2013 • Vol. 65 • (Numero Speciale 1) eumatismo Giornale ufficiale della Società Italiana di Reumatologia - SIR • Fondato nel 1949 50° Congresso Nazionale della Società Italiana di Reumatologia REVIEW COURSE Sped. abb. postale - 70% Filiale di Milano - Bimestrale Luglio-Agosto 2013 (Numero Speciale 1) Editore: Edizioni Internazionali srl - Divisione Edimes - Edizioni Medico Scientifiche - Pavia - Via Riviera, 39 - 27100 Pavia Autorizzazione Tribunale di Milano n. 1735 del 23/11/49 - Direttore responsabile: Leonardo Punzi REUMATISMO Giornale ufficiale della Società Italiana di Reumatologia Fondato nel 1949 2013 • Vol. 65 • N. 4 (Numero Speciale 1) © Copyright 2013 by Sede Redazione “Reumatismo” Cattedra e Divisione di Reumatologia Via Giustiniani 2 - 35128 Padova Tel 049 821 2190 - 049 821 2199 - 049 876 3852 Fax 049 821 2191 - 049 876 3852 E-mail: [email protected] Edizioni Internazionali srl Div. 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Consiglio Direttivo SIR Presidente Marco Matucci Cerinic Past President Giovanni Minisola Presidente Eletto Ignazio Olivieri Vice Presidente Mauro Galeazzi Segretario Generale Alberto Migliore Consiglieri Fabrizio Cantini • Fabrizio Conti Giovanni D’Avola • Andrea Doria Elisa Gremese • Florenzo Iannone Antonio Marchesoni • Carlo Salvarani Magda Scarpellini • Gian Domenico Sebastiani Segretario alla Presidenza Roberto Caporali Tesoriere Sergio Castellini Collegio dei Presidenti Onorari Presidente Giampiero Pasero Vice Presidente Silvano Todesco Segretario Umberto Ambanelli Stefano Bombardieri • Bianca Canesi • Ugo Carcassi Collegio dei Revisori dei Conti Presidente Carlo Leopoldo Lumi Revisore Oriana Baglieri Revisore Maurizio Pin REUMATISMO Giornale ufficiale della Società Italiana di Reumatologia - SIR Direttore Scientifico (Editor in Chief) M.A. Cimmino (Genova) Condirettori (Coeditors) R. Caporali (Pavia), P. Sarzi-Puttini (Milano) Vicedirettori (Associate Editors) S. 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Zeni (Milano) CONGRESSO SIR 2013 Presidente Marco Matucci Cerinic Presidente SIR Presidente Onorario Maurizio Cutolo Presidente EULAR Coordinatore del Comitato Scientifico Coordinatore del Comitato Organizzatore Giovanni Minisola Past President SIR Coordinatore degli Abstract Elisa Gremese Comitato Scientifico Gerolamo Bianchi Luca Cantarini Fabrizio Cantini Roberto Caporali Fabrizio Conti Giovanni D’Avola Salvatore De Vita Andrea Doria Ennio Giulio Favalli Gianfranco Ferraccioli Bruno Frediani Mauro Galeazzi Marcello Govoni Serena Guiducci Florenzo Iannone Francesca Ingegnoli Pietro Leccese Enno Lubrano di Scorpaniello Nazzarena Malavolta Maria Manara Alessandro Mannoni Antonio Marchesoni Pier Luigi Meroni Alberto Migliore Marta Mosca Ignazio Olivieri Nicolò Pipitone Immacolata Prevete Roberta Priori Leonardo Punzi Roberta Ramonda Maurizio Rossini Fausto Salaffi Carlo Salvarani Piercarlo Sarzi-Puttini Magda Scarpellini Gian Domenico Sebastiani Luigi Sinigaglia Antonio Spadaro Alberto Sulli Angela Tincani Guido Valesini Massimo Varenna Segreteria Scientifica SIR - Società Italiana di Reumatologia e-mail: [email protected] www.reumatologia.it Segreteria Organizzativa AIM Group International Sede di Milano: Via G. 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Bianchi (Genova) Farmaci in gravidanza ..............................................................................................................................................34 A. Doria (Padova) Reumatismo, 2013; 65(4): S1:9-13 Le sindromi IgG4 correlate G. Pazzola, F. Muratore, C. Salvarani Unità Operativa di Reumatologia, Azienda Ospedaliera ASMN, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), Reggio Emilia, Italia INTRODUZIONE E CENNI STORICI a La IgG4 related disease (IgG4-RD) è una sindrome ad eziologia in gran parte sconosciuta costituita da un insieme di disordini che condividono specifiche caratteristiche patologiche, sierologiche e cliniche (1). Nel 1995 Yoshida et al. (2), proposero il concetto della pancreatite autoimmune (AIP), un’entità clinica caratterizzata da un ingrandimento del pancreas, un restringimento del dotto pancreatico, aumentati livelli sierici di gamma-globuline, infiltrazione linfoplasmacellulare dell'organo con fibrosi e risposta brillante alla terapia steroidea (3). Nel 2001 Hamano et al. descrissero l'elevazione sierica delle IgG4 come dato associato alla pancreatite autoimmune (altrimenti detta sclerosante) (4). Nel 2002 gli stessi autori dimostrarono che le plasmacellule che infiltravano gli ureteri e il pancreas di pazienti con fibrosi retroperitoneale avevano una forte reattività per le IgG4 (5). Solo Nel 2003 Kamisawa et al. (6, 7) riconobbero in queste manifestazioni una condizione sistemica comune e proposero la nuova entità clinico-patologica della “IgG4 related disease” (IgG4-RD) descrivendo l'associazione della AIP con altre condizioni autoimmuni quali la colangite sclerosante, la fibrosi retroperitoneale, l'artrite reumatoide, la sarcoidosi e la sindrome di Sjogren: riscontrarono infatti che la AIP si caratterizzava specificamente per un denso infiltrato pancreatico di plasmacellule IgG4-positive e che tali cellule erano riscontrabili istologicamente anche in altri tessuti e organi. In studi successivi vennero inoltre descritte possibili associazioni con la nefrite acuta tubulo-interstiziale e la trombocitopenia (8, 9). In seguito, molte entità furono descritte e correlate alla sindrome da IgG4, specialmente nei paesi occidentali e in Giappone: sialoadenite sclerosante, granulomi polmonari prevalentemente ricchi in plasmacellule, mastite, epatite, nefrite tubulo-in- L terstiziale, prostatite, aneurisma aortico infiammatorio, linfoadenopatia, pachimeningite, ipofisite, tiroidite, fibrosi retroperitoneale e lesioni cutanee (10). Le caratteristiche più comuni includono la tumefazione “tumor-like” degli organi interessati, un infiltrato linfocitario ricco di plasmacellule IgG4 positive (con rapporto IgG4/IgG alterato) e un grado variabile di aree fibrotiche. Inoltre, nel 60-70% dei pazienti con IgG4-RD sono riscontrabili elevate concentrazioni sieriche di IgG4 (e un alterato rapporto IgG4/IgG). La maggior parte dei pazienti risponde alla terapia steroidea. Recentemente è stato proposto l’impiego di agenti immmunosoppressori come cortico-risparmiatori; esiste qualche segnalazione sull'utilizzo di farmaci biologici nei casi di malattia refrattaria o recidivante. EPIDEMIOLOGIA L’epidemiologia della IgG4-RD è poco nota per lo scarso numero di studi di incidenza e prevalenza. La maggioranza dei pazienti sono uomini (62-83%) sopra i 50 anni di età (1, 11, 12). La maggior parte degli studi epidemiologici provengono dal Giappone e sono principalmente relativi alla pancreatite autoimmune con una prevalenza descritta di 0,8 casi per 100.000 persone; lo stesso studio riporta un rapporto maschio:femmina di 2,8:1 (13). In una serie di 245 pazienti della Mayo Clinic sottoposti a resezione pancreatica per varie indicazioni, la pancreatite autoimmune veniva riscontrata nell'11% dei pazienti (14). PATOGENESI Le IgG4 sono una particolare sottoclasse di immunoglobuline uniche nella loro struttura e funzione: rappresentano infatti il solo esempio di “half-antibody Exchange” in vivo, che consiste in 10 G. Pazzola, F. Muratore, C. Salvarani una reazione di scambio di parti tra due immunoglobuline risultante in molecole con due differenti specificità antigeniche. Per questo motivo non possono da sole legarsi all'antigene nè attivare il complemento, ma hanno bisogno dell'intervento di altre sottoclassi di IgG (15). Il ruolo delle IgG4 può essere riscontrato in molte condizioni fisiologiche e patologiche (16): in alcuni casi è stato dimostrato un effetto protettivo delle IgG4, come ad esempio a seguito di immunoterapia specifica per allergene dove si verifica un progressivo aumento policlonale delle IgG4 a fronte di una riduzione dei livelli di IgE specifiche (17, 18). Al contrario, in alcune condizioni le IgG4 mostrano invece una patogenicità diretta, come ad esempio nel pemfigo volgare e foliaceo: gli anticorpi responsabili del danno, anti-desmogleina 3 e 1 rispettivamente, appartengono infatti alla sottoclasse IgG4 (19). In questo tipo di patologia però i livelli sierici di IgG4 non risultano alterati. L'aumento delle IgG4 sieriche è descritto in numerose altre condizioni patologiche come il carcinoma pancreatico, allergopatie, malattie linfoproliferative e autoimmuni (in particolare nel Castleman e nella sindrome di Churg-Strauss, rispettivamente) e solo il 10% dei pazienti con IgG4 elevate ha una IgG4RD. Considerando l’associazione con malattie autoimmuni e allergopatie è stato infatti postulato un ruolo prevalente delle cellule e citochine di tipo Th2; tale ipotesi è stata confermata dalla presenza di livelli di mRNA di citochine Th2 (IL-4, IL-10, IL13) più elevati che nelle patologie autoimmuni classiche, dal riscontro di aumentata espressione linfocitaria di IL-4 e IL-10 identificata negli organi affetti, dalla produzione di citochine di tipo Th2 da parte delle