LO SPAZIO LETTERARIO
DI ROMA ANTICA
Volume VI
I TE STI: 1. LA P OE S IA
Direttore
PIERGIORGIO PARRONI
A cura di
ALESSANDRO FUSI, ANGELO LUCERI,
PIERGIORGIO PARRONI, GIORGIO PIRAS
S
SALERNO EDITRIC E
ROMA
In redazione:
CARLO FRANCO
Inserti iconografici:
EUGENIO POLITO
Traduzioni:
Carlo Franco e Giusto Traina
ISBN 978-88-8402-678-1
Tutti i diritti riservati - All rights reserved
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III
VARIAZIONI SUL GENERE ELEGIACO: OVIDIO
1. Gli Amores: il gioco galante dell’amore
L’esordio poetico di Ovidio avviene nel solco della poesia elegiaca: alcuni anni
dopo il 20 egli pubblica una raccolta di elegie in cinque libri con il titolo di Amores;
diversi anni piú tardi rimetterà mano a questa opera giovanile, pubblicando una seconda edizione in tre libri (l’unica che ci è giunta), come attesta l’epigramma premesso alla nuova raccolta. Fin nel titolo l’opera si ricollega ai modelli dell’elegia latina: Amores era infatti il titolo dell’opera di Cornelio Gallo. Ma l’originalità del giovane poeta balza agli occhi fin dall’elegia proemiale, nella quale, diversamente da
Tibullo e Properzio che esplicitavano i principi della propria scelta di vita e di poesia, Ovidio rappresenta in modo giocoso la propria scelta dell’elegia come originata da un dispetto di Cupido, che sottrae un piede al secondo esametro del poema
epico che egli sta componendo e trasforma gli esametri in distici. E carattere volutamente dissacratorio ha anche l’affermazione che il poeta, prima dell’intervento
del dio, è libero dalla passione (vv. 19 sg.; 26: in vacuo pectore regnat Amor, ‘Amore regna nel cuore libero’).
Gli Amores raccontano, come tradizione dell’elegia, l’amore del poeta per una
donna, Corinna, e presentano tutti i motivi caratteristici del genere, ma la figura
dell’amata è cosí evanescente che si è persino dubitato della sua esistenza; il poeta
del resto dichiara di preferire due donne a una (ii 10), o addirittura di essere attratto
da tutte (ii 4). Sono passati solo pochi anni dall’esperienza dei primi elegiaci, ma
Ovidio ha già stravolto l’aspetto costitutivo del genere: l’amore e la dedizione assoluti verso una sola donna. Svuotando l’elegia del suo aspetto piú rivoluzionario,
un’esistenza centrata sull’amore e in contrasto con la morale tradizionale, Ovidio
trasforma l’amore in momento della vita di una società mondana. La passione travolgente che Catullo aveva posto quale centro della propria poesia e che gli elegiaci avevano codificato in genere letterario cede il passo al gioco raffinato, all’amore
come divertimento galante; scompaiono il pathos e l’intensità delle esperienze poetiche di Catullo o Properzio: l’amore si configura come lusus intellettualistico e l’ironia è il filtro con cui Ovidio rielabora il materiale della poesia elegiaca latina, divenuta modello di riferimento (soprattutto Properzio). Specchio del mutamento
dell’elegia è la funzione limitata concessa al tema del servitium, il fulcro dell’universo elegiaco dei suoi predecessori. Rilievo significativo è accordato alla riflessione
metaletteraria, come nell’elegia che chiude il primo libro (i 15), una celebrazione
dell’immortalità garantita dalla poesia, esemplificata da un catalogo dei grandi poeti greci e latini.
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
L’amore nelle elegie di Ovidio è gioco tra gli amanti, descritto con sensualità, ma
senza alcuna passione. I motivi tipici dell’elegia sono sottoposti a un processo di innovazione e variazione, come, ad es., in i 6, dove il tema topico del paraklausithyron
è rivolto non alla porta, ma al portinaio, e da inconcludente lamento dell’exclusus
amator diviene abile suasoria finalizzata alla persuasione del ianitor, o in i 9, in cui il
motivo della militia amoris viene rovesciato con arguzia: l’amante elegiaco non è piú
preda dell’ignavia e della desidia per la sua sottomissione ad Amore, ma anzi ha bisogno di forza e resistenza per quella che si caratterizza come una vera e propria impresa militare. Il gioco letterario del poeta è visibile anche in ii 6, epicedio del pappagallo di Corinna, che amplifica virtuosisticamente il c. 3 di Catullo dedicato alla
morte del passer di Lesbia, o in iii 11, che combina allusioni al c. 8 di Catullo, a Properzio, iii 24, e alla propria ii 9, e rende il sofferto Odi et amo di Catullo (c. 85) un
motivo da sviluppare con brillanti sententiae. Non mancano esperimenti che anticipano la didascalica erotica di Ovidio, come i 4, i 8, ii 19, e la narrazione etiologica di
iii 13 costituisce un antecedente dei Fasti.
I libri sono strutturati secondo il criterio della poikilia; le elegie sono talvolta disposte in dittici, anche con effetti sorprendenti come nel caso di ii 7-8, la prima
un’autodifesa dalle accuse di Corinna di averla tradita con la schiava Cipasside, la
seconda, rivolta alla schiava stessa, una rivelazione del tradimento e una spregiudicata richiesta di ulteriori rapporti.
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v · l’elegia
AMORES
ii 4
Non ego mendosos ausim defendere mores
falsaque pro vitiis arma movere meis.
Confiteor, si quid prodest delicta fateri;
in mea nunc demens crimina fassus eo.
Odi, nec possum cupiens non esse, quod odi:
heu quam, quae studeas ponere, ferre grave est!
Nam desunt vires ad me mihi iusque regendum;
auferor, ut rapida concita puppis aqua.
Non est certa meos quae forma invitet amores:
centum sunt causae cur ego semper amem.
Sive aliqua est oculos in me deiecta modestos,
uror, et insidiae sunt pudor ille meae;
sive procax aliqua est, capior quia rustica non est
spemque dat in molli mobilis esse toro;
aspera si visa est rigidasque imitata Sabinas,
velle sed ex alto dissimulare puto;
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Amores. Nell’elegia ii 4 appare con tutta evidenza l’atteggiamento ironico di Ovidio nei confronti della tradizione elegiaca: mentre il poeta elegiaco è completamente dedito a una sola donna, ispirazione e centro della sua poesia, della quale è disposto a sopportare persino i tradimenti, e
consuma la propria vita struggendosi per il proprio amore infelice, Ovidio dichiara con disinvoltura di essere attratto da ogni tipo di donna. Anche Properzio in ii 22a propone un modello di
amore libertino, ma per il poeta umbro si tratta di un tentativo isolato, una sorta di pausa dal servitium di Cinzia; Ovidio porta l’atteggiamento all’estremo e, dichiarando di essere sedotto da donne
diversissime fra loro, rivela l’assenza di un oggetto determinato della sua passione (non una donna,
ma la donna lo attrae). Piú che poesia d’amore, l’elegia diviene con lui poesia del gioco d’amore e
delle sue schermaglie e preannuncia la didascalica erotica. Il pathos elegiaco cede il passo all’ironia
divertita. Il testo è quello stabilito da E.J. Kenney (Oxford, Univ. Press, 19942 [19611]), a eccezione
del v. 11.
ii 4. Mi piacciono tutte. Il poeta riconosce i suoi difetti, ma non può fare a meno di ricadervi: è attratto da tutte le donne e di ognuna apprezza le qualità. L’elegia presenta l’aspetto di una sorta di
catalogo delle donne, da cui emerge un quadro compiaciuto della vita galante e mondana della capitale.
5-6. Il distico propone una personale rielaborazione del catulliano Odi et amo (c. 85); ma mentre
per il poeta veronese la dissociazione tra la componente sensuale e quella razionale-emotiva produce un drammatico conflitto interiore (espresso anche nella celebre contrapposizione tra amare e
bene velle in 72 8), in Ovidio è l’ironia a venare di sé le radicali affermazioni del poeta (l’Odi in aper-
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
G LI AMORI
ii 4
Io non oserei difendere il mio carattere difettoso
e utilizzare false armi in difesa dei miei vizi.
Confesso, se serve a qualcosa confessare i delitti;
ora, folle, dopo aver confessato, ricado nelle mie colpe.
Mi odio, né posso, pur desiderandolo, non essere ciò che odio:
ahi, quanto è difficile sopportare ciò che ti sforzi di abbandonare!
Infatti mi mancano le forze e la facoltà per governare me stesso;
sono trascinato come nave rapida dall’acqua impetuosa.
Non c’è un aspetto determinato che attrae il mio amore:
vi sono cento motivi, perché io ami sempre.
