetto del Sordo per rendite di capitali 195 ducati 700,00 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) A questo elenco seguivano altri tre articoli che così recitavano: Art. 2. Dal giorno della pubblicazione del presente decreto, le dette rendite e frutti capitali cesseranno di far parte dell’amministrazione de’ demani, e saranno regolati a norma dell’art. 6 della precitata legge; e l’arretrato sarà percepito a profitto del Collegio. Art. 3. Le carte, i titoli relativi al diritto di proprietà delle sopraccennate rendite saranno trasmessi alla Commissione amministrativa del detto Collegio. Art. 4. Il nostro Ministro delle Finanze, e quello dell’Interno sono incaricati, ciascuno per ciò che lo concerne, della esecuzione del presente Decreto.20 Con Rescritto del Ministero delle Finanze, firmato il 25 novembre 1808, la dotazione salì poi a ducati 6319,2221. Il Real Collegio di Lucera fu successivamente riconfermato da Gioacchino Murat con il decreto del 28 aprile 1813. Per la cronaca, riguardo alla dotazione, Gioacchino Napoleone, con decreto del 12 novembre 1810, aggregando al Tavoliere della Puglia alcune terre delle case religiose precedentemente indicate, la ridusse di ducati 1815, però pochi anni dopo, l’11 ottobre 1814, tenne a riconfermare la precedente somma. Il Real Collegio di Lucera fu aperto sul finire del 1807. Con decreto firmato a Napoli il 22 dicembre 1807, al Real Collegio fu assegnato il Rettore, il ViceRettore e l’Economo, mentre con altro decreto, firmato a Persano il 20 gennaio 1808, erano nominati amministratori due proprietari lucerini, Giuseppe Arietta e Francesco Scoppa.22 La stessa legge del 30 maggio 1807 che istituì i Collegi, provvide anche alla fondazione delle “piazze franche”, intere o a metà, ossia posti gratuiti o semigratuiti riservati ad alunni particolarmente meritevoli sia della scuola primaria che secondaria, e ai figli di militari e di impiegati civili del Regno, in gratificazione dei servizi fedelmente prestati.23 Di tale beneficio usufruivano sia i giovani di Capitanata che quelli provenienti da altre province giustificando, pertanto, l’affermazione che la città fu in passato un centro di studi non solo per la Capitanata, ma anche per l’Abruzzo e il Molise, il resto della Puglia, la Campania, la Basilicata e la Calabria.24 Con decreto dell’8 marzo 1808 furono assegnati al Real Collegio di 20 ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, pp. 41-44. Ivi, p. 14. 22 Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 14. 23 Convitto Nazionale “Ruggero Bonghi” in Lucera. Monografia (dal 1807 al 1909), Lucera, Stamperia Editrice Frattarolo, 1911, p. 1. 24 Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p.15. 21 196 Federica Albano Lucera otto ‹‹alunni regi›› a posto gratuito e cinque a posto semigratuito.25 Tutta l’articolazione amministrativa, organizzativa e didattica dei Collegi del Regno era stata regolamentata con la legge del 30 maggio 1807. Antonio Salandra, nel discorso pronunciato in occasione del primo centenario della fondazione dell’istituto, definì la legge del 1807 e il regolamento, che le era annesso, come ‹‹documenti pieni di civile sapienza e del più illuminato criterio pedagogico che i tempi consentissero››.26 Gioacchino Murat continuò, sulle orme del suo predecessore, l’azione innovatrice specialmente nel settore dell’istruzione pubblica e fu per suo volere che venne emanato, il 29 novembre 1811, un decreto organico con cui si istituivano i Licei nel Regno e uno di questi nella Capitanata, vale a dire a Lucera, ma tal decreto non ebbe effetto in questa provincia. Le leggi promulgate dai Napoleonidi nel campo dell’istruzione furono definite, dal Preside-Rettore Vittorio Arcinetti anni dopo, ‹‹buone e animate da spiriti liberali e dal desiderio di vedere educata la gioventù meglio che nei tempi precedenti›› e, anche se furono lontane dall’essere considerate perfette, ‹‹scioglievano l’istruzione dal dominio vescovile, avvezzando così i cittadini a considerarla come istituzione al tutto dipendente dal Governo civile››.27 Un altro interessante provvedimento che interessò il Real Collegio di Lucera fu quello del 18 luglio 1810 con il quale Gioacchino Murat stabilì che tutti i libri rinvenuti nei soppressi conventi degli ordini possidenti venissero concessi al Collegio lucerino, la cui Commissione Amministrativa doveva stabilire quali erano le opere “utili” e quelle “inutili e inservibili”. Queste ultime dovevano essere vendute e con il ricavato, sentito il parere del Rettore e del corpo docente del Collegio, si dovevano comprare altri libri conformi al ‹‹genere d’istruzione in cui devono esercitarsi i giovinetti ed i loro istruttori››. Successivamente l’attento e solerte Rettore, cav. Lombardi, il 6 febbraio 1812 chiedeva anche di ottenere tutti i libri delle eliminate case religiose degli Alcantarini, dei Cappuccini, degli Osservanti e dei Riformati, e, dopo una specifica richiesta avanzata a Zurlo, anche i volumi delle biblioteche degli ordini mendicanti andarono ad arricchire quella già prestigiosa del Real Collegio di Lucera.28 La restaurazione del regno borbonico nel 1815 non comportò evidenti cambiamenti; infatti, con un apposito decreto del 6 Novembre 1816, emanato a Portici, vennero confermate le dotazioni precedentemente concesse: 25 ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, pp. 14-15. SALANDRA, Il Convitto Nazionale di Lucera, in Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 31. 27 ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 15. 28 G. CLEMENTE, Libri e frati. Le biblioteche dei conventi della Capitanata soppressi nel decennio francese (1806-1815), in ‹‹La Capitanata. Rassegna di vita e di studi della provincia di Foggia››, A. XXXIV (1997), n. 5, p. 261. 26 197 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) Art. 1 – Le concessioni dei fondi rustici ed urbani, dei censi, capitali ed iscrizioni sul Gran Libro, di cui […] il Collegio di Lucera trovasi attualmente in possesso, in forza dei Decreti ed altre determinazioni di sopra enunciate, restano pienamente confermate, come se fossero state da noi fatte a beneficio dell’indicato Stabilimento: sanando con la pienezza della nostra potestà ogni vizio o nullità che in dette dotazioni e concessioni fosse caduto, tanto per la forma, quanto per lo mancamento di facoltà dei concedenti.29 La dotazione del Collegio di Lucera era stata ridotta da ducati 6.319,22 a 5.500,77, sia a causa di censi e canoni perduti durante lo stesso periodo francese che a seguito delle nuove leggi fiscali borboniche, opposte a quelle eversive sulla feudalità. Di qui la variazione complessiva della dotazione. Poiché detta somma fu subito riconosciuta insufficiente, con legge organica del 12 dicembre 1816, tutte le province del Regno furono obbligate, mediante sovrimposte, a concorrere alle spese secondo le necessità degli Istituti, come risultavano dagli ‹‹stati-discussi››. Al titolo IV n° 160 della citata legge sono elencate, infatti, le spese comuni a tutte le province, precisando che si tratta delle ‹‹spese della istruzione pubblica, escluse quelle della prima dotazione, già stabilita, dei Licei e Collegi, e quelle della R. Università di Napoli e delle scuole primarie››.30 Poco dopo si stabiliva: sarà supplito alle spese comuni col prodotto di una imposta addizionale alla contribuzione diretta, che sarà fissata in ogni anno colla legge sulla ripartizione della stessa contribuzione, proporzionatamente allo stato dei bisogni che verrà presentato dal Ministro dell’Interno.31 Dal 1816 al Collegio di Lucera fu assegnato un supplemento, che variò da 900 ducati a 4500, fissati poi, definitivamente nel 1853, in ducati 2365,25.32 La legislazione relativa alla pubblica istruzione, oltre alle variazioni inerenti le dotazioni finanziarie dei Reali Licei e Collegi, indirizzò la sua azione anche nei confronti delle prescrizioni presenti nello Statuto, tra le quali minuziose erano quelle religiose. Ciò che emerge da tutti i provvedimenti adottati fino ad ora nell’ambito della pubblica istruzione è la preoccupazione del nuovo regime di potenziare l’aspetto religioso nella formazione dei giovani, e anche la volontà di dare maggiore rigore agli esami sia dei professori che degli alunni, oltre che di 29 Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p. 16. Ivi, pp. 16-17. 31 Ivi, p.17. 32 Ibidem. 30 198 Federica Albano accentrare il più possibile l’impalcatura amministrativa di tutte le scuole.33 Proprio in questo periodo il Real Collegio di Lucera fu arricchito dall’istituzione della cattedra di Diritto e Procedura civile. Già nel gennaio del 1819, parallelamente alla richiesta della scuola di agricoltura, il Sindaco, Onofrio Bonghi, e il Decurionato avevano avanzato istanza al Sovrano per l’istituzione nel Regio Collegio di una cattedra di diritto e procedura civile, in considerazione del fatto che la città di Lucera era sede del Tribunale di Capitanata. Dopo l’autorizzazione data dal presidente della Commissione di Pubblica Istruzione, il Decurionato, in data 28 febbraio 1819, deliberava, per l’istituzione della suddetta cattedra, di prelevare il denaro necessario a pagare il compenso spettante all’insegnante di questa nuova disciplina, circa 15 ducati al mese, ‹‹sopra il fondo delle imprevvidenze [in quello] esercizio del 1819 e nello stato di variazione per il 1820››.34 Successivamente il ministro Donato Tommasi, con lettera dell’8 dicembre dello stesso anno, comunicava all’Intendente di Capitanata che il Sovrano approvava l’istituzione di tale cattedra a carico del comune di Lucera. Il Real Collegio, grazie anche alla volontà delle istituzioni cittadine di allora, che spinsero affinché venisse istituita questa cattedra, acquisiva maggior importanza. 3. Storia del monastero dei Celestini in cui fu ospitato il Real Collegio di Lucera Il primo nucleo del monastero, in cui fu ospitato il Collegio, deve ritenersi la Chiesa di San Bartolomeo, fatta erigere nel 1300 da Giovanni Pipino da Barletta, per sciogliere, si dice, un voto fatto durante la strage dei Saraceni, in un momento di grave pericolo.35 Prima della battaglia, infatti, Pipino promise a Dio che, riuscito vincitore, avrebbe innalzato un tempio a S. Bartolomeo. Il 24 agosto del 1300, festa del santo, le milizie cristiane vinsero sotto la guida del condottiero barlettano in un’area della città disabitata e adibita a pascolo, definita la “zona verde”, che iniziava dalla Porta della Resistenza36 e in cui erano frequenti le irruzioni dei saraceni.37 Pipino mantenne la promessa e fece erigere, proprio in quella zona, oltre alla 33 M. D’AMBROSIO, Collegio-Liceo e Università in Capitanata, 1807-1862, Foggia, a cura dell’Ufficio stampa del Comune di Foggia, 1970, pp. 81-83. 34 Ivi, pp. 94-96. 35 D. MORLACCO, I palazzi di Lucera, Lucera, Edizioni Il Centro, 1984, p. 27. 36 La Porta della Resistenza si trovava in fondo alla attuale via IV Novembre e fu così chiamata perché i saraceni, irrompendo per la porta occidentale delle mura, trovarono resistenze nelle milizie lucerine. 37 V. DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, Lucera, Catapano Editrice, 1980, p. 10. 199 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) cappella, un grande monastero, con pietre provenienti forse dal Tempio di Cerere.38 Il monastero fu preso in consegna dall’ordine religioso dei Padri Celestini, detti anche fratelli dello Spirito Santo, nella prima decade del secolo XIV. Era un’opera monumentale con prospetto lungo 58,80 metri e con una profondità di 110,50 metri con “gentile chiostro” interno entro il quale lussureggiavano aiuole verdi ricche di piante e fiori, dotato anche di un ampio cortile dove i Padri e gli studenti facevano ricreazione nel tempo libero.39 I Padri celestini non furono quindi i fondatori, ma donatari di Pipino, il quale, nella costruzione dell’edificio, probabilmente si servì del mastro Nicola Ravello da Foggia, costruttore del Duomo, e dell’architetto d’Angicourt. Pipino fu benefico verso l’Ordine. Si era già incontrato con esso e ne era divenuto amico in occasione dell’edificazione della chiesa e del convento di Collemaggio de L’Aquila, costruiti a spese del re Carlo d’Angiò per desiderio dell’eremita Celestino V, al secolo Pietro da Morrone. I Celestini, che iniziarono la vita monastica a Lucera, furono direttamente educati dal loro fondatore Celestino V nei diversi monasteri abruzzesi e compresero e praticarono lo spirito di carità, di preghiera e lo studio profondo della sacra Scrittura, delle opere dei Padri della Chiesa.40 I Celestini furono forniti di laute prebende e rimasero a Lucera sino al 1807. Difatti dai documenti di archivio risulta che furono beneficiari di case, del feudo di Ripalta, sito nel territorio lucerino, e di altri beni ad essi lasciati per testamento da Giovanni Pipino e da suo figlio Nicola.41 Dallo studio della sacra Scrittura e delle opere dei Santi Padri Pietro da Morrone trasse fuori il suo programma ascetico di cui già a tempo opportuno aveva stilato decreti, ammonizioni e regolamenti. L’ordine portava l’impronta del suo fondatore che, eletto papa ed incoronato il 29 agosto 1294 nella chiesa di Collemaggio de L’Aquila, fece il “gran rifiuto”, al dire del poeta fiorentino.42 I Padri celestini nel monastero di S. Bartolomeo di Lucera esercitarono per cinque secoli non solo il semplice apostolato religioso, ma anche attività formative sulla classicità per i giovani desiderosi di aprirsi ai vasti orizzonti culturali.43 I Padri celestini, che seguivano il motto di S. Benedetto “Ora et labora”, 38 Morlacco, I palazzi di Lucera, p. 28. L’attuale prospetto dell’edificio non è quello originario: l’atrio che si trova all’ingresso, infatti, in origine mancava. Tra la porta della Cappella e il fabbricato successivo vi era un’ansa che, insieme con l’area prospiciente, costituiva il Largo Real Collegio, nel quale si aprivano sia la porta della Chiesa che quella di accesso al Collegio. Con la costruzione dell’atrio, il prospetto, di stile classicheggiante, divenne più ampio e austero, e le porte rimasero all’interno. 40 DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, p. 10. 41 V. DI SABATO, Storia ed arte nelle chiese e conventi di Lucera, Foggia, 1971, pp. 311-312. 42 DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, pp. 11-15. 43 Ivi, p.18. 39 200 Federica Albano oltre ai lavori nei campi, si occupavano anche del lavoro intellettuale, preferito dai più intelligenti e proclivi allo studio delle materie ecclesiastiche e letterarie, nella propria biblioteca personale o comunitaria, e impartirono l’insegnamento di materie scolastiche ai giovani esterni e agli studenti del collegio filosofico e teologico del monastero dal 1706 al 1764. La vita amministrativa nei primi tempi era sporadica, ma divenne nel tempo più frequente e complessa perché i monaci, oltre a portare avanti i beni comunitari, acquistavano beni o prestavano capitali ai cittadini che li chiedevano, per cui il monastero divenne una vera e propria agenzia di credito. Questa non fu solo prerogativa dei Padri celestini, ma anche di tutti gli ordini religiosi e in misura minore anche dalle parrocchie.44 Lucera nel passato fu un centro di studi classici, filosofici e teologici impartiti in quasi tutti i numerosi conventi da Padri ben preparati. Nei locali destinati agli studenti si raccoglieva l’élite della aristocrazia lucerina per dialogare su discipline teologiche sotto la guida di qualche Padre idoneo alle interrogazioni e alle risposte su dubbi di verità scientifiche e religiose. Risultano inquadrati in questo apostolato i conventi del Carmelo, di S. Francesco, di S. Domenico e dei Padri Celestini, e anche i conventi dei Padri Minori della Pietà e del Salvatore. Il monastero dei Padri celestini, il più dotto degli ordini religiosi di Lucera, il più disposto a tale apostolato per la sontuosità e disponibilità di locali, per desiderio e autorizzazione della casa generalizia, aprì il collegio nel 1706 e lo conservò sempre integro ed efficiente sino al 1764, come si deduce dalla presenza nel monastero di Padri laureati in morale e dogmatica con qualifica di lettori e di numerosi studenti, che, a differenza di quelli dell’Ordine domenicano, potevano partecipare al rogito degli atti notarili.45 Del monastero il luogo più sacro era la chiesa in cui si svolgevano le funzioni religiose, momento centrale della vita monastica. L’attuale chiesa, o meglio cappella, a sinistra dell’atrio del collegio Ruggiero Bonghi era anticamente parlatorio o casa del custode e verso la fine del secolo XVIII fu trasformata in un luogo sacro. L’antica cappella invece si trovava in fondo, a sinistra dell’ampio cortile con porta di entrata su via Cassitto (quasi di fronte alla Rampa). La chiesa poi divenne sempre meno frequentata per cui i Padri decisero di demolirla, anche perché era loro scomoda: per accedervi dovevano uscire all’aperto e attraversare i giardini interni al monastero in tutte le stagioni. Quindi per motivi contingenti fu deciso l’abbattimento della chiesa. Del resto questa chiesa aveva i suoi pregi artistici, suggeriti dai Padri che l’avevano costruita, in sintonia con il monastero maestoso nella sua mirabile 44 45 Ivi, pp. 19-20. Ivi, pp. 21-22. 201 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) costruzione, e risaltavano in essa cappelle gentilizie, costruite a spese di privati, la cui esistenza fu registrata in atti notarili.46 In Lucera nel secolo XVIII ci fu un’intensa attività edilizia. Furono costruiti i migliori edifici sacri e civili ad uno o a due piani, quali la chiesa del Carmelo e il tribunale, composti in gran parte di pietre grosse del castello. Anche i Padri, per necessità suggerite dalla pratica pastorale, abbandonata la vecchia chiesa, staccarono le lastre di marmo colorato a varie tinte dagli altari delle cappelle gentilizie e le portarono nella nuova. Luminosa, ornata di cornici barocche ben si addiceva ad essere luogo sacro, per cui il 5 settembre 1728 si rogò un atto notarile al quale presenziarono, davanti al notaio d’Alessandro, Paolo Buono muratore di questa città, il magnifico Vincenzo Lombardo, regio giudice ai contratti, Gennaro Pardo, Francesco Matino e Gennaro Corumano. Nel 1725 erano iniziati i lavori e, quando furono ultimati, vi si trasportarono le lastre di marmo dalla vecchia chiesa con cui si ricomposero gli altari della Natività e della Maddalena che ben presto furono ornati con splendide tele. Con la nuova riforma liturgica furono eliminati gli altari e non si sa dove furono poste le lastre marmoree.47 Nella chiesa si trova, tutt’ora, una splendida galleria di quadri e di pregiatissime tele. Così del Solimena, secondo la comune attribuzione, sono una Visione di San Benedetto e della sua scuola un’Adorazione dei pastori; ci sono anche un Martirio di San Bartolomeo e una eccezionale Trinità, che fa pensare alla mano di Luca Giordano. Una leggiadra Madonna e San Gregorio è attribuita al Sanfelice, mentre per un Noli me tangere è stata supposta la mano del De Mura. Girolamo Cenatiempo dipinse nel 1714 la bella tela raffigurante Sant’Agostino, Santa Chiara e San Tommaso.48 Nell’antica e nuova chiesa si celebravano le liturgie nei giorni feriali e nei giorni festivi nei quali non mancava sfarzosità di addobbi, specialmente nella festa del patrono San Bartolomeo. Per giunta, i Padri celestini attiravano la dotta nobiltà del tempo alla loro chiesa insignita del titolo di “Reale” dagli Aragonesi. Vi partecipavano personalità lucerine e forestiere, sia civili che militari.49 Nella nuova chiesa, ‹‹ornata di drappi e damaschi di regia munificenza si celebrava anche il Compleanno dei Sovrani borbonici, col concorso di autorità civili e militari con le loro insegne››.50 Nel vecchio e nuovo tempio si svolsero funzioni solenni cui partecipavano impiegati della regia Udienza e la nobiltà lucerina. Si ricordano gli imponenti funerali in morte di Anna d’Austria, moglie di Filippo II re di Spagna, verso la fine 46 Ivi, pp. 24-25. Ivi, pp. 25-27. 48 G. TRINCUCCI, Lucera. Storia e volti nel tempo, Lucera, Catapano editrice, 1981, p. 102. 49 DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, p. 27. 50 MORLACCO, I palazzi di Lucera, p. 28. 47 202 Federica Albano del ‘500, e in morte di Luisa d’Orleans, nipote del re Luigi XIV, sposa di Carlo II re di Spagna.51 Attorno al convento ruotavano anche attività economiche rilevanti per la popolazione locale, come quelle creditizie. I Padri si dedicavano anche all’amministrazione attiva del monastero attraverso la concessione di prestiti e la stipula di fitti, enfiteusi, donazioni, vendite, permute ed acquisti di terreni di piccola e di grande estensione e di case e di botteghe. Tutte forme giuridiche di amministrazione quasi identiche al nostro secolo, ad eccezione di alcune estromesse dal codice quale l’enfiteusi,52 o cambiate di nome quali i mutui oggi denominati prestiti o cambiali o depositi.53 I Padri Celestini rimasero nel loro monastero fino al 1807, quando il re Giuseppe Napoleone, soppressi gli ordini religiosi, vi istituì (come si è detto) il Collegio di Lucera. Una buona parte dei beni furono venduti e rimasero solo quelli incamerati dallo Stato, come risulta dal documento di seguito pubblicato. Molti beni appartenenti all’ordine, infatti, non risultano nelle voci dei beni incamerati per ordine del governo napoleonico. Si può senz’altro dire con certezza che il monastero, avuto sentore dell’incameramento dei beni, preferì venderli preventivamente.54 I beni dei Padri Celestini acquisiti dallo Stato in forza della soppressione furono: 430 versure di masserie, 7.30 di terreno seminativo, vigneti di versure 49.40 più pezze 120; un uliveto di versure 1.36, un giardino di 2 versure e un orto di 6.30, varie case del valore di ducati 6383; alcune botteghe del valore di ducati 3795, una taverna del valore di ducati 2250; un palazzo del valore di ducati 1125,9; fosse del valore di ducati 710; 32 leghe d’argento del valore di ducati 440,66; in tutto per un totale di versure 497,16 e ducati 73019.55 Riporto qui di seguito lo stato delle rendite dei Celestini di Lucera soppressi il 13 ottobre 1809.56 51 DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, p. 27. L’enfiteusi, oggi in disuso, era il contratto con il quale si cedeva ad altri il dominio utile in perpetuo o per un lungo periodo mediante pagamento di un annuo canone che si definiva livello. Ivi, p. 35. 53 Ivi, pp. 32-34. 54 Ivi, pp. 48-53. 55 DI SABATO, Storia ed arte nelle chiese e conventi di Lucera, p. 312. 56 DI SABATO, L’ordine Celestino in Lucera dal 1300 al 1808, p. 55. 52 203 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) Tab. 9 Denominazione dei fondi Appartenenza Sito o contrada Valore approssimativo Estensione in versure Natura dei fondi Rendita annuale Masseria Casarsa Argenti censiti Alla casa soppressa Tenim. S. Severo ducati 12.000 100 seminativo 560.00 simile Napoli censiti 17.21 Case simile Lucera “ 5.480 affittate 364.50 Botteghe simile Lucera “ 2.640 affittate 176.00 Fosse per generi alimentari simile Lucera 560 affittate 28.00 “ ducati 20.680 1.145.71 4. Il bilancio del Real Collegio L’aspetto che qui si esamina è il progetto di bilancio per l’anno 1813, rinvenuto tra la documentazione inerente al Real Collegio di Lucera, presente nell’Archivio di Stato di Foggia. Si è scelto di analizzare il bilancio di previsione dell’anno 1813, perché ci fornisce una indicazione sullo stato economico del Real Collegio in “itinere”, cioè in un periodo distante cronologicamente dalla sua fondazione, quando l’istituto poteva difettare sul piano organizzativo e non aver ancora intrapreso la sua attività a pieno regime. Il progetto di spesa era una sorta di registro contabile che, una volta redatto e approvato dalla Commissione amministrativa del Collegio, veniva sottoposto al giudizio e alla revisione del Giurì di Contabilità per apportare eventuali correzioni prima dell’approvazione definitiva. In primo luogo è opportuno anche esaminare la rendita, cioè la platea dei beni che erano nelle disponibilità del Collegio, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. A tale proposito una valutazione globale del patrimonio dell’istituto, quale emerge dallo studio degli inventari, consente di affermare che le entrate provenivano soprattutto da beni immobili e, solo in misura minore, da beni mobili. La rendita alcune volte era espressa in ducati e altre, soprattutto nel decennio francese, in lire francesi.57 57 Un ducato equivaleva a 4,25 lire francesi. 204 Federica Albano Il progetto di bilancio si costituiva principalmente delle voci di entrata e di quelle di uscita, a loro volta ulteriormente suddivise in capitoli. Nei cespiti d’entrata era inventariata la rendita ordinaria che corrispondeva alle rendite assegnate al Collegio al momento della sua fondazione.58 Quello che nel documento viene portato in evidenza è che, innanzitutto, la rendita non corrispondeva più esattamente a quella assegnata al Collegio al momento della sua fondazione, e che il suo ammontare per l’anno 1813, di l. 20.546,20, era leggermente inferiore rispetto a quella dell’anno precedente che si quantificava in l. 20.987,36. Questa diminuzione d’introito era dovuta, per una parte del totale, ‹‹per causa di partite affrancate ed ammortizzate››59 le quali nel documento venivano specificate in modo dettagliato nelle singole voci. Difatti molti terreni e beni immobili erano rientrati a far parte dei beni del demanio e non erano più contemplati tra i cespiti che formavano la rendita dell’istituto. Non costituivano più le entrate del Collegio: la rendita dovuta dall’Università di S. Agata ‹‹per i territori e piani de’ Valloni e per una versura di terra a Casalicchio››; il canone dovuto dai Padri Carmelitani di Monte Sant’Angelo ‹‹sopra la terra detta di Casiglia››; il censo dovuto dai Padri Carmelitani di S. Francesco di Monte ‹‹per una vigna di tomoli 7 nel luogo detto della Quarantana, con cisterna ed alberi di ulive››; non rientravano più le annualità dovute dai monasteri dei Celestini di Campobasso e Guglionesi; il censo sulla metà del giardino alle porte di Siponto dovuto dai Padri Domenicani di Manfredonia e quello sull’altra metà dovuto dall’Ospedale di Manfredonia; un censo su un territorio in località S. Lazzaro dovuto sempre dallo stesso Ospedale; un altro sui territori nella località denominata ‹‹le Paglieti›› dovuto dal comune di Manfredonia ed infine il censo dovuto dall’Orfanotrofio di Lucera in aggiunta a quello dovuto dal Conservatorio delle Orfane della stessa città, per un totale complessivo di l. 126,89. La restante somma di l. 314,27 era giustificata sostenendo che ‹‹questa differenza dipende dalla valutazione diversa delle derrate che si riscuotono in natura dal Collegio››.60 Sotto la voce di rendita straordinaria erano elencate le somme incamerate per il pagamento dell’intera pensione o intera “piazza franca” per sette alunni e il pagamento di una mezza pensione per un solo alunno per una somma complessiva di l. 3.168. L’altra voce dei cespiti d’entrata era costituita dalla voce degli ‹‹arretrati di rendita›› risalenti ancora all’anno 1812, dovute rispettivamente dal Comune di S. Agata per censi e capitali in danaro e in generi, dal Comune di Accadia, da quello di Manfredonia, di Monte Sant’Angelo, di S. Severo, di Ripalta e di Lucera sempre 58 Archivio di Stato di Foggia (d’ora in avanti ASFg), Intendenza di Capitanata, Conti del Real Collegio di Lucera, Appendice, fascio 1, fascicolo 3. 59 Ibidem. 60 Ibidem. 205 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) per la stessa motivazione per una somma totale da versare ancora nelle casse del Collegio di l. 7.631,10. Dopo le entrate erano registrate ed elencate le spese che erano definite con l’espressione di ‹‹Pesi e Spese››.61 Al primo capitolo di questa voce erano annotate le ‹‹contribuzioni dirette›› relative al pagamento della tassa denominata ‹‹fondiaria›› sul locale del Collegio di l. 402,12, rimasta identica rispetto a quella del precedente anno. Sotto la voce di ‹‹spesa ordinaria›› erano elencate le spese di amministrazione per l’acquisto di tutto il materiale necessario per la cancelleria, quale carta, penne, inchiostro e libri. Veniva tra l’altro fatto notare come i costi relativi a questa voce di spesa fossero aumentati rispetto al precedente anno proprio a causa dell’aumento del prezzo della carta e anche per una motivazione ben più importante. Infatti nel 1813 erano state emanate, da parte dello Stato, nuove direttive riguardo alla conduzione dei collegi reali e questo aveva portato a una serie di novità, come in questo caso nuove disposizioni per la contabilità che richiedevano un maggiore scambio epistolare e l’aumento delle pratiche burocratiche, con un maggiore consumo di carta. Al secondo capitolo della voce di spesa ordinaria erano elencate le somme versate per gli stipendi di coloro i quali erano impegnati nella effettiva amministrazione del Collegio come il Rettore, il Vicerettore, l’Economo e il Razionale fiscale, ed anche di coloro i quali si occupavano di svolgere altre mansioni all’interno dell’istituto, come un ‹‹prefetto di camerata››, un ‹‹coco››, un dispensiere, che aveva anche il compito di ‹‹refettoriere››, un cameriere, due facchini che assolvevano a tutte le esigenze, il ‹‹tamburro›› ed infine un notaio a titolo di onorario.62 Alle spese precedenti si sommavano i costi, che erano inquadrati in una voce a sé stante, relativi al compenso spettante ai professori che, da come si rileva dai documenti, erano in numero di quattro. La cosa da notare è che alla diversa importanza delle discipline impartite corrispondeva una differente retribuzione: coloro i quali attendevano all’insegnamento di filosofia e matematica e di retorica e lingua greca percepivano un compenso maggiore, quantificato in l. 906,75, coloro che attendevano, invece, all’insegnamento di discipline quali la lingua latina superiore e inferiore percepivano un compenso inferiore (l. 711,75). Il costo complessivo delle retribuzioni di tutti gli impiegati del Collegio era di l. 8.209,63. Inoltre è da tener presente che per tutti questi era previsto il vitto e l’alloggio all’interno del Collegio, tranne, come viene espressamente dichiarato, per il Razionale fiscale.63 Ad accrescere le uscite vi erano anche i costi per il mantenimento dell’infermeria, per i vari medicamenti necessari e per il compenso spettante a coloro che vi lavoravano. Si evince che il personale dell’infermeria era composto da un 61 Ibidem. Ibidem. 63 Ibidem. 62 206 Federica Albano medico, a cui spettava una retribuzione maggiore, un ‹‹cerusico››, un ‹‹salassatore›› e un infermiere, per un totale complessivo di l. 580,13. Seguiva poi la voce di spesa riguardante il vitto. Dal registro di spesa emerge che erano trentacinque in tutto coloro ai quali spettava di diritto il consumo del pasto quotidiano all’interno dell’istituto. Difatti, oltre ai ventuno alunni, l’accesso alla mensa spettava anche a quattordici persone impiegate nel Collegio. Il costo previsto si aggirava intorno agli ottantotto centesimi di lire al giorno per ognuna delle ‹‹bocche consumatrici››. Questo aspetto del vitto era rigorosamente disciplinato dalla tabella, inserita nel regolamento dei Collegi Reali, stabilita con il decreto del 20 maggio 1812 per i convittori; per gli inservienti c’erano le istruzioni del settembre del 1811. Si faceva presente al Giurì di contabilità che i prezzi dei viveri, ma anche della legna e del carbone necessari per la cucina, erano nettamente lievitati rispetto all’anno in cui era stato varato il decreto e questo aveva influito anche sulla quantità dei pasti assegnati ai convittori. Difatti non era stato possibile consumare, da parte di quest’ultimi, il ‹‹quarto piatto caldo›› nei giorni assegnati, così come previsto dalla tabella del regolamento, e neanche in occasione delle festività religiose del Natale e della Pasqua. Inoltre si richiedeva l’assegnazione di un fondo speciale necessario per la preparazione del pasto della “merenda” riservata ai soli convittori che, seppur prevista dal regolamento, non era stato possibile servire con i soli 88 centesimi di lire giornalieri. Importanti erano anche le voci di spesa per il culto, aspetto fondamentale nella crescita spirituale dell’alunno, che si percepisce proprio dalla presenza dominante nella giornata del collegiale. Questi costi erano costituiti dal compenso annuo, definito ‹‹gratificazione››, spettante ai due Padri confessori e dalla somma necessaria per l’acquisto di cera, olio, ma anche del necessario per le celebrare le liturgie nella Cappella del Collegio (vino, ostie), in aggiunta anche ai costi per i paramenti sacri e per l’eventuale acquisto di suppellettili. Infine erano elencate le spese varie che corrispondevano all’acquisto di beni di varia natura come l’olio e il cotone per i lumi, il carbone occorrente come combustibile per il fuoco della cucina e per i ‹‹braceri››, utilizzati come riscaldamento nella stagione invernale, le spese di lavanderia e i costi per l’urgente acquisto di nuova biancheria, di suppellettili, di tre letti e di coperte. In aggiunta si faceva presente come l’olio, utilizzato anche come combustibile per i lumi, nell’ultimo anno aveva subito un rincaro ‹‹alterato a più di un quarto››, facendo lievitare le spese a l. 450. Per quest’ultima voce di spesa, riguardante l’acquisto di biancheria, suppellettili e mobili, si sottolineava come non era stata prevista nel registro dei conti dell’anno precedente perché appunto non necessaria. Faceva seguito un inventario di beni materiali esistenti al momento nel Collegio presenti già l’anno precedente, ma del tutto inadeguati alle necessità dei convittori.64 64 Ibidem. 