PBMC sieriche di pazienti con IgG4RD (20, 21). Autoantigeni, allergeni ed agenti infettivi potrebbero rappresentare quindi potenziali trigger immunologici nella IgG4-RD, favorendo la produzione di citochine Th2 (IL-4, IL-5, IL-10, IL-13 e TGFbeta) e la conseguente attivazione di cellule T regolatorie (Treg). Queste citochine determinano un’ipereosinofilia, elevate concentrazioni sieriche di IgE e IgG4 e progressione della fibrosi che sono caratteristiche della IgG4-RD. Una massiva infiltrazione di cellule infiammatorie produce danno d'organo e determina la tipica tumefazione degli organi interessati (tumor-like lesions) (1, 20). MANIFESTAZIONI CLINICHE La IgG4-RD è una sindrome sistemica che può coinvolgere uno o più organi e apparati, ed è caratterizzata da specifiche alterazioni istologiche ed immunoistochimiche a livello dei tessuti colpiti che permettono di definirla come unica entità clinica (1). In circa il 60-90% dei casi la patologia si localizza a più organi, e virtualmente ogni organo e apparato può essere coinvolto (22, 23). Generalmente la malattia ha un decorso subacuto con lo sviluppo di lesioni “tumor-like” o di un diffuso ingrandimento a carico degli organi bersaglio (1, 24). Non è raro il riscontro occasionale delle lesioni in esami radiologici o istologici eseguiti per altri motivi in pazienti altrimenti asintomatici. Sintomi sistemici ed importante elevazione degli indici di flogosi non sono comuni e generalmente prevalgono le manifestazioni secondarie al coinvolgimento dei singoli organi e apparati. Una anamnesi positiva per manifestazioni allergiche, tipo asma bronchiale, sinusite cronica o eczema è presente in circa il 40% dei pazienti (25). La pancreatite autoimmune è considerata la forma prototipo della IgG4-RD, ed è stimata essere la causa del 2% di tutti i casi di pancreatite cronica (13). Si presenta spesso come una massa pancreatica isolata o come un diffuso ingrandimento della ghiandola. Alcuni pazienti manifestano episodi ricorrenti di pancreatite acuta o cronica, e di ittero ostruttivo. L'evoluzione verso il diabete mellito non è rara. La diagnosi differenziale con neoplasie pancreatiche non è facile e richiede quasi sempre un esame bioptico. La colangite sclerosante IgG4 correlata è la manifestazione extrapancreatica più frequente nei pazienti con pancreatite autoimmune ed è presente in oltre il 70% dei pazienti (24). Il suo riscontro isolato in pazienti non affetti da pancreatite autoimmune è raro. La diagnosi differenziale principale si pone con la colangite sclerosante primitiva ed è di fondamentale importanza data la diversa risposta alla terapia e la diversa prognosi delle due patologi (26, 27). Il coinvolgimento dei linfonodi in corso di IgG4RD è comune sia nella forma di linfoadenopatia localizzata che sistemica ed è riportato in circa l'80% dei pazienti con pancreatite autoimmune (28); spesso si associa ad ipergammaglobulinemia policlonale, aumento delle IgG4 sieriche e della VES. L'interessamento delle ghiandole salivari e delle ghiandole lacrimali è una comune manifestazione della IgG4-RD (29). Generalmente si presenta con tumefazione a carico di una o più ghiandole sali- Le sindromi IgG4 correlate vari e lacrimali e si può associare a vari gradi di xerostomia e xeroftalmia. Anche i tessuti orbitari possono essere coinvolti in corso di IgG4-RD sotto forma di dacrioadenite cronica sclerosante (30) e pseudotumor orbitario infiammatorio (31, 32). Recenti evidenze (5, 33-35) hanno riportato la presenza delle caratteristiche lesioni istologiche della IgG4-RD in una variabile proporzione di pazienti con diagnosi di fibrosi retroperitoneale idiopatica (59% su 17 biopsie di fibrosi retroperitoneale in un recente studio) (33). Nella maggior parte dei casi la fibrosi retroperitoneale si associa al coinvolgimento di altri organi (pancreas, ghiandole salivari, linfonodi), sebbene casi di fibrosi retroperitoneale isolata quale unica manifestazione di IgG4-RD siano presenti in letteratura. Inoltre vi sono aneddotiche segnalazioni di mesenterite sclerosante, mediastinite sclerosante e fibrosclerosi multifocale quali manifestazioni della IgG4-RD (36-39). Studi retrospettivi su pezzi operatori di aorta toracica e addominale di pazienti sottoposti a resezione aortica hanno mostrato l'associazione della IgG4-RD con alcuni casi di aortite toracica (0,5-1,6% di tutti i casi di resezione aortica; 9% dei casi di aortite non infettiva) (40, 41), aneurisma infiammatorio dell'aorta addominale (4 di 10 aneurismi infiammatori dell'aorta addominale) (42) e periaortite cronica. Una nefrite tubulointerstiziale è presente in circa 15% dei pazienti con IgG4-RD, generalmente in forma di proteinuria, ematuria non glomerulare e riduzione della funzione renale (43, 44). Molto più raro è il coinvolgimento glomerulare sotto forma di glomerulonefrite membranosa IgG4-relata (45). Descritto anche il coinvolgimento renale in forma di lesione infiammatoria solida (pseudotumor infiammatorio renale). A livello polmonare la IgG4-RD si può manifestare con noduli e addensamenti polmonari, ispessimenti pleurici o interstiziopatia polmonare (46-50). Altri organi coinvolti nella IgG4-RD comprendono: tiroide (tiroidite di Riedel, variante fibrosa della tiroidite di Hashimoto); fegato (epatite, pseudotumor infiammatorio); mammella (mastite sclerosante, pseudotumor infiammatorio); ipofisi (ipofisite con ipopituitarismo); meningi (pachimeningite); prostata (prostatite); pericardio (pericardite costrittiva); cute (pseudolinfoma cutaneo) (24). DIAGNOSI La diagnosi di IgG4-RD si basa sull'evidenza delle caratteristiche lesioni istologiche ed immunoistochimiche all'esame bioptico degli organi coin- 11 volti. Sebbene la malattia possa coinvolgere ogni organo e apparato, le lesioni istologiche riscontrate alla biopsia sono simili, indipendentemente dalla sede coinvolta. Il dosaggio delle IgG4 sieriche è elevato in circa il 70% dei pazienti con IgG4-RD (51), e quando presente può rafforzare il sospetto diagnostico, ma non ha sufficiente sensibilità né specificità per la diagnosi, e il riscontro di livelli sierici di IgG4 non elevati non esclude la diagnosi in presenza delle caratteristiche lesioni istologiche. L'esame istologico degli organi interessati rimane infatti il gold standard per la diagnosi della IgG4-RD. Le alterazioni clinico-patologiche fondamentali riscontrate in tutti i tessuti coinvolti sono: 1) denso infiltrato linfocitario con fibrosi; 2) flebite obliterante; 3) moderata infiltrazione eosinofilica o formazione di granuloma in alcuni casi; 4) elevato numero di Plasmacellule IgG4 positive distribuite nelle lesioni. Un numero di 30-50 plasmacellule IgG4 per campo ed un rapporto IgG4/IgG maggiore del 50% determina un'evidenza di IgG4-RD. Un rapporto più basso è comunque accettabile in presenza di istologia e/o clinica suggestive (51, 52). La fibrosi associata alla IgG4-RD assume spesso il caratteristico aspetto “storiforme”, con l'aspetto a ruota di carro derivante dalla tipica disposizione dei fibroblasti e delle cellule infiammatorie (53, 54). Le metodiche di imaging (ecografia, TAC, RMN e TAC-PET) sono utili per valutare l'estensione della malattia, e spesso evidenziano un coinvolgimento subclinico di diversi organi e apparati, ma raramente permettono di porre una diagnosi conclusiva senza ricorrere ad una conferma bioptica (55). TERAPIA Non esistono trials clinici controllati sulla terapia della IgG4-RD, e i dati presenti in letteratura derivano da studi osservazionali, case reports e case series. I corticosteroidi sono considerati i farmaci di prima linea. L'approccio empirico più diffuso è quello di iniziare il trattamento con prednisone 0.51 mg/kg/die per 2-4 settimane, con una successiva lenta riduzione dello steroide nei successivi 12-24 mesi (56). Nonostante una iniziale risposta allo steroide sia comune, il 25% dei pazienti con pancreatite autoimmune recidiva durante la riduzione della terapia, il 32% entro 6 mesi dalla sospensione, il 56% entro 1 anno e il 92% entro 3 anni (57). 12 G. Pazzola, F. Muratore, C. Salvarani Uno studio retrospettivo su pazienti con pancreatite autoimmune ha mostrato che la terapia di mantenimento con glucocorticoidi a lungo termine si associava ad un ridotto rischio di recidive rispetto ai pazienti che sospendevano lo steroide (32% vs 70% a 24 mesi, p=0.01) (58). Il dosaggio delle IgG4 sieriche durante il followup non si è dimostrato un affidabile marcatore del rischio di recidive della malattia (57, 59). Nei pazienti con malattia refrattaria o con frequenti recidive alla riduzione o sospensione dello steroide, sono stati impiegati immunosoppressori tradizionali quali azatioprina (2 mg/kg/die) e micofenolato mofetile (2 gr/die) con efficacia variabile (56). Recentemente diversi case reports hanno descritto l’efficacia della terapia con farmaco antiCD20 (rituximab) nei pazienti con IgG4-RD resistente a terapia tradizionale (56, 60, 61). BIBLIOGRAFIA 1. Stone JH, Zen Y, Deshpande V. IgG4-related disease. NEJM 2012; 366(6): 539-51. 