Se una ha chinato a causa mia gli occhi pudichi,
ardo e quel pudore è la mia insidia;
o se una è lasciva, sono catturato, perché non è rozza,
e mi dà speranza di essere agile nel morbido letto;
se mi è sembrata ruvida e emula delle severe sabine,
penso che voglia, ma che dissimuli nel profondo;
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tura di verso che richiama esplicitamente Catullo), come si può ben vedere dal fatto che la passione combattuta non è bruciante bramosia per una sola, come nel caso di Catullo, ma volubile desiderio di tutte le donne. Un’altra ripresa del motivo è in Am., iii 14 39 sg.: tunc amo, tunc odi frustra,
quod amare necesse est, / tunc ego, sed tecum, mortuus esse velim (‘allora amo, allora odio, invano, poiché è
inevitabile amare, allora io, ma con te, vorrei essere morto’); si veda anche l’intera iii 11. c 11. oculos
in me deiecta modestos: gli editori si dividono tra la bella congettura in humum di S. Timpanaro (in
« A&R », n.s., a. iii 1953, pp. 95-99 = Id., Contributi, pp. 678 sg.), già proposta da Heinsius, che poggia
sul parallelo notevole di Am., iii 6 67: illa oculos in humum deiecta modestos (cfr. anche Met., vi 607), e
in se di tradizione minoritaria, che non offre paralleli calzanti. Il tràdito in me (conservato da Munari nella prima edizione, ma poi abbandonato) è però difendibile, sia dal punto di vista linguistico, poiché deicere oculos (e sim.) è anche assoluto (cfr. Virgilio, Aen., xi 480; Properzio, i 1 3; Ovidio,
Am., i 8 37; Stazio, Theb., iii 367; Valerio Flacco, ii 470) e in + abl. è frequente in poesia in relazione
all’oggetto di un’emozione e specialmente dell’amore (cfr. Ovidio, Am., iii 6 25 sg.: Inachus in Melie
Bithynide pallidus isse / dicitur; iii 8 63: me prohibet custos, in me timet illa maritum; Properzio, ii 20 11: in
te ego et aeratas rumpam, mea vita, catenas; inoltre ii 4 18, 9 35, 15 11; iii 8 28, 9 11, 12 15, 17 23; vd. Hofmann-Szantyr, p. 126); sia per il senso, poiché introduce una notazione non superflua: Ovidio si
infiamma perché per causa sua la ragazza ha una reazione di pudore. c 15. rigidas . . . Sabinas: le donne
sabine ricorrono spesso in Ovidio come paradigma di semplicità e severità di costumi arcaica, talvolta in esplicita contrapposizione con la raffinatezza delle romane contemporanee del poeta: cfr.
Am., i 8 39 sg.; iii 8 61; Med., 11-16. Per il racconto del “ratto delle Sabine” cfr. Ars am., i 101-34.
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v · l’elegia
sive es docta, places raras dotata per artes;
sive rudis, placita es simplicitate tua.
Est quae Callimachi prae nostris rustica dicat
carmina: cui placeo, protinus ipsa placet;
est etiam quae me vatem et mea carmina culpet:
culpantis cupiam sustinuisse femur.
Molliter incedit: motu capit; altera dura est:
at poterit tacto mollior esse viro.
Haec quia dulce canit flectitque facillima vocem,
oscula cantanti rapta dedisse velim;
haec querulas habili percurrit pollice chordas:
tam doctas quis non possit amare manus?
Illa placet gestu numerosaque bracchia ducit
et tenerum molli torquet ab arte latus:
ut taceam de me, qui causa tangor ab omni,
illic Hippolytum pone, Priapus erit.
Tu, quia tam longa es, veteres heroidas aequas
et potes in toto multa iacere toro;
haec habilis brevitate sua est: corrumpor utraque;
conveniunt voto longa brevisque meo.
Non est culta: subit quid cultae accedere possit;
ornata est: dotes exhibet ipsa suas.
Candida me capiet, capiet me flava puella;
est etiam in fusco grata colore venus.
Seu pendent nivea pulli cervice capilli,
Leda fuit nigra conspicienda coma;
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19-20. Callimachi . . . carmina: la poesia di Callimaco, il maggior esponente della poesia alessandrina,
simboleggia qui il sommo grado della perfezione. La ragazza che definisce ‘rozze’ le sue poesie al
confronto con quelle di Ovidio sta adulando il poeta. c 32. Hippolytum . . . Priapus: Ippolito, figlio di
Teseo e oggetto di amore non corrisposto da parte della matrigna Fedra nel celebre mito, è simbolo di castità e rifiuto dell’amore. Priapo è divinità fallica dell’Ellesponto, qui in contrapposizione con la figura di Ippolito. Al passo ovidiano, caratterizzato da un giocoso abbassamento del mito, si rifanno per la descrizione di una ballerina sensuale sia Marziale, xiv 203 (tit. Puella Gaditana):
Tam tremulum crisat, tam blandum prurit, ut ipsum / masturbatorem fecerit Hippolytum (‘tit. Fanciulla di
Cadice. Ondeggia con un tale tremolio, suscita voglia cosí dolcemente, che avrebbe potuto rendere persino Ippolito un masturbatore’), che i Priapea, 19 4-6: crisabit tibi fluctuante lumbo: / haec sic
non modo te, Priape, possit, / privignum quoque sed movere Phaedrae (‘ondeggerà per te con i lombi oscillanti: costei potrebbe cosí scuotere non solo te, Priapo, ma anche il figliastro di Fedra’). Entrambi
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
se sei dotta, mi piaci perché dotata di arti non comuni;
se invece sei rozza, mi sei piaciuta per la tua spontaneità.
C’è quella che definisce rozze le poesie di Callimaco
a confronto con le mie: quella a cui piaccio, subito mi piace;
c’è anche quella che critica me poeta e le mie poesie:
desiderei tenere sollevate le cosce di colei che mi critica.
Incede con grazia: mi prende con il suo incedere; un’altra è rigida:
ma potrà ammorbidirsi a contatto con un uomo.
Perché questa canta dolcemente e modula la voce con estrema facilità,
vorrei averle dato baci rubati mentre canta;
questa percorre con abile pollice le corde melodiose:
chi potrebbe non amare mani cosí esperte?
Quella mi piace per i gesti e muove le braccia a ritmo di danza
e torce con arte flessuosa i fianchi delicati:
per tacere di me, che mi eccito per ogni motivo,
metti lí Ippolito, sarà Priapo.
Tu, perché sei alta, eguagli le antiche eroine
e puoi stare per la tua grandezza distesa sul letto intero;
questa è maneggevole per la sua piccolezza: da entrambe sono sedotto;
si confanno al mio desiderio la grande e la piccola.
Non è agghindata: mi viene in mente cosa le si potrebbe aggiungere se
[adornata:
è ornata: mette in mostra le sue doti.
La ragazza con la pelle diafana mi conquisterà, mi conquisterà quella
[con la pelle dorata;
l’amore è piacevole anche con un colore scuro.
E se cadono sul collo candido come neve capelli scuri,
beh, Leda fu oggetto di ammirazione per la sua nera chioma;
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degradano in chiave spiccatamente sessuale i versi ovidiani. c 33-36. Trovare pregi nei difetti della
donna costituisce un precetto nell’Ars amatoria: per i problemi di statura cfr. ii 645 sg.: omnibus Andromache visa est spatiosior aequo, / unus, qui modicam diceret, Hector erat (‘a tutti Andromaca sembrò piú
alta del giusto, il solo che la definiva piccola era Ettore’) e 661: dic ‘habilem’, quaecumque brevis (‘chiama “maneggevole” qualunque ragazza piccola’). – veteres heroidas aequas: eroi ed eroine del mito
sono raffigurati di statura piú imponente del normale; c’è qui forse un riferimento specifico ad
Andromaca, la cui notevole altezza Ovidio menziona in Ars am., ii 645 sg., cit. sopra; iii 777 sg. c 3940. Il candore della pelle era il piú apprezzato, in quanto raro, nel mondo mediterraneo. – venus:
indica qui, con metonimia mitologica, ‘il rapporto d’amore’ (cfr. i 10 33; ii 8 8; Ars am., i 275; ii 687;
Rem. am., 405). c 42. Leda. . . coma: i capelli neri di Leda non sono ricordati altrove; in Anth. Pal., v 64
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v · l’elegia
seu flavent, placuit croceis Aurora capillis:
omnibus historiis se meus aptat amor.
Me nova sollicitat, me tangit serior aetas:
haec melior specie, moribus illa placet.
Denique quas tota quisquam probat Urbe puellas,
noster in has omnis ambitiosus amor.
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2, è januhö (‘bionda’). c 43. croceis Aurora capillis: il colore del croco è legato ad Aurora a partire da
Omero (Il., viii 1 e altrove: hävÖw . . . krokoöpeplow, ‘l’aurora dal peplo di croco’) e attraverso Virgilio
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
se invece sono biondi, Aurora piacque per i capelli color di croco:
il mio amore si adatta a tutti i miti.
Mi eccita la giovane età, mi turba quella piú matura:
l’una è migliore per la bellezza, l’altra mi piace per il modo di
[comportarsi.
Insomma, a tutte le ragazze che qualcuno apprezza
per l’intera città, il mio amore ambisce.
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(Georg., i 447: Tithoni croceum linquens Aurora cubile = Aen., iv 585; ix 460) giunge alla tradizione latina; in Ovidio cfr. anche Ars am., iii 179 sg.; Fast., iii 403; Met., iii 150.
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v · l’elegia
2. L’elegia al femminile: le Heroides
Come attesta lo stesso Ovidio (Am., ii 18 19-26), la composizione delle Heroides si
colloca nel medesimo periodo di quella degli Amores: una prima raccolta di 15 lettere vide la luce forse intorno al 15 (ma c’è chi la colloca fra il 10 e il 3). Successivamente, negli anni che precedono l’esilio (8 d.C.), il poeta aggiunse una seconda serie di Heroides, costituita da tre coppie di epistole (16-21).
Le prime 15 Heroides sono lettere in distici elegiaci che il poeta immagina scritte
da eroine del mito ai loro amanti lontani (l’unica eccezione “storica” è costituita
dalla quindicesima epistola, di Saffo a Faone); vi compaiono alcune tra le piú celebri donne del mito (Penelope, Fedra, Didone, Arianna, Deianira, Medea), ma anche personaggi minori e in ombra nella tradizione, come Ipsipile abbandonata da
Giasone proprio per amore di Medea o Enone, che Paride lascerà per la bella Elena. Le ultime sei epistole sono coppie formate da lettera dell’innamorato e risposta
della donna (Ero e Leandro, Paride e Elena, Aconzio e Cidippe). L’idea venne forse a Ovidio dall’amico Sabino, che aveva scritto le lettere di risposta degli amanti
lontani alle prime quindici Heroides (cfr. Am., ii 18 27-34).