207 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) Oltre a questo si faceva presente anche l’urgente bisogno di acquisto di utensili e stoviglie per la cucina, anch’esse del tutto insufficienti alle necessità dei collegiali. Infine si annotavano le spese ‹‹straordinarie ed imprevedute››, come i costi per la ristrutturazione dei locali del Collegio, tra l’altro previsti anche nel registro di spesa dell’anno precedente, e una somma di denaro per qualsiasi necessità imprevista, anche se veniva precisato che la Commissione Amministrativa del Collegio non poteva disporre liberamente di queste somme di denaro se prima ‹‹non ne abbia ottenuta l’approvazione ministeriale in ragione dell’urgenza del bisogno››.65 Bilancio del Real Collegio di Lucera per l’anno 1813 Rendite Rendita ordinaria l. 20.546,20 Rendita straordinaria l. 3.168,00 Arretrati di rendita l. 7.631,10 Contribuzioni dirette l. 402,12 Spesa ordinaria l. 120,00 Stipendiati e Professori l. 8.209,63 Spese e stipendi per l’infermeria l. 580,13 Spese per il vitto l. 11.242,00 Spese di culto l. 252,80 Spese varie l. 1.970,33 Spese di riparazione del Collegio l. 500,00 Spese straordinarie ed imprevedute l. 8.185,52 Pesi e Spese Successivamente si è analizzato il progetto di bilancio dell’anno 1817, quindi nel pieno del periodo della seconda restaurazione borbonica, proprio per valutare, nella gestione contabile dell’istituto, gli eventuali cambiamenti rispetto ai precedenti periodi. Si evidenzia subito come la stessa struttura del progetto di bilancio aveva subito una leggera trasformazione nelle denominazioni.66 Nello ‹‹stato di carico›› erano registrati ed elencati tutti i cespiti d’entrata suddivisi in articoli. Al primo articolo della voce di rendita ordinaria, denominato ‹‹Beni fondi››, 65 Ibidem. ASFg, Intendenza di Capitanata Pubblica Istruzione, Real Collegio di Lucera, fascio 58, fascicolo 1253. 66 208 Federica Albano erano riportate le entrate provenienti da ‹‹canoni e capitali››, rispettivamente dalla ‹‹casa di S. Severo››, da quella di S. Agata, di Monte Sant’Angelo e di Lucera. Quindi non compaiono più, come nei progetti di bilancio del passato, i canoni provenienti dal comune di Accadia, di Manfredonia e di Ripalta. Al secondo articolo, denominato ‹‹pensioni degli alunni››, erano riportate le somme incamerate per il pagamento dell’intera “piazza franca” per diciannove collegiali. Proseguendo all’articolo terzo erano elencate le entrate provenienti da ‹‹fondi diversi››, invece all’articolo quarto quelli provenienti dai ‹‹fondi provinciali››. Infine nell’ultimo articolo, il quinto, erano trascritti gli ‹‹arretrati di rendita››.67 Stato di carico Beni Fondi (canoni e capitali) ducati 4.547,48 Pensioni degli alunni 1.392,00 Fondi diversi 226,43 Fondi provinciali 1.906,00 Arretrati 218,00 Dopo le entrate erano registrate le voci di spesa definite con l’espressione ‹‹conto di cassa››.68 Al primo capitolo di questa voce erano annotate le ‹‹contribuzioni dirette›› di ducati 116,55 relative al pagamento della tassa, denominata ‹‹fondiaria››, su tutti i beni del Collegio, e anche le spese per i ‹‹censi›› di duc. 18,23, oltre che quelle di amministrazione, di appena duc. 30. Sempre di seguito erano elencate le spese necessarie per pagare gli stipendi degli impiegati nell’amministrazione del Collegio, come il Rettore, il Vicerettore, l’Economo, il Contabile e il Notaio, ma anche di quanti svolgevano altre mansioni all’interno dell’istituto. Difatti l’aspetto che subito risalta all’attenzione è che era notevolmente accresciuta, rispetto al passato, la dotazione di personale, costituita da: un prefetto d’ordine, due prefetti di camerata, due camerieri, due facchini, un dispensiere, un cuoco e un portinaio. Alle spese precedenti si aggiungevano i compensi spettanti al corpo docente che, da come risulta dai documenti, era costituito da cinque professori e quattro maestri esterni (calligrafia, disegno, lingua francese e scienza). Il costo complessivo delle retribuzioni di tutti gli impiegati del Collegio era di 2.700 ducati. 67 68 Ibidem. Ibidem. 209 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) Ad accrescere le uscite vi erano i costi per il mantenimento dell’infermeria, dalle spese per l’acquisto dei medicamenti, a quelle per il pagamento del compenso spettante al personale sanitario, costituito da un medico ordinario, un chirurgo, un salassatore ed un infermiere, per un totale complessivo di 128 ducati. Sempre di seguito erano riportate le spese per il vitto. Dal registro di spesa emerge che erano quarantasei in tutto, tra alunni, impiegati ed inservienti del Collegio, coloro ai quali spettava di diritto il consumo del pasto quotidiano all’interno dell’istituto. Si riscontra inoltre come continuava ad essere in vigore la tabella del vitto, inserita nel regolamento dei Licei e Collegi Reali, che disciplinava in modo rigoroso i pasti dei collegiali. Il costo complessivo era di 2.829,19 ducati. Erano riportate anche tra le voci di spesa i costi per il culto, costituiti dal compenso annuo, definito ‹‹gratificazione››, spettante ai due confessori, padre Raffaele Nocelli e padre Ludovico da Lucera, e dalla somma per l’acquisto di cera, vino e ostie necessarie per la celebrazione delle liturgie nella cappella dell’istituto. Poi di seguito erano elencate le spese varie che corrispondevano all’acquisto di beni di varia natura, come l’olio e il cotone per i lumi. Sempre sotto questa voce era riportata anche la spesa sostenuta per fornire l’istituto di nuove dotazioni come ‹‹macchine scientifiche›› impiegate nelle lezioni di fisica. Infine si annotavano le voci di spesa ‹‹straordinarie››, i costi relativi alla manutenzione dei locali dell’istituto e per sostenere oneri ‹‹diversi››.69 Conto di cassa Fondiaria ducati 116,55 Censi 18,23 Spese di amministrazione 30,00 Stipendi 2.700,00 Spese d’infermeria 128,00 Spese di vitto 2.829,19 Spese di culto 52,00 Spese varie 444,40 Spese straordinarie 131,36 Manutenzione locali 100,00 Spese diverse 362,76 69 Ibidem. 210 Federica Albano 5. Amministratori e professori Per quanto riguarda l’amministrazione dei Collegi del Regno si provvide a dotare ciascun istituto di una propria amministrazione interna: a capo venne posto un Rettore, a cui era affidata la direzione interna; a lui era affiancato un Vicerettore, che lo sostituiva in caso di assenza, e un Economo per la gestione degli affari amministrativi e finanziari. Per ciascuno di loro era stato stabilito il seguente compenso: per il Rettore oscillava da un minimo di 15 a un massimo di 20 ducati (l. 63,75 a l. 85,00) al mese; il Vicerettore percepiva da 10 a 15 ducati (l. 42,50 a l. 63,75), l’Economo da 10 a 15 ducati mensili.70 Anche nel Real Collegio di Lucera per il suo corretto funzionamento furono nominati, con il decreto regio del 22 novembre 1807, Gregorio Aratri, nella funzione di Rettore, Emanuele Maffei, come Vicerettore, e Vito D’Abbundo, come Economo.71 I Rettori che si susseguirono dal 1807 al 1815 nel Collegio di Lucera furono: Gregorio Aratri a partire dal 22 novembre 1807, l’abate Filippo Confalone dal 11 gennaio 1809, il sac. Francesco P. Lombardo dal 5 ottobre 1811e il sac. Nicola De Mattheis dal 5 luglio 1815.72 Il Rettore e i due proprietari del luogo dove sorgeva il Collegio dal 1808 ne amministravano i beni, e a questa Commissione l’Economo doveva rendere conto di tutte le entrate e di tutte le spese. Al fine di garantire il corretto e ordinato funzionamento organizzativo interno, ogni diciotto alunni il Collegio nominava un prefetto, scelto dall’Intendente della Provincia su proposta del Rettore. Al prefetto era affidato il compito di controllare il buon ordine nelle camere da studio e da letto e nei passeggi, mentre spettava agli insegnanti controllare l’ordine all’interno della scuola. L’istruzione era impartita da sette professori interni che beneficiavano del vitto e dell’alloggio nell’istituto e di uno stipendio da stabilirsi, entro il limite massimo di ducati 15 (l. 63,75). Questi insegnavano varie discipline: il greco, il latino, l’italiano, l’archeologia classica, le matematiche, la filosofia, in particolare la logica, la metafisica e l’etica, la geografia e gli elementi di fisica. Era affidato ad altri cinque professori interni l’insegnamento della lingua francese, della calligrafia, del disegno, della scherma e del ballo. Potevano esserci anche insegnanti di scienze e di belle arti, su richiesta degli alunni e a loro spese. L’onorario degli insegnanti esterni variava da 7 a 10 ducati (da l. 29,75 a l. 42,50) il mese. Nei Collegi, in cui il Rettore o il Vicerettore non fosse un religioso, 70 ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 38. Collegio-Liceo e Università in Capitanata, 1807-1862, pp. 15-16. 72 Ivi, p. 333. 71 D’AMBROSIO, 211 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) si aggiungeva ai professori interni un catechista con il compito di spiegare il catechismo approvato dal Governo.73 Docenti e superiori, accettando il loro incarico, si assumevano un obbligo quasi sacro, rendendosi responsabili dell’educazione dei propri discenti di fronte al Sovrano e allo Stato. Difatti (si legge in un documento) ‹‹quando un uomo onesto accetta simili uffizi, contrae un sacro, ma difficile obbligo››.74 L’aspetto da notare ed evidenziare è che nel regolamento annesso alla legge del maggio 1807, che provvedeva a istituire i Collegi del Regno, veniva indicato anche lo scopo principale a cui doveva mirare l’educazione dei giovani collegiali. Questo era individuato nello sviluppo del corpo e dello spirito e nella necessità di infondere nei cuori dei giovani il sentimento di religione, della patria e della carità. La legge del maggio 1807, infatti, così precisava: L’amore della patria sia la passione dominante nel cuore dei giovani; dall’amore della patria nasce la fortezza dell’animo, e senz’amor di patria svaniscono tutte le virtù.75 Nel regolamento veniva definito, tra l’altro, anche il metodo d’educazione a cui dovevano attenersi gli insegnanti: Non si può educare praticamente senza conoscere i temperamenti e le inclinazioni dei giovani. Sarà così più facile svolgerne le facoltà intellettuali. Per questo è necessario eccitare l’attenzione, “microscopio d’ogni umano sapere”. Ne seguiranno dei giudizi e dai giudizi i ragionamenti. Ma non si dimentichi il costume, che comprende le facoltà morali. Senza costume non vi è onore. Conoscano i giovani la legge morale anche dall’esempio degli educatori.76 Si sottolineava anche l’importanza della attività fisica e dello sviluppo del corpo nell’educazione dei giovani; difatti si incoraggiava ad esercitare ‹‹il corpo col ballo, con la scherma, col giocare alle palle, al biliardo, al mezzo pallone››.77 Si può fondatamente pensare che ai nuovi ideali portati dalla Francia si siano aggiunti i suggerimenti educativi e pedagogici del ‹‹grande vicino››78 a Lucera, cioè del molisano Vincenzo Cuoco, autore poi del Rapporto al re Gioacchino Murat e del Progetto di Decreto per l’ordinamento della Pubblica Istruzione del Regno di Napoli.79 73 ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 38. Ivi, p. 39. 75 Ibidem. 76 Ibidem. 77 Ibidem. 78 Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, p.15. 79 Ibidem. 74 212 Federica Albano L’oneroso compito a cui gli insegnanti erano chiamati era quello di formare l’uomo e il cittadino di domani. E, sempre indirizzandosi agli insegnanti, il regolamento proseguiva nel dar loro delle linee guida sul comportamento che si confaceva ad un educatore del Real Collegio e, addentrandosi in questioni prettamente pedagogiche, anche il tipo di rapporto da instaurare con gli alunni: Rammentino gli educatori che essi debbono formare l’uomo e il cittadino. Sfuggano, insegnando, sia la bassezza di una mera pratica e sia le sterili astrazioni. Non si stanchino di studiare e istruiscano con ogni attenzione. Non si sgomentino degli ostacoli, si guadagnino la stima degli alunni con l’onestà e col sapere. Imitino la condotta e i sentimenti di un padre; siano sempre affabili senza debolezza, esatti senza vanità: mostrino a tutti benevolenza e affetto. Se il maestro non vuole render vana l’opera sua, assecondi i temperamenti degli alunni; e rammenti che i talenti non sono uguali negli alunni e a seconda dei medesimi egli sappia cambiar di condotta.80 In aggiunta, il Rettore era tenuto ad approntare una relazione mensile, secondo le relazioni del Vicerettore e dei Prefetti, sul temperamento, l’inclinazione, l’attitudine e il costume di ciascun collegiale.81 Per quanto riguarda il caso specifico del Real Collegio di Lucera, dalle scarne notizie che emergono dai documenti conservati nell’Archivio di Stato di Foggia si può tracciare una breve cronistoria riguardante la gestione interna e le nomine degli insegnanti. Al rettore Aratri subentrò, con il decreto del 11 gennaio 1809, l’abate Filippo Confalone. Questo, nella funzione di nuovo Rettore del Collegio di Lucera, rispondendo all’invito rivoltogli dal consigliere di Stato barone Nolli, intendente della provincia di Capitanata, con lettera dell’11 marzo 1809 proponeva i professori e i maestri per la funzionalità del Collegio stesso.82 Da questa stessa lettera si ricavano le modalità di assunzione degli insegnanti del Collegio: difatti era il Rettore a presentare all’intendente della Provincia i nomi di una serie di possibili candidati con allegate tutte le loro credenziali (un arcaico curriculum), ed era infine l’Intendente a procedere, dopo una eventuale scelta tra più candidati, all’approvazione definitiva e quindi all’assunzione. Inoltre, quello che affiora è la grande cura e le scrupolose ricerche del Rettore, prima di procedere all’assunzione di un insegnante, e la grande attenzione per ‹‹la condotta morale e le sublimi cognizioni››,83 garantiti dai numerosi attestati che i 80 ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 39. Ivi, p. 40. 82 D’AMBROSIO, Collegio-Liceo e Università in Capitanata, pp. 24-26. 83 Ibidem. 81 213 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) professori erano tenuti a presentare, e dalle assicurazioni da parte dei superiori degli ordini religiosi di appartenenza, dei vescovi e dei sindaci dei comuni di provenienza. La linea che prevaleva al tempo, in materia di assunzioni, era che, in mancanza di un’abbondante schiera di educatori laici, si cercava di valorizzare i religiosi e gli ecclesiastici, pur di incrementare l’apparato scolastico a tutti i livelli.84 Per il Collegio di Lucera si giunse così al decreto del 28 marzo 1809 di Gioacchino Napoleone, con il quale vennero nominati lo scolopo Paolo Aquila, e il domenicano Raffaele Birago, rispettivamente professori di matematica e di filosofia nel Real Collegio di Lucera.85 Nella lettera del 30 maggio 1809 lo stesso Rettore sottolineava al Ministero dell’Interno ‹‹la necessità assoluta di Lettori›› e caldeggiava la nomina alla prima cattedra di lingua latina (o piccola umanità) del lettore Emanuele Lucarelli.86 Così, con il decreto del 10 luglio 1808, il religioso Agostino Emanuele Lucarelli fu nominato professore della prima classe della lingua latina del Real Collegio di Lucera.87 Negli anni successivi proseguivano intanto i decreti di nomina di nuovi professori e, con quello del 18 ottobre 1810, veniva nominato professore di lingua latina superiore e di lingua greca Domenico Mallardo. Si giunse solo con il decreto del 22 giugno 1811 alla nomina del primo maestro di calligrafia, tanto auspicata e caldeggiata dall’Intendente, nella persona di Gennaro Lettieri. Successivamente venne nominato, con il decreto regio del 5 ottobre 1811, il nuovo rettore del Collegio nella persona di Francesco P. Lombardo. E continuavano la nomine di nuovi professori, come il sac. Giuseppe Pazienza, professore di grammatica superiore e di elementi di lingua greca, il sac. Marco Gatti, professore di retorica, umanità ed elementi lingua greca.88 Nel periodo della seconda restaurazione borbonica la pubblica istruzione fu investita da un’opera di riorganizzazione che interessò in modo particolare la procedura di selezione e nomina di nuovi insegnanti per le cattedre vuote di Licei, Collegi e scuole secondarie di tutte le province del Regno. L’assunzione dei nuovi insegnanti non avveniva più, come nel passato regime napoleonico, per approvazione reale, ma per concorso, in modo da effettuare una selezione ed avere ‹‹professori meritevoli››. Questo si evince dalla lettera, datata 28 ottobre 1815, del Principe di Cardito con cui, in qualità di presidente della Commissione di Pubblica Istruzione, informava l’Intendente di Capitanata, Giacomo Farina.89 84 Ivi, p. 42. Ivi, pp. 24-26. 86 Ivi, pp. 26-28. 87 Ivi, pp. 28-29. 88 Ivi, pp. 37-38. 89 D’AMBROSIO, Collegio-Liceo e Università in Capitanata, pp. 65-66. 85 214 Federica Albano Nella missiva si sottolineava inoltre come, in aggiunta alle conoscenze nelle rispettive discipline che venivano valutate attraverso il concorso, l’altro elemento fondamentale sul quale fondare una scelta era costituito dalla ‹‹buona condotta morale e religiosa››90 degli aspiranti insegnanti, tenuti a presentare una valida documentazione che attestasse tali qualità. Nel seguito della lettera il principe di Cardito esponeva in modo dettagliato il ‹‹Piano per provvedersi le cattedre vuote nei Licei e scuole secondarie nelle Province del Regno››.91 Difatti, sempre nel Consiglio tenutosi l’11 ottobre 1815, la Commissione aveva elaborato le modalità di esecuzione del concorso e tutto l’iter burocratico da seguire. La procedura prevedeva che fosse l’Intendente della provincia in cui si registrava la vacanza di una cattedra ad indire il concorso, dopo aver ricevuto la relativa autorizzazione da parte della Commissione di Pubblica Istruzione. Quest’ultimo, a sua volta, inviava all’Intendente il plico sigillato contenente i quesiti d’esame, che veniva aperto nel giorno prestabilito del concorso alla presenza dell’Intendente stesso, di altre autorità, quali il Sindaco del capoluogo della Provincia e due esaminatori, scelti tra i letterati, oltre che degli eventuali concorrenti. La fase successiva prevedeva la compilazione di due verbali d’esame, di cui uno contenente la trascrizione delle domande poste oralmente e le relative risposte del concorrente e l’altro gli elaborati dei partecipanti con la risoluzione dei quesiti compilati dai concorrenti stessi. Entrambi i verbali erano poi inviati alla Commissione di P.I. che emetteva il giudizio definitivo e decretava il vincitore. Era stato stabilito che i concorsi si sarebbero dovuti tenere sia nella città di Napoli che nella stessa provincia in cui c’era bisogno di un insegnante, in modo da facilitare l’accesso a più concorrenti.92 Sempre di seguito, nella lettera era elencato lo ‹‹stato delle materie››,93 ossia le discipline sulle quali era impostato l’esame e i possibili quesiti per ognuna di queste, oltre che l’indicazione degli autori e dei testi. In totale le materie erano sette, come le classi costituenti il corso di studi collegiali: grammatica italiana, grammatica latina inferiore, grammatica latina superiore, umanità, retorica, filosofia e matematica elementare; infine, matematica e fisica.94 Nel caso specifico del Real Collegio di Lucera per quanto riguarda l’amministrazione interna dell’istituto non si segnalarono significative novità, tranne la nomina a rettore, con decreto regio datato 5 luglio 1815, del sac. Nicola 90 Ibidem. Ibidem. 92 Ivi, pp. 66-69. 93 Ibidem. 94 Ivi, pp. 69-71. 91 215 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) De Matteis,95 e successivamente l’avvicendamento, nella stessa carica, del can. Giulio Quarrardi, con decreto del 4 giugno 1818.96 Dei cambiamenti ci furono, invece, nella nomina degli insegnanti, come del resto in tutte le province del Regno. Il primo concorso ad essere bandito nell’istituto lucerino fu quello per la cattedra di grammatica inferiore. Difatti nel novembre 1815 il presidente della Commissione di Pubblica Istruzione dava l’autorizzazione all’Intendente di Capitanata ad indire il concorso e diffondere il bando in tutta la Capitanata ed inviava il plico contenente i quesiti da svolgere.97 Intanto il Rettore del Collegio, da parte sua, rendeva noto il compenso spettante all’eventuale vincitore del concorso che, così come si legge da un documento d’archivio, era costituito da ‹‹duc. 14 al mese, soggetti però alle ritenute del 2 e 5%, come si praticava per quello di qualunque impiegato››, ed inoltre sottolineava come si continuava a garantire anche ‹‹l’alloggio, il vitto, l’olio per il candeliere e il letto››98 all’interno del Collegio. Evidenziava inoltre la maggiore importanza di questa disciplina rispetto alle altre, e quindi di conseguenza la cura maggiore da prestare nella scelta dell’insegnante, proprio perché ‹‹ha per oggetto la prima istituzione da darsi ai giovanetti. Affidandosi ad una mano poco perita, le tenere piante non verrebbero ben coltivate, e si perderebbe ogni speranza del loro felice sviluppo e riuscita››.99 Il concorso si tenne nel dicembre dello stesso anno e, fra i vari concorrenti accorsi da tutta la provincia e dopo un lungo periodo di giudizio, nel febbraio del 1816 venne nominato come nuovo insegnante di grammatica inferiore il professore Giovanni Bredice, di S. Marco la Catola, ma ‹‹dimorante in Foggia››.100 Inoltre dalla documentazione presente in archivio si rilevano, per l’anno 1819, i nomi e il numero esatto dei professori e dei maestri che svolgevano il loro lavoro nel Collegio di Lucera. Si ha notizia, infatti, di un totale di sei professori, titolari di cattedra, e di due maestri quali: Nicola Tecce (fisica e analisi), Raffaele Birago (filosofia e sintesi), Raffaele Seguino (retorica e lingua greca), Giuseppe Pazienza (umanità sublime), Francesco Tasca (grammatica latina), Pasquale Colucci (italiano) e i maesti Nicola Volpe (disegno) e Gabriele de Santis (calligrafia).101 Tra il maggio e l’agosto del 1820 si svolse un altro concorso nel Collegio lucerino per la cattedra di “lingua latina sublime”. Fu decretato vincitore del 95 Ivi, p. 64. Ivi, p. 97. 97 Ivi, pp. 77-78. 98 Ibidem. 99 Ivi, p. 78-79. 100 Ivi, p. 80. 101 Ivi, pp. 98-99. 96 216 Federica Albano concorso il sac. Anastasio Antonucci, il quale in data 10 settembre dello stesso anno riceveva la nomina ufficiale.102 In quegli anni il Real Collegio di Lucera si arricchiva (come si è detto) di un’altra importante cattedra, quella di diritto e procedura civile. E sul finire dell’anno 1819 venne anche bandito il relativo concorso, tenutosi nel febbraio del 1820, contemporaneamente a Napoli presso l’Università e a Foggia presso il Palazzo dell’Intendente. L’unico candidato che fece domanda fu il professore Giovanni Battista Pepe di Lucera che risultò, ovviamente, vincitore. Così con decreto del 24 aprile dello stesso anno il professor Pepe venne nominato insegnante di diritto e procedura civile nel Real Collegio di Lucera anche se poi il corso ebbe inizio solo nel mese di novembre.103 La particolarità degna di nota è la formula di giuramento che il professore pronunciò il giorno della sua nomina dinanzi all’autorità dell’Intendente. Difatti il dichiarante, sotto giuramento, doveva affermare la sua non appartenenza o la rinuncia a qualsiasi tipo di società segreta. Si può constatare come questo risenta del clima politico del tempo, ossia della grande diffusione delle società segrete anche negli ambienti di formazione, potenziali sovvertitrici dell’ordine pubblico e destabilizzatrici del regime da poco restaurato da Ferdinando I. Riporto qui di seguito la formula del giuramento: Io G. B. Pepe nominato da S. M. con R. decreto del 24 aprile prof. di diritto e procedura civile nel R. Collegio di Lucera, prometto e giuro fedeltà ed ubbidienza a Re Ferdinando I, e pronta ed esatta esecuzione degli ordini suoi…. Prometto e giuro di non appartenere a nessuna società segreta di qualsivoglia titolo, oggetto e denominazione, e nel caso che io appartenessi a qualcheduna di tali società prometto e giuro di rinunziarvi da questo momento e di non farne mai più parte, così Iddio mi aiuti.104 6. Alunni e scolari La stessa legge del 30 maggio 1807, che istituì i Collegi Reali del Regno, provvide anche alla regolamentazione di tutta l’articolazione organizzativa degli stessi, compresa l’ammissione degli alunni. Fu stabilito che i Collegi potevano essere frequentati da ‹‹alunni›› interni e da ‹‹scolari›› esterni. Per quanto riguarda gli alunni interni si provvide anche, con la stessa legge, alla fondazione delle “piazze franche” intere o a metà, ossia posti gratuiti o 102 Ivi, pp. 111-112. Ivi, pp. 94-105. 104 Ivi, pp. 106-107. 103 217 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) semigratuiti, riservate ad alunni particolarmente meritevoli sia della scuola primaria che secondaria, e ai figli di militari e di impiegati civili del Regno, in gratificazione dei servizi fedelmente prestati. Gli alunni interni erano nominati dal Governo e non potevano superare il numero di cinquanta in ogni Collegio. In tutti i Collegi delle province del Regno la retta stabilita era di 8 ducati (l. 34,00) al mese; quindi gli alunni interni o pagavano la retta per intero o potevano usufruire, in base a determinate condizioni, dei posti gratuiti e semigratuiti. Gli scolari esterni, invece, erano ammessi dai Rettori, a condizione che fossero di “buoni costumi e inclinati allo studio”, e frequentavano gratuitamente le scuole. Per gli alunni interni erano inoltre stabiliti dei limiti di età; infatti non potevano essere ammessi nei Collegi prima degli otto anni compiuti, né dopo i quattordici anni, e oltre i diciotto anni non potevano continuare a restare in Collegio.105 Quest’ultimi poi erano sottoposti a una serie di regole ben precise: avevano l’obbligo di alloggiare in camere separate, non erano loro permessi giochi con le carte e con il denaro ed erano obbligati a rispettare e a partecipare a tutti gli atti religiosi. Inoltre, era loro imposto di indossare una uniforme costituita da: abito blu a coda con paramaniche e collaretto di colore celeste, con bottoni gialli con la scritta Real Collegio di Lucera, calzoni corti blu con fibbia, sottoveste bianca, stivaletti neri, e in testa un cappello a punta con coccarda. Nella stagione estiva era lecito indossare una sottoveste e calzone corto di “lanchina”.106 Riguardo il corredo dei collegiali si richiedeva l’assoluta uniformità: panno e tela dovevano essere del Regno. Era anche vietato ogni lusso per non destare una emulazione che ben presto sarebbe degenerata in superbia e invidia, divenendo anche dannosa per l’economia della famiglia.107 Nulla era lasciato al caso: addirittura anche le punizioni erano previste e precisamente definite dal regolamento, e si differenziavano tra alunni interni e scolari esterni. Gli alunni interni erano puniti con le seguenti pene: ‹‹maggior durata del travaglio; travaglio straordinario; privazione della passeggiata e della ricreazione; detenzione; prigionia che solo il Rettore poteva ordinare››.108 Gli scolari esterni, invece, potevano essere espulsi per rapporto dei professori e in caso di quattro assenze consecutive senza giusta causa. Alla fine del corso di studi vi era la solenne cerimonia della distribuzione 105 ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, pp. 37-38. Tela speciale mista di lino e cotone; da “lanché” e “anchina” dal francese nankin. Ivi, p. 38. 107 Ivi, p. 40. 108 Ivi, p. 38. 106 218 Federica Albano dei premi, nella quale il Rettore presentava all’Intendente della Provincia l’elenco dei collegiali meritevoli di entrare in uno degli istituti destinati a contribuire ulteriormente alla formazione dei giovani e a dar loro “l’ultimo grado di perfezione” in quell’ambito nel quale i giovani erano indirizzati dalle loro attitudini o anche dalla volontà dei parenti. Questi istituti erano: i Seminari sottoposti all’autorità governativa; la Scuola Militare di Caserta; la Scuola Politecnica di Napoli (marina, artiglieria, genio militare e civile); la Scuola di Belle Arti in Napoli; il Convitto per gli studi legali e il Convitto per gli studi di medicina e chirurgia, anche quest’ultimi in Napoli.109 Passando ora ad esaminare il caso specifico del Real Collegio di Lucera, mi soffermerò soprattutto ad analizzare la componente degli alunni, presente in questo istituto, nei primi due anni della sua attività. Dalla documentazione relativa a questo istituto, conservata presso l’Archivio di Stato di Foggia, si evince che già nel gennaio del 1808 iniziarono le prime assegnazioni di alunni. Il primo alunno ad essere ammesso con decreto regio, nel gennaio del 1808, e ad usufruire dell’intera “piazza franca” fu N. Thomay, figlio di un colonnello, comandante del Castelnuovo di Napoli, meglio conosciuto come il Maschio Angioino.110 Con il decreto dell’8 marzo 1808 furono assegnati al Real Collegio di Lucera otto ‹‹alunni regi›› a posto gratuito e cinque a posto semigratuito e nello stesso decreto, in aggiunta, veniva specificata la motivazione della loro ammissione, cosa che risulta estremamente utile nella comprensione dei meccanismi allora in vigore. Gli alunni ad essere ammessi a posto gratuito furono: Catello Bianchi, proveniente dalla cittadina di Campolieto, orfano di padre, capitano di artiglieria, morto con il fratello nella campagna militare del 1799; Giuseppe Blasio, di San Lupo, orfano di padre, morto nel “servire lo stato” nel 1807; Liberato de Cesare, della città di Pratola, Domenico di Gennaro, di Casacalenda, Michele Lupinacci, di Cosenza, tutti e tre orfani di padre a causa della campagna militare del 1799; Gabriele Paolella, di Napoli, orfano di padre ucciso nel 1808; ed infine Gabriele de Santis di S. Paolo e Gennaro Simeone di Napoli, entrambi orfani dei loro padri, uccisi nel 1799.111 Coloro i quali che, invece, furono ammessi a posto semigratuito furono: Domenico Coletti, proveniente dalla città di Atri, orfano del padre morto nella campagna militare del 1799; Gaetano Coletti, anch’esso di Atri, orfano di padre e appartenente a famiglia povera e numerosa; Giuseppe Forte, di Teramo, la cui famiglia perse i propri beni in seguito al saccheggio avvenuto nel 1799; ed infine 109 Ibidem. ASFg, Intendenza di Capitanata Pubblica Istruzione, Real Collegio di Lucera, fascio 53, fascicolo 1051. 111 Ibidem. 