2. Yoshida K, Toki F, Takeuchi T et al. Chronic pancreatitis caused by an autoimmune abnormality. Proposal of the concept of autoimmune pancreatitis.Dig Dis Sci. 1995; 40(7): 1561-8. 3. T. Saeki, A. Saito, T. Hiura et al., Lymphoplasmacytic infiltration of multiple organs with immunoreactivity for IgG4: IgG4-related systemic disease, Internal Medicine. 2006; 3: 163-167. 4. Hamano H, Kawa S, Horiuchi A et al. 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Gottenberg5, X. Mariette6, M. Ramos Casals7, P. Ravaud8, R. Seror6, E. Theander9, A. Tzioufas10 1 Casa di Cura di Lecco, and Istituto San Giuseppe, Como, Italy; Department of Rheumatology and Clinical Immunology, University Medical Center Groningen, Groningen, The Netherlands; 3 Rheumatology Department, University Hospital Birmingham NHS Foundation Trust, Birmingham, UK; 4 Rheumatology Department, Charité, University Hospital, Berlin, Germany; 5Department of Rheumatology, Strasbourg University Hospital, Université de Strasbourg, EA 4438, Strasbourg, France; 6University of Paris-Sud, AP-HP, Hôpital Bicêtre, Department of Rheumatology, INSERM U10102, Le Kremlin Bicêtre, France; 7Laboratory of Autoimmune Diseases “Josep Font”, Hospital Clinic, Barcelona, Spain; 8Center of Clinical Epidemiology, Paris, France; INSERM U738, Université Paris-René Descartes, Paris, France; 9 Department of Rheumatology, Malmö University Hospital, Lund University, Sweden; 10 Department of Pathophysiology, School of Medicine, University of Athens, Greece 2 INTRODUCTION jögren's syndrome (SS) is a common systemic autoimmune disease that primarily affects the salivary and lachrymal glands, and usually leads to a persistent dryness of the mouth and eyes due to the lymphocytic infiltration and functional impairment of the exocrine glands (1, 2). The disease is commonly included in the spectrum of connective tissue diseases (CTDs) and, together with the other members of this disease family, it shares the possibility of a multi-systemic involvement. Besides the disease specific exocrine manifestations, SS may be, in fact, characterized by constitutional symptoms, arthritis, skin, lung, renal and neurological involvement, as well as by the production of a plethora of auto-antibodies (2). SS, as well as the other CTDs, does not present a single distinguishing feature that can allow a correct diagnosis. The purpose of the classification criteria is to identify the disease features and their combination that allows distinguishing patients with a disease from patients without it and from normal subjects. Conceptually, classification criteria and diagnostic criteria could be considered equal (especially when they are both close to 100%). However, classification criteria are usually not completely reliable and a certain percentage of patients can be misclassified. So, they do not represent the medical standing for a diagnosis and finally only the physician can make a proper diagnosis for an individual patient (3). Therefore, classification criteria are intended to select patients for epide- S miological, clinical and therapeutic studies (3). CTDs are chronic inflammatory diseases characterized by a relapsing remitting course. Each flare of these diseases can be spontaneously remitted or reverted by a proper therapeutic approach. If this does not happen, irreversible damage can be caused in the involved organ or system. Activity implies reversibility of the process and it is usually characterized by inflammatory manifestations in various organs or systems. Damage represents the component of the disease process that is irreversible and can be defined as the presence of a permanent loss of function, or by evident structural derangement of the involved organ or system (3). For this reason, the clinical course of CTDs needs to be monitored by proper instruments that can precisely and correctly measure the phase of activity and the cumulated damage. SS is generally a relatively stable, slowly progressive CTD. Hovewer, it does not elude these rules and a certain number of patients can develop activity flares. Therefore, the elaboration of the status indexes for activity and cumulated damage is mandatory for SS. This is considered crucial in clinical research and therapeutic studies on systemic autoimmune diseases (4). CLASSIFICATION CRITERIA SETS FOR PRIMARY SS Different classification criteria for SS have been proposed over the years by leading experts. None of these, however, has been widely accepted in the scientific community (5). The traditional criteria Classification/diagnostic criteria and clinical monitoring criteria for Sjögren’s syndrome sets most widely used in the past for the definition of SS, include the San Francisco criteria (proposed in 1975 and subsequently revised in 1984), the Copenhagen, the Japanese, the Greek, and the San Diego criteria, all proposed in 1986 (5). The Japanese criteria have been subsequently updated and the latest version was proposed in 1999 (5). THE AMERICAN/EUROPEAN CONSENSUS GROUP (AECG) CLASSIFICATION CRITERIA The AECG classification criteria were the results of an international collaborative study that was begun in the 1990s and was completed at the beginning of the new millennium. The multicenter study was developed and carried out in the first phase at European level only (6), but a number of American experts took part in the final consensus definition and validation of these criteria. The statistical method used to derive the AECG criteria was the same as that adopted by the American College of Rheumatology (ACR) for the definition of the 1987 criteria for rheumatoid arthritis (7) and the 1982 criteria for systemic lupus (8). Following this methodology, patients had to be preliminarily classified as having or not having a specific disease, simply on the basis of the physician’s clinical judgment. Then, the statistical analysis made it possible to find the best combination of items able to more accurately distinguish between case patients, previously judged as having the disease, and case controls with similar and misleading clinical symptoms or diseases, but initially classified as not having the disease (9). This method may introduce some biases in selecting the criteria items, due to a circularity process, since the preliminary classification of patient cases is certainly influenced, in the physician’s mind, by the positivity of specific tests which, at the end of the process, have a high probability of inclusion among the items selected by statistical tools. Besides this criticism, the process applied in the development of the AECG criteria can be simply defined as the way to statistically validate the common meaning of the experts on what is a sufficient requirement to define a patient as having SS. In this case the statistics and the expert consensus leads to defining a patient as having SS by the mandatory evidence of autoimmune activation (presence of specific auto-antibodies or focal lymphocytic infiltration in target tissue), plus the presence of a number of other items defining the following domains: 15 1) dry eye complaints; 2) dry mouth complaints; 3) evidence of functional or structural derangement of salivary glands; 4) lachrymal/conjunctive involvement defined by reduction of lachrymal flow and/or evidence of keratoconjuctivitis sicca (KCS). The fact that non-equivalent tests were considered to be equivalent in some domains, and invasive and expensive tests were introduced in the criteria set is another important point that is still being debated. THE PRELIMINARY ACR CLASSIFICATION CRITERIA FOR SJOGREN’S SYNDROME A new approach to classification criteria for SS has been recently proposed (10). This new set of criteria was the result of an expert consensus based on the analysis of data collected from a large number of patients enrolled during a multicenter study, i.e., the Sjögren’s International Collaborative Clinical Alliance (SICCA). On the basis of these new criteria, a patient can be classified as having SS, when she (or he) meets at least two of the following three criteria: 1) a positive serum anti-SSA and/or anti-SSB or positive rheumatoid factor (RF) and antinuclear antibody (ANA) (titer >1:320); 2) presence of KCS defined by an ocular staining score >3; 3) presence of focal lymphocytic sialoadenitis defined by a focus score >1 focus/4 mm2 in labial salivary gland biopsy samples. The method employed to derive these new criteria, i.e. a specific type of cluster analysis (11), is unusual for two reasons: 1) no preliminary definition of disease was provided, as usually happens in this kind of studies; 2) few examples exist of classification criteria for rheumatic diseases derived by applying this methodology (12). Other points can be raised on the assumptions made, and on the results obtained by the whole procedure. Two disease classes seem to be too few in view of the clinical spectrum of SS and sicca complaints, which include at least three disease classes, i.e., patients with primary SS, patients with SS associated with other CTDs, and patients with sicca complaints alone. The SICCA clinical cohort