In Ars am., iii 345 sg., Ovidio menziona l’opera con orgoglio e consapevolezza
della propria originalità: vel tibi composita cantetur Epistula voce: / ignotum hoc aliis ille novavit opus (‘o sia cantata da te con voce impostata un’Epistola: egli ha creato questo
genere ignoto agli altri’); in effetti, sebbene l’esatto senso di questa affermazione sia
oggetto di discussione e sebbene l’epistola poetica elegiaca fosse stata già sperimentata da Properzio in iv 3, lettera di Aretusa al marito Licota, è indubbio che una
collezione di lettere poetiche come le Heroides costituisca un’innovazione nel panorama della letteratura antica.
La novità piú significativa di questa originale operazione, che mescola elegia ed
epistola, è costituita dalla scelta di una voce femminile: infatti il mondo elegiaco latino è frutto della voce del poeta-amante, che occupa la scena, costruendo il proprio universo poetico, nel quale la donna-domina è protagonista senza però aver
mai la parola. Unica eccezione in tal senso sono i componimenti del Corpus Tibullianum legati al nome di Sulpicia, nei quali le viene attribuito il ruolo di ego elegiaco.
Il rovesciamento della prospettiva elegiaca latina costituisce un ritorno alla poesia
d’amore ellenistica, nella quale era stata quasi sempre la donna a rivestire il ruolo
dell’amante infelice (basti pensare al secondo Idillio di Teocrito, in cui Simeta ricorda il passato felice del suo amore, lamenta il tradimento dell’amato e ricorre alla
magia per riconquistarlo). Anche per questo aspetto Ovidio trova un precedente
significativo nell’elegia iv 7 di Properzio, nella quale Cinzia morta appare in sogno
al poeta, presentandosi come donna moralmente esemplare. Ma la scelta di Ovidio
di prendere dal mito le eroine delle sue lettere è carica di conseguenze sull’opera:
si tratta infatti di “personaggi letterari”, tratti principalmente dalla tradizione epico-tragica; perciò dar voce a queste eroine significa per Ovidio confrontarsi con le
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
opere che le hanno rese celebri. Allusione e intertestualità sono meccanismi con i
quali il lettore delle Heroides deve avere familiarità per poter cogliere appieno i risvolti dell’opera ovidiana.
Con le Heroides Ovidio trasferisce e riscrive nel codice elegiaco le principali storie d’amore del mito greco. Il mito da proiezione ideale delle vicende personali del
poeta, come era in Properzio, diviene materia della poesia, come nell’epillio (e non
a caso è un epillio, il c. 64 di Catullo, a fornire, con il lamento di Arianna abbandonata da Teseo a Nasso, un archetipo al lamento delle eroine ovidiane). Le Heroides
pertanto giocano non soltanto con i modelli alti della tradizione, ma anche e soprattutto con l’elegia, di cui presentano motivi tradizionali, come il tormento per la
lontananza della persona amata, le suppliche, le recriminazioni, i sospetti di infedeltà, le accuse di tradimento; ma anche lo stile e il lessico sono elegiaci.
La struttura epistolare favorisce, ancor piú che negli Amores, l’influsso della retorica e in particolare delle suasoriae, di cui spesso le lettere assumono il carattere,
mentre nelle coppie finali è stata segnalata l’affinità con le controversiae. La fissità
della situazione-tipo, pur nella varietà dei miti, e la chiusura formale del monologo ingenerano una certa monotonia. Piú che in altre opere Ovidio indulge nelle
Heroides al pathos, che proviene dai modelli epici e tragici, ma non manca l’ironia,
che è la vera cifra stilistica del poeta di Sulmona.
L’aspetto piú significativo è, come si diceva, la creazione di una voce femminile
in un mondo letterario sostanzialmente maschile. E proprio nello spazio concesso
alla donna e alle sue istanze, abitualmente escluse dalla società come dalla letteratura latina, e nella capacità di approfondimento della psicologia femminile, in grado di competere con quella di Euripide, sta l’aspetto piú riuscito delle Heroides ovidiane.
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v · l’elegia
HEROIDES
1
Hanc tua Penelope lento tibi mittit, Ulixe.
Nil mihi rescribas tu tamen; ipse veni!
Troia iacet certe, Danais invisa puellis,
– vix Priamus tanti totaque Troia fuit!
O utinam tum, cum Lacedaemona classe petebat,
obrutus insanis esset adulter aquis!
Non ego deserto iacuissem frigida lecto,
non quererer tardos ire relicta dies
nec mihi quaerenti spatiosam fallere noctem
lassasset viduas pendula tela manus.
Quando ego non timui graviora pericula veris?
Res est solliciti plena timoris amor.
In te fingebam violentos Troas ituros;
nomine in Hectoreo pallida semper eram;
sive quis Antilochum narrabat ab Hectore victum,
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Heroides. Si presenta l’epistola che Ovidio pone in modo significativo in apertura delle Heroides:
il rapporto tra la fedele Penelope e l’eroe lontano Odisseo, fissato alle origini della letteratura occidentale nell’Odissea omerica, costituisce l’archetipo della situazione presupposta nelle lettere
delle eroine ovidiane. Il confronto con Omero consente di mettere in risalto la raffinata arte allusiva di Ovidio, ma anche di valutare appieno la transizione del personaggio di Penelope dal mondo epico a quello elegiaco. Il poeta si dimostra acuto nel penetrare nella psicologia femminile, realizzando un « capolavoro di garbata maniera » (Mariotti). L’edizione è quella di H. Dörrie (BerlinNew York, de Gruyter, 1971), con qualche divergenza nel testo e nella punteggiatura.
1. Penelope a Ulisse. Troia è caduta, eppure Ulisse ancora non ritorna in patria. Penelope è costretta a trascorrere interminabili giorni e a ingannare la notte tessendo la sua tela. Quando Troia
era in piedi, ogni notizia era fonte di paura. Ora i condottieri greci sono tornati a casa, raccontano
le loro gesta e quelle eroiche di Ulisse. Ma per Penelope è come se Ilio non fosse mai caduta: il marito vincitore è lontano, in terre sconosciute, forse avvinto da un altro amore. Nonostante le richieste del padre Icario e i numerosi pretendenti che affollano la reggia di Ulisse, Penelope rifiuta
di prendere un nuovo marito. Ma non potrà certo resistere a lungo, aiutata soltanto dal vecchio
Laerte e dal giovane Telemaco. Anche per loro, oltre che per sua moglie, l’eroe deve far ritorno.
1. Hanc: scil. epistulam. L’ellissi è ignota alla lingua poetica e Ovidio altrove usa un generico pronome neutro (cfr. Her., 10 3; Pont., iv 14 1); Palmer correggeva perciò in haec. Tuttavia il titolo dell’opera, come attesta Ovidio stesso in Ars am., iii 345: vel tibi composita cantetur Epistula voce, doveva
essere Epistulae (Heroidum) e ciò rende l’ellissi accettabile. – lento: l’aggettivo, collocato in posizione enfatica nel primo verso, significa ‘lento a tornare’, ma è anche proprio del lessico elegiaco per
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
LETTERE DI EROI N E
1
Questa lettera, Ulisse, manda a te pigro la tua Penelope.
Tu però non rispondermi nulla; vieni di persona!
Troia, odiosa alle ragazze greche, è sicuramente rasa al suolo,
– a malapena valeva tanto Priamo e Troia intera!
Ah magari, quando si dirigeva a Lacedemone con la flotta,
l’adultero fosse stato sommerso dalla furia delle acque!
Io non sarei stata distesa infreddolita nel letto solitario,
non mi lamenterei, abbandonata, che i giorni trascorrano lenti,
né a me, che cerco di ingannare la lunga notte,
la tela pendente avrebbe affaticato le vedove mani.
Quando non ho temuto pericoli piú gravi dei veri?
L’amore è cosa piena di inquieto timore.
M’immaginavo che i Troiani violenti si sarebbero scagliati su di te;
al nome di Ettore ero sempre pallida;
se qualcuno mi raccontava che Antiloco era stato vinto da Ettore,
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‘freddo in amore’, ‘che non ricambia’ (cfr. Properzio, i 6 12: a pereat, si quis lentus amare potest!, ‘che
muoia chi può amare con freddezza!’) e anticipa i rilievi mossi all’eroe dalla moglie nel prosieguo
della lettera. c 4. Il verso rende esplicito il passaggio dal codice epico a quello elegiaco (non a caso
si tratta di un pentametro, che differenzia il distico elegiaco dall’esametro stichico): la guerra di
Troia, nell’ottica della moglie abbandonata Penelope, non valeva il costo affettivo imposto alle
donne greche; l’espressione ricorre analoga in contesti di critica alla rinuncia all’amore per attività
di guerra o commercio in Properzio, iii 12 3 sg.: tantine ulla fuit spoliati gloria Parthi, / ne faceres Galla
multa rogante tua? (‘valeva tanto la gloria del Parto spogliato, mentre la tua Galla ti pregava molto
che non lo facessi?’); 20 4: tantine, ut lacrimes, Africa tota fuit? (‘l’Africa intera valeva forse il tuo pianto?’). c 6. adulter: Paride, responsabile, per il rapimento di Elena, dello scoppio della guerra, è nell’ottica della casta moglie Penelope soprattutto un adultero (anche se l’epiteto è tradizionale per il
troiano: Virgilio, Aen., x 92; xi 268; Orazio, Carm., iv 9 13; Properzio, ii 34 7; Ovidio, Ars am., ii 365;
Her., 19 177). c 9-10. Ovidio tace qui il celebre inganno della tela di Penelope, che la donna filava di
giorno e disfaceva di notte per differire la scelta di un nuovo marito (cfr. Omero, Od., ii 93 sgg.; xix
138 sgg.; xxiv 128 sgg.); l’astuta eroina epica, degna sposa dell’eroe della metis, cede il passo alla donna elegiaca, che utilizza la tela solo per “ingannare” le lunghe notti solitarie: i versi infatti alludono
alla Cinzia di Properzio, i 3 39-42: O utinam talis producas, improbe, noctes, / me miseram qualis semper habere iubes! / Nam modo purpureo fallebam stamine somnum, / rursus et Orpheae carmine, fessa, lyrae (‘Che tu
possa, malvagio, trascorrere notti tali, quali imponi sempre di passare a me infelice! Infatti ora ingannavo il sonno con lo stame di porpora, oppure, stanca, con il canto della lira di Orfeo’, cfr. sopra, pp. 532-35).