110 219 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) Pietro Sacchi e Guglielmo Sacchi di Amantea, entrambi orfani dei loro padri e, in aggiunta, privati dei loro beni durante il saccheggio da parte dei nemici.112 Come si può notare da questo elenco di nomi di collegiali, e soprattutto dalla motivazione della loro ammissione al Real Collegio di Lucera, questi erano in gran parte orfani, figli di militari o danneggiati dalle guerre le cui famiglie avevano subito la perdita o il saccheggio di beni o, ancora, erano figli di alti ufficiali dell’esercito che, per una sorta di compensazione per gli alti compiti resi, ricevevano come beneficio dal re in persona la possibilità di perfezionare la loro educazione nei Collegi Reali.113 Successivamente con decreto regio, del maggio dello stesso anno, furono ammessi altri due collegiali: Salvatore Colucci, proveniente dalla città di Fondi, figlio di un Capitano dell’esercito del 1° Reggimento di fanteria leggera, ammesso a posto gratuito, e Francesco Micchitelli, ammesso, invece, a posto semigratuito e proveniente da Teramo, la cui famiglia aveva subito dei danni nella campagna del 1799.114 In alcuni casi erano i genitori che inviavano delle lettere o delle vere e proprie suppliche, al re in persona o all’Intendente, per chiedere l’ammissione dei loro figli ai Collegi Reali. In esse presentavano e sottolineavano la loro situazione familiare precaria a causa dei danni subiti in seguito alle guerre, come il saccheggio o la perdita di beni o peggio per la morte in battaglia del capofamiglia che pregiudicava quindi la possibilità di sostentamento di tutti i figli. Nel momento in cui la loro richiesta fosse stata accettata, come si evince da alcune lettere dell’Intendente, avrebbero dovuto presentare una documentazione, una sorta di curriculum, che comprendeva: il certificato di battesimo, notizie riguardanti i loro costumi e la loro preparazione scolastica, infine, informazioni in merito alle famiglie di appartenenza, ossia se queste fossero in possesso dei mezzi sufficienti a garantire ai loro figli tutto l’occorrente e il denaro necessario per far fronte alle piccole spese mensili per l’acquisto di libri, scarpe, per la lavanderia ed altro. Nel maggio del 1808 il Real Collegio di Lucera non era ancora in funzione, come risulta da una lettera inviata dal Ministero dell’Interno all’Intendente di Capitanata, in cui si spiegava che l’alunno Gabriele Paolella, ammesso nel Collegio con decreto di marzo, veniva trasferito al Collegio di Napoli, adducendo come motivazione proprio la non ancora effettiva apertura di quello di Lucera. In aggiunta veniva deciso che il posto gratuito che era stato concesso all’alunno nel Collegio di Lucera doveva essere garantito anche in quello di Napoli, con i fondi prelevati dalla dotazione del collegio lucerino.115 112 Ibidem. ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, pp. 14-15. 114 ASFg, Intendenza di Capitanata Pubblica Istruzione, Real Collegio di Lucera, fascio 53, fascicolo 1051. 115 Ibidem. 113 220 Federica Albano Ci furono nello stesso anno anche i trasferimenti di altri due alunni in altri Collegi di cui però sono ignote le motivazioni: l’alunno Thomay, di cui non si conosce la sede in cui fu trasferito, e l’alunno Giuseppe Forte trasferito nel Collegio di Sulmona, con il beneficio di un posto gratuito. Intanto, sempre nel maggio dello stesso anno, proseguivano, con decreto regio, le ammissioni al Real Collegio di Lucera: l’alunno Michele Cerulli, proveniente dalla città di Carbonara, orfano del padre morto in servizio nel 1807 in qualità di Capitano della guardia provinciale, fu ammesso a posto gratuito, mentre fu concesso di usufruire del posto semigratuito ai fratelli Antonio Maria e Luigi Marinelli di Ripalimosani, orfani del loro padre morto nella campagna del 1799, e ai fratelli Gabriele e Carlo Prezio, della città di Dipignano, anch’essi orfani di padre. Nel dicembre del 1808 si aggiungevano, con decreto regio di cui, però, non venne esplicitata la motivazione della loro ammissione, gli ultimi due collegiali: l’alunno Michelangelo Vinaldi, proveniente dalla città di Campobasso, a cui fu concesso di usufruire di un posto gratuito, e l’alunno Nicola Spasiano che beneficiò, invece, di un posto semigratuito.116 Innanzitutto l’aspetto che emerge dai registri degli iscritti al Real Collegio è la mancanza, come invece era contemplato dal regolamento generale, di scolari esterni. Difatti furono ammessi soltanto gli alunni interni e solo con decreto regio e non ci furono, invece, ammissioni da parte del Rettore, come era previsto per gli scolari esterni. Si evidenzia inoltre che il numero di posti gratuiti messi a disposizione era equivalente al numero dei posti semigratuiti. Il criterio in base al quale furono concessi questi posti gratuiti o semigratuiti non è del tutto chiaro, anche se si può escludere verosimilmente quello economico: difatti coloro che usufruirono di posti semigratuiti non erano meno svantaggiati di quelli che usufruirono di posti gratuiti, come si può notare nel caso, emblematico, dell’alunno Coletti Gaetano, in cui, nell’esporre la situazione familiare, viene espressamente dichiarato che era orfano di padre e per di più appartenente a famiglia povera e numerosa. Al Coletti fu concesso non un posto gratuito, come poteva essere appropriato alla sua situazione economica, ma solo uno semigratuito. Affrontiamo ora la questione relativa alla provenienza geografica degli alunni che hanno svolto la loro formazione nel Real Collegio di Lucera nell’anno 1808. La fonte pressoché unica, da cui è possibile ricavare i dati per svolgere questo tipo di indagine, sono sempre gli elenchi degli alunni che annualmente ogni Collegio era tenuto a compilare, conservati presso l’Archivio di Stato di Foggia, e i decreti reali che stabilivano l’assegnazione degli alunni. 116 Ibidem. 221 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) Numero e provenienza degli alunni del Real Collegio di Lucera nell’anno 1808117 Province Numero alunni Contado del Molise 6 Capitanata - Terra di Bari - Terra d’Otranto - Basilicata - Tre province degli Abruzzi 4 Due province delle Calabrie 5 Due Principati 3 Napoli 4 Terra di Lavoro 1 Per quanto concerne la provenienza degli alunni, osserviamo come il Real Collegio di Lucera possieda fin dalle origini un carattere interprovinciale: difatti su un totale di ventitré alunni si nota la prevalenza di studenti originari del vicino Contado del Molise, ma anche delle due province della Calabria (Ulteriore e Citeriore), subito seguite, con quattro alunni, dalle tre province degli Abruzzi (Teramo, L’Aquila, Chieti) e a pari merito dalla, da poco istituita, provincia di Napoli; seguono le province dei due Principati e, con appena un alunno, quella di Terra di Lavoro.118 L’aspetto, però, che emerge da una analisi approfondita è che, nel periodo di tempo preso in considerazione, ossia il primo anno di attività dell’istituto, vi è una totale mancanza di alunni provenienti dalla provincia della Capitanata e, allargando lo sguardo, anche dalle altre province pugliesi. Quindi quello che risulta da questa istantanea è che in realtà l’istituzione del Real Collegio sito in Lucera, almeno inizialmente per il primo anno della sua attività, rivolgeva la sua opera di educazione ed istruzione a tutte le province del Regno, tranne che proprio alla provincia di Capitanata, dove appunto era situato, e anche alle altre province della regione Puglia. Nel successivo anno di attività dell’istituto, ossia il 1809, si notano dei cambiamenti nei documenti relativi alla componente alunni. Innanzitutto nei decreti reali, con i quali si procedeva all’assegnazione degli alunni, si registra la scomparsa della motivazione della loro assegnazione e dell’annotazione della città 117 118 Ibidem. Ibidem. 222 Federica Albano di provenienza dei futuri collegiali. Cosa che quest’ultima pregiudica non poco la possibilità di condurre una attenta e approfondita indagine della componente alunni, come è stato fatto per l’anno 1808. L’altro elemento che si evidenzia, esaminando i decreti reali, riguarda l’assegnazione delle intere o mezze “piazze franche”. Difatti questa istituzione subisce, per quanto riguarda il 1809, un processo di semplificazione, cioè si procede soltanto all’assegnazione di intere piazze franche. Intanto nel Real Collegio di Lucera nell’anno 1809 si continuava con l’assegnazione di altri collegiali che, sommati agli alunni ammessi l’anno precedente, costituivano un numero considerevole, come appare chiaro anche da una lettera del Ministro dell’Interno all’Intendente di Capitanata che scriveva, nel dicembre dello stesso anno, che ‹‹nel Collegio di cotesta Provincia si è già raccolto un competente numero di alunni››.119 Già nel gennaio ci fu la prima assegnazione a cui seguirono molte altre durante l’intero anno. Intanto nei primi mesi dell’anno proseguivano anche i trasferimenti: i fratelli Guglielmo e Pietro Sacchi, a cui l’anno precedente erano stati concessi due posti semigratuiti, beneficiarono, invece, di due posti gratuiti nel Real Collegio di Napoli; l’alunno Francesco Micchitelli fu trasferito al Collegio di Lecce; l’alunno Antonio Massa, il primo ad essere nominato già nel gennaio del 1809, fu trasferito in quello di Sulmona; ed infine fece ritorno al Collegio di Lucera l’alunno Gabriele Paolella che, l’anno precedente, era stato momentaneamente trasferito in quello di Napoli.120 Inoltre anche per l’anno 1809 non si segnalò la presenza di alcun scolaro esterno. Proprio a quell’anno risalgono le prime assegnazioni di alunni provenienti dalla Puglia, come risulta da un decreto regio, datato 7 ottobre 1809. Da quanto si rileva dai documenti questi ragazzi, di Dedda e di Gennaro, già si trovavano a piazza franca nel seminario di Ascoli, a carico della Giunta del Tavoliere come appartenenti alle Colonie ex gesuitiche, ed ora erano in età giusta per poter accedere al Real Collegio di Lucera. Continuavano intanto anche le lettere di supplica di genitori che chiedevano al Re la concessione di un posto gratuito in questo istituto per il proprio figlio. E tra queste lettere di genitori risalta quella di un notabile lucerino, Vincenzo Candida. Innanzitutto è degna di nota, perché è la prima lettera di un abitante della città di Lucera a chiedere l’ingresso del proprio figlio nel Real Collegio. In questa missiva, diretta al Re in persona, chiedeva una piazza franca per il figlio di nome Andrea di undici anni nel Collegio della città e la possibilità ‹‹di dargli un’ottima educazione utile allo Stato››. Importante notare come in modo particolare nella missiva del Candida, a differenza di altre in cui si chiedeva di ottenere questo beneficio, si sottolinea l’attaccamento suo e della sua famiglia alla causa francese e al regno da 119 120 Ibidem. Ibidem. 223 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) essi instaurato, avvalorato dall’arruolamento di suoi familiari, in particolare di due dei suoi fratelli, nell’esercito reale, l’uno come Colonnello civico nella Provincia di Basilicata e l’altro, tenente Colonnello, come aiutante di un generale francese.121 Per il periodo della restaurazione borbonica, invece, non si può definire con precisione la modalità di scelta degli alunni nel Real Collegio di Lucera a causa della mancanza di documentazione riguardante questo aspetto. Dal modus operandi di questo nuovo regime, ossia di conferma nei confronti di gran parte della legislazione in materia di pubblica istruzione ereditata dal periodo precedente, si ipotizza che non ci siano stati cambiamenti nelle modalità di scelta degli alunni nel Real Collegio, come prova, peraltro, la documentazione appena successiva a questo periodo. Difatti persisteva l’istituto della ‹‹piazza franca›› che, molto probabilmente, continuava ad essere assegnata ai figli di militari e di impiegati civili del Regno, in gratificazione dei servizi fedelmente prestati. Soprattutto questo beneficio continuava ad essere destinato ai figli di famiglie che avevano subito delle perdite a causa delle guerre o erano cadute in disgrazia, come si rileva dalle numerose lettere della fine del quinquennio borbonico.122 L’aspetto, invece, su cui è necessario soffermarsi e che ha per oggetto sempre la componente alunni, è l’esame di ammissione, che subì dei cambiamenti. In questo quinquennio borbonico si stabilirono nuove norme dirette a dare maggiore rigore agli esami che gli alunni di Licei e Collegi Reali e scuole superiori dovevano sostenere per poter accedere alla scuola o per poter essere ammessi agli anni successivi. Questi esami normalmente si tenevano nel mese di settembre, prima dell’inizio del nuovo anno scolastico. Ma nel 1815, in concomitanza con l’instaurarsi del nuovo regime, nel Real Collegio di Lucera si dovettero risostenere a novembre gli esami già sostenuti a settembre. Dal verbale d’esame si rileva che, in data 16 novembre 1815, si tenne ‹‹l’esame di classificazione degli alunni e degli esterni››123 alla presenza delle autorità quali l’Intendente di Capitanata, il Rettore e del resto della commissione costituita dai professori Birago, Gatti, Pazienza e dal sostituto Ferrante. L’esame ebbe inizio per gli alunni della classe di filosofia e matematica: si presentarono due alunni interni e due esterni; i primi tre furono ammessi alle lezioni di ‹‹fisica particolare e delle sezioni del cono››,124 l’altro, l’alunno Diego Bonghi, risultò invece idoneo per le lezioni di filosofia. Anche il nuovo alunno Vincenzo d’Alessandro, che si presentò per l’ammissione al Real Collegio, risultò idoneo per le lezioni di filosofia. 121 Ibidem. ASFg, Intendenza di Capitanata Pubblica Istruzione, Real Collegio di Lucera, fascio 54, fascicolo 1062. 123 D’AMBROSIO, Collegio-Liceo e Università in Capitanata, p. 72. 124 Ivi, pp. 72-73. 122 224 Federica Albano Poi seguirono gli esami per accedere alla classe di ‹‹belle lettere e lingua greca››125. Anche qui si presentarono due nuovi alunni, Francesco Sebastianelli e Francesco di Biase, i quali avevano fino allora studiato l’uno nel Seminario di San Severo e l’altro in quello di S. Bartolomeo in Galdo, ma ora chiedevano di essere ammessi nel Real Collegio. A questi, dopo un lungo esame, fu accordato di accedere a questa classe d’insegnamento. Successivamente si proseguì con gli esami degli alunni che chiedevano di accedere alla classe d’insegnamento di ‹‹grammatica superiore››. In questo caso molti erano gli alunni, sia interni che esterni, che sostenevano questo esame, che si svolgeva in questo modo: Chiamati l’uno dopo l’altro, sono stati separatamente interrogati sulle parti dell’orazione, e sintassi di Portoreale. Si è fatto dopo trasportare da tutti un tema di italiano in latino, e spiegare la vita di Annibale di Cornelio Nepote. Dalle risposte date alle domande, ed alle due traduzioni nel latino dall’italiano, e viceversa, si è rilevato di essere i medesimi a tiro di passare nella grammatica superiore.126 Infine si giunse agli esami per l’ammissione alle lezioni di ‹‹grammatica inferiore››. Anche per questa verifica ci fu un numero considerevole di scrutinati, sia interni che esterni, e alla fine si decise ‹‹che ognuno di essi deve appartenere alla scuola di grammatica inferiore››.127 Sempre da questi documenti si può fare anche una valutazione sulla provenienza geografica degli alunni nell’anno 1815. Innanzitutto si evidenzia il numero crescente di esterni (ben 14) rispetto al passato, tutti provenienti dalla città di Lucera, sede del Collegio. Tra coloro i quali beneficiavano di un posto gratuito all’interno dell’istituto (18 in tutto) si registrano anche 3 alunni provenienti da Lucera. In linea generale ciò che si riscontra rispetto al passato è il numero in costante crescita di coloro che provenivano dalle città della Capitanata (Apricena, Castelnuovo, Orsara, Celenza). Di conseguenza si evidenzia la netta diminuzione degli alunni che provenivano da Napoli, uno in tutto, e dalle città delle province limitrofe della Campania (Foiano, Circello), e da centri (Castelbottaccio, Sepino) del vicino Molise.128 Sempre a proposito degli esami sostenuti dagli alunni, dalla documentazione d’archivio si evidenzia il resoconto di quelli avvenuti nell’anno 1819. Questi esami furono sostenuti, come da regolamento, presso il Real Collegio di Lucera da alunni sia interni che esterni, in data 22 e 23 settembre, alla presenza dell’Intendente e del resto della commissione d’esame. 125 Ivi, p. 74. Ivi, pp. 75-76. 127 Ivi, p. 76. 128 Ibidem. 126 225 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) L’aspetto degno di nota è che lo svolgimento e il risultato di questa verifica riscosse il plauso dell’Intendente stesso. Difatti dal relativo verbale d’esame emerge che gli alunni erano complessivamente in numero di 64, di cui 20 esterni, e che in totale i promossi furono 34 di cui 28 con la votazione “ottimo” e 6 con “bene”. Quindi tradotto in percentuale si ebbe circa il 53% di promossi.129 Questo risultato raccolse la soddisfazione dell’Intendente che sul Giornale dell’Intendenza di Capitanata del 26 ottobre 1819 faceva scrivere: l’Intendente nel giorno 22 settembre si recò in Lucera per assistere agli esami che durarono due giorni. Vi furono saggi in filologia, matematica e filosofia, e i ragazzi della più verde età offrirono dei saggi incantevoli in esercizi di geografia, di storia e di lingue. L’Intendente si dichiara soddisfatto del Rettore, dei maestri, del piano degli esami e dell’andamento in genere dello Stabilimento.130 7. Organizzazione della giornata La giornata dei collegiali era scandita dal seguente orario: 7.00 - messa. 7.30 - colazione. 7.45 - scuola. 10.15 - fine della scuola. 10.30 - disegno, ballo, lingua francese. 12.00 - pranzo. 14.00 - studio camerale. 15.15 - scuola. 17.30 - fine della scuola; visita al Sacramento. 17.45 - scherma ed altri esercizi corporali. 18.30 - rosario 19.00 - cena e studio camerale. 21.00 - riposo notturno. L’orario variava secondo le stagioni, per cui nei mesi estivi dopo pranzo era prevista la ricreazione e poi il riposo pomeridiano fino alle ore 14.00. Nei giorni di vacanza si svolgevano le lezioni di storia naturale e di lingua francese.131 Le lezioni iniziavano i primi di novembre e terminavano gli ultimi giorni di settembre. Infatti vi era la consuetudine di dare agli alunni l’intero mese di ottobre 129 Ivi, pp. 97-98. Ivi, p. 99. 131 Liceo ginnasio “R. Bonghi” di Lucera, pp. 15-16. 130 226 Federica Albano come periodo di vacanza autunnale. Periodi di vacanza erano previsti per la festività del Natale, dalla vigilia fino al giorno di Capodanno, per il carnevale, che duravano otto giorni, ed infine per la festività della Pasqua, che iniziavano il mercoledì santo e proseguivano fino alla domenica in Albis. Inoltre, in aggiunta alle domeniche e alle feste civili e religiose, anche il giovedì era considerato festivo.132 Per quanto riguarda l’alimentazione, era rigorosamente disciplinata dalla tabella del vitto, inserita nel regolamento dei Collegi Reali, stabilita con il decreto del 20 maggio 1812 per i convittori.133 A colazione era previsto un biscotto con frutta e formaggio; il pranzo consisteva in tre piatti caldi, frutta e pane a sufficienza e un quarto piatto nei ‹‹giorni di magro››; ed infine per cena veniva servito un piatto caldo, un’insalata, frutta, formaggio e pane. Tra le bevande anche il vino era previsto ed era disciplinato il suo consumo; infatti ‹‹pochissimo vino, ai collegiali di età maggiore una mezza caraffa (decilitri 3,5), al più tra mattina e sera, perché la puerizia ordinariamente non soffre lo stimolo del vino, e l’adolescenza non ne ha bisogno››.134 Focalizzando l’attenzione sull’organizzazione didattica vigente all’interno dell’istituto, risulta un dato costante: la cura per la formazione religiosa. A tale proposito si prevedeva per i convittori la recita quotidiana dell’ufficio della Vergine in privato e del rosario in comune. Cadenza giornaliera avevano pure la S. Messa e l’esame di coscienza prima di andare a letto. Anche nelle materie curricolari era previsto l’insegnamento del catechismo, approvato dal Governo, da parte di un catechista, nel caso in cui il Rettore o il Vicerettore non fosse un religioso.135 Per quanto concerne poi le materie curricolari, come era stato in precedenza detto, non vi sono significative novità: l’ossatura del programma risulta infatti costituita dal corso grammaticale-retorico, cui si affiancano elementi di greco, di latino e d’italiano, e discipline come la filosofia, in particolare la logica, la metafisica e l’etica, e poi ancora le matematiche, la geografia, gli elementi di fisica e l’archeologia classica. A queste discipline se ne aggiungevano di nuove come l’insegnamento della lingua francese, della calligrafia, del disegno, della scherma e del ballo. Le scienze e le belle arti erano considerate materie facoltative: per esse si stabiliva che la retribuzione dei relativi insegnanti era a carico dei parenti dei convittori, e non era inclusa nella retta. Un carattere di assoluta novità rivestono invece le nuove discipline, quali il francese e le arti cavalleresche. Il significato dell’introduzione di tali discipline nel piano di studi è abbastanza chiaro, se si pone mente al fatto che il collegio mirava 132 ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 40. ASFg, Intendenza di Capitanata, Conti del Real Collegio, Appendice, fascio 1, fascicolo 3. 134 ARCINETTI, Monografia del Convitto nazionale di Lucera dal 1807 al 1884, p. 40. 135 Ivi, p. 38. 133 227 Il Real Collegio di Lucera (1807-1820) ad un’educazione globale, capace di preparare i giovani alla conversazione, alla vita mondana ed anche ad un addestramento fisico-atletico. A tale proposito, lo studio del francese rifletteva il ruolo guida che la cultura di tale paese rivestiva nell’Europa dell’Ottocento, nonché la circostanza che il francese si era ormai affermato come l’idioma ufficiale della diplomazia. La sua conoscenza si configurava dunque sempre più come elemento insostituibile per la formazione dei giovani dell’élite. Ma, soprattutto, agli inizi del secolo, durante il dominio francese, era inevitabile la conoscenza di questa lingua. Quanto alle arti cavalleresche, esse includevano discipline diversissime come l’uso delle armi con la scherma e la danza. Si trattava di un insieme di discipline il cui studio è ancora una volta da mettere in rapporto con l’educazione alla socialità e il correlativo scopo di sapersi presentare in modo elegante e decoroso, saper controllare i propri gesti e partecipare alla vita mondana anche nei suoi aspetti ricreativi. Le scienze cavalleresche erano dunque parte essenziale della formazione di questi giovani. 228 In memoria dei nostri 230 Damiano Nocilla Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un Maestro di Damiano Nocilla San Marco in Lamis, 4 Marzo 2011 Quando, or sono dieci anni, ci raggiunse la notizia della scomparsa del ‘Preside’ Pasquale Soccio, pochi hanno potuto sottrarsi ad un senso di sgomento. Non che quell’evento potesse giungere inatteso, anche per la veneranda età raggiunta dal Personaggio. Vi era, sì, un diffuso timore che ciò potesse accadere, ma quell’eventualità ognuno di noi l’aveva quasi inconsciamente rimossa, perché in Lui vedeva uno degli uomini simbolo di questa popolazione, che si caratterizza per tenace operosità, per l’attitudine a sopportare i sacrifici, per l’intima e profonda religiosità, per ritrosia e sobrietà. Foggia, il Gargano e la Daunia hanno dato di sé l’immagine, che emergeva dalle opere e dalla vita di quell’uomo dalla figura ascetica, dal portamento severo, in cui il dipendere dagli altri per i suoi problemi alla vista, non appariva una debolezza, ma sprigionava - avresti detto! – una forza non comune, una capacità di lottare contro le avversità, una sorprendente predisposizione ad affrontare lo sforzo e il sacrificio. E soprattutto tutti sentivamo che con la Sua scomparsa sarebbe venuta a mancare a questa terra la Sua opera: e non solo quella che può ritrovarsi negli scritti letterari, di storiografia, di filosofia, di pedagogia, ma quella di educatore, di organizzatore di tanti eventi culturali, di giudice severo per studenti e docenti, di consigliere per quanti volessero incamminarsi nell’ardua e accidentata via – che so io – della ricerca scientifica o della produzione letteraria o del giornalismo. Proprio il preside Cera nel convegno di qualche anno fa mise in rilievo come Soccio abbia posto al centro della propria vita la cultura ‘intesa come valore insostituibile e fonte inesauribile di vitalità’: una cultura che non si esaurisse nell’accademia e nell’astratta erudizione, ma che potesse divenire ‘esercizio concreto e operante, capace di modificare modi di essere e di agire.’ Se la sua ispirazione intellettuale e morale lo aveva indotto negli anni della formazione ad essere inflessibile con se stesso, il suo giudizio sugli altri sarebbe divenuto, per intima coerenza, severo e senza indulgenze - anche se non mancava di esprimerlo con una certa bonarietà. 231 Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro Nella Sua attività di Preside del ‘Bonghi’ di Lucera – ne ha parlato in altre occasioni Paolo Emilio Trastulli – Egli portò la concezione di una scuola come comunità di trasmissione reciproca di conoscenze tra preside, professori e studenti, nella quale si chiedeva – appunto – un impegno a tempo pieno (un tempo pieno ben lontano da quello puramente formale in cui si contano le ore e addirittura i minuti di presenza sul luogo di lavoro, ma un tempo pieno che oserei definire ‘spirituale’, in cui ognuno doveva dedicare alla scuola ed alle diverse attività, che vi si svolgono, tutta la propria mente e tutto il proprio cuore). Più d’uno ha ricordato come seguisse con attenzione i propri studenti nello sviluppo dei loro studi e della vita professionale, pretendendo senza mai enunciarlo, che essi non fossero scolari nel senso deteriore, mirabilmente descritto da Croce in una pagina ormai famosa, che li fa simili ‘all’imitatore che fa la scimmia all’artista ammirato, e perciò inutile, e, in quanto ripete, non può nemmeno ripetere, ma solo guastare e sminuire e raffreddare’. Ed è in questo contesto che si inserisce la cura estrema da Lui messa nella cosiddetta visita didattica ai docenti, nel colloquio con gli stessi sulla metodologia adottata nel fare lezione, nell’attività di trasmissione diretta delle proprie conoscenze agli studenti e delle proprie esperienze ai docenti. E per converso si spiega il timore che talora attanagliava i docenti, soprattutto quelli più giovani, di fronte alla presenza in classe di quella figura ieratica e severa, che di lì a poco ne avrebbe giudicato preparazione, esposizione, comportamento, ars docendi. A questo proposito mi sia consentito un personale ricordo. Nel 1995, su invito dell’allora sindaco, Michele Galante, tenni il mio primo intervento pubblico, qui a San Marco, sul principio maggioritario nelle principali democrazie occidentali, nel quale avrei dovuto inevitabilmente affrontare il tema dei mutamenti che la nostra forma di governo avrebbe subìto (o dovuto subire) in seguito all’introduzione del nuovo sistema elettorale ed allo svolgimento delle elezioni del 1994. Grande fu lo sgomento che provai quando vidi in sala seduto Pasquale Soccio, che intento seguì tutta la mia esposizione: temevo che il mio dire gli potesse apparire confuso e – si fa per dire – poco fluido. E grande fu la mia consolazione quando egli volle complimentarsene. Nacque allora quella che potrei definire la nostra amicizia telefonica e la sua cortese e costante attenzione verso la mia persona. La scuola nella quale operò come maestro elementare, agli inizi, come professore nei licei, poi, ed infine come Preside dal 1950 in poi, fu il luogo principale, anche se non esclusivo, in cui si esercitò il ‘suo ruolo di formatore, di persona in grado di incidere sulle coscienze, ma anche nell’ambiente circostante’, come ha scritto Francesco Giuliani. Una scuola intesa come servizio pubblico all’intera comunità nazionale e come istituzione perfettamente integrata nella società, e nella quale il pluralismo delle voci, che vi risuonano, deve costituire un arricchimento ed un indispensabile elemento formativo per i discenti: è questa la scuola pubblica 232 Damiano Nocilla di Paquale Soccio ed è questa la su insostituibilità, di cui qualcuno con troppa superficialità vorrebbe fare a meno. Ed infatti, un’attenta considerazione della sua vita e della sua attività induce ad affermare che l’influenza di Soccio non si esercitò soltanto sui suoi allievi diretti o sui docenti del ‘Bonghi’ di Lucera, ma si allargò a quanti ebbero la fortuna di conoscerlo, di poter instaurare con lui un colloquio, di aprire la propria mente ed il proprio cuore all’ascolto della sua lezione di vita e di pensiero, di osservarne da vicino la vita ispirata da grandi valori ideali e morali: saggezza, serietà, onestà, lealtà, laboriosità, rispetto per l’altro, amore per il creato, gentilezza d’animo, senso dell’amicizia. Egli è stato profondamente imbevuto della spiritualità francescana e visse una vita che può veramente definirsi francescana, al punto da ottenere nel 1982 il diploma di affiliazione all’Ordine del Poverello d’Assisi. In questa Sua influenza, che dalla scuola si allarga all’intera comunità della Daunia, sta la politicità della sua azione educativa, che è sempre stata diretta a formare, con l’insegnamento e soprattutto con l’esempio, cittadini in grado di contribuire allo sviluppo culturale, civile, economico e morale della nazione: è stato ben detto che per Lui la scuola era ‘motore della crescita spirituale e civile’. «Il fanciullo – sono sue parole – si fa soprattutto uomo concreto, uomo storico, e quindi non astratto, solo se diviene cosciente cittadino partecipe della vita della Patria». E non possiamo non domandarci con una certa punta di amarezza se questa sua azione non possa apparire, oggi, superata, travolta come essa è da certi comportamenti pubblici e privati della classe dirigente e dalla perdita da parte della nostra gente – distratta dalla cosiddetta videocrazia – della capacità di esprimere indignazione. Aveva scritto a suo tempo «Assai pernicioso è l’analfabetismo, soprattutto l’analfabetismo spirituale, che si manifesta come immaturità civile, impreparazione alla vita politica». Date queste premesse non può meravigliare il suo impegno politico diretto negli anni che seguirono la guerra: la collaborazione con Guido De Ruggiero, la fondazione del settimanale «L’Azione democratica», attivo negli anni 1944-1946. Si trattava di ricostruire il paese dalle macerie della guerra ed era naturale che, in un clima di ritrovata libertà, la sua attenzione si spostasse in direzione dell’intera società civile, senza tuttavia perdere di vista il centro dei propri interessi, cioè la scuola. Ma il concreto agire educativo di Soccio non rispondeva all’estemporanea scelta di comportamenti da adottare di fronte al manifestarsi di momentanee esigenze, quello che oggi si direbbe un movimentismo culturale, fine a se stesso e privo di un’ispirazione ideale. Dietro la Sua lezione vi era un pensiero coerente ed unitario, che prendendo avvio da un unico concetto, che costituisce, poi, anche un’aspirazione, veniva svolgendosi in campo filosofico, pedagogico e storiografico; e quel concetto mi permetterei di individuare nella ‘libertà’, da lui intesa, direi 233 Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro crocianamente; onde la Sua concezione liberale, il Suo liberalismo poteva definirsi metapolitico in quanto coincidente con una concezione totale del mondo e della realtà. ‘Ideale che, infatti, era concresciuto con tutto il pensiero e il moto della civiltà, ed era passato nei tempi moderni dalla libertà come complesso di privilegi alla libertà come diritto di natura, e da questo astratto diritto naturale alla libertà spirituale della personalità storicamente concreta’. In questa sua disposizione d’animo incentrata -come avrebbe detto Croce – nell’idea ‘della dialettica ossia dello svolgimento, che, mercé la diversità o l‘opposizione delle forze spirituali, accresce e nobilita di continuo la vita e le conferisce il suo unico e intero significato’; nel suo intimo rifiuto di ogni atteggiamento autoritario che volesse eliminare i contrasti che nascono spontaneamente dalla vita stessa, e prescrivere nei più minimi dettagli i comportamenti da tenere e prestabilire norme ed ordinamenti: in questa duplice predisposizione dell’animo Suo trova spiegazione, innanzitutto, il pensiero pedagogico, che parte proprio dall’idea antiautoritaria di dover ‘mettersi sotto i piedi’, sono parole sue, la teoria. Perché è proprio nella vocazione pedagogica che egli segue il suo ‘Autore’, cioè Vico. Scrisse a questo proposito Eugenio Garin ‘mentre Cartesio vedeva nell’infanzia la radice di ogni erronea valutazione delle cose, e quindi la condannava, Vico conquista l’autonoma visione del mondo fanciullo, del primitivo, del mito e della religione’: e come non vedere in questa ricostruzione del pensiero vichiano una riproduzione del percorso intellettuale di Soccio? Un percorso in cui emerge il fastidio e il rifiuto per la rigidità degli ordinamenti e dei programmi scolastici, per i vincoli burocratici e per i controlli formali (abbiamo già detto della sua propensione a privilegiare nei propri docenti l’osservazione delle capacità di colloquio con i discenti stimolandone l’apprendimento, più che la burocratica osservanza di orari e di circolari), per la vaghezza delle mode pedagogiche (globalismo). Un rifiuto che – come Lui stesso ricordava – non fu ribellione fine a se stessa, ma volontà di approfondimento, di ampliamento delle proprie conoscenze, di dedicarsi ad una scuola ove più facile fosse il superamento di quelle barriere tra maestri ed alunni, che inducono questi ultimi ad odiarla, e più agevole la realizzazione di un proprio e stretto rapporto con i discenti, che Lo portasse ad amare, soffrire, godere, vivere con essi. Scriveva della propria esperienza di maestro elementare (ma vi si sente già l’impostazione che darà alla propria attività di professore e preside nei licei): ‘E ogni didattica diventa intollerabile quando si vuole che la si segua più o meno pedissequamente, riconosciuta come buona per tutti. È risaputo che l’educazione è arte, ora la didattica, creata apposta per far digerire educativamente un greve materiale di nozioni, converte l’arte in mestiere’. ‘Là quando c’è un maestro di vita, di vera vita, là è anche vera scuola’. I giovani vanno formati, come aveva intuito G.B. Vico ‘con un metodo didattico più 234 Damiano Nocilla connaturale: l’arte dell’inventiva e della scienza (‘la topica’) più atta a stimolare la fantasia giovanile’. Un pensiero pedagogico, quindi, in cui l’individuale, il concreto, la libertà fanno premio su tutto quanto è genericità, astrattezza, autorità. Profonda influenza ebbe in lui, sotto questo profilo, il pensiero di G. B. Vico, la cui ricostruzione ha occupato largo spazio della sua produzione scientifica. Tanti aspetti della Sua vita e della Sua produzione letteraria sembrano collegarsi direttamente alla sua interpretazione della filosofia vichiana. Mi permetterei di ricordare schematicamente alcuni punti, che altri hanno già avuto ed in futuro avranno occasione di approfondire. 