included only a few patients with SS associated with other CTDs, and these patients were excluded by the analysis. Nevertheless, the preliminary criteria 16 C. Vitali, et al. were proposed as a valid tool even to classify these kinds of patients, who are well known to present different features according to the associated CTDs (13). Another important point is represented by the inclusion in the SICCA criteria, as an alternative serologic item, of a positive ANA and RF instead of anti-SSA/SSB antibodies. This statement was derived by a consensus decision of the SICCA experts, and it was adopted although both sensitivity and specificity of this alternate serological item were lower. Moreover, the SICCA group has developed a new Ocular Staining Score (OSS) (14). The specificity of this test seems to be lower than that of either Schirmer’s I test or Van Bjisterveld’s score, which were the ocular tests included in AECG criteria. COMPARISON OF THE NEW ACR CRITERIA WITH AMERICAN EUROPEAN CONSENSUS GROUP (AECG) CLASSIFICATION CRITERIA The new criteria were tentatively validated, by comparing their accuracy with that of the AECG classification criteria, which was considered to be the gold standard comparison. The statistical comparison between the AECG and the ACR criteria showed a strong agreement between the two sets. k measure of agreement was 0.88, with a sensitivity of 92.1% and a specificity of 95.5%. Recently a comparison between the performance of AECG and ACR criteria has been carried out in a Canadian cohort of patients (15). The results confirm that there is a high degree of agreement between the two criteria sets in classifying patients with SS (k of agreement was 0.81). However, 12.5% of participants classified as SS under the AECG criteria were not considered SS when evaluated by the ACR criteria; conversely, 8.9% met only the ACR criteria. The fact that two different classification criteria are now present is obviously a critical point, mainly at the present time in which new biological agents potentially active in this disease have become available to be tested. Consequently, to reach a final agreement on classification criteria for SS seems to be a desirable objective. INSTRUMENTS FOR CLINICAL MONITORING IN SS Over the past few years, evidence-based evaluation of therapies in SS has became important, with an increasing number of large clinical trials con- ducted in this disease (16, 17) Valid activity indexes were needed to assess the effectiveness of new targeted therapies (18), such as B-cell targeted therapies that have shown promising results for both systemic and glandular features (19). Different disease-specific indexes have then been developed, first, for the evaluation of patients symptoms, such as Profile of Fatigue and Discomfort (PROFAD) (20) and Sicca Symptoms Inventory (SSI) (21), and, more recently, for systemic features, such as SS disease activity index (SSDAI) (22) and Sjögren’s Systemic Clinical Activity Index (SCAI) (23). The development of these indexes was based on exploratory studies conducted in a single country. Thus, EULAR has promoted an international collaboration between primary SS experts to develop consensus disease activity indexes. Two indexes have been developed: 1) a patient-administered questionnaire to assess subjective features, the EULAR Sjögren’s Syndrome Patients Reported Index (ESSPRI) (24); 2) a systemic activity index to assess systemic complications, the EULAR Sjögren’s Syndrome Disease Activity Index (ESSDAI) (25). THE ESSDAI: EULAR SJOGREN’S SYNDROME DISEASE ACTIVITY INDEX The ESSDAI is a disease activity index that was generated in 2009, by consensus of a large group of worldwide experts from European and North American countries (25). The ESSDAI is a systemic disease activity index and includes 12 domains (i.e. organ systems). Each domain is divided in 3 to 4 levels depending on their degree of activity. The weights of each domain were obtained with multiple regression model using the physician global assessment of disease activity (PhGA) as gold standard. COMPARISONS OF SYSTEMIC DISEASE ACTIVITY SCORES In a recent study, validity and sensitivity to change of disease activity indexes for primary SS has been evaluated and compared (26). Compared to SCAI and SSDAI, the ESSDAI showed the highest level of correlation with PhGA of disease activity. Also, when assessing sensitivity to change, all disease activity scores showed a similar acceptable sensitivity to change, but ESSDAI adequately va- Classification/diagnostic criteria and clinical monitoring criteria for Sjögren’s syndrome ried according to the degree and the direction of change in disease activity, and therefore detected changes more accurately than did SSDAI and SCAI. THE ESSPRI: EULAR SJOGREN’S SYNDROME PATIENTS REPORTED INDEX The ESSPRI has been recently developed in a multicenter international cohort (24). The domains were selected based on previous data form development of SSI and PROFAD. Selection of domains and determination of their weights was determined from the patients’ perspective, using multiple regression analysis with patient global assessment as gold standard. The ESSPRI uses 0 to 10 numerical scales, one for assessment each of the three domains: dryness, fatigue and pain (articular and/or muscular). The weight of all of the domains was identical. So, the final score was calculated as the mean of the scores of each domain. COMPARISONS OF SCORES FOR EVALUATION OF PATIENTS’ SYMPTOMS Until the development of ESSPRI, the SSI assessed dryness features and the PROFAD fatigue and discomfort; these both scores are not supposed to be combined, and no global score was available. Therefore, having a global score, such as the ESSPRI, able to capture all of the important symptoms of the disease, may be a consistent help to design and conduct clinical trials in primary SS. In the development of ESSPRI, there were specific questions for all type of dryness and fatigue (mental or somatic), but with the patient global assessment as gold standard it was found that they did not add anything compared with the generic question. In addition, the ESSPRI was modelled on judgment of a worldwide panel of patients. This ensured a good content validity since patients with different trans-cultural views were included. VALIDATION OF ESSPRI AND ESSDAI After their development, validation studies for both the indexes have been planned and carried out. Once these studies have finished, two internationally developed and validated instruments will become available for clinical-therapeutic monitor of the subjective and objective features in SS. 17 REFERENCES 1. Fox RJ. Sjögren’s syndrome. Lancet 2005; 366: 321-31. 2. Kassan SS, Mutsopoulos HM. Clinical Manifestations and Early Diagnosis of Sjögren’s syndrome. Arch Intern Med. 2004; 164: 1275-84. 3.Fries JF, Hochberg MC, Medsger TA Jr, Hunder GG, Bombardier C. Criteria for rheumatic disease. Different types and different functions. The American College of Rheumatology Diagnostic and Therapeutic Criteria Committee. Arthritis Rheum. 1994; 37: 454-62. 4. Wolfe F., Lassere M, van der Heijde D et al. Preliminary core set of domains and reporting requirements for longitudinal observational studies in rheumatology. J Rheumatol 1999; 26: 484-9. 5. 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Reumatismo, 2013; 65(4): S1:19-32 Protesizzazione mini-invasiva e resurfacing nell’artrosi di ginocchio e anca S. Zanasi Ospedale Villa Erbosa, Bologna a Chirurgia Ricostruttiva ha rappresentato in questo ultimo decennio uno dei campi chirurgici in maggiore crescita in termini numerici, per diversi fattori: innalzamento della vita media con conseguente incremento delle patologie artrosiche (indicazione alla protesi per un impianto); progressivo ed esponenziale aumento degli impianti protesici mobilizzati (diventati insufficienti e dolorosi) impiantati dagli inizi degli anni 90 (indicazione alla protesi da revisione); maggiori richieste funzionali dei pazienti correlate ad una minore soglia di sopportazione del dolore con progressivo abbassamento della età media per il ricorso all’impianto (40-65a) (indicazione alle protesi di rivestimento parziale o totale); necessità di riduzione dei costi sociali, quindi esigenza di riportare ad una vita attiva (soprattutto se in età lavorativa) del maggior numero di pazienti; miglioramento dei risultati grazie all’affinamento delle tecniche e allo sviluppo delle tecnologie e dei materiali. Alla luce di questi elementi l’impatto della chirurgia Ortopedica elettiva ricostruttiva è oggi quanto mai importante sulla popolazione in quanto consente di affrontare e risolvere patologie altamente invalidanti in maniera efficace. Permette quindi al paziente un miglioramento significativo della qualità di vita, un ritorno alle sue attività lavorativa e sportiva, riducendo in maniera significativa i costi sociali. In Italia vengono ad esempio affrontati annualmente più di 150.000 impianti primari tradizionali di artroplastica totale di anca, ginocchio e spalla. Negli