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v · l’elegia
Antilochus nostri causa timoris erat,
sive Menoetiaden falsis cecidisse sub armis,
flebam successu posse carere dolos.
Sanguine Tlepolemus Lyciam tepefecerat hastam,
Tlepolemi leto cura novata mea est.
Denique quisquis erat castris iugulatus Achivis,
frigidius glacie pectus amantis erat.
Sed bene consuluit casto deus aequus amori:
versa est in cineres sospite Troia viro.
Argolici rediere duces, altaria fumant,
ponitur ad patrios barbara praeda deos.
Grata ferunt nymphae pro salvis dona maritis;
illi victa suis Troia facta canunt.
Mirantur iustique senes trepidaeque puellae,
narrantis coniunx pendet ab ore viri.
Atque aliquis posita monstrat fera proelia mensa
pingit et exiguo Pergama tota mero:
« Hac ibat Simois, haec est Sigeia tellus,
hic steterat Priami regia celsa senis;
illic Aeacides, illic tendebat Ulixes,
hic lacer admissos terruit Hector equos ».
Omnia namque tuo senior te quaerere misso
rettulerat nato Nestor, at ille mihi.
Rettulit et ferro Rhesumque Dolonaque caesos,
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17. Menoetiaden: Patroclo, figlio di Menezio, scese in battaglia con le armi di Achille, ma fu ucciso
da Ettore (Omero, Il., xvi). Il patronimico, già in Omero (Il., i 307 e altrove), ricorre in latino a partire da Properzio, ii 1 38. c 22. frigidius glacie: il comparativo con l’ablativo di comparazione di un termine che possiede al massimo grado la qualità indicata dall’agg. è modulo della lingua familiare,
piú espressivo del superlativo grammaticale e perciò caro ai poeti latini (cfr., ad es., nive candidior,
melle dulcior); un pezzo di bravura tecnica costruito su questo modulo è il canto di Polifemo a Galatea in Ovidio, Met., xiii 789 sgg. La iunctura ricorre per i sentimenti dell’innamorata ancora in
Her., 10 32: frigidior glacie semianimisque fui (Arianna abbandonata da Teseo a Nasso). c 27-28. M. Reeve (in « CQ », n.s., a. xxiii 1973, pp. 331 sg.) considera il distico interpolato per ragioni lessicali e stilistiche. – Troia: l’aggettivo, per la prima volta in Catullo (65 7) e quindi in Virgilio (Aen., i 119 e altrove), è anche in Her., 16 107. – facta: preferibile a fata, accolto da Dörrie: gli eroi greci pongono in
risalto le proprie imprese (in Omero kleöa aändrvün), piuttosto che il destino, in cui non hanno parte (cfr. anche Tibullo, i 10 31, cit. sotto). c 29. iustique senes: l’epiteto, piuttosto convenzionale e poco
motivato dal contesto (ben diversi i casi di Fast., iv 524, v 384; Met., viii 704), ha suscitato dubbi, ma
le alternative proposte (lassique Riese, laetique Schenkl) non sono persuasive. È possibile che le pa-
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
Antiloco era causa del mio timore,
o che il figlio di Menezio era caduto con armi ingannevoli,
piangevo che le astuzie potessero restar prive del successo.
Tlepolemo aveva intiepidito col suo sangue l’asta licia,
la mia preoccupazione era rinnovata dalla morte di Tlepolemo.
Insomma chiunque fosse sgozzato nell’accampamento acheo,
il mio cuore di amante diveniva piú freddo del ghiaccio.
Ma un giusto dio ha ben provveduto al casto amore:
Troia è ridotta in cenere e mio marito sano e salvo.
I condottieri argolici sono ritornati, gli altari fumano,
la preda barbara è offerta agli dei della patria.
Le spose recano grati doni per i mariti salvi;
quelli cantano le imprese troiane superate dalle proprie.
Li ammirano giusti vecchi e ragazze trepidanti,
la moglie pende dalla bocca del marito che narra.
E qualcuno illustra sulla mensa allestita le feroci battaglie
e con un po’ di vino dipinge l’intera Pergamo:
« Di qua scorreva il Simoenta, questa è la terra sigea,
qui si ergeva l’alta reggia del vecchio Priamo;
qui aveva tenda l’Eacide, là Ulisse,
qui Ettore straziato atterrí i cavalli lanciati in velocità ».
Infatti ogni cosa aveva riferito a tuo figlio
inviato a cercarti il vecchio Nestore, e lui a me.
Gli riferí anche di Reso e Dolone uccisi col ferro,
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role di Penelope siano volutamente convenzionali (‘vecchi giusti e ragazze trepidanti’) per marcare la distanza tra la normalità dell’eroe che torna a casa e l’eccezionalità della propria condizione.
c 30. Il verso allude a Virgilio, Aen., iv 79 (Didone innamorata ai racconti di Enea): pendetque iterum
narrantis ab ore. c 31-32. I versi sono influenzati da Tibullo, i 10 29-32, in un contesto di condanna della guerra: sic placeam vobis: alius sit fortis in armis, / sternat et adversos Marte favente duces, / ut mihi potanti
possit sua dicere facta / miles et in mensa pingere castra mero (‘che io cosí piaccia a voi: un altro sia coraggioso in armi e abbatta con il favore di Marte i capi che gli si parano contro, perché possa raccontare le sue imprese di soldato a me che bevo e con il vino tracciare sulla mensa l’accampamento’).
In Ars am., ii 123-40, Ovidio allude ironicamente a questa scena, rappresentando Ulisse che descrive le vicende troiane a Calipso, disegnandole sulla sabbia. c 39. ferro Rhesumque Dolonaque caesos:
Dolone, figlio dell’araldo Eumede, inviato da Ettore a spiare il campo acheo con la promessa dei
cavalli e del carro di Achille, cadde in un’imboscata di Ulisse e Diomede, i quali, dopo averlo costretto a rivelare i piani dei Troiani, lo uccisero. Venuti quindi a conoscenza dell’arrivo di Reso, re
di Tracia, alleato dei Troiani, penetrarono nell’accampamento e, mentre Diomede fece strage dei
Traci, Ulisse razziò gli splendidi cavalli del re. Sull’episodio è incentrato il l. x dell’Iliade (la cosid-
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v · l’elegia
utque sit hic somno proditus, ille dolo.
Ausus es, o nimium nimiumque oblite tuorum,
Thracia nocturno tangere castra dolo
totque simul mactare viros, adiutus ab uno!
At bene cautus eras et memor ante mei.
Usque metu micuere sinus, dum victor amicum
dictus es Ismariis isse per agmen equis.
Sed mihi quid prodest vestris disiecta lacertis
Ilios et murus quod fuit esse solum,
si maneo, qualis Troia durante manebam,
virque mihi dempto fine carendus abest?
Diruta sunt aliis, uni mihi Pergama restant,
incola captivo quae bove victor arat;
iam seges est, ubi Troia fuit, resecandaque falce
luxuriat Phrygio sanguine pinguis humus;
semisepulta virum curvis feriuntur aratris
ossa, ruinosas occulit herba domos;
victor abes, nec scire mihi, quae causa morandi
aut in quo lateas ferreus orbe, licet.
Quisquis ad haec vertit peregrinam litora puppim,
ille mihi de te multa rogatus abit;
quamque tibi reddat, si te modo viderit usquam,
traditur huic digitis charta notata meis.
Nos Pylon, antiqui Neleia Nestoris arva,
misimus; incerta est fama remissa Pylo.
Misimus et Sparten: Sparte quoque nescia veri.
Quas habitas terras aut ubi lentus abes?
Utilius starent etiam nunc moenia Phoebi;
irascor votis heu levis ipsa meis!
Scirem ubi pugnares et tantum bella timerem
et mea cum multis iuncta querela foret.
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detta Dolonia). c 40. dolo: Dörrie, insieme ad altri editori, pone il termine tra cruces, per via della dura ripetizione di dolo come ultima parola del v. 42 e per il sospetto, ingenerato dalla lezione Dolon
dei codici E V, che si tratti di una glossa per ille penetrata nel testo. Ma la ripetizione non è estranea allo stile ovidiano: cfr., nelle Heroides, la ripetizione, nella stessa sede metrica, di nurus in 5 82 e
84. Dolus è inoltre non solo termine tematico in relazione a Ulisse (cfr. v. 18 e Virgilio, Aen., ii 4344: ulla putatis / dona carere dolis Danaum? Sic notus Ulixes?, ‘credete che qualche dono dei Danai sia
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
e di come questi sia stato tradito dal sonno, quello dall’astuzia.
Hai osato, o troppo, troppo dimentico dei tuoi,
spingerti fino al campo tracio con inganno notturno
e scannare insieme tanti eroi, aiutato da uno solo!
Ma eri ben attento e prima di tutto memore di me.
Il petto non smise di sobbalzarmi dalla paura, finché non fu raccontato
che vincitore eri passato tra la schiera amica sui cavalli ismarii.
Ma a me cosa giova Ilio distrutta dalle vostre braccia
e che sia suolo ciò che fu muro,
se rimango come stavo quando Troia esisteva
ed è lontano mio marito, destinato a mancarmi senza fine?