1) Si è già fatto cenno alla vocazione pedagogica di Vico ed alla sua precisa corrispondenza con l’atteggiarsi dell’intera vita del Nostro, che intese sempre a stimolare nei giovani l’arte dell’inventiva e della ricerca (la ‘topica’, come avrebbe detto Vico). ‘La provvidenza ben consigliò alle cose umane col promuovere nell’umane genti prima la topica che la critica, siccome prima è conoscere, poi giudicare le cose’. Si tratta di un tema che può trovarsi sviluppato in quel suo lavoro dal titolo Penso, dunque invento, in cui si rivendicano le ragioni del mito (espressione di un’antica sapienza) e della fantasia, che andrebbe collocata al primo posto nella gerarchia delle facoltà umane. 2) Inestricabilmente connesso all’importanza della fantasia è il valore attribuito all’immagine, che non soltanto si sostituisce al concetto e alla nozione nell’età, in cui la ragione è ancora debole; ma si inserisce tra pensiero e azione e suscita sentimenti che la rendono più efficace degli astratti concetti. Scrive, interpretando Vico, ‘il divin piacere del conoscere e del fare non è disgiunto da quello dell’esprimersi e del narrare’, sicché potrebbe ben dirsi che la produzione letteraria di Soccio risponde ad una precisa gnoseologia, nella quale – è sempre lui che parla – ‘vedere l’ordine delle idee e delle cose è scoprirne la bellezza; il piacere speculativo non è disgiunto da quello estetico’, onde ‘la scienza non va considerata se non come bellezza della mente umana’. Rileggendo i suoi tanti scritti, in cui si fanno rivivere immagini, sensazioni, ricordi, luci, colori, odori dei luoghi della propria infanzia ed età matura, e rimeditando la sua poesia, non possiamo non ricavare da quelle pagine che ‘il divin piacere del fare e del conoscere, col gusto di provare (indagare, dimostrare, esporre), sta anche nel riconoscere l’armoniosa bellezza che governa la vera scienza nelle sue parti e nella ramificazione di tutte le discipline’. 3) E quell’estrema cura che le opere di Soccio rivelano in ordine al linguaggio, quella – se mi si permette – quasi maniacale attenzione alla scelta delle parole più ricercate e più adatte ad esprimere i sentimenti, le sensazioni o la magia di certi momenti, così come ad assicurare la finalità e, si direbbe, la musicalità del periodare; quel suo preventivo indagare sull’etimo dei vocaboli al fine di evitarne un uso anche solo minimamente scorretto si ricollegano all’attenzione vichiana verso 235 Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro il linguaggio, al legame di quest’ultimo con la teoria del verum-factum, al posto nevralgico che vi occupa la logica poetica. 4) Infine, è pur sempre un atteggiamento vichiano quello che lo fa rifuggire dagli specialismi esasperati, che possono indurre l’intellettuale a rinchiudersi nell’orto di una singola disciplina, ponendosi in relazione solo con gli altri cultori della medesima, senza aprirsi alle altre esperienze conoscitive e, quindi, alla vita. Anche a questo proposito ritroviamo in lui l’insegnamento vichiano fattosi esperienza vissuta, azione coerente. Scire est facere. Se per Vico la nuova scienza apre le porte alle tante scienze umane, in quanto filosofia dell’umanità, anche per Soccio l’esigenza di comprendere l’unità della natura umana passa per il superamento di rigide barriere tra storiografia, estetica, linguistica, antropologia, psicologia, sociologia e così via. ‘Ogni scienza umana è valida se fondata sul reciproco riscontro della verità delle idee con la certezza dei fatti. Di qui la vincolante ricerca del reale nella connessione tra vero e fatto’. Ed è alla luce di queste considerazioni che va valutata l’opera storiografica di lui, ove la ricostruzione degli eventi, dai più minuti ai più grandi, non è mai disgiunta dalla ricerca documentaria approfondita, dall’inserimento dell’evento o del personaggio studiato nella complessa realtà culturale, economica, sociale dell’epoca sua, dall’analisi delle conseguenze del fatto sui successivi avvenimenti. Certo anche per Soccio la storia appare come graduale sviluppo della libertà, che può subire arresti e –perché no? – arretramenti, ma che tuttavia non s’interrompe e non vede mai spezzarsi il suo filo rosso. Se per un momento ripensiamo al suo più noto lavoro di storiografia, cioè Unità e brigantaggio – sul quale sarebbe opportuno che la Fondazione adottasse in occasione del 150° anniversario dell’Unità una iniziativa intesa a ripercorrere sulle orme di quel volume i vari aspetti del brigantaggio meridionale -, non possiamo ignorare come l’individuazione delle cause politiche ed economiche del fenomeno appaia funzionale al rinvenimento di quale contributo abbia dato allo sviluppo della libertà del nostro paese il superamento dell’opposizione dialettica tra le ragioni della costruzione dell’unità nazionale e quelle delle aspirazioni all’affrancamento economico e sociale delle plebi meridionali. In quel libro sono ben presenti al meridionale Soccio i sacrifici e le vessazioni, che queste ultime hanno dovuto subire in nome della ritrovata unità della Patria, e come in quei sacrifici abbia avuto origine la questione meridionale; così come egli ebbe ben presente come il brigantaggio meridionale abbia avuto ispirazioni diverse, a seconda delle diverse zone in cui si sviluppò; e tuttavia la tesi di fondo, che vi si sviluppa, tende a recuperare anche il valore della sanguinosa repressione attuata sul brigantaggio e si anima dell’idea che, con il tempo, quelle plebi ribelli sarebbero state recuperate all’unità nazionale e che da quest’ultima sarebbe derivata un’occasione di riscatto culturale ed economico di questa popolazione. Tutta la sua produzione storiografica – si pensi alle ricerche sull’origine della Sua città natale e sulla storia dei conventi di San Matteo e di Stignano – è un omag236 Damiano Nocilla gio alla terra natìa. Il che ci introduce ad un terzo aspetto della poliedrica personalità di Soccio: l’amore per la sua terra. Ma è anche vero che l’amore di Soccio per la sua terra, per la sua piccola Patria non va disgiunto, ma integra un più ampio sentimento di attaccamento all’Italia, l’amore per la Patria, il senso di nazionalità, l’aspirazione alla continua elevazione ed al progresso dell’Italia; così come i suoi sentimenti di italiano non si disgiungono da un atteggiamento, per così dire, europeistico e cosmopolitico, che gli veniva dall’esatta percezione che la cultura, il pensiero, la civiltà non conoscono spazi angusti, chiusure nazionalistiche, rivendicazione di primati. Diresti quasi che questi sentimenti s’irraggiano per centri concentrici, allargandosi progressivamente come le acque di uno stagno quando vi si getta un sasso. San Marco, da questa città a Foggia e Lucera, luoghi in cui risiedette a lungo, e poi all’intera Daunia per giungere sfumato e quasi inconfessato all’Italia: perché egli fu un Italiano, orgoglioso della sua italianità, e della sua appartenenza alla nostra Kulturnation. Ma nessuno potrà mai accusarlo di essere un regionalista nel senso deteriore mirabilmente descritto da Croce; di far ‘valere, nel mondo teoretico o nel mondo pratico, le cose della propria regione, non per quel valore che veramente hanno, ma per un altro, esagerato e falso, che arbitrariamente, per non legittimi interessi, loro si attribuisce’, per concludere: ‘Nel mondo pratico, dunque, è una delle tante forme in cui si manifesta l’egoismo, l’avidità, la prepotenza, l’ingiustizia, la meschinità morale.’ Nihil sub sole novi, verrebbe fatto di dire! Atteggiamenti che trascorrono, poi, nello chauvinisme nazionale. Questo regionalismo nulla ha a che fare con l’amor di Soccio per la propria terra, con l’attivo occuparsi delle cose del proprio paese, della propria regione, della propria città, del proprio villaggio, che è invece uno dei modi in cui l’uomo adempie ai propri doveri. Si può veramente dire che gli fece parte di quella schiera di ‘nobili intelletti’, uniti in una sorta di res publica literaria, che perseguirono e perseguono l’ideale della libertà e si sentono accomunati al di là di ogni appartenenza nazionale o localistica. Egli seguiva con la propria vita e con le proprie opere l’incitamento crociano a superare l’amore per il proprio luogo natìo nell’amore per la propria Patria e, quindi, a superare questo secondo amore per far battere il proprio cuore per l’Europa ed indirizzare ad essa i propri pensieri: nel sentimento che le piccole patrie sarebbero state ‘non dimenticate, già, ma meglio amate’. Ed a questo amore per la sua terra – che è un po’ anche la mia terra – egli ha dedicato le pagine più affascinanti della sua produzione letteraria, sulla quale tanto si è scritto e tanto si è detto. Quello che colpisce il lettore non è tanto la minuta descrizione dell’ambiente, l’evocazione di sentimenti e ricordi, l’emergere di emozioni che traggono alimento dalla storia locale, dalla natura e dal paesaggio, dai piccoli ricordi personali, quanto piuttosto la capacità di trarre dal tatto e dall’olfatto, dal ricordo di gusti e di immagini colti in passato (di Soccio era proverbiale 237 Ricordo di Pasquale Soccio: attualità di un maestro l’infallibile memoria), dalle voci e dai rumori circostanti una descrizione quanto mai fedele di paesaggi, di colori, di luci, di forme, di espressioni delle arti visive, di spazi e prospettive, descrizione nella quale il senso del bello, della simmetria del creato e dell’opera d’arte si sposa vichianamente alla scienza da considerare come ‘bellezza della mente umana’. Rileggendo le pagine di Soccio sul suo Gargano e sulle valli dello Starale e di Stignano possiamo scoprirvi quanto egli abbia coltivato quella virtù che Vico chiamerebbe ‘naturalezza’, che sta per capacità di inserimento dell’uomo nella natura. Facoltà – commenterebbe Soccio – ossia facultas, che per Vico significa facilitas derivante da quel facere che è proprio dell’animo, dell’impegno e della fantasia. E credo che abbia fatto assai bene la Fondazione a collegare in un DVD le immagini di San Marco in Lamis e dintorni alla lettura delle pagine più belle di Gargano segreto e di Materna Terra, che a quei luoghi si riferiscono, in modo che lo spettatore possa apprezzare nella prosa di Soccio il poetico collegamento tra la parola e l’ambiente, la forza evocativa, l’invito a riflettere e ad assaporare le sensazioni, che quell’ambiente ci può dare, le pause e gli intervalli silenziosi, che sono per lui un’altra forma di comunicazione, il lirismo di certe espressioni. Nell’ultima raccolta dei suoi scritti, che Michele Galante ha curato quasi con affetto filiale, dal titolo Pagine sul Subappennino e dintorni si coglie appieno la sua ‘sensibilità ambientalista’, essendone tema centrale la natura e la verde pace dei boschi e dei paesi; scritti che non mancano tuttavia di avvertire il lettore che, spesso, accanto alle bellezze naturali non mancherà di scoprire inattesi tesori artistici, come è accaduto a me quando all’improvviso mi sono trovato di fronte alla bellezza della piazza della Cattedrale di Bovino. Lascerei qui parlare la splendida presentazione di Michele Galante. Queste Pagine sul Subappennino «vogliono rappresentare uno spaccato vivo e sereno di quella Puglia (e di quell’Italia) minore che è comunque in grado di mostrare senza esibizionismi i suoi vantaggi, il suo bel volto, la sua anima… La lentezza di questi luoghi e di questo mondo è contrapposta alla velocità del mondo moderno che è ormai, insieme al profitto, l’unico parametro e l’unica misura…. Ma la velocità il mutamento vorticoso è tempo rubato alla riflessione…..[sicché] il silenzio è un po’ la cifra di questi luoghi ….[un] silenzio che si ascolta e che può assicurarci attraverso il colloquio interiore la pace e la tranquillità e ricaricarci di energia vitale». Ecco! Ognuno di noi, nel momento stesso in cui entra in relazione con gli altri lascia che l’atto comunicativo si estranei da sé (è quel fenomeno che i tedeschi designano con la parola Entfremdung), rivolgendosi agli altri, che nel momento stesso in cui lo ricevono se ne riappropriano, lo fanno entrare nel proprio patrimonio di conoscenze, interpretandolo, in certo qual senso, alla luce di tutto il pregresso patrimonio di esperienze e di concetti. Sicché quell’uomo, quello studioso, quello scrittore, con il quale siamo entrati in relazione, finisce per appartenerci, per essere nostro, perché vive nell’im238 Damiano Nocilla magine che ci facciamo di lui. Quello che questa sera ho tentato di rievocare, e della cui personalità mi sono permesso di sottoporvi solo tre aspetti (l’impegno politico, l’aspirazione alla libertà e l’amore per la sua terra), non è che uno dei tanti Soccio che si offrono ai molti, che a lui si sono accostati ed in futuro si accosteranno, ma è il mio Soccio, quello che io ho saputo, nelle mie modeste possibilità, scorgere in lui e che ho tentato di consegnare a voi, perché, recependo il mio dire, possiate costruire un ‘vostro’ Soccio, accostandovi a Lui con l’animo grato e con la devozione che questa terra gli deve. 239 240 Francesco Giuliani Al momento giusto Ricordando Benito Mundi di Francesco Giuliani Il 5 aprile del 2011un aneurisma ha improvvisamente troncato l’esistenza di Benito Mundi, un protagonista della cultura dauna degli ultimi decenni. Per noi, era soprattutto un amico inseparabile, con il quale da circa un trentennio ci vedevamo quotidianamente, presenza costante in tante iniziative e avventure culturali. Mundi aveva 76 anni (era nato il 18 dicembre 1935), ma ancora tante energie da spendere e un inguaribile ottimismo, che era alla base dei tanti progetti che continuava a realizzare. In giro non è difficile trovare delle persone dai propositi ambiziosi; molto meno frequenti sono, al contrario, quelli che riescono ad incidere sulla realtà, confrontandosi con la concretezza dei fatti, e Mundi apparteneva a questo ristretto novero. È proprio il caso di dire che la parola “pensione” per lui non esisteva: terminato il suo lungo impegno presso la Biblioteca comunale di San Severo, alla fine del 2002, si era subito dedicato all’emittente televisiva Tele Radio San Severo, senza soluzione di continuità. Mundi era figlio di un dirigente della locale stazione ferroviaria, Raffaele, che nel febbraio del 1941, durante l’infausto periodo della seconda guerra mondiale, si era distinto per un’azione eroica, nel corso di un bombardamento aereo da parte degli alleati. Con coraggio e abilità, il ferroviere era riuscito ad evitare danni più gravi alla stazione di San Severo, ottenendo degli unanimi riconoscimenti. In anni segnati dal picco del consenso verso il fascismo, Raffaele Mundi diede al figlio un nome destinato a diventare per certi versi imbarazzante. Era una scelta di cui il diretto interessato non fu mai entusiasta, viste anche le sue idee politiche; né, d’altra parte, pensò mai di farsi chiamare con un altro nome, come altri, specie all’indomani della caduta del regime. Nell’ultimo periodo, finiva immancabilmente con il ricordare che lo stesso nome di Mussolini era quello di un rivoluzionario messicano, Benito Juárez, eroe di quella nazione. Dunque la colpa era di chi, per l’appunto l’uomo di Predappio, aveva deviato dalla retta via. Dopo la maturità scientifica, Mundi si era occupato di pubblicità, mostrando le sue qualità relazionali, poi, presa la decisione di rimanere a San Severo, era approdato, negli anni Settanta, presso la Biblioteca comunale della sua città, intitolata 241 Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi all’illustre editore e stampatore Alessandro Minuziano, il prototipo dell’emigrante intellettuale. Questi, infatti, aveva preso il volo dalla San Severo del Quattrocento per diventare un nome di spicco del mondo culturale di Venezia e, soprattutto, di Milano. La biblioteca dauna, benché antica e prestigiosa (era stata istituita con deliberazione del Decurionato nel 1857, con il nome di Ferdinandea, in omaggio al sovrano borbonico), negli anni Settanta era allocata in spazi davvero angusti, in via San Benedetto. Pochissimo frequentata, in un paese dove molti si fermavano alla quinta elementare e pochi possedevano delle discrete biblioteche familiari, aveva ancora un regolamento che limitava il prestito librario a delle ristrette categorie di persone. Ma i tempi nuovi incalzano, in nome della democratizzazione della cultura. Quando la sede, nel 1973, viene spostata in via Zannotti, occupando un’intera palazzina, sembrò davvero un grande progresso e, per qualcuno, persino un lusso inconcepibile. Invece, in breve tempo, anche la nuova sede diventò troppo piccola. Mundi, prima vice-direttore, poi direttore, svolge un ruolo di primo piano nella promozione di iniziative culturali, ospitando e stimolando, tra l’altro, le periodiche riunioni che porteranno all’organizzazione degli annuali convegni di archeologia e storia della Daunia. La mossa successiva, però, fu quella più avveduta. Il vecchio orfanotrofio di San Francesco aveva ormai esaurito il suo ciclo vitale e quegli ampi e suggestivi locali, siti in una posizione centralissima, erano perfetti per ospitare un grande centro culturale. Fu così che Mundi portò i libri nella sede di San Francesco. Siamo nel 1989 e qui nasce anche l’attuale museo, non senza difficoltà di ogni genere. Il Nostro, ad evitare ostacoli burocratici e gelosie, parlò prudentemente di una “Mostra permanente di reperti archeologici, archivistici e libri rari”, inaugurata nel dicembre dello stesso 1989. I reperti, che coprono un arco temporale che va dal paleolitico in poi, trovarono spazio in 18 sale, con relative vetrinette, al primo piano. Nelle altre due sezioni, poi, vennero sistemati i faldoni appartenenti all’Archivio Storico Comunale, di estrema importanza per la conoscenza della realtà sanseverese moderna, e alcune migliaia di libri rari, compresi degli incunaboli e numerose cinquecentine. Mundi aveva lavorato sodo per vari mesi e sapeva bene, come in effetti poi è avvenuto, che nessun amministratore comunale gli avrebbe chiesto di chiudere quella mostra. L’etichetta di “museo” venne da sé, creando quello che oggi è uno dei fiori all’occhiello della città e dell’intera provincia. I politici fecero a gara nell’attribuirsi i meriti, ma lui, come sempre, lasciò fare, mirando al concreto sviluppo delle attività. La biblioteca e il museo comunale si sono sviluppati con eguale dignità fino ai primi anni del Duemila. Poi, con il pensionamento di Mundi e la creazione di una doppia direzione, è iniziato un periodo nero, culminato con lo sfratto, del 242 Francesco Giuliani tutto ingiustificato e degno di Attila, della biblioteca e l’indisponibilità del patrimonio librario, sistemato in scatoloni. Uno scempio, speriamo prossimo alla fine, che Mundi non avrebbe mai permesso. Nel lungo periodo di direzione, Benito ha ampliato notevolmente il numero dei volumi a disposizione della collettività. Il budget della biblioteca, in verità, era modestissimo, per non dire quasi pari allo zero. Bastava comprare qualche decina di libri per esaurirlo, ma lui aveva capito che poteva contare su alcuni fondi librari molto cospicui, che i proprietari, per varie ragioni, erano disposti a donare. Grazie ai suoi buoni uffici, così, la biblioteca acquisì il bellissimo Fondo Fraccacreta, di circa 5.000 volumi, appartenuto al poeta Umberto e ai suoi familiari, oltre a molti altri testi. Oggi la Minuziano conta oltre 80.000 volumi e altri concittadini benemeriti attendono una sistemazione dignitosa del materiale per aggiungere altri volumi specialistici. Né si limitò solo all’ambito librario. Riuscì, così, ad ottenere il prezioso archivio fotografico di Matteo Vorrasio, migliaia di foto che documentano la vita ufficiale e quotidiana di San Severo nel secondo Novecento. Il complesso di San Francesco, inoltre, ospitò per anni esposizioni e incontri culturali, ottenendo dei successi attestati da migliaia di firme di visitatori, di cui siamo stati testimoni diretti. Anche questa era una novità che avrebbe lasciato il segno a San Severo. Mundi riusciva anche a trovare gli sponsor, con il risultato che le iniziative non di rado finivano per non incidere sulle casse comunali. L’espressione “a costo zero” divenne, pertanto, scherzosamente familiare anche a quanti lo aiutavano nell’organizzazione di questi incontri. Ovviamente, se c’era da spostare qualche sedia, il primo a farlo era lui, trascinando per amicizia tutti gli altri. Inutile sottolineare che Mundi non avrebbe mai voluto lasciare il suo feudo di San Francesco. Amava profondamente il suo lavoro, ma non per questo si profuse in sterili rimpianti sul tempo fugace e ingannatore. Dopo l’uscita di scena e la nomina a direttore emerito del museo e della biblioteca, per la quale fu sempre molto grato al sindaco dell’epoca, decise di rilevare, con il fratello, l’emittente dell’Alto Tavoliere Tele Radio San Severo. Da direttore di biblioteca e museo a direttore di televisione, insomma, il passo fu breve. Si iscrisse all’ordine dei giornalisti di Puglia come pubblicista e conseguì una laurea di primo livello in sociologia presso l’Università di Chieti. Solo il tempo gli ha impedito di ottenere anche la laurea magistrale. La sede dell’emittente, poi, venne spostata in locali più ampi e confortevoli, con dei ragguardevoli investimenti economici. Non amava, almeno con gli amici e i conoscenti, le riflessioni amare e malinconiche e quando prendeva una decisione tirava dritto, senza esitare, cercando però sempre il dialogo, fino alla fine. La sua idea di giornalismo era, nello stesso tempo, singolare ed apprezzabile. I programmi erano in gran parte legati a tematiche culturali. Ospitava lunghi dibat243 Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi titi su libri e mostre, riprendeva conferenze, ma si rifiutava in modo categorico di parlare di cronaca nera. Era una delle pochissime emittenti televisive che non dava spazio ad arresti e omicidi, che pure sono al centro della curiosità di moltissime persone, in tutto il mondo. Di San Severo parlava quasi sempre bene, e se evidenziava dei difetti, lo faceva sempre in modo costruttivo, come un rimprovero fatto con un buffetto affettuoso. La televisione, si capiva, era per lui uno strumento essenzialmente educativo, con il quale continuava il suo lavoro di bibliotecario, e non aveva difficoltà ad ammetterlo. Le valutazioni economiche venivano dopo, anche a costo di rimetterci di persona. Un elenco delle sue attività non è facile da stilare, specie oggi che non è più con noi. Egli ha curato, ad esempio, alcuni volumi degli atti del Convegno sulla preistoria, protostoria, storia della Daunia, comparendo sin dall’inizio nel comitato organizzatore. Fu una scelta avveduta e per molti versi pioneristica, con la quale si intendeva tra l’altro valorizzare le scoperte archeologiche avvenute nell’agro cittadino. Lui offrì una sponda istituzionale, preziosissima, specie nella fase iniziale. Nel 2002 progetta e realizza la collana “Testimonianze”, per i tipi delle Edizioni del Rosone di Foggia, complice l’amicizia di vecchia data con Franco Marasca, prima, e con la moglie e la figlia, Falina e Marida Marasca, poi. Tutti i volumi portano in copertina una stupenda immagine tratta dalla Historia di Milano di Bernardino Corio, stampata dall’editore sanseverese Alessandro Minuziano nel 1503. In alto, si legge una frase molto significativa: “È bello doppo il morire vivere anchora”. La cultura offre una fuga dalla caducità, l’illusione di poter rimanere legati a quella catena formata dagli uomini che, in ogni tempo, hanno avvertito il bisogno di saperne di più, lasciando al prossimo la propria preziosa testimonianza. I libri, dalla foggia antica ed elegante, hanno ospitato lavori di vari protagonisti della cultura pugliese, da Pasquale Soccio ad Alfredo Petrucci, da Michele Vocino a Cristanziano Serricchio. Chi scrive questo articolo, poi, ha trovato stimolo per realizzare numerosi volumi di critica, da Viaggi letterari nella pianura e Occasioni letterarie pugliesi in poi. Ai primi 13 volumi, apparsi sotto la direzione di Mundi, si è aggiunto da pochi mesi un quattordicesimo, a firma dello scrivente, Nel Nord della Puglia, non a caso dedicato allo Scomparso. Un modo, questo, per non disperdere il frutto di un lungo ed intenso lavoro. Ma con le Edizioni del Rosone Mundi aveva anche pubblicato, nel 2002, il ponderoso volume Incunaboli e cinquecentine della biblioteca comunale Alessandro Minuziano di San Severo, realizzato con la figlia Giuliana e con Stefano Capone, un altro benemerito della cultura pugliese, scomparso prematuramente nel 2007. Un catalogo che mostra in modo tangibile le ricchezze librarie del comune dell’Alto Tavoliere, rimarcando, inoltre, la necessità di preservarle. Risalendo nel tempo, troviamo, nel 1981, un utilissimo repertorio intito244 Francesco Giuliani lato Stampa periodica di San Severo e di Capitanata, firmato con Pietro Vocale e Michele Pollice, che offre un quadro dei tanti giornali, allora ancora in gran parte sconosciuti, pubblicati in provincia, specie tra fine Ottocento e inizio Novecento, con un occhio particolare all’Alto Tavoliere. Nel 1988 Mundi cura gli atti Angelo Fraccacreta: l’uomo e l’opera, dedicati al grande economista sanseverese, scomparso nel 1951. Nel 1989 è la volta dei due tomi di Studi per una storia di San Severo, un insieme di saggi scientifici sulla città dei campanili, raccolti e stampati proprio grazie alla cura e all’impegno di Mundi. Per l’occasione, il Nostro aveva chiamato a collaborare numerosi specialisti, tra cui vari accademici, facendo il punto sulle conoscenze storiche sul territorio. Il volume a cui probabilmente teneva di più, e che lo aveva impegnato a lungo, apparso nel 2000, è Omaggio a San Severo, scritto a quattro mani con la figlia Giuliana, un atto d’amore per la sua terra, formato da vari capitoli che approfondiscono aspetti e momenti dell’esistenza di una collettività peculiare come quella sanseverese, dando molto spazio all’aspetto iconografico. Era questo il libro che amava regalare agli ospiti delle sue trasmissioni televisive, ed a giusta ragione, visto che in esso si trova un segno preciso delle sue curiosità e della sua passione. In Omaggio a San Severo, tra l’altro, viene riportato in apertura uno scritto di Pasquale Soccio, il preside di San Marco in Lamis al quale Mundi era molto legato, tanto da collaborare attivamente alla Fondazione Pasquale e Angelo Soccio, che ha la sua sede a San Marco in Lamis. Mundi ne è stato a lungo prima vice-presidente, lavorando con il compianto prof. Michele Dell’Aquila, poi presidente, per un triennio. Qualche altro scritto sarà probabilmente dato alle stampe quanto prima, completando il quadro di un’operosità sicuramente notevole, anche se il nudo elenco di dati e fatti rischia di rendere solo in piccola parte quello che Mundi ha rappresentato per la Capitanata. Egli è stato per molti anni il simbolo più vivo della cultura istituzionale. Non a caso, chiunque avesse qualche iniziativa da prendere, sapeva che poteva contare su di lui. Dal suo ufficio passavano in tanti, anche quelli che poi ripagavano con la solita irriconoscenza. E qui ci viene in mente un’altra delle sue frasi ricorrenti: “La gente deve spezzare il cordone della riconoscenza!”. In tanti gli hanno chiesto dei favori, e lui ha sempre risposto con generosità. Sapeva che il mondo va così, ma dava sempre qualcosa in più di quello che gli veniva chiesto. Né va dimenticato il suo impegno nell’ambito della Società di Storia Patria per la Puglia, la cui sede barese frequentava regolarmente per sbrigare le pratiche della commissione toponomastica. Ma non amava recarsi solo a Bari. Appena riceveva un invito per presentare i volumi della collana “Testimonian245 Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi ze”, prendeva insieme a noi il treno diretto a Milano o a Roma, felice di essere uno degli ambasciatori della cultura pugliese. Nell’ultimo anno di vita, poi, aveva assunto la direzione della rivista culturale “I quaderni dell’Orsa”. Aveva saputo delle difficoltà economiche che avevano costretto alla sospensione delle pubblicazioni e si era subito offerto di trovare un gruppo di sostenitori. E così è avvenuto, anche se ha fatto in tempo a vedere solo la stampa di un numero. Può sembrare un dettaglio, una mera curiosità, ma anche questo episodio ci sembra emblematico di una persona di rara sensibilità culturale, che aveva ancora tante energie da spendere per la cultura della sua terra. Quando si trattò di nominare il direttore responsabile, fummo proprio noi a fare il suo nome e a troncare subito la discussione, e quel sorriso di ringraziamento, che gli nasceva dal cuore, ci riempì di una viva soddisfazione. Se lo meritava. Potremmo aggiungere a questo ricordo qualcuno dei mille bei momenti che abbiamo trascorso insieme, seduti al tavolo dei relatori di una conferenza o dietro la telecamera di una televisione, per non parlare delle tante occasioni conviviali, nelle quali parlava della sua passione per la buona cucina. Ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta, ma abbiamo cercato di essere quanto più possibile oggettivi, mirando a cogliere il senso e il valore di un’esistenza come quella di Benito Mundi. In fondo, la nostra terra ha bisogno come il pane di uomini che sappiano unire l’entusiasmo alle qualità organizzative, e per questo motivo ci auguriamo che il tempo anche questa volta sia, come si suol dire, galantuomo. Finiva qui il nostro articolo, ma era destino che dovesse avere un seguito, al quale avremmo molto volentieri rinunciato. Dopo quel 5 aprile abbiamo avuto occasione di parlare spesso con la figlia Giuliana. Laureata in Lingue, aveva trovato anche lei un impiego presso la Biblioteca comunale, anche se in un ruolo inferiore rispetto a quello del padre, e anche alle sue notevoli qualità intellettuali. Non aveva scelto la carriera di docente, e forse in questa decisione entrava in ballo anche il suo carattere estremamente riservato, quella forma di timidezza che contrastava per certi versi con l’esuberanza del padre. ‘Pochi possono dire di aver avuto la fortuna di conoscerla bene, e noi non siamo in questo novero. Di certo, prendendo spunto dall’appartenenza alla stessa sezione della Società di Storia Patria di San Severo, di cui era diventata la segretaria, abbiamo colloquiato spesso con lei, nell’ultimo periodo. L’argomento ricorrente era, com’è facile comprendere, il padre. Ogni volta, immancabilmente, gli occhi le brillavano e la commozione la spingeva a troncare il dialogo. Poi, a casa, trovavamo le sue mail, con le quali terminava il suo pensiero. 246 Francesco Giuliani ‘Era una persona straordinaria, cordiale e disponibile, oltre che piena di orgoglio per la sua solida famiglia, per quelle sue due ragazze cresciute in modo retto e nell’amore della cultura. Purtroppo anche Giuliana ci ha lasciati, a soli 47 anni, colpita dal solito male del secolo, che le ha concesso solo pochissimi mesi di vita. Una mail nel cuore dell’estate, Scusami se non mi sono fatta più sentire, ma avrai saputo che sono a Milano per curarmi da un tumore; ci vediamo a settembre a San Severo , e noi che restiamo di sasso. Non ne sapevamo niente, come tanti altri, ma le notizie giunte per altre vie non lasciavano alcuna speranza. Era solo questione di tempo. Le abbiamo mandato alcune mail di saluto e di augurio, alle quali ha risposto con la solita cordialità, ma il nuovo incontro è avvenuto prima, alla fine d’agosto, sotto un sole spietato, in un locale appartenente alla chiesa di San Nicola, dove si sono poi svolti i funerali. Aveva con sé, oltre al rosario e al crocifisso, una copia di Omaggio a San Severo. ‘Una delle ordinarie crudeltà della vita, che ci ha fatto pensare al papà affettuoso e orgoglioso delle sue due figlie e delle sue due nipotine. Beato tra le donne, amava ripetere, includendo anche la moglie pediatra, per la quale aveva delle infinite premure. Questo dolore è stato risparmiato a Benito, e per lui sì, non per la figlia Giuliana, si può dire che, a conti fatti, è andato via al momento giusto. BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE IN VOLUME P. VOCALE – M. POLLICE – B. MUNDI, Stampa periodica di San Severo e di Capitanata, San Severo, Dotoli, 1981; B. MUNDI – G. MUNDI LECCESE, Omaggio a San Severo, Foggia, Edizioni del Rosone, 2000; B. MUNDI- G. MUNDI LECCESE - S. CAPONE, Incunaboli e Cinquecentine della Biblioteca Comunale “A. Minuziano” di San Severo, Foggia, Edizioni del Rosone, 2002. ATTI DI CONVEGNI E VOLUMI MISCELLANEI A SUA CURA B. MUNDI – S. CICCONE (a cura di), Nuovi indirizzi per l’agricoltura irrigua meridionale (Atti del convegno di San Severo, 18-19 aprile 1986), A. e M. Notarangelo, San Severo, 1987; B. MUNDI - A. GRAVINA (a cura di), Atti del 5° Convegno sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia. Tomo primo. Archeologia (San Severo, 9-11 dicembre 1983), San Severo, Dotoli, 1987; B. MUNDI - A. GRAVINA (a cura di), Atti del 5° Convegno sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia. Tomo secondo. Storia (San Severo, 9-11 dicembre 1983), San Severo, Dotoli, 1988; 247 Al momento giusto. Ricordando Benito Mundi B. MUNDI - A. GRAVINA (a cura di), Atti del 6° Convegno sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia. Tomo primo (San Severo, 14-16 dicembre 1984), San Severo, Dotoli, 1988; B. MUNDI - A. GRAVINA (a cura di), Atti del 6° Convegno sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia. Tomo secondo. “L’arte paleolitica italiana nel suo contesto cronologico e culturale” (San Severo, 14-16 dicembre 1984), San Severo, Dotoli, 1987; B. MUNDI (a cura di), Atti del 7° Convegno sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia. Tomo primo (San Severo, 13-15 dicembre 1985), San Severo, Tip. Sales, 1988; B. MUNDI - A. GRAVINA (a cura di), Atti del 7° Convegno sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia. Tomo secondo. Tavola rotonda sulla Civiltà Daunia (San Severo, 13-15 dicembre 1985), San Severo, Tip. Sales, 1988; B. MUNDI - A. GRAVINA (a cura di), Atti dell°8 Convegno sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia (San Severo, 12-14 dicembre 1986), San Severo, Tip. Sales, 1988; B. MUNDI - A. GRAVINA (a cura di), Atti del 9° Convegno sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia (San Severo, 18-20 dicembre 1987), San Severo, Tip. Sales, 1988; B. MUNDI (a cura di), Angelo Fraccacreta: l’uomo e l’opera (Atti del convegno di San Severo, 28-29 giugno 1986), San Severo, Tip. Sales, 1988; B. MUNDI (a cura di), Studi per una storia di San Severo, San Severo, Tip. Sales, 1989, 2 voll; B. MUNDI (a cura di), Pasquale Soccio scrittore e uomo, Foggia, Edizioni del Rosone, 1994; B. MUNDI (a cura di), Nino Casiglio: l’uomo, la vita, l’opera (Atti del convegno di San Severo, 14 novembre 1996), Foggia, Edizioni del Rosone, 2000. TESTI LETTERARI A SUA CURA N. CURATOLO, La giostra, a cura di B. Mundi, San Severo, Dotoli, 1988; P. SOCCIO, Incontri memorabili, a cura di B. Mundi, Foggia, Edizioni del Rosone, 2002; G. ANNESE, Morire di speranza, a cura di B. Mundi, Foggia, Edizioni del Rosone, 2004; C. SERRICCHIO, Ho viaggiato con l’apostolo Tommaso, a cura di B. Mundi, Foggia, Edizioni del Rosone, 2009. CATALOGHI D’ARTE E OPERE VARIE A SUA CURA A. D’AMICO – B. MUNDI (catalogo e mostra a cura di), L’ altra faccia della luna: mostra d’arte contemporanea (San Severo, 19 ottobre – 16 novembre), San Severo, 1985; B. MUNDI (a cura di), Mappa del colore del centro storico, San Severo, 1986; B. MUNDI (catalogo a cura di) Ottava biennale Nazionale di Pittura 1986-1987, San Severo, Dotoli, 1987. 248 Guido Pensato, Saverio Russo Gennaro Arbore (1931 – 2012) di Guido Pensato e Saverio Russo 1. Cittadino “pro” e “contro” In tanti hanno conosciuto Gennaro Arbore, un uomo che viveva tra la gente, nei luoghi della sua città, della società, delle istituzioni politiche e culturali e che ne ha attraversato le vicende per un cinquantennio e più. Lo hanno conosciuto certamente tutti quelli che, dai più diversi punti di osservazione e di responsabilità, a quelle vicende hanno quanto meno prestato attenzione. Perché Gennaro, “Gennarino” per tutti, era cittadino attivo e presente. E molti di coloro che lo frequentarono avrebbero cose da dire e da scrivere di lui; anche quelli ai quali normalmente non si riconosce titolo per un compito del genere. È per questo che, nel momento di farlo, ci poniamo una domanda: se Gennaro Arbore non avesse scritto i tre libri che lo hanno impegnato negli ultimi anni della sua vita, ci sarebbe stato spazio, tra queste pagine o altrove, per un suo ricordo, un suo profilo? Forse no. Il che suggerisce una riflessione più generale: se è sempre giusto e sufficiente affidare la memoria collettiva di una comunità al racconto dell’attività di protagonisti dal profilo predefinito, a fonti e meccanismi di indagine consacrati, ai soli luoghi canonici generalmente riconosciuti; a tutto quello, insomma, cui si fa riferimento quando si tratta di storia o di cultura. Si potrebbe cominciare proprio da qui e dal fatto che Gennaro Arbore non ha fatto parte della schiera di quanti, nella provincia italiana (quella culturale, non quella geografica) praticano precocemente e sistematicamente ex professo la scrittura, magari godendo di una sinecura pubblica piena… di tempi morti e di vuoti da riempire con occupazioni intellettuali. E quindi di nuovo: siamo certi che sia sufficiente e utile, in epoca mass-mediatica e digitale, una rituale e pacificante sacralizzazione di vicende individuali e collettive locali che parta dalla carta stampata per approdare alla carta stampata? Siamo certi di sapere quanto di significativo e di importante trascuriamo, perché non diamo importanza alle piccole azioni quotidiane di uomini puntigliosamente dediti a svolgere il proprio ruolo di cittadini partecipi, vigili e critici; e perché non siamo in grado di riconoscerlo quel quanto, in mezzo al ciarpame pseudo249 Gennaro Arbore (1931 – 2012) informativo prodotto e al quale siamo quotidianamente esposti, pressoché senza difese? E sappiamo, invece, che si tratta spesso di storie – individuali o collettive – qualificate come “minori”, a prescindere dalla loro muta esemplarità, dall’incisività delle azioni che le hanno costruite e dalla persistenza che meriterebbero. A lungo questo tema ha riguardato soprattutto quelle che si definivano “classi subalterne”, i loro strumenti di comunicazione e di espressione, la loro cultura. Da tempo è divenuto parte di quello, pressante e complesso come mai, della potenziale, imprescindibile “futura memoria”, che si produce in luoghi diversi, coinvolge i soggetti più disparati – una comunità indistinta che prende voce – e si accumula e consuma in “buchi neri” imprecisati. Una possibile memoria che di lì fa fatica ad emergere e non diviene nuovamente presente, agibile, utile e utilizzabile. Come potrebbe, d’altra parte, farlo, soffocata com’è dalla paccottiglia che invade il sistema informativo e dalla permanente contingente “attualità”, che veicolano il peggio della subcultura, delle patologie psicologiche, sociologiche e antropologiche della indistruttibile, permanente “provincia universale”. Ma come non rilevare che, agli antipodi della tematica totalizzante della molteplicità delle forme (e delle criticità) che possono riguardare oggi la partecipazione e la democrazia, spesso e da più parti si dimentica che esse sono fatte anche di persone, di presenze fisiche, di azioni visibili svolte in luoghi concreti, materiali e simbolici, che Gennaro Arbore praticava: da cittadino. L’insieme, insomma, delle storie ordinarie di cittadinanza consapevole, appassionata e critica che pure continuano a svolgersi sotto i nostri occhi, in uno scenario “non virtuale”. Un insieme che dovrebbe lasciare qualche traccia, non casuale, accidentale e sporadica, indipendentemente, cioè, da più o meno numerosi passaggi attraverso i “media elettrici” più disparati. Al di là dell’apparenza, non sembri questa una digressione gratuita. Quanti hanno avuto modo di seguirla da vicino – sul versante pubblico, essendo quello privato pressoché inaccessibile – sanno bene quanto la vita di Gennaro Arbore sia stata contrassegnata da una sorta di ansia permanente per la salvaguardia e l’organizzazione delle fonti della storia locale: cartacee, ovviamente, se non altro per ragioni anagrafiche; ma anche di dimestichezza affettiva. Libri e documenti, biblioteche e archivi: quelli personali, familiari e privati, quelli istituzionali, collettivi e pubblici sono stati per lui un pensiero dominante, talora una sorta di ossessione: come quando si occupò personalmente, porta a porta, del recupero dal prestito dei libri trasferiti dalle biblioteche dell’Isscal ai nascenti Centri Servizi Culturali. Così è stato per tutto il tempo da lui dedicato alla formazione del suo patrimonio librario: opuscoli e volumi, documenti originali e riprodotti; spesso rarità, non per il loro valore strettamente bibliografico o collezionistico, ma per essere significativi per la storia di Foggia e della Capitanata e, quindi, per gli specifici interessi del raccoglitore. Sotto lo stesso segno vanno collocati – sono solo degli esempi emblematici di un modo di concepire la cultura come fondata su strumenti e servizi concreti e accessibili 250 Guido Pensato, Saverio Russo a tutti – la sua totale dedizione alle biblioteche dei citati Centri, istituiti dal Formez e dalla Società Umanitaria e dei quali fu tra i più attivi operatori a partire dai primi anni Settanta; o il suo disinteressato impegno nel riordino delle biblioteche di qualche importante dirigente nazionale del Partito Socialista. Ma il gesto simbolicamente riassuntivo di quello che non fu per Gennaro Arbore un furore di possesso da bibliofilo, ma un amore finalizzato all’uso e alla studio e perciò da condividere, fu la decisione di donare alla biblioteca comunale di Manfredonia un raro manoscritto acquistato sul mercato antiquario. Parliamo del Cabreo di san Leonardo di Siponto 1634-1799, silloge di testi fondamentali per la storia di quella città e del territorio della Capitanata in generale. Un gesto che segnalò un tratto di generosità insolito in una realtà nella quale le istituzioni sono solitamente destinatarie, al massimo, di ciarpame altrimenti diretto al macero; e che troppo spesso elidono e non riescono a trasformare liberalità così alte e rare in strategie e interventi per il rinnovamento e il potenziamento dei servizi culturali. Se il nucleo forte del suo impegno ruotò intorno ai libri e a tutto ciò che custodisce le fonti per la storia locale, non vi fu ambito nel quale Arbore non si battesse per l’affermazione di una cultura civile diffusa, e della cultura tout court quale strumento fondamentale. Un convincimento che lo aveva condotto, già negli anni degli studi giuridici nelle università di Napoli e Urbino a mettersi alla testa delle battaglie per il diritto allo studio e il miglioramento delle condizioni degli studenti fuori sede. Fino al punto di depositare sulla scrivania del Rettore i pasti della mensa. Nella militanza nel Partito Socialista enfatizzò la sua indole protestatoria e libertaria, che lo conduceva ad essere accanto a quanti percorrevano strade per l’affermazione dei diritti civili della persona e della cultura. A questo ambito vanno ricondotte anche le collaborazioni a testate come il “Messaggero”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “La Gazzetta di Foggia”, “La Stampa. La settimana di Puglia”; e la battaglia per il divorzio, che lo vide affiancare localmente don Marco Bisceglia e Dom Franzoni, Carlo Gentile e Peppino Normanno, “mobilitati”, tra mille polemiche, proprio dai Centri di Servizi Culturali; e quella per la difesa e lo sviluppo ordinato dell’assetto urbanistico della città, che si concretizzò nelle Giornate dell’Urbanistica Dauna, con la presenza di Ludovico Quaroni e della nuova leva di architetti locali; e inoltre: l’organizzazione, presso il Conservatorio, del primo concerto cittadino di Matteo Salvatore e, prima ancora: il pieno coinvolgimento, fin dalla fondazione, nelle iniziative che il Teatro Club conduceva (erano gli anni nei quali Paolo Grassi e Strehler, Dario Fo e Franca Rame facevano circolare nel Paese, facendo tappa anche a Foggia, un’idea di teatro come luogo dell’intelligenza e dell’impegno civile) per una corretta gestione del Teatro “Giordano”, riaperto – per la prima volta, dopo le distruzioni belliche – solo nel 1966 e vittima della caparbia “maleducazione teatrale”: nella conduzione e nella fruizione. E così via, fin quasi agli ultimi anni di vita Gennaro Arbore si ritagliò certo un ruolo critico, antagonistico, ma contemporaneamente caratterizzato da un forte senso di 251 Gennaro Arbore (1931 – 2012) appartenenza. Quello che, in fondo, lo condusse alla decisione di farsi ricercatore e scrittore in prima persona di tematiche di interesse locale; una sorta di approdo per un ruolo apparentemente contraddittorio – “pro” e “contro”, impulsivo e metodico – per il quale era conosciuto e a fronte del quale in tanti erigevano un muro (autoassolutorio) di ipocrita e talora irridente condiscendenza. Un atteggiamento incapace di cogliere nel complesso della vita di Gennaro Arbore i frammenti di una storia minore forse, ma che, se letta come parte di una cronaca civile, segnalerebbe quanto una maggiore presenza di figure “ordinarie” di militanti del senso civico e di un intransigente e critico orgoglio dell’appartenenza, renderebbe meno rilevante la radicale polarizzazione della gran parte della comunità verso l’estremo di una massa di non-cittadini inconsapevoli e assenti. Forse Gennarino avrebbe motivo per sorridere o fare dell’ironia di fronte a queste pagine a lui dedicate. Ma considerava la vita e l’impegno per renderla migliore cose troppo serie per fare spazio al sorriso e all’ironia, che non erano nelle sue corde, come la vacua celebrazione di quello che ha sempre percepito come doveri civili non eludibili. Nei primi anni Sessanta circolò anche in Italia un film del regista cecoslovacco Jiri Krejcik – Il principio superiore –, che affrontava e sbatteva in faccia agli spettatori temi e interrogativi drammatici: lo scontro tra principi e mezzi per realizzarli; la legittimità della violenza (“giusta”) contro l’oppressione: “per un principio morale superiore non è assassinio l’uccisione del tiranno”. In quegli anni Gennaro Arbore avviava il suo personale percorso per l’affermazione di principi che avrebbero governato la sua vita. Senza enfasi, nella consapevolezza di farsi guidare non da miraggi palingenetici, ma da un’idea di convivenza e di futuro da incerare quotidianamente, attraverso una concretissima pratica esistenziale. Chi in futuro coltiverà interessi, passioni e studi sulla città continuerà a imbattersi in quelli di Gennaro Arbore. Queste pagine vogliono ricordare anche la “figurina” minuta e solida di un autore e di un uomo serio e rigoroso e insieme, forse, intimamente fragile e solitario; che non esibiva l’aplomb dell’intellettuale engagè o del militante dei diritti civili mediaticamente telegenico. Ma sono stati questi il terreno e l’oggetto della presenza nella vita cittadina di una figura irregolare e appassionata, di un clochard del senso civico e della cultura. G. P. 2. I libri Come si è detto, Gennaro, negli anni Novanta, comincia a fare ricerca, dapprima con un approccio di prosopografia storica, in cui l’indagine sulle famiglie nobili o borghesi si unisce all’interesse, civilmente connotato, per la 252 Guido Pensato, Saverio Russo tutela di quanto rimaneva – a Foggia l’imperfetto è il tempo giusto in una vicenda urbanistica in continua e confusa evoluzione - della città ottocentesca ammirata da alcuni viaggiatori transalpini, e poi distrutta, più che dai bombardamenti del ’43, da quello stillicidio di atti di violenza edilizia, di distrazioni burocratiche, di incuria interessata da parte dei proprietari, di scelte amministrative in favore dell’espansione e a danno del recupero, che hanno costellato il settantennio che, ormai, ci separa dalla guerra. Nasce così, ricercando negli archivi di Napoli, Foggia e Lucera, nelle biblioteche pubbliche e nella sua, ormai consistente, il libro del 1995, Famiglie e dimore gentilizie di Foggia (Fasano, Schena editore). Il lavoro che impegna maggiormente Gennaro in questi anni è, tuttavia, un altro: è la trascrizione del catasto onciario di Foggia del 1741, microfilmato a sue spese presso l’archivio di stato di Napoli. Quest’imponente impresa, al limite del velleitarismo e dell’impraticabilità editoriale, come tutte le trascrizioni di fonti di grandi dimensioni, destinate ad un pubblico di eruditi di limitata ampiezza, non ha prodotto molto. Dopo un lungo lavoro di anni, Gennaro, pur coadiuvato da un amico, alzò bandiera bianca, consegnando ad altri amici e a chi scrive, per le future ricerche di studenti e non, una fotocopia dell’Onciario e una copia della trascrizione fino ad allora realizzata. Chi scrive riuscì a convincerlo, non senza insistenze, a dare alle stampe un pezzo del lavoro, quello relativo all’apprezzo del territorio agricolo. Nasce così Masserie, pascoli, boschi, orti e vigneti a Foggia nel XVIII secolo: il libro dell’apprezzo generale 1741-1748, pubblicato nella collana della Fondazione della Banca del Monte nel 2008. Non è improbabile, comunque, che si riesca a dare alle stampe una edizione sintetizzata del lavoro sull’Onciario avviato da Gennaro. Una ripresa del lavoro del ’95, ma in una direzione più esplicitamente araldica, è Blasoni e stemmi presenti nella città di Foggia, pubblicato da Bastogi nel 2011. Se queste pubblicazioni restano a testimoniare concretamente il lavoro di ricerca, svolto con modestia e generosità – più volte Gennaro ebbe a lamentarsi di testi da lui prestati e non più restituiti, di “bozzoni” che stentava a riavere, esperienze che spiegano forse la diffidenza nei confronti anche di chi voleva dargli una mano in maniera disinteressata – del tutto dispersa è, purtroppo, la sua biblioteca. S. R. 253 254 Gaetano Cristino In ricordo di Gaetano Matrella di Gaetano Cristino La scomparsa di Gaetano Matrella ha interrotto uno dei “fili della memoria” attraverso cui tutti quelli interessati a capire la storia del nostro territorio potevano riallacciarsi, sicuri di trovare risposte precise. “Chiediamo a Gaetano” era infatti la frase che più spesso poteva ricorrere in caso di dubbi su fatti e personaggi, non solo locali, degli ultimi sessant’anni. Era stato infatti, ed ha continuato ad esserlo sino all’ultimo, partecipe di tutte le più importanti stagioni di rinnovamento della storia del nostro Paese e delle sue applicazioni locali. Anche se non si considerava un “protagonista” della vita politica, nel senso, diceva, che non aveva ricoperto incarichi di rilievo nazionale, e si considerava piuttosto un “testimone” “di fatti ed avvenimenti che avevano caratterizzato soprattutto la vita sociale, politica e culturale della Capitanata dal 1945 ai nostri giorni” (v. Gaetano Matrella, La Capitanata dal 1948 al 1958, a cura di S. Speranza, Manfredonia, Edizioni Sudest, 2009), tuttavia protagonista Egli era stato, perché, al fianco di personaggi di primo piano della Democrazia Cristiana e del cattolicesimo democratico, aveva contribuito a suo modo, con gli strumenti che gli erano più congeniali, il giornalismo in particolare, al processo di avanzamento generale della società, dall’avamposto di Foggia, convinto più che mai che la Storia non “accade” ma si fa, in direzione della realizzazione dei principi di libertà, giustizia e carità. Il suo punto di riferimento costante fu infatti quel Codice di Camaldoli, i cui enunciati furono alla base del pensiero cattolico in campo sociale ed economico nel secondo dopoguerra e costituirono elementi per la discussione di moltissimi articoli della Costituzione italiana. Quel testo fu alla base dell’impegno politico e sociale di Gaetano Matrella, come di tanti altri universitari cattolici della sua generazione (era nato nel 1924 a Foggia), nella Democrazia Cristiana, impegno che ebbe modo di esplicarsi in maniera più consistente, anche con qualche incarico amministrativo, soprattutto a partire dalle prime esperienze di centro-sinistra. Il problema della posizione del cristiano in politica, a partire da quel testo, costituì un motivo continuo di riflessione per Gaetano Matrella, che spesso assumeva posizioni non ortodosse rispetto alla linea del Partito o delle gerarchie ecclesiastiche, giacché Egli era contro ogni integrismo. Queste considerazioni sulla giustezza dell’impegno dei cosiddetti “democristiani di sinistra” e sulla necessità 255 In ricordo di Gaetano Matrella per la Chiesa di tenere distinta la sfera spirituale da quella pratica, Egli le pubblicò alcuni anni fa (G. M., Breve rassegna su una tendenza che viene da molto lontano, in Capitanata, Anni 1998-2001, n. 6-9, pp.259-281) con una disamina lucida che toccò anche punti chiave della traduzione politica di quell’assunto, come quello che fu il progetto di Moro, interrotto dalla Brigate rosse, di includere e associare nella direzione del Paese il PCI e le masse popolari che quel Partito rappresentava. L’uomo che a partire dalla frequentazione della FUCI guidata da don Renato Luisi entra in contatto con altri giovani che costituiranno poi la classe dirigente della DC di Capitanata, da Gustavo De Meo a Donato De Leonardis a Franco Galasso a Carlo Forcella e che collaborerà a molti giornali, meridionalisti e di ispirazione democristiana, dirigendone anche alcuni, come “Il popolo dauno” e “Il Progresso dauno”, porta in questo suo impegno politico anche interessi più ampi, quasi trasponendovi una sorta di “umanesimo integrale”. Per questo i “suoi” giornali (anche graficamente impeccabili, che curava nei minimi dettagli, scegliendo tipografie dove ancora era in funzione la linotype, perché sulla carta voleva fosse evidente la pressione dei caratteri di piombo) furono sempre letti con attenzione anche da parte di chi non era democristiano o, nel caso del periodico “Risveglio”, diretto dal 1975 al 1989, da chi non era cattolico. C’era insomma sempre la possibilità, sui giornali da lui diretti o nei suoi scritti, di incrociare non solo il rigore dei fatti ma anche i temi alti della cultura. E sulla cultura puntava molto per il risveglio democratico della sua città natale. In particolare sulla cultura storica. Gaetano Matrella, quelle poche volte che aveva dettato le sue note biografiche, aveva sempre sottolineato la sua “appartenenza” a Foggia.:“foggiano, di famiglia foggiana”. E questo orgoglio dell’appartenenza, per risalire la china, egli ha cercato foscolianamente di suscitare fino all’ultimo con i suoi “medaglioni” di personaggi foggiani illustri, tra cui spicca non a caso Umberto Giordano, giacché la musica fu (insieme alla matematica) l’altra grande passione di Matrella (v. Uomini illustri della città di Foggia, Foggia, Ed. Risveglio, 1991; ristampata nel 2000 per le Edizioni Grafiche 2000). E per la sua città e per la Capitanata, era sempre pronto a mettersi a disposizione. Se posso concludere queste brevissime annotazioni, sicuramente insufficienti a tratteggiare la ricchezza e la complessità della sua vicenda umana, con un ricordo personale, dirò di quando, nel 2003 doveva essere inaugurata la Galleria provinciale d’arte moderna e contemporanea a Palazzo Dogana, mentre era Presidente il prof. Antonio Pellegrino. Nella sezione della ritrattistica di fine Ottocento volevamo documentare l’opera di un autore foggiano importante, Antonio La Piccirella. Sapevamo che Gaetano Matrella possedeva due ritratti di suoi antenati realizzati da La Piccirella e li chiedemmo in prestito. Fu felicissimo di farlo. E felicissimi noi che andammo a ritirare i dipinti, perché ci intrattenne in una lunga, piacevolissima conversazione che toccò André Chenièr ed Albert Einstein, Celestino Galiani e Gaetano Caricato, la vita a Foggia nel primo Novecento, ma anche la pittura e il suo ricordo di pittori foggiani “emigrati” che non conoscevamo. 256 Geppe Inserra L’eredità morale di Gaetano Matrella di Geppe Inserra Con Gaetano Matrella non è scomparso soltanto uno dei migliori giornalisti e saggisti foggiani: assieme a lui ha cessato di battere un pezzo del cuore della città migliore, quella che non s’arrende al cospetto di congiunture difficili ma guarda avanti, con coraggio e responsabilità, senza rassegnarsi. D’altra parte, per lui, la scrittura è stata sempre un mezzo, più che un fine: uno strumento per esprimere ciò che si pensa, per far circolare idee, per contribuire a far crescere la comunità, per raccontare il suo amore, il suo attaccamento alla nostra terra.. Il destino ha voluto che la sua esistenza terrena si concludesse soltanto qualche settimana prima che scomparisse un altro pezzo importante del cuore di Foggia, quello rossonero, cui Matrella era molto attaccato. Per lui la squadra di calcio era un simbolo della città: chissà che penserebbe adesso, che anche questo emblema si è estinto. Molto probabilmente, rifletterebbe su come la perdita di simboli sia un greve fardello, perché comporta una perdita d’identità, quella identità che ha sempre tenacemente difeso come valore, come risorsa essenziale di futuro. Gaetano ha dedicato la maggior parte della sua copiosa produzione pubblicistica a raccontare la città, il suo splendido passato il cui ricordo tinge ancora più di grigio il presente. Ha dedicato due volumi alle biografie dei foggiani illustri, nella incrollabile convinzione che una città che ha dato i natali a Umberto Giordano - di cui è stato uno dei più grandi studiosi - è una grande città. Non si è mai arreso, convinto com’era che per risalire la china, si debba in qualche modo ricominciare dal passato, che va raccontato e tramandato ai giovani affinché trovino l’orgoglio della loro identità. L’ultima volta che l’ho incontrato, l’estate di due anni fa, ci intrattenemmo a lungo proprio su Giordano, e sulla scarsa fortuna che questo illustrissimo figlio di Foggia ha incontrato nella sua città natale. La lirica è stata una delle sue grandi passioni, assieme alla matematica, e tanto basta a dire quanto fossero composite ed estese le sue conoscenze e la sua cultura. Le chiacchierate con lui mi hanno sempre arricchito, e in in modo partico- 257 L’eredità morale di Gaetano Matrella lare l’ultima, quella su Giordano. Riflettendo sul difficile rapporto tra il musicista e Foggia, Gaetano ribadì la tesi che tante volte l’ho sentito sostenere: una città che non sa valorizzare ciò che è stata, è una città che ha scarse speranze di futuro. Ma indicò proprio nel recupero dell’orgoglio foggiano la direzione da percorrere per risollevarsi: “Ce l’abbiamo fatta tante volte, dal terremoto del 1731 ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Possiamo farcela anche stavolta.” L’eredità morale e culturale che ci lascia sta proprio in questo non arrendersi mai, un’eredità racchiusa nei suoi libri, nei suoi mille articoli, nelle annate dei giornali che lo hanno visto direttore: il «Progresso Dauno» prima, il «Nuovo Risveglio», poi, di cui è stato anche editore. L’ho conosciuto sul finire degli anni Settanta, quando il giornalismo foggiano era ancora capace di grandi battaglie civili ed ideali, e riusciva a contribuire - attraverso la dialettica ed il confronto dei diversi punti di vista - alla formazione di quell’opinione pubblica divenuta ormai merce sempre più rara, soverchiata dalle raffiche di comunicati stampa che si abbattono sulle redazioni, favorendo la pigrizia dei giornalisti, e dalle polemiche da ballatoio dei social network. Ci trovammo dalla stessa parte della barricata - lui direttore del «Nuovo Risveglio», io giovane cronista del settimanale «Capitanata Agricola Industriale» diretto da Matteo Tatarella - nel dire no alla costruzione della cosiddetta “muraglia cinese”: la tangenziale sopraelevata che avrebbe dovuto collegare la superstrada Candela-Foggia con il casello autostradale di via Manfredonia, lambendo l’aeroporto Gino Lisa, gli Ospedali Riuniti e così determinando in modo irrevocabile l’espansione urbanistica cittadina. Ci battevamo per una trasformazione del progetto (come poi effettivamente avvenne, almeno per quanto riguarda l’incrocio di viale degli Aviatori), a favore di un tracciato più ragionevole, che prevedesse svincoli a raso e dunque non condizionasse lo sviluppo urbanistico della città. Fu una vittoria a metà: la strada non è mai stata completata (confermando il sospetto che quel progetto ciclopico fosse stato concepito per orientare il futuro edilizio cittadino, premiando la speculazione fondiaria)ma l’espansione dell’abitato è stata caotica e disordinata. Fu la prima di tante battaglie comuni. Fummo fianco a fianco in tante altre memorabili sfide: per la riapertura dell’aeroporto Gino Lisa, per l’istituzione del terzo centro universitario pugliese che vide Matrella sostenere con forza le ragioni e l’impegno di quell’indimenticabile (ma purtroppo dimenticato) protagonista della storia dell’Università a Foggia che è stato Luigi Imperati. Standogli a fianco tante volte in trincea, Gaetano mi ha dato una lezione professionale di cui gli sarò sempre grato: che l’essere giornalista significa prima di tutto avere il coraggio di dire le cose come stanno, esprimere le proprie opinioni, impegnarsi perché tutte le opinioni possibili abbiano diritto di cittadinanza. Quante altre volte, da allora, abbiamo raccontato insieme la città, abbiamo 258 Geppe Inserra espresso le nostre opinioni, trovandoci quasi sempre d’accordo. Qualche anno dopo, quando lavoravo alla redazione foggiana della «Gazzetta del Mezzogiorno», lo ebbi come appassionato “cicerone” in una serie di articoli dedicati alla “Foggia da salvare”. Non amava particolarmente il quotidiano regionale, che riteneva “troppo barese”: individuava nel difficile rapporto tra il capoluogo dauno e quello regionale, una delle cause del declino di Foggia. Eppure si offrì con entusiasmo di accompagnarmi in quell’insolito viaggio. Fu entusiasmante passeggiare con lui tra i vicoli del centro storico, alla scoperta di pezzi di memoria minacciati dalla protervia edilizia: dai ruderi della Taverna dell’Aquila, agli ipogei che allora erano grotte e basta, ai resti del Palazzo della Pianara, alle misteriose colonne dei palazzi prospicienti la Cattedrale che Matrella riteneva fossero vestigia del palazzo regale angioino, allo stupendo e pressoché sconosciuto bassorilievo di San Martino, incastonato sul fianco sinistro del Duomo. Gaetano, che aveva trascorso tutta la sua infanzia tra quelle strade, conosceva la storia di ogni pietra, di ogni palazzo, di ogni iscrizione: ed era orgoglioso di esserne figlio. Eppure fu tutt’altro che un conservatore, politicamente parlando. Democristiano di incrollabile fede morotea, fu un appassionato sostenitore degli “equilibri più avanzati” teorizzati dal grande statista di Maglie, e successivamente di quel “compromesso storico” che costò la vita ad Aldo Moro, diventando la causa scatenante del rapimento e e del feroce assassinio, ad opera delle brigate rosse. Della Democrazia Cristiana, così come del mondo cattolico, Matrella è stato tuttavia sempre coscienza critica: la sua tenace ricerca della verità lo rendeva un personaggio scomodo. Nella dialettica interna, a volte aspra, che caratterizzava le correnti democristiane, fu sempre avversario dell’on. Vincenzo Russo, leader della Dc provinciale. Fu fondatore della Fuci (Federazione Universitari Cattolici Italiani) e protagonista della stagione in cui quel movimento offrì alla “società civile” cittadina personaggi del calibro del giudice Magrone, dei medici Galasso, De Filippis, Cela, Natale, e più tardi Michele Perrone, Davide Leccese, Tonino Coppola e Peppino Normanno, questi ultimi esponenti di quel “cattocomunismo” che in un serrato dialogo con la Democrazia Cristiana seppe produrre l’amministrazione comunale (guidata da Pellegrino Graziani) forse più illuminata e prolifica, in termini di opere e di servizi, che la città abbia mai avuto. Qualche anno fa, cercammo di riprendere la riflessione politica sulla importanza dell’incontro tra i cattolici ed i progressisti, in un dibattito promosso proprio dal «Nuovo Risveglio», e fu un altro bel momento di collaborazione, di comune confronto. Il suo giornale era sempre aperto ad ogni discussione: era il suo modo di contribuire al progresso civile e morale della città. Nella storia del giornalismo foggiano, il «Nuovo Risveglio» è stato un insu259 L’eredità morale di Gaetano Matrella perabile esempio di come la cronaca, la narrazione dei fatti non siano antitetiche alla passione civile. Matrella mi ha insegnato che non è possibile raccontare i fatti senza prendervi parte in qualche modo, e che la dirittura morale, l’onestà intellettuale e la passione civile sono l’anima del mestiere di giornalista. Gaetano ha sempre pagato di tasca proprio la pubblicazione del giornale, confidando solo sull’affetto dei lettori, così come tutti i libri che dava alle stampe. Non ha mai chiesto abbonamenti, finanziamenti o inserti a pagamento alle pubbliche amministrazioni: è stato un mecenate sincero, così come quando ha fatto dono di alcuni quadri di cui era proprietario alla Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Dogana e delle annate del «Nuovo Risveglio» alla Biblioteca Provinciale. Ha vissuto fino in fondo la dimensione comunitaria della città. Adesso che non c’è più, Foggia è veramente più sola. Più indifesa. Come succede quando in una famiglia muore il patriarca, e se ne va il custode della memoria e delle radici, che tramandano l’identità da una generazione all’altra. 