ultimi venti anni il miglioramento dei materiali e del disegno delle protesi articolari ha permesso di estendere le indicazioni alla protesizzazione, specie dell’anca e del ginocchio, in considerazione del fatto che la giovane età non rappresenta più una controindicazione assoluta. L’artroprotesi primaria si afferma come procedura chirurgica in costante evoluzione ed aumento, poiché si prevede che la popolazione di oltre 65 anni di età si triplicherà entro l’anno 2050. Nel 2020 si pre- L vede di effettuare in tutto il mondo circa 2 milioni di impianti protesici all’anca e 2.5 milioni di ginocchio. La domanda della popolazione di questo tipo di prestazione medico-chirurgica è in forte crescita così come diventa sempre più frequente il numero di protesi mobilizzate impiantate dagli anni 90 in poi. Oggi il messaggio preminente che si porta e si riceve in tutto il mondo è “quando una articolazione è fortemente compromessa da un processo degenerativo, postraumatico, flogistico ed indipendentemente dalla età del paziente, il trattamento conservativo è assolutamente incapace a controllare il dolore con progressiva perdita di funzionalità, diventa necessario il trattamento chirurgico al fine di recuperare la qualità di vita del paziente”. Tale opzione può essere al meglio definita in base ad un insieme di caratteristiche specifiche del paziente (sesso, età, morfotipo osseo e strutturale) ed alle sue richiesta funzionali in senso lavorativo, ludico, sportivo. Che cosa chiede il paziente quando diventa necessario l’impianto protesico?: recupero veloce (tecnica mininvasiva); durata/sopravvivenza massimale dell’impianto (nuovi materiali/design/tipi di accoppiamento); massima performance (nuove caratteristiche meccaniche di recupero di un range di movimento ai limiti del fisiologico); procedura sicura con pressoché completo recupero della salute/benessere; farmaci ben tollerati con minima possibilità di complicanze (49-54). Oggi sono cambiate soprattutto le aspettative del paziente: in particolare sono sempre più giovani i pazienti che arrivano per la prima volta all’ impianto protesico ed il recupero o mantenimento di alcune attività sportive leggere sono sempre più importanti sia per il giovane che per il più anziano. Allo stesso tempo la ridotta curva di sopravvivenza dell’impianto per la grande usura effettuata nei più giovani aumenta esponenzialmente la possibi- 20 S. Zanasi lità di una eventuale revisione chirurgica dell’impianto ed il danno sui tessuti molli per plurime procedure chirurgiche rischiano di ridurre le possibilità di asseverare le aspettative del paziente. Con un impianto protesico di anca o ginocchio parte o in toto della articolazione irrimediabilmente danneggiata viene oggi rivestita o sostituita con componenti artificiali. Se non sussistono altre patologie invalidanti il paziente è in grado di recuperare completamente una vita normale cercando altresì di limitare le attività fisiche che potenzialmente sovraccaricano la articolazione rivestita ma potendo ricuperare le attività sportive leggere non agonistiche quali nuoto, bicicletta, golf, tennis, sci. Anche se perfettamente funzionante la articolazione rivestita/sostituita non può essere una articolazione normale, e soprattutto nel paziente più giovane, deve essere tenuto presente che c’è la possibilità (5-10% durante i primi 20 anni) che l’impianto, per fenomeni di usura o rarefazione dell’osso circostante, necessiti dell’espianto e della sostituzione. I test tribologici oggi documentano un significativo miglioramento dei materiali (tantalio, titanio trabecolato, delta ceramica di grandi dimensioni, oxinium, polietilene e-vitaminizzato) design (steli corti, a conservazione di collo, solo metafisari...) accoppiamento (C-on-C, C-on-M, E-polyon-C i.e.) con di conseguenza significativo aumento della durata/sopravvivenza dell’impianto protesico (20-25 anni in base ai dati FDA): fondamentale rimane la riproducibilità dell’intervento essenzialmente legato alla pulizia e correttezza della tecnica chirurgica . Quindi, oggi giorno nei cen- tri di eccellenza, per il miglioramento della tecnica chirurgica (MlS tissue sparing, robot, computer (41-48) che è diventata riproducibile e che garantisce maggior durata (20-25a) e miglior/massimale performance (completo range di movimento della articolazione), pazienti SEMPRE più giovani si approcciano alla soluzione del problema artrosico di anca, ginocchio o caviglia ricorrendo ad un impianto protesico di rivestimento che gli permette di condurre una vita normale, lavorativa, sociale e anche sportiva senza più quelle limitazioni che fino ad oggi gli erano riservate, senza più necessità di ricorrere a farmaci per controllare il dolore, senza più necessitare di aspettare i 65 anni, che gli erano stati imposti come primo deadline per sottoporsi all’intervento, inficiando cosi totalmente la loro qualità di vita e portando, per lo shifting naturale dei carichi sulla articolazione controlaterale e viciniore meno dolente, un sovraccarico che esita inesorabilmente in un quadro artrosico polidistrettuale interessante le articolazioni subito sovra e sottostanti. In caso di necrosi asettica, grave displasia dolorosa o esiti di grave trauma effettuiamo l’impianto protesico anche dai 16 anni in avanti di vita oppure anche nelI’adolescente se il traumatismo ha confinato al letto o su una sedia a rotella il giovanissimo paziente. Inoltre é pur vero che un impianto protesico può al bisogno essere riproposto anche più volte nel corso della vita, se partendo da 17 anni ed aspettandosi una vita media di 80 anni vogliamo garantirgli una qualità di vita del tutto sovrapponibile a quello di un coetaneo più fortunato. Figura 1 Hip Resurfacing. Protesizzazione mini-invasiva e resurfacing nell’artrosi di ginocchio e anca 21 A) TIPO DI INTERVENTO DI PROTESI: TRADIZIONALE O MINI-INVASIVO? L’intervento tradizionale di protesi all’anca o di ginocchio usa un’incisione variabile in proporzione alla statura del paziente, di solito tra i 14 e i 20 cm di lunghezza, ed è stato praticato per oltre 40 anni, salvo alcune modifiche alla tecnica chirurgica. Si può considerare una delle grandi innovazioni chirurgiche del XX secolo. Di contro, l’intervento di protesi totale dell’anca o di ginocchio mini-invasivo è un approccio chirurgico relativamente nuovo; è effettuato da ca. cinque anni da pochi chirurghi. In realtà il concetto oggi di mininvasività non significa la limitazione della lunghezza della incisione cutanea ma significa risparmio assoluto di tutti i tessuti non interessati dalla patologia (Tissue sparing concept) (7-13, 17): per cui ad esempio, per accedere alla articolazione dell’anca non si distaccano muscoli, ma si passa attraverso gli stessi per via smussa e si reseca solo la testa deformata, conservando tutto il collo del femore. B) BENEFICI DELLA CHIRURGIA MINI INVASIVA Sebbene la chirurgia mini invasiva offra ai pazienti benefici come incisioni più piccole, degenza ospedaliera più breve, minore perdita di sangue, dolore ridotto nella fase post-operatoria, carico fisiologico, recupero post-operatorio rapido, molti chirurghi ortopedici sono ancora dibattuti sulla possibile minore durata nel lungo termine rispetto al metodo tradizionale “aperto”. Come spesso accade in medicina e chirurgia, si tratta di scelte personali da fare una volta presi in considerazione tutti gli elementi. 1. Anca: mis e conservazione del collo femorale Le protesi a conservazione di collo sono stati progettate appositamente per pazienti biologicamente giovani, attivi, che a causa della lunga aspettativa di vita avrebbero dovuto aspettarsi una probabilità di scollamento asettico (failure) superiore alla media. In questi casi la protesi a conservazione di collo rappresenta il mini-impianto ideale per i giovani pazienti affetti da artrosi primaria o secondaria post traumatica, da artrite reumatoide, e da necrosi della testa femorale. Questo non solo per la ridotta incisione ma anche per il fatto che consente la conservazione della struttura muscolare e specialmente della porzione laterale del collo e del Figura 2 - Conservazione di collo. calcar. Da un punto di vista biologico, l’impianto garantisce: - La conservazione di una riserva di osso che garantisce una base di osso più ampia, in caso di un intervento di revisione, o di un seconda protesi - La conservazione dell’osso spugnoso metafisaria con conseguente facilità di rimozione dell’impianto, se necessario, e di posizionamento di un nuovo impianto - La conservazione della vascolarizzazione endostale, diversamente da come avviene con le tecniche tradizionali dove i maggiori contribuenti ematici al femore prossimale vengono ri-sezionati alle ramificazioni terminali dell'arteria circostante. Il tutto permette al paziente un carico completo già in I giornata con l’abbandono dei bastoni entro una settimana e la possibilità di recuperare la sua autonomia funzionale entro 15-20 gg. 1.2 Anca: mis e resurfacing (rivestimento superficiale) totale dell’anca Durante l’intervento di protesi all’anca totale, il chirurgo: 22 - S. Zanasi rimuove