Per gli altri è stata abbattuta, per me sola rimane in piedi Pergamo,
che il vincitore stabilitovisi ara con buoi prigionieri;
ormai c’è la messe, dove fu Troia, e la terra, feconda per il sangue frigio,
dà frutti rigogliosi, pronta a essere tagliata dalla falce;
le ossa semisepolte degli eroi sono urtate dagli aratri ricurvi,
l’erba nasconde le case in rovina.
Pur vincitore sei lontano, né mi è concesso di sapere quale sia la causa
[dell’indugio,
o in quale parte del mondo tu, spietato, sia nascosto.
Chiunque volge la poppa straniera a questi lidi,
va via dopo aver ricevuto da me molte domande su di te,
e gli è affidata questa lettera, vergata dalle mie dita,
da darti, se solo ti incontrerà in qualche luogo.
Ho inviato a Pilo, terra nelea del vecchio Nestore:
da Pilo mi sono state rinviate voci incerte.
Ho inviato anche a Sparta: anche Sparta ignora la verità.
Che terre abiti o dove te ne stai lontano indifferente?
Sarebbe meglio che ancora si ergessero le mura di Febo;
ahimè, me la prendo incostante con i miei stessi desideri!
Saprei dove combatti e avrei paura soltanto della guerra,
e il mio lamento si unirebbe a molti.
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privo di inganni? Cosí vi è noto Ulisse?’), ma anche appropriato alla vicenda di Dolone, caduto
nell’agguato dei Greci. Il termine (gr. doölow) permette infine un gioco paretimologico con il nome Dolon, già presente nello pseudo-euripideo Reso, 158 sg. c 53-56. Modello dei versi è il cupo finale del libro i delle Georgiche di Virgilio (vv. 489 sgg.) che profetizza in un futuro lontano il ritorno delle attività agricole sui luoghi della guerra civile.
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v · l’elegia
Quid timeam ignoro; timeo tamen omnia demens
et patet in curas area lata meas.
Quaecumque aequor habet, quaecumque pericula tellus,
tam longae causas suspicor esse morae.
Haec ego dum stulte metuo, quae vestra libido est,
esse peregrino captus amore potes.
Forsitan et narres, quam sit tibi rustica coniunx,
quae tantum lanas non sinat esse rudes.
Fallar et hoc crimen tenues vanescat in auras,
neve revertendi liber abesse velis.
Me pater Icarius viduo discedere lecto
cogit et immensas increpat usque moras.
Increpet usque licet! Tua sum, tua dicar oportet;
Penelope coniunx semper Ulixis ero.
Ille tamen pietate mea precibusque pudicis
frangitur et vires temperat ipse suas.
Dulichii Samiique et quos tulit alta Zacynthos
turba ruunt in me luxuriosa proci
inque tua regnant nullis prohibentibus aula;
viscera nostra, tuae dilacerantur opes.
Quid tibi Pisandrum Polybumque Medontaque dirum
Eurymachique avidas Antinoique manus
atque alios referam, quos omnis turpiter absens
ipse tuo partis sanguine rebus alis?
Irus egens pecorisque Melanthius actor edendi
ultimus accedunt in tua damna pudor.
Tres sumus imbelles numero: sine viribus uxor
Laertesque senex Telemachusque puer.
Ille per insidias paene est mihi nuper ademptus,
dum parat invitis omnibus ire Pylon.
Di, precor, hoc iubeant, ut euntibus ordine fatis
ille meos oculos comprimat, ille tuos!
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75. metuo: meditor, variante preferita da Dörrie, significa in Ovidio ‘escogitare’, ‘macchinare’, e non
è adatto alle riflessioni di Penelope. Il timore si confà invece perfettamente all’ethos della moglie
innamorata (cfr., subito prima, v. 71: Quid timeam ignoro; timeo tamen omnia demens; vd. inoltre v. 12).
c 76. peregrino . . . amore: la Penelope ovidiana indovina con intuito femminile la relazione di Ulisse
con Calipso; le preoccupazioni della donna divengono le certezze di Deianira, moglie di Ercole,
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
Ignoro ciò che devo temere; tuttavia folle temo ogni cosa,
e un ampio spazio si apre alle mie preoccupazioni.
Qualunque pericolo nasconde il mare, qualunque la terra,
sospetto siano causa di un cosí lungo ritardo.
Mentre io temo scioccamente queste cose, tale è la vostra bramosia,
tu puoi essere soggiogato da un amore straniero.
Forse potresti anche raccontare che moglie rozza che hai,
che solo alla lana non consente di essere grezza.
Che mi possa sbagliare e questa accusa svanisca nell’aria sottile,
e che tu non voglia, anche se libero di tornare, startene lontano!
Il padre Icario mi spinge a lasciare il letto vedovo
e mi rimprovera di continuo gli infiniti indugi.
Mi rimproveri pure di continuo! Tua sono, tua bisogna che sia detta;
sarò sempre Penelope moglie di Ulisse.
Egli tuttavia si fa vincere dalla mia devozione
e dalle preghiere pudiche e modera i suoi impeti.
I pretendenti di Dulichio, di Samo e quelli che generò l’alta Zacinto,
schiera lussuriosa, si avventano su di me,
e regnano nella tua reggia, senza che alcuno glielo impedisca;
i tuoi beni, nostre viscere, sono straziati.
Perché dirti di Pisandro e Polibo e del crudele Medonte
e delle mani avide di Eurimaco e di Antinoo
e degli altri, i quali tutti tu, colpevolmente assente,
nutri con beni acquisiti col tuo sangue?
Il mendicante Iro e Melanzio, che spinge le capre destinate al banchetto,
si aggiungono, ultima vergogna, alle tue rovine.
Noi siamo tre di numero, imbelli: una moglie senza forze,
Laerte, un vecchio, e Telemaco, un ragazzo.
Egli mi è stato or ora quasi strappato da un agguato,
mentre si preparava ad andare a Pilo, contro la volontà di tutti.
Gli dei, prego, impongano che, procedendo secondo ordine il destino,
possa chiudere egli i miei occhi, egli i tuoi!
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in Her., 9 47 sg.: Haec mihi ferre parum! Peregrinos addis amores, / et mater de te quaelibet esse potest (‘È poco
per me sopportare queste cose! Tu vi aggiungi amori stranieri e qualunque donna può essere madre da te’). c 95. pecoris . . . Melanthius actor edendi: in Omero, Od., xvii 213 sg., Melanzio è presentato
come colui che spinge le capre che faranno da banchetto ai proci.
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v · l’elegia
Hac faciunt custosque boum longaevaque nutrix,
tertius immundae cura fidelis harae.
Sed neque Laertes, ut qui sit inutilis armis,
hostibus in mediis regna tenere potest.
Telemacho veniet, vivat modo, fortior aetas;
nunc erat auxiliis illa tuenda patris.
Nec mihi sunt vires inimicos pellere tectis;
tu citius venias, portus et ara tuis!
Est tibi, sitque precor, natus, qui mollibus annis
in patrias artes erudiendus erat.
Respice Laerten: ut iam sua lumina condas,
extremum fati sustinet ille diem.
Certe ego, quae fueram te discedente puella,
protinus ut venias, facta videbor anus.
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103. Hac faciunt: hac è persuasiva congettura di Tyrrell per il corrotto haec della maggior parte dei
codici (che Dörrie pone tra cruces): essa infatti restituisce un’espressione idiomatica, spesso corrotta nella tradizione manoscritta (vd. G. Luck, in « RhM », a. cv 1962, p. 351): cfr. Ovidio, Am., i 3 11
sg.: at Phoebus comitesque novem vitisque repertor / hac faciunt (‘ma Febo e le nove compagne e l’inven-
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
Stanno dalla nostra parte il custode dei buoi e la vecchia nutrice,
terzo il fedele guardiano del lurido porcile.
Ma Laerte, in quanto inabile alle armi,
non può tenere il comando in mezzo ai nemici.
Verrà per Telemaco, purché viva, un’età piú vigorosa,
ora avrebbe dovuto essere protetta dall’aiuto del padre.
Né io ho forze per scacciare i nemici dalla nostra casa;
vieni tu prontamente, porto e rifugio per i tuoi!
Hai un figlio, e prego che ti rimanga, che nei teneri anni
avrebbe dovuto essere istruito nelle arti paterne.
Volgi indietro lo sguardo su Laerte: perché infine chiuda tu i suoi occhi,
egli rinvia l’estremo giorno del fato.
Di certo io, che alla tua partenza ero una ragazza,
anche ammesso che tu venga subito, ti sembrerò diventata vecchia.
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tore della vite stanno da questa parte’); Cicerone, Att., vii 3 5; vd. inoltre Ennio, Ann., 258 Vahlen2
(= 232 Skutsch): Iuppiter hac stat, ‘Giove sta da questa parte’ (= Virgilio, Aen., xii 565). c 103-4. custos . . .
harae: il bovaro Filezio, la nutrice Euriclea e il porcaio Eumeo.
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v · l’elegia
3. Il lamento dell’esule: i Tristia e le Epistulae ex Ponto
La relegazione a Tomi, sul mar Nero, in una terra inospitale agli estremi confini
dell’impero, segna una brusca frattura nella brillante carriera poetica di Ovidio.
Privato di quell’ambiente mondano e raffinato dell’aurea Roma augustea, che gli
aveva ispirato molte opere e aveva costituito il suo pubblico affezionato di lettori, il
poeta si ritrova solo, lontano dagli affetti piú cari, in mezzo a barbari che non parlano latino. La nuova condizione di esiliato determina l’ultima e piú dolorosa innovazione del codice elegiaco da parte di Ovidio, che ora recupera dell’elegia l’originario aspetto di poesia del pianto, del lamento, scegliendo per i suoi versi la forma
epistolare, che gli consente un contatto, seppur a distanza, con la moglie e con gli
amici che non lo hanno abbandonato. La “riconversione” dell’elegia d’amore a elegia del pianto determina il passaggio dalla sofferenza dell’amante infelice a quella
dell’esule, mentre l’azione del corteggiamento è rivolta non piú alla puella, ma a patroni che possano perorare la causa del poeta a Roma.