260 Franco Galasso Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella di Franco Galasso Abbiamo seguito la conclusione della esistenza di Gaetano Matrella sperando nella ripresa di un dialogo sempre vivace, spesso con punte di amorevoli battute polemiche, portate con forza di argomenti, accompagnate da tolleranza ed ispirate spesso da felici intuizioni. Ci ha, anche negli ultimi istanti, salutati con il tono rassicurante di chi ha capito: come se fosse una fine attesa e preparata da una formazione di vita di chi conosce lo svolgersi dell’esistenza, delle sue trasformazioni, dei suoi significati, delle sue attese. Negli ultimi dialoghi, spesso accennati, ma di sicuro significato, traspariva come un ottimismo fiducioso, conforme alla sua personalità. Chi crede e pratica non può essere rattristato dall’Evento, ne conosce il profondo significato e non ne ha paura, non lo teme, ma lo attende come la fine di un tratto solo episodico della propria esistenza. Di questa conosce gli ostacoli, le tristezze, talvolta le gioie e i traguardi, ed è consapevole dei suoi limiti nel tempo. Di quante persone Gaetano ha assistito al trapasso: Moro, De Meo, De Leonardis, don Renato, Forcella, personaggi che ha incontrato nella vita, fra la “gente” che Gaetano ha amato come “il prossimo tuo”, esempi che per percorsi diversi, naturali o drammatici, ne hanno segnato la esistenza. Mi si chiede di parlarne, di ricordarlo, perché la sua memoria resti sia pure con un rapido e modesto ricordo, affinchè si sappia che Gaetano Matrella “è passato” ed ha lasciato una sua memoria, modesta ed umile, come la sua vita, modesta ed umile, ricca di amore, di ricordi, di fatti, di persone che ha conosciuto e spesso amato ed ammirato. Le nostre consuetudini di vita, il nostro amichevole e fraterno sodalizio è iniziato negli anni della frequenza del Liceo Scientifico. Fu questa una nuova istituzione scolastica che sorse con la aggettivazione di “Provinciale”, perché scuola non statale, ma promossa dall’Amministrazione Provinciale di Foggia. Eravamo nell’immediato dopoguerra: la sconfitta, le rovine della città di Foggia, la lenta ripresa furono fatti che segnarono la nostra vita, con trasformazioni che hanno influenzato radicalmente la nostra formazione. Il Liceo Scientifico, dopo varie traversie di trasferimenti di sede, approdò 261 Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella in un palazzo della nostra città, il Palazzo Zicari, in corso Cairoli, un segno di antica aristocrazia cittadina. Ora non c’è più, abbattuto dalla furia ricostruttrice del dopoguerra; aveva allora un valore artistico ed architettonico di cui purtroppo si è perduta la memoria. Tanti i ricordi di quegli anni con una frequentazione nello stesso istituto con Gaetano, anche se le nostre classi erano diverse. Nei ricordi vi è la personalità di qualche docente: il professor Catacchio da Molfetta, avvocato, che ci avviò ai misteri ed al gusto della costruzione latina, insegnata nei suoi nascosti risvolti; il professor Potenza, ingegnere, che ci guidava nei difficili sentieri di ardue soluzioni matematiche; il professor Melillo, prete dantista, che, possessore di una memoria prodigiosa, ci aiutò a scoprire il valore “non solo poetico” della Commedia; il professor Sernia, italianista avvincente, solido di una notevole cultura letteraria. Il professor Vittorio de Niro d’Ajeta, di nobile origine napoletana, raffinato nel tratto, storico brillante, di vasta e approfondita cultura; il progessor Silvio Nobili, filosofo e notaio, eclettico personaggio, arguto e colto, che ci avviò ai sentieri difficili della filosofia. Si riprendeva, così, la organizzazione della scuola con grande impegno delle istituzioni e con ottimi risultati da parte di maestri ed allievi. Oggi, 2012, il vecchio nostro Liceo Scientifico Provinciale è il Liceo Scientifico Marconi di Foggia. Vennero intanto gli anni della Università e della FUCI, vissuti in una comunanza di amicizie e di formazioni religiose e culturali. Voglio ripetere un breve corsivo di un giornalista degli anni 50, Enzo Forcella: “Non sapevamo nulla di questi uomini che andavano a Messa tutti i giorni e citavano in continuazione le encicliche e i messaggi papali. Emergevano dalle parrocchie, dai salottini della piccola borghesia di provincia… come dalle catacombe di un mondo dimenticato”. Eravamo noi quelle modeste formiche che studiavano e si preparavano alle vicende della vita. La frequenza della sede della FUCI fu resa possibile dalla eredità di una sala del Vescovado, la “Sala Manzoni”, che aveva ospitato le organizzazioni di Azione Cattolica anche durante i difficili anni del fascismo. Gaetano Matrella ne ha descritto la storia documentando la esemplarità delle generazioni precedenti alla nostra che l’avevano frequentata. Nume tutelare della FUCI era don Renato Luisi, sacerdote colto, con alta preparazione teologica, di vedute moderne, ben inserito nella realtà nuova della nostra società. Egli ci ha accompagnati, e lo abbiamo accompagnato, nel corso della nostra e della sua vita: sacerdote, teologo, vescovo, missionario in Brasile, tornato in patria malato. Fu seguito in particolare da Gaetano Matrella che ne fu devoto figlio spirituale fino alla sua morte avvenuta nella ospitale casa di riposo “Maria Grazia Barone”. La FUCI fu il nostro punto di riferimento. In casa di Gaetano Matrella, in via Pannivecchi, oggi via Pietro Mascagni, leggevamo i testi che ci fecero scoprire le nuove realtà. Maritain, autore di “Umanesimo integrale”, 262 Franco Galasso Giogio La Pira con “Premesse alla politica” e con “Cronache sociali” che furono di ispirazione per le nostre scelte religiose e politiche. Importante per il nostro ricordo: “Le attese della povera gente”, una serie di articoli e cronache che certamente insieme alle altre letture hanno influenzato la nostra formazione. La nostra associazione (la FUCI) faceva parte di una organizzazione nazionale con assistenti mai dimenticati, don Guano e don Costa, sacerdoti genovesi, i cui scritti sono ancora oggetti di nostre letture e meditazioni. Con Gaetano Matrella vi era perciò un comune sentire insieme a giovani fucini, molti dei quali presero strade professionali di alto livello. Ricordiamo Giacomo La Torretta, morto prematuramente per malattia, dopo aver ottenuto la cattedra di Ostetricia e Ginecologia all’Università di Messina; Vito De Filippis, medico della scuola napoletana, fu primario di medicina a Torino ed a San Giovanni Rotondo; Gaetano Caricato, illustre matematico, docente di matematica superiore alla Università di Roma; Salvatore Garofalo, morto giovane, economista dell’Università di Bari, Gustavo De Meo, giovane deputato per la DC, Vincenzo Russo e Donato De Leonardis, anch’essi deputati di molte legislature, quest’ultimo autore di diverse opere in particolare sulla vita di Moro, Carlo Forcella, a lungo autorevole protagonista della vita della Democrazia Cristiana. Desidero ricordare, per la memoria della nostra antica giovinezza, alcune manifestazioni teatrali organizzate da Gaetano Matrella che preparò e diresse delle manifestazioni teatrali rimaste nella nostra storia. “Goliardi, che mattacchioni”, autore Ugo Piazza, fucino di Roma, era la cronaca di uno studente liceale che “dal caro paesello sono arrivato qui, a riscaldar le tavole dell’università”. Era Gustavo De Meo che entrando nella università si imbatteva, fra l’altro, nel capo dei bidelli, Gaetano Matrella, che lanciava contro di lui e i suoi colleghi, un’accorata invettiva verdiana: “O studenti, vil razza dannata, in tal conto un bidello si tiene”. La commedia rallegrò molte nostre serate per la sua preparazione e per le repliche ripetute in diversi centri della provincia. Preparazione religiosa, studio e contatto con le nuove realtà si affacciavano alla nostra osservazione ed alle nostre considerazioni. Non si deve dimenticare che le nostre generazioni sono passate dal fascismo alla guerra, al dopoguerra, fino alla scoperta del valore della democrazia. L’ingresso in politica costituì perciò la scoperta di un mondo diverso, ricco di nuove motivazioni ideali, di problemi, di progetti, di speranze. Ma fu determinante per una efficace presa di coscienza la conoscenza di Aldo Moro che ci avviò ad una concreta visione della nostra posizione nei rapporti con la società. Storici furono gli incontri con Moro nell’Istituto delle Marcelline di Foggia dove egli teneva le sue lezioni: giovane ed affermato docente universitario, ci avviò alla scoperta di un umanesimo politico, sul significato della persona umana nella 263 Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella società, sull’esercizio della libertà nella partecipazione alla vita pubblica. Con questo retroterra religioso e culturale, il nostro gruppo fucino si ritrovò a partecipare alla vita politica. L’impegno politico dei fucini come Gaetano trova perciò la sua spiegazione in questo retroterra che egli stesso ha riassunto ed illustrato con un articolo comparso nel 2001 con il titolo “Breve rassegna su una tendenza che viene da molto lontano”. Un itinerario spesso tormentato che inizia dal ricordo di Romolo Murri, battagliero sacerdote marchigiano, che intuì il compito dei cattolici nella vita pubblica dando luogo alle prime manifestazioni di partecipazione alla vita politica dei cattolici democratici. Diverse furono le attività politiche dei cattolici anche attraverso incontri con movimenti neo-marxisti o con alleanze con partiti di sinistra. Sentimmo anche noi questa irrequietudine che ci condusse a comuni visioni con forze che indicavano nella “povera gente” l’oggetto della nostra attenzione. I cattolici di sinistra, i “catto-comunisti”, costituirono gruppi che, tranne poche eccezioni, entrarono a pieno titolo nella Democrazia Cristiana costituendo spesso uno spirito critico che rendeva vivo e sincero il dibattito interno al partito. Posso dire che Gaetano Matrella faceva parte di questi gruppi sempre con atteggiamento critico, ma sempre attento all’equilibrio ed al rispetto. Accettammo così di essere protagonisti, sia pure nella modestia dei nostri ruoli, delle attività del partito. Una delle vocazioni di Gaetano Matrella fu quella del giornalismo che concepiva come la interpretazione di eventi elaborati alla luce di ideali e di corretta informazione. La sua cospicua attività di giornalista si rivolse essenzialmente a giornali locali o a corrispondenze di giornali regionali. Nel 1956 l’onorevole Donato De Leonardis gli affidò la direzione del “Popolo Dauno” che egli diresse per almeno due anni. In quel periodo, fra l’altro, si verificò una aspra polemica in seno al Consorzio di Bonifica per la rivendicazione degli assegnatari della riforma di partecipare alla lista dei proprietari di fondi. Battaglia che fu vinta e che aveva a capo della rappresentanza degli assegnatari Carlo Forcella, allora dirigente dell’Ente Riforma pugliese. Più avanti Gaetano Matrella fu chiamato alla vice direzione del “Progresso Dauno” diretto dall’On. Gustavo De Meo. Questo incarico durò dal 1966 al 1975. Questo settimanale di pura marca democristiana si distingueva per la correttezza delle notizie e per l’equilibrio politico in esso sempre presente anche quando si parlava di avversari politici. Editore del Progresso Dauno era il Prof. Matteo Vigilante che, oltre ad una scrupolosa conduzione degli aspetti economici, non certo floridi, si imponeva per una naturale vocazione alla mediazione per cui mai il giornale, anche per la sua influenza, poteva essere accusato di atteggiamenti settari od antipolitici. 264 Franco Galasso Dal 1975, Gaetano fu chiamato alla direzione del settimanale “Il Risveglio” ispirato dagli ambienti cattolici ed in particolare da Mons. Renato Luisi. Da ricordare l’articolo che Geppe Inserra ha scritto sul Quotidiano che è certamente riassuntivo, non privo di espressioni affettuose e fraterne, della vita giornalistica di Gaetano. Attraverso la lettura di questi giornali, si snoda non solo la cronaca di eventi, ma, spesso, la interpretazione di essi insieme al ricordo di persone che costituirono l’humus della vita politica, storica, cittadina, della nostra realtà. La sua attività giornalistica subì, come del resto la nostra attività politica, una drammatica e brusca interruzione con l’assassinio di Aldo Moro, che segnò un confine, non solo sentimentale, per quanti avevano ereditato gli ideali dell’uomo che era stato e continuerà ad esserlo, protagonista della nostra storia. Un rammarico della sua vita fu il non aver potuto dare continuità alla personale esternazione di idee, di sentimenti, di esercizio di spirito critico. Forse fu, questa, la ragione del suo rifugiarsi nella “nicchia” dell’amicizia che coltivò con affettuoso legame, fino alla fine. Frequente però fu la sua collaborazione con il Quotidiano di Foggia, diretto dall’amico Matteo Tatarella. Mi piace riandare alla memoria di settimanali incontri, per vari anni, nella sua casa, nel suo studio, con Armando Canè e con me, fraternamente accolti anche dalla discreta e signorile presenza della moglie Giuseppina. Due ore di conversazioni, di osservazioni, sempre puntuali e spesso caustiche della realtà nella quale vivevamo. Parlavamo della nostra Foggia, dei suoi problemi, e ci spingevamo a guardare agli eventi politici, ispirati sempre a quegli ideali dei quali eravamo noi stessi interpreti e teoricamente complici. Se volessi riassumere in pochi riferimenti la sua personalità, vorrei dire che, oltre alla sua formazione religiosa ed intellettuale, Gaetano fu prima di tutto foggiano. Amava la sua, la nostra città, superba ed umiliata, carica di storia, fortunata e sfortunata, con noi sempre fiduciosi nella sua rinascita. Gaetano amava la Musica che era sua compagna quotidiana, insieme alla lettura e allo studio. Le sinfonie erano da lui ascoltate con profonde interpretazioni. Amò la lirica ed in particolare Umberto Giordano, musicista foggiano. Era orgoglioso di una manifestazione da lui ispirata con intelligente discrezione. Si tratta di un gemellaggio organizzato dal Sindaco di Foggia, Petrino, e da quello di Verona, Sboarino, con la collaborazione dell’Assessore Leccese e di Enrico Sannoner, direttore all’epoca del teatro Giordano, amico e confidente di Gaetano. In quella occasione furono ben dodici le rappresentazioni dell’Andrea Chénier nell’Arena di Verona, arricchite da un congresso su “Umberto Giordano ed il Verismo”. Il congresso ebbe luogo il 2-3 luglio 1986. Riascoltava spesso Beniamino Gigli di cui conosceva a memoria le più grandi interpretazioni indicandone anche le più sottili variazioni del suo canto. 265 Diario di un’amicizia con Gaetano Matrella Non è stato facile ripercorrere la vita di Gaetano Matrella per affidarne la memoria al lettore che vorrà riscoprire il ricordo di personaggi ed eventi della nostra Città. Non di personaggi famosi abbiamo parlato, ma di una persona che ha lasciato un’impronta di storia e di cronaca di Foggia; abbiamo voluto, con affetto ed amicizia, ricordare la vita di un uomo che è stata come la nostra vita. Abbiamo così riscoperto legami dei quali siamo spesso dimentichi, per lo svolgersi travolgente del tempo che induce talvolta all’indifferenza dei sentimenti. Quando ti fermi, quando vuoi riflettere e ricordare e rivedere la tua vita insieme ad amici e sodali, risenti e rivivi forte e solida la comunanza di ideali. La nostalgia è forse, tra i sentimenti, il più intenso. “Frequentare la nostalgia sembra missione impossibile, ma le risorse della nostra mente, affinate durante il viaggio della nostra vita ci confortano e rasserenano in questa frequentazione.” Così un grande neurologo, Ciro Mundi, ha detto ritrovando nella nostalgia il conforto della separazione da un Amico. Nostalgia di amici con cui hai condiviso la appartenenza alla “lista di attesa” alla quale ci esortava il Cardinale Martini, percorsa da Gaetano con sincero abbandono e consapevole e sicura partecipazione. La fede ci ha uniti con le stesse certezze e con le stesse speranze. E per Gaetano, come la morte di Chénier: Chénier, Maddalena È la morte! Chénier Ella vien col sole! Maddalena Ella vien col mattino! Chénier Ah, viene come l’aurora! Maddalena Col sole che la indora! 266 Maurizio De Tullio La scomparsa di un appassionato ricercatore e grande collezionista di cartoline e immagini di storia locale Gaetano Spirito tra passione civile e tensione morale di Maurizio De Tullio Gaetano Spirito ha chiuso per sempre il suo archivio pochi mesi fa, all’alba dei novant’anni. E lo ha fatto lavorando fino all’ultimo, nonostante una malattia impetuosa l’avesse privato dell’uso delle gambe già da diverso tempo. Ma per uno che di cognome faceva Spirito, quell’handicap si è rivelato solo parziale, per quanto doloroso e frenante. Una vita di quelle ricche la sua, di una ricchezza che non guarda al denaro naturalmente, ma alla sostanza delle cose, a cominciare dall’amore per la famiglia, per il proprio delicato lavoro di insegnante e – soprattutto - di ricercatore e collezionista di immagini rare. La scheda bio-bibliografica che segue - presente anche nella sezione “Meravigliosa Capitanata”, nel sito istituzionale della nostra Biblioteca Provinciale – ha inteso mettere insieme questi tre momenti fondamentali della vita di Gaetano Spirito. E a due giornalisti e studiosi di storia locale che lo hanno ben conosciuto – Michele Dell’Anno e Loris Castriota Skanderbegh – abbiamo chiesto di formulare un personale ricordo. 267 Gaetano Spirito tra passione civile e tensione morale SPIRITO GAETANO Studioso di toponomastica, scrittore, insegnante (Monte Sant’Angelo, 1923 – Foggia, 2012) Figlio di un brigadiere della Polizia Municipale di Monte Sant’Angelo e di una casalinga, era nato nella cittadina dell’Arcangelo Michele il 10 maggio 1923, ed è morto a Foggia il 12 aprile 2012, dove viveva da oltre 50 anni. Dopo aver conseguito la maturità e dopo il periodo bellico, durante il quale era inquadrato nella Regia Marina, svolse la professione di insegnante elementare, con la passione e il rigore tipici dei maestri d’un tempo, tra le scuole di Carlantino, Orta Nova, Troia e Foggia. Nel tempo libero, però, amava coltivare la passione per la storia locale, attraverso il recupero delle radici e dell’identità del nostro territorio. Ed è sotto questa veste che in breve tempo ha saputo affermarsi tra cultori e studiosi di storia locale, abbinando al piacere per la ricerca anche quello per l’archiviazione di francobolli e poi di ritagli dalla stampa locale e nazionale e, soprattutto, di immagini. Nonostante avesse perduto negli ultimi anni l’uso degli arti inferiori, Gaetano Spirito non si lasciò mai vincere dalla malattia, continuando a integrare e ordinare il suo prezioso archivio personale con la passione e la forza di volontà di sempre. Sposato, ha avuto tre figli, nati tutti a Carlantino, dove gli era stata assegnata dal Provveditorato agli Studi la sua prima sede di lavoro e dove aveva conosciuto, e poi sposato, la moglie Alfonsina Iosa. All’inizio degli anni Sessanta si era trasferito con la famiglia nel capoluogo dove ha insegnato in alcuni istituti scolastici. Negli anni, Gaetano Spirito era riuscito a creare un enorme archivio privato, una collezione costituita da migliaia di cartoline illustrate e fotografie originali, moltissime anche rare, che consentono una ricostruzione toccante di com’era il capoluogo dauno prima che venisse sconvolto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Tra il 1967 e il 1998 ha pubblicato cinque monografie, numerose dispense e stradari ed ha collaborato, con testi e soprattutto mettendo a disposizione la sua collezione privata di cartoline e fotografie, alla realizzazione di volumi di storia locale curati da diversi studiosi foggiani. Nel tempo libero, come già accennato, Spirito coltivava la passione per la storia locale. Le sue prime ricerche, in questo senso, avvennero ad Orta Nova alla quale dedicò il suo primo volume, “Dal passo Orta a Orta Nova. Cenni storici” (1967). Tra questo testo e il monumentale “…Ieri…, Foggia…: la storia nella fotografia” (1981) si colloca un altro lavoro di ricerca, “Foggia e l’antico Convento dei cappuccini nella storia e nella tradizione” che reca in appendice “La rivolta del 1647-48 e Sabato Pastore detto Il Masaniello di Foggia”, pubblicato nel 1988. 268 Maurizio De Tullio Gaetano Spirito è stato un antesignano di quel gruppo di autori locali che, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, hanno dato vita ad una copiosa produzione volta a recuperare le radici e l’identità del territorio. Il suo nome è legato essenzialmente alla toponomastica cittadina, con un volume, pubblicato nel 1998, che può essere considerato come un vero e proprio libro di storia, nazionale e locale: «La storia di Foggia attraverso la toponomastica» (1998), nella quale prese in esame non la toponomastica di un piccolo comune ma un àmbito complesso e vario come è quello di Foggia, comprendente 740 toponimi moderni ed un numero ben maggiore di quelli precedenti. Il suo sforzo è stato tanto più encomiabile se si considera che, proprio nell’àmbito a lui più congeniale, cioè la toponomastica cittadina, era riuscito a valorizzare le valenze culturali, storiche, ambientali, religiose, artistiche ed etnoantropologiche di ogni via, pur con gli eccessi o le trascuratezze che opere monumentali possono comportare. Come ricorda Nando Romano, che ne vergò la prefazione, «egli li esamina tutti a partire dai primi elenchi comunali a noi noti: si tratta di due liste, la seconda, del Gennaio 1820, aggiorna la prima del Dicembre 1810. Non manca poi di seguire, sempre fra i documenti dell’Archivio di Stato di Foggia, la vicenda della ‘nomenclatura’ delle vie e della numerazione degli ingressi delle case fatta in prima istanza dall’arch. Antonio Zammarano e poi dal di lui figlio Giuseppe e dal capomastro Raffaele Severo, attraverso dati archivistici pur già noti ma che valeva la pena esaminare nel dettaglio. Lo Studioso ha quindi preso in esame l’elenco toponomastico che emerge dalla carta del Mongelli, del 1839, che insieme ai miei allievi del locale Istituto per geometri, ebbi ad indicare, nel lontano 1980, come tratto fondamentale nel processo di formazione della toponomastica moderna della Città». Molti foggiani hanno conosciuto il prof. Spirito in occasione della pubblicazione del suo libro “…Ieri, Foggia…: la storia nella fotografia”, edito nel 1981 a cura dell’Amministrazione Provinciale di Foggia, che conteneva una bellissima selezione della sua preziosa raccolta fotografica, un libro che meriterebbe la ristampa. In quel volume, l’autore metteva a disposizione di tutti la sua ricca collezione di cartoline e di fotografie rare. Ma proprio questa sua generosità è stata spesso contraccambiata ora col “saccheggio” del suo archivio ora con la mancata citazione o il semplice doveroso ringraziamento da parte di coloro i quali, attraverso la sua disponibilità, fruivano gratuitamente di un servizio o di una preziosa collaborazione. Nonostante la maggior parte dei ricercatori locali che si rivolgevano a lui si sia comportata in maniera scorretta – e di ciò Spirito si rammaricava, stupendosi di come si potesse arrivare a tanto –, resterà indelebile il suo segno e l’importanza del suo archivio che, alla sua morte, sono passati – unitamente a diverse centinaia di volumi e documenti della sua biblioteca personale – in lascito alla Biblioteca dei Cappuccini presso la Parrocchia dell’Immacolata di Foggia e, in buona parte, anche all’Archivio di Stato del capoluogo. 269 Gaetano Spirito tra passione civile e tensione morale Il giornalista Geppe Inserra ricorda di Gaetano Spirito “il suo amore verso la nostra città e verso la nostra terra, il suo rigoroso impegno di studioso, corroborato da una rara passione civile e da una grande tensione morale. Ci lascia una bella eredità e un grande esempio. Di questa passione, di questa tensione la città ha ancora bisogno, in uno dei momenti più difficili della sua storia”. Alla passione per la ricerca storica, aveva unito anche quella per l’arte dello sbalzo su rame, tanto che realizzò diverse opere con le quali prese parte a rassegne organizzate in provincia e in Italia, ottenendo lusinghieri giudizi. 270 Michele dell’Anno Gaetano Spirito, la storia nella fotografia di Michele dell’Anno(*)1 La fotografia come ricerca, conservazione e diffusione del patrimonio artistico e culturale. È questa la migliore definizione che possiamo attribuire all’opera di educatore ed insegnante compiuta da Gaetano Spirito. Originario di Monte S.Angelo, ma foggiano di adozione, Gaetano ha il merito di aver usato come pochi nel nostro territorio la fotografia quale elemento centrale per la ricostruzione storiografica del passato. Se tanta parte degli eventi della nostra città e del nostro territorio non è caduta nell’oblio lo si deve alla sua felice intuizione di raccoglitore puntiglioso del patrimonio culturale di un passato prossimo. Le sue immagini, le sue collezioni di cartoline, hanno conservato meglio di qualunque altro documento la realtà di molti quartieri e costumi ormai distrutti, sia dagli eventi bellici, che dall’incuria degli uomini. L’ho incontrato nel 1988, nel suo studio ricco di ritagli di giornali, foto, immagini… e lui che raccontava dove aveva trovato ogni cosa, ricordando particolari e aneddoti. Lo ritrovo nel capitolo del suo libro “Foggia e l’antico convento dei Cappuccini” in cui parla dei terrazzani e dei crocesi, riuscendo a trasferirci, sempre con la sua predilezione per le immagini, la visione del corteo nuziale, con tanto di personaggi descritti meticolosamente nei costumi e nei gesti. Insomma dei racconti che sembrano foto o meglio film. Un narratore per immagini, un regista di una Foggia da docufilm, si direbbe oggi, e quindi un divulgatore moderno, efficace e coinvolgente. 271 272 Pasquale di Cicco All’amico Gaetano Spirito di Pasquale di Cicco Questo mio ricordo di Gaetano Spirito vuole essere una testimonianza non sullo studioso - ad esso accennerò appena, sapendo che altri ne dirà - quanto piuttosto su qualche suo lato umano. Ebbi modo di conoscerlo molti anni fa, quando venne nel mio ufficio per chiedermi se fossi in grado di segnalargli la fonte di un antico stemma di Foggia, da lui posseduto in copia. Poi nacque un’amicizia. Già insegnante, aveva molteplici curiosità ed interessi, che spaziavano dalla ricerca storica, specie quella d’ambito foggiano, alla filatelia, alla numismatica, all’araldica, alla toponomastica, alla fotografia, risultando anche dotato di una notevole manualità che gli consentiva, fra l’altro, l’allestimento di accurate rilegature di libri e la confezione di ben fatte cartelle. Ricercatore e raccoglitore infaticabile, catalogatore paziente ed ordinatissimo dei frutti delle sue ricerche e delle sue tante acquisizioni, rimaneva sempre attento ed impegnato a procurare gli strumenti per un facile uso delle stesse mediante minuziose segnalazioni, schedature, repertori, rinvii. Giustamente geloso delle sue raccolte, spesso però, con grande liberalità, ne concedeva l’utilizzo a qualche richiedente, e sono molti gli studiosi che in varia misura ne hanno beneficiato. E qualche volta si rammaricava che taluno di questi, ricevuto il favore e pubblicato il proprio lavoro, ometteva di mostrarsi riconoscente con una doverosa menzione del contributo da lui offerto o, peggio, di restituire quanto ricevuto in prestito, e che talaltro aveva addirittura approfittato della sua disponibilità per sottrargli qualche volume od opuscolo o manifesto. Amico affezionatissimo di don Michele Di Gioia, sacerdote e storico della Chiesa foggiana, dopo la scomparsa dello stesso, mi propose di prendere con lui l’iniziativa perché la città gli intitolasse una strada; fui naturalmente d’accordo, e le nostre firme divennero le prime due di quelle apposte in calce alla richiesta allora inoltrata al sindaco del tempo. Ed ugualmente molto amico di Gennaro Arbore, in un rapporto annoso e solido, anche se talvolta turbato e quasi litigioso, quando i due studiosi si interessavano delle stesse ricerche storiche. Così, ad es., nel caso di quella per Fiorello La 273 All’amico Gaetano Spirito Guardia, il famoso sindaco di New York, di origini italiane, rivendicando ambedue la titolarità della scoperta di alcuni inediti dati biografici. Ricco di amor proprio, ognora rispettoso degli altri, non ammetteva la mancanza di rispetto nei suoi riguardi, e sul punto non transigeva. Da qui la decisione di revocare la precedente donazione della sua notevole raccolta extralibraria, che ufficialmente aveva già avuto per destinatario un importante istituto; e di qui la rinunzia ad una ultima e prossima pubblicazione, per la quale si era già molto speso, incentrata su un diario delle vicissitudini di un foggiano al tempo della guerra del ’40. Negli ultimi anni l’odioso, traumatico impoverimento fisico, e la forzata immobilità conseguente, ancor più incisivamente dei mali connessi all’età avanzata, gli impedirono in breve tempo di continuare a coltivare gran parte dei suoi antichi interessi, prima di sottrarlo dolorosamente ai familiari ed agli amici. 