l’intera testa femorale, ma risparmia il collo e apre solo prossimalmente la cavità midollare del femore (protesi a conservazione di collo); - rimuove l’intera testa femorale, gran parte del collo e apre la cavità midollare del femore per un lungo tratto (protesi tradizionale). Tuttavia in certi pazienti il danno è limitato alla parte superficiale dell’articolazione dell’anca. Ovviamente in questi pazienti sarebbe sufficiente rimuovere solo le superfici danneggiate e lasciare il resto intatto. Questa è l’idea alla base dell’intervento di “sostituzione della superficie cartilaginea dell’anca” o resurfacing. (Tale sostituzione è l’intervento eseguito regolarmente sulla superficie cartilaginea danneggiata dell’articolazione del ginocchio, sebbene sia ancora chiamato “protesi totale di rivestimento del ginocchio”). Il principio è rimuovere il minimo di tessuto osseo dall’estremità dell’osso femorale (intervento chirurgico meno invasivo o mini-invasivo). Con il resurfacing dell’anca il chirurgo rimuove solo le superfici cartilaginee danneggiate delle articolazioni dell’anca, mettendo a nudo l’osso, per predisporre lo spazio per il “guscio” metallico. Il collo femorale e il contenuto della cavità midollare non sono toccati. La testa femorale è inserita in un guscio sferico metallico e anche la cavità dell’acetabolo è rivestita con un sottile guscio metallico. Gli involucri metallici sono congruenti e insieme formano un accoppiamento metallico. I vantaggi teorici dell’articolazione di rivestimento metallo su metallo sono: • nessuna resezione dell’osso (conservazione totale della testa femorale); • recupero della normale e totale libertà di movimento/particolarità; • minima possibile differenza di lunghezza degli arti (a differenza di quanto può succedere con la tecnica tradizionale con allungamenti o accorciamento dell’arto fino a 2 cm!); • ricostruzione anatomica; • minimo rischio di lussazione stante il diametro naturale della testa del femore rispetto a quello di minore dimensione della testa artificiale: un diametro della testa di 28/32/36 mm in un acetabolo di 40-56 mm di diametro, in genere, comporta minor escursione articolare e maggior rischio di dislocazione; • facile intervento di revisione (la revisione si effettua come se fosse il 1° intervento sull’anca); • carico femorale normale. Condizioni per il rivestimento: tutte le indicazioni per la protesi totale dell’anca in pazienti giovani, attivi, solitamente maschi sotto i 65 anni di età e femmine sotto i 55 che soddisfino anche gli altri requisiti per la protesi totale dell’anca, ovvero gravi limitazioni e rigidità dell’articolazione dell’anca. Al momento non ci sono studi a lungo termine che mettano a confronto il tasso di complicazioni dopo il rivestimento superficiale con quelli osservati dopo la protesi totale dell’anca. I risultati di mediobreve termine (15-10 anni) rivelano una percentuale di pazienti soddisfatti tra il 95 e il 99% (6572). Si deve comunque sottolineare che poiché la curva di apprendimento all’atto chirurgico è più lunga rispetto quella dell’impianto tradizionale, per le notevoli difficoltà ad operare in campo con la testa da dislocare in una tasca nell’addome e di effettuare l’esatta centrazione del collo al fine di effettuare la copertura della testa senza impingement o notching dello stesso, stante anche la variabilità soggettiva dei parametri biomeccanici da rispettare, l’intervento è oggi confinato a mani esperte che operano in centri di eccellenza: infatti tra le complicanze più frequenti si annovera la frattura del collo del femore per intaccamento della corticale del collo per errato posizionamento del guscio della testa femorale. Sulla base della nostra esperienza maturata rispetto alla casistica internazionale riteniamo più restrittive le indicazioni all’impianto di rivestimento riservandolo esclusivamente ai pazienti molto giovani, attivi, in genere di età minore a 60 anni per i maschi e 50 per le femmine che soddisfano completamente alla protesizzazione per grave limitazione della articolarità e dolore. È importante che il paziente non sia a rischio di fattori che possano aumentare il rischio di fallimento dell’impianto di rivestimento: la osteoporosi, le deformazioni postraumatiche o congenite della testa femorale in cui non è possibile ripristinare l’offset la esatta lunghezza degli arti (esiti di m. di Perthes, epifisiolisi), precedenti interventi che abbiano reliquato deformità del collo femorale, cisti ossee nella testa e collo del femore, necrosi asettica della testa di III grado o più sec. Amstutz, artrite reumatoide sono controindicazioni all’intervento di rivestimento ma ottimali indicazioni all’intervento di impianto MIS a conservazione di collo. In tutti questi casi una grossa testa modulare in ceramica o metallica impiantata su un mini stelo comportano gli stessi vantaggi dell’impianto di rivestimento e delle teste di grosse dimensioni. Esistono possibili complicanze fondamentalmente per frattura del collo del femore: la loro incidenza Protesizzazione mini-invasiva e resurfacing nell’artrosi di ginocchio e anca varia tra 0,8 e 1% della casistica generale. Nella nostra casistica la frattura del collo è avvenuta senza alcun fenomeno documentabile di impingement, notching o mal posizionamento entro 6 mesi dall’impianto esordendo con progressivo dolore al carico in pazienti molto magri e di alta statura. Da ciò, secondo quanto riportato da Sari, la controindicazione all’impianto di rivestimento in questo tipo di pazienti valutabili preventivamente secondo la formula del Sari index. Un altro particolare elemento che deve oggi comunque essere segnalato e discusso prima dell’intervento con il paziente è l’alto livello di cromo e cobalto nel sangue e nelle urine nei primi 12-24 mesi dallo impianto: le superfici di rivestimento presentano grandi superfici di scorrimento rispetto agli impianti convenzionali e dal punto di vista teorico possono liberare per corrosione più ioni metallici . Secondo Jacobs i valori ematici di ioni cromo e cobalto nel primo anno sono 3-4 volte superiori alla norma riducendosi progressivamente nei mesi a seguire e sono la conseguenza dell’iniziale usura: non ci sono dati che possano correlare questi iniziali tassi di Cr e Cb nel sangue e nelle urine con fenomeni di intossicazione o induzione di patologia similcancerosa (73-133). Riteniamo comunque nella informativa necessaria del paziente molto giovane e fortemente motivato sottolineare la presenza di tali dati che pur non supportati da alcuna casistica significativa devono essere presentati. 2. Ginocchio: resurfacing articolare con protesi mono e bicompartimentali Il ginocchio è costituito di tre compartimenti: - femoro-tibiale mediale; - emoro-rotuleo; - femoro-tibiale laterale. La patologia artrosica può interessare: 1. il solo comparto femoro-tibiale mediale (30%): ginocchio varo; 2. il solo comparto femoro-tibiale laterale (1520%): ginocchio valgo; 3. il solo comparto-femoro-rotuleo (5-10%): artrosi isolata femoro-rotulea in associazione; 4. il comparto femoro-tibiale mediale e femororotuleo (45%): ginocchio varo artrosico bi compartimentale; 5. il comparto femoro-tibiale laterale e femororotuleo (15%): ginocchio valgo artrosico bi compartimentale; 6. il comparto-femoro tibiale mediale e femoro-tibiale laterale (10%). 23 Nella chirurgia tradizionale si effettua intervento protesico di sostituzione di tutto il ginocchio con resezione di ca. 1-2 cm di femore e 1-2 cm di tibia e rimozione dei legamenti crociati, ed impianto di sistema protesico totale con risultato di un ginocchio meccanico, con gait (deambulazione) alterato, propriocettività (sensibilità) alterata, articolarità ridotta e impossibilità di recuperare una qualsivoglia attività sportiva. Lo scopo è quello di togliere il dolore e recuperare una funzionalità essenziale alle attività necessarie della vita quotidiana lavorativa e sociale ma non sportiva, che non è resa possibile. Il grado di flessione richiesto massimale è di ca 110/120° contro i 155/160° di un ginocchio normale. La nostra filosofia, in base al concetto del “tissue sparing”, è quella di effettuare, quando possibile, il rivestimento parziale di uno o di due o di tutti e tre i compartimenti interessati dalla patologia artrosica. Quindi si cerca di ottenere il resurfacing/la ricostruzione del solo o dei soli compartimenti del ginocchio che sono coinvolti dal processo artrosico/artritico, lasciando inalterato tutto quanto non é stato interessato dalla patologia. In altre parole si lasciano in situ i legamenti crociati, uno o entrambi i menischi, mantenendo la totale propriocettlvltà di un ginocchio normale, mantenendo o recuperando la stessa capacità di articolarità (0-155°) e stabilità in varo-valgo ed antero-posteriore di un ginocchio normale, con ripristino di un normale Gait e con possibilità di ripresa della attività sportiva (sci, tennis, nuoto, gentle running etc.). Tale metodica rappresenta un plusvalore nel paziente giovane <50 anni per il mantenimento fisiologico della articolazione ed il risparmio tissutale, con la