La forma della lettera offre a Ovidio l’occasione di recuperare l’esperienza epistolare delle Heroides: assumendo su di sé il ruolo di mittente, egli riscrive le lettere
mitologiche, costruendo la figura letteraria del poeta esiliato. Anche il mito, elemento costitutivo dell’elegia d’amore latina, viene recuperato e offre al poeta un
repertorio di figure sventurate cui paragonarsi: ad es. in Trist., ii 105 sg., Ovidio si assimila ad Atteone, che come lui fu punito per aver visto ciò che non avrebbe dovuto, mentre sua moglie è piú volte paragonata a Penelope, paradigma di fedeltà
(Trist., i 3; v 5, 14). L’amicizia, sentimento che percorre le elegie dell’esilio, è esemplificata dalle vicende di Teseo e Piritoo, di Achille e Patroclo, di Oreste e Pilade,
modelli di fides. Ben saldo è nella poesia dell’esilio anche il legame con il lettore generico, cui Ovidio si rivolge spesso, inaugurando un rapporto tra autore e lettore
destinato ad avere fortuna nella successiva età imperiale e nella letteratura occidentale (f iii p. 109). Tra i motivi è ricorrente quello dell’esilio come morte, che ritornerà in Seneca.
La prima opera che il poeta compone lontano dall’Urbe è la raccolta dei Tristia,
in cinque libri. Le elegie del primo libro, elaborato durante il viaggio, rievocano gli
ultimi momenti che precedono l’addio e il viaggio tempestoso. Il secondo libro è
interamente costituito da una lunga elegia apologetica di 578 versi, composta nel 9
d.C. e rivolta ad Augusto con l’intento di scagionare la propria elegia erotica dall’accusa di immoralità. Nucleo dell’autodifesa è una tendenziosa rassegna della storia letteraria greco-latina, vòlta a dimostrare come tratti erotici siano presenti nelle
opere piú celebrate: ad es. a proposito dell’Eneide il poeta ricorda maliziosamente
come persino Virgilio avesse portato nel letto di Didone arma virumque (Trist., ii 533
sg.).
Gli altri tre libri sono pubblicati separatamente negli anni tra 9 e 12. I destinatari
delle epistole non sono nominati esplicitamente: il poeta, caduto in disgrazia, teme
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
che la sua sorte possa danneggiare anche altri. Il rigido paesaggio dell’inverno getico ispira a Ovidio pannelli descrittivi di grande efficacia (ad es. in iii 10). L’ultima
elegia del quarto libro (iv 10) è un lungo componimento autobiografico, che si
chiude con un’orgogliosa affermazione dell’immortalità assicuratagli dalla poesia.
Della seconda raccolta, le Epistulae ex Ponto, i primi tre libri vengono composti
tra il 12 e il 13, il quarto tra il 13 e il 16. Si accentua il carattere epistolare attraverso le
formule e i topoi del genere (la lettera come colloquio tra amici lontani, l’illusione
della presenza nel distacco, ecc.). I destinatari, ora nominati senza preoccupazione,
sono tra i personaggi e i letterati piú in vista della Roma del tempo. Ma il perdurante esilio e l’affievolirsi della speranza di rivedere Roma portano il poeta a un atteggiamento sempre piú rivolto verso il passato. Il senso di solitudine emerge in
modo netto nella celebre immagine del ballerino al buio, cui Ovidio paragona la
propria condizione di poeta ormai privo di lettori (Pont., iv 2 33 sg.). Ciò nonostante la poesia rimane l’unico sostegno, la garanzia dell’immortalità e l’ultima elegia
della raccolta (iv 16), un attacco al Livor (‘Invidia’) personificato, contiene un catalogo dei poeti piú in vista della Roma di Ovidio, tra i quali egli aveva un posto di
tutto rilievo: la fama data dalla poesia ha la meglio sulla tristezza e sulla solitudine
dell’esilio.
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v · l’elegia
TRI STIA
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Cum subit illius tristissima noctis imago,
qua mihi supremum tempus in urbe fuit,
cum repeto noctem, qua tot mihi cara reliqui,
labitur ex oculis nunc quoque gutta meis.
Iam prope lux aderat qua me discedere Caesar
finibus extremae iusserat Ausoniae.
Nec spatium nec mens fuerat satis apta parandi:
torpuerant longa pectora nostra mora.
Non mihi servorum, comites non cura legendi,
non aptae profugo vestis opisve fuit.
Non aliter stupui quam qui Iovis ignibus ictus
vivit et est vitae nescius ipse suae.
Ut tamen hanc animi nubem dolor ipse removit,
et tandem sensus convaluere mei,
alloquor extremum maestos abiturus amicos,
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Tristia. L’elegia proposta è forse la piú celebre tra quelle dell’esilio e a essa andò il pensiero di
Goethe mentre si allontanava da Roma. Ovidio rievoca con commozione la sua ultima notte nell’Urbe prima di partire per l’esilio a Tomi: il suo stato quasi di torpore, il triste addio ai pochi amici rimastigli accanto nella sventura, il pianto partecipe della moglie Fabia. Tutt’attorno gemiti e
grida quali dovettero essere nell’ultima notte di Troia. La quiete notturna della città produce un
drammatico contrasto con la casa dell’esule. L’elegia assume i tratti della tragedia: sulla scena il
poeta ha il ruolo di protagonista, la moglie di deuteragonista, gli amici e i servi del coro. Ma nella
rappresentazione dell’addio Ovidio si appropria anche del modello epico dell’ultima notte di Troia
e suggerisce al lettore il parallelo tra se stesso ed Enea, esule per volere del fato. Infine il sofferto
commiato dalla moglie evoca anche l’archetipo degli addii letterari: quello di Ettore ad Andromaca in Omero, Il., vi 369 sgg. L’elegia è non a caso collocata tra le due descrizioni della tempesta che
accompagna il viaggio del poeta verso Tomi (i 2 e i 4), quasi si trattasse di un ricordo che affiora alla mente di Ovidio durante il pericoloso viaggio verso il Ponto. Il testo prescelto è quello di S.G.
Owen (Oxford, Univ. Press, 1915), con qualche modifica.
i 3. Roma addio! Il ricordo dell’ultima notte trascorsa a Roma è sempre motivo di lacrime per il
poeta. Egli ricorda il suo stato di torpore nei momenti precedenti la partenza e l’incapacità di pensare agli aspetti pratici dell’esilio. Riavutosi, porge l’estremo saluto ai pochi amici rimastigli accanto. La moglie Fabia in lacrime lo abbraccia disperata e tutto intorno è pianto come a un funerale.
Tale era l’aspetto di Troia nell’ultima notte fatale. Il poeta si rivolge agli dei di Roma e afferma la
propria buona fede, nella speranza che anche Augusto si convinca della sua innocenza. Intanto la
moglie prega invano i Penati della famiglia. Nel frattempo fugge la notte, Ovidio non sa decider-
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
I TRI STIA
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Quando mi viene alla mente la tristissima immagine di quella notte,
nella quale trascorsi gli estremi momenti nell’Urbe,
quando ripenso alla notte in cui abbandonai tante cose a me care,
ancora oggi una lacrima scivola giú dai miei occhi.
Ormai era vicina la luce del giorno in cui Cesare aveva ordinato
che io mi allontanassi dagli estremi confini dell’Ausonia.
Né vi era stato tempo, né mente sufficientemente adeguata per i
[preparativi:
il mio animo si era intorpidito per il lungo indugio.
Non ebbi cura di scegliere i servi, non i compagni di viaggio,
non di scegliere le vesti o le risorse adeguate a un esule.
Fui sbalordito non diversamente da colui che, colpito dal fulmine di Giove,
è in vita ed è inconsapevole della sua vita.
Come tuttavia il dolore stesso ebbe rimosso questa nube del mio animo
e infine i miei sensi si furono ristabiliti,
rivolsi l’estremo saluto, ormai prossimo alla partenza, ai mesti amici,
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si al passo finale, stringe a sé tutti i suoi cari. Ormai è l’alba: quasi separandosi dalle sue stesse membra, egli esce di casa. Fabia compie un ultimo disperato tentativo di persuaderlo a portarla con sé,
ma il fato ha voluto diversamente. Gli raccontano che dopo la sua partenza la donna, caduta esanime in terra, abbia poi pianto se stessa e i Penati abbandonati e invocato il marito strappatole; abbia desiderato di morire, ma sia stata trattenuta dal rispetto per il marito. Che ora possa vivere per
alleviare il suo esilio!
8. longa . . . mora: Hall mette a testo la sua congettura parva (per longa) e già D.R. Shackleton Bailey (Notes on Ovid’s Poems from Exile, in « CQ », a. lxxvi 1982, p. 391) aveva proposto dempta, sulla base della presunta contraddizione tra v. 7: Nec spatium . . . fuerat, e v. 8: longa . . . mora; ma l’incongruenza può essere eliminata ipotizzando che la longa mora faccia riferimento a un periodo in cui Ovidio,
subíta la condanna alla relegazione, non aveva però ancora ricevuto un ordine preciso sulla data
del suo allontanamento (Luck); per l’uso di torpescere unito all’idea di lunga durata cfr. Trist., v 12 21
sg.: adde quod ingenium longa rubigine laesum torpet, et est multo, quam fuit ante, minus (‘aggiungi che l’ingegno, danneggiato dalla lunga ruggine, è intorpidito, ed è molto minore di quanto fu in precedenza’). c 11-12. Non aliter stupui . . . Iovis ignibus ictus / vivit: il fulmine di Giove è metafora per la punizione di Augusto ricorrente nelle opere dell’esilio: cfr. Trist., i 1 72: venit in hoc illa fulmen ab arce caput (‘da quella rocca venne il fulmine su questo capo’); 1 81 sg.; ii 179; iv 5 5 sg.; v 2 53 sg., 3 31 sg.;
Pont., i 2 126, 7 46. Per il riferimento ai sopravvissuti a un fulmine, intontiti e fuori di sé, cfr. Seneca, Nat. quaest., ii 27 3: quidam vero vivi stupent et in totum sibi excidunt, quos vocamus attonitos (‘alcuni, sopravvissuti, restano intontiti e perdono completamente coscienza di sé; li chiamiamo “attoniti” ’).
c 15. alloquor extremum: allude a Virgilio, Aen., vi 466: Quem fugis? Extremum fato quod te adloquor, hoc
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qui modo de multis unus et alter erat.