274 Michele Ferri Per ricordare Gaetano Spirito di Michele Ferri Qualcuno mi suggerì di rivolgermi a Gaetano Spirito per avere informazioni per le mie ricerche sull’antica tipografia Flaman di Monte Sant’Angelo. Gli telefonai spiegandogli il motivo della mia visita e fu subito disponibile a ricevermi. In occasione del nostro primo incontro mi chiese che cosa facessi e mi rivolse qualche domanda sulla mia famiglia. Appena seppe che mio padre, Antonio, era nato anche lui a Monte Sant’Angelo, tornò con la mente indietro nel tempo e ricordò di averlo conosciuto e che avevano frequentato le scuole elementari insieme. Mio padre era di qualche anno appena più grande di lui, ma per un breve periodo avevano fatto parte della stessa scolaresca e mi spiegò che talvolta a un solo insegnante erano affidati alunni di classi diverse. Poi, si sovvenne di una marachella di mio padre che, ci tenne a sottolineare, fu prontamente punita dal maestro. Me ne parlò in modo particolareggiato; a distanza di circa ottant’anni il curioso episodio era ancora nitido nella sua memoria. Mi prese in simpatia, assunse un tono confidenziale, accese un’altra sigaretta (notai che era un accanito fumatore), mi domandò se desiderassi qualcosa da bere e chiamò il suo collaboratore, un bulgaro, se non ricordo male. Gaetano Spirito era ormai infermo, avendo subito l’amputazione di una gamba, e aveva bisogno di qualcuno che l’assistesse giorno e notte. Poi gli riparlai della mia ricerca sulle tipografie della Capitanata e gli domandai se potesse darmi qualche notizia di Michele Flaman, titolare, come ho già detto, della prima tipografia di Monte Sant’Angelo, e lui, senza rispondermi, mi chiese di porgergli un particolare faldone tra i tanti che erano allineati in uno degli scaffali che ricoprivano le pareti del suo studiolo. Lo aprì e ne tirò fuori un foglietto su cui era scritto: “Michele Flaman, insegnante elementare, titolare di una tipografia a Monte Sant’Angelo, impiantata verso la fine dell’Ottocento; suo figlio, che si chiamava Francesco come il nonno, era emigrato in America nei primi decenni del Novecento.” Poi tirò fuori da una cartellina qualcosa che somigliava a un documento d’identità, un cartoncino con una immagine leggermente sbiadita, era il ritratto del padre di Michele, “Francesco Flaman di Angelo, nato a Trapani a dì 25 Maggio 1826.” Chiamò nuovamente il suo collaboratore e gli chiese di farmi una fotocopia del ritratto. Da un altro suo appunto si ricavava che l’insegnante Michele Flaman era probabilmente morto nel 1925... 275 Per ricordare Gaetano Spirito Potei leggere nel suo volto, un viso scarno, occhi dallo sguardo intenso e severo che a tratti si illuminavano, la sua gioia nel potermi essere di aiuto. “Ora – mi ordinò – metti al suo posto questo faldone e prendimi quell’altro, quello in alto a destra, appoggialo sul tavolo...” Ne estrasse uno stampato contenente un Inno in morte di Giuseppe Garibaldi: 2 giugno 1882 sottoscritto da Michele Flaman maestro normale e in basso, a sinistra, erano riportati luogo e data di pubblicazione: Monte S. Angelo, Giugno 1882. E anche di questo documento mi fece avere una fotocopia. Chissà, ci chiedemmo, se quel volantino fosse stato stampato dallo stesso Michele Flaman nella sua tipografia. Un’ipotesi suggestiva, una questione che tuttora è per me di estremo interesse, in quanto, se trovasse conferma, sarebbe possibile retrodatare di circa otto anni l’impianto della prima tipografia a Monte Sant’Angelo. Detto per inciso, la sua produzione a stampa finora documentata risale al 1890. Da un altro faldone venne fuori un manifesto, stampato dalla tipografia Flaman nell’ottobre del 1899, che annunciava la celebrazione della festività di Sant’Antonio Abate in Monte Sant’Angelo nella ricorrenza, come era riportato nello stesso manifesto, del primo centenario della fondazione della Confraternita omonima. Nel corso della visita successiva mi fece dono di qualcuna delle sue pubblicazioni, La storia di Foggia attraverso la toponomastica e la sua ricerca sui monumenti a Giuseppe Rosati nella villa comunale di Foggia. Gli chiesi il permesso di esaminare i suoi libri, alcuni dei quali mi sembravano piuttosto rari, al fine di compilarne le schede bibliografiche e inserirle nel repertorio, che stavo man mano compilando, degli annali tipografici della provincia di Capitanata. Una gran parte della sua biblioteca, cioè un migliaio di titoli (tra libri, opuscoli, riviste e periodici) era stata, qualche tempo prima, donata all’Archivio di Stato di Foggia e tutto quello che ne rimaneva, alcune centinaia di libri, opuscoli e periodici, sarebbe stato conferito, insieme con il suo archivio, dopo la sua morte, alla Biblioteca provinciale dei Cappuccini di Foggia. Mentre compilavo le schede del materiale librario, mi parlava di personaggi ed eventi di Foggia e provincia e, come spesso accadeva quando andavo a trovarlo, tirava fuori dai faldoni del suo archivio immagini, documenti e appunti... “Guarda questa fotografia, mi disse in un’occasione, fu scattata dopo l’incendio di una tipografia, o di una libreria, foggiana... Potrebbe risalire alla fine dell’Ottocento o all’inizio del Novecento... Se ti interessa, posso fartene avere una copia...” Di tanto in tanto, quando ero a Foggia, passavo a fargli visita e talvolta gli telefonavo. Quando nessuno rispondeva al telefono, chiedevo notizie al dottor Pasquale di Cicco, che spesso andava a trovarlo a casa o in ospedale quando era ricoverato. Circa due anni fa la sezione foggiana della Società di Storia patria per la Puglia organizzò un convegno con una mostra bibliografica e documentaria per 276 Michele Ferri ricordare Vincenzo Lanza a 150 anni dalla morte e mi fu chiesto di rivolgermi a Gaetano Spirito per reperire del materiale iconografico. Anche in quell’occasione egli fu prontamente disponibile e mi affidò alcune rare cartoline illustrate con il monumento a Vincenzo Lanza ubicato nell’odierna piazza Umberto Giordano. Ero sbalordito della sua memoria e della meticolosità con cui aveva ordinato il suo archivio, che consiste di decine di contenitori pieni di documenti, ritagli di giornali, piante topografiche, appunti manoscritti e dattiloscritti, illustrazioni, disegni e fotografie. Grazie alle sue ricerche egli ha raccolto i dispersi fili del passato intrecciandoli pazientemente in modo da tessere la tela della memoria e, al pari di ogni bravo archivista, ha ordinato, classificato, catalogato i documenti ritrovati e infine ha messo a disposizione degli studiosi i risultati del suo lavoro. Era particolarmente fiero della sua raccolta intitolata Immagini e testimonianze di vita e cultura foggiana, che, secondo le sue volontà, è attualmente custodita presso il Convento dell’Immacolata: un trenta faldoni, ognuno dei quali contiene un centinaio di tavole illustrate, complete di negativi, per un totale di oltre tremilacinquecento riproduzioni. La raccolta comprende, inoltre, indici e guide per la consultazione, errata corrige e aggiornamenti fino all’anno 2008. E ogni volume è corredato di una versione digitale su CDRom. Di grande interesse è la sezione archivistica riguardante il periodo che va dall’estate del 1943 al 1946 (riguardante i bombardamenti, le distruzioni, la rinascita civile, la difficile ricostruzione), che è stata più volte utilizzata per mostre e per pubblicazioni. Si possono citare la mostra documentaria Foggia e la Capitanata dall’8 settembre al 25 aprile, organizzata dall’Archivio di Stato di Foggia, dalla Fondazione Istituto “Gramsci” - Sezione di Foggia e dalla Provincia di Foggia e la monografia Paesaggio storico di Capitanata: l’estate del 1943 a Foggia: da una collezione di Gaetano Spirito, a cura di Lucio Masullo. Senza venir meno ai suoi doveri di scrupoloso educatore (aveva insegnato prima a Carlantino e in altri Comuni del Subappennino, successivamente a Orta Nova, a Troia, a Foggia) e di genitore, Gaetano Spirito aveva anche coltivato i suoi molteplici interessi culturali: numismatica, filatelia, cartoline illustrate, araldica, fotografia, toponomastica, le sue ricerche archivistiche e ricostruzioni di uomini e fatti della sua terra. Due esempi della sua devozione alla città di Foggia, dove risiedeva dalla fine degli anni ‘50, sono eloquentemente rappresentati dalle sue monografie: ... Ieri, Foggia... La storia nella fotografia e La storia di Foggia attraverso la toponomastica. Nella prima, apparsa nel 1981, sono presenti 130 tavole, ognuna delle quali è accompagnata da una didascalia e da una succinta notizia storica; è sufficiente il loro elenco a suscitare curiosità e interesse: Lavori del tronco ferroviario: Foggia Castellamare Adriatica; Per il tronco ferroviario: Foggia - Ancona; per Barletta e per Bovino; I Borboni per il tronco ferroviario Foggia - Castellamare Adriatica; La 277 Per ricordare Gaetano Spirito Locomotiva... e 40 buoi; Eroismo di ferrovieri; Molini «Rocco & La Capria»... Nella sua prefazione il canonico don Michele di Gioia osservava: “Non so se lodare di più, nel caro amico Spirito, il suo attaccamento alla nostra città o la sua passione nel raccogliere tante immagini e notizie riguardanti Foggia di ieri e di oggi. Nativo di Montesantangelo e inserito nella cittadinanza di Foggia, Gaetano Spirito, indotto forse dalle esigenze della sua missione di insegnante e di educatore, molto probabilmente, e quasi inconsciamente, si è dato alla ricerca e allo studio di quelle che furono un tempo le cose della nostra città, parlando di Foggia, della «nostra» città come se ne fosse cittadino dalla nascita. Premesso un panoramico quadro della storia della città, egli ci fa passare sotto gli occhi, come in una serie di diapositive, gli edifici, i monumenti, le piazze, le vie e tante cose che il logorio del tempo, il capriccio e l’incompetenza degli uomini hanno distrutto o inconsultamente alterato, onde oggi si mostrano con nostalgico rimpianto e si espongono quasi a pubblica deplorazione.” La seconda monografia, pubblicata nel 1998, costituisce un eloquente saggio del suo minuzioso lavoro di ricerca intorno alla toponomastica (e alla struttura urbana) della città di Foggia. Di ogni toponimo è addirittura accertato l’anno dal quale è presente; inoltre, i diversi toponimi, derivanti da nomi di personaggi e famiglie o derivanti da eventi storici, da riti ecclesiastici, da mestieri, da nomi di città, paesi e contrade rurali, da attività economiche, etc., sono corredati da essenziali annotazioni esplicative, cosicché il volume finisce con l’assumere il carattere di una vera e propria enciclopedia e di repertorio di personaggi illustri. Gaetano Spirito non smise mai di rivedere i suoi appunti, di controllare un dato o una notizia, di imparare qualcosa di nuovo. Nonostante la sua grave infermità, si riprometteva, fino a qualche anno fa, di riprendere e completare qualcuno dei suoi progetti, dei quali aveva da tempo ordinato le carte. Poi subì l’amputazione dell’altra gamba e a quel punto, forse, si diede per vinto, ma rimase lucido e sereno fino agli ultimi giorni, continuando a dare prova della sua stoica capacità di sopportare le sofferenze della vita e le ingiurie del tempo. 278 Michele Ferri BIBLIOGRAFIE DI GAETANO SPIRITO - Dal Passo Orta a Orta Nova. Cenni storici Foggia, Tipolitografia Leone, 1967 130 pp.; ill.; 23 cm. - Foggia e l’antico Convento dei Cappuccini nella storia e nella tradizione. In appendice: La Rivolta del 1647/48 e Sabato Pastore detto “il Masaniello di Foggia” S. l. [Foggia], s. n. t. [Gercap], s. d. [1986] 176 pp.; ill.; 22 cm. - ... Ieri Foggia... La storia nella fotografia Foggia, Amministrazione provinciale di Capitanata, Tip. Adriatica, 1981 300, [9] pp.; ill.; 130 tav.; 24 cm. - La storia di Foggia attraverso la toponomastica Prefazione di Nando Romano Foggia, Bastogi Editrice Italiana, Edistampa, 1998 315 pp.; ill.; [12] tav. f. t.; [1] c. rip.; 23 cm. - I tre monumenti a Giuseppe Rosati nella Villa Comunale di Foggia Foggia, Edizioni Centrografico Francescano, 1999 [15] pp.; ill.; [8] tav.; 21 cm. COLLABORAZIONI Carlo VILLANI Vocabolario domestico del dialetto foggiano Edizione curata da Carmine de Leo Poesie e ricordi di Antonio Lepore Fotografie di Gaetano Spirito Foggia, Editrice L’Ulivo, Tipolitografia Grafilandia, 1993 [contiene 43 fotografie e immagini] Lucio MASULLO (a cura di) Paesaggio storico di Capitanata: l’estate del 1943 a Foggia: da una collezione di Gaetano Spirito Foggia - Roma, Grafiche Gercap, 2003 [contiene 80 fotografie e immagini] 279 280 Loris Castriota Skanderbegh Il mio ricordo di Gaetano Spirito di Loris Castriota Skanderbegh Ci divideva più d’una generazione, ma ci univa la sana passione per la storia di Foggia. Ho conosciuto Gaetano Spirito proprio grazie a questa comune “mania” che inevitabilmente, prima o poi, fa incrociare le strade di chi si dedica alle ricerche d’archivio sul passato del capoluogo. A casa sua mi aveva portato il comune amico Gennarino Arbore, con il quale Spirito, a volte, si impegnava in surreali discussioni sulla validità di questa o quell’altra testi: vulcanico e veemente il primo, flemmatico ma non meno determinato il secondo, si confrontavano con ritmi diversi e a volte restavano ciascuno della propria idea. Spirito aveva contribuito ad alimentare la mia passione, con la sua grande determinazione, con la voglia di continuare le sue ricerche e di svelare piccoli “misteri” incontrati spulciando arte o recuperando immagini d’epoca nonostante il fisico e le energie non fossero più quelli di una volta. Ma, in ossequio al nome, lo spirito era sempre quello di una volta. Aveva migliaia di foto della Foggia che fu, Gaetano Spirito: documenti preziosi per ricordare scorci scomparsi della città, ma anche modi di abbigliarsi, mestieri, mezzi di locomozione, persino abitudini di vita quotidiana, feste ed eventi. Aveva catalogato tutto e messo su carta tanti appunti provenienti dalla sua prodigiosa memoria: pur avendolo conosciuto in età avanzata – e già “aggredito” dalla malattia che pian piano l’ha portato alla tomba – aveva una grande lucidità e, pur con qualche incertezza e talvolta lentamente, ricordava persone e avvenimenti lontani nel tempo. Aveva pubblicato contributi importanti alle “microstorie” di Foggia: testi utili per una “infarinatura” preziosa di conoscenza, densi di piccoli particolari che tantissimi ignorano e che qualcuno dei più anziani ha anche dimenticato. Particolarmente significativi, a mio parere, “Ieri Foggia... la storia nella fotografia”, che pubblicò nel 1981, e “La storia di Foggia attraverso la toponomastica” del 1998. Libri indispensabili a chi vuole farsi un’idea della vita passata di Foggia partendo dai particolari, per desumere visioni più generali. Aveva solo un rammarico, Spirito: dei tanti ricercatori locali che andavano a consultarlo, chiedendogli chiarimenti su un dato argomento o foto per corredare le proprie pubblicazioni, solo pochi hanno avuto la correttezza di citare il suo aiuto e di ringraziarlo. Ma la riconoscenza, si sa, è dote rara in questo mondo. 281 Il mio ricordo di Gaetano Spirito Ho anche difficoltà a recuperare un’immagine di Gaetano: tentai di intervistarlo in una delle ultime apparizioni in pubblico, in occasione di una mostra fotografica sui bombardamenti di Foggia tenuta a Palazzo Dogana, cui aveva contribuito, con il solito altruismo, prestando decine delle foto che aveva raccolto con pazienza, in anni di instancabile attività. Per me, era il giusto tributo ad un uomo che tanti meriti ha avuto e tanto ha fatto per favorire la divulgazione sulla storia di Foggia, ma lui era schivo e non amava comparire. Si schermì e disse che preferiva di no. Rispettai la sua riservatezza. Oggi, però, me ne pento: sarebbe rimasto un documento in più, su Gaetano Spirito, la sua viva voce a testimoniare quanto è bello dedicare la propria vita alla scoperta del passato, delle proprie radici, per poi trasmettere con generosità le proprie scoperte agli altri. 282 Recensioni 284 Michele Ferri Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica* di Michele Ferri Se si scorre l’elenco delle fonti orali documentarie utilizzate nel lavoro di Michele De Filippo, dall’inquietante titolo Oglio di cranio umano, ci si accorge che alcune di queste fonti risalgono agli anni Ottanta e in qualche caso ai primi anni Settanta del Novecento. Ciò dimostra la lunga e faticosa gestazione di una ricerca di questo genere, poiché, come afferma lo stesso autore nell’introduzione, i materiali raccolti, specie quelli attinenti ai rimedi magico-religiosi, alle formule e ai rituali della magia nera (malocchio, fattura, evocazione demoniaca) erano davvero “difficili da documentare e ancor più da registrare” per le remore degli informatori intervistati, ossia “per il blocco psicologico di chiusura contro cui questi devono combattere per potersi aprire e per il timore che un tale atto di trasgressione può comportare.” Non a caso, Anna Maria Tripputi, nella sua Presentazione, definisce l’intento dell’autore “coraggioso e arduo”. Oglio di cranio umano, oltre al gran numero di documenti, ha un pregevole corredo fotografico, con immagini nel testo e molte altre in bianco e nero o a colori fuori testo su tavole di carta patinata, illustranti amuleti e altri simboli apotropaici, gli strumenti impiegati nei diversi rituali magici, fasi e momenti di processioni religiose. Vi sono, infine, le riproduzioni delle principali piante utilizzate nella farmacopea tradizionale per la cura di malattie e disturbi a carico di vari organi. Un altro aspetto da mettere in evidenza è il ricco apparato bibliografico, che occupa otto pagine nella parte finale del libro e che offre, anche attraverso le note conclusive di ogni capitolo, precisi riferimenti su ogni singolo argomento per riscontri ed eventuali approfondimenti. D’altronde, il professor Michele De Filippo non è nuovo allo studio delle tradizioni popolari e alcuni dei temi trattati nel libro odierno sono presenti, almeno in parte, nei suoi precedenti lavori. Mi riferisco, in particolare, al secondo volume di Società e folclore sul Gargano, pubblicato nel 1989, in cui un capitolo era * Foggia, Claudio Grenzi Editore (Terzo millennio - Collana di studi della Provincia di Foggia), 2010, 458 pp.; ill.; tavv.; 24 cm. 285 Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica dedicato alla magia e ai riti propiziatori. Inoltre, fin dal 1972 apparve un suo contributo sui canti popolari di Monte Sant’Angelo nel primo quaderno del Centro di Studi garganici, cui collaborarono anche altri studiosi. Del tutto nuovo è, invece, l’ambito della ricerca sul campo nelle diverse aree garganiche; non più solo a Monte Sant’Angelo, Manfredonia e Mattinata, luoghi in cui l’autore ha risieduto e risiede, ma anche negli altri Comuni, come si rileva dall’elenco delle fonti orali cui ha attinto per documentare la ricerca e corredarla di formule augurali e propiziatorie, scongiuri, preghiere e invocazioni. Il libro investe contemporaneamente più argomenti, come suggerisce il suo sottotitolo: magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica; il lettore è, quindi, sollecitato da una pluralità di tematiche richiedenti riflessione e approfondimento. Al centro della ricerca mi pare che si possa collocare il tema della malattia, la malattia fisica e quella psichica, secondo la distinzione tradizionale, intesa come quello stato che provoca negli esseri viventi un’alterazione dell’equilibrio psico-fisico e una compromissione più o meno grave delle funzioni vitali. L’autore introduce il tema della malattia all’inizio del terzo capitolo e non manca di sottolineare il terribile impatto che essa solitamente aveva quando colpiva un componente della famiglia, poiché sconvolgeva e metteva in crisi l’intero nucleo familiare e, ricorda l’autore, talvolta la malattia era attribuita a “una sorta di punizione divina per i peccati commessi dal singolo o dalla collettività” e altre volte ancora si riteneva che fosse stata provocata da malefici di origine umana (il malocchio, una maledizione, una fattura). Nel primo caso, il rimedio poteva essere quello di espiare le proprie colpe attraverso la confessione e i comuni atti penitenziali e, in alternativa o in aggiunta, attraverso la partecipazione a processioni, novene, pellegrinaggi. Nel secondo caso, ci si sottoponeva anche ai riti della bassa magia cerimoniale. L’autore afferma che il ricorso alla medicina ufficiale era sporadico e che era previsto solo per patologie gravi di natura organica. Negli altri casi, quindi, l’ammalato e la sua famiglia facevano ricorso alla medicina popolare, che ovviamente non consisteva solo di pratiche e rimedi magico-religiosi; vi era anche l’uso di piante medicinali, che non ha nulla di magico. A questo proposito, va fatta una netta distinzione tra le ricette della medicina popolare che prevedono l’impiego di piante officinali aventi proprietà terapeutiche e i rimedi magico-religiosi propri della magia cerimoniale. Prima di entrare nel vivo della sua ricerca, l’autore delinea una descrizione fisica della montagna garganica, di cui è messo in risalto l’isolamento geografico, dovuto alla sua particolare orografia, caratterizzata da enormi gradinate a strapiombo, specie nella sua parte meridionale, e dal persistere, almeno fino agli anni Trenta del Novecento, di vaste zone paludose e malariche soprattutto a Sud e a Ovest. Se a ciò si aggiungono le difficoltà nei collegamenti, anche per la mancanza di strade, si comprende come il Gargano si presentasse, fino al recente passato, come una vera e propria isola tra il mare e la piana del Tavoliere. 286 Michele Ferri L’isolamento geografico del promontorio garganico, insieme con varie cause storiche, politiche, economiche e sociali, ha determinato condizioni di immobilismo sociale e di arretratezza culturale. Il Gargano si presentava, fino al Sette Ottocento, estremamente frammentato quanto alla natura della proprietà fondiaria ed era composto, come osserva l’autore, “di limitate proprietà allodiali, di difese e parchi di vaste proporzioni, di una consistente proprietà ecclesiastica e di feudi di grandi, medie e piccole casate.” Nel Gargano, tranne Manfredonia e Vieste, che erano università con giurisdizione regia, tutte le altre erano soggette alla giurisdizione baronale e questi feudatari - come si richiama nel libro - erano pronti a imporre gabelle e limitazioni di ogni tipo, che erano lesive degli interessi delle università e perfino delle prerogative regie. Anche il governo centrale, d’altro canto, era vessatorio nei riguardi delle università, sui bilanci delle quali spesso gravavano i “donativi” imposti a favore della famiglia reale in alcune speciali ricorrenze o esose rate di ammortamento dei debiti contratti dal governo del Re o le spese per il mantenimento delle truppe regie dislocate nel territorio comunale. La popolazione era di fatto esclusa dalla rappresentanza politica o amministrativa, dal momento che “la gestione del potere locale era nelle mani delle poche famiglie nobili, per lo più legate da vincoli di parentela, che si avvicendavano nelle cariche comunali più importanti”. Al fine di illustrare le condizioni di precarietà in cui vivevano le popolazioni garganiche, l’autore cita una pagina di Giuseppe Maria Galanti, che voglio qui riportare: «Oltre le decime feudali, deve il contadino pagare le decime ecclesiastiche, cosicché appena per lui rimane la metà del suo ricolto. Qui non finiscono gli aggravi: altri ve ne sono che interamente l’assorbiscono. Egli deve pagare i pesi dello stato, con tasse arbitrarie sopra i beni e sopra la persona. Deve alimentare i monaci mendicanti, che anch’essi partecipano di quel pane che deve somministrare ai suoi figli [...]. Egli deve dar da vivere a molti esseri che non lavorano, al governatore, all’assessore, all’agente del feudo, al suo dottore. Il suo destino è di essere sempre oppresso e ingannato».1 La ripartizione delle terre demaniali ed ex feudali o di quelle provenienti dalle soppressioni delle opere pie e dei conventi, nel decennio francese e nel periodo postunitario, non andò mai a vantaggio della popolazione contadina, ma favorì sempre gli interessi degli ex feudatari o del ceto borghese, e perfino la liquidazione del demanio della Dogana delle pecore si risolse nell’acquisizione di vaste proprietà da parte dei locati abruzzesi, proprietari delle greggi che venivano a svernare nelle pianure del Tavoliere e negli altipiani del Gargano. Anche nel periodo postunitario disoccupazione, miseria, carenze alimentari, 1 G. M. GALANTI, Descrizione dello stato antico ed attuale del Contado di Molise con un saggio storico sopra la costituzione del Regno, Napoli, Società Letteraria e Tipografica 1781. 287 Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica assenza di servizi igienici e sanitari, gravi malattie continuarono a funestare il Gargano, al pari di altre aree depresse del Mezzogiorno e del resto del paese. La situazione peggiorò dopo il 1887, in seguito all’adozione di politiche protezionistiche a vantaggio delle industrie del Nord e alla rottura commerciale con la Francia, verso la quale era indirizzata una buona parte delle esportazioni agricole meridionali. L’economista Bruno Caizzi scrisse che il protezionismo si rivelò oneroso per i consumatori tutti e in particolare per i più poveri: «Ottenuta la protezione industriale ed assicuratasi una posizione di incontrastato predominio economico su tutta la penisola, il Nord offrì al Mezzogiorno il dazio sul grano. Ma poiché nel complesso delle province meridionali solo pochi grandissimi proprietari fondiari producevano grano in eccedenza ai bisogni domestici, di essi soltanto fu il beneficio del rialzo del prezzo del pane. E il dazio sul frumento peggiorò le condizioni d’esistenza dei braccianti, costretti a pagare un nuovo tributo ai grandi proprietari e peggiorò in pari tempo le condizioni di tutto il Mezzogiorno agricolo, già tenuto a pagare tanti tributi alle industrie settentrionali».2 Bisogna però riconoscere, per amore di verità, che gli interessi industriali del Nord trovarono un forte alleato in gran parte della classe politica meridionale, che si distinse negativamente, oltre che per l’inconcludente retorica e il ricorrente vittimismo, per l’inconsistenza della sua attività politica e parlamentare, spesso intrisa di personalismo, clientelismo e trasformismo, come disse, tra gli altri, Francesco Compagna, che parlò dell’antimeridionalismo dei meridionali.3 Se nella parte introduttiva del libro l’autore si sofferma sulla realtà socioeconomica e storica del Gargano lo fa non solo per descrivere il territorio nel quale sono nate o hanno attecchito e si sono sviluppate le tradizioni popolari costituenti l’oggetto della ricerca, ma anche, e soprattutto, per poter stabilire un rapporto tra ambiente socio-economico e tradizioni folcloristiche. Si pensi, per esempio, al persistere nelle comunità garganiche, fin dall’antichità, di credenze, tabù, rituali, formule magiche e pratiche superstiziose. Non a caso, nel secondo capitolo si parla di paura e incertezza del domani e con ciò l’autore vuole esplicitamente suggerire che «la miseria, la fame, le malattie, le epidemie, le guerre, i soprusi del baronato ed il mal governo locale e centrale resero le popolazioni garganiche più insicure e disponibili a credere al soprannaturale e a manifestare la propria religiosità col porre santini nelle fondazioni della casa, negli indumenti personali e nel corredo...»4 La parte centrale della ricerca raccoglie e passa in rassegna i rimedi della medicina popolare, ed elenca le preparazioni terapeutiche a base di erbe, e poi i 2 B. CAIZZI, Introduzione all’Antologia della questione meridionale [1973], in Meridionalismo critico: Scritti sulla questione meridionale 1945-1973, Manduria - Bari - Roma, Piero Lacaita Editore, 1998. 3 cfr. F. COMPAGNA, Labirinto meridionale (Cultura e politica nel Mezzogiorno), Venezia, Neri Pozza Editore, 1955. 4 M. DE FILIPPO, Oglio di Cranio Umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica, Foggia, Claudio Grenzi Editore, 2010. 288 Michele Ferri presunti rimedi ricadenti nell’ambito della magia cerimoniale usati per curare le più disparate affezioni, dall’assenza di latte in una puerpera alla ciste sublinguale nei bambini in tenera età, dall’erisipela (malattia infettiva e contagiosa della pelle) all’idrofobia, da un raro disturbo psichiatrico quale la licantropia al comune mal di pancia. Il lato inquietante di buona parte di questi rimedi consiste nel ricorso a operatori che, a cuor leggero, mescolano il sacro con il profano, alternando a preghiere, suppliche e invocazioni religiose, la recita di scongiuri e di formule magiche che, si riteneva, avessero il potere di produrre effetti prodigiosi e guarire, come per incanto, il povero malcapitato. Vi è sicuramente in questo la sopravvivenza di un pensiero magico primitivo che contemplava la possibilità di condizionare il corso degli eventi o di poter modificare la realtà esterna ai propri voleri e desideri. La magia incantatoria, per esempio, pretendeva (e pretende) di produrre un determinato effetto grazie al canto o alla recitazione salmodica di formule stereotipe. La magia imitativa, invece, si fonda sul principio simpatetico, secondo il quale il simile produce il simile; pertanto, in periodi di siccità, il gesto dello stregone che versa acqua sul terreno ha il fine di produrre la pioggia. In tema di malattia e medicina popolare, si ritiene che il contatto con un corpo freddo, per esempio con una rana, avrebbe la virtù di contrastare gli stati febbrili e ripristinare la giusta temperatura nel malato. Sia detto per inciso, per molti studiosi la pratica omeopatica si basa sul medesimo principio. Residui di una visione magica del reale sono presenti nelle società tribali extraeuropee e anche, dove più dove meno, in molte comunità rurali europee (e non solo in queste). Ma non bisogna ritenere, osservava l’antropologo Malinowski, che gli individui appartenenti a culture primitive o premoderne giungano a confondere l’ambito della conoscenza razionale con quello della magia: «L’accensione del fuoco, l’arte di costruire canestri, la produzione di utensili di pietra, l’arte di intrecciare corde e stuoie, la cucina e tutte le attività domestiche minori, pur essendo estremamente importanti, non sono mai associate alla magia. Alcune di esse diventano il centro di pratiche religiose o della mitologia, come, per esempio, il fuoco o la cucina o gli utensili di pietra; ma la magia non è mai collegata alla loro produzione. Il motivo di ciò è che un’abilità comune, diretta da una solida conoscenza è sufficiente per mettere l’uomo sulla strada giusta...»5 Al contrario, cito ancora Malinowski, «la magia è prevedibile e la si incontra generalmente ogni volta che l’uomo si trova di fronte ad una lacuna incolmabile, ad uno iato nella sua conoscenza o nei poteri di controllo concreto, e tuttavia deve proseguire nella sua attività, ossia quando l’uomo è o, più semplicemente, si sente 5 B. MALINOWSKI, Il ruolo della magia e della religione, in D. Zadra, Sociologia della religione: testi e documenti, Milano, Hoepli, 1969 [tratto da B. Malinowski, Culture, in Encyclopaedia of the Social Sciences, vol. IV, New York, Macmillan, 1931]. 289 Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica abbandonato dalla sua conoscenza, disorientato dai risultati della sua esperienza, incapace di utilizzare alcuna abilità tecnica efficace...»6 Si può spiegare così, anche nella cultura tradizionale garganica, la sopravvivenza di superstizioni e di pratiche magiche, e in particolare di rituali magicoreligiosi per la cura di malattie e malanni. Si tratta di fenomeni imputabili allo stato d’ansia associato con la paura e l’incertezza del domani e, in una certa misura, anche all’inesistenza, specie in tempi remoti, di strutture sanitarie e di moderne e appropriate terapie mediche. Tuttavia, si comprende, come lo stesso Michele De Filippo suggerisce, che il ricorso a formule e rituali magico-religiosi può solo in parte essere giustificato con l’angoscia per l’insorgere di una malattia e per la carenza di servizi sanitari o di efficaci cure mediche. In realtà, i pazienti che si rivolgevano al guaritore si ritenevano vittime di sortilegi e di influenze negative e accusavano quello che l’autore definisce come «un malessere riconducibile al malocchio e alla fattura, che si manifestava con una condizione fisica debilitata, accompagnata da sonnolenza, spossatezza, ipocondria, dolor di testa persistente ed insostenibile, la cui sede occupava il più delle volte la fronte e le cavità orbitali con nausee, vertigini e vomito...».7 Il paziente è convinto di essere vittima del malocchio, ovvero di una fascinazione, un fenomeno ben conosciuto in tutte le regioni meridionali. Ernesto De Martino, in Sud e magia, dopo aver descritto tale stato di prostrazione, afferma quanto segue: «La fascinazione comporta un agente fascinatore e una vittima, e quando l’agente è configurato in forma umana, la fascinazione si determina come malocchio, cioè come influenza maligna che procede dallo sguardo invidioso (onde il malocchio è anche chiamato invidia), con varie sfumature che vanno dalla influenza più o meno involontaria alla fattura deliberatamente ordita con un cerimoniale definito, e che può essere - ed è allora particolarmente temibile - fattura a morte. L’esperienza di dominazione può spingersi sino al punto che una personalità aberrante, e in contrasto con le norme accettate dalla comunità, invade più o meno completamente il comportamento: il soggetto non sarà più allora semplicemente un fascinato, ma uno spiritato, cioè un posseduto o un ossesso, da esorcizzare».8 In questo caso, le conseguenze psicologiche di uno stato di malattia organica o comunque di una grave alterazione dell’equilibrio psico-fisico conducono a quella che De Martino chiama la perdita della presenza, cioè una perdita parziale o totale di identità a livello personale e comunitario. Da qui deriva la funzione protettiva dei rituali magici nelle comunità lucane, di cui si occupò De Martino, o nelle comunità garganiche, di cui parla Michele De Filippo. Da qui il ricorso ai tanti mezzi di difesa preventiva, quali il cornetto o il gobbo tenuti in tasca o esibiti 6 B. MALINOWSKI, op. cit. M. DE FILIPPO, op. cit. 8 E. DE MARTINO, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 1959. 7 290 Michele Ferri come ciondoli, il ferro di cavallo sulla porta di casa, le corna di bue sul cancello della masseria o, infine, sempre con funzione apotropaica, il santino, i chiodi saldati o legati in croce, la pietruzza prelevata dalla grotta di San Michele, etc. Il ricorso a rituali magico-religiosi, l’impiego di strumenti apotropaici e in genere la diffusione di tabù, credenze e pratiche superstizione segnalano la presenza di ansia e di insicurezza e indicano il persistere di immobilismo sociale e di arretratezza culturale nella società garganica, una società che ad Eisermann e Acquaviva era apparsa dominata dal familismo amorale, inteso come assenza di ethos sociale, come qualcosa che antepone in ogni caso gli interessi esclusivi della propria famiglia a quelli della società, e dall’individualismo, un «atteggiamento questo» - cito testualmente - «che si traduce in una introversione profonda, legata ad esperienze ancestrali, al pessimismo, al sospetto, all’insicurezza vitale...»9 La prima inchiesta sociologica di Eisermann e Acquaviva partì nel 1965 e ci si potrebbe chiedere se e in quale misura, a distanza di oltre quarant’anni, la società garganica sia oggi cambiata nei suoi caratteri culturali e nei suoi atteggiamenti sociali. Varie altre inchieste sono state condotte nell’area garganica nei decenni successivi, in particolare nel 1978 e nel 1988, e, secondo Paola Maria Fiocco, che condusse l’inchiesta del 1988, “certamente molte cose sono accadute nel Gargano” e si pone lei stessa la domanda se il cambiamento intervenuto sia “significativo ai fini della valutazione di alcuni punti chiave del comportamento morale” chiedendosi, inoltre, quali novità si fossero verificate nel comparto delle valutazioni dei comportamenti sessuali e familiari e se si fosse prodotto un varco nelle pratiche superstiziose. La sua risposta è dubitativa poiché, nonostante i mutamenti che sono intervenuti, non si avvertiva ancora un comportamento profondamente diverso rispetto ai dati della prima inchiesta. Per esempio, al quesito “Si esercitano pratiche superstiziose nella sua famiglia?” la percentuale delle risposte affermative date dal campione degli intervistati passa dal 19,3 del 1965 al 15,8 del 1988, un dato questo che sostanzialmente registra il persistere di tali pratiche.10 E non penso che siano intervenuti sensibili miglioramenti negli ultimi decenni, riguardo al permanere di pratiche e credenze superstiziose o di fenomeni quali il familismo e l’individualismo. Mi siano consentite due considerazioni finali. La prima è che questi fenomeni persistono, è vero, nelle campagne e nelle tradizionali culture arretrate, ma sono diffusi anche altrove. Scriveva, infatti, Alfonso Maria Di Nola nel 1993: «Per ritornare all’enigmatica persistenza delle superstizioni nella nostra epoca, dobbiamo rilevare che ci troviamo ad attraversare un drammatico periodo di transizione da una società prevalentemente fondata sull’irrazionale a una società che pretende di 9 G. EISERMANN e S. ACQUAVIVA, La montagna del sole. Sottosviluppo, mass-media e cambiamento sociale nel Gargano, Milano, Edizioni di Comunità, 1971. 10 P. M. FIOCCO, Il Gargano. Un’inchiesta fra due millenni: 1965-2001, Milano, Franco Angeli, 1999. 291 Michele De Filippo. Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica essersi formata secondo gli schemi della scienza e della ragione, che evidentemente escluderebbero tali persistenze. Tuttavia, dalle ricerche condotte sul campo in Italia e in molti altri paesi europei risulta la insistente immagine di uno schizoidismo culturale, poiché accanto alla mentalità di matrice empirica e scientifica sussiste una mentalità che gli antropologi francesi designarono, già cinquant’anni fa, “magica”. [...] Il male irrazionale è più sottile e, ai giorni nostri, si insinua nella folla anonima che vive nelle città e nelle campagne.»11 La seconda considerazione, e concludo, riguarda il familismo amorale e l’individualismo. Anche questi fenomeni, che ieri erano evidenti a livello macroscopico nelle aree meridionali, alimentati dal deprecato clientelismo politico, si diffondono, ormai, in nuove forme nell’intero paese, dove stenta a farsi strada l’idea del merito quale fattore di crescita civile e di promozione sociale. 11 A. M. DI NOLA, Lo specchio e l’olio. Le superstizioni degli italiani, Roma - Bari, Laterza, 1993. 292 Paolo Iagulli Lévi-Strauss Claude, Lezioni giapponesi. Tre riflessioni su antropologia e modernità* di Paolo Iagulli Considerato il maggiore antropologo culturale del Novecento, Claude LéviStrauss è stato anche, probabilmente, il maggiore esponente dello strutturalismo, un movimento filosofico e, più in generale, culturale che in particolare negli anni sessanta e settanta del secolo scorso ha caratterizzato profondamente il panorama intellettuale non solo francese, ma direi internazionale. Insieme al ‘padre’ di tale movimento, il linguista de Saussure, allo psicoanalista Lacan, allo storico del pensiero Foucault e al filosofo Althusser, Lévi-Strauss ha infatti condiviso, pur nella diversità delle discipline di riferimento, quella peculiare ‘aria di famiglia’ i cui elementi comuni hanno contribuito a delineare non solo, almeno in alcuni casi, una nuova metodologia scientifica, ma anche una nuova visione del mondo. Rilevanti correnti filosofiche come l’idealismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo e il pragmatismo si sono, infatti, a un certo punto trovate di fronte a un’alternativa per certi versi radicale. Basterebbe pensare allo statuto di ‘filosofia senza soggetto’ che lo strutturalismo, in particolare di Levi-Strauss, ha finito con il rappresentare, certo in ciò preceduta dalle riflessioni dei cd. maestri del sospetto, Marx e Freud. Anche nella prospettiva teorica di Lévi-Strauss, infatti, il primato del soggetto viene sostituito dal primato della struttura: sono le ‘strutture inconsce’ che, governando le società, determinano gli individui, i quali non agiscono, bensì sono agìti dalle condizioni materiali (Marx) ovvero appunto, e in senso più stretto, dall’inconscio, ‘privato’ (Freud) o ‘collettivo’ (Lévi-Strauss), la cui impostazione sembra da questo punto di vista ricordare Jung più che Freud). Per studiare l’uomo e la società, afferma l’antropologo francese, bisogna cogliere quegli elementi di cui i soggetti non hanno consapevolezza, e che le società primitive sembrano poter ‘svelare’ meglio rispetto a quelle moderne. Lo studio delle prime appare dunque funzionale all’analisi, e alla critica, delle seconde. Ché anzi, per Lévi-Strauss, in un certo senso, la conoscenza antropologica diventa il baluardo alle derive della mo- * A cura di L. Scillitani, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010. 293 Lévi-Strauss C., Lezioni giapponesi. Tre riflessioni su antropologia e modernità dernità. Le critiche da lui condotte circa le ‘presunzioni’ del modello occidentale con la volontà di colonizzazione di quello orientale e il rapporto instauratosi tra l’uomo e la natura (l’ambiente), ne sono solo due esempi. Sembra peraltro presente, al riguardo, in Lévi-Strauss una certa vocazione profetica avente a oggetto la libertà umana come mera illusione (il soggetto moderno, apparentemente sempre più libero, finisce in realtà spesso dominato dalla, e vittima della, natura) piuttosto che quello snobismo intellettuale che pure gli è stato imputato da alcuni suoi critici. Queste, in modo così sommario delineate, sono evidentemente solo alcune delle caratteristiche della complessa riflessione filosofico-antropologica di LéviStrauss, puntualmente ricordate da Ugo Fabietti, ordinario di Antropologia culturale presso l’università degli Studi di Milano Bicocca in un incontro tenutosi a Foggia martedì 12 aprile 2011 presso la Facoltà di Giurisprudenza. L’occasione è stata la discussione del libro qui presentato, che ripropone in versione definitiva quella che undici anni fa aveva costituito la prima (sia pure provvisoria) traduzione in lingua occidentale di tre Lezioni che Lévi-Strauss aveva tenuto a Tokio tra il 15 e 16 aprile 1986 sui rapporti tra l’antropologia e la modernità; una traduzione, curata già in quella prima versione da Lorenzo Scillitani, associato di Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi del Molise, che appariva allora come adesso di estremo rilievo, se si considera che questo importante contributo di Lévi-Strauss, scomparso centenario un paio di anni fa, non è stato ancora pubblicato nell’originale francese. Rinviando caldamente alla lettura del testo, ci si può qui, in conclusione, limitare a evidenziare che, se la modernità costituisce l’oggetto delle Lezioni dell’antropologo francese (L’anthropologie face aux problémes du monde moderne è il loro titolo originario), l’attualità appare certamente la loro cifra caratterizzante. Basti pensare, ad esempio, alle riflessioni dedicate, nella prima parte della seconda Lezione, alla bioetica. Anche in questo caso lo studio delle società primitive può avere, secondo Lévi-Strauss, la funzione di gettare una luce sulle società contemporanee; ebbene, in estrema sintesi, e limitandoci a un solo passaggio delle sue argomentazioni, l’autore sottolinea come la tendenza degli antropologi, chiamati a dire la loro insieme ad altri specialisti in sede di commissioni e organismi di vario genere, sia quella, in virtù delle loro conoscenze evidentemente basate sulle società primitive, di opporsi alla «fretta eccessiva di legiferare, di permettere questo e proibire quello» (p. 102 del testo). Nello specifico, qui Lévi-Strauss affronta il tema delle tecniche di fecondazione assistita; ma certo il suggerimento degli antropologi, che Lévi-Strauss sembra fare proprio, suona di una straordinaria saggezza, se solo si pensa al modo cinicamente strumentale con cui il nostro Legislatore sta per affrontare i passaggi decisivi in ordine al disegno di legge sul cd. testamento biologico, che avrebbe l’effetto, così come si presenta attualmente, di vanificare, in realtà, la volontà e il contenuto delle disposizioni di chi volesse a esso fare ricorso. 294 Gli autori 296 Gli autori FEDERICA ALBANO, nata a Foggia nel 1986 e residente a Lucera. Laureata in Filologia, Letterature e Storia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Foggia sviluppando una tesi in Storia della storiografia dell’età moderna. FRANCESCO ALTAMURA è nato a Bari nel 1982. Collaboratore della Fondazione Gramsci di Puglia, ha conseguito presso l’Università degli Studi di Bari il titolo di dottore di ricerca in Storia dell’Europa Moderna e Contemporanea discutendo una tesi sui sindacati fascisti dell’agricoltura in Puglia e Lucania. LEONARDO P. AUCELLO è nato e vive a San Marco in Lamis, sul Gargano. Insegna Lettere nelle scuole superiori. Coltiva da anni la passione per la poesia dialettale con la pubblicazione di alcune raccolte di poesie in vernacolo garganico, tra cui L’occhie mariole (Levante Editori, Bari, 2005). Ha pubblicato, inoltre, alcuni volumi sulla cultura e la tradizione popolare del Gargano, come Il Palio delle messi (Levante Editori, Bari, 1998); Il bracciante e il latifondista (Levante Editori, Bari, 2002. Alcuni suoi Saggi sono apparsi su alcune riviste specializzate. Di recente ha dato alle stampe il volume La donna dei piccioni – Racconti, incontri pubblici, testimonianze, articoli, recensioni e ricordi 2004-2007 (Edizioni Starale 3, San Marco in Lamis, 2008). È iscritto da oltre venti anni all’Ordine dei Giornalisti-Pubblicisti con un ampio ventaglio di articoli di varia natura su riviste e giornali locali e regionali. LORIS CASTRIOTA SKANDERBEGH. Nato a Foggia il 10.8.1964, è giornalista professionista e si occupa da sempre di Cultura e di Sport. Redattore del quotidiano foggiano “l’Attacco” e direttore di testate giornalistiche online, è responsabile per la comunicazione delle delegazioni foggiane del FAI e dell’Archeoclub e di diverse società sportive, oltre che della Fondazione Banca del Monte. Si occupa di ricerche sulla storia di Foggia, sull’araldica e sulla genealogia. MICHELE DELL’ANNO è nato a Foggia il 29 luglio 1949. Laureato in Lettere e Filosofia all’Università Cattolica di Milano, è docente di educazione musicale in pensione, giornalista, scrittore e musicista. Con la moglie Giustina Ruggiero ha fondato nel 1986 l’Associazione “Cultura e Ambiente” con lo scopo di recuperare e divulgare Storia, storie e tradizioni popolari della Daunia. In duo, fisarmonica e voce, “raccontano” la storia di Foggia, dalla religiosità popolare alla transumanza, ai cibi, agli usi e costumi, al ciclo delle feste dell’anno. È autore di varie pubblicazioni sugli stessi temi, e su personaggi del panorama musicale locale. Di grande valore documentale il volume “Con la scusa delle 297 Gli autori canzonette…” (2007), dedicato al musicista ed editore foggiano Ottavio De Stefano. Tra i volumi del passato “Cinema di Carta”, “Foggia un’antica traccia”, “Totò sui muri”, “Saperi e sapori”. È tra i fondatori dell’Università del Crocese di Foggia. ALESSANDRO DE TROIA, nato a Lucera nel 1988, laureato in Informatica per il Management. Attualmente è iscritto alla Laurea Magistrale in Scienze di Internet. Da sempre appassionato di storia, nel 2007 entra nell’associazione storico-culturale Imperiales Friderici II di Foggia che si occupa di ricostruzione storica e archeologia sperimentale con particolare riferimento al periodo duecentesco e svevo. MAURIZIO DE TULLIO è nato nel 1958 in Brasile. È dipendente della Provincia di Foggia, dal 1988; dal 2009 collabora alla realizzazione della “Meravigliosa Capitanata” per la Biblioteca Provinciale. Giornalista dal 1976, ha lavorato nei quotidiani (“Qui Foggia” e “Quotidiano di Foggia”), nelle radio (“Radio Foggia 101”, “Teleradioerre” e “Radio Luna”) e nelle televisioni private (“Teleradioerre” e “Videosud”). Ha fondato e diretto diverse testate (“Agorà”, “La Città Bazar”, “Exploit”, “il Controverso”, www.ilvademecum.it) e dalla fine del 2009 dirige la rivista “Diomede. Tra passato e futuro”. È autore dei volumi “Ralph De Palma. Storia dell’uomo più veloce del mondo che veniva da Foggia” (2006) e “Dizionario Biografico di Capitanata - 1900-2008” (2009) ed ha curato numerosi annuari e guide turistiche (“Vademecum della provincia di Foggia” 1995, 1996, 1998, 2000; “Tuttogargano” 1998 e 1999; “Daunia da favola” 1995, “CapitanLibri” 2005 e “Made in Gargano” 2012). A breve uscirà la nuova aggiornatissima e arricchita edizione del “Vademecum della provincia di Foggia”. GIACOMO CIRSONE, nato a Cerignola (FG) nel 1982. Consegue la Laurea Specialistica di II Livello in Archeologia presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Attualmente frequenta i corsi della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Tra il 2002 ed il 2005, ha preso parte a numerose campagne di scavo e ricognizioni sul territorio con l’Università di Foggia; ha seguito inoltre numerosi cantieri archeologici d’emergenza nell’ambito dell’area urbana di Roma, ed in Basilicata ha diretto tra il 2008 ed il 2009 il cantiere di scavo tardomedievale nella Chiesa Madre “S. Maria Assunta” a Laurenzana (PZ). Ha pubblicato: Indagini archeologiche nella Chiesa Madre “S. Maria Assunta in Laurenzana (PZ). Relazione di Scavo, 2010; Addendum. Intervento 2009, 2010 (on line sul sito www.archeologiamedievale.it). GAETANO CRISTINO (Foggia, 1946). Operatore culturale e critico d’arte. Laureato in Giurisprudenza, ha lavorato per il Centro Studi Sociali della Società Umanitaria di Milano di cui è stato responsabile, negli anni Settanta, del Centro di Servizi Culturali di Foggia. È stato poi responsabile, sempre a Foggia, di uno dei Centri 298 Gli autori di Servizio e Programmazione Culturale della Regione Puglia. Per questo Ente ha diretto, dal 1994 al 2005, l’Ufficio provinciale di Foggia del Settore Pubblica Istruzione. Ha fatto parte del Comitato Tecnico Scientifico per la valutazione delle opere d’arte dell’Amministrazione Provinciale di Foggia. Accanto all’attività di promozione culturale e sociale ha sempre svolto attività pubblicistica su quotidiani e periodici. È autore di numerosi saggi e monografie dedicati prevalentemente ad importanti artisti italiani contemporanei di area meridionale. Ha curato molte mostre e rassegne d’arte ed ha realizzato il percorso espositivo della Galleria provinciale d’arte moderna e contemporanea di Foggia, di cui è stato anche consulente scientifico. Suoi scritti sono apparsi su importanti riviste d’arte contemporanea, tra cui “Cahiers d’art”, “World of Art”, “Segno”, “Arte e Carte”. Ha curato per molti anni una rubrica di segnalazioni librarie sulla rivista “Sudest quaderni”. Cura con Guido Pensato il “Fondo Alfredo Bortoluzzi” della Fondazione Banca del Monte di Foggia. Fa parte dell’Associazione “Spazio 55” per l’arte contemporanea. PASQUALE DI CICCO (Maddaloni, 1930) ha diretto l’Archivio di Stato di Foggia e la sezione di Archivio di Stato di Lucera dal 1959 al 1994. È autore di molte pubblicazioni. Tra i suoi ultimi lavori: Il Molise e la transumanza; La Reale Società Economica di Capitanata (con Isabella di Cicco); I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (con Tiziana di Cicco); Il Giornale Patrio Villani (1801-1860); Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara; Documenti di interesse molisano nell’Archivio di Stato di Foggia. Gli atti della Suddelegazione dei Cambi (secc. XVIII-XIX). MICHELE FERRI, nato a Manfredonia nel 1950, è laureato in Lingue e letterature straniere moderne. Insegna lingua e civiltà inglese al Liceo scientifico statale “Galilei” di Manfredonia ed è stato docente a contratto per l’insegnamento di Laboratori, seminari e lezioni di fonetica comparata presso la SSIS di Puglia. Socio ordinario della Società di Storia patria per la Puglia e del Centro di documentazione storica di Manfredonia, è impegnato in ricerche biografiche, bibliografiche e storico-culturali (riguardanti, in particolare, l’editoria in Capitanata) e ha finora pubblicato vari saggi e monografie. MICHELE GALANTE, nato a San Marco in Lamis, vive attualmente a Foggia. Ha svolto per molti anni una intensa attività politica come dirigente provinciale e regionale del Pci, Pds e Ds, ricoprendo diversi incarichi pubblici: consigliere comunale, consigliere provinciale, sindaco di San Marco in Lamis e deputato al Parlamento nella X Legislatura. È autore di diversi pubblicazioni tra le quali: Criminalità e illegalità in capitanata (1992), Parco nazionale del Gargano. Il difficile avvio (1996), L’eccidio ignorato. San marco in Lamis: 8 marzo 1905 (2000), Le belle bandiere (2002), Bibliografia degli iscritti di/su Pasquale Soccio (2004), Il filo rosso di Puglia. Ritratti di Capitanata (2007), Dalla Repubblica all’assassinio Moro. Storia elettorale di 299 Gli autori capitanata (2009). Insieme con la sorella Grazia ha pubblicato il Dizionario del dialetto di San Marco in Lamis (2006). Ha inoltre al suo attivo numerosi saggi sulla storia dei partiti politici in Capitanata e sul brigantaggio. FRANCO GALASSO, nasce a Foggia nel 1926. Galasso è legato alla sua città con ‹‹l’amore del figlio che non dimentica». Si laurea in Medicina a Napoli. Frequenta la scuola allievi ufficiali di Sanità a Firenze e presta servizio da ufficiale a Bari. Si dedica alla libera professione di medico di famiglia. Cattolico praticante, frequenta la FUCI e i Laureati Cattolici insieme ad un gruppo di amici, con i quali condivide gli stessi ideali, sotto la sapiente guida di un “sacerdote luminato”, don Renato Luisi. Democristiano sin dalla nascita dello “scudocrociato”, dedica con entusiasmo il suo impegno politico a quel partito che, nella città di Foggia, aveva un importante punto di riferimento nell’onorevole Aldo Moro, maestro di vita e di politica che segna la formazione di gran parte di quella generazione. Più volte consigliere e assessore provinciale, Franco Galasso è stato Presidente dell’Amministrazione Provinciale di Foggia dal 1971 al 1976. Dal 1962 al 2000, è stato più volte eletto Presidente provinciale del Coni. FRANCESCO GIULIANI (San Severo, 1961) insegna Italiano e Latino in un liceo ed è docente a contratto di Letteratura italiana contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Foggia. Nel corso degli anni ha dedicato, tra l’altro, lavori a Verga, a Carducci e ai Futuristi; si è poi soffermato sui rapporti letterari tra la Puglia e il quadro nazionale, con alcuni densi volumi, tra cui Viaggi letterari nella pianura (2002), Occasioni letterarie pugliesi (2004), Viaggi novecenteschi in terra di Puglia (2009) e Nel Nord della Puglia (2011). Ha curato l’edizione di testi di Umberto Fraccacreta, Mario Carli, Antonio Beltramelli e Alfredo Petrucci. PAOLO IAGULLI, laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, e dottore di ricerca in Diritti dell’uomo presso l’Università degli Studi di Palermo, insegna Sociologia generale e Sociologia dei processi culturali presso l’Università degli Studi di Bari, sede di Taranto. Ha pubblicato due monografie e vari saggi e articoli su tematiche bioetiche e sociologiche. GEPPE INSERRA, giornalista, è stato il primo addetto stampa della Provincia di Foggia e tra i principali collaboratori del Presidente Michele Protano. Ha collaborato con le redazioni dei quotidiani La Gazzetta del Mezzogiorno, Puglia, Qui Foggia, Il Quotidiano di Foggia. È stato direttore editoriale di Teleradioerre e direttore respon- 300 Gli autori sabile dei periodici Pagine, Area, La Refola. Ha pubblicato Genesi, ponte di luce (tradotto in spagnolo con il titolo Genesis, Puente de Luz), Il decennio debole: cronache degli anni ottanta in Capitanata 1976-1981, cinque anni di progressi. Autore di diversi documentari, tra cui I colori del tempo, Statale 17, Gargano, dalla storia alla speranza. Docente e tutor di Giornalismo e Comunicazione presso diversi istituzioni formative. Attualmente è dirigente dei settori Cultura, Innovazione ed informazione della Provincia di Foggia, e direttore artistico del Festival del Cinema Indipendente di Foggia. DIONISIO MORLACCO, socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia, è impegnato in studi e ricerche che illustrano figure, aspetti e momenti del vario e plurisecolare patrimonio di storia e di civiltà di Lucera, sua città natale. Nella sua ampia bibliografia, oltre alla collaborazione a giornali e riviste di ambito locale e nazionale, si evidenzia la pubblicazione di saggi e monografie di argomento storico e di recupero delle tradizioni cittadine, che se pur si ascrivono al filone della cosiddetta “storia minore” (Le mura e le porte di Lucera, 1987; Fiere e mercati a Lucera, 1988; Pozzi, cisterne e spacci per la sete di Lucera, 1991; Bazar Tripoli, 1995, Tempo e luoghi del Padre Maestro, 2008), costituiscono pur sempre il substrato indispensabile della grande storia, alla quale più direttamente l’autore perviene con i suoi accurati profili dei Parlamentari lucerini (dal Regno d’Italia alla Repubblica). Da questa passione originano gli interessanti volumi “Dimore gentilizie e strutture urbane di Lucera” 2 voll. Ed. C. Grenzi, Foggia 2005 e 2010). La sua ultima pubblicazione è l’ampio volume intitolato “Quei nomi di pietra” (Ed. C. Grenzi, Foggia, 2012), in cui descrive ed illustra la “Toponomastica della città di Lucera”. DAMIANO NOCILLA. Nato a Roma nel 1942, ha studiato presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” avendo per maestri Vezio Crisafulli, Aldo Sandulli, Leopoldo Elia e Massimo Severo Giannini. Nel 1970 vince il concorso come funzionario del Senato della Repubblica e percorre tutta la carriera amministrativa fino a raggiungere le funzioni di vertice prima di Vice Segretario Generale e poi di Segretario Generale di quell’Assemblea parlamentare nel 1992, cessando dalle stesse nel 2002. Nel 2002 è stato nominato Consigliere di Stato. Nel 1980 vince la Cattedra di professore ordinario di diritto costituzionale. Dal dicembre 1982 all’ottobre 1983 è stato Capo dell’Ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Negli anni 2006 e 2007 è stato Capo del Dipartimento per le riforme istituzionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tenuto numerose conferenze nel corso di Convegni di studio e presso Università e Istituzioni straniere. 301 Gli autori È autore di varie pubblicazioni scientifiche fra le quali il volume “I cattolici e la Costituzione”; le voci “Mozione”, “Nazione”, Popolo” e “Rappresentanza politica” per l’Enciclopedia del diritto. Ha curato l’edizione del libro di G. Jellinek “La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” e della silloge degli scritti di C. Esposito “Diritto costituzionale vivente”. È Medaglia d’Oro per i Benemeriti della Cultura e dell’Arte. È Cittadino Onorario del Comune di San Marco in Lamis. GUIDO PENSATO, già direttore della Biblioteca provinciale di Foggia, componente il Direttivo nazionale dell’Associazione Italiana Biblioteche e del Consiglio nazionale dei beni culturali, continua a coltivare interessi collegati al settore, coniugandoli, in particolare, con quelli per le storie, le abitudini e le pratiche alimentari e per l’arte contemporanea. È responsabile, con Gaetano Cristino e per conto della Fondazione Banca del Monte, del “Fondo Alfredo Bortoluzzi”, nell’ambito del quale cura le mostre e la collana dei “Quaderni”. Ha curato e pubblicato, tra l’altro: Il Cabreo di San Leonardo di Siponto; La città apparente. La cultura a Foggia tra Ottocento e Novecento (con Saverio Russo); Il Tavoliere imbandito. La cucina della provincia di Foggia tra Gargano e Appennino Dauno; Le carte in tavola. Alimentazione e cucina in Capitanata. Materiali (con S. Russo). VITTORIO RUSSI è nato a Trieste nel 1938 ma vive in Capitanata, a San Severo. Studioso di topografia storica della Daunia, ha individuato e schedato centinaia di insediamenti, dalla preistoria al medioevo, collaborando attivamente con la Soprintendenza Archeologica. Nel 1963 ha iniziato l’allestimento del museo di San Severo ed è stato tra i fondatori del Centro di Studi Sanseveresi di Storia e Archeologia, la prima associazione del genere sorta in Capitanata. Nominato nel 1967 ispettore onorario della Soprintendenza ai Beni Archeologici e della Soprintendenza ai Beni Artistici della Puglia, ha contribuito alla salvaguardia e al restauro di chiese ed edifici di importanza storica e artistica. Nell’ambito della topografia antica, ha collaborato con G. Alvisi, direttrice dell’Aerofototeca Nazionale, per un lavoro sistematico sulla viabilità romana della Daunia, e con il generale G. Schmiedt, dell’Istituto Geografico Militare Italiano, per il rilevamento dei centri medievali fortificati. Dopo queste esperienze, ha avviato un progetto per un Atlante storico-archeologico degli insediamenti medievali abbandonati in Capitanata, ora in fase di realizzazione. Socio di vari sodalizi culturali e membro ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia, collabora con la sezione di archeologia del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Foggia. Autore di alcuni libri e di numerosi sag- 302 Gli autori gi su riviste e atti di convegni, recentemente ha iniziato ad interessarsi anche delle attività economiche a San Severo tra l’800 e il 900. SAVERIO RUSSO (Margherita di S. 1954), direttore del Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Foggia, insegna Storia moderna e Storia della storiografia dell’età moderna. Si occupa di storia economica e sociale del Mezzogiorno tra Sette e Ottocento, e delle politiche di tutela del paesaggio e dei beni culturali. Gaetano SCHIRALDI è nato a Lucera. Sacerdote della diocesi di Lucera-Troia è Socio Ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia – Sezione di Bari e Vice-Direttore dell’Archivio Storico Diocesano della citata diocesi di Capitanata. È autore di varie pubblicazione di carattere scientifico su Lucera ed Alberona e ha in attivo saggi pubblicati su varie riviste pugliesi (Archivio Storico Pugliese, La Capitanata, Carte di Puglia, Fogli di Periferia) e nazionali (Arte e Fede, Archiva Ecclesiae). È Presidente del neonato Centro Ricerche di Storia e Cultura Popolare Alberonese e Subappenninica. FEDERICA ELISABETTA TRIGGIANI, nata a Foggia nel 1982, ha conseguito la laurea magistrale in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Foggia. La sua tesi di Laurea è stata argomento di una Conversazione sugli inventari di patrimonio di alcune famiglie foggiane del Settecento, organizzata dall’associazione Soroptimist International di Foggia. Ha frequentato un corso di “Operatore di sostegno per alunni disabili”, imparando la Lingua Internazionale dei Segni (LIS) e l’alfabeto Braille. Ha inoltre conseguito un Master in “Didattica & Formazione: metodologie, strategie e tecniche per la ricerca, l’insegnamento curriculare e di sostegno” presso La Luspio, sede di Foggia, nel 2011. A marzo 2012 è stata convocata a Roma per un corso professionalizzante come “Addetto Risorse Umane e amministrazione” presso la Rebis srl. 303 Finito di stampare nel mese di settembre 2012 presso il Centro Grafico S.r.l. 1a trav. Via Manfredonia - 71121 Foggia tel. 0881/728177 • fax 0881/722719 www.centrograficofoggia.it L’energia utilizzata nel processo di lavorazione per la stampa di questo libro proviene direttamente dal sole grazie all’impianto fotovoltaico installato sul tetto dello stabilimento