possibilità di effettuare dopo 15/ 20 anni, a seguito dello scollamento protesico, un intervento allo stesso modo che non fosse mai stato operato; l’impianto protesico di rivestimento parziale è pure fortemente indicato anche per il paziente anziano per cui il minor dolore e il più veloce e massimale recupero articolare permettono un miglioramento significativo della qualità di vita. 2.1 Protesi monocompartimentali mediale e laterale: UNI E biUNI In questi ultimi anni, si è assistito ad una riscoperta della protesi parziali monocompartimentali di ginocchio. Da un punto di vista strettamente chirurgico, queste rappresentano un presidio, notevolmente, meno invasivo della protesizzazione totale. Infatti, l’apparato legamentoso non è lesionato, così come 24 S. Zanasi Figura 3 - BiUNI. l’articolazione femoro-rotulea; non necessitano di uno strumentario intramidollare, pur consentendo una correzione tridimensionale, senza alterare l’asse meccanico e soprattutto violare il canale midollare con maggior rischio di tromboembolismo. In caso di fallimento, il ricorso alla protesizzazione totale, in virtù della scarsa resezione ossea che ne preserva il bone stock, non presenta eccessivi problemi e la sepsi, qualora sfortunatamente insorga, si presenta con quadri più modesti e maggiormente risolvibili. Accanto a questi vantaggi per il chirurgo, ne esistono di pratici anche per il paziente: ridotte perdite ematiche, tale da non dover più ricorrere alla trasfusione di sangue, neppure in caso di protesizzazione bilaterale nella stessa seduta operatoria (per questo, dal 2005, la nostra divisione è un punto di riferimento nazionale per i Testimoni di Geova); minor rischio di trombosi venosa e sepsi; minori degenze ospedaliere con più veloci e migliori o pressoché completo recuperi della funzionalità articolare, rispetto alla totale; maggiori indicazioni ad un’anestesia loco regionale. Questo la pone come indicazione prioritaria nei pazienti affetti dal morbo di Parkinson, dove, spesso, la protesi totale porta, almeno nella nostra esperienza, ad un peggioramento del quadro neurologico. Il tutto per un evidente risparmio della spesa sanitaria, vantaggio non ultimo in tema di gestione delle risorse economiche. Occorre, tuttavia, precisare che questi risultati so- no ottenibili, solo a fronte di una rigorosa selezione dei pazienti, ai quali è effettivamente possibile garantire una ripresa dell’articolarità tale, da consentire la pratica di una attività sportiva leggera. Un grande aiuto, nella diagnosi e nella guida delle nostre scelte, ci viene dall’artroscopia, che noi utilizziamo, spesso, preventivamente (1-6, 14-17, 2126). 22 Protesi di rivestimento bimonocompartimentale (BiUNI) In caso di artrosi bimonocompartimentale con femoro-rotulea sana o non sintomatica si ricorre all’impianto della protesi bimonocompartimentale (BiUNI): ciò comporta minima asportazione di tessuto osseo tibiale, rimozione della cartilagine femorale, conservazione dell’apparato legamentoso del ginocchio, piccoli gesti chirurgici sulla femoro rotulea, incisione cutanea ridotta senza nuocere all’apparato estensore. È chiaro che, questa soluzione chirurgica, si pone come la vera miniinvasività del ginocchio in campo protesico bimonocompartimentale. Certo, non tutto è consolidato, le indicazioni, la tecnica chirurgica ed i risultati a medio termine, sono ancora oggetto di discussione. Però, è indubbio che, l’evoluzione tecnologica, strumentari sempre più precisi, l’utilizzo eventuale del computer per il bilancio legamentoso, una minore attenzione alla problematica della femoro patellare, sulla scorta dell’esperienza con la mono, i risultati a breve termine positivi, a volte entusia- Protesizzazione mini-invasiva e resurfacing nell’artrosi di ginocchio e anca smanti, hanno acceso l’interesse verso questa soluzione chirurgica per l’artrosi del ginocchio. In realtà è una rivisitazione, perché la storia della protesizzazione del ginocchio nasce con la mono e la bimonocondilare ma, strumentari imprecisi, erronee indicazioni e, conseguentemente, risultati non soddisfacenti, avevano orientato la scelta verso la protesi totale. Da un punto di vista strettamente chirurgico, anche la bimono rappresenta un presidio, notevolmente, meno invasivo della protesizzazione totale. Infatti, l’apparato legamentoso non viene lesionato, non necessita di uno strumentario intramidollare, pur consentendo una correzione tridimensionale della deformità artrosica. In caso di fallimento, il ricorso alla protesizzazione totale, in virtù della scarsa resezione ossea, che ne preserva il bone stock, non presenta eccessivi problemi e l’infezione, qualora si presenti, dovrebbe risultare più facilmente risolvibile. Per il paziente, gli stessi vantaggi pratici della mono e qualche vantaggio biomeccanico, non da poco, rispetto alla totale: - naturale roll back del comparto laterale; - assenza di usura del polietilene postero mediale (edge-loading), per la presenza del LCA che impedisce la sublussazione posteriore del femore; Inoltre, anche qui: - integrità della sensibilità propriocettiva articolare; - probabili minori degenze ospedaliere con più veloci e migliori recuperi della funzionalità articolare, rispetto alla totale. Per ciò, quando è possibile, esiste un’indicazione nei pazienti affetti dal morbo di Parkinson. Anche qui, il segreto del successo dell’impianto è il frutto di una rigorosa selezione dei pazienti, ai 25 quali è effettivamente possibile garantire una ripresa dell’articolarità, quasi completa. Nata per essere utilizzata nel giovane, magari negli esiti infelici di un’osteotomia o di una frattura del piatto tibiale, si è conquistata uno spazio anche nell’anziano. Anzi, nella nostra esperienza, più sono anziani e meglio la tollerano, anche in funzione di una ridotta richiesta di prestazioni (18-21, 27-30). 3. Deuce (protesi di rivestimento bicompartimentale monolitica) Stanno emergendo risultati a breve termine per l'artroplastica bicompartimentale eseguita con un impianto monolitico relativamente nuovo che riveste il comparto femoro-tibiale mediale e la troclea femorale. Non è però ancora noto se il “forzare” l’allineamento e la posizione di entrambe queste superfici abbia un effetto deleterio sul tracking rotuleo e la durata a medio termine dell’impianto. Tuttavia questo impianto estremamente conservativo presenta ottimi risultati in giovani maschi attivi e ad alta richiesta funzionale, purché abbiano legamento crociato anteriore funzionale, artrosi bicompartimentale mediale con deformità in varo non eccessiva. Ho eseguito 96 artroplastiche monolitiche bicompartimentali in serie in un arco di tempo di 35 mesi. Dopo due settimane, la maggior parte dei pazienti è risultata soddisfatta e camminava senza l'ausilio di bastoni. Sebbene i risultati con un dispositivo monolitico siano incoraggianti, l'uso di un'artroplastica bicompartimenale monolitica per il rivestimento del condilo femorale e della troclea presenta alcune problematiche: l’allineamento in varo-valgo della componente femorale è condizionato dal posizionamento dello spigolo antero-laterale della parte trocleare solidale con la porzione condilare mediale: ogni compromesso nel Figura 4 - Protesi bicompartimentale. 26 S. Zanasi posizionamento nei confronti del cd transition point può creare effetti deleteri sul tracking rotuleo e sulla sopravvivenza a medio termine dell’impianto. Tale impianto è indicato nei pazienti maschili in cui non esista la variabilità anatomica displasizzante che è frequente nella femoro-rotulea della paziente di sesso femminile (33-35). 4. UNI+PFJ (protesi di rivestimento bicompartimentale modulare) Un approccio che può rappresentare un'alternativa alla protesi di rivestimento bi compartimentale monolitica è dato da una protesi modulare separata femoro-rotulea e femoro-tibiale, in genere mediale, la quale permette di eseguire le tecniche di rivestimento compartimentale indipendentemente, assicurando un corretto orientamento e allineamento delle varie componenti in base al limite coronale e all'asse rotazionale del femore distale: ciò senza che sia compromesso il posizionamento dell'impianto, effettuandolo in base a come la componente è impiantata nell'altro compartimento. Inoltre questo consente anche intercambiabilità di dimensioni tra le componenti in modo da poter stabilire variabilità nella geometria femorale. In aggiunta, effettuare un impianto di rivestimento bicompartimentale modulare è anche tecnicamente più semplice rispetto ad un impianto che preveda l’uso della protesi monolitica. Nel rivestimento bicompartimentale modulare, la grandezza dello spazio presente tra il margine transizionale della componente trocleare e quello prossimale della componente femorale dell' UKA può variare. Infatti, la distanza può variare tra 1 mm a 15 mm, in base alla forma e alla grandezza del femore distale. Non vengono riscontrati problemi con lo spazio transizionale tra la componente trocleare e la protesi condilare usando un rivestimento con componenti indipendenti, ammesso che gli impianti siano appositamente posizionati a