Uxor amans flentem flens acrius ipsa tenebat,
imbre per indignas usque cadente genas.
Nata procul Libycis aberat diversa sub oris,
nec poterat fati certior esse mei.
Quocumque aspiceres, luctus gemitusque sonabant,
formaque non taciti funeris intus erat.
Femina virque meo, pueri quoque funere maerent,
inque domo lacrimas angulus omnis habet.
Si licet exemplis in parvo grandibus uti,
haec facies Troiae, cum caperetur, erat.
Iamque quiescebant voces hominumque canumque,
Lunaque nocturnos alta regebat equos.
Hanc ego suspiciens et ad hanc Capitolia cernens,
quae nostro frustra iuncta fuere Lari,
« Numina vicinis habitantia sedibus, » inquam
« iamque oculis numquam templa videnda meis,
dique relinquendi, quos urbs habet alta Quirini,
este salutati tempus in omne mihi.
Et quamquam sero clipeum post vulnera sumo,
attamen hanc odiis exonerate fugam,
caelestique viro, quis me deceperit error,
dicite, pro culpa ne scelus esse putet.
Ut, quod vos scitis, poenae quoque sentiat auctor:
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est (le ultime parole rivolte da Enea a Didone nell’Oltretomba). c 16. qui . . . erat: l’abbandono da parte di molti (presunti) amici è tra le recriminazioni piú presenti nelle elegie dell’esilio: cfr. Trist., i 5
33 sg.; iii 5 9 sg.; Pont., i 9 15; ii 3 29 sg. c 17. Uxor amans flentem flens: la disposizione delle parole, con
il part. flentem chiuso da amans e flens, visualizza l’abbraccio della moglie all’esule; per il poliptoto
(flentem flens), che intensifica con efficacia il pathos della scena, cfr. anche Pont., i 4 53: et narrare meos
flenti flens ipse labores; Met., xiv 305 sg. c 21-22. La relegazione a Tomi equivale alla morte e l’addio
agli amici al funerale: per l’idea, che ricorre di frequente nelle opere dell’esilio, cfr. v. 89; i 8 14; v 1
13 sg.; Pont., i 9 17 sg.; ii 3 3 sg. c 25. parvo: preferibile al meglio attestato parvis, accolto da Owen, non
tanto per l’imitazione di CLE 1988 34: sit, precor, hoc iustum exemplis in parvo grandibus uti, quanto per
l’ambiguità che si creerebbe con il plurale, peraltro facilmente spiegabile come corruttela generata da quanto precede (exemplis). c 26. haec facies Troiae: il paragone con l’ultima notte di Troia assimila implicitamente Ovidio a Enea (cfr. anche n. a v. 77). c 27-28. L’immagine è debitrice di Varrone Atacino, FPL, 8 Bl.: desierant latrare canes urbesque silebant: / omnia noctis erant placida composta quiete
(‘avevano smesso di latrare i cani e le città tacevano: ogni cosa era tranquilla nella placida quiete
della notte’). c 30. nostro . . . Lari: Lar, divinità protettrice del focolare domestico, è metonimia per
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
che erano uno o due dei molti di poco prima.
La moglie con amore abbracciava me piangente, piangendo lei stessa
[piú intensamente,
mentre una pioggia di lacrime le cadeva senza posa sulle guance che
[non lo meritavano.
Mia figlia era molto distante, nelle terre libiche,
né poteva essere bene informata della mia sorte.
Dovunque uno guardasse, risuonavano lamenti e gemiti,
e all’interno c’era l’aspetto di un funerale non silenzioso.
Donne, uomini e anche fanciulli si rattristano per la mia morte,
e ogni angolo in casa è colmo di lacrime.
Se è lecito servirsi di grandi esempi per un piccolo caso,
questo era l’aspetto di Troia quando veniva conquistata.
E ormai si acquetavano le voci di uomini e di cani,
e la Luna alta guidava i cavalli della notte.
Io, rivolgendo lo sguardo verso di essa e distinguendo alla sua luce il
[Campidoglio,
che invano fu vicino alla mia casa,
« O numi che abitate sedi vicine, » dico
« e templi che non vedrò mai piú con i miei occhi d’ora in avanti,
e dei, che ospita l’alta città di Quirino, che devo abbandonare,
ricevete il mio addio per sempre.
E, sebbene tardi imbracci lo scudo dopo la ferita,
liberate però questo esilio dal peso dell’odio,
e all’uomo celeste dite quale errore mi abbia ingannato,
perché non pensi che in luogo di colpa vi sia delitto.
In modo che ciò che voi sapete lo creda anche l’autore della pena:
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indicare la casa, attestata fin dal periodo ciceroniano e comune in poesia. c 37. caelesti . . . viro: Augusto, assimilato a divinità (cfr. v. 40: placato . . . deo). – quis me deceperit error: error è termine-chiave dell’opera dell’esilio di Ovidio, che vi ricorre a piú riprese nella sua strategia apologetica: cfr. specialmente ii 207: perdiderint cum me duo crimina, carmen et error; inoltre i 2 99; ii 109; iii 1 52, 5 52, 6 26, 11 34;
iv 4a 39, 8 40, 10 90; Pont., ii 2 55 e 61, 3 92; iv 8 20, 15 25; la stessa espressione ricorre in Trist., iv 1 23.
Sulla natura dell’error, che il poeta identifica nell’aver visto involontariamente qualcosa che non
avrebbe dovuto (Trist., ii 103), due millenni di ipotesi non hanno potuto raggiungere risultati certi.
c 38. culpa . . . scelus: Ovidio ammette la propria culpa, errore non intenzionale, ma desidera allontanare l’accusa di scelus (o facinus), delitto premeditato (per il concetto cfr. Trist., iv 1 23 sg., 4 37; v 4 18,
8 23 sg.; Pont., i 6 25 sg.).
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v · l’elegia
placato possum non miser esse deo ».
Hac prece adoravi superos ego; pluribus uxor,
singultu medios impediente sonos.
Illa etiam ante Lares passis adstrata capillis
contigit extinctos ore tremente focos,
multaque in adversos effudit verba Penates
pro deplorato non valitura viro.
Iamque morae spatium nox praecipitata negabat,
versaque in axe suo Parrhasis Arctos erat.
Quid facerem? Blando patriae retinebar amore,
proxima sed iussae nox erat illa fugae.
A! Quotiens aliquo dixi properante: « Quid urges?
Vel quo festines ire vel unde, vide! ».
A! Quotiens certam me sum mentitus habere
horam, propositae quae foret apta viae!
Ter limen tetigi, ter sum revocatus, et ipse
indulgens animo pes mihi tardus erat.
Saepe « vale » dicto rursus sum multa locutus,
et quasi discedens oscula summa dedi.
Saepe eadem mandata dedi meque ipse fefelli,
respiciens oculis pignora cara meis.
Denique « Quid propero? Scythia est, quo mittimur », inquam
« Roma relinquenda est: utraque iusta mora est.
Uxor in aeternum vivo mihi viva negatur,
et domus et fidae dulcia membra domus,
quosque ego dilexi fraterno more sodales,
o mihi Thesea pectora iuncta fide!
Dum licet, amplectar: numquam fortasse licebit
amplius; in lucro est quae datur hora mihi ».
Nec mora, sermonis verba imperfecta relinquo,
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45. in adversos . . . Penates: le statuette dei Penati, divinità protettrici della famiglia. La congettura aversos (‘che hanno voltato le spalle’, dunque ‘ostili’) di Heinsius, accolta da alcuni editori, inserisce un
tratto probabilmente estraneo al testo, tanto piú se si considera che Ovidio paragona la propria
sorte a quella di Enea, l’eroe che porta con sé i Penati di Troia verso la nuova patria (cfr. Virgilio,
Aen., i 378 sg.: Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penatis / classe veho mecum, fama super aethera notus, ‘Sono il pio Enea e con la flotta porto con me i Penati strappati al nemico, noto per fama fin sopra l’etere’). c 63. Uxor . . . negatur: il verso raggiunge un pathos elevato, intensificato dal poliptoto (vivo . . .
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
una volta placato il dio posso non essere infelice ».
Con questa preghiera io invocai gli dei; con piú numerose mia moglie,
mentre i singhiozzi le interrompevano le parole a metà.
Ella anche gettatasi dinanzi ai Lari con i capelli sciolti
toccò con bocca tremante il focolare spento
e proferí ai Penati che le erano di fronte molte parole,
che non avrebbero avuto efficacia per il marito compianto.
E ormai la notte precipitando negava spazio all’indugio,
e l’Orsa parrasia si era volta sul suo asse.
Cosa avrei dovuto fare? Ero trattenuto dal dolce amore della patria,
ma quella notte era prossima all’esilio impostomi.
Ah! Quante volte, quando qualcuno si affrettava, dissi: « Perché mi incalzi?
Considera sia verso dove ti affretti sia da dove! ».