contatto tra loro o separati di circa 1 mm. Margini prominenti possono risultare con l’impianto della componente protesica patellare con fenomeni di catching or snapping e pertanto dovrebbe essere evitati. Un impianto con margine prominente può verificarsi a causa di errori tecnici o difetti nel design dell'impianto. Componenti mal allineate, mal posizionate, di dimensione scorretta o non a contatto con la superficie condilare possono influenzare il tracking rotuleo e avere perciò conseguenze sulla performance rotulea ed la sopravvivenza a lungo-termine dell' artroplastica bicompartimentale. L'obiettivo è quello di ottimizzare le relazioni tra le componenti e miglio- rare in maniera efficace il tracking della protesi rotulea dalla componente trocleare a quella femorocondilare. La chirurgia di ginocchio con risparmio di tessuto - protesi unicompartimentale isolata (UKA) o patellofemorale (PFA) - sta godendo del suo più alto livello di interesse e accettazione da quando è stata introdotta 3 decenni fa. Da un punto di vista storico, l’impianto di UKA e PFJ veniva effettuato in pochi casi solo in centri selezionati; altrove era spesso sostituito dall’impianto totale di ginocchio (TKA), osteotomie correttive, o patellotomie. Oggi, il rivestimento bicompartimentale (UKA +PFJ) viene effettuato più frequentemente, dal momento che i chirurghi hanno preso maggiore confidenza grazie ai risultati riscontrati. I rapidi cambiamenti nella tecnologia e negli approcci chirurgici mininvasivi, e il consenso sempre più esteso del rivestimento parziale di ginocchio, hanno espanso ulteriormente il contemporaneo concetto di risparmio di tessuto nell'artroplastica di ginocchio per includere l'artroplastica bicompartimentale. L’importanza di questa strategia e questi approcci all'artroplastica di ginocchio è di doppio valore: innanzi tutto, molti pazienti che si sottopongono alla TKA presentano un quadro di artrosi esclusivamente bicompartimentale che coinvolge il comparto mediale e il femoro-rotuleo o, in minor frequenza, il laterale e femoro-rotuleo: non hanno una deformità significativa, presentano ancora movimento ottimale, e legamenti crociati intatti. Poiché molti di questi pazienti sono giovani e fisicamente attivi, sembra appropriato un approccio che sia più conservativo rispetto alla TKA, particolarmente data la potenziale ridotta durata dell'impianto. In secondo luogo, una percentuale di pazienti che si sottopone alle PFJ presenta un quadro concomitante di condropatia femoro-tibiale che degenera inevitabilmente poco più tardi in una progressiva artrosi tibio-femorale, al punto che devono spesso essere sostituite da TKA piuttosto che offrire un approccio modulare al rivestimento del comparto degenerato. Allo stesso modo, diverse UNI esitano in relativo insuccesso a causa della presenza di significativa sintomatica o ancora scarsamente sintomatica artrosi della femoro-rotulea, e le ginocchia devono spesso essere sostituite da TKA. Un vantaggio dell'artroplastica modulare bicompartimentale nei confronti della TKA - a parte la conservazione dell'osso - è la conservazione della propriocettività e della fisiologica cinematica del ginocchio grazie al mantenimento dei legamenti del crociato anteriore e posteriore. Protesizzazione mini-invasiva e resurfacing nell’artrosi di ginocchio e anca ln aggiunta, il rivestimento bicompartimentale è un'opzione per pazienti che hanno un quadro avanzato di artrosi bicompartimentali ma non vogliono sottoporsi alla TKA poiché la considerano come ultimo trattamento (31, 32, 55-64). ln casi selezionati quando l’interessamento bicompartimentale é limitato ad una area di difetto cartilagineo vasta o kissed ma contenuta (shouldered defect) effettuiamo la bioprotesi modulare rivestendo ad esempio la perdita di sostanza della femoro-rotulea con le cellule staminali anziché impiantare una II componente protesica modulare: il tutto allo scopo di avere la massima funzionalità, senza dolore ed avere al tempo stesso la possibilità di reintervenire al bisogno, dopo 10-15/20 anni, con un nuovo impianto di rivestimento in alternativa ad una protesi sostitutiva. Logicamente è un percorso importantissimo per i pazienti più giovani. 5. PTG di rivestimento: l’impianto LPS HIGH FLEX e GENDER Quando l’interessamento artrosico è tricompartimentale e coesiste lesione inveterata del LCA la nostra scelta di un sistema protesico totale di rivestimento in tantalio è innanzitutto legata ad un’accurata selezione del paziente (36-40). La resezione subcondrale al piatto tibiale permette un totale risparmio del bone stock con l’impianto di una base in tantalio che funge da rivestimento della superficie resecata cui si accoppia in modularità un inserto polietilenico di spessore minimo. È sicuramente la qualità dello scheletro subcondrale accanto al bilancio della stabilità legamentosa globale che ci indirizzano ad una scelta di questo tipo. Ma è soprattutto la qualità radiologica dell’osso subcondrale, sia essa indagata con un semplice radiogramma standard o in negativo, o attraverso TC o RM a determinare la scelta di un impianto di rivestimento non cementato, mentre meno difficoltà ci sembra di poter rilevare nella stabilizzazione legamentosa dove ci poniamo come obiettivo principale il ripristino degli assi e una resezione che permetta alla nuova interlinea articolare di rimanere prossima alla sua posizione preoperatoria. L’introduzione di un piatto tibiale metal backed in TM a nostro avviso offre condizioni di fissazione assolutamente stabili in uno scheletro metafisario prossimale della tibia che aumenta la sua elasticità procedendo dalla superficie in profondità. Ulteriori elementi nella indicazione della tipologia protesica totale sono costituiti da: età (<50 -50-75>75°), richieste funzionali (high, medium, low demand), morfotipo (magro, normale, obeso) del pa- 27 ziente: nel caso di impianto di una protesi tricompartimentale - ovvero totale - di rivestimento, Gender Solutions è una linea di protesi high - flex, progettata per adattarsi alla struttura anatomica di pazienti di sesso femminile. In particolare le novità introdotte rispetto ad un impianto tradizionale riguardano la geometria del componente femorale e comportano la diminuzione dello spessore e della larghezza anteriori, rendendo così necessaria una minore resezione del femore rispettando la morfologia del femore femminile che è sostanzialmente diverso da quello maschile. IMPIANTO BILATERALE SIMULTANEO La dove la patologia, come nell’80% dei casi interessa bilateralmente l’articolazione, anche se in un lato in grado più severo, e manifesta sintomatologia di dolore e riduzione di movimento in entrambi i lati, riteniamo l’impianto protesico simultaneo bilaterale, anziché staged, fondamentale, se eseguito con tecnica MIS. Infatti il paziente si sottopone ad un unico intervento, una unica anestesia ed un unico percorso riabilitativo con un percorso di impegno psicofisico tale da ricuperare in ca. due mesi, anziché 14-16 m, la sua completa qualità di vita. Il paziente entro 2-3 gg dall’intervento simultaneo deambula con due bastoni o senza addirittura l’ausilio di alcuna stampella. In genere invece, il paziente dopo il primo intervento non riesce ad entrare in sala operatoria per sottoporsi all’impianto del lato controlaterale prima di 5-6 mesi per motivi di stress psicofisico, di impegni lavorativi etc.; per questo non può godere dei benefici dell’intervento fino a che non ha completato il programma riabilitativo del II impianto. Ma la cosa più importante è che se si parte da una deformità artrosica strutturata bilaterale, si deve sempre allungare l’arto di almeno 1-1.5 cm per lato per riportare al centro di rotazione l’anca o raddrizzare la gamba deformata in varo ad ex. che si è naturalmente accorciata. Inoltre la simultaneità operatoria permette di disaccoppiare le coxo-femorali, facendo sì che flettendo l’anca dx ad ex non fletta anche la anca sn per la strutturazione artrosica che ha reso un monoblocco il bacino, minando l’interdipendenza delle articolazioni del bacino. In questo ambito intervenire contemporaneamente con impianto simultaneo significa recuperare la normale lunghezza di entrambi gli arti senza dismetria in plus: questo invece caratterizza necessariamente l’impianto isolato monolaterale con conseguente dismetria e dolore lombare per il nuo- 28 S. Zanasi vo assetto posturale che non recede con terapia medica e fisica fino a tanto che non ha corretto l’arto controlaterale, allorché si portano gli arti alla stessa lunghezza, assestando il bacino alla completa e totale ortogonalità senza più deviazione scoliotica compensativa lombare alla dismetria. Inoltre tutti i lavori clinici di impianti effettuati con tecnica mininvasiva documentano minori o uguali complicanze generali che si hanno con impianto unilaterale, sfatando la necessità di trasfusioni ematiche, e più lunghi periodi di allettamento (max 1-2 gg!) (134-137). 14. 15. 16. 17. 18. BIBLIOGRAFIA 1. Borus T, Thornhill T. Unicompartmental knee arthroplasty. 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