Ah! Quante volte dissi mentendo di avere un’ora
fissata, che fosse adatta per il viaggio prestabilito!
Per tre volte toccai la soglia, per tre volte fui richiamato, e
i piedi stessi, indulgenti con l’animo, erano lenti.
Spesso, dopo aver detto « Addio », dissi di nuovo molte parole,
e, come allontanandomi, diedi gli ultimi baci.
Spesso diedi le medesime raccomandazioni e ingannai me stesso,
volgendomi a guardare i pegni d’amore cari ai miei occhi.
Infine « Perché mi affretto? È la Scizia dove sono mandato », dico
« è Roma che devo abbandonare: l’uno e l’altro giusti motivi d’indugio.
Per sempre la moglie viva è negata a me vivo,
e la casa e i dolci membri della casa fedele,
e i compagni che amai fraternamente,
oh, cuori uniti a me da fedeltà degna di Teseo!
Finché è lecito, li abbraccerò: forse non sarà lecito mai
piú; è un guadagno l’ora che mi è concessa ».
Non c’è indugio, lascio incompiute le parole del discorso,
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viva), che sottolinea tragicamente come la definitiva separazione dei coniugi non sia dovuta alla
morte (cui lascia pensare in aeternum: cfr. Orazio, Carm., ii 3 25-28). c 66. Thesea . . . fide: Teseo e Piritoo sono nel mondo romano proverbiale exemplum di amicizia (vd. Otto, s.v. Theseus). Ovidio vi ricorre nelle opere dell’esilio (Trist., i 5 19, 9 31; v 4 25; Pont., ii 3 43, 6 26; iii 2 33; iv 10 78). c 68. in lucro
est quae datur hora mihi: la formulazione è debitrice nei confronti della lirica oraziana: Carm., i 9 1315: quid sit futurum cras fuge quaerere et / quem Fors dierum cumque dabit lucro / appone (‘rifuggi dal chiedere cosa accadrà domani e qualunque giorno la sorte ti darà, consideralo un guadagno’). c 69. ver-
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v · l’elegia
complectens animo proxima quaeque meo.
Dum loquor et flemus, caelo nitidissimus alto,
stella gravis nobis, Lucifer ortus erat.
Dividor haud aliter, quam si mea membra relinquam,
et pars abrumpi corpore visa suo est.
[Sic doluit Mettus tunc cum in contraria versos
ultores habuit proditionis equos. ]
Tum vero exoritur clamor gemitusque meorum,
et feriunt maestae pectora nuda manus.
Tum vero coniunx umeris abeuntis inhaerens
miscuit haec lacrimis tristia verba meis:
« Non potes avelli; simul hinc, simul ibimus: » inquit
« te sequar et coniunx exulis exul ero.
Et mihi facta via est, et me capit ultima tellus;
accedam profugae sarcina parva rati.
Te iubet e patria discedere Caesaris ira,
me pietas: pietas haec mihi Caesar erit ».
Talia temptabat, sicut temptaverat ante,
vixque dedit victas utilitate manus.
Egredior, sive illud erat sine funere ferri,
squalidus immissis hirta per ora comis.
Illa dolore amens tenebris narratur obortis
semianimis media procubuisse domo:
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ba imperfecta relinquo: Ovidio riusa qui l’espressione con cui aveva descritto l’addio affrettato di Laodamia a Protesilao in Her., 13 13 sg.: linguaque mandantis verba imperfecta reliquit: / vix illud potui dicere triste « vale »; cfr. anche Her., 21 25; Met., i 526; Stazio, Theb., x 151. c 71-72. Dum loquor . . . Lucifer ortus erat:
il sorgere di Lucifero, stella del mattino, che segna l’alba del giorno della partenza, giunge troppo
rapidamente per l’esule, mentre ancora rivolge parole ai suoi cari; la temporale dum loquor in apertura di verso allude con ogni probabilità alla piú celebre formulazione latina della fuga inesorabile del tempo: Orazio, Carm., i 11 7 sg.: dum loquimur, fugerit invida / aetas. Carpe diem, quam minimum
credula postero (‘mentre parliamo, sarà fuggito invidioso / il tempo. Cogli il giorno, il meno possibile fiduciosa nel futuro’). Ovidio la usa allusivamente già in Am., i 11 15: dum loquor, hora fugit, ma qui
con ben altra intensità emotiva (la riflessione oraziana sul tempo è del resto presente anche nel v.
68). c 75-76. Sic doluit. . . equos: il distico è da considerare interpolato con F.W. Lenz (Ovid, ‘Tristia’ i 3,
75 f., in « Maia », a. xiv 1962, pp. 109-16 = Id., Opuscula selecta, Amsterdam, Hakkert, 1972, pp. 308-15),
che mette in risalto la sua inadeguatezza sia metrica (elisione di monosillabo in quarto piede) che
contenutistica (Ovidio si paragonerebbe al traditore Mettio Fufetio). L’exemplum storico del supplizio di Mettio Fufetio (per cui cfr. Livio, i 28; Virgilio, Aen., viii 642-45; Valerio Massimo, vii 4 1;
Gellio, Noct. Att., xx 1 54) appare effettivamente fuori luogo nel contesto epicheggiante dell’elegia.
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abbracciando tutto ciò che era piú vicino al mio cuore.
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Mentre parlo e piangiamo, lucentissimo nell’alto del cielo,
era sorto Lucifero, stella nociva per me.
Mi separo non diversamente che se lasciassi le mie membra,
e sembrò che una parte fosse troncata dal suo corpo.
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[Cosí soffrí Mezio allorché sperimentò i cavalli, rivolti in direzioni
diverse, come vendicatori del tradimento. ]
Allora si levano le grida e i gemiti dei miei,
e mani meste colpiscono i petti nudi.
Allora mia moglie, attaccata alle spalle del partente,
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mescolò queste tristi parole alle mie lacrime:
« Non mi puoi essere strappato; insieme di qui, insieme ce ne andremo »,
[disse
« ti seguirò e sarò esule moglie dell’esule.
Anche per me si è aperta la strada, anche me può ospitare l’estrema regione;
mi aggiungerò come piccolo bagaglio all’esule nave.
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A te impone di allontanarti dalla patria l’ira di Cesare,
a me la devozione: questa devozione sarà per me come Cesare ».
Tali tentativi faceva, come prima ne aveva fatti,
e a stento porse le mani vinte dall’utilità.
Esco – o piuttosto quello era essere portato alla sepoltura senza cadavere –
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incolto con i capelli che scendevano sul volto irto.
Dicono che lei, folle per il dolore, calate le tenebre,
cadesse esanime in mezzo alla casa,
Il distico precedente (73 sg.) inoltre contiene anch’esso una similitudine. c 77. Tum vero exoritur clamor: identico segmento di verso in Virgilio, Aen., xii 756, durante il duello tra Enea e Turno; ma
l’espressione allude qui probabilmente a Aen., ii 313: Exoritur clamorque virum clangorque tubarum, che
descrive grida e suoni nella notte fatale di Troia, già richiamata da Ovidio ai vv. 25 sg. c 81-86. Le
parole della moglie Fabia, estremo tentativo di condividere la sorte del marito, presentano un alto
grado di elaborazione retorica e di pathos: il destino che la accomuna al marito è posto in risalto
dall’anafora di simul (v. 81), dall’uso di coniunx, che rispetto a uxor rinvia etimologicamente all’unione (coniungo), dal poliptoto (exulis exul ), dall’insistenza sulla propria partecipazione alla sorte
del marito (v. 83: et mihi . . . et me), che trova coronamento nell’ultimo distico (85 sg.), i cui versi si
aprono con i due pronomi te e me, nel disperato tentativo di sovrapporre i due destini. – ultima tellus: indica con enfasi il Ponto Eusino anche in Pont., ii 8 11. c 88. dedit victas . . . manus: indica la resa del
vinto che consegna le mani alle catene. c 91-92. tenebris . . . obortis . . . procubuisse: Ovidio riusa le parole di Laodamia nel descrivere la partenza di Protesilao in Her., 13 23 sg.: Lux quoque tecum abiit tenebrisque exsanguis obortis / succiduo dicor procubuisse genu. c 92. semianimis: il composto, di tono stilistico
elevato (cfr. Ennio, Ann., 473 Vahlen2 = 484 Skutsch), è usato da Virgilio per gli ultimi istanti di Di-
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utque resurrexit foedatis pulvere turpi
crinibus et gelida membra levavit humo,
se modo, desertos modo complorasse Penates,
nomen et erepti saepe vocasse viri,
nec gemuisse minus quam si nataeque virique
vidisset structos corpus habere rogos,
et voluisse mori, moriendo ponere sensus,
respectuque tamen non potuisse mei.
Vivat, et absentem, quoniam sic fata tulerunt,
vivat ut auxilio sublevet usque suo.
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done in Aen., iv 686; in Ovidio già per Arianna abbandonata in Her., 10 32. c 93-94. foedatis pulvere turpi crinibus: appartiene all’imagery epica: cfr. Virgilio, Aen., xii 99: foedare in pulvere crinis. c 99. moriendo
ponere sensus: concetto epicureo e terminologia lucreziana (cfr. iii 526 sgg.).
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iii · variazioni sul genere elegiaco: ovidio
e che, come si fu rialzata con i capelli lordi di lurida polvere
ed ebbe sollevato le membra dalla fredda terra,
abbia compianto ora se stessa, ora i Penati abbandonati,
e che spesso abbia invocato il nome del marito strappatole,
e che abbia emesso non meno gemiti che se avesse visto i roghi innalzati
possedere il corpo della figlia e del marito,
e che volesse morire, e deporre con la morte la facoltà di sentire,
ma che non poteva per rispetto verso di me.
Che viva e, poiché il fato cosí ha voluto,
viva per dare continuo sollievo a me lontano con